Anno Accademico 2009/2010 APPUNTI DI FISICA applicatA per il corso di laurea di infermieristica universitÀ degli studi di udine – sede di pordenone doc. walter manzon FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 1 di 51 CORSO DI FISICA APPLICATA, ore 18 all’interno del CORSO INTEGRATO di BASI FUNZIONALI del CORPO UMANO FINALITA’ DEL CORSO Avvicinare in modo scientificamente informato lo studente alle specificità dello studio della fisiologia, recuperando minime esperienze di calcolo matematico e introducendo accettabili strumenti della fisica. Introdurre un insieme di strumenti concettuali che possano costituire una base minimale ma sufficiente per lo sviluppo dei temi di fisiologia. OBIETTIVI SPECIFICI DEL CORSO Lo studente, al termine del corso integrato di FISICA APPLICATA, è in grado di utilizzare le opportune grandezze fisiche per descrivere le leggi fondamentali della meccanica: la cinematica, la dinamica, il lavoro, l’energia e la potenza; le leggi della meccanica dei fluidi: statica e dinamica; le leggi della termologia e termodinamica: misura della temperatura, energia interna, I e II principio della termodinamica, meccanismi di trasmissione del calore; i fenomeni di superficie: tensione superficiale e diffusione; i fenomeni elettrici: carica elettrica e legge di Coulomb, campo elettrico e potenziale elettrostatico, capacità, resistenza e corrente elettrica. Lo studente, al termine del corso integrato di FISICA APPLICATA, è in grado di applicare in forma accettabile le conoscenze apprese ad semplici ambiti di fisiologia: quali muscoli, polmoni, circolazione sanguigna e fibre nervose. CONTENUTI DEL CORSO Le leggi fondamentali della meccanica: la cinematica, la dinamica, il lavoro, l’energia meccanica e la potenza, la bio-meccanica; ; le fonti energetiche del lavoro muscolare; il metabolismo, il fabbisogno alimentare ed energetico: misura diretta ed indiretta del metabolismo energetico; bilanci energetici. La statica e la meccanica dei fluidi: gas ideali e loro leggi, gas reali e liquidi: legge di Pascal, di Stevino, di Poiseuille e di Bernoulli; la misura della pressione. La respirazione: composizione e pressione dell'atmosfera; volumi polmonari statici e dinamici. Descrizione di primo livello della circolazione sanguigna. I fenomeni di superficie: tensione superficiale, diffusione; filtrazione e membrane: osmosi; circolo polmonare: ventilazione alveolare e ricambio gassoso. Le leggi della termologia e termodinamica: misura della temperatura, energia interna, I° e II° principio della termodinamica, meccanismi di trasmissione del calore: la termoregolazione: temperatura corporea; produzione e dispersione del calore. I fenomeni elettrici: carica elettrica e legge di Coulomb, campo elettrico e potenziale elettrostatico, capacità, resistenza e corrente elettrica: il potenziale di membrana, meccanismi di formazione e di propagazione del potenziale d'azione nelle fibre nervose. Cenni sul magnetismo ed onde elettromagnetiche. Cenni sulle radiazioni. Metodi Lezioni dialogate attente a riprendere conoscenze introdotte nel precorso e a sviluppare concettualità più elaborate e più mirate. Si utilizzeranno esercizi e calcoli sviluppati dal docente per allargare la familiarità nei confronti degli strumenti della disciplina. Riferimenti Il docente utilizzerà come riferimento il testo: CROMER, Fisica per medicina biologia e farmacia, ed.Piccin. presente all’interno della Biblioteca, ma lo considererà solo per una possibile consultazione; metterà a disposizione dei frequentanti degli appunti preparati per le lezioni. FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 2 di 51 TEMPI DEL CORSO Le leggi fondamentali della meccanica: la cinematica, la dinamica, il lavoro, l’energia meccanica e la potenza, la bio-meccanica; ; le fonti energetiche del lavoro muscolare; il metabolismo, il fabbisogno alimentare ed energetico: misura diretta ed indiretta del metabolismo energetico; bilanci energetici. (4h) La statica e la meccanica dei fluidi: gas ideali e loro leggi, gas reali e liquidi: legge di Pascal, di Stevino, di Poiseuille e di Bernoulli; la misura della pressione. La respirazione: composizione e pressione dell'atmosfera; volumi polmonari statici e dinamici. Descrizione di primo livello della circolazione sanguigna. (3h) I fenomeni di superficie: tensione superficiale, diffusione; filtrazione e membrane: osmosi; circolo polmonare: ventilazione alveolare e ricambio gassoso. (2h) Le leggi della termologia e termodinamica: misura della temperatura, energia interna, I° e II° principio della termodinamica, meccanismi di trasmissione del calore: la termoregolazione: temperatura corporea; produzione e dispersione del calore. (4h) I fenomeni elettrici: carica elettrica e legge di Coulomb, campo elettrico e potenziale elettrostatico, capacità, resistenza e corrente elettrica: il potenziale di membrana, meccanismi di formazione e di propagazione del potenziale d'azione nelle fibre nervose. Cenni sul magnetismo ed onde elettromagnetiche. (3h) (1h) Cenni sulle radiazioni. (1h) STRUTTURA DEI CAPITOLI ✗ (T) Parte teorica di riferimento ✗ (E) Esercizi applicativi ✗ (A) Approfondimento sulla fisiologia CAPITOLI E LEGGI IRRINUNCIABILI ✗ MECCANICA (4) ✔ Sistemi di riferimento ✔ Definizioni di velocità e accelerazione; leggi orarie moto rettilineo uniforme e uniformemente accelerato ✔ Forze e momenti: statica rispetto alla traslazione e alla rotazione ✔ Prima e seconda legge di Newton, con la notazione vettoriale ✔ Definizione di energia cinetica, lavoro e energia potenziale gravitazionale ✔ Conservazione dell'energia e sua dissipazione ✗ FLUIDI (3) ✔ Fluidi: Pascal, Stevino, Poiseuille e Bernoulli ✔ Le leggi dei gas ideali: Boyle + Gay-Lussac + Equazione di stato ✗ FENOMENI SUPERFICIE (2) ✔ Tensione di vapore e legge di Henry ✔ Osmosi ✗ TERMODINAMICA (4) ✔ Dilatazione, lavoro e energia interna di un gas ✔ Primo e secondo principio della termodinamica ✔ Modalità di trasmissione del calore ✗ ELETTRICITA' (3) ✔ Forze e potenziale elettrico; energia elettrica: cariche singole e cariche su una superficie ✔ Alimentatori, corrente, circuiti e leggi di Ohm; condensatore ✗ MAGNETISMO+RADIAZIONI (2) ✔ Correnti come sorgenti del campo magnetico; interazione campi EM e produzione di onde EM. Energia associata alle onde EM ✔ Radiazioni di tipo alfa, beta e gamma: caratteristiche e grado di pericolosità FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 3 di 51 CAPITOLI E LEGGI IRRINUNCIABILI ✗ MECCANICA (4) ✔ Sistemi di riferimento Definizioni di velocità e accelerazione; leggi orarie moto rettilineo uniforme e uniformemente accelerato s s−so se v è costante: s=v⋅ t , s=s ov⋅ t v MEDIA= = t t−t o v v −v o a MEDIA= = t t−t o se a è costante: v=a⋅ t , v=v o a⋅ t s=v⋅ t , s=s ov media⋅ t , ma sarà: v v 2⋅v o a⋅t a⋅t , v MEDIA= o =v o v oa⋅ t÷2= =v o 2 2 2 2 che, inserite nell'espressione precedente: s=s ov o a⋅ t ⋅ t=so v o⋅ t a⋅ t 2 2 ✔ Forze e momenti: statica rispetto alla traslazione e alla rotazione i=0 =r ∧ f i M R= i f i=0 M ✔ Prima e seconda legge di Newton, con la notazione vettoriale PRIMA : “In presenza di forze nulle o di forze che si equilibrano il corpo permane nel suo stato modulo di quiete o di moto rettilineo uniforme ( v =costante direzione )” verso SECONDA : f =m⋅ a oppure R=M TOTALE⋅a RISULTANTE ✔ Definizione di energia cinetica, lavoro e energia potenziale gravitazionale 1 2 K = ⋅m⋅v L= f ⋅ s 2 L=−m⋅g⋅ h=− m⋅g⋅hFINALE −m⋅g⋅h INIZIALE =m⋅g⋅h INIZIALE −m⋅g⋅h FINALE L=−U =−U FINALE −U INIZIALE =U INIZIALE −U FINALE ✔ Conservazione dell'energia e sua dissipazione K FINALE − K INIZIALE =U INIZIALE −U FINALE − U = L= K K FINALE U FINALE =K INIZIALE U INIZIALE =costante FLUIDI (3) ✔ Fluidi: Pascal, Stevino, Poiseuille e Bernoulli “ Il fluido esercita una pressione uguale in tutte le direzioni” p= pod⋅g⋅h ⋅R4⋅ p 1− p 2 p1− p2 Q= = 8⋅⋅l R 1 ⋅d⋅v 2d⋅g⋅h p=costante 2 ✔ Le leggi dei gas ideali: Boyle + Gay-Lussac+Equazione di stato Definizione di temperatura, pressione con le loro scale e unità di misura T KELVIN =t CELSIUS 273,16 1 atm.=1013 millibar=1,013⋅105 Pascal=760 mmHg.=760 Torr. a temperatura costante p⋅V =costante { ✗ FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 4 di 51 p V =costante ; a pressione costante =costante T T Equazione di stato: p⋅V =n⋅R⋅T FENOMENI SUPERFICIE (2) ✔ Tensione di vapore e legge di Henry c i=K⋅p i o V i =costante ✔ Osmosi TERMODINAMICA (4) ✔ Dilatazione, lavoro e energia interna di un gas l=l o⋅1⋅ T V =V o⋅1⋅ T L= p⋅ V ✔ Primo e secondo principio della termodinamica 1 N N 2 Q− L= E INTERNA E INTERNA=i =1 K i= i=1 [ ⋅m⋅v i ] 2 ✔ Modalità di trasmissione del calore Conduzione, Convezione e Irraggiamento ELETTRICITA' (3) ✔ Forze e potenziale elettrico; energia elettrica: cariche singole e cariche su una superficie k⋅q⋅Q 1 q⋅Q f= = ⋅ 2 2 4⋅⋅o d d k⋅q⋅Q L=− U =U i −U f U = d ✔ Alimentatori, corrente, circuiti e leggi di Ohm; condensatore q V ⋅l i= , i= , R= , =o⋅1⋅ T , P=R⋅i 2= V⋅i t R S ⋅A Q C= , C= o V d MAGNETISMO+RADIAZIONI (2) ✔ Correnti come sorgenti del campo magnetico; interazione campi EM e produzione di onde EM. Energia associata alle onde EM E EM 1 B2 2 o⋅i ⋅ds∧r dB= W = = ⋅[ ⋅E ] EM o 4⋅ r 2 V 2 o ✔ Radiazioni di tipo alfa, beta e gamma: caratteristiche e grado di pericolosità − N =⋅N ✔ Decadimento radioattivo: t a volume costante ✗ ✗ ✗ ✗ FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 5 di 51 INTRODUZIONE Il Corso di Fisica applicata si pone degli obiettivi limitati: mettere a punto dei contenuti utili alle materie significative al fine del corso di studi, in particolare Fisiologia, e sviluppare un minimo di metodologia coerente con la materia. L'attenzione sarà quindi concentrata sugli elementi principali: si rinuncerà ad una grande introduzione dei significati della materia e la si scandirà invece grazie a formule ed esercizi preconfezionati, attorno ai quali si svilupperà la ricostruzione parziale dei significati della fisica. Da questi saranno dedotte applicazioni in ambiti coerenti con la fisiologia del nostro organismo. Le formule saranno dunque i punti di riferimento da cui far partire l'analisi. La prova finale viene coerentemente costruita su una serie di quesiti, sei, a risposta aperta, uno dei quali sarà la ripetizione di esercizi sviluppati insieme a lezione. Anche per il voto massimo potrà essere tralasciata la risposta ad uno dei quesiti. RIFERIMENTI FONDAMENTALI La fisica è scienza quantitativa La fisica si occupa di descrivere in modo quantitativo le caratteristiche di sistemi idealizzati (modelli) e lega tra loro queste caratteristiche, identificandone eventuali rapporti di causa ed effetto. Le formule della fisica sono il risultato di sintesi sperimentali e permettono di riprodurre comportamenti che si sviluppano nella materia inanimata. Nella maggior parte dei casi il corpo o sistema fisico descritto viene considerato in condizioni idealizzate. La fisica è una descrizione piuttosto avanzata della natura, ma mai viene messa la parola fine alla sua evoluzione verso un miglioramento, un completamento delle teorie interpretative. Le grandezze scalari e vettoriali Le caratteristiche quantitative dei corpi/sistemi vengono riassunte dalle grandezze fisiche (esempi notevoli: massa, peso, densità, velocità, temperatura, energia elettrica, pressione, etc.) che possono essere descritte da strutture matematiche diversamente complicate: numeri, vettori, tensori a seconda della complessità descrittiva che deve essere riprodotta. Noi considereremo solo le prime due tipologie e parleremo solo di grandezze scalari e vettoriale. Con due esempi notevoli ci aiutiamo nel dare una definizione appropriata. Per dare la TEMPERATURA di una stanza è sufficiente assegnare un numero e una unità di misura. Infatti possiamo esprimere il livello di caldo/freddo riportando ciò che vediamo scritto sul termometro, che potrà essere 22 o C. : avremo in tal modo riportato il fatto che la grandezza in questione si può esprimere col numero 22 nella unità di misura “grado centigrado”, altrimenti detto “Celsius”. Tale unità di misura è stata storicamente introdotta quale centesima parte dello sbalzo di temperatura che si presenta tra la fusione del ghiaccio in acqua e l'ebollizione della stessa acqua Il numero che esprime la temperatura della stanza potrebbe cambiare scegliendo un'altra unità di misura, il grado Fahrenheit ad esempio: con tale unità infatti il numero diventerebbe: 1,8⋅t ° C 32=71,6o F. , dovuto al fatto che la scelta del grado Fahrenheit nasce dalla 180a parte del salto dal livello di fusione del ghiaccio ( 32o F. ) a quello di ebollizione ( 212 o F. ). In tal modo, se il legame tra le due scale di temperatura è lineare T o F =a⋅t o C b , diventa: 180 9 =a a= 212=a⋅100b 212=a⋅10032 100 5 , T o F =1,8⋅t o C 32 . 32=a⋅0b b=32 b=32 b=32 In ogni caso quel che succede è che il livello di temperatura è espresso con un numero seguito dall'opportuna unità di temperatura e ciò succede per una qualsiasi grandezza scalare (massa, densità, energia elettrica e pressione tra i nostri esempi). { { FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 { { pag. 6 di 51 Se vogliamo invece definire la VELOCITA' di un'auto in movimento non ci bastano invece il numero e l'unità di misura, ma sono necessari in fisica anche altri indicatori quali la direzione e il verso del movimento: possiamo agli effetti completare l'informazione sulla velocità dicendo su quale retta sta istantaneamente viaggiando l'auto e in quale verso sta percorrendo questo retta, oltre che dare l'intensità del suo correre, che viene ben descritta dal tachimetro e cioè da quel che noi siamo usi chiamare in modo non appropriato “contachilometri”. Passiamo in questo modo a dare le caratteristiche di una grandezza vettoriale: MODULO, DIREZIONE e VERSO, che nel ns. caso modulo=v =50 km./h. v = direzione : Sud Ovest− Nord Est , con le ultime due proprietà che potrebbero essere: verso : da Sud Ovest a Nord Est arricchiscono il dettaglio della descrizione, dopo l'assegnazione del modulo che è uno scalare puro sempre positivo, al limite nullo Il modo di operare con i vettori viene analizzata nel documento PDF in copia. { Le grandezze e le unità di misura fondamentali e derivate del Sistema Internazionale Il cosiddetto Sistema Internazionale raccoglie le unità di misura in una struttura che permetta a tutta la comunità scientifica mondiale di esprimersi in modo condiviso. All'interno di esso vengono fissate delle grandezze e corrispondenti unità di misura fondamentali e da queste è possibile ricavare tutte le altre (grandezze e unità di misura) cosiddette derivate .La tabella riporta le fondamentali: Grandezza fisica Simbolo della grandezza fisica Nome dell'unità SI Simbolo dell'unità SI lunghezza l metro m massa M chilogrammo kg intervallo di tempo t secondo s Intensità di corrente I, i ampere A temperatura assoluta T kelvin K quantità di sostanza n mole mol intensità luminosa Iv candela cd Un esempio invece di grandezza e unità di misura derivata può essere proprio la velocità col suo modulo: la velocità, lo vedremo, è definita come rapporto tra spazio percorso e tempo impiegato a [l ] [v ]= e v m./ s. , che, tradotto, significa che la dimensione percorrerlo e si scrive così: [t ] della grandezza velocità è data dal rapporto di una lunghezze e un tempo (grandezze fondamentali) e la sua unità di misura sarà corrispondentemente “metri” diviso “secondi” (unità di misura fondamentali). (4) LA MECCANICA (CINEMATICA, STATICA E DINAMICA) La meccanica si occupa della descrizione del movimento (cinematica) e delle sue cause, le forze (statica e dinamica). Per quanto ci riguarda essa si concentra sullo studio di corpi o puntiformi (massa puntiforme o punto materiale) o estesi/rigidi; ma anche in questo secondo caso si fissa un punto notevole (baricentro) e la descrizione torna ad essere quella di un punto materiale. Per fare un esempio si può pensare ad un pallone, di massa pari a 400 g. che viene lanciato da un bimbo: per analizzarne il moto ci si riduce a considerare il movimento del punto Centro del pallone e lì si considera concentrata l'intera massa di 400 g. del pallone che viaggia attraverso lo spazio tridimensionale. FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 7 di 51 La descrizione del moto avviene grazie a tre grandezze vettoriali che sono la posizione, la velocità e l'accelerazione. La prima di queste grandezze in particolare ha il ruolo di segnalare la collocazione del punto materiale nello spazio e descrivere così la traiettoria del moto, definita come l'insieme dei punti occupati dall'oggetto al variare del tempo, che è considerata in questa visione la grandezza scalare oggettiva di riferimento. Il livello di complicazione/semplificazione della descrizione viene deciso dal sistema di riferimento all'interno del quale si implementano le valutazioni: dalla figura si possono evincere le tre possibilità: se il moto è rettilineo la posizione può essere individuata grazie ad un coordinata s (grandezza algebrica e cioè con segno) rispetto all'origine fissata sulla retta e ad una unità di misura di lunghezza; se il moto è piano ( ... e cioè tutti i punti della traiettoria giacciono su un medesimo piano) allora la posizione viene fissata da un vettore r bidimensionale, individuabile con due coordinate della punta x , y ; se il moto infine sviluppa nello spazio tridimensionale euclideo allora si userà un vettore r tridimensionale, individuabile con tre coordinate della punta x , y , z . Le formule che dobbiamo ricavare sono dette equazioni orarie e hanno il compito di descrivere l'andamento delle grandezze significative al variare del tempo e vengono ricavate partendo dalle definizioni generali, che introduciamo nel caso del moto rettilineo per il quale non è necessaria l'utilizzo delle grandezze vettoriali: s s−so e v v −v o ; v MEDIA= = a MEDIA= = t t−t o t t−t o queste relazioni dicono nella sostanza che quando c'è variazione di posizione s≠0 nel tempo che cambia t≠0 , allora siamo in presenza di velocità media, dove con l'aggettivo “media” si intende il fatto che il calcolo è esteso ad una variazione