ACHAB Rivista di Antropologia 2004 numero III Università degli Studi di Milano-Bicocca Editoriale Con questo terzo numero festeggiamo il primo anno di Achab e ci proiettiamo in una nuova stagione che promettiamo essere ricca di nuovi spunti di riflessione, incontri ed attività: il "viaggio" di Achab continua e ci auguriamo, come per la stagione passata, di coinvolgere il maggior numero possibile di lettori. Achab è un progetto che mira a raccogliere la sfida (culturale ed intellettuale) di una contemporaneità sempre più complessa e che, proprio per questo motivo, necessita della collaborazione e della commistione di prospettive ed entusiasmi diversi. In questo senso vogliamo continuare ad offrire il nostro contributo proponendo temi di discussione, riflessioni e approfondimenti che siano espressione di un profondo desiderio di conoscenza e condivisione. Partecipiamo, dunque, alla negoziazione di significati che dà luogo alle forme del sapere contemporaneo consapevoli del fatto che "l'importanza della produzione di senso per la vita umana è riflessa in un campo concettuale affollato: idee, significato, informazione, saggezza, capacità di comprendere, intelligenza, consapevolezza, capacità di apprendere, fantasia, opinione, conoscenza, credenze, mito, tradizione…" [Ulf Hannerz "La complessità culturale" p. 5]. . La Redazione Achab - Rivista di Antropologia dell'Università di Milano-Bicocca - Anno I , Numero III Redazione: Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, William Pioltelli Impaginazione: Amanda Ronzoni Grafica copertina: Lorenzo D'Angelo Responsabile del sito: Antonio De Lauri Tiratura: 600 copie Se desiderate collaborare al progetto della rivista con vostri lavori o commentare gli articoli, potete scrivere a: [email protected] oppure [email protected] La rivista è disponibile anche in formato pdf sul sito: www.studentibicocca.it/achab Indice Zygmunt Bauman: riflessioni a partire dai suoi testi di Daniela Carosio pag. 2 riflessioni sul concetto di cultura di Ugo Fabietti pag. 9 Il razzismo di Antonio De Lauri pag. 14 Il Quilombo di Frechal di Michele Parodi pag. 22 La coltivazione di papavero da oppio dilaga in Afghanistan di Elisa Giunchi pag. 37 Sincretismi, ibridazioni e compresenze tra tradizioneindù e mussulmane in India di Giulia Bellentani pag. 38 Luti e Liwat di William Pioltelli pag. 54 La Società dell'Incertezza e Voglia di Comunità Da idoli della tribù a idolo del foro: Una recensione riflessiva di un'etnografia dialogica: Alla confluenza di due oceani Achab segnala: Seminario sull’Africa pag. 63 1 Zygmunt Bauman: riflessioni a partire dai suoi testi La Società dell'Incertezza e Voglia di Comunità di Daniela Carosio1 Il presente articolo riflette sui temi dell'identità e dell'incertezza, che Bauman tratta in La Società dell'Incertezza, Il Mulino, 1999 ('SI') e ciò che rappresenta il loro contrappeso, ossia , il desiderio crescente di comunità, che Bauman descrive in Voglia di Comunità, Laterza, 2001 ('VC'), come reazione al vuoto che emerge dai percorsi identitari moderno e post-moderno. In Bauman il testo scientifico stesso fluisce come formazione discorsiva nel raccontarci il nostro mondo contemporaneo2. Ma è il mondo stesso che nell'interpretazione post-moderna emerge come complessa interrelazione di "processi locali in continua lotta e negoziazione sui significati, valori e risorse…siamo tutti architetti della 'modernità' e cannibali dell'ordine sociale3". Bauman stesso afferma pessimisticamente che "mancano gli strumenti concettuali per risistemare un quadro contorto e frammentato, per immaginare un modello coerente e integrato che emerga da una esperienza confusa e incoerente, per legare e tenere insieme gli elementi disseminati" (pag. 12 SI). Si avverte nei suoi testi non tanto la "Sehnsucht" della felicità di un mondo più sicuro , quanto, piuttosto, l'affermazione di un principio di realtà, che tiene conto della società e in particolare dell'Altro, contro il prevalente principio del piacere, quello del collezionista dei piaceri che dimentica l'alterità o la trova al massimo interessante per i propri fini individualistici. Ne risulta un profondo senso etico e civile nell' 'intelligere' la realtà e nel sottolineare la responsabilità di ciascuno di noi. Per Bauman, infine, la responsabilità passa dal principio di realtà e non da quello del piacere e "assumersi la responsabilità verso l'alterità, l'identità e l'autonomia dell'Altro è una condizione cruciale per la realizzazione di ogni individuo ed è una parte indispensabile di ogni autentica 'pragmatica dello scambio' (pag. 125 SI)". pulsioni e dell'istinto. L'epoca moderna, positivista e utilitarista, che aveva massima fiducia nelle capacità della scienza e della ragione, nemica di ogni processo di degenerazione (fisico, sociale, morale) ha sacrificato il principio del piacere (libertà) in nome del principio di realtà (sicurezza), tuttavia, come ammonisce Freud, "forse è bene abituarsi a pensare che ci sono alcune difficoltà intrinseche alla natura della civiltà in grado di resistere a qualsiasi tentativo di intervento". Qualcosa di simile è avvenuto nell'incontro coloniale con i c.d. paesi non civilizzati e poi con il mito dello sviluppo del Terzo Mondo, in realtà si è giustificato l'intervento civilizzante delle potenze coloniali prima e quello pianificante della cooperazione allo sviluppo dell'Occidente poi, al fine di portare la civiltà e lo sviluppo ai c.d. popoli nativi o selvaggi. Il prezzo è stato lo stravolgimento delle società tradizionali, delle loro rappresentazioni, tradizioni e amministrazioni e la nascita di fenomeni di resistenza locali o movimenti identitari (come i movimenti messianici, i profetismi, nuove forme di feticismi delle merci in Sud America, i riti del cargo in Oceania, ecc.). In "Voglia di comunità" Bauman chiarisce come la comunità, la Gemeinschaft, intesa come reciproca comprensione di tutti i suoi membri in contrapposizione alla nascente società moderna, la Gesellschaft5 , una volta distrutta, non può essere più ricostruita artificialmente, come hanno cercato di fare vari filantropi o teorici illuminati dell'organizzazione industriale sulla scia di Elton Mayo, "scuola dei rapporti umani" (pag. 36 VC), inutili tentativi di 'reimpiantare gli sradicati' (disembedded). In epoca moderna "il regime della 'regolamentazione', di cui fabbrica ed esercito erano i principali strumenti e modelli istituzionali, sostituisce l'originaria paura moderna dell'incertezza con la paura della trasgressione delle norme, il timore della devianza e delle sanzioni derivanti (pag. 107 SI)". L'epoca moderna era quella dell'uomo produttore, della fabbrica e della caserma, del panopticon6 e delle altre istituzioni totali (la scuola, l'ospedale, la caserma, il carcere, il manicomio, ecc.). L'epoca dei popoli nazione, della costruzione delle identità nazionali, attraverso la creazione dei confini e dell'allontanamento dello straniero. L'epoca dell'ingegneria sociale delle fabbriche e della vita organizzata, della biotecnologia, della medicina e dello studio sistematico volto a confinare l'ultimo dei nemici, la morte. Così la salute pubblica diventò prioritaria e ben delineata secondo confini specifici. In quell'epoca lo straniero e il vagabondo erano delle figure devianti, che procuravano incertezza perché sfuggivano al controllo della società. In particolare, lo straniero, non avendo una collocazione precisa ed essendo cognitivamente ambivalente, incrinava la chiarezza delle divisioni, delle classificazioni e dei confini ed ostacolava la realizzazione dei compiti dello Stato La Società dell'incertezza Bauman definisce la società contemporanea o "post-moderna" come "la società dell'incertezza", quella stessa incertezza il cui spettro era stato esorcizzato nell'epoca moderna attraverso una rigida regolamentazione. Se la modernità emerge come una risposta non scelta e non voluta al crollo dell'ancien regime, il post-moderno emerge come "effetto non desiderato" o paradosso della modernità, risultato dello svuotamento progressivo dei valori, rappresentazioni e istituzioni dell'epoca moderna, che ossessionata dal terrore dell'incertezza aveva prodotto un "eccesso di ordine" e regolamentazione al prezzo della restrizione della libertà. In questo senso Bauman richiama esplicitamente S. Freud, che in "Das Unbehagen in der Kultur" del 1929 sottolinea come la modernità e la civiltà, fondandosi sulle categorie di bellezza, pulizia e ordine, siano costruite sulla restrizione delle 2 moderno. Nei suoi confronti venivano intraprese due tipi di strategie da parte dello Stato e della società: una antropofagica o di assimilazione , consistente nell'eliminare le distinzioni e diversità e assimilare completamente gli stranieri rendendoli una copia di sé e la seconda antropoemica o di esclusione, consistente nel confinare e ghettizzare gli stranieri, fino alla loro eliminazione fisica nella sua forma più estrema (olocausto). Se la modernità fin dall'inizio si è connotata per un eccesso di mezzi rispetto ai fini, nel nostro tempo postmoderno, i mezzi sono gli unici strumenti di potere rimasti sul campo ormai abbandonato dai fini. L'epoca postmoderna si porta dietro la crisi delle istituzioni e la loro privatizzazione, lo smantellamento dei sistemi di Welfare e la 'deregulation' in ogni ambito dell'economia e della società. Nell'epoca moderna la responsabilità sociale era demandata allo Stato, alle burocrazie e alle varie istituzioni c.d. responsabili. Ma quella responsabilità era una responsabilità di funzione o di finzione, in Modernità e Olocausto, Bauman parla di burocratica "legge di nessuno", che consente di commettere i più terribili misfatti in nome dell'ingranaggio e della macchina moderna. Questa tendenza a dispensare gran parte delle azioni dal giudizio morale e addirittura dal significato morale, cresce come indifferenza morale o "adiaforizzazione"7 in epoca post-moderna. Nelle strategie di vita postmoderna, l'Altro è oggetto di valutazione estetica e non morale. Il risultato è una crescente distanza tra l'individuo e l'Altro, con un prevalere dell'autonomia individuale sulle responsabilità morali8, un prevalere delle relazioni tattili, con la separazione del valore d'uso/piacere da ogni impegno e coinvolgimento che riguardi amore, onore, obbedienza…è la completa adiaforizzazione (mediata dagli snapshot e dalla burocrazia moderna). Nel mondo globalizzato la nuova élite cosmopolita economica e intellettuale vive una condizione di massima libertà in un'area priva di comunità e lontano dalla vischiosità che minaccia la gran parte degli abitanti del mondo, i deboli, gli individui de iure, ma non individui de facto. Si tratta di