di posizione/tempo generica all'interno della quale la velocità potrebbe assumere valori diversi. Lo stesso si può dire per l'accelerazione media, riferendoci però ora alla velocità invece che allo spostamento: assegnata l'uguale struttura della formula matematica, ora si dirà che quando c'è variazione di velocità v ≠0 nel tempo che cambia t≠0 , allora siamo in presenza di accelerazione ( ... e se è negativa decelerazione) media. Se si vuol conoscere la velocità ad ogni momento, si dovrà introdurre la definizione di velocità s istantanea, dove si considera che il t tenda ad annullarsi: v ISTANTANEA= lim . t 0 t I casi interessanti si ottengono quando una delle due grandezze si mantiene costante: se la velocità è costante v =v o ( ... e sarebbe il caso particolare. a=costante=0 ) , siamo nel cosiddetto moto rettilineo uniforme e ne deriva che: s=v⋅ t s=s ov⋅ t che è la legge oraria dello spazio per questo moto. Se invece l'accelerazione è costante e non nulla: a=costante ≠0 , andremo nel caso particolare del moto uniformemente accelerato, dove valgono le seguenti relazioni: v=a⋅ t v=v o a⋅ t [M4] , legge oraria della velocità e poi: FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 8 di 51 s=v⋅ t s=s ov media⋅ t , v v v ov o a⋅ t 2⋅v oa⋅ t a⋅ t , v MEDIA= o = = =v o 2 2 2 2 2 a⋅ t a⋅ t s=s o v o ⋅ t=s ov o⋅ t 2 2 con l'ultima equazione che ripropone invece la nuova versione della legge oraria dello spazio. ESERCIZIO Andiamo a considerare un esempio semplice di moto che può prevedere delle situazioni di moto rettilineo uniforme e di moto uniformemente accelerato. Il caso è quello di un treno che si muove a velocità costante nel tempo sul suo binario rettilineo. Meglio di tutto è che si tratti di un treno merci che transita attraverso la stazione del nostro ipotetico paese, senza fermarsi. La stazione ha la funzione di stabilire la posizione relativa del treno sul binario. Ragioniamo sui dati che abbiamo a disposizione: sia v = 60km./ h. la velocità costante del treno e quantifichiamo con s = 0 la posizione del treno quando transita in corrispondenza della stazione, definita in figura dal punto O; per noi questo punto O costituisce l’origine dell’asse sul quale costruiamo la descrizione del moto. Il fatto che la velocità sia sempre la stessa ci dice che a parità di tempo contato (…in fisica lo stesso intervallo di tempo ∆ t ) lo spazio percorso è sempre lo stesso: posso osservare ogni 5 min. i pali che indicano i chilometri ritrovando ogni volta lo stesso risultato. Facciamo due conticini per capirlo, partendo dal quesito: “Se la velocità è v = 60km./ h. , quanto spazio percorrerà in un: ∆ t = 1min . ? “ Se percorre 60 km. in un ora, in un minuto ne coprirà (1/60) dei 60 km. e cioè 1 km. s v= con : s=s−s o Infatti, mentre la definizione di velocità è la seguente: t t=t −t o { il calcolo per ottenere lo spazio percorso sarà: 1 s=v⋅ t e con i numeri : s=60 km./h.⋅ h.=1 km. 60 e dunque, per ogni minuto che si voglia considerare, lo spazio percorso sarà di 1 km.. Nella figura si potrà dire che la posizione verso destra che corrisponde al minuto trascorso disterà 1 km. dalla stazione e quella corrispondente ai 2 min. trascorsi 2 km. dalla stazione. L’osservatore potrà anche chiedersi, cercando di ricostruire i passaggi del treno a ritroso: “Ma quanto tempo fa il treno è transitato alla stazione che viene prima della nostra di 7,5 km. ?”. La risposta che potrà dare è che, sempre nell’ipotesi che il treno abbia proceduto alla medesima velocità, dato che percorre 1 km. al min. e per percorrere 7,5 km. ci vogliono 7min e 30 sec., sarà transitato in quella stazione 7,5 min. prima di arrivare alla nostra. Calcolarlo è però interessante poiché l'elaborazione ci fa rovesciare la formula. s 7,5 km. 7,5 km. 60 min.⋅7,5 km. s=v⋅ t t= = = = =7,5 min. v 60 km./h. 60 km./60 min. 60 km. FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 9 di 51 La legge (formula) che abbiamo visto è sostanzialmente l’unica per il moto che abbiamo descritto, definito come rettilineo uniforme. Le cose cambiamo se immaginiamo che invece il treno rallenti in un t=5 min. fino ad entrare in stazione ad v = 30km./ h. e poi riacceleri uscendo, rimaturando negli stessi 5 min. la velocità che aveva prima di rallentare. La descrizione formale si complica e dobbiamo metterci a discutere su come cambia la velocità: la grandezza che descrive i cambiamenti di velocità si chiama accelerazione: 6 GH 6 km./( 60 EF min) ∆ v v − vo 30km./ h. − 60km./ h. − 30 km./ h. 1 10 aPRIMA = = = = = − = − km./ min .2 ∆ t t − to 5 min . min. 10 5 min . aDOPO = ∆ v v − vo 60km./ h. − 30km./ h. 1 = = = ... = km./ min .2 ∆ t t − to 5 min . 10 Anche se il risultato è espresso in una unita di misura atipica, è corretto e va letto in questo modo: ad ogni minuto che passa, nelle fasi di decelerazione (a<0) e accelerazione (a>0), la velocità diminuisce o aumenta di 0,1 km al min.: non molto facile da digerire! Anche il panorama delle leggi (formule) cambia. Per la velocità, che si modifica ad accelerazione costante, varrà la stessa modalità di calcolo che valeva prima per lo spazio che cambiava a velocità costante e cioè: v=a⋅ t oppure v −v o=a⋅t−t o . La legge che invece esprime il modo di cambiare la posizione o, equivalentemente, di percorrere lo spazio è più elaborata. Vediamola, nel modo più rapido possibile: vv o s=v MEDIA⋅ t= ⋅t , dato che t o=0 2 a s=v o⋅t ⋅t 2 2 Cambiano con questa anche i modi di occupare le posizioni successive alla stazione: nel caso precedente in 5 min. si arrivava 5 km. oltre la stazione, ma ora ? 2 1/10 km./min.2 5 5 5 5 105 15 s=30 km./ h.⋅ h. ⋅ h. = km. km.= km.= km. 60 2 60 2 4 4 4 Il calcolo dice che non vengono percorsi neanche 4 km., come era logico pensare, visto la velocità è inizialmente più bassa. Sintetizzando il ragionamento: le leggi sono diverse a seconda del tipo di moto che si sviluppa, ma in ogni caso permettono di prevedere con precisione spazi e velocità dei moti. Entrando nel merito di ciò che causa il moto, bisogna andare a riferirsi alle forze che in fisica vengono definite quali grandezze che rappresentano l'interazione tra corpi o sistemi, interazione che può avvenire per contatto (spinta muscolare, attriti, ...) ma anche a distanza senza contatto (gravità, repulsione/attrazione elettrica o magnetica, ...). Tale interazione produce modificazione delle condizioni di moto o deformazione. La natura della forza è chiaramente vettoriale: elemento di esperienza per tutti è il fatto che l'effetto di una spinta su un oggetto mobile produce risultati diversi in termini di retta su cui si muovere e su “intensità” del moto prodotto. Chiarire per bene quella che è la causa permetterà di dedurre per bene quello che sarà l'effetto: nel particolare intensità, direzione e verso della forza si ripercuoteranno con regole opportune (formule) sull'accelerazione del corpo sollecitato. Esempi di forza possono essere la forza di gravità, elettrica, elastica, centrifuga, muscolare, nucleare, attrito, reazione vincolare ... FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 10 di 51 Sono moltissime le forze classificate in natura, ma tutte possono essere considerate derivate da quattro fondamentali: gravitazionale, elettromagnetica, nucleare debole e forte in ordine di intensità relativa crescente. Se la forza produce variazione delle condizioni di moto allora a regolare la sua interazione col sistema o corpo esterno interviene la II^ legge di Newton: f =m⋅ a oppure R=M TOTALE⋅a RISULTANTE . le due versioni sono utili a segnalare un caso particolare, il primo, ed uno più generale, il secondo. La legge si può esprimere verbalmente in questo modo: “ Quando una o più forze agiscono contemporaneamente su un corpo di massa m o M TOTALE producono su di esso un'accelerazione parallela ed equiversa alla singola forza f o alla risultante delle multiple forze agenti R “. Da tale espressione possiamo prendere spunto per definire l'unità di misura della forza nel Sistema Internazionale, il Newton: [ m]⋅[l] kg.⋅m. [ f ]= 1 Newton=1 N.=1 2 2 [t ] s. Vediamo a chiarimento tre esempi. Se un oggetto inizialmente fermo di m=0.5 kg. viene spinto con una mano sopra un tavolo lungo una certa direzione e verso con una spinta di modulo pari a f =15N. , allora subisce f 15 2 un'accelerazione nella medesima direzione e verso di modulo pari a: a= = =30 m./s. , che è m 0.5 un accelerazione molto intensa visto che quella che spetta ad un oggetto lasciato andare da una certa altezza è “solo” g =9.8 m./s. 2. . Ecco a chiarimento il secondo esempio: essendo l'espressione della forza peso: p =m⋅g , con g che è detta accelerazione di gravità, vettore verticale con verso alto-basso dell'intensità appena vista g e presente in tutti i punti della superficie terrestre; si potrà dire che ogni oggetto/sistema di massa m quando viene lasciato libero di cadere, lo farà con l'accelerazione g visto che: f =p=m⋅ g =m⋅ a da cui : a = g . Se due corpi son legati da una corda non estensibile di massa trascurabile e uno dei due, di massa m , sta sopra un tavolo orizzontale privo di attrito e l'altro, di massa M , è sospeso dal tavolo come in figura, il sistema sarà mosso verso il basso dalla forza attiva che è la forza peso di M sospesa che però agisce su tutto il sistema di massa m M , producendo un M⋅g M a= = ⋅g , accelerazione: una frazione m M m M dell'accelerazione di gravità quindi. La I^ legge di Newton può essere vista come caso particolare della II^: se non ci sono forze o se le forze che agiscono danno una risultante nulla allora l'effetto è quello di una accelerazione nulla e di una velocità, intesa come vettore, costante: se il corpo era fermo, in quiete, fermo resterà; se il corpo era in moto con una certa velocità, proseguirà con un moto rettilineo uniforme con la medesima velocità. In tutti questi casi la forza o il sistema di forze che agiscono contemporaneamente produce un effetto di moto traslatorio e cioè che fa procedere/retrocedere un corpo o il suo baricentro lungo una retta; in altre condizioni esse possono anche produrre rotazioni: è il caso di forze che agiscono secondo la struttura di momenti. Il momento di una forza si introduce grazie alla definizione più = immediata, che è: M =r ∧ f : essa costituisce il prodotto FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 11 di 51 ur r vettoriale del vettore r per il vettore f , con tutti i significati da recuperare nell’esempio la cui figura viene riportata qui a fianco. ur In essa viene riportata una forza f che agisce su un’elica mettendola in rotazione attorno al perno: si può capire come il momento derivi da una forza fatta però agire ad una certa distanza da un punto O sul quale è bloccato l’oggetto; l’azione costringe l’elica ad un moto rotatorio. Nella nostra r figura, note le caratteristiche del prodotto vettoriale, M corrisponde ad un vettore che esce dal ur r piano del foglio (… se ne vede solo la punta). Il momento della forza è nullo se forza f e vettore r sono paralleli. APPROFONDIMENTO PIÙ FORZE CHE AGISCONO: QUAL È IL RISULTATO ? La forza è grandezza vettoriale ed è dunque definita da tre caratteristiche: { f è il suo modulo f = dir f è la sua direzione . ver f è il suo verso Il modulo ci dice quanto è intensa, mentre le altre due caratteristiche individuano la sua azione nello spazio. Abbiamo già evidenziato il fatto che la sua collocazione spaziale è in grado di farci interpretare correttamente l’effetto che può produrre. La questione che si vuole però affrontare in questa appendice è stabilire il risultato dell’azione di più forze. Partendo da una definizione iniziale possiamo introdurre la RISULTANTE di più forze, che è il risultato della somma vettoriale, con le regole viste, di più forze contemporanee efficaci su un corpo: n R= f 1 f2... fn=i =1 f i . Se la risultante è non nulla allora possiamo intuire che ci sia un effetto sul corpo oggetto delle forze. Capiamolo con un esempio: due amici per scherzo cominciano a spingermi uno da parte opposta rispetto all’altro (forze agenti con la medesima direzione ma con verso opposto); l’effetto è che io non mi muovo; se ne arriva un terzo e, di traverso, comincia a spingermi sono fritto, visto che può rovesciarmi se lo fa abbastanza intensamente. Tre forze, di cui due equilibratesi, generano sicuramente un’azione su di me, che mi metto in moto. Nel gioco del tiro alla fune, per molto tempo di solito si resta in equilibro, dato che la somma delle forze da un parte bilancia quella dall’altra e tutto resta bloccato. Ad un cero punto però, o per il cedimento in intensità di qualcuno o per l’accentuazione di intensità di qualcun altro, l’equilibrio viene meno e i gruppi che tirano si muovono. Si osservi in figura quale può essere il modo per eseguire la determinazione della somma di più forze: . ur Il caso maggiormente interessante è tuttavia quello che porta ad una risultante R nulla: R= i f i=0 . In tale caso non c’è alcun effetto sul corpo oggetto, dato che si può ritenere che per ogni forza ne esista una uguale ed opposta, tale da equilibrarne gli effetti: siamo nell’ambito della statica, dove tutto resta fermo. Non si tratta di situazioni ideali, visto che ne siamo soggetti in ogni FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 12 di 51 istante della nostra vita: quando ci pesiamo, il nostro peso viene retto da una molla che ci da la misura della spinta e poi a sua volta la bilancia a molla si rifà sul pavimento che la sostiene. In ogni istante abbiamo la necessità di stare fermi, per parlare, guardare e riposarci. Un caso interessante può anche essere riconosciuto da un oggetto fermo sul piano inclinato come in figura. La situazione in merito alle forze si può spiegare in questo modo: la forza peso schiaccia la cassa verso il basso e può essere considerata come uur uur divisa nelle sue due componenti, p1 e p2 , che vengono a loro volta ur equilibrate una dalla reazione R , che non è la risultante, ma la controspinta del piano e l’altra dalla ur forza d’attrito f : la cassa resta lì. PIÙ MOMENTI DI FORZE CHE AGISCONO: QUAL È IL RISULTATO ? Con i momenti le considerazioni sono quasi identiche al caso delle forze: quando sono in azione 1M 2... M n=in=1 M i= ni=1 più momenti, se ne valuta la risultante: MRIS = M r i ∧ f i ; se questa è diversa dal vettore nullo c’è un’azione, altrimenti tutto resta bloccato. La differenza sta nel fatto che l’azione, nel caso del momento, non è una traslazione come nel caso della risultante delle forze, ma una rotazione i=0 se le forze agiscono in modo opportuno; se la risultante: MRIS = i M è nulla, non c’è alcuna rotazione. Vediamo nelle figure un esempio per situazione, senza insistere troppo: nella figura di sinistra una persona spinge per aprire una porta e nella prima parte della figura lo fa nel più conveniente, dato che sviluppa una forza minore, ma lo fa distante dal perno e quindi con un braccio b lungo (... si può pensare in prima approssimazione che il braccio sia la distanza del punto di azione della forza dal punto attorno al quale può avvenire la rotazione...); in entrambe le aperture il perno esercita una reazione, ma meno intensa della forza, dando alla fine una risultante dei momenti diversa da zero e quindi movimento e apertura (chiusura della porta). Nel secondo esempio, con la figura di destra, si vuole invece illustrare un caso di equilibrio di momenti di forza: si tratta di una stadera, vecchio tipo di bilancia, e questa resta in equilibrio sul gancio di uur sostegno poiché il peso incognito px per il suo braccio b1 è uguale uur esattamente al prodotto del pR , peso noto, per il suo braccio b2 e la stadera sta ferma. DATEMI UN PUNTO D’APPOGGIO E SOLLEVERÒ IL MONDO La conclusione di tutte queste considerazioni può tranquillamente riferirsi ad Archimede. In effetti per fare un buon esempio di momento della forza si possono coinvolgere le leve, che possono essere di tipo diverso: facciamo due calcoli su una situazione nota a tutti. Quella che vedete in figura è una sorta di altalena usata per sollevare una palla: il caso viene complicato dal considerare l’altezza del masso, cosa che però noi trascureremo. La bambina fa agire la sua forza a distanze differenti (si legga con bracci diversi) e come si può notare a parità di peso da sollevare ( f R = 120 N . ) deve impegnarsi in modo sostanzialmente diverso: nel caso a) deve impegnare una forza f A = 40 N . , mentre nel caso b) la metà, dato che f A = 20 N . . I due bracci sono quindi il s R⋅120 N.=s Aa⋅20 N.=s Ab⋅40 N. secondo pari al doppio del primo, per il fatto che: FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 13 di 51 Si può notare la presenza del fulcro, individuata dal supporto triangolare che separa il settore attivo (bambina) dal settore passivo (masso). La questione centrale in questo esempio consiste nel notevole vantaggio che si può ottenere nel sollevamento di un oggetto utilizzando questa macchina semplice, una leva del primo tipo, dove POTENZA (bambina) e RESISTENZA (masso) stanno da una parte opposta rispetto all’altra. Per dare un’indicazione delle masse equivalenti alle forze in gioco, è possibile fare un’ operazione matematica del tipo: p p p=m⋅g m= ≈ espressa come kg. se p è espresso come N. . g 10 Partendo da questa indicazione si potrà dire che il masso da sollevare ammonta a circa 12 kg. (un cartoccio di 6 bottiglie di acqua minerale, ciascuna da 2 litri), mentre le due forze fatte agire dalla bimba sono l’equivalente nel caso a) della massa di 4 kg e nel caso b) della massa di 2 kg.. Se partiamo da un esempio facile facile da analizzare possiamo intuire che cosa sia l'energia e che tipo di importanza abbia. Se spingiamo il nostro oggetto su un piano senza attrito (... possiamo pensare all'equipaggio di un bob che viene lanciato nella sua pista...) mantenendo l'azione per un buon tratto di spazio, riusciamo a trasferire sempre più slancio all'oggetto e questo slancio lo possiamo legare alla velocità; l'ammontare dello slancio non sarà legato alla direzione e non sarà dunque una 1 2 grandezza vettoriale. Si chiamerà energia cinetica e si definirà come: K = ⋅m⋅v : grandezza 2 dunque senza simboli di vettore che illustra come lo “slancio” sia legato alla quantità di velocità, grazie al suo quadrato e ma anche alla sua massa. Come tutte le forme di energia avrà una unità di misura derivata, il Joule, dalle altre secondo la relazione rispetto alle grandezze fondamentali: 2 2 [m]⋅[l] kg.⋅m. kg.⋅m. [ E ]= 1 Joule=1 J.=1 =1 ⋅m.=1 N.⋅m. . 2 2 2 [t] s. s. L'azione della forza produce energia, che poi diventa una caratteristica posseduta dal corpo: fino a quando sull'oggetto messo in moto non interverrà un'altra forza, manterrà tale caratteristica e lo qualificherà fisicamente. Spingere gli oggetti ci costa un po' di fatica e siamo noi a trasferire energia al corpo: la grandezza lavoro permette di risolvere la questione. La definizione di lavoro è la seguente: L= f ⋅ s è il prodotto scalare del vettore forza per il vettore spostamento: il vettore spostamento collega il punto di partenza di azione della forza con quello di arrivo. Si tratta del prodotto del modulo dello spostamento per la componente della forza lungo lo spostamento, come si può vedere nei due casi segnalati in figura. Tale grandezza rende conto di tutto dato che illustra la creazione dell'energia cinetica, rispetto al caso precedente, e segnala che la forza è azionata dalle braccia: la presenza del lavoro traduce il trasferimento dell'energia dalla persona che spinge all'oggetto che si FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 14 di 51 mette in moto: L= K =K FIN −K INI . Schematizzando: un corpo/sistema può possedere qualche forma di energia e può succedere che l'insorgere di una qualche forma di forza permetta il trasferimento parziale o totale di tale energia ad un altro corpo/sistema. ESERCIZIO: “ Un carrello dotato di rotelle inizialmente fermo e con massa 4,5 kg. viene spinto su una superficie senza attriti da un cameriere per una distanza d =5 m. con una forza orizzontale parallela alla superficie di intensità f =60 N. e poi lasciato andare. Con che velocità proseguirà ?” L= f ⋅ s= f ⋅d =60 N.⋅5 m.=300 J. 2 2 2 m⋅v FIN m⋅v INI m⋅v FIN , dato che la velocità iniziale è nulla. L= K =K FIN −K INI = − = 2 2 2 4,5 kg.⋅v 2FIN 2⋅300 =300 J. v 2FIN = v FIN =133,3≈11,55 m./ s. 2 4,5 Altro esempio notevole e illuminante è il seguente. Quando voglio alzare un secchio da una sedia al tavolo sento di far fatica perché, come prima, coinvolgo i miei muscoli. Non però la sensazione di trasferire energia (...muscolare, chimica...). Faccio però un lavoro, vincendo nell'ascesa la forza peso: L=m g⋅ h , col vettore h che rappresenta lo sbalzo verticale dell'altezza. Si può passare al calcolo scalare e ottenere: L=m⋅g⋅ h=mg⋅ h−ho =mgh−mgh o . L=−m⋅g⋅ h=− m⋅g⋅h FINALE −m⋅g⋅h INIZIALE =m⋅g⋅h INIZIALE −m⋅g⋅h FINALE Più accuratamente: : L=− U =−U FINALE −U INIZIALE =U INIZIALE −U FINALE espressione importante dato che si può introdurre la cosiddetta energia potenziale gravitazionale U: quando il secchio sarà sopra il tavolo non si muoverà, ma sarà in grado di muoversi in potenza, dato che sfilandogli il tavolo di sotto potremmo ottenere come risultato quello di fargli acquisire velocità nella caduta, una sorta di energia cinetica in potenza e tanto più lo alziamo tanto più grande sarà capacità di sviluppare velocità di caduta. Anche in questo caso allora il lavoro produce trasferimento di energia: da muscolare è diventata potenziale gravitazionale. Tutte le forze che sviluppano forme di energia potenziale (gravitazionale, elastica ed elettrica) si dicono conservative, perché garantiscono la conservazione dell'energia: se ho fatto un lavoro da 200 J. per alzare un vaso, nel momento in cui il vaso cade mi verranno restituiti tutti i 200 J. sotto forma di energia cinetica del vaso; il legame tra lavoro e energia vale in questo caso: L=− U =U INI −U FIN . In meccanica vale il principio di conservazione dell'energia meccanica, somma della cinetica e della potenziale secondo la: E MECCANICA= KU , di qualsiasi forma essa sia. In altri termini si può K FINALE − K INIZIALE =U INIZIALE −U FINALE ricavare la legge: − U = L= K e . K FINALE U FINALE =K INIZIALE U INIZIALE =costante ESERCIZIO: “Se un libro di m=1,5 kg. cade da una altezza h=1,8 m. della libreria, tenderà a sviluppare in caduta energia cinetica crescente, ma il suo valore di energia meccanica non cambierà mai: all'inizio possedeva: U =mgh≈1,5⋅10⋅1,8=27 J. ; quando toccherà terre la sua energia cinetica K avrà il medesimo valore massimo e cioè 27 J. . Ma se uno si chiede qual velocità possedeva a meta caduta, allora la risposta sarà: U è direttamente proporzionale all'altezza per cui a metà sarà dimezzata anch'essa ( 13,5 J. ) e tutto il resto, dovendo essere costante nella somma, sarà K =13,5 J. : la velocità a h=0,9 m. , invertendo la formula di K, sarà: v = 2⋅K 2⋅13,5 = ≈4,24 m./ s. .” m 1,5 La capacità di compiere lavoro in un tempo più o meno ampio viene quantificata con l'aiuto L della grandezza potenza: P= , con una unità di misura conosciuta e che è il Watt: t FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 15 di 51 [E ] [t] 1 Joule . Se a parità di lavoro eseguito (energia trasformata) una macchina [ P]= 1Watt.= [t] 1 s. impiega meno tempo significa che ha una maggior potenza, dato che a parità di numeratore il denominatore è minore. Quale esempio possiamo coinvolgere il costruttore d'auto che esemplifica la potenza del proprio modello traducendo il numero di secondi che questo impiega a passare da fermo alla velocità di 100 km./h. . E' come considerare la capacità di eseguire un comune lavoro in un certo intervallo di tempo: tanto meno vi si impiega tanto più potente è l'auto. NEL NOSTRO ORGANISMO Cenni alla biomeccanica Ecco degli esempi di leve presenti nelle nostre posture e nei nostri movimenti. Si tratta di applicazioni dello studio di forze e momenti in ambiti dove sono presenti forze muscolari: nella leva di primo genere la forza motrice ( fm ) e la forza resistente ( fr ) stanno da parti opposte rispetto al fulcro posto sul culmine della spina dorsale. La forza motrice è in questo caso posta in essere dai muscoli cervicali e quella resistente dal peso della testa, collocato sul baricentro della stessa: si definiscono bracci delle forze in questo semplice caso, rispettivamente, le lunghezze dei segmenti FC e FA. Nel secondo esempio, per la leva di secondo genere usata per interpretare il sollevamento del corpo nel corso del moto scaricato sul piede, la forza motrice, sempre di carattere muscolare si manifesta lungo il tendine e deve vincere la forza resistente che non è altro che la forza peso che si scarica sulla verticale dal baricentro del nostro corpo condotta alla pianta del piede: in questo tipo di leva, sempre conveniente, la forza motrice agisce più distante (il suo “braccio” è maggiore) della forza resistente dal fulcro, collocato vicino alla punta del piede. Il caso del sollevamento del peso con la mano va pensato come leva del terzo genere, sempre sconveniente: la forza motrice ha braccio inferiore rispetto a quello della forza resistente. La biomeccanica si interessa anche di questioni correttive e riabilitative. Uno degli esempi più noti è quello degli interventi di correzione della spina dorsale in presenza di discopatie, come si po' vedere dalla figura a fianco: il distanziatore inserito tra due dischi ha la funzione di limitare estensioni in eccesso e in difetto. Da un punto di vista più strettamente fisico pone dei vincoli meccanici all'azione delle pressioni sui dischi vertebrali. FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 16 di 51 Fonti energetiche del lavoro muscolare Il movimento del nostro organismo si sviluppa grazie a contrazioni ed estensioni muscolari che permettono il controllo e l'orientamento delle componenti fisiologiche, nello specifico arti, volontarie: il tutto viene garantito da un sistema di messaggi elettrici (... ricordate la rana di Galvani!) pilotati dal sistema nervoso. L'energia messa a disposizione del muscolo è di tipo chimico e viene messa a disposizione con buona continuità dalla circolazione sanguigna che trasporta in sito gli elementi necessari alle contrazioni muscolari. Ecco i processi chimici e le sostanze coinvolte. Il muscolo scheletrico possiede un potenziale energetico, una riserva. che viene utilizzata al momento opportuno per alimentare la contrazione, nonché per produrre calore. Questo potenziale energetico è costituito da energia chimica che lo stesso muscolo sintetizza a partire dai nutrienti che ad esso giungono con il sangue. Tali scorte energetiche sono rappresentate da adenosintrifosfato (ATP), fosfocreatina (CP), glicogeno, glucosio e acidi grassi. L’ATP costituisce la principale fonte di energia per la contrazione muscolare. Una molecola di ATP è formata da adenina, ribosio e tre gruppi fosfato (P). E’ proprio nel legame che tiene uniti questi gruppi fosfato che risiede il potenziale energetico della molecola: ADENINA - RIBOSIO - P - P - P Affinché l’ATP fornisca la sua energia al muscolo è necessario che si stacchi un gruppo fosforico. In questo modo si ottiene ADP (adenosindifosfato) più P. Dalla rottura di questo legame, si libera il quantitativo di energia che alimenta la contrazione muscolare: ADENINA - RIBOSIO - P - P + P + energia A questo punto interviene la fosfocreatina (CP) che ha il ruolo di cedere il proprio gruppo fosforico all’ADP per ricaricarlo ad ATP: ADP + CP -> ATP + C (creatina) La quantità di CP presente nel muscolo è tre volte superiore a quella dell’ATP, tuttavia la risintesi di quest'ultimo è di modesta entità e rapido esaurimento. A questo punto entra in gioco il glicogeno muscolare, che viene scinto nelle singole molecole di glucosio che lo costituiscono; quest’ultimo viene utilizzato per ottenere altro ATP, in un processo che va sotto il nome di glicolisi. Quindi il muscolo funziona ad ATP; quest’ultimo viene inizialmente ripristinato dalla CP, che ha un efficienza energetica potente ma di breve durata, e successivamente dalla glicolisi. Quest’ultima può avvenire in presenza o in assenza di ossigeno, fornendo un quantitativo rispettivamente maggiore o minore di ATP. La glicolisi anaerobica, inoltre, fornisce un importante sottoprodotto, l’acido lattico, il quale non viene assorbito dal sangue ma, nella successiva fase di riposo muscolare, partecipa al ripristino del glicogeno esaurito. E' da notare che anche gli acidi grassi contribuiscono alla formazione di ATP. Lo sforzo muscolare, protratto per un tempo soggettivamente variabile, determina l’insorgenza di un grado di affaticamento sempre maggiore, che rende impossibile il proseguimento del lavoro. In un muscolo affaticato si verifica ugualmente l’evento elettrico responsabile della contrazione, ma ad esso non segue l’evento meccanico della contrazione vera e propria. Questo stato di inattività muscolare, determinato dalla fatica, è reversibile e transitorio, ovvero si estingue con il riposo. L’insorgenza della fatica è dovuta fondamentalmente FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 17 di 51 all’accumulo dei prodotti delle reazioni biochimiche necessarie alla contrazione (tra cui l’acido lattico); questi vengono successivamente rimossi durante il riposo. (5) FLUIDI E FENOMENI DI SUPERFICIE Partiamo dalla definizione di FLUIDO: FLUIDO: è una fase di una sostanza non rigida, che, sottoposta a strutture che tendono a deformarla, non mantiene una forma propria. Le grandezze che permettono di descrivere da un punto di vista termodinamico, e, quindi, macroscopico, i fluidi ed in particolare il gas sono temperatura, quale supporto allo stato di agitazione, volume, occupato interamente dal fluido/gas, e pressione, che è la modalità con la quale il fluido/gas interagisce con l’esterno o con le pareti del contenitore. Le unità di misura delle tre grandezze sono K . e oC per la temperatura, Pa., atm., Bar e mm. Hg per la pressione, m.3 , dm.3 e l. per il volume). Tenendo conto che la prima all'interno di ciascun gruppo è quella relativa al Sistema Internazionale, eccole. Nel Sistema Internazionale la temperatura, grandezza scalare, viene espressa in Gradi Kelvin (K.), la cui scala è legata ai Gradi Centigradi (o Celsius) che ben conosciamo dalla relazione: TK = 273,16 + t° C . Tale relazione chiarisce che la temperatura assoluta, espressa in (K.) viene ottenuta dalla centigrada grazie alla somma il numero 273,16, per cui, ad esempio agli O°C corrispondono i 273,16 K. e ai 60°C corrispondono i 333,16 K.. La grandezza pressione, scalare, viene definita come il rapporto: [f] f 1 N. p= [ p ]= 2 1 Pascal=1 Pa.= ovvero tra la forza f S [l ] 1 m. 2 che agisce su una superficie S e l’ammontare della superficie stessa; la sua unità di misura è tradotta sinteticamente con il Pascal (Pa.). Dalla figura a fianco si può riconoscere che la pressione esercitata dalla chiglia della barca sull’acqua può essere calcolata come il rapporto tra la forza peso complessiva della barca ( p =m⋅g )e la superficie con la quale la barca preme sull’acqua. Questi i legami tra le varie unità di misura della pressione: 1atm. = 1.013x105 Pa. = 760mm.HG = 1.013Bar = 1013mBar. La prima unità di misura prende come riferimento la pressione atmosferica ed è da interpretare come l'effetto della colonna d'aria che sta sopra la testa di ciascuno di noi. La terza nell'ordine è invece il risultato dell'esperimento di Torricelli (1643) che riuscì a mostrare che la spinta dell'aria dell'atmosfera al livello della superficie del mare equivale a quella di una colonna di mercurio alta 760 mm. . Il volume, grandezza scalare, essendo ottenibile dal prodotto di tre dimensioni lineari (il triplo prodotto del lato del cubo, ad esempio) sarà espresso dal m.3 , dal suo sottomultiplo 1 dm.3=10−3 dm.3 oppure dalla corrispondente misura di capacità (grandezza che specifica storicamente il grado di riempimento di un contenitore) 3 1 litro=1 l. 1 dm. . FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 18 di 51 Il loro raggruppamento ha senso poiché insieme concorrono a descrivere lo stato e la trasformazione dei gas, ideali e reali. m La densità è la grandezza scalare che chiarisce quanto la materia è compatta: d = , V esprime il rapporto tra la massa presente in un corpo e il volume occupato dal medesimo. Nel Sistema Internazionale la sua unità di misura è il (kg./m. 3), ma si usano parimenti unità di misura del tipo (g./cm. 3) (l’acqua in tale unità di misura ha densità 1, in quella precedente era 1000) oppure del tipo (mg./ml.), se ricordiamo il colesterolo nel sangue. Tornando per un momento alla pressione: l'unità di misura mm. Hg è particolarmente significativa in quanto tutte le valutazioni di pressione all’interno del nostro organismo vengono espresse con essa: quando si dice che una persona ha una pressione massima pari a 130, si intende proprio che la pressione relativa interna arriva a 130mm.HG . L’aggettivo relativa ha un’importanza fondamentale: esso sancisce che quando si fanno valutazioni interne all’organismo, ci si rifà ad una scala specifica: infatti se, paradosso, la pressione interna fosse solo 130mm.HG , nel momento in cui ci si procura una ferita, la dominanza della pressione atmosferica ( 760mm.HG ) produrrebbe una penetrazione del fluido aria all’interno delle vene/arterie; in realtà ciò non si osserva. Anzi si spera che la ferita non coinvolga grosse vene/arterie perché altrimenti il sangue esce in maniera copiosa, segno della sua maggior pressione interna. Dunque la pressione che si considera all’interno è data dalla relazione: p RELATIVA = p INTERNA− p ATMOSFERICA . Al misura della pressione avviene (o meglio avveniva) attraverso degli strumenti detti manometri, i quali provvedono a determinare la pressione in un certo contenitore grazie ad una pressione esercitata da una colonna di mercurio che equilibra la spinta della pressione da misurare; si osservi in figura l’utilizzo di un manometro che si utilizzava qualche tempo fa e sotto un equivalente strumento denominato sfigmomanometro. Riferendoci ai fluidi in generale valgono le seguenti leggi: Principio di PASCAL: “ In assenza di gravità un fluido in quiete esercita la medesima pressione in tutte le direzioni” Legge di STEVINO: “ La pressione esercitata da un fluido ad una certa profondità è proporzionale alla profondità stessa e alla sua densità” p= po d⋅g⋅h , con d densità Tradotto in formula: del liquido e profondità alla quale si misura la pressione p . Principio di ARCHIMEDE: “Un corpo immerso in un liquido riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del liquido spostato” Assegnata infatti la legge di Stevino, si può considerare che un oggetto sia spinto maggiormente alla profondità della sua base inferiore (fate riferimento al cilindro in figura) piuttosto che alla profondità della sua base superiore: da ciò uno sbilanciamento verso l’alto della spinta, che a livello di grandezza è una forza: p=d⋅g⋅h 2−d⋅g⋅h1=d⋅g⋅h2−h1 =d⋅g⋅h FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 19 di 51 la forza verticale verso l'alto sarà: f VERTICALE = p⋅S =d⋅g⋅h⋅S , con S superficie della sezione del cilindro; ma allora, essendo: d⋅h f VERTICALE=d⋅g⋅h⋅S =d⋅V⋅g =m⋅g , il volume del cilindro V, sarà: con la massa che diventa quella del volume d'acqua corrispondente a quello del cilindro immerso in acqua, come riportato dalla formulazione della legge sopra. In particolare, dalla legge di Stevino, si può dedurre che la pressione esercitata non dipende dalla superficie sulla quale viene esercitata, dato che nella sua espressione non è direttamente coinvolto alcuna termine di superficie. ESERCIZIO: “ Se la pressione esercitata da una colonna di mercurio (Hg.) alta 760 mm. equivale alla pressione atmosferica si verifichi che 1 atm.=1,013⋅10 5 Pa. . Si calcoli poi la pressione che grava su un pesce a 20 m. di profondità.” kg. m. P atm =d Hg⋅g⋅h Hg =13590 3⋅9,81 2⋅0,76 m.=1,013⋅105 Pa. m. s. kg. m. p 20m.= p atm d acqua⋅g⋅hacqua =1,013⋅105 Pa.1000 3⋅9,81 2⋅20 m.=2,98⋅105 Pa.