un mondo dai confini sempre più confusi, con mappe di potere sempre più contorte e aggrovigliate, dai confini indefiniti (blurred). I centri urbani che erano stati pianificati in età moderna a griglia o accampamento romano come proiezioni sul paesaggio della razionalità ordinata e classificatoria, sono oggi disseminati di aree ghetto "no go area" con valenza duplice…"no go in" e "no go out"9. Il rapporto con lo straniero nella società postmoderna è ambivalente10 , da un lato c'è chi gode di maggiore libertà e minore incertezza o vischiosità e trova lo straniero interessante ed esotico, dall'altro ci sono invece coloro che hanno poche risorse e capacità e vedono nello straniero una minaccia. Per interpretare l'ambiguità con la quale viene affrontata la figura dello straniero nella società postmoderna si può utilizzare l'immagine di una retta dove su di un polo viene riportata la massima precarietà economica e dall'altro la massima possibilità di scelta, accompagnata da una bassa paura dell'inadeguatezza. Mentre tra coloro che hanno ampie possibilità prevale la curiosità per lo straniero, portatore di qualcosa di diverso, di una identità altra e per questo interessante. Lo straniero viene percepito come un concorrente dove alta è la precarietà e la paura di inadeguatezza. Qui lo straniero è colui che porta via il lavoro, che disgrega ulteriormente ciò che è già disgregato e degradato, colui che incarna tutte le paure derivanti dalla massima incertezza e ancora una volta il responsabile di tutti i mali. Si innesca dunque una guerra tra poveri. Si teme lo straniero perché è anche colui che non ha i nostri schemi mentali. "La vischiosità che attribuiscono agli stranieri è il riflesso della loro mancanza di potere che cristallizza nei loro occhi la terrificante forza degli stranieri" (pag. 71 SI). Bauman in sostanza ci dà una interpretazione del razzismo dei poveri e dei deboli, di coloro che si sentono inadeguati e denuncia come questa debolezza possa venire facilmente strumentalizzata per scopi demagogici. "La paura del 'vischioso' sedimentata dagli individui senza potere, è sempre un'arma allettante da aggiungere all'arsenale di coloro che hanno sete di potere…per arruolare i senza potere al servizio degli abili di potere. Occorre solo ricordare loro la vischiosità degli stranieri…" (pag. 72 SI). L'identità come problema: dal moderno al postmoderno Bauman definisce l'identità postmoderna una nozione ambivalente. Parla di identità "riciclata"11 , in quanto continua ricostruzione e ridefinizione del sé, gioco liberamente scelto e presentazione teatrale del sé (Goffman). Come emerge chiaramente in Voglia di Comunità, la comunità rappresenta l'humus da cui viene estratta la nozione di identità. La ricerca dell'identità, come sradicamento (disembedding), uscire dal mazzo, essere diversi e in quanto tale unici, non può che dividere e separare, smembrare la comunità. Il paradosso è che per potere fornire un modesto livello di sicurezza, l'identità deve tradire la propria origine e negare di essere un surrogato, deve evocare un fantasma di comunità identica a quella che va a sostituire. Ed è infatti paradossale, che nel momento in cui la comunità crolla viene inventata la nozione di identità (pag. 16 VC). Significativo è che, nonostante ciò, entrambi i termini vengano oggi evocati in modo ossessivo. "Mai il termine 'comunità' è stato usato in modo tanto insensato e indiscriminato come nei decenni in cui le comunità in senso sociologico del termine sono diventate sempre più difficili da trovare nella vita reale"12. E ancora Bauman: "Oggi si sente parlare di identità e di problemi connessi più di quanto se ne sia parlato nei tempi moderni. E nonostante ciò, ci si può chiedere se l'ossessione del momento non sia semplicemente un altro di quei casi che seguono la regola generale secondo la quale le cose si scoprono soltanto ex post facto, quando svaniscono, falliscono o cadono a pezzi (pag. 27 SI)". Per chiarire la specificità dell'analisi di Bauman può essere utile riprendere la sintesi di Loredana Sciolla13 dei vari contributi del pensiero sociologico sul tema dell'identità. Sciolla evidenzia una convergenza dei vari approcci su tre dimensioni fondanti l'identità: la dimensione locativa (ossia il campo, anche simbolico, che delimita i confini del sé), quella selettiva (ossia il sistema d'ordine tra più alternative all'interno dei confini delineati) e quella integrativa (il quadro interpretativo che collega 3 le esperienze passate, presenti e future nell'unità di una biografia. Da questa impostazione derivano due considerazioni fondamentali, ossia la funzione conoscitiva dell'identità, in quanto percezione e organizzazione del campo delle possibilità, e la funzione normativa, in quanto fornisce le "mappa" di significato per l'azione e l'interazione sociale e rappresenta il criterio chiave per comprendere i processi decisionali degli individui. Inoltre, una distinzione fondamentale è quella tra identità individuale (identità come predicato di un soggetto individuale) e identità collettiva (identità come predicato di gruppi di individui). La riflessione contemporanea privilegia un'analisi dell'identità non come persistenza dell'unità del soggetto al variare degli attributi (definizione filosofica aristotelica), ma come insieme di relazioni e di rappresentazioni e sottolinea la crescente importanza dell'elemento simbolico e culturale 14 nella dimensione locativa e dei c.d. confini simbolici. L'attenzione viene data agli aspetti di complessità, alle modalità imprevedibili e sempre in ridefinizione in cui l'organizzazione e l'interazione sociale influenzano le mappe di significato degli individui 15 (fenomeni di ibridazione e meticciato). Bauman, pur avendo presenti nella sua analisi tutti questi aspetti, ci dà una visione quasi mitico-simbolica del processo identitario dal moderno al postmoderno, e parte da uno sguardo molto esteso che si avvale di diverse chiavi interpretative, anche mutuate dalla psicanalisi16 e dalla letteratura, per leggere il disagio diffuso, a livello sociale e individuale, attraverso i microeventi della quotidianità, le mode, da quella della cura del corpo a quella delle diete alimentari o dei viaggi, il mondo delle relazioni occasionali e del sesso plastico, della fuga dai sentimenti e del divorzio facile, il mondo segregato degli emarginati con tutta la carica esplosiva di violenza e di frustrazioni che coltiva in sé. La dinamica identitaria nella società postmoderna: da pellegrino a turista moderna (pag. 28 SI)" e quindi la preoccupazione per l'identità rappresenta un tentativo di sfuggire a questa incertezza. Diviene compito dell'individuo trovare una via di uscita dall'incertezza. L'identità diventa una proiezione critica di ciò che è richiesto da e/o si cerca in ciò che esiste. "E' un'asserzione obliqua dell'inadeguatezza o incompletezza" e giustifica il formarsi di una pletora di consulenti, allenatori, guide, insegnanti…tutti interessati ad affermare una conoscenza superiore tale da guidare e consigliare 'in loco parentis '. Per descrivere questo compito dell'uomo moderno Bauman utilizza la suggestive metafora del pellegrino. Il pellegrino non è una figura moderna, bensì dei primi tempi del cristianesimo, eppure incarna la strategia di vita moderna, preoccupata dal compito inquietante di costruire una identità, perché la verità è altrove. "La cultura giudaico cristiana riguarda, alle sue vere radici, esperienze di dislocazione spirituale e vagabondaggio"18. I grandi monoteismi nascono da culture nomadi con l'esperienza del deserto. Il deserto è la terra dell'autocreazione, contrapposta ai legami della quotidianità mondana, ricca di posti, di regole e tradizioni. Gli eremiti sono sgravati e sradicati (disembedded), simili a Dio perché qualunque cosa facciano la fanno ab nihilo19. Attraverso la metafora del pellegrino c'è un richiamo esplicito a L'Etica Protestante e lo Spirito del Capitalismo di Max Weber. Bauman stesso definisce il protestante, come la figura modello dell'uomo moderno. Infatti, i protestanti sono divenuti pellegrini all'interno del mondo, assumendo la vita-intramondana come compito e il dovere professionale come strumento per ottenere la salvezza dell'anima. Il mondo è stato trasformato in un deserto, senza posti, senza tentazioni seducenti. Impersonalità, freddezza e vuoto sono assurte a virtù, nel tentativo di combattere le tentazioni del mondo e di rendere il mondo esterno insignificante e privo di valore. Bauman afferma con una frase emblematica che richiama l'interpretazione di Max Weber20 che "i pellegrini hanno perso la loro battaglia vincendola!". Ovvero, i protestanti nel ridurre il mondo ad un deserto, ad un luogo ventoso21, dove è difficile lasciare traccia, hanno perso la loro battaglia spirituale. Se prima il pellegrino e il deserto in cui camminava acquistavano significato l'uno dall'altro. Ora, in un mondo in cui il deserto è fuori dalla casa, ante portas, il pellegrinaggio non è più una scelta eroica o santa, ma una necessità per evitare di perdersi nel deserto e questa versione moderna del compito o pellegrinaggio si è a poco a poco trasformata in un vagabondare senza meta, ossia il fine ultimo che dà significato al pellegrinaggio. Infatti, è la distanza che permette ai progetti di esistere, le coordinate spaziotemporali sono i vettori del senso e dell'identità. In termini oggettivi la distanza è spazio; in termini soggettivi è insoddisfazione, ossia quella differenza tra piacere agognato e quello ottenuto, lo iato tra l'ideale dell'ego e la realtà presente. La fede stessa richiede un salto nel vuoto22. La distanza misurata in termini di tempo consente di costruire e dare significato all'identità. Dà forma alla gratificazione differita che traccia l'inizio dello sviluppo personale e della costruzione identitaria. Il e Bauman afferma che l'identità è un'invenzione moderna, perché è il risultato senza peso e consistenza dello sradicamento ("disembedding"17 ) del singolo dalla comunità che lo teneva in una sorta di humus comune. L'identità è nata come un problema (anche questa parola è utile intenderla etimologicamente, dal greco 'gettare in avanti'), nel senso di questione cui dare una soluzione, che si origina da quella sottodeterminazione o libero fluttuare risultante dallo sradicamento. Ha lo statuto ontologico di un progetto e contiene in sé una idea di futuro. Nella società degli sradicati, la società del XIX secolo, quella della Grande Trasformazione (Polanyi), della distruzione della comunità, "di quella intricata rete di interazioni umane che dava un senso al lavoro dell'uomo, che trasformava la mera fatica in attività lavorativa densa di significato, in un'azione finalizzata (pag. 29 VC)", l'identità entra nella pratica moderna come "compito" individuale o un "problema" cui dare una soluzione. "Si pensa all'identità quando non si è sicuri della propria appartenenza, quando non si sa come inserirsi nella varietà di stili e moduli comportamentali esistenti, di come le persone intorno ci accettino 4 differimento della gratificazione (nonostante la frustrazione momentanea) fornisce lo stimolo alla costruzione dell'identità se esiste la fede nella linearità e cumulatività del tempo e la fiducia che il futuro ripaghi i risparmi con gli interessi! Senza questa fiducia non ci potrebbe neanche ipotizzare l'attività economica e un mercato. 