≈3 atm. m. s. DINAMICA DEI FLUIDI: si occupa di definire le proprietà nel movimento dei fluidi, considerandone anche la cause. Nell'ipotesi in cui il fluido sia incomprimibile e cioè non possa né essere schiacciato, né fatto espandere e cioè mantenga sempre il suo volume, si possono introdurre le grandezze e proprietà che seguono. La prima grandezza da valutare nel considerare il movimento di un fluido (tipicamente liquido in questo caso) è la portata, che si definisce come quantità di volume trasportata in un condotto per unità di tempo, secondo la: ∆ Vol ∆ ( A ⋅ x ) ∆x Q= = = A⋅ = A⋅ v ∆t ∆t ∆t Qmassa = d ⋅ Q = d ⋅ A ⋅ v Q da misurare in m.3 / sec. e Qmassa in kg ./ sec. Il trasporto di liquido (nella direzione orizzontale) è causato da una differenza di spinta lungo il tubo, il condotto attraverso il quale avviene; si può ottenere dunque grazie ad una differenza di pressione tra sezione iniziale del tubo e sezione finale, secondo la legge di Poiseuille: ⋅r 4⋅ p 1− p 2 p1− p 2 8⋅⋅l con r che rappresenta il raggio del tubo, Q= = , con R= 8⋅⋅l R ⋅r 4 l la sua lunghezza, p 1 e p 2 le pressioni ai suoi estremi e la viscosità del liquido che viene trasportato all'interno. Quest'ultima è grandezza poco nota e costituisce la forma d’attrito che condiziona il moto di un liquido all’interno di una conduttura; qualitativamente si può interpretare come difficoltà di scorrimento di uno strato di liquido rispetto ad uno strato immediatamente vicino e immaginare una serie di gusci concentrici all’interno di un tubo dal suo asse centrale verso la superficie esterna aiuta a capire. Nello schema sottostante vengono riportati alcuni valori di viscosità per fluidi noti: FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 20 di 51 Temperatura (°C) Densità (kg./m3) Viscosità (Pa. x sec.) 37 37 20 20 38 4 37 0 40 20 1030 1050 1260 13600 860 1000 996 1.30 1,16 0.178 0.0015 0.004 1,49 0.00155 0.034 0.00179 0.000691 0.0000171 0.0000190 0.0000125 Plasma sanguigno Sangue intero Glicerina Mercurio Olio per macchina Acqua 1 Acqua 2 Aria 1 Aria 2 Elio La grandezza che viene definita in coda alla legge di Poiseuille introduce la resistenza R e si vede che all’aumentare di tale resistenza, a parità di differenza di pressione, diminuisce la portata: si noti che essa aumenta con la viscosità e diminuisce con la quarta potenza del raggio della conduttura. Tale grandezza rende conto della perdita di pressione cui è soggetto il moto del fluido: provate infatti a annaffiare un prato con un tubo di gomma agganciato ad un rubinetto, ma molto lungo: noterete sicuramente una bella differenza di pressione dell’acqua in uscita rispetto alla pressione di uscita dal rubinetto! In appendice sono riportati i valori di caduta di pressione del sangue nell’attraversamento di un capillare, di calcolo di portata media dell’aorta e infine di resistenza media su tutto il sistema circolatorio. Lo scorrimento del liquido all’interno del condotto avviene, alla luce dell’ipotesi di incomprimibilità del liquido, in modo tale che se si passa , a parità di portata, da una sezione più ampia ad una sezione più limitata (e cioè diminuisce il raggio della conduttura), la velocità del liquido è destinata ad aumentare ( Q = v ⋅ A = costante ), mentre la pressione a diminuire; la motivazione di ciò va ricavata nella legge di Bernoulli, che citiamo: p+ d⋅ g⋅h+ 1 d ⋅ v 2 = costante 2 E' interessante analizzare la legge che riguarda l'incomprimibilità alla luce della figura riportata qui a sinistra: quando un fluido incomprimibile arriva in corrispondenza di una strozzatura la legge di Bernoulli garantisce il suo aumento di velocità; la seconda è una multi-strozzatura dato che ci sono molte sezioni più piccole e la sezione utile totale sarà la somma delle sezioni più piccole: nella sostanza dell'esempio la somma sarà un più più grande della sezione di partenza e la velocità un po' più piccola (.. si guardi la lunghezza del vettore v ). Un esempio di applicazione combinata delle due leggi potrebbe essere il noto effetto della stenosi, che si accompagna con fenomeni di ipertensione non locale. Passiamo finalmente a considerare la circolazione del sangue, facendo riferimento allo schema riportato: dal grafico qui a fianco si può notare come la pressione del sangue, nel fluire all’interno del FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 21 di 51 sistema circolatorio, sia destinata a calare man mano che si va dal ventricolo sinistro all’atrio destro e cioè man mano che si percorre tutto il circuito interno; la caduta di pressione va letta proprio alla luce della resistenza offerta dai vasi sanguigni al passaggio del plasma; il cuore, con la sua potenza (circa 1Watt ), provvede al sostentamento di tutto il sistema cardio-circolatorio. Anche il rimpicciolimento dei vasi e la variazione di altezza nel posizionamento dei vasi sanguigni ha un ruolo nella modificazione del valore della pressione; la caduta più ripida del valore della pressione (da 80 a 25 mm. Hg. ca.) si ha in corrispondenza del passaggio dalle arterie ai capillari e, in particolare, nel passaggio nelle arteriole, dove la caduta di pressione è sostanziale ( 55 mm. Hg ca.) principalmente a causa della diminuzione delle dimensioni della loro sezione. ESERCIZI Calcolo della portata media del sangue nelle aorte Se v =0,33 m./s. è la velocità media del sangue nelle aorte e 2 −2 2 −4 A=⋅r =⋅0,9⋅10 ⋅m. ≈2,5⋅10 m.2 la sezione trasversale delle stesse, allora si potrà esprimere la portata media come: v⋅A≈0,33 m./s.⋅2,5⋅10−4 m.2 =0,83⋅10−4 m.3 /s.=83⋅10−6 m.3 / s.=83 cm.3 /s. Q= Calcolo della resistenza media nel sistema circolatorio In un adulto normale la portata del sangue è quella appena calcolata. Lo sbalzo globale di pressione, come si può dedurre dalla figura sopra è: p= p1− p2 =90 mm. Hg =1,2⋅10 4 Pa. , da cui la resistenza p 1 − p2 1,2⋅10 Pa. 8 Pa.⋅s. = ≈1,44⋅10 −4 3 Q 0,83⋅10 m. / s. m.3 4 R= Calcolo della potenza del cuore in un adulto normale La pressione media in un adulto normale ha questo valore: p =100 mm.Hg =1,3⋅10 4 N./m. 2 invece la portata Q l'abbiamo vista nelle applicazioni precedenti. La potenza sarà: p= , mentre L p⋅ V p⋅ V = p⋅Q= = =1,3⋅10 4⋅0,83⋅10−4≈1,1 Watt t t t FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 22 di 51 All'interno dell'insieme della denominazione fluido si riconoscono tutti gli stati della materia non solidi e cioè liquidi, vapori e gas. Mentre ritroveremo i liquidi nella seconda parte della trattazione, quelli che studieremo subito sono gli ultimi e cioè i gas, dato che offrono nella loro trattazione ideale una modellizzazione immediata. Nella definizione che si può adottare per il vapore è presente un chiaro legame col gas, essendo sottile la differenza tra i due: il vapore è quella fase del materiale che, ad un particolare valore di temperatura, può essere trasformato completamente nella fase liquida corrispondente per sola compressione (aumento di pressione). Nella figura a fianco può essere riconosciuta la presenza della coesistenza delle varie fasi per una sostanza reale campione: per interpretare l'effetto di compressione è necessario muoversi su una delle curve dalla parte in basso a destra verso la parte in alto a sinistra. Da una certa temperatura ( 31 ° C. circa in figura) in su, agendo sullo stato aeriforme non è più possibile arrivare alla fase liquida per solo aumento di pressione e corrispondente diminuzione di volume: siamo entrati nella zona del gas. GAS: è un fluido, che quando viene sottoposto a forme che tendono a deformarlo, oltre a non mantenere una forma propria, occupa tutto il volume che ha a disposizione. Il nostro modello di gas prevede un grande numero di molecole che si muovono in tutte le direzioni con velocità diverse in modulo, mantenendo in tal modo una pressione costante sulle pareti del contenitore e tenendo un livello di agitazione condizionato dalla temperatura cui si trova il contenitore e, conseguentemente, il gas. Le leggi che descrivono in termodinamica i gas ideali, che sono quelli lontani dalle condizioni di liquefazione sono state ottenute per via sperimentale già alla fine del diciottesimo secolo e sono le seguenti: per T = costante, p ⋅ V = costante , legge di Boyle V per p = costante, = costante T leggi di Gay-Lussac p per V = costante, = costante T Tali leggi descrivono il comportamento del gas, mantenendo costante una delle tre grandezze e facendo variare le altre due: nella prima si sostiene che, a temperatura costante, pressione e volume sono inversamente proporzionali (esempio: senza cambiare la temperatura, la compressione, e quindi la diminuzione di volume, di un palloncino produce un aumento di pressione verso l’esterno); FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 23 di 51 nella seconda e terza, invece, mantenendo costante o pressione o volume, la restante grandezza risulta direttamente proporzionale alla temperatura (esempi: riscaldando una pentola con un coperchio sopra, e quindi a pressione costante, il volume aumenta; riscaldando una pentola a pressione, e quindi a volume costante, la temperatura all’interno della pentola tende ad aumentare). Sotto il nome di equazione di stato, relativa ai gas ideali, va invece quella relazione che riassume la contemporanea influenza delle tre grandezze sullo stato del sistema termodinamico gas: p⋅V = n⋅ R⋅ T In questa equazione è anche contenuta la grandezza n , che caratterizza il numero di moli (si ricorda che la grammo-mole o mole rappresenta l‘ equivalente in grammi del peso atomico di una sostanza e contiene, per ogni sostanza, lo stesso numero di molecole/atomi, pari al numero di Avogadro di molecole/atomi: N A = 6.02 x1023 ) di gas contenute nel campione. Si può notare come imponendo la costanza di una delle tre grandezze, si possa ottenere la determinazione di ciascuna delle tre leggi proposte sopra. All’interno dell’equazione è presente la costante dei gas R , la quale nel sistema Internazionale R = 8.31 Joule / K .(mol.) ha il seguente valore: Da questa si può dedurre anche l’importante costante di Boltzmann k B , secondo la: R 8.31 kB = = J ./ K . = 1.38 x10− 23 J ./ K . . N A 6.02 x1023 ESERCIZIO: “Un gas ideale alla temperatura di 15,5° C. e alla pressione di 1,72⋅105 Pa. occupa un volume di 2,81 m. 3 . Quante sono le moli del gas ? Se il volume aumenta fino a 4,16 m.3 e la temperatura fino a 28,2 ° C. , come diventerà la pressione ? ” Attenzione alle unità di misura della temperatura: t=15,5 ° C. T =15,5273,16=288,66 K. t=28,2 ° C. T =28,2273,16=301,36 K. p⋅V 1,72⋅105⋅2,81 Dalla equazione di stato poi: n= = =201,5 moli . R⋅T 8,31⋅288,66 n⋅R⋅T finale 201,5⋅8,31⋅301,36 = =1,21⋅105 Pa. Sempre con la medesima equazione: p finale= V finale 4,16 Le leggi appena introdotte e poco elaborate nei loro aspetti più caratteristici sembrano piuttosto insignificanti ai nostri occhi: il caso del termometro a mercurio e della respirazione ce le renderanno più familiari. La dilatazione volumetrica è fenomeno che discende dalla prima delle leggi di Gay-Lussac che abbiamo appena presentato, quella secondo la quale, a pressione costante, il volume è destinato ad aumentare linearmente con la temperatura; sviluppando le formule: V f Vi V ⋅T = ⇒ V f = i f ; "f" sta per finale e "i" per iniziale T f Ti Ti se: T f > Ti , allora: V f > Vi e posso ottenere: ∆ Vi → f = V f − Vi > 0 e cioè il nostro gas si dilata. Possiamo adattare questa conclusione, in modo meno consistente però, anche al caso di un liquido, quale il mercurio presente all’interno del vecchio termometro a bulbo: poco prima di essere inserito sotto l’ascella il mercurio è contenuto nel suo deposito a bulbo, nella parte bassa del termometro; soggetto poi all’aumento di temperatura prodotto per contatto con l’organismo, vede aumentare il suo volume in modo molto più accentuato del suo contenitore vetroso, che pur si dilata; perciò risale nella colonnina, che ha la funzione di FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 24 di 51 quantificare corrispondentemente la variazione di temperatura. Una volta tolto dall’ascella, anche se la temperatura tutt’intorno è scesa, dobbiamo “spingere” verso il basso il mercurio ritornato al suo volume normale a causa del fatto che esso è contenuto in un capillare, all’interno del quale lo scorrimento del liquido avviene con difficoltà. L’altro caso notevole che affrontiamo è quello della respirazione: la sua meccanica si può dedurre dalla figura di sinistra, con gli snodi della parte scheletrica che sono dettagliati in modo chiaro. I due meccanismi che garantiscono l’inspirazione e l’espirazione: (a) Spostamento in alto e basso del diaframma; (b) Elevazione ed abbassamento delle costole che fa aumentare il diametro del torace e quindi il suo volume interno. Da soli i polmoni collasserebbero senza l’adesione alla pleura viscerale, che li mantiene ad un volume minimo. Guardando la stessa figura e complementando questa visione con l’osservazione dell'altra, possiamo seguire i grafici a fianco: partendo dalla scala inferiore possiamo dedurre che inspirazione ed espirazione si sviluppano , globalmente in 4 secondi: nei primi 2 l’inspirazione e nei secondi 2 l’espirazione. Nel primo intervallo di tempo (inspirazione): vi sono nei polmoni due micro-diminuzioni di pressione: una, più accentuata ( − 6mm.HG ), riguarda la zona intrapleurica e l’altra, meno accentuata ( − 1mm.HG ca. ), riguarda invece la zona intrapolmonare: entrambe sono affiancate (si osservi il terzo grafico) da un aumento globale di volume fino a 0,4 l. leggermente sfasato nel tempo. Interpretiamo: l’aumento di volume è associato all’abbassamento del diaframma polmonare; tale aumento di FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 25 di 51 volume, a parità di temperatura (quella del corpo umano), induce all’interno della sacca polmonare una diminuzione di volume, più accentuata nella zona intra-pleurica, che deve permettere l’espansione della zona polmonare vera e propria, che infatti vede diminuire la propria pressione un po’ di meno; la diminuzione risultante della pressione intrapolmonare permette l’afflusso di aria dall’esterno, grazie al gradino di pressione favorevole all’aria esterna: e cioè la pressione intrapolmonare diventa più bassa di quella esterna permettendo il flusso di gas-aria verso l’interno. Nell’altra fase, quella della espirazione, succede esattamente il contrario: si parte dalla salita del diaframma e si conclude con l’innalzamento della pressione intrapolmonare, passando per la contrazione delle zone intrapleurica e intrapolmonare. Osserviamo l'ulteriore figura dove si riportano gli effetti di una spirometria: si possono riconoscere i valori minimi e massimi per l’aria contenuta (dai -2 litri nella situazione di espirazione massima ai +3 litri nella fase di inspirazione massima); la fascia intermedia individua le fasi e i volumi della respirazione a riposo. L'aria secca è una miscela di numerosi gas e ciascuno di questi esercita una pressione parziale specifica: tale pressione parziale rappresenta il contributo particolare alla pressione atmosferica a livello del mare: dalla tabella riprodotta a fianco è possibile con una semplice somma ritrovarsi il contributo globale della pressione vicino ai 760 mm. Hg previsti: manca ancora qualche componente gassosa non riportata perché residuale. Questa corrispondenza tra percentuali di composizione e pressione parziale va ricondotta alla legge di Dalton o delle pressioni parziali che stabilisce che la pressione parziale di una miscela di gas è la somma delle pressioni parziali dei singoli gas componenti e cioè: R⋅T p= p1 p 2... p N =n1n2 ...n N ⋅ =C 1C 2....C n ⋅R⋅T , potendo considerare che le V n ⋅R⋅T pressioni parziali soddisfano anch'esse l'equazione di stato dei gas: p i= i =C i⋅R⋅T , dove V ni è la concentrazione parziale . In essa la quantità n i rappresenta il numero di moli C i= V referentesi al gas i-esimo. Altra grandezza che si possono ritenere utili nel caratterizzare le miscele n di questo tipo sono la frazione molare: x i = i e cioè il rapporto tra n i il numero di moli del gas n i-esimo e il numero di moli totale n . Si faccia attenzione alle pressioni parziali perché esse garantiscono una adeguata comprensione del fenomeno respirazione per come lo vedremo nelle prossime pagine. Si tengano in considerazione i valori relativi ad ossigeno ed anidride carbonica: 159 e 0,2 mm. Hg rappresentano le pressioni con le quali i due gas vengono a contatto con le parti sensibili del polmone. Per andare a considerare da un punto di vista fisico quali siano i meccanismi che permettono nel dettaglio al polmone la funzione di respirazione affronteremo la questione alla larga, partendo da quelli che sono i fenomeni di superficie, che regolano i rapporti di interazione tra liquidi e vapori/gas. Ci interessano tutte le forme di vicinanza/inclusione tra le due fasi. A tutte le temperature il liquido coesiste col proprio vapore. Se pensiamo ad un bicchiere d'acqua lasciato all'interno di una campana di vetro alla temperatura ambiente, questo nel tempo si svuoterà, ma non completamente: il fenomeno è quello noto dell'evaporazione, nel quale la parte di FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 26 di 51 molecole del liquido di superficie più energetiche (l'energia cinetica è distribuita con regolarità statistica nel campione di liquido e ad un gruppo ridotto spetta una K tale da poter sopravanzare l'energia potenziale che tiene legate le altre molecole al corpo del liquido, a mezzo della forza di coesione oltre che a quella di gravità) entrano nella fase gassosa sopra il liquido. La fuoriuscita delle molecole prosegue sino al punto in cui parte di quelle che sono nel vapore, quelle a bassa K, rientrano nel liquido: quando il numero di molecole che escono è uguale a quello di quelle che rientrano si crea un equilibrio dinamico e si instaura quella che viene denominata tensione di vapore saturo: questa è la pressione esercitata dalle molecole del liquido che tendono ad uscire (... o a rientrare). Nelle fasi di non equilibrio si parla genericamente di tensione di vapore. Quando la temperatura raggiunge il livello di ebollizione ( 100 ° C.o 373 k. per l'acqua) la tensione di vapore raggiunge il valore della pressione atmosferica e il liquido è in grado di passare totalmente alla fase vapore. Il fenomeno dell'evaporazione avviene sempre in presenza di raffreddamento e cioè viene sottratta sistematicamente energia al sistema liquido, dato che se ne vanno le molecole maggiormente energetiche. Analizziamo ora la tendenza da parte del gas a entrare nel liquido: ci potremmo chiedere come l'aria interagisca col bicchiere d'acqua lasciato sopra un tavolo. Una mini-analisi porta a queste considerazioni: le componenti gassose dell'aria esercitano dall'esterno sull'acqua una pressione proporzionale al loro peso percentuale e la velocità con la quale tendono a sciogliersi in soluzione è a sua volta proporzionale alla loro concentrazione: v ei =k ei⋅C ifuori ; lo stesso avverrà con la tendenza ad uscire da parte delle stesse componenti e sarà: v ui =k ui⋅C identro . Da ciò deriva la formulazione di una versione della legge di Henry, secondo la quale “il rapporto tra la concentrazione d'una sostanza in fase gassosa e la concentrazione della stessa nella soluzione a contatto con la fase gassosa è costante” e cioè: C identro k ei = =K essendo all'equilibrio: v ei =v ui . Essendo poi la pressione parziale del gas C ifuori k ui proporzionale alla sua concentrazione (vedi le definizioni relative alla legge di Dalton) , la legge di Henry si può riproporre anche così: “ la concentrazione del gas disciolto in soluzione o nel liquido è direttamente proporzionale alla pressione esercitata dal gas medesimo sopra o a fianco della soluzione”. Se ci troviamo invece in presenza di soluzioni a contatto, divise tra loro da una membrana semipermeabile e cioè permeabile al solvente ma non al soluto, che nel nostro caso particolare è costituito dal gas, possiamo rilevare il cosiddetto effetto di osmosi. Il gas all'interno della soluzione vive in essa come se fosse in condizioni di libertà e cioè è governato dalle leggi del gas perfetto, n⋅R⋅T =C⋅R⋅T . Mettendo a contatto due esercitando in particolare una pressione: p gas= V soluzioni, una a puro solvente (acqua) e l'altra con gas disciolto l'effetto sarà il seguente: il gas presente nella seconda tenderà a diffondere nella prima dove ha una pressione virtuale nulla, ma non lo farà a causa della membrana permeabile solo al solvente; il solvente invece eserciterà una tendenza contraria, a causa della concentrazione maggiore nella prima e diffonderà nella seconda producendo un effetto netto di sollevamento del livello della seconda. La pressione esercitata dal solvente in questa fase iniziale viene FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 27 di 51 detta pressione osmotica. Dopo la risalita del livello nella seconda soluzione la pressione osmotica sarà annullata. Ultimo fenomeno che analizziamo prima di riprendere la fenomenologia della respirazione è quello della tensione superficiale. L'esempio cui possiamo fare riferimento perché più immediato è quello dell'acqua saponata che si agglomera facilmente in bolle o in lamine, sottili in spessore e estese in superficie, grazie a dei telaietti ad hoc come si può vedere in figura. Essa è definita come la forza per unità di lunghezza che la superficie esercita su ogni segmento verticale ed è perpendicolare a ciascun segmento, risultando in figura orizzontale: F N. . Essa agisce in modo tale da ridurre la superficie: nella figura = a , con unità di misura m. b F a è la forza che si deve opporre “a mano” in modo da equilibrare la tensione superficiale che agisce nel verso opposto e cioè da destra verso sinistra. Anche la formazione di bolle deve essere reinterpretata alla luce dell'azione di questa tendenza del liquido a mantenersi coeso: la condizione sulla differenza di pressione tra l'interno e l'esterno per la formazione di bolle è la seguente: 2⋅ , dove R in tal caso è il raggio della bolla supposta come sferica. La tensione p dentro − p fuori= R superficiale è dipendente dalla temperatura ed specifica del liquido considerato. La presenza di tensioattivi (... il sapone nell'acqua saponata, in generale dei composti organici) condiziona in modo sostanziale questa tensione, riducendo sistematicamente la tensione superficiale; i detergenti in acqua ne sono un esempio e hanno la facoltà di allentare la forza di coesione che interviene tra le molecole d'acqua. Ritorniamo alla funzione della respirazione, osservandola da più punti di vista. Gli alveoli sono l'appendice più piccola all'interno dei polmoni, alle estremità dei condotti bronchiali, e si configurano quali cavità minuscole ( Ralveolo ≈10−2 cm. ) ricche di capillari o meglio a contatto con i capillari sanguigni. Nell’ispirazione la pressione negli alveoli, dove si scambia ossigeno-anidride carbonica, è inferiore di 3 mm. Hg rispetto all’esterno e così l’aria esterna vi può penetrare; durante tale fase il raggio dell’alveolo si modifica così: −2 −2 Ralveolo ≈0,5⋅10 cm. 1,0⋅10 cm. in presenza del liquido mucoso con =0,05 N./ m. : in queste condizioni per l’espansione dell’alveolo deve essere per la condizione di formazione della bolla mono-superficie: 2⋅ 2⋅0,05 3 2 = =2⋅10 N./m. =15 mm. Hg ; questo implica che la pressione esterna p dentro − p fuori= −4 R 0,5⋅10 p , dovrebbe essere pari a −18 mm. Hg per garantire l’espansione; tale pressione esterna è fuori quella presente tra polmoni e cavità pleurica che avvolge i polmoni. In realtà vale solo −4 mm. Hg riducendo il p a −1 mm. Hg : per assicurare tale espansione le pareti degli alveoli secernono un tensioattivo che è in grado di ridurre la tensione superficiale di un fattore 15. La concentrazione di tale tensioattivo si riduce però nella fase di espirazione, favorendo la contrazione dell’alveolo e la conseguente espansione dell’aria presente. Nei neonati, l’espansione degli alveoli richiede una p=30 mm.Hg con uno sforzo notevole da parte del nascituro. FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 28 di 51 Grazie al contatto diretto tra aria e sangue avviene negli alveoli polmonari l'afflusso di ossigeno e il deflusso di anidride carbonica. Questi passaggi sono permessi dalla legge di Flick, che regola il processo di diffusione, nel quale avviene il passaggio di gruppi di molecole all'interno di una soluzione, siano esse liquide (goccia di inchiostro in un bicchiere d'acqua) o gassose (ossigeno nel sangue). Non riportiamo la legge nella sua interezza, ma segnaliamo che la diffusione è tanto più marcata quanto più alta è la differenza di concentrazione della sostanza tra due zone, come abbiamo già avuto occasione di discutere nella descrizione dell'osmosi. Le funzioni respiratorie hanno il compito di garantire l'opportuno afflusso di ossigeno utile a moltissime operazioni metaboliche e di approntare anche meccanismi di rimozione dell'anidride carbonica, prodotto di scarto delle reazioni chimiche. Gli scambi del materiale gassoso avvengono attraverso le pareti alveolari; considerando che il liquido in equilibrio col suo vapore all'interno dello spazio alveolare è in contatto con l'aria introdotta nel polmone per mezzo di una membrana permeabile al gas, anche se le percentuali delle componenti presenti sono un po' diverse da quelle viste per l'aria secca la tabella le riassume. Lo scambio avviene per mezzo della diffusione. Osserviamo le due parti della figura riportata sopra: nella (A) si può ricostruire la purificazione del sangue venoso, dato che il verso delle frecce sancisce il passaggio dell'ossigeno dall'alveolo al capillare venoso e il passaggio inverso dell'anidride carbonica, entrambi causati dalla opportuna differenza di pressione. Nella parte (B) viene illustrato il processo invece di impoverimento del sangue arterioso a contatto con le membrane cellulari: le condizioni di pressione in effetti favoriscono in questo caso il deflusso dell'ossigeno dal capillare arterioso al liquido interstiziale e il passaggio inverso da parte dell'anidride carbonica. FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 29 di 51 (4) TERMODINAMICA Le leggi della termologia e termodinamica: misura della temperatura, energia interna, I° e II° principio della termodinamica, meccanismi di trasmissione del calore: la termoregolazione: temperatura corporea; produzione e dispersione del calore. Che differenza c’è tra temperatura e calore ? Come si definisce il lavoro, ancora inteso come variazione di energia, all’interno della termodinamica ? Temperatura e calore scambiato da un sistema sono grandezze completamente diverse: la prima rappresenta il grado di agitazione del sistema e ne qualifica lo “stato” termodinamico; il secondo, invece, l’aspetto dinamico evolutivo: rappresenta la quantità di energia che arriva o se ne va grazie ad una variazione di movimento interno al sistema. In ogni caso assumere calore significa far muovere di più particelle interne, cedere calore invece significa diminuire lo stato di agitazione medio. Le due grandezze sono legate dal fatto che il flusso di calore si sviluppa tra due sistemi quando hanno temperature diverse e da ciò la facilità a confondere i due livelli descrittivi. La temperatura è grandezza fisica piuttosto faticosa da definire. In molti casi, come il nostro, si preferisce darne una definizione operativa: la temperatura è quella grandezza che si misura col termometro, tutto qua! Si può quantificare la temperatura di un pezzo di ferro, di una certa quantità di liquido, dell'aria o di un organismo senza sapere a che cosa corrisponda. Di essa per ora sappiamo che è caratterizzata in termini di unità di misura ° C. , grado centigrado o Celsius, o dal K. , grado Kelvin. Il più diretto strumento di misurazione della temperatura è il termometro a mercurio che si basa su un effetto indotto da una variazione di temperatura, la dilatazione e cioè una variazione di volume. Esso contiene in un piccolo bulbo una certa quantità di mercurio, calibrata in modo tale da far sì che fino ai 34/35 ° C. essa rimane confinata nella parte più bassa del capillare collocata davanti alla scala lineare posta sullo sfondo, come ben si vede in figura. Quando la temperatura sale grazie al contatto, ad esempio con un corpo caldo, al mercurio compete un volume maggiore: l'ulteriore ingombro maturato dal liquido termometrico si sviluppa all'interno del tubicino, risalendolo e producendo una nuova indicazione sulla scala di fondo. Anche il vetro che contiene il mercurio è destinata ad aumentare di volume ma in modo quantitativamente trascurabile rispetto al mercurio. La legge che esprime la dilatazione in funzione della variazione di temperatura è la seguente: V =V −V o=⋅V o⋅ T , relazione nella quale: T =T −T o , con T o temperatura iniziale e T finale, V o volume alla temperatura iniziale e V a quella finale; è il coefficiente di dilatazione volumetrica ed è caratteristico della sostanza e ha come unità di misura ° C.−1 ; esso avrà chiaramente valore più consistente per i gas/vapori piuttosto che per i liquidi piuttosto che i solidi: dell'ordine del 10−5 per i solidi, 10−4 per i liquidi e 10−3 per i gas, tutti numeri da considerare nell'unità di misura proposta sopra. Tale formula esprime il fatto che la dilatazione è direttamente proporzionale al volume iniziale. Altro modo per esprimerla è il seguente: V =V o⋅1⋅ T . Al termine di questa breve trattazione possiamo riportare che il suo senso in fisica dare una descrizione dello stato di agitazione media delle componenti del sistema: non si parla mai di temperatura di una molecola o atomo, ma sempre di aggregati di molecole/atomi Il calore è invece quella forma di energia degenere che fluisce dal corpo a temperatura maggiore a quello di temperatura minore e non nel verso opposto; è una garanzia che viene dal II FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 30 di 51 principio della termodinamica; è in tale principio che si trovano i riferimenti per motivare la dequalificazione qualitativa del calore come forma di energia. Una delle sue versioni stabilisce infatti che, mentre da un'altra forma di energia, attraverso il lavoro, si può ottenere una equivalente quantità di calore, non vale il rovesciamento della prospettiva: il calore non può mai essere totalmente convertito in lavoro e poi, grazie a questo, in altra forma di energia; bisogna in ogni caso cederne all'ambiente una certa parte. L’assorbimento e la cessione di calore, in generale lo scambio di calore, avvengono secondo le seguenti modalità: + conduzione; + convezione; + irraggiamento. Ciascuna di queste modalità si attiva grazie alla differenza di temperatura tra sistema emettitore di calore e ambiente/sistema che lo circonda. La conduzione rappresenta la modalità più intuitiva, dato che avviene grazie al contatto tra sistemi che si trovano inizialmente a temperatura diversa: il calore fluisce dal più caldo al più freddo fino al raggiungimento di ugual temperatura tra emettitore e assorbitore di calore. La convezione è invece quel processo che interessa i fluidi secondo il quale la diffusione di elementi di fluido produce un movimento verso zone di minore/maggiore densità: tutti sono a conoscenza del fatto che “il caldo va verso l’alto”, con uno degli esempi che viene riportato in figura che lo testimonia: nella pratica i gruppi di molecole più veloci diffondono verso le parti più alte, mentre invece i gruppi di molecole più lente tendono a subire maggiormente l’effetto della gravità a vanno ad addensarsi verso le zone più basse, che saranno anche le zone a più alta densità. L’ultimo dei meccanismi è invece l’irraggiamento, sul quale non diremo più di tanto, se non che si tratta di un’emissione di onde elettromagnetiche (tipicamente raggi infrarossi) da parte di un corpo caldo. Un esempio classico è il sole, che ci riscalda a distanza. Ricordiamo che anche nei cambiamenti di fase di una sostanza è coinvolto lo scambio di calore: il ghiaccio per fondere ha bisogno che gli venga fornito del calore; l’acqua, ghiacciando, libera invece calore, dato che si tratta del passaggio inverso. Così nella evaporazione, che è il passaggio che ci interesserà successivamente: far evaporare acqua costa energia, calore che arriva dall’esterno; ma per un sistema quale ad esempio la cute, l'evaporazione delle goccioline d’acqua significherà perdita di energia e quindi raffreddamento. Riprendendo come spunto gli esempi già introdotti sul riscaldamento da parte di un fornello di una pentola con un coperchio normale e di una pentola a pressione, ci si può rendere conto che il trasferimento di calore dal fornello alla pentola non produce unicamente variazione (aumento) di temperatura, ma anche, nel primo caso aumento di pressione, che possiamo notare per il fatto che il coperchio non bloccato si alza continuamente. L’innalzamento del coperchio, in questo ultimo caso, è la manifestazione di quello che è il lavoro in termodinamica: esso è nella sostanza variazione di volume, secondo le formule ricavate dall'espressione già introdotta di lavoro: L= f ⋅ s= p⋅A⋅ s= p⋅ Vol Come si può vedere in figura il calore fornito del fornello produce, oltre al riscaldamento dell'acqua contenuta, anche l'innalzamento del coperchio e questo si configura come lavoro, poiché FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 31 di 51 tale sollevamento potrebbe, ad esempio alzare un peso e variare dunque la sua energia potenziale gravitazionale. La relazione che mette insieme tutti questi aspetti di scambio energetico è il primo principio Q−L= E INTERNA= E INTERNA finale −E INTERNA iniziale della termodinamica: Questo principio sancisce che, in ogni processo di trasformazione termodinamica, la differenza tra calore scambiato dal sistema e lavoro fatto dal o sul sistema è costante, indipendente dalle modalità utilizzate per andare dallo stato termodinamico di partenza a quello di arrivo e legato solo agli stati di partenza e arrivo: tale “costante” è la variazione di energia interna U ; l’energia interna del sistema dipende solo dalla temperatura T e, nel caso del nostro sistema gas è rappresentata dalla somma delle energie cinetiche delle molecole/atomi costituenti il sistema, riassunta dalla 1 N N 2 formula: E INTERNA=i =1 K i= i=1 [ ⋅m⋅v i ] . L’energia interna va vista 2 come energia termica e cioè come serbatoio di energia di agitazione del fluido disponibile allo scambio, al flusso. A livello più alto il primo principio ribadisce la conservazione dell'energia, includendo nel conteggio della stessa anche la nuova forma che abbiamo definito degenere: in esso sono contenute energia meccanica, calore e lavoro. Per completare il quadro di riferimento che definisce il primo principio della termodinamica, si deve dire che esistono delle convenzioni che stabiliscono quali segni algebrici debbano essere assegnati alle quantità coinvolte: per il calore Q il segno è positivo quando fluisce all’interno del sistema, mentre è da considerare negativo quando viene ceduto dal sistema; per il lavoro L il segno è positivo quando il sistema fa lavoro verso l’esterno (il sistema aumenta di volume), negativo quando il sistema subisce lavoro (viene compresso). Applicando le relazioni più utilizzate in termodinamica, il primo principio della termodinamica diventa: m⋅c⋅ T − p⋅ V =U finale−U iniziale . In quest’ultima relazione si è utilizzato per lo scambio di calore la seguente formula: Q=m⋅c⋅ T ; in essa: m , c e T sono rispettivamente massa, calore specifico e variazione di temperatura del corpo/sistema che scambia interagisce termicamente. Il calore specifico rappresenta il modo di scambiare calore da parte della sostanza e varia con la temperatura. Nella tabella a fianco vengono riportati dei valori di calore specifico per alcune sostanze. Nelle situazioni di transizioni di fase gli scambi di calore avvengono senza variazioni di temperatura e in esse la formula sopra deve essere modificata come segue: Q=m⋅c L , dove c L è detto calore latente (... di fusione, FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 32 di 51 ebollizione, ...) e rappresenta la quantità di calore da conferire ad un corpo/sistema per ottenere il passaggio di stato dell'unità di massa. E' formula simile ma che non prevede al suo interno alcun T . ESERCIZIO: “Quante calorie servono per far diventare un cubetto di ghiaccio di m=200 g. preso dal congelatore a t=−18° C. acqua a temperatura ambiente e cioè circa t ambiente =20 ° C. ?” La premessa è che: 1 cal.