'riconfezionando' a misura di vagabondo. Il turista è come il vagabondo in movimento, ma differisce la direzione dello stimolo al movimento. Il vagabondo è per lo più cacciato via. Il turista è invece attratto da esperienze di novità e di differenza. Cerca un mondo strutturato su criteri estetici, un mondo dove anche l'avventura sia dosata, addomesticata e sicura. Il turista ha una casa ovunque vada. Il vagabondo è un senza tetto. La casa del turista è percepita in modo ambivalente come rifugio o prigione, a seconda del momento. Si sente stretto a casa, ma ne sente la nostalgia in viaggio. Il giocatore vive in un mondo soffice ed elusivo; ogni partita è una "provincia di significato" per sé. Non deve lasciare conseguenze durevoli, eppure il gioco deve essere senza pietà. Simile alla guerra….la guerra come gioco assolve gli individui dalla mancanza di scrupoli. Ironicamente …"il segno della maturità postmoderna è la volontà di abbracciare il gioco a cuore aperto, come fanno i bambini!" (pag. 48 SI) . Nel mondo post-moderno tanto le persone che le cose hanno perso solidità, definitezza e continuità. Il mondo fatto di oggetti duraturi è stato sostituito da beni di consumo dalla rapida obsolescenza. Una volta nascosto e non più vettore, il tempo non struttura più lo spazio, ogni differimento, incluso il differimento della gratificazione perde di significato. Il compito di oggi è quello di evitare che una ogni fissazione duratura di identità ci si appiccichi. La frammentazione del tempo e dello spazio e il loro "collassamento"23 in epoca di società dell'informazione e di globalizzazione hanno come riflesso rapporti umani frammentari e discontinui, contrari alla costruzione di reti di doveri e obblighi reciproci che siano permanenti. Nell'epoca postmoderna anche la tensione morale assume connotati diversi, viene meno l'adesione incondizionata a una morale a priori, ad una verità assoluta, nel mondo dell'ambiguità e dell'incertezza dei singoli individui anche la responsabilità e la visione etica fanno parte di una conquista identitaria. Si cerca di evitare di impegnare la propria vita per una vocazione o rapporti lunghi e duraturi, di evitare di sistemarsi e legarsi alle persone e a un posto. Nell'età della 'razionalizzazione' del posto di lavoro, del lavoro flessibile o interinale che ha soppiantato il posto fisso, dell'amore confluente, della sessualità plastica, è importante imparare a vivere alla giornata, possibilmente dimenticare il futuro e isolare il presente da entrambi i lati, separandolo dalla storia 24. Identità e alterità in epoca postmoderna In epoca postmoderna l'identità e il fenomeno identitario è molto più ambiguo, segue percorsi molto frammentarie in continuo divenire, non è data una volta per sempre ma è in continuo formarsi, come nella metafora della matita dove la gomma cancella contemporaneamente ciò che scrive sul foglio bianco. La cosa più fastidiosa e pericolosa è oggi avere una identità immutabile, perché c'è il rischio che diventi obsoleta, seguendo il tasso di obsolescenza delle macchine e delle merci. Le stesse istituzioni, un tempo intramontabili, tramontano lasciando dietro una forte dose di incertezza e precarietà in tutti coloro che vi hanno lavorato o che a distanza le hanno mitizzate (la crisi della FIAT, l'insolvenza di primarie società americane come Enron, WorldCom, la caduta degli eroi come il mitico Jack Welch, CEO di General Electric). Nel postmoderno cambia anche l'elenco delle paure. Horkheimer e Adorno individuano il nucleo centrale delle angosce moderne nella paura del vuoto…tutto viene ordinato, organizzato e costruito in modo da eliminare il vuoto, sperimentata come paura di essere diversi e separati. La madre delle paure postmoderne è, invece, l'inadeguatezza. "La mentalità postmoderna si è allontanata dalle coordinate fornite dall'ideale di una verità universalmente fondata e accettata; la nostra è una mentalità insicura dei propri fondamenti, della propria legittimazione e funzione. Un tipo di mentalità che può solo suggerire comportamenti eccentrici, inconsueti, irregolari, aggiungendosi al già ampio elenco delle incertezze" (pag. 140 SI). Il flaneur, il vagabondo, il turista e il giocatore sono le metafore utilizzate da Bauman per descrivere la strategia di vita postmoderna. Il flaneur è il "pittore della vita moderna" di Baudelaire (Benjamin lo trasformò in simbolo della città moderna), colui che vive la vita "come se", costruisce a piacimento delle storie con i frammenti sfuggenti della vita degli altri. Il flaneur è il consumatore di oggi, colui che si aggira nel regno sicuro ed illusorio degli shopping malls, caratterizzati dalla episodicità e apparenza degli incontri, dall'illusione di essere registi, pur essendo oggetto di regia. I flaneurs sono gli abitanti delle città pure e senza macchia, sorvegliate dalle videocamere, i consumatori della TV assolutamente non impegnativa. Nella loro vita la dipendenza si stempera nella libertà e la libertà va in cerca della dipendenza. Il vagabondo, figura non tollerata dalla modernità, perché senza padroni e senza controllo, è un estraneo ovunque vada. Il suo cammino è erratico a differenza di quello del pellegrino. Mentre in passato il vagabondo vagava attraverso luoghi ordinati, oggi sono pochi i luoghi ordinati e sistemati per sempre, ora il vagabondo non è tale per la sua riluttanza o difficoltà a sistemarsi, ma per la scarsità di luoghi organizzati, perché il mondo si sta L'incertezza comporta costi individuali, sociali ed economici25 elevatissimi in quanto relativizza le mappe di significato, porta ad una "crisi di intelligibilità" e ad una esperienza costante di ambivalenza nelle rappresentazioni e nelle interazioni. Nel relativismo dell'identità postmoderna, cambia l'alterità. Nella città, il luogo rappresentativo della vita postmoderna, ciascuno di noi è straniero quando esce di casa. L'alterità è data dalla distanza 5 tra le nostre mappe cognitive e quelle degli altri. La distanza tra ciò che occorre per sapere navigare e ciò che si sa o si crede di sapere circa i problemi reali e probabili del prossimo. Lo spazio vuoto generato dalla separazione attrae e allo stesso tempo respinge, è un territorio ambivalente di libertà e pericolo, che può generare sia avventura eccitante sia confusione paralizzante. La costruzione delle città ha rispecchiato i due poli opposti del problema: nostalgia della communitas e paura di smarrire la propria identità. La vita di città assume significati differenti per persone differenti, così come l'immagine dello straniero, che come Giano bifronte ha due facce: una sexy, promette gratificazione senza chiedere alcun patto di lealtà (per il flaneur) e l'altra misteriosa, ma in senso sinistro dello straniero ante portas (per coloro che si trovano nelle 'no go out' areas e che vivono sulla propria pelle un elevato grado di vischiosità) . (quella che in economia viene definita la manutenzione ordinaria). Perché per la costruzione di un'autostrada, la razionalizzazione di una scuola o di un ospedale, ecc. si generano costi straordinari, conflitti di interesse, che generano malcontenti e rivendicazioni diffuse. Per lo più tali rivendicazioni non si sommano o condensano, ma sono conflittuali le une con le altre e competono le une con le altre per attirare le scarse risorse dell'attenzione pubblica. Conclusioni Due accenni conclusivi a due temi che Bauman non tratta esplicitamente in 'La società dell'incertezza': la figura dello psicanalista e il ruolo dell'economia. Un quadro desolante frutto di un'analisi attenta alle varie sfumature del reale. Ma è sempre in nome del principio di realtà che Bauman mette in guardia sulla necessità di trovare un equilibrio tra libertà e sicurezza, tra identità e comunità; la considerazione dell'Altro, ci porta nella sfera etica e solo una relazione piena può essere morale. In epoca post-moderna si è conquistata maggiore libertà al prezzo di maggiore incertezza. Di fatto, va precisato che la maggiore libertà è di pochi, ma al prezzo dell'incertezza di molti. Bauman solleva esplicitamente il punto interrogativo di quanto godibile sia questa libertà di pochi. Alla lunga tale maggiore libertà non sarà godibile, perché "la libertà senza comunità diventa pazzia e la comunità senza libertà diventa schiavitù". Come è allora possibile sacrificare quel poco di libertà al fine di rendere il tormento dell'incertezza tollerabile? Bauman, pur parlando di Freud, non parla esplicitamente dello psicanalista, ma tutto il discorso identitario lo dà per scontato. Il successo della psicanalisi nelle nostre società postmoderne è una ulteriore conferma della lettura sociale di Bauman. Lo psicanalista è cercato per dare una risposta a questo sentimento di ansia e inquietudine di fronte all'incertezza privatizzata, riportata pesantemente sui singoli, dopo la fine della utopia moderna…si tratta sicuramente di un lusso per chi se lo può permettere, indicativo della privatizzazione della salute nella nostra società…se sei ricco ti puoi permettere di stare male in più modi. Se sei povero, no. E per il momento, nell'assenza di certezze e sistemi di regolamentazione e riduzione dell'incertezza, anzi con la sua crescita, dovuta allo smantellamento dei sistemi di Welfare e al venire meno dei 'mediatori' tradizionali, come il sacerdote e il rabbino nella cultura ebraica, lo psicanalista diventa un sostituto privato a pagamento. Bauman suggerisce in alcuni punti del suo testo che l'unica risposta può venire dall'impegno morale e civile. Nel nostro mondo l'Altro viene visto come oggetto di valutazione estetica e non morale, di gusto e non responsabilità. Non sono gli attributi dell'Altro ad essere oggetto della nostra attenzione, ma le emozioni che ci suscita l'incontro, in termini di interesse e piacere. Lo stesso atteggiamento che tiene il consumatore al supermercato, passa in rassegna gli oggetti sugli scaffali e se non lo soddisfano, passa oltre. E' chiaro che questa è una funzione cognitiva