=4,18 J. , contando che la caloria era la vecchia unità di misura del calore, prima che si capisse che si trattava di una forma di energia. Detto questo, bisogna considerare tre passaggi: nel primo si calcolerà il calore necessario per far salire il ghiaccio fino a 0 ° C. ; nel secondo l'energia per far fondere il ghiaccio senza variare la temperatura; nel terzo quella per far alzare la temperatura dell'acqua ex-ghiaccio fino ai 20 ° C. deisderati. cal. ⋅[0−−18]° C.=1872 cal. g.⋅° C. cal. Q secondo =m⋅c L− fusione =200 g.⋅80 =16000 cal. Secondo: g. cal. Qterzo =m⋅cacqua⋅ t=200 g.⋅1 ⋅[20−0 ]° C.=4000 cal. Terzo: g.⋅° C. Q totale =Q primoQ secondo Q terzo =21872 cal. Il calore richiesto è dunque: Primo: Q primo=m⋅c ghiaccio⋅ t=200 g.⋅0,52 LE MACCHINE TERMICHE Paradossalmente la prima forma di energia che storicamente si afferma è proprio il calore, la meno compresa, la più complicata e quella meno facile da sfruttare: telai industriali e treni a vapore sono le prime macchine vere e proprie che vengono costruite dall'uomo per agevolare il suo lavoro. Si parla di macchine termiche proprio in questi casi, quando si usano forme di energia legate alla temperatura e allo scambio di calore: nello schema classico si concepisce la macchina che attinge calore ad un serbatoio ad alta temperatura e, dopo aver provveduto a produrre lavoro, ne deve restituire (II^ principio della termodinamica) parte ad una sorgente fredda, come illustrato in figura: il lavoro sarà l'energia recuperata dagli scambi di calore, secondo la: L=Qc −Q f . La struttura che permette di ottenere lavoro con continuità, come nel motore dell'auto, è il ciclo termodinamico all'interno del quale ogni ripetizione garantisce gli scambi illustrati in figura. Quando nell'indicatore dei giri presente sul cruscotto la freccia segna 3000 giri /min. significa che ogni minuto vengono sviluppati 3000 cicli termodinamici, ciascuno in grado di liberare un lavoro L . Nell'ulteriore figura è presente sul piano Pressione-Volume il ciclo Diesel, pensato proprio per le auto a gasolio. Lo studio di questi cicli è fatto con la volontà di ottenere quello più conveniente e cioè quello che permette il miglior utilizzo dell'energia proveniente dalla combustione della materia prima, qualunque essa sia. L'indicatore, la grandezza fisica che aiuta l'ingegnere a discriminare tra le varie possibilità è il rendimento definito come: Q L Q −Q F = = C =1− F ; è il rapporto tra il lavoro ottenuto per ciascuna delle ripetizioni QC QC QC e il calore somministrato alla macchina per ottenere questo lavoro; può assumere valore minimo min =0 nel caso in cui L=0 , a fronte di un calore assorbito; ammette invece come valore massimo max =1 nel caso in cui sia nullo il calore restituito dalla macchina, situazione fisicamente impossibile. I valori possibili per il rendimento sono: 01 . Per dare un esempio in una situazione FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 33 di 51 piuttosto nota, si può ricordare che per un frigorifero di una ventina di anni fa poteva avere un rendimento sullo 0,2 , mentre invece i motori a benzina circa lo 0,4 e quelli a gasolio circa lo 0,43 . In tutti gli esempi, essendo il rendimento un rapporto tra energie, il risultato è un numero puro . Per il frigorifero il risultato dice che ad ogni 100 Joule di energia prelevati dalla rete corrispondevano solo 20 Joule prelevati dal cibo da mantenere fresco/freddo. Passiamo ora a considerare la termoregolazione e cioè la/le modalità con le quali il nostro organismo riesce a mantenere costante la temperatura. Il corpo umano, come ogni sistema, tende a disperdere energia sotto forma di calore verso l’esterno, proporzionalmente alla sua estensione superficiale: la sua temperatura interiore e di sopravvivenza si colloca sui 37 o C circa, per cui, guardando alle nostre latitudini, è quasi sempre nelle condizioni di emettere calore verso l’esterno; lo fa secondo dei meccanismi che abbiamo descritto in questa lezione: irraggiamento ed evaporazione sono i meccanismi dominanti, come si può notare dalla tabella riportata. La dispersione del calore, come tutte le altre situazioni in cui l’organismo produce energia, prevede una continua reintegrazione di energia: le fonti di questo recupero vengono riprodotte in tabella e avviene secondo modalità piuttosto conosciute. In una stagione come quella invernale è chiaro che, essendo la temperatura all’esterno più bassa, la dispersione di calore verso l’esterno sarà più accentuata e da ciò la necessità di provvedere con maggior sollecitudine alla reintegrazione delle riserve energetiche e quindi, nella sostanza, maggior appetito! Con risposte di tipo endocrino e soprattutto neuro-vegetativo il corpo umano è poi in grado di gestire variazioni della temperatura ambientale E’ interessante osservare anche l’ultimo grafico, nel quale il grado di mantenimento della temperatura dei vari organi in funzione di quella che è la temperatura esterna, indicata come temperatura del calorimetro nel grafico. Altro aspetto che va ulteriormente analizzato, dopo l'analisi di avvicinamento che abbiamo fatto quando abbiamo parlato di energia è quello dell'equilibrio che il nostro organismo è in grado di garantirsi in presenza di un'esistenza che, assunta la sua alta temperatura interna, mediamente sui lo vede 37 ° C. , sistematicamente disperdere calore nell'ambiente in cui vive ( Qdiss ). Se definiamo il metabolismo come l'insieme delle reazioni biochimiche (assunzione e scomposizione di cibo) che sono necessarie per il sostentamento delle funzioni vitali e di quelle che in generale richiedono energia, allora ne deriva che l'energia totale prodotta, che può considerarsi di tipo interno ( U ), è quella che serve alla macchina termica-uomo per FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 34 di 51 mantenere una temperatura interna elevata e eseguire verso l'esterno tutti quei lavori legati alla sua attività: movimento e lavoro in senso ampio ( L ). Nello schema riportato sopra si riconoscono tutte le varie fasi da quella di produzione, riconoscibile attraverso la grandezza U pot a quella intermedia di trasformazione in calore ( Q pro ) e di erogazione di lavoro/attività verso l'esterno, seguita da quella di mantenimento della temperatura interna attraverso quello che si può dare come energia interna tutta cinetica ( U cin T ), fino a quella di dissipazione verso l'esterno. Tutti questi processi di scambio si sviluppano nel tempo e ha senso per essi prendere a considerare non le forme di energia, ma quelle della potenza secondo la formula che segue. Se definiamo MR come potenza metabolica (metabolic rate), energia prodotta nell'unità di tempo dall'organismo e BMR come potenza metabolica basale, energia per unità di tempo necessaria a mantenere le funzioni basali ( ... vale mediamente 75 Watt. per una persona di 70 kg. , con un fabbisogno medio giornaliero di 1550 kcal. , 1 cal=4,18 Joule ... ) per tenere la temperatura a W Q W , essendo: BMR=Q 37 ° C. , avremo: MR=BMR = diss diss . T L'effetto di termoregolazione viene regolato dai cosiddetti centri termoregolatori, collocati in corrispondenza dell'ipotalamo. La continua rilevazione della temperatura dell'ambiente esterno permette di attuare tutte quelle forme di adattamento efficace orientate al mantenimento della temperatura vitale: due tra queste sono la vasocostrizione, con una riduzione del flusso sanguigno alle zone superficiali in condizioni di ambiente esterno freddo per ridurre al minimo lo scambio di calore con l'esterno, e la vasodilatazione, con aumento di flusso alle zone citate con ambiente esterno caldo quandolo scambio di calore può restare limitato; brividi e sudore, rispettivamente, sono ulteriori meccanismi di protezione nei due casi. FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 35 di 51 (3) ELETTRICITA' Il nostro corpo è sistematicamente percorso da impulsi elettrici di cui noi non abbiamo alcuna sensazione: il cuore funzione grazie ad una regolare sollecitazione elettrica, le fibre nervose sono da considerare delle vere e proprie strade di canalizzazione elettrica, controllate da un gestore straordinariamente organizzato qual è il cervello. Studiare la fenomenologia elettrica è importante al fine di riuscire a ricostruire un quadro di funzionamento organico. La nostra visione sarà necessariamente sintetica. Nella materia sono presenti due tipi di cariche, definite per semplicità positive e negative, in forma multipla delle cariche elementari, l'elettrone e il protone. Ciascun corpo/sostanza può essere classificata a seconda della capacità che ha di avere cariche libere, legate oppure in grado di essere liberate: in ultima analisi tutto è riconducibile ad atomi/molecole legati (sostanze solide/liquide) o slegati (gas/vapori); all'interno degli atomi, attorno a nuclei dove si concentrano le cariche positive e neutre (protoni e neutroni) si possono trovare gli elettroni carichi negativamente: le cariche sono slegate e lo possono essere ulteriormente, ma in ogni caso l'equilibrio numerico tra cariche positive e negative assicura la micro- e macro-neutralità della materia. Ma, mentre liberare ed utilizzare i protoni richiede una quantità di energia esagerata, per liberare gli elettroni e sbilanciare l'equilibrio elettrico delle sostanze ci vuole una quantità di energia ridotta, quale quella che si può mettere a disposizione con una semplice azione di strofinamento con un panno, ad esempio. Creare ioni non è agli effetti granché impegnativo. In una classificazione grossolana, la proprietà di mettere a disposizione cariche libere senza sollecitazioni energetiche esterne viene detta conducibilità (i metalli: rame, argento, platino,...) e in sua assenza si dice che il materiale è isolante (materie plastiche, vetro, ...). Esiste anche una fascia di materiali, considerati avere solo parte di ciascuna delle due caratteristiche, detti semiconduttori (germanio e silicio tra tutti). Molte sono le fenomenologie caratteristiche che permettono di dare una valutazione più completa e chiarificante delle proprietà elettriche della materia, prime tra tutte l'induzione e la polarizzazione elettrica. La prima fa capire che cosa succede ad un metallo conduttore quando gli avvicina un oggetto già carico (bastoncino di plexiglas strofinato, ad esempio): in esso le cariche libere del segno opposto a quello presente sull'oggetto carico (già elettrizzato si dice) si muovono verso il bordo più vicino alla fonte di attrazione, a questo punto; quelle dello stesso segno si allontanano invece; si può addirittura troncare il metallo e avere poi a disposizione due pezzi con elettrizzazione opposta. Nella seconda invece la sollecitazione dell'oggetto carico non produce un effetto di mobilitazione di carica, dato che non ci sono cariche libere, ma induce un allungamento della molecola e una ricollocazione spaziale delle cariche interne alla molecola, sempre nel rispetto della tendenza delle cariche ad attrarsi se di segno opposto e di respingersi se di segno uguale. FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 36 di 51 Le due figure illustrano tali processi, inizialmente dinamici che poi si assestano definitivamente ad una posizione di equilibrio. In ogni caso si può considerare che l'interazione elettrica elementare riguarda due cariche e può essere di tipo attrattivo (cariche opposte) o di tipo repulsivo (cariche opposte). Nelle sue forme più elaborate diventa interazione tra gruppi di cariche di un segno o dell'altro o di entrambi. La legge di Coulomb traduce l'effetto di interazione tra coppie di cariche: k⋅q⋅Q 1 q⋅Q f= = ⋅ 2 , rinunciando alla notazione vettoriale. 2 4⋅⋅o d d In essa viene chiarito che la forza repulsiva o attrattiva che interviene è, in modulo, direttamente proporzionale all'ammontare delle due cariche che interagiscono e inversamente proporzionale al quadrato della distanza che intercorre tra le stesse; ciò significa che all'aumentare della distanza delle due cariche diminuisce in modo sensibilmente consistente l'azione della forza elettrica, senza però mai annullarsi. Nel Sistema Internazionale l'unità di misura della carica elettrica è proprio il Coulomb ( C. ), 2 9 N.⋅m. mentre invece il valore della costanti presenti nelle due versioni della legge è: k =9⋅10 e 2 C. C.2 o=8,85⋅10−12 , detta costante dielettrica del vuoto. N.⋅m. 2 Se si considera che la forza attrattiva/repulsiva esiste anche senza che ci sia una carica pronta a subirla, si arriva la concetto di campo. Il campo elettrico è la descrizione di una forza virtuale ed è f descritto dalla formula: e in termini di modulo: E = elettrica q f E= elettrica , con la sua unità di misura N./C. . Dall'espressione che q k⋅q⋅Q k⋅Q = 2 , q⋅d 2 d che ha stessa tendenza a diminuire man mano che ci si allontana dalla carica Q che diventa la sorgente del campo. Una descrizione invece dell'andamento della direzione del campo elettrico creato da due cariche sorgente la si può veder riportata nella figura. Il concetto di campo è molto profondo: mostra quale sia l'azione in modo astratto e è in grado di spiegare la possibilità di ottenere azioni elettriche quasi contemporanee a distanza relativamente brevi. Un volta che si porti in un certo punto una carica sorgente, si potrà concordare sul fatto che nella zona che circonda il punto sarà a disposizione dell'energia fruibile, detta energia elettrica: per metterlo in evidenza è sufficiente pensar che ogni particella carica inserita si metterà in moto e guadagnerà immediatamente energia cinetica sotto l'azione della forza repulsiva/attrattiva presente. Ad ogni zona di campo elettrico è associata una densità di energia (energia per unità di E volume) del tipo W E= E = 1⋅o⋅E 2 . V 2 Per quantificare anche formalmente tale energia si può determinare il lavoro fatto dalla forza elettrica secondo le: k⋅q⋅Q k⋅q⋅Q k⋅q⋅Q k⋅q⋅Q − U = L= f ⋅ s= ⋅ d f −d i= ⋅d f −d i = − 2 d ⋅d di df d i f k⋅q⋅Q − U =U i −U f U = ; d da questa serie di calcoli oltre alla determinazione del lavoro compiuto per spostare una carica q da un punto posto a distanza d i ad un punto posto a distanza d f dalla sorgente, si abbiamo introdotto sopra si potrà affermare che in questo caso particolare: FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 E= pag. 37 di 51 può recuperare, come nel caso della forza gravitazionale, anch'essa conservativa, la forma dell'energia potenziale elettrica , presente nell'espressione finale. In questa si esprime il contenuto energetico di una carica q per il solo fatto di trovarsi all'interno del campo creato da una carica sorgente Q . Questa grandezza, come prima il campo, è di competenza del punto fisico e da essa si può ricavare il U k⋅Q 1 J. potenziale elettrico: V = = . La sua unità di misura è arcinota ed è il Volt 1V.= . q d 1C. E' associata indissolubilmente alla presenza del campo e, nonostante la sua scarsa immediatezza, ha un potere descrittivo notevole e permette di capire, tra le altre cose se e come una carica si possa muovere in presenza di campo. Il lavoro fatto per calcolare ESERCIZIO “Un carica elettrica Q=10−5 C. viene avvicinata ad una carica sorgente di uguali caratteristiche, facendola passare, sempre in modo che sia priva di velocità, da una distanza d i=10 cm. ad una d f =1 cm. . Quanto lavoro deve essere fatto dall'esterno e di quanto varia la sua energia elettrica potenziale?” La sua energia iniziale è solo potenziale elettrica visto che la carica è ferma e vale: k⋅Q⋅Q 9⋅109⋅10−52 = =9⋅100 J.=9 J. ; −1 di 10 k⋅Q⋅Q 9⋅109⋅10−5 2 = =9⋅101 J.=90 J. . alla fine, invece, U f = −2 df 10 U i= La sua U è dunque aumentata e il lavoro fatto è negativo. Infatti: L=−U f −U i =−90−9=−81 J. Chiarendo i riferimenti la carica elettrica è stata fatta passare da un punto a potenziale: V i= Ui 9 = −5 =9⋅105 V. ad uno dove: Q 10 Vf= Uf 90 = −5 =9⋅106 V. . Q 10 Per chiarire e sostenere quest'ultima valutazione, ritorniamo ai materiali conduttori: essi hanno cariche libere (elettroni con carica negativa) di muoversi in misura abbondante; se ne possono contare a temperatura ambiente circa 1,5 per atomo e ciò significa circa 1024 cariche libere per mole (pari ad una massa di 56 g. per il ferro). Questi elettroni sono normalmente agitati, causa la temperatura ma se su di loro esercita un influsso una forza esterna, nel nostro caso un campo elettrico, allora fanno sovrapporre un moto ordinato ad uno casuale e si può dire che mediamente prendono una direzione ben precisa: la figura illustra ben questo stato di case, evidenziando un moto di elettroni ( e ) non rettilineo ma che procede all'interno del cilindro con poca regolarità da sinistra verso destra con velocità “media”, detta di deriva vd nel medesimo verso. Si noti che in alto è riportato l'andamento del campo elettrico E . Il cilindro rappresenta un conduttore (un pezzo di filo di rame) e il movimento medio è la cosiddetta corrente elettrica o intensità di corrente i ; per affermare che il movimento della carica è assicurato da una forza (campo) elettrico, si può dire che ai capi del conduttore è presente una differenza di potenziale V , come succede con le nostre prese: le spine che permettono il collegamento sono, o meglio dire erano, dotate di due elettrodi e questi, collegati alla presa dell'impianto elettrico, garantiscono la FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 38 di 51 circolazione della corrente all'interno del piccolo elettrodomestico eventualmente collegato. La differenza di potenziale che hanno a disposizione ammonta a 220 V. . q La definizione di corrente è la seguente: i= con q che rappresenta la quantità di t carica che transita attraverso la sezione del conduttore nell'intervallo di tempo t ; la sua unità di misura, come si ricorderà è l'Ampere (A.), unità di misura fondamentale. Il passaggio di corrente nel filo garantisce afflusso continua di energia, che viene anche dissipata sotto forma di calore da parte del filo verso l'esterno, noto come effetto Joule. Tale energia è essenzialmente l'energia cinetica che la forza elettrica trasferisce continuamente alle cariche in moto. Il movimento prodotto è in ogni caso irto di ostacoli: l'elettrone si muove infatti vicino ad altri elettroni e in presenza delle cariche positive ferme che costituiscono l'ossatura di un materiale solido qual è un conduttore. La problematicità del movimento e la possibile dissipazione di energia viene qualificata dalla grandezza resistenza R per V i= mezzo della legge di Ohm: , ovvero l'intensità di corrente è data dal rapporto tra la R differenza di potenziale ai capi del conduttore e la resistenza offerta dallo stesso. L'unità di misura 1V. della R nel Sistema Internazionale è data dall'Ohm, che viene simboleggiato da: 1= . 1 A. La legge di Ohm può essere letta in questo modo: la differenza di potenziale V è la causa della corrente i , che ne è l'effetto; la resistenza R è una quantificazione che la sostanza oppone al passaggio della carica: a parità di sollecitazione in tensione, bassa resistenza significa passaggio di corrente intensa, mentre alta implica corrente ridotta. La delicatezza del nostro organismo alle sollecitazioni elettriche è proprio motivata da una una sua bassa resistenza. La resistenza è caratteristica del materiale, ma dipende anche dalle condizioni geometriche e ambientali in cui si trova: ⋅l R= di che è direttamente proporzionale alla lunghezza l e inversamente S proporzionale alla sezione S del filo/conduttore, con la costante di proporzionalità che è , resistività tipica del materiale; =o⋅1⋅ T =o⋅1⋅T −T o dice invece che la resistività del materiale è direttamente proporzionale alla temperatura; o è la resistività alla temperatura T o . Nell'effetto Joule citato nelle righe precedenti, la potenza dissipata è funzione della corrente e Q 2 e della resistenza secondo la: P= = R⋅i = R⋅i⋅i= V⋅i : tanta più corrente passa, tanto più, t in presenza di resistenza, se ne va sotto forma di calore. ESERCIZIO “Quanta corrente passa in una una lampadina da 100 Watt , ipotizzando che sia alimentata da una tensione continua, e quanto consuma se viene dimenticata accesa per un mese?” La lampadina è alimentata ad una differenza di potenziale pari a V =220 V. ; allora la corrente che vi passa varrà: i= P 100 Watt = ≈0,45 A. . V 220 V. Per il consumo invece bisognerà calcolare l'energia dissipata, con il tempo espresso in secondi: E=P⋅ t=100⋅30⋅24⋅3600=2,592⋅108 J. . In bolletta invece si fa il calcolo con i kiloWatt −ora , che corrispondono al consumo di una oggetto con P=1 kWatt che resti acceso per 1 h.=3600 s. ; sarà allora: 6 1 kWatt −ora=1000Watt⋅3600 s.=3,6⋅10 Joule , e la nostra lampadina consumerà in un mese: N kWora= 2,592⋅108 =72 . 3,6⋅106 FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 39 di 51 Lo studio dell'elettricità è stato orientato a comprendere l'azione tra cariche e il moto delle stesse al fine di, oltre a ricostruire il comportamento della materia, capire anche come trasportare ed utilizzare l'energia associata. I circuiti elettrici vengono costruiti con molteplici scopi: controllare e gestire meccanismi e movimenti, veicolare energia per ottenere illuminazione e funzionamenti di strumenti delicati quali quelli elettronici e quelli medici, ecc. . Nella prima figura, a destra, ne compare uno piuttosto complicato. Nella seconda, a sinistra, invece uno abbastanza semplice da poter essere interpretato. La resistenza vi è ben individuata simbolicamente; è presente anche un generatore (il settore multi-linee sulla sinistra), che per noi potrebbe essere una batteria, e un altro elemento classico del circuito, un condensatore. Questo circuito funziona così: quando si collega l'interruttore in alto (... si porta la levetta obliqua in posizione orizzontale), il circuito si chiude e possono circolare le cariche, che sono azionate da una differenza di potenziale di qualche Volt fornita dalla batteria. Queste affluiscono sul condensatore fino a saturarlo: al termine del processo le due “armature” del condensatore avranno ricevuto così tante cariche da trovarsi alla stessa differenza di potenziale della batteria: avranno capitalizzato l'energia trasportata e ne saranno diventato una sorta di magazzino. Quando l'interruttore verrà messo in posizione verticale, questa energia elettrica immagazzinata riscorrerà nel circuito e in particolare transiterà attraverso la resistenza: se pensiamo che in circuito la resistenza è rappresentativa dell'utilizzatore (... piccolo elettrodomestico come il phon), potremo capire come l'energia sia stata messa da parte nel condensatore per essere successivamente utilizzata. La grandezza tipica di questa componente elettronica, il Q condensatore, è la capacità C: C= , data dal rapporto tra la V carica che si accumula su ciascuna della piastre e la differenza di potenziale tra le stesse due. Nel caso in cui il condensatore sia piano, ⋅A come quello in figura la capacità si riduce a: C= o . d Le proprietà di questo elemento aiutano anche a capire un fenomeno piuttosto conosciuto: in una giornata ventosa, se ci troviamo dotati di scarpe con suole di gomma vicino ad una auto e portiamo la mano verso la maniglia metallica, ad una data distanza ci possiamo beccare una piccola scarica. Cos'è successo ? L'aria ha strisciato per qualche tempo la carrozzeria dell'auto, caricandola; avvicinandosi, senza permettere alle cariche, magari opposte in segno, che sono sul nostro organismo di scaricarsi per le suole isolanti, facciamo maturare una sensibile differenza di potenziale con l'auto e il possibile sviluppo di una scarica in aria. FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 40 di 51 LA PROPAGAZIONE DI SEGNALI ELETTRICI NEI TESSUTI NERVOSI Riprendiamo la questione relativa al processo osmotico. Se due soluzioni globalmente neutre dal punto di vista elettrico, [ K ] e [Cl ]− sono a concentrazione contenenti ioni diversa, vengono poste a contatto e mantenute separate da una membrana permeabile solo agli ioni [ K ] , attraverso questa avverrà una diffusione dalla più concentrata alla meno concentrata e di svilupperà una differenza di potenziale elettrico V tra le due, grazie alla maggior presenza di ioni positivi nella soluzione meno concentrata all’inizio. Tale differenza di potenziale tenderà ad equilibrare con una propria forza elettrica il disavanzo di concentrazione che tende a far diffondere gli ioni potassio, portando il sistema ad una situazione di equilibrio dinamico. La differenza di potenziale che si instaura in tali condizioni è detta potenziale di equilibrio di Nernst ed è c k⋅T ⋅log 10 1 ; espressa dalla formula: V =V 1−V 2=±2,3⋅ e c2 tale situazione si ritrova tra parte interna ed esterna delle cellule e la membrana separatrice è rappresentativa della membrana cellulare. La situazione all’interno del l'organismo prevede che alla temperatura: t=37 ° C. T =27337=310 K. , con la costante: k =1,38⋅10−23 J./ K. e con la carica dell’elettrone: e=1,6⋅10−19 C. , la formula presenti il seguente calcolo: c V =V 1−V 2=61,4 mV.⋅log 10 1 c2 Se si prende in considerazione il caso particolare delle cellule nervose la concentrazione di [ K ] nel fluido intracellulare vale c 1=0,141 mol. /l. , mentre quella nel fluido extracellulare vale c 2=0,005 mol./l. Con questi dati la differenza di potenziale all'equilibrio è: 0.141 ∆ V = V1 − V2 = − (61.4 mV .) ⋅ log = − 61.4mV . ⋅ 1.45 = − 89.2mV . 0.005 Alla luce di questi calcoli preliminari, la questione che ci interessa più da vicino è quella relativa alla trasmissione di un impulso nervoso lungo un assone che collega due cellule nervose, come illustrato in figura. All’interno dell’assone la differenza di potenziale all'equilibrio per le cellule è all'incirca quella calcolata e cioè –85mV. . FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 41 di 51 Per simulare la struttura di un assone schematizziamo una forma cilindrica come in figura. Lungo tale cilindro si propagherà l’impulso che è a tutti gli effetti un segnale elettrico: quando l’assone viene stimolato in corrispondenza del punto A, la sua membrana cellulare diventa temporaneamente permeabile anche agli ioni [ Na] , presenti anch’essi nei due fluidi intra- ed extra-cellulari, che diffondono in un intervallo ampio t=0,2 ms. e neutralizzano la carica negativa all’interno della cellula, inizialmente ricca di carica negativa, portando ad un capovolgimento della differenza di potenziale, come evidenziato nella figura rappresentativa del potenziale d’azione, nella quale è chiaro l'impulso con segno di positivo. Lo sviluppo dell’impulso del potenziale d’azione lungo l’assone avviene poi automaticamente grazie al richiamo delle cariche di segno opposto dalle zone vicine. Dopo il brevissimo tempo di sviluppo di tale potenziale viene invece a ricadere immediatamente la permeabilità agli ioni sodio, interrompendo immediatamente la produzione del segnale. Il nostro organismo può essere trattato alla stregua di una soluzione salina e il passaggio di corrente elettrica che lo attraversa, favorito dagli elettroliti disciolti e da valori di bassa resistenza elettrica organica, presenta dei rischi anche seri, coerentemente coi valori crescenti dell'intensità dello stimolo: la tabella a fianco segnale i gradi di rischio: si rischia la fibrillazione cardiaca sui 75 mA. e addirittura l'arresto cardiaco ad 1 A. . Si ricordi l'amperaggio delle batterie delle nostre auto: quella di un motore alimentato a gasolio può arrivare a 10−15 A. , con tutti i rischi che ne conseguono. Il livello di pericolosità si mantiene anche per correnti impulsive, che si sviluppano cioè in intervalli brevissimi ( meno di 10 ms. ). Si faccia comunque riferimento al fatto che per raggiungere alti amperaggi, pericolosi per l'integrità fisica, sono necessari fonti energetiche notevoli: in altri termini la corrente elevata si può raggiungere in condizioni di sorgente energetica consistente. FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 42 di 51 (1) CENNI DI MAGNETISMO Il fenomeno magnetismo è fortemente legato a quello elettrico: non a caso tra le forza fondamentali viene citata quella elettromagnetica e non solo elettrica né magnetica. Tra i molti approcci possibili scegliamo quello che afferma fin da subito la sorgente del campo magnetico, anche nei suoi aspetti più particolari, è la corrente elettrica. Affermare che in una zona dello spazio è presente un campo magnetico significa essenzialmente dire che un oggetto sensibile, l'aghetto magnetico, risente della sua azione. Sappiamo tutti che la bussola non è altro che una scatolina che rileva il campo magnetico terrestre per mezzo dell'aghetto magnetico molto sensibile al movimento che contiene: questo significa che a livello della superficie terrestre siamo immersi nella zona di influenza di un campo magnetico. Il concetto di campo permette di descrivere l'azione a distanza che si manifesta per la presenza di una certa sorgente da qualche parte. Dalla figura si può evidenziare che il polo nord della calamita schematizzata attrae il polo sud dell'ago e il polo sud il nord dell'ago: anche nel caso dell'interazione magnetica sono presenti fenomeni di attrazione/repulsione. Più difficile è certamente spiegare coma una calamita, che è anch'essa in grado di orientare aghetti magnetici e quindi costituisce la sorgente di un campo magnetico, sia in grado di attrarre una moneta di ferro nonostante questa non sia chiaramente un aghetto magnetico: sembra misterioso: cariche con cariche, masse con masse, ma magneti con non-magneti non sembra così facile da capire. Tutto può esser condotto alle correnti, anche se dopo una serie di valutazioni approfondite. Resta anche da elaborare la differenza che sussiste tra campo elettrico e magnetico, visto che in molti continuano a scambiare i due: se si chiede infatti ad una persona comune di citare un esempio di interazione elettrica, il risultato più frequente è quello di sentirsi citare l'attrazione/repulsione di due magneti. Vediamo le differenze da ricordare: (a) la carica elettrica è fisicamente separabile (elettroni e protoni possono essere separati dalla materia), mentre i monopoli magnetici (polo nord e sud) non possono essere isolati, appaiono e scompaiono sempre insieme; nell'esempio più classico si immagina di suddividere un magnete in pezzi sempre più piccoli, fino all'inverosimile, ottenendo sempre nuovi magneti con la coppia polare nord-sud; (b) la forza elettrica (elettrostatica) è conservativa e cioè permette la restituzione dell'energia eventualmente accumulata, mentre quella magnetica (magnetostatica) non permette l'accumulazione di energia; (c) la forza elettrica descrive interazione tra cariche, mentre quella magnetica tra magneti e/o correnti. La complicata legge che descrive la creazione di un campo magnetico da parte di un o⋅i ⋅ds∧r , molto dB= “elemento” di corrente è quella di Biot-Savart: 4⋅ r 2 difficile da spiegare, ma che nella sostanza possiamo semplificare dicendo che è in essa possiamo riconoscere che il contributo di campo magnetico dB direttamente proporzionale alla corrente i che lo crea e alla lunghezza ds del tratto di conduttore che la sostiene, mentre è inversamente proporzionale al quadrato della distanza r che separa il conduttore dal punto dove è stato creato il campo. L'elaborato legame vettoriale che viene descritto chiarisce che il campo si dispone perpendicolarmente alla retta che FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 43 di 51 contiene il conduttore, come si può vedere in figura: all'interno di essa le linee rosse, che vengono definite linee di campo, mostrano l'andamento del campo magnetico. Uno dei fenomeni che fornisce una parziale presentazione del modo di agire di B è l'azione corrente descritta dalla legge di Ampere e riportata qui a fianco. La legge che sostiene tale interazione mediata dal campo magnetico o ⋅I ⋅I ⋅L , dove le creato da ciascuna delle due correnti è questa: f = 2⋅⋅r 1 2 grandezze sono quasi tutte riportate in figura ad eccetto della costante: −6 T.⋅m. e della L , lunghezza dei tratti di conduttore coinvolti o=1,26⋅10 ⋅ A. nell'interazione. Così come nel caso elettrico anche ora nella zona in cui si creerà un campo magnetico B E M 1 B2 sarà ivi presente una densità volumetrica di energia W M = . = ⋅ V 2 o L'attrazione della moneta da parte del magnete è l'altra questione di una certa importanza poiché permette di entrare all'interno della strutturazione della materia e far intuire quali sono gli oggetti base per interpretare questa tipologia di interazione. Pensiamo proprio ad un pezzetto di ferro: al suo interno è costituito come tutta la materia da atomi percorsi continuamente da correnti elettroniche, dato che gli elettroni si muovono a velocità piuttosto alte attorno al nucleo positivo. Nello studio delle proprietà magnetiche alla presenza della corrente si può far corrispondere la presenza di un aghetto magnetico , definito tecnicamente momento di dipolo magnetico. Ad ogni atomo del ferro si può associare tale presenza. La cosa curiosa è che, a temperatura ambiente, i vettori momento di dipolo magnetico hanno un orientamento condiviso a livello di piccoli domini (qualche centesimo di mm. nelle dimensioni) ma ciascuno casuale nello spazio tridimensionale e con la regola di somma vettoriale tutti insieme danno un risultato mediamente nullo, per cui il pezzo di ferro (... la moneta) non è magnetizzato. Quando dall'esterno viene fatto agire un magnete, la calamita ad esempio, allora tutti i domini sentono l'influsso e si orientano comunemente lungo la direzione del campo esterno, contribuendo ad una somma vettoriale sostanziosa, divento anch'essi magnetini e facendosi dunque attrarre dal magnete. esercita un'azione, sono per Le correnti, sulle quali il campo B definizione delle cariche in moto; da questo si può cominciare a riconoscere la comunanza di azione col campo elettrico E ; sarebbe anzi meglio parlare di interazione visto che dalle equazioni di Maxwell, che riassumono le relazioni tra i due campi, si può dedurre che la variazione B nel tempo di causa B e cioè una grandezza legata a t l'insorgere di un campo E e, a sua volta, la variazione nel tempo dello stesso tipo di grandezza E B con una sorta di effetto a riferita però a , produce un nuovo E , anch'essa legata a t FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 44 di 51 catena che si manifesta con la nascita e la propagazione di un'onda elettromagnetica (EM); la figura ne evidenzia la struttura proprio in termini di composizione dei due campi. In ogni zona dello spazio invasa da onde EM sarà presente una energia legata sia al campo elettrico E che a quello magnetico B che la compongono coerente con quelle che abbiamo già visto in E 1 B2 precedenza: W EM = EM = ⋅[o⋅E 2 ] . o V 2 Nello schema soprastante vengono riportate le caratteristiche in frequenza e lunghezza d'onda delle principali tipologie di onde EM; qui bisogna ricordare che tutte le tipologie viaggiano alla stessa velocità, quella della luce f c=3⋅108 m./ s. , e che l'energia associata è direttamente proporzionale alla frequenza −34 dell'onda secondo la legge: E=h⋅ f con h=6,63⋅10 J.