fondamentale, quella di essere selettivi, ma diventa un problema quando dalla sfera cognitiva si passa a quella normativa. Si cerca per lo più di evitare il coinvolgimento nel destino dell'altro e di impegnarsi per il suo benessere. Tuttavia, il culto dei rapporti personali e della sensualità rappresentano compensazioni psicologiche per la solitudine che affligge i soggetti orientati dal desiderio estetico e dal principio del piacere. In tale sistema che ha assorbito tutto, persino la pratica militante è stata assorbita da una pratica difensiva. L'unico dovere del cittadino postmoderno è di condurre una vita piacevole e lo Stato si deve preoccupare di fornirgli le risorse giudicate necessarie per tale compito e non mettere in dubbio la fattibilità di tale compito (fondamentale è il ruolo della macchina del consenso e in particolare del capitalismo stampa, dei media). Non si tratta però di un panorama idilliaco, in quanto lo scontento cresce quando emergono questioni che vanno oltre la cura ordinaria del sé L'economia si occupa dell'allocazione ottimale delle risorse, queste ultime influenzano i mezzi e le capacità individuali, nonché la possibilità di esercitare le libertà individuali, nell'interazione con la natura e l'ambiente, da una parte e nella produzione e scambio di contenuti simbolici dall'altro. Da una parte, il potere si sta spostando sempre di più dalla mera appropriazione delle risorse, al controllo delle condizioni di riproduzione dell'identità collettiva e del consenso. Dall'altra l'incertezza crescente del mondo sta minando alla base l'economia che si fonda sulla certezza e la dimensione del futuro come motore degli investimenti e dell'attività economica, nonché della certezza e trasparenza degli scambi sul mercato. Fenomeni di corruzione e mancanza di trasparenza minano alla base l'economia di mercato, che da una parte non gradisce la regolamentazione, dall'altra in assenza della stessa collassa su sé stessa per le imperfezioni intrinseche al mercato (contrariamente al mito della concorrenza perfetta e degli equilibri endogeni). 6 Nel mondo esiste sempre di più un sentimento diffuso di impegno morale e civile (es. Fondo Sociale Mondiale di Porto Alegre che si è svolto quest'anno per il secondo anno consecutivo in contemporanea al World Economic Forum di Davos, in evidente polemica con lo strapotere dell'ideologia economica nel nuovo ordine mondiale), ma questo impegno deve emergere sempre di più in quelle élites economiche e intellettuali che con il loro isolamento meritocratico accrescono le situazioni di sperequazione tra individui de iure e de facto. L'erigere comunità fortificate rende più difficile ricomporre l'odierna guerra dei "noi contro loro", lo "scontro delle civiltà" teorizzato da S.P. Huntington e rende tutti bersagli più facili in balia dell'insicurezza. La guerra del petrolio porterebbe solo ad un inasprimento incontrollabile delle attuali tensioni. In conclusione, ci auspichiamo con Bauman che il principio di realtà porti ad una svolta del pensiero meritocratico verso un crescente impegno etico e civile e che nel mondo globale, come tra i Baruya della Nuova Guinea, le capacità e il merito accrescano 'la responsabilità sociale e cosmica degli individui e dei gruppi'26. NOTE Daniela Carosio ([email protected]) è un analista finanziario indipendente che ha approfondito tra l''altro i temi della Corporate Governance e della Corporate Social Responsabilità, anche con attenzione agli aspetti culturali delle aziende. 2 Per chiarire meglio l'approccio di Bauman, mi sembra utile associarlo a quello di alcuni antropologi post-moderni, Fergusson, Hobart e Escobar, influenzati dall'opera di Foucault, che affrontano gli oggetti di analisi in termini di formazione discorsiva. Così James Fergusson nel descrivere il fallimento della politica di sviluppo in Lesotho "I sistemi di discorso e i sistemi di pensiero sono così legati in una complessa relazione causale con il flusso di eventi pianificati e non pianificati che costituisce il mondo sociale. La sfida consiste nel trattare questi sistemi di pensiero e di discorso come ogni altro tipo di pratica sociale strutturata, non scartandoli come effimeri e neppure cercando nelle loro produzioni le chiavi di lettura per quegli elaborati e seminascosti meccanismi di produzione e riproduzione strutturale in cui sono coinvolti come parti componenti." The anti-politics machine, Cambridge Univ. Press, 1990. 3 Alberto Arce and Norman Long, Consuming modernity, Anthropology, Development and Modernities: Exploring Discourses, Counter-Tendencies and Violence, Routledge, London, 2000. 4 In quanto la felicità è effimera e non può essere il fine di una società, citando Freud, "ciò che chiamiamo felicità deriva dalla soddisfazione di bisogni che sono stati accuratamente repressi e per sua natura è possibile solo in quanto fenomeno episodico". 5 F. Toennies, Gemeinschft und Gesellschaft, 1963. 6 "The Panopticon of Jeremy Bentham is an architectural figure which "incorporates a tower central to an annular building that is divided into cells, each cell extending the entire thickness of the building to allow inner and outer windows. The occupants of the cells . . . are thus backlit, isolated from one another by walls, and subject to scrutiny both collectively and individually by an observer in the tower who remains unseen. Toward this end, Bentham envisioned not only venetian blinds on the tower observation ports but also mazelike connections among tower rooms to avoid glints of light or noise that might betray the presence of an observer. The Panopticon thus allows seeing without being seen. Such asymmetry of seeing-without-being-seen is, in fact, the very essence of power for Foucault because ultimately, the power to dominate rests on the differential posession of knowledge. According to Foucault, the new visibility or surveillance afforded by the Panopticon was of two types: The synoptic and the analytic. The Panopticon, in other words, was designed to ensure a 'surveillance which would be both global and individualizing" (pag. 138 e 162). Barton, Ben F., and Marthalee S. Barton. Modes of Power in Technical and Professional Visuals, 1993. 7 Da "adiaforia", ideale etico dei filosofi cinici e stoici, consistente nell'indifferenza verso le cose che non sono né virtù né vizio. 8 Vari antropologi hanno riscontrato come in varie comunità tradizionali il merito si accompagnasse alla responsabilità nei confronti degli altri membri della comunità. E ciò si traducesse in una assenza di disuguaglianza economica, proprio perché le risorse economiche venivano godute in forma comunitaria. L'antropologo marxista Maurice Godelier nel suo saggio del 1972 sui Baruya della Nuova Guinea sottolinea come "la disuguaglianza tra i lignaggi, alcuni dei quali avrebbero ricevuto dagli antenati il potere di fornire alla società i migliori guerrieri o gli sciamani migliori, non contraddice, anzi rafforza la responsabilità sociale e cosmica degli individui e dei gruppi". 9 Questo è particolarmente vero per le megalopoli del c.d. Terzo Mondo, in particolare dell'America Latina, ma anche dei Paesi c.d. sviluppati, ad es. New York, Londra, Parigi. Interessante in proposito il nuovo film di Martin Scorsese, Gangs of New York. 10 "Per coloro che nella città postmoderna leggono l'avvertimento no go area (strade e quartieri degradati) come 'no go in' area, il termine straniero ha un significato differente rispetto a quelli per i quali no go si traduce in 'no go out' area" (pag. 70 SI). 11 Si potrebbe dire l'identità riciclata di "gente di plastica", per usare il titolo suggestivo di un lavoro teatrale di Pippo Delbono, che ha 1 7 messo insieme una compagnia teatrale di c.d. marginali che però sta ottenendo il riconoscimento del pubblico e della critica. 12 Eric Hobsbawn, The Age of Extremes, London, 1994, pag. 428. 13 Teorie dell'Identità (Introduzione), Percorsi di Analisi in Sociologia, a cura di Loredana Sciolla, 1983. L. Sciolla elenca tra i filoni in sociologia che hanno elaborato maggiormente il concetto di identità: il funzionalismo, l'interazionismo simbolico e la fenomenologia sociale. 14 Clifford Geertz e sua definizione di simbolo e cultura. 15 Per quanto riguarda una interpretazione antropologica collegata si veda l'approccio actor-oriented e "l'analisi delle situazioni di "interfaccia" dove i differenti mondi della vita interagiscono e si compenetrano", N. Long, Battlefields of Knowledge, Routledge, London 1992. 16 Ci sembra che la presenza della chiave interpretativa della psicanalisi prevalga rispetto ad autori come Melucci, che pratica la professione di psicanalista. Ma ciò è coerente con l'impostazione metodologica di attenzione alla complessità e difficile intelligibilità del mondo contemporaneo., esplicitata dall'autore stesso. 17 Il cui senso letterale è quello di estrarre e tirare via qualcosa da un tutto composito e ben amalgamato come la terra (to embed = to fix firmly in sorrounding mass). 18 R. Sennet, The conscience of the Eye: the Design and social life of Cities, London, Faber & Faber, 1993. 19 La Chiesa ufficiale ha sempre avuto un rapporto difficile con i movimenti eremitici e spiritualisti e ha sempre cercato di riportare a sé le loro forze centripete. 20 "Gli effetti culturali della Riforma furono in buona parte conseguenze non previste e addirittura non volute del lavoro dei Riformatori, spesso lontane o addirittura contrastanti rispetto a ciò che essi vagheggiavano (pag. 78)". L'Etica Protestante e lo Spirito del Capitalismo. Max Weber, 1904. 21 Weber parla di gabbia d'acciaio e di pietrificazione meccanizzata adornata da un convulso desiderio di sentirsi importante…di un mondo con specialisti senza spirito e gaudenti senza cuore. 22 Come afferma Clifford Geertz , la conoscenza religiosa è un credere per conoscere, presuppone un atto di fede. Inoltre, sempre Geertz che il simbolo plasma la realtà e così il pensiero protestante e la sua valenza simbolica hanno plasmato il mondo moderno. 23 Interessante la definizione utilizzata da Fabietti per descrivere il cambiamento del rapporto con lo spazio ed il tempo che hanno avuto le società indigene venendo a contatto con la colonizzazione e che le ha portate a ripensarsi in termini identitari, un'altra spiegazione dei fenomeni di profetismo, millenarismo o messianismo che si sono sviluppati in gran parte del mondo colonizzato, quali "i riti del cargo" in Oceania, "l'harrismo" in Costa d'Avorio, la riscossa dell'identità afro-americana attraverso una serie infinita di sette e confraternite. 24 Questo tipo di disposizione è spiritualmente più vicina alla visione orientale o al misticismo di paesi meticci quali il Brasile. Guide spirituali e guru di varia estrazione predicano questo tipo di atteggiamento stoico attraverso i più svariati pacchetti di offerta corsi e seminari. 25 Bauman tratta il discorso economico, in particolare come evoluzione delle teorie organizzative aziendali e guardando alla figura dei top managers nella società contemporanea che si sono sempre più deresponsabilizzati delle sorti delle istituzioni che guidano. Le istituzioni stesse devono diventare flessibili sotto la guida di tali personalità, pronte a cambiare strategia rapidamente, ad essere ristrutturate e a cedere all'esterno gran parte delle attività che prima venivano svolte al loro interno (outsourcing). 26 Cfr. nota 6. 8 Da idoli della tribù a idolo del foro: riflessioni sul concetto di cultura di Ugo Fabietti Quando qualche tempo fa un collega mi ha chiesto di intervenire in un convegno con qualche riflessione sul concetto di cultura, ho provato una certa esitazione, una specie di "ritrazione" di fronte all'idea di dover dire qualcosa su questo tema. La mia esitazione potrà sembrare paradossale: in fondo chi, più degli antropologi si è occupato della "cultura"? Ma la verità è che da circa tre decenni non esiste, per gli antropologi, una nozione più imbarazzante di questa. Tale imbarazzo si è tradotto in una serie di espressioni e di metafore dotate di un diverso spessore denotativo con cui gli antropologi hanno cercato di sfuggire (insoddisfatti) a ciò che loro stessi hanno ritenuto essere via via un insieme complesso di costumi, un'entità superorganica, una risposta all'ambiente, una configurazione di valori, un processo comunicativo, un testo, una rete di significati, un'invenzione e, infine, un impiccio e un imbroglio. Ultimo, e in certo senso riassuntivo di tutti gli altri disagi, quello di uno dei più noti antropologi di oggi, Arjun Appadurai, che così esprime il suo personale imbarazzo: "Mi trovo spesso a disagio con il sostantivo cultura… Se penso alla ragione di ciò mi rendo conto che gran parte del disagio dovuto al sostantivo ha a che fare con il preconcetto che la cultura sia un qualche oggetto, una cosa o una sostanza, fisica o metafisica. Questa sostanziazione sembra riportare la cultura entro lo spazio discorsivo della razza, e cioè proprio entro quell'idea per contrastare la quale era stata in origine concepita. Se implica una sostanza mentale, il sostantivo cultura privilegia di fatto quell'idea di condivisione, accordo e compiutezza che contrasta fortemente con quel che sappiamo sui dislivelli di conoscenza e sul prestigio differenziale degli stili di vita e distoglie l'attenzione dalle concezioni e dall'azione di coloro che sono emarginati e dominati. Se è invece vista come una sostanza fisica, la cultura comincia allora a puzzare di qualche varietà di biologismo, inclusa la razza, che abbiamo sicuramente superato come categorie scientifiche". E' da un disagio di questo tipo che deriva il mio timore a dire qualcosa sulla cultura, ma anche la necessità, credo, di "ripensare la cultura". Partiamo da una statistica, frutto di una rapida ricerca su internet condotta un paio di anni fa negli Stati Uniti: il termine "cultura" rinviava a più di cinque milioni di pagine web (tolte tutte quelle che facevano capo a pratiche agricole - in inglese agricoltura suona "agri-culture"). Ma in riferimento alle discipline antropologiche, il numero delle pagine crollava a sessantamila, mentre il sito di Amazon, la più grande libreria on-line del mondo, riportava oltre ventimila titoli con il temine cultura di cui però solo milletrecento erano testi di antropologia (culturale). Questa statistica è sicuramente congruente al disagio degli antropologi perché significa chiaramente che oggi il termine cultura lo si ritrova per lo più "fuori" dell'antropologia. A prima vista gli antropologi sembrerebbero doversene rallegrare. In fondo hanno sudato sette camicie, e almeno sette decenni, per imporre questo concetto all'attenzione delle scienze sociali e del pensiero occidentale. Certamente in parte è così. Ma se guardiamo che cosa ha davvero significato, per il concetto di cultura, questo ritrovarsi fuori dall'antropologia, scopriremo che gli antropologi hanno molte meno ragioni di sentirsi soddisfatti. Sia chiaro che il concetto di cultura, così come è stato elaborato e utilizzato dall'antropologia ha avuto (ed ha) alcuni meriti che nessuno potrebbe negare. Senza farne una genealogia, si può dire che il concetto di cultura consentì di pensare il genere umano come capace di esprimere ovunque, in ogni epoca e luogo, una creatività materiale, comunicativa e simbolica che, per quanto diversa da luogo a luogo, da epoca a epoca, presentava caratteristiche di assoluta commensurabilità1 . Concettualizzata come cultura umana, questa creatività ricevette letture e specificazioni particolari, legate a contesti storici, sociali, linguistici individuali (le "culture umane"). Il concetto, usato in maniera estensiva o universalista (la cultura umana) consentì infatti di ricomprendere, stavolta usato in maniera intensiva (o particolaristica), le forme locali che questa cultura umana assumeva in punti diversi del pianeta (le culture umane). Sorvolando sulle implicazioni epistemologiche di questa mossa intellettuale che fu l'elaborazione del concetto antropologico di cultura, possiamo dire che si trattò di una mossa politicamente importante, perché in questo modo si cominciarono a prendere seriamente in conto delle realtà umane distribuite nello spazio che una visione eurocentrica aveva praticamente ignorato come elementi utili per una migliore comprensione della storia complessiva del genere umano. Dalla elaborazione del concetto di cultura l'antropologia, da parte sua, trasse un vantaggio: quella di presentarsi come la prima forma di riflessione socialmente riconosciuta, e accademicamente autorizzata a trattare di forme di vita culturali e sociali "altre". Così come è stato impiegato dagli antropologi anche in relazione alla pratica etnografica, il concetto di cultura è venuto a significare un comportamento umano strutturato in modelli appresi. Proprio l'idea che la cultura consista di modelli mentali e comportamentali strutturati e appresi costituisce oggi il caposaldo ultimo dell'idea antropologica di cultura. Così definita, però, la cultura deve essere "spiegata", e questo non può avvenire se non grazie ad analisi particolari e circostanziate, cioè grazie all'etnografia (senza la quale l'antropologia, è bene ricordarlo, non avrebbe senso). Come ci dice la statistica però, i contesti d'uso extra-antropologici del termine cultura sono di gran lunga più numerosi rispetto di 9 quelli in cui il concetto è impiegato dagli antropologi. I concetti non sono le parole che li evocano, e infatti il loro significato cambia a seconda del contesto in cui vengono usati. Se nel contesto antropologico cultura rinvia a un complesso di comportamenti mentali e pratici strutturati e appresi, che deve essere sempre spiegato, cioè descritto e reso coerente, "fuori dall'antropologia" cultura è venuta a significare qualcosa di diverso, non di completamente diverso, ma diverso quel tanto che basta per rovesciarne a volte le finalità con cui gli antropologi lo hanno da sempre usato. Nel contesto non-antropologico la cultura non deve ad esempio essere spiegata, ma è qualcosa che "spiega": spiega il comportamento, i gusti, le idee politiche, quelle relative al rapporto tra i sessi, e naturalmente l'economia, l'organizzazione sociale e le visioni del mondo, sia del mondo sensibile che di quello ultrasensibile. Spiega le guerre etniche in Africa e nei Balcani, spiega le difficoltà di inserimento degli immigrati dei paesi poveri nelle megalopoli europee e nordamericane, spiega le tensioni tra bianchi e neri e ispanici nelle città degli Stati Uniti, spiega tanto i "miracoli economici" di alcuni paesi asiatici quanto le loro crisi ricorrenti. Spiega l'11 settembre e, naturalmente, lo "scontro delle civiltà". Com'è allora che un concetto elaborato dall'antropologia come guida per la pratica etnografica, cioè per descrizioni e spiegazioni localmente circostanziate di comportamenti e di disposizioni umane socialmente apprese, al di fuori dell'antropologia è diventato un "concetto-spiega-tutto"? L'elaborazione del concetto di cultura da parte degli antropologi rappresentò, ho detto prima, non solo un'importante mossa intellettuale, ma anche una mossa politica significativa, il concetto ebbe altri risvolti "politici", e non solo nel senso che mediante esso una cultura (quella europea) si aprì alla comprensione delle culture "altre". Formulato per la prima volta in Inghilterra nel 18712 , divenne particolarmente centrale nell'antropologia americana dei primi del Novecento, per poi dispiegarsi nuovamente nell'antropologia europea successivamente alla II guerra mondiale. Senza stare a dire i perché e i percome di questo "giro", fu in America che il concetto di cultura sviluppò le caratteristiche di un "anti-concetto", che erano già contenute nella sua formulazione originaria del 1871. Quello di cultura è infatti un concetto con forti valenze anti-. Per gli antropologi "cultura" non indica solo tutto ciò che non è natura, ma anche, e soprattutto, tutto ciò che non può essere descritto e spiegato mediante nozioni e discorsi che fanno capo a una idea di eredità culturale biologicamente trasmessa. Negli anni di formazione di questo concetto l'idea in voga era quella di "razza" la quale veniva usata per distinguere indifferentemente delle diversità, tanto di carattere culturale che somatico. Il carattere peculiare del contesto in cui tutto ciò avvenne (l'antropologia culturale e le scienze sociali americane della prima metà del Novecento) ebbe un impatto decisivo sullo stile intellettuale degli antropologi. Se la cultura era ciò che doveva difendere le scienze sociali americane dalla razziologia e la 10 società americana dal razzismo, gli antropologi si guardarono di fatto dall'esportare questa loro posizione nella sfera pubblica, e preferirono, per una serie di ragioni anche comprensibili, mantenere questo discorso entro i limiti del campo disciplinare. Queste ragioni sono da ricondurre all'uso del concetto di "cultura" come concetto simbolo dell'antropologia, il portabandiera della lotta contro i darwinisti sociali, i razziologi e i razzisti; ma anche un'opzione-rifugio, un bastione dietro al quale trincerarsi per distinguersi dalle discipline che proprio in quel periodo riuscivano, attraverso l'adozione e l'applicazione di metodi quantitativi, a presentarsi come "più scientifiche" dell'antropologia culturale. L'effetto lungo di questo "arrocco" (tanto per usare una metafora scacchistica) fu che cultura non indicò più soltanto ciò che non era natura o razza, ma anche ciò che avrebbe potuto essere concettualizzato in termini di "storia" e di "classe sociale". Diventò una specie di punto di vista auto-legittimato da cui osservare un campo distinto dell'attività umana. Diventò un modo per guardare ai popoli in una loro astratta "totalità", senza specificare quelle differenze e disomogeneità di prospettive, di potere e di interessi che sempre esistono all'interno di "una cultura". E' vero che non fu sempre così, soprattutto in Europa3. Se però consideriamo il ruolo che gli Stati Uniti hanno avuto, nella seconda metà del Novecento, nella diffusione in Europa e nel mondo di idee e di modelli di consumo, compreso il consumo delle idee, non dobbiamo stupirci se tra queste idee esportate troviamo anche il concetto antropologico di cultura (o almeno una lettura particolare di esso). Diventato un punto di riferimento irrinunciabile per l'antropologia, e assunte le caratteristiche di un vero e proprio paradigma scientifico, il concetto di cultura, si trasformò, una volta messo in circolazione fuori dell'accademia, in un concetto rigido, autoesplicativo e capace di denotare qualcosa di molto concreto, proprio come il mercato, l'arte, lo stato, l'economia ecc. della cui esistenza nessuno poteva dubitare. Reificata, la cultura da concetto descrittivo divenne esplicativo, mentre più spiegava più si irrigidiva, e più si irrigidiva più spiegava, come altre idee reificate: da idolo della tribù (la comunità antropologica) si trasformò in idolo del foro (lo spazio pubblico). Una volta reificata, la cultura è diventata non solo ciò che spiega tutto: conflitti, differenze, interessi, atteggiamenti ecc. ma anche un appiglio per giustificare tutto e tutti, secondo una malintesa idea di relatività culturale. Sul versante opposto la cultura viene oggi chiamata in causa per sostenere la tesi dello scontro di civiltà, per promuovere politiche educative spesso retrive, per riproporre in chiave debiologizzata nuove forme di razzismo, per progettare nuove forme di segregazione sociale, così come per sostenere le tesi di quegli ambienti iperliberisti che fanno una missione di civiltà del loro desiderio di esportare ovunque, e con qualsiasi mezzo, le proprie vedute in materia di politica economica. E' sconfortante, per chi frequenta le discipline antropologiche, assistere oggi a una simile utilizzazione del concetto di cultura quando si credeva che il suo destino fosse invece quello di liberarci dal biologismo e dal razzismo, di promuovere il pluralismo e affermare una disposizione etica ed intellettuale all'ascolto della diversità. Esportato al di fuori dell'antropologia, il concetto di cultura non ha certo contribuito a eliminare il biologismo dalle scienze sociali, né il razzismo dal discorso comune e della politica. Piuttosto li ha trasformati. Il biologismo si è abbarbicato all'idea di cultura, dal momento che non si vede come certe dinamiche biologiche potrebbero sostanzializzarsi se non in comportamenti culturali; il razzismo invece, ne è uscito de-biologizzato, dal momento che non si presenta più come una teoria che pretende di fondarsi su dati biologici. Il neo-razzismo si avvale dell'idea antropologica di relatività culturale per estremizzarla al punto da sostenere che le culture umane sono tra loro radicalmente diverse, incommensurabili e per questo incomunicanti. Questo razzismo infatti fa leva, rovesciandone il senso, su due assunti emersi, guarda caso, proprio dal discorso antropologico: il primo è quello per cui le culture umane, per quanto diverse e per quanto diversamente organizzate, hanno tutte diritto a considerazione e riconoscimento. Il secondo afferma che se alle diverse culture è riconosciuta una pari dignità di esistenza, allora deve essere anche riconosciuto, a chi lo rivendica, il diritto alla differenza e alla propria identità. È dal "bricolage ideologico" tra questi due assunti e l'idea che le culture umane sono incommensurabili che il neorazzismo trae le proprie argomentazioni per proporre l'esclusione e la segregazione delle culture. Nel contesto esterno all'antropologia il concetto di cultura è diventato infatti un modo per impacchettare velocemente razza, etnia, lingua, religione e utilizzarle come marcatori della differenza. Preoccupa il fatto che questo modo di maneggiare il concetto stia diventando una merce d'esportazione in tutto il mondo. Samuel Huntington, già noto anche da noi per il suo libro Scontro di civiltà (1995), ha curato nel 2000 un libro intitolato Culture Matters, ("Questione di cultura"). La tesi di fondo degli autori che hanno contribuito a questo libro è che i divari e gli squilibri socioeconomici tra differenti regioni del pianeta, sarebbero il prodotto di eredità e disposizioni culturali, il tutto in barba alle teorie dello scambio ineguale e delle strutture della dipendenza. Su altri versanti la cultura è spesso invocata per rivendicare un proprio diritto alla differenza, ma anche per affermare la propria supposta superiorità nei confronti di altri. Anche quando si presta a un uso relativistico, la cultura propria e degli altri è oggetto di discorsi che evocano una scala graduale di importanza e di valore, come avviene ad esempio nei discorsi sullo sviluppo. In questo gli antropologi hanno, come ho detto, le loro responsabilità. Sorvolo su quelle teorico-epistemologiche più complesse. Una di queste responsabilità è però senz'altro quella di aver utilizzato il termine cultura in riferimento a unità d'analisi sempre più piccole e al tempo stesso estremamente generiche: non solo la cultura trobriandese o balinese, ma anche la cultura dei contadini, dei pescatori, del cibo, del turista e dell'impresa. Se con il termine cultura si vuole indicare una entità circoscritta, localizzata e descrivibile nella totalità dei suoi elementi componenti, è evidente che oggi tale concetto è destituito di fondamento. Qualcuno ha parlato di "esagerazione della cultura", qualcun altro di "eccesso". Questa "esagerazione" fu il frutto di intenzioni originariamente non del tutto disprezzabili, perché corrispose al tentativo di presentare ai lettori occidentali i popoli altri come capaci di elaborare esperienze umane ampiamente condivise e dotate di senso4 . Ma questa "esagerazione" ebbe effetti di reificazione e, trasportata nella sfera pubblica, andò ad alimentare il culturalismo. Il fatto è che non furono più solo gli antropologi a "esagerare" le culture, ma anche, e soprattutto, coloro che si sentirono, grazie a questo concetto, in grado di perseguire finalità e interessi propri. Un problema connesso all'uso indiscriminato del concetto di cultura consiste proprio nel fatto che le stesse nuove forme di soggettività che emergono oggi nei vari luoghi del pianeta (soggettività religiose, etniche, politiche, sessuali, giuridiche, di genere ecc.) sono le prime a fare riferimento alla "cultura" come ad un parametro di legittimazione del diritto alla differenza, autonomia, indipendenza, riconoscimento ecc. La risposta dell'antropologia, di fronte a queste utilizzazioni del concetto è ovviamente critica, ed è consistita nel sottolineare come tali soggettività siano non solo delle costruzioni, ma addirittura delle invenzioni spesso finalizzate a produrre nuove e scandalose esclusioni. Ma cosa si è guadagnato col dire che queste soggettività sono delle invenzioni e delle costruzioni? Spesso, quello che gli antropologi hanno guadagnato da questa critica è nientemeno che l'accusa di….razzismo o, nel migliore dei casi, quella di voler negare agli altri il diritto di rivendicare la propria autenticità. Meglio sarebbe allora analizzare come queste soggettività si producono nella dialettica della vita reale e nell'immaginario che, grazie alla diffusione planetaria dei media, sta diventando una delle più potenti risorse nella costruzione di queste soggettività. Forse la principale ingenuità da parte degli antropologi è stata quella di pensare che, operando nello spazio neutro dell'accademia, avrebbero potuto influenzare positivamente la società politica e civile, mentre invece mettendo in circolazione un concetto come quello di cultura, hanno soltanto contribuito, in maniera del tutto paradossale, a rafforzare i pregiudizi della società o a ridicolizzare la stessa idea di cultura, come nel caso di una pubblicità che mi è capitato di vedere di recente, in cui una ditta di sanitari magnificava la propria….. "cultura del bagno". Sono infatti ben pochi coloro che ormai si prendono la briga di chiedere agli antropologi cosa sia la cultura (e tra questi vi è il collega che mi ha sollecitato a compiere qualche riflessione in merito). Ma non è questo il punto. Mi sembra importante infatti far notare come al di fuori dell'accademia gli antropologi abbiano reso un miglior servizio alla società e all'antropologia tutte le volte che non si sono accontentati di arzigogolare sul concetto di cultura, ma quando hanno invece investito teoricamente alcune categorie culturali 11 politicamente significative. Non nel senso che si sarebbero dati alla politica, ma nel senso che hanno analizzato le pratiche e i discorsi del culturalismo, del razzismo e dell'etnicità senza limitarsi a dire che in fondo la cultura, la razza e l'etnia sono soltanto delle invenzioni. Se si pensa alla frequenza con cui la cultura è tirata in ballo per spiegare ciò che accade nel mondo, dovremmo forse chiederci se non sia il caso di cominciare a mettere tra parentesi il concetto stesso di cultura. E' un concetto a cui gli antropologi (me compreso) sono particolarmente affezionati proprio per le ragioni che ne hanno promosso l'elaborazione e l'utilizzazione e che prima ho cercato di riassumere brevemente. Tuttavia bisogna chiedersi se il fatto di perseverare nella sua utilizzazione non generi una sorta di legittimazione, di assuefazione o addirittura, dell'uso del concetto in contesti extra-accademici. Cosa voglio dire quando mi azzardo (e non sono certo il solo) a dire che forse il concetto di cultura dovrebbe essere messo tra parentesi? Infatti non vorrei essere frainteso. Spiegare le recenti diatribe sul crocifisso nelle scuole italiane, o sull'opportunità di evocare Babbo Natale ai giovani studenti musulmani invocando la diversa "cultura" delle parti in causa, appare altrettanto inadeguato che riferirsi alla cultura per spiegare le diverse concezioni giuridiche presenti nelle diverse aree del pianeta. Abbiamo bisogno della "cultura" per spiegare le sevizie sui prigionieri iracheni? O per comprendere i motivi che un paio d'anni fa spinsero delle donne cecene a cercare di farsi saltare per aria con gli ostaggi in un teatro di Mosca, oppure quando una ventina di anni fa centinaia di adepti di una setta guidata da un predicatore americano scelsero di compiere un suicidio di massa? Tutto questo ha forse a che vedere con cose come "la cultura" occidentale e quella orientale, quella cristiana e quella musulmana? Prendiamo un esempio concreto: la distruzione delle statue del Budda avvenuta nel 2000 nella Valle di Bamyan, in Afghanistan per opera dei taleban. Certo possiamo rifarci alla "iconofobia" della "cultura" musulmana… Ma a parte il fatto che anche il cristianesimo ha una lunga tradizione iconofobica che va dall'VIII al XIX secolo, i veri motivi per cui i talebani fecero saltare le statue è perché queste rientravano nel patrimonio dell'umanità stilato dall'UNESCO, una categoria costruita, a giudizio dai talebani, da una cultura, quella occidentale, coi cui principi i talebani non avevano nessuna intenzione di identificarsi. Se i talebani non sono gli unici musulmani a non riconoscersi in questa "cultura", tuttavia non a tutti i musulmani sarebbe venuto in mente di distruggere le statue. Se dovessimo applicare il modello culturalista, cosa dovremmo dire dei movimenti estremisti ebraici che vorrebbero radere al suolo il Tempio della Roccia costruito a Gerusalemme dal califfo Omar e poi ricoperto d'oro dai crociati per sostituirlo con un nuovo Tempio? Se non affrontiamo analisi puntuali e articolate delle motivazioni sociali, politiche, psicologiche che muovono gli esseri umani, e ci rifugiamo nella "cultura" avremo fatto il gioco solo di quanti lo scontro delle civiltà lo vogliono davvero. Allo stesso modo, non è sufficiente dire che i film che vediamo alla televisione, la diffusione della coca-cola e dei MacDonald nel mondo sono il segno dell'esportazione della cultura americana su scala planetaria: forse sarebbe meglio interrogarsi sugli interessi che muovono questi fenomeni, sui discorsi che li promuovono, sui modelli di accettazione o di rifiuto nei loro confronti e sulle motivazioni e sull'immaginario che stanno alla base di questi opposti atteggiamenti… Poiché il valore d'uso dei concetti dipende dal contesto storicopolitico del loro impiego, del concetto di cultura vanno certamente mantenuti i suoi significati di base, cioè quelli che fanno capo all'idea di modelli di comportamento e di ragionamento strutturati e appresi. Questa idea va declinata però attraverso descrizioni di come questi modelli siano costruiti, selezionati, utilizzati per produrre progetti che si confrontano tanto con la dimensione della vita locale quanto con le forze della globalizzazione (tecnologie, media, modelli di consumo, rappresentazioni del mondo); e su come queste forze vengano utilizzate, manipolate e reinterpretate localmente in funzione delle esperienze, delle aspettative, degli interessi, dell'immaginario e dei progetti egemonici o di resistenza degli interessati. Concludo queste mie riflessioni con una domanda retorica. Perché gli antropologi (ma non solo loro) dovrebbero affidare la propria comprensione del mondo a una parola che l'uso extraantropologico ha trasformato in un idolo del foro e in un feticcio? NOTE Tale commensurabilità risultò possibile per via del progetto dell'antropologia di allora: disponendo su una ideale scala temporale le culture, le società e le loro istituzioni, queste apparivano ordinabili per maggiore o minore complessità, essendo ciascuna di esse "rappresentante" di una fase evolutiva della cultura umana generale. Successivamente, quando gli studi etnografici si defezionarono nei metodi e nella teoria, apparve sempre più chiaro che tali semplicistici raffronti non erano più adeguati. Le culture cominciarono ad 1 12 essere studiate nella loro particolare singolarità, per cui apparvero non più commensurabili, ma piuttosto incommensurabili, in quanto le loro specificità non potevano più dare luogo a raffronti basati su criteri superficiali e spesso del tutto privi di aggancio con la realtà. Questa idea di incommensurabilità delle culture, che favorì l'adozione di una prospettiva relativistica in antropologia, fu un "progresso" nello studio delle culture", dal momento che faceva piazza pulita di prospettive teoriche basate sulla speculazione e su giudizi di valore impliciti del tutto euro-centrici. Introducendo l'incommensurabilità e il relativismo metodologico gli antropologi si disposero a problematizzare lo studio delle culture in direzione di un lavoro di traduzione e di ripensamento delle categorie (euro-centriche) della loro disciplina. 2 "La cultura o civiltà, considerata nel suo più ampio significato etnografico, è quell'insieme complesso che comprende il sapere, le credenze, l'arte, i principi morali, le leggi, le usanze e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisite dall'uomo quale membro di una società". Edward B. Tylor, Primitive Culture, London 1871. 3 Nell'antropologia europea il concetto di cultura ha conosciuto utilizzazioni più articolate e specificazioni che hanno tenuto conto della stratificazione interna, dei dislivelli, e della natura storica delle culture. Ripreso negli anni Ottanta in Gran Bretagna dalla tradizione dei Cultural Studies, il concetto di cultura è stato utilizzato in una prospettiva che reintegrava le problematiche del potere, della storia, dell'egemonia. 4 Oltre che il frutto dello sforzo di costruire degli oggetti di riflessione che fossero in qualche modo comparabili tanto tra loro quanto con l'esperienza culturale dell'osservatore. 13 Il razzismo di Antonio De Lauri C'è solo lo sforzo continuo e necessario per ridurre l'opacità, per diminuire l'ingiustizia, per rendere più vivibile il pianeta che abitiamo, in definitiva per diventare un po' di più esseri umani. Alberto Melucci "Culture in gioco" Letteratura, arti figurative, filosofie più o meno misticheggianti denunciano il disagio moderno, ma assieme non lo sanno oltrepassare. Ernesto De Martino "La fine del mondo" Il razzismo nacque come pratica prima ancora che ci fosse un termine o una categoria che ne designasse l'atto. Parafrasando Touraine, che lo definì una malattia sociale dei tempi moderni, ed Etienne Balibar, potremmo considerare il razzismo come un fatto sociale totale, un fenomeno nel quale sono implicate pratiche, discorsi, rappresentazioni e razionalizzazioni. Il razzismo è un concetto che fa la sua comparsa nel contesto sociale europeo verso negli anni venti del ventesimo secolo. Nel 1925 l'aggettivo "razzista" veniva usato nella pubblicistica francese con riferimento alla destra del partito nazionale tedesco; nel 1927 Edmond Vermeil coniò il sostantivo "razzismo", usato come sinonimo di xenofobia, imperialismo, nazionalismo soggettivista. Tuttavia gli scienziati sociali europei e statunitensi raramente usarono il concetto di razzismo, erano preferite espressioni quali "relazioni razziali", "società di casta" e altre. La prima ad usare il termine razzismo per designare fenomeni di sfruttamento, subordinazione ed esclusione fu Ruth Benedict. Nel suo lavoro "Race: Science and Politics", pubblicato nel 1940, l'antropologa si proponeva di definire il razzismo, vale a dire quel fenomeno sociale, politico ed ideologico, come il "nuovo calvinismo", che asserisce che un determinato gruppo ha le stigmate della superiorità e un altro quelle dell'inferiorità. Sulla base delle conoscenze antropologiche, sociologiche e biologiche del tempo, la Benedict tentava di togliere valore alle principali affermazioni del razzismo; ella sosteneva infatti che vi fosse una totale assenza di relazioni fra la "razza", che è una classificazione fondata su tratti ereditari, la lingua, che è un comportamento acquisito e la cultura, che è un comportamento trasmesso socialmente. Il lavoro dell'antropologa si concentrava essenzialmente sul problema della natura del razzismo, della sua nascita e della sua diffusione. La Benedict riteneva la categoria di "razza" uno strumento utile ai fini dello studio scientifico della storia umana, ma questa sua fede in una sorta di scienza oggettiva, priva di implicazioni ideologiche e di valori, non permetteva all'antropologa di rendersi conto "che proprio nella categoria di razza si nascondeva un tentativo di classificare e ordinare il mondo, per disciplinare e pianificare una società moderna attraversata da conflitti e ambivalenze" [Alietti, Padovan: 40]. 14 "I fenomeni razzisti sono onnipresenti nella storia […] l'odio razziale è ancorato nella natura umana" [Taguieff: 9]. Queste affermazioni dello storico Joel Kovel, riprese da Taguieff, rimandano a quella che è la visione continuistica del razzismo: "essa consiste nell'identificare l'etnocentrismo, fenomeno antropologico universale, come fonte o origine del razzismo, il quale viene ridotto, di conseguenza, a una delle sue manifestazioni storiche, al suo ultimo derivato moderno" [ibidem: 9]. Il sociologo W. G. Sumner propone una definizione di etnocentrismo: "il punto di vista secondo il quale il gruppo a cui si appartiene è il centro del mondo e il campione di misura a cui si fa riferimento per giudicare tutti gli altri" [ibidem: 10]. In ogni società è presente una certa idea di che cosa sia l'uomo, una determinata concezione dell'umanità e di ciò che non è umano, in altre parole una particolare concezione dell'alterità, del diverso. L'etnocentrismo è un fenomeno comune ad ogni società, esso consiste in "un atteggiamento che porta a giudicare i modi di comportarsi, le credenze e le idee sul mondo, il sapere degli altri nei termini dei propri valori e della propria tradizione culturale" [Fabietti, Malighetti, Matera: 12]; possiamo quindi considerarlo come un fenomeno che limita o, comunque, che rende difficile la comprensione degli altri. L'etnocentrismo ci conduce a disumanizzare l'altro, nella modernità ciò si realizza con la creazione politico-scientifica di categorie di sotto-uomini. "L'etnocentrismo conduce ogni popolo a esagerare, ad accentuare i tratti particolari che appartengono ai propri costumi e che lo distinguono dagli altri popoli" [Taguieff: 10]. Tenendo in considerazione una definizione ampia del pregiudizio razziale come "gli altri popoli sono inferiori a noi in quanto sono differenti da noi", questo risulterà come un derivato dell'etnocentrismo. Tuttavia, vedremo che il pregiudizio razziale non è sufficente per spiegare il razzismo, sarebbe quindi un errore ridurre il razzismo all'etnocentrismo. Come sostiene Clara Gallini, "ciascun popolo ha l'etnocentrismo che si merita" [Gallini: 8]; le categorie e i modelli che utilizziamo, gli schemi mentali che siamo in grado di mettere in atto, sono frutto di una logica e di un sapere ben determinati culturalmente e storicamente, non è possibile dunque immaginarsi al di fuori di tale processo, "non è pensabile porsi al di fuori della propria storia, di quei contesti che comportano necessariamente una certa dose di etnocentrismo" [Siebert: 158]. Tuttavia, suggerisce la Gallini, ciò che possiamo fare è porci in una prospettiva di "etnocentrismo critico": "la relazione con l'altro non si gioca in uno spazio neutro, al di là e al di sopra della storia e dei rapporti di forza economici e politici" (Siebert: 159). La nostra attenzione deve orientarsi, quindi, sia alle contingenze storiche, sia ai meccanismi di costruzione e di rappresentazione dei diversi universi simbolici che danno senso alla percezione e alla comprensione dei fenomeni umani. quindi una teoria basata sul determinismo biologico delle attitudini, delle disposizioni e degli atteggiamenti propri di una particolare "razza", in rapporto alla sua cultura, civiltà e intelligenza. Da questo punto di vista, il termine razzismo rimanda alle dottrine ed alle pratiche che rimandano alle teorie antropologiche della fine del diciottesimo secolo e sviluppatesi poi nel diciannovesimo. Il razzismo è essenzialmente non egualitario e pretende di fondarsi sulla conoscenza scientifica; ne sono un esempio il "razzialismo" di Gobineau e il "razzialismo evoluzionista" di Le Bon, Haeckel e Vacher de Lapouge, i quali prendono a prestito alcuni termini della teoria darwiniana. Il fondamento del razzismo dunque è la disuguaglianza degli uomini, dove alcuni sono ritenuti di valore inferiore, in base alla naturale appartenenza ad una "razza", ritenuta anch'essa di valore inferiore. · La teoria modernista ampia. Quest'ultima fa riferimento a tre modelli di "protorazzismo" i quali hanno in comune il mito della purezza del sangue e la mixofobia, ossia la fobia per gli incroci fra le "razze". Tali modelli sono: il mito del "sangue puro" in Spagna e Portogallo; lo schiavismo e il colonialismo europei; la dottrina delle "due razze", ossia la dottrina aristocratica francese. In quest'ultimo caso, il termine "razza" significa stirpe, lignaggio: i Franchi, cioè la nobiltà, e i Galli o i Gallo-romani, cioè il terzo stato, costituivano nel loro conflitto la popolazione francese. Il mito del "sangue puro" nella penisola iberica può essere considerato la prima forma di protorazzismo occidentale che fece la sua comparsa tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo, nel secolo d'oro spagnolo. Si basava fondamentalmente su due aspetti: una visione negativa degli ebrei e la convinzione che i "difetti" attribuiti agli ebrei fossero legati alla loro natura, cioè trasmessi ereditariamente come una "incancellabile macchia". Siamo quindi di fronte ad una forma di "antisemitismo razziale", in cui il mito del "sangue puro" è il fulcro ideologico atto a garantire gli interessi della classe dirigente e a difenderne i privilegi, attraverso pratiche di esclusione e di discriminazione. In questa società cattolico-monarchica, nel quindicesimo secolo si sostituì una legislazione discriminatoria basata sulla "purezza" della fede, con una basata sulla "purezza" del sangue. Questa ipotesi di un pre-razzismo antiebraico mette in discussione la teoria modernista ristretta con i suoi assunti, in quanto precede di circa due secoli la comparsa delle prime classificazioni delle "razze". Lo schiavismo, lo sfruttamento coloniale dei popoli di colore e il razzismo aristocratico francese, si muovono nella stessa direzione. Il razzismo schiavista e antinegrista si basa sulla superiorità razziale dei conquistatori: idolatria, cannibalismo, resistenza al cristianesimo, sono le "accuse" mosse contro i conquistati; stigmatizzate e giudicate negativamente divengono le tesi su cui si fonda la superiorità dei conquistatori. Secondo Eric Williams, la schiavitù sta all'origine del razzismo: il pregiudizio del colore è visto in chiave funzionalista, proprio per il fatto di essere nato dalle esigenze economiche delle piantagioni, la sua funzione è quella di legittimare lo sfruttamento e consolidare un sistema di dominio per renderlo "naturale". Ciò non significa che Il razzismo come fenomeno moderno Per ciò che concerne la teoria del razzismo come fenomeno moderno è possibile distinguere tre varianti. · La teoria modernista ristretta. Questa identifica il razzismo come "un immediato successore dell'attività di classificazione delle razze umane diffusasi nel corso del diciottesimo secolo" [Taguieff: 20]. Le "razze" vengono distinte in base ai loro caratteri morfologici, considerati ereditari. Le classificazioni sono di tipo gerarchico, una determinata "razza" viene collocata in un preciso punto in base ad una scala di valori, più precisamente il nero viene posto al gradino più basso della scala ed il bianco a quello più alto. La collocazione in questa scala gerarchica è irreversibile e da tale posizione derivano l'esclusione, la discriminazione e la segregazione. Coloro che sostengono questa teoria ritengono che non vi possa essere razzismo senza tenere in considerazione il moderno concetto di "razza". In questo particolare caso, il razzismo si poggia sulle tassonomie dei primi naturalisti-antropologi quali Buffon, Camper etc. Occorre fermarsi, prima di proseguire, sui termini di segregazione e discriminazione. Il primo può essere applicato a realtà diverse, in particolare etniche, razziali e sociali. La segregazione razziale vede l'emarginazione di un gruppo dislocato in spazi ad esso riservati, una separazione geografica quindi a cui di solito si affiancano un certo tipo di misure restrittive più o meno rigide: ghetti ed enclavi sono un classico esempio di segregazione. La discriminazione razziale può essere applicata a tutti i campi della vita sociale: scuola, lavoro, etc. e si manifesta anche nel modo in cui i discriminati vengono trattati dai media o dal cinema. La discriminazione corrisponde ad una logica di gerarchizzazione mentre la segregazione coincide con una logica di differenziazione. · La teoria modernista ultraristretta. Qui il razzismo è ridotto a dottrina del determinismo delle attitudini, cioè dei comportamenti e degli atteggiamenti utili per fornire un fondamento scientifico alla tesi della "disuguaglianza delle razze umane". La teoria ultraristretta del razzismo riduce quest'ultimo alle "teorizzazioni scientifiche della razza e alle loro conclusioni normative, osservabili nel diciannovesimo secolo e durante la prima metà del ventesimo secolo" (ibidem: 27). La "razza", nel quadro di un determinismo ereditario di specifiche caratteristiche, viene definita in base ad un'origine e allo stesso tempo ad una forma, negando in tal modo l'unità del genere umano. Il razzismo è 15 prima della comparsa dello schiavismo non vi fossero dei pregiudizi europei contro i neri ma, con lo sfruttamento capitalistico della manodopera di colore, tali pregiudizi furono legittimati e resi coerenti in una ideologia. In questo contesto schiavista razzializzato, le relazioni tra padroni e schiavi vengono regolamentate dal Codice nero, promulgato dall'amministrazione regia nel 1685 e ripreso nel 1724. Tale Codice rappresentò il manifesto delle paure, per esempio del diffondersi dei meticci a seguito dei matrimoni interrazziali, della società bianca; medianta questo Codice si esprimeva la volontà di mantenere la "barriera del colore" inalterara e invalicabile. In questo modo nella società schiavista venne a crearsi una "linea del colore" per separare i bianchi dai neri e dai mulatti, a loro volta gerarchizzati sulla base di più piccole differenze. La teoria modernista ampia appare quindi più conforme alla realtà storica: sebbene il sapere scientifico moderno abbia contribuito alla legittimazione ed alla diffusione del razzismo moderno, non lo si può porre all'origine ed alla base di quest'ultimo. gruppo esterno sentendosi legittimato a comportarsi seguendo uno schema collettivamente condiviso. Quindi il pregiudizio è sostenuto e riprodotto dal continuo confronto tra sé e il proprio gruppo di appartenenza da una parte, e tra il gruppo di appartenenza e gli altri gruppi, situati geograficamente nello stesso spazio, dall'altra. Seguendo tale ragionamento, se prendiamo per esempio in considerazione una società divisa dal criterio del colore della pelle, i contenuti dell'identità sociale di un membro del gruppo bianco dominante forniranno le motivazioni ideologizzate dell'inferiorità degli individui con la pelle nera. In "Caste and Class in a Southern Town", John Dollard afferma che il pregiudizio dei bianchi nei confronti dei neri si inscrive in un rapporto di dominazione che influisce sul perpetuarsi di una situazione di casta e di "inferiorizzazione". Gli atteggiamenti dei bianchi appaiono all'autore "determinati non tanto dal contatto fisico con i neri, quanto dal contatto con l'atteggiamento prevalente nei loro confronti" [Wieviorka: 42]. Il pregiudizio perciò è il risultato dell' "evoluzione della personalità razzista, delle frustrazioni vissute nell'infanzia, delle difficoltà incontrate nella vita adulta" [ibidem: 42], tale ostilità non riesce a sfogarsi nel gruppo dei bianchi e si orienta verso i neri. Una simile concezione del pregiudizio la ritroviamo nell'opera di Gunnar Myrdal, "An American Dilemma. The Negro Problem and Modern Democracy" del 1944. Qui il problema del razzismo pone gli americani davanti al dilemma fra il loro credo, ricco di valori morali legati alla nazione e alla democrazia, e l'oppressione dei neri, alimentata dall'ignoranza. "Il nero è presentato in maniera stereotipata, continuamente distorta, sempre nel senso di una svalutazione; il razzismo contro i neri è carico di concetti e di immagini che le caratteristiche del bersaglio che colpisce non bastano a spiegare" [ibidem: 42]. Diverse critiche sono state mosse nei confronti dell'analisi del razzismo che parte dal pregiudizio per studiare tale fenomeno. Bisogna dire, infatti, che non sempre un comportamento razzista è preceduto dal formarsi di un pregiudizio razzista, può essere una reazione che nasce dalla paura, da disagi, da conflitti etc. In particolar modo, inoltre, una visione del razzismo che prende piede a partire dal pregiudizio, non tiene in considerazione quello che è il fenomeno collettivo del razzismo: l'ideologia razzista, l'esistenza di gruppi razzisti, le politiche di segregazione e discriminazione, etc., sono aspetti cruciali del razzismo, che diventano ancor più gravi nelle loro conseguenze e nelle loro manifestazioni. Il pregiudizio Un punto di arrivo in quella che è la tradizione di studi psicosociologici degli anni trenta-quaranta sul pregiudizio è rappresentato dall'opera di Gordon Allport: "La natura del pregiudizio", 1954. Con il termine pregiudizio, secondo Allport, possiamo indicare "un atteggiamento di rifiuto o di ostilità