⋅s. costante di Planck; osservando la tabella si può trarre la conclusione tanto più si va verso sinistra tanto più le onde sono energetiche e di ciò dobbiamo tenerne conto nell'interazione con il corpo umano. Molte attenzioni vengono infatti tenute negli ambienti sanitari per evitare eccessi di esposizioni a raggi x, mentre di raggi γ neanche si parla a causa della loro profonda capacità di incidere sul patrimonio genetico umano. Nelle prossime pagine li vedremo inseriti all'interno del gruppo delle radiazioni da evitare. (1) CENNI SULLE RADIAZIONI Il modello di riferimento per l’atomo è quello di Bohr: in esso la descrizione del sistema atomico considera che nel nucleo, caricato positivamente, siano presenti i nucleoni (protoni o neutroni) e all’esterno, all’interno degli orbitali, trovino posto gli elettroni, i quali sono numerosi quanto i protoni del nucleo (Z , numero atomico, è il numero che rappresenta la loro quantità); la numerosità nel nucleo viene riassunta invece dal numero A, detto numero di massa e dato dalla somma del numero di protoni e dal numero di neutroni (A=Z+N). o Le dimensioni dell’atomo di idrogeno sono le seguenti: Ratomico ≅ 0.52 A = 0.52 x10− 10 m. Rnucleo ≅ 1 fermi = 10− 15 m. Per gli altri atomi le dimensioni dei nuclei rispettano approssimativamente la seguente R = Ro ⋅ A1/ 3 , con Ro ≅ 1.2 fermi . formula: Gli elettroni, all’interno del modello di Bohr semplificato, si trovano collocati su un’orbita identificabile grazie ad un numero quantico n, detto numero quantico principale, che ne identifica energia, distanza dal nucleo e velocità; nel modello completo di Bohr vengono introdotti altri numeri quantici (l numero quantico orbitale, m numero quantico magnetico e s numero quantico di spin) per descrivere in modo più dettagliato il modello atomico; questi però non risultano essenziali ai fini della nostra descrizione. Possiamo pensare agli elettroni come collocati in una serie di gradini energetici, che tendono ad occupare partendo dal basso, dai valori più ridotti di energia: la coppia di elettroni dell’elio si colloca, in assenza di sollecitazioni dall’esterno, ai livelli più profondi, con distanza dal nucleo il più ridotta possibile e i valori di energia totale il più negativi possibile: ricordiamo che il segno meno dell’energia deriva dal fatto che nell’energia totale, somma delle energie cinetiche e potenziali FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 45 di 51 elettriche, domina il termine di energia potenziale elettrica, che segna l’imprigionamento dell’elettrone all’interno dell’atomo. Se sollecitati dall’esterno per mezzo di somministrazioni di energia (termica, luminosa, etc.) gli elettroni possono saltare verso orbite più esterne, uscendo addirittura dall’atomo; il ritorno alle orbite di pertinenza produce l’emissione verso l’esterno dell’energia eccedente, sotto forma elettromagnetica. Quale modello semplificato per il nucleo utilizziamo proprio quello di Bohr per l’atomo: protoni e neutroni si collocano all’interno del nucleo su livelli diversi di energia, quantizzati grazie ad altri specifici numeri quantici; le particelle subnucleari potranno dunque cambiare anche collocazione all’interno delle orbite permesse; se sottoposti a sollecitazioni energetiche. Anche i nucleoni diseccitati emetteranno energia verso l’esterno (raggi γ ). Si tratta di un modello molto grossolano, che permette di spiegare solo pochi fenomeni, e che andrebbe integrato; la questione più importante non interpretabile con questo modello è rappresentata dalla mutua repulsione che si sviluppa tra protoni e che dovrebbe far disgregare il nucleo. Se la stabilità interna viene compromessa, allora il nucleo reagisce puntando a nuovi livelli di stabilità e nel farlo può eliminare energia o, addirittura, dei pezzi, diventando radioattivo. L’energia di legame spiega bene come si strutturi il nucleo al suo interno: per introdurla è fondamentale ricordare per analogia quello che succede con i gas: un campione di ossigeno allo stato gassoso è organizzato in molecole biatomiche ( O2 ); ciò avviene perché, da un punto di vista energetico, lo stato biatomico è più conveniente e cioè l’energia del sistema EO2 si colloca ad un livello inferiore di quello della somma delle singole energie dei due atomi separati ( ∑ Eo ). All’interno del nucleo avviene la stessa cosa: i nucleoni si raggruppano abbassando l’energia di sistema rispetto alle somme di energia dei singoli componenti; la grandezza che descrive questa proprietà è proprio l’energia di legame, definita come: Q = ∆ m ⋅ c 2 , quantificata, a meno della costante c 2 , come differenza di massa ottenuta nel passare dal sistema a molti nucleoni al sistema nucleo. Più conveniente come grandezza è l’energia di Q legame per nucleone definita come: Elegame per nucleone = ; interessante è osservare il grafico di tale A grandezza al variare del numero di massa: la gobba nella parte iniziale illustra come l’energia di legame cresca fino al ferro e poi cominci a decrescere con i materiali più pesanti; ciò spiega come la fusione, e cioè quel procedimento che mette insieme nuclei più leggeri per ottenerne uno di più pesante, sia conveniente energeticamente (liberi energia) fino al ferro; oltre al ferro lo stesso tipo di convenienza si ha nella disgregazione dei nuclei, nel passare da nuclei più pesanti a nuclei più leggeri e cioè con la fissione. La stabilità del nucleo è garantita, statisticamente parlando, dalla tendenza ad avere in egual numero protoni e neutroni, per valori di Z medio-bassi e una leggera prevalenza di neutroni ad alti Z. Molto chiara al riguardo è la figura qui a fianco, nella quale viene anche riportata la retta dove Z e N si eguagliano: in essa trovano posto, nella parte interna, tutti quelli che vengono considerati nuclidi stabili e in quella esterna quelli radioattivi. In ogni caso tutti si collocano dalla parte del piano dove FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 46 di 51 sono prevalenti i neutroni (N). La tendenza dei neutroni è dunque quella di schermare la repulsione elettrica tra protoni che tende a crescere con Z. Nei nuclei (nuclidi) radioattivi viene a mancare l’equilibrio, che tende ad essere ristabilito con l’emissione di particelle (decadimento α , β ± ) o con l’emissione di onde elettromagnetiche dure, ad alta energia (decadimento γ ). Le tipologie di emissioni radioattive sono dunque di tre tipi, che andiamo ad analizzare nello specifico. Decadimento α: è l’emissione da parte di un nuclide di un nucleo di elio ( HeAZ== 42 + + ): si tratta dunque di una particella carica pesante che viene emessa ed è il segnale di un massiccio rimescolamento nucleare; decadimento β ± : è l’emissione di particelle cariche leggere (elettroni e positroni, fratelli degli elettroni con la loro stessa massa, ma carica opposta) e sono il segnale di una risistemazione parziale all’interno del nucleo emettitore, secondo le reazioni standard: p → n + e+ + υ e ; n → p + e− + υ e in tali reazioni la particella di sinistra rappresenta lo stato iniziale all’interno del nucleo e la parte destra il prodotto del decadimento, che consiste nella trasformazione di un nucleone in un nucleone diverso e la corrispondente emissione di altre due particelle (elettrone o positrone, neutrino o antineutrino elettronico); si noti come in entrambe le reazioni nel passare dallo stato iniziale a quello finale, si conserva la carica elettrica; decadimento γ: è l’emissione di fotoni detti duri per la loro alta energia (alta frequenza e bassa lunghezza d’onda); il motivo di tale emissione non va ricercato come nei casi precedenti nella trasformazione di una particella in un’altra, ma nella ricollocazione di un nucleone da un livello energetico ad un altro, più basso. Esempi dei primi due tipi di decadimenti possono essere proposti nei seguenti casi: radioattività α : emissione di He ++ 2n+2p ; esempio: _ radioattività β − : n → p + e − + ν ; esempio: 146 C → radioattività β + : p → n + e + + ν ; esempio: 137 N → FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 U→ 238 92 14 7 Th + 24 He 234 90 _ N + e− + ν C + e+ + ν 13 6 pag. 47 di 51 La legge di decadimento radioattivo prevede che la quantità di radiazioni emesse sia direttamente proporzionale al numero di nuclidi presenti nel campione secondo una costante λ , tipica del materiale che si sta considerando, che può essere tradotta anche nel seguente modo: ∆N ∆N − = λ N , la diminuzione nel tempo ( − ) è direttamente proporzionale al numero di ∆t ∆t nuclidi presenti (N). L’elaborazione matematica di tale legge porta ad una relazione del tipo: N = N o ⋅ e − λ ⋅ t , con N o a rappresentare il numero iniziale di nuclidi che è la legge esponenziale del decadimento radioattivo; secondo questa relazione il numero di nuclidi N diminuisce con legge esponenziale, e cioè con una velocità consistente, caratterizzata da un indicatore tradizionale, il tempo di dimezzamento o emivita τ , considerato come il tempo nel quale il numero di nuclidi si dimezza, che si ricava dalla relazione sopra secondo le: Il numero di emissioni per secondo viene caratterizzato da quelle particolari unità di misura che sono il Becquerel e il Curie, dal nome dei corrispondenti fisici francesi: 1 becquerel = 1 Bq. = 1 decadimento / sec. 1 curie = 1 Ci = 3.7 x1010 Bq. Il numero di emissioni al secondo costituisce quella che viene detta l’ attività del campione, della sostanza radioattiva e dipende solo da essa. Esempi di tale tempi di dimezzamento sono i seguenti: elemento Potassio K 40 Iodio I 131 emivita 1.25 x109 anni 8.04giorni Uranio U 238 Uranio U 228 4.5 x109 anni 9.1min . Nel grafico qui a fianco viene evidenziato lo sviluppo dei decadimenti per la famiglia dell’uranio ( U ); si parla di famiglia perché il primo degli atomi è il capostipite, mentre quelli che seguono sono i figli, poi i nipoti, i pronipoti, etc. In ascissa e ordinata sono riportati rispettivamente Z e A; lungo le diagonali avvengono i decadimenti α e lungo i segmenti orizzontali i decadimenti β − , dato che avvengono tutti da sinistra verso destra e quindi c’è un neutrone che si trasforma in protone. 238 Tutte le radiazioni producono degli effetti al contatto con il nostro organismo, che possono essere più o meno accentuati: in ogni caso avviene una interazione di tipo energetico, con rimaneggiamento o distruzione delle particelle incidenti e modificazione di proprietà del/i tessuto/i che viene colpito. Si possono dare delle indicazioni di primo livello, evidenziando che le particelle α saranno poco penetranti, ma molto incisive al contatto a causa della loro massa elevata e carica elettrica; le particelle β saranno poco incisive al contatto e abbastanza penetranti per la loro massa ridotta, ma anche portate all’interazione per la carica elettrica; le particelle γ invece, prive di carica e di massa, ma molto energetiche potranno penetrare in modo più accentuato; nella sostanza, ciascuna di queste particelle interagisce proporzionalmente all’energia di cui è dotata e produce scambi energetici col corpo che attraversa, inducendo fenomeni potenzialmente pericolosi. Molto dipende da come viene FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 48 di 51 scambiata energia, se viene rilasciata gradualmente oppure tutta in un colpo: i raggi γ possono cedere energia in modo anche subitaneo, raramente, e possono produrre danni cellulari o intracellulari anche consistenti. Più generalmente ciascuna di queste radiazioni penetrano nell’organismo interessando zone via via più interne e producendo ionizzazioni successive (creazione di coppie ione positivo - ione negativo, con questo secondo che va pensato come elettrone): tali ioni, prodotti in modi diversi a seconda che si tratti di particelle grosse o sottili, possono essere essi stessi fonte di alterazioni chimiche, quali ad esempio la produzione di acqua ossigenata altamente reattiva e quindi in grado di produrre reazioni chimiche secondarie. Nella tabella sopra riportate, vengono riportati spessori di dimezzamento nella penetrazione di raggi γ in tessuto e nel piombo, che è il materiale più utilizzato per schermare gli operatori delle radiografie; in quella sotto invece il range, e cioè il tragitto medio fatto nei vari casi prima di essere assorbiti, delle particelle α e β; in entrambe i casi si considerano più valori per le energie iniziali. I danni più frequenti vengono comunque prodotti dai raggi delta, già introdotti essendo gli elettroni secondari, prodotti da ionizzazioni dalle radiazioni segnalate; per dare dei numeri una particella α di E = 10 MeV . produce 2000 ionizzazioni per millimetro contro le 45 coppie prodotti da elettroni ( β − ) di energia però di E = 1MeV . ; a causa della copiosa produzione di elettroni secondari, si parla nel primo caso di ionizzazione colonnare, nel secondo caso di ionizzazione lacunare. Anche i raggi γ producono ionizzazione lacunare. Per inciso l’ elettronVolt ( nella abbreviazione eV.) è la quantità di energia acquisita da un elettrone accelerato dalla differenza di potenziale di 1 Volt. La pericolosità della radiazione sarà direttamente proporzionale alla quantità che investe l’organismo e si è reso necessario identificare delle grandezze atte proprio a identificare le caratteristiche della interazione coi tessuti; a seconda della quantità che si reputa più significativa ai fini dell’interazione, si introduce la corrispondente grandezza e si parla di dosimetria. Q −4 X= ,1 Roentgen=2,58⋅10 C./ kg. Esposizione: m E J. D= , 1 GyGray=1 =100 rad. Dose assorbita: m kg. J. H =D⋅Q⋅N , 1 Sievert =1 Equivalente di dose: kg. In ciascuna di queste definizioni è presente a denominatore il kg. a rappresentare in ogni caso la sostanza, il tessuto che assorbe le radiazioni: in tal modo si può dedurre che l’esposizione X rappresenta la carica assorbita dall’unità di massa, la dose assorbita D l’energia di radiazione da ionizzazione assorbita dall’unità di massa; l’equivalente di dose viene ricavato dalla dose assorbita ed è quindi energia assorbita per unità di massa, ma questa viene moltiplicata per i nuovi fattori Q, detto coefficiente di qualità, e N, fattore di ponderazione; per ciascuno di questi due vengono riportate delle tabelle di valori. Il primo tiene conto dell’effetto biologico della radiazione, molto consistente per i raggi α e meno per gli altri tipi di raggi; il secondo invece è grandezza specifica per le parti del corpo, ognuna delle quali è più o meno sensibile alle radiazioni: all’aumentare di N aumenta la sensibilità alle stesse. La somma dei vari fattori di ponderazione dà 1 sull’intero organismo: questo significa che sono da FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 49 di 51 considerare come probabilità relative di essere colpiti una volta che tutto il corpo sia investito dalla radiazione. In ogni caso a parità di somme di radiazioni subite, è preferibile che essa preveda parti di radiazione il più possibile distanti nel tempo in modo da evitare effetti di sovrapposizione. Questo tipo di riguardo va in particolare usato nelle radiografie, all’interno delle quali si lanciano raggi X sulla parte da controllare: i raggi X sono detti radiazioni da frenamento e sono dei raggi γ morbidi, dato che hanno minor energia. Nella tabella a fianco, l’ultima del corso, sono presenti le dosi medie alla cute per i vari tipi di esami che si somministrano comunemente presso le strutture ospedaliere. Da ricordare che un dato indicativo per quantificare l’esponibilità annuale di una persona può essere fissata a 5mSv./ anno . Negli ultimi molta attenzione è stata dedicata anche alla possibile pericolosità delle radiazioni elettromagnetiche prodotte da normali elettrodomestici, tra i quali possiamo oramai annoverare anche i computer, da telefoni cellulari e, soprattutto, da impianti per la distribuzione di energia elettrica e antenne per la trasmissione di segnali di telefonia mobile. La pericolosità di questi oggetti/strutture è legata da un lato alla loro ampiezza, rappresentativa dell'intensità della radiazione, e dall'altro alla frequenza, che è la quantità di oscillazioni nell'unita di tempo. Nelle nostre case gli elettrodomestici vengono utilizzati alla frequenza di rete ( f =50 Hz. ); così pure per i tralicci ad alta tensione per la distribuzione della corrente si può considerare che la frequenza sia bassa; le antenne che, invece, raccolgono e potenziano il segnale telefonico o che rilanciano i segnali televisivi, lavorano invece a frequenze elevate (dell'ordine del Gigahertz≈109 Hertz ). Le due tipologie si collocano agli estremi della scala delle frequenze. Entrambe hanno degli effetti che sono sistematicamente tenuti sotto osservazione a causa di effetti perniciosi per l'organismo. Per ciò che riguarda invece l'ampiezza di tali radiazioni bisogna valutare la distanza dalla sorgente, facendo in prima approssimazione riferimento alla legge di Biot-Savart che abbiamo presentato precedentemente per i motivi che tra poco verranno presentati: secondo tale legge il campo magnetico è inversamente proporzionale al quadrato della distanza dalla sorgente. Gli effetti sul corpo umano possono essere suddivise nelle due modalità: termici e non termici. I primi si possono tradurre con un innalzamento locale della temperatura (anche il telefonino vicino all'orecchio per un tempo prolungato riscalda quella parte acquosa dei nostri tessuti vicina alla posizione dell'apparecchio) e sono tanto più profondi quanto più bassa è la frequenza, andando dai 26 cm. in corrispondenza della f =20 Hz. ai 2 cm. della f =2450 Hz. . I secondi invece si riflettono con alterazioni di crescita, funzionamento e interazione tra cellule. Da entrambe possono possono derivare conseguenze sul sistema nervoso e cardiocircolatorio e anche effetti più gravi come le patologie tumorali. Anche se non esiste un rapporto definitivamente chiaro tra cause ed effetti, vari studi epidemiologici concorrono a far concludere che i danni maggiori si manifestano in presenza di correnti più intense, a loro volta sorgenti di campi magnetici consistenti; è questo il motivo dell'attenzione dedicata alla legge di Biot-Savart. FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 50 di 51 Anche la vicinanza alle sorgenti e l'intervallo di tempo medio di esposizione alle radiazioni, che nel tempo danno contributi sommativi, sono fattori di rischio molto significativi. Le attuali normative nazionali, molto attente a garantire una buona distanza dai livelli di rischio intuiti, hanno fissato le seguenti limitazioni in eccesso: LIMITI di ESPOSIZIONE per la popolazione Frequenza f (Mhz.) Valori efficaci E (V./m.) Valori efficaci B (A./m.) Densità di potenza onda piana equivalente (W./m.2) 0,1 - 3 60 0,2 - >3 - 3000 20 0,05 1 >3000 - 300000 40 0,1 4 In tale modo, pur in assenza di un livello di pericolosità conclamato, la normativa europea e quella italiana in particolare si impegnano a fissare livelli di rischio più bassi di quelli intuiti grazie agli studi di settore. Il docente Walter Manzon BIBLIOGRAFIA A.H. Cromer “Fisica per medicina-farmacia e biologia”, Piccin Editore Padova V.Monaco, R. Sacchi, A. Solano “Elementi di Fisica”, Mc Graw Hill FISICA APPLICATA – a.a. 2009/10 pag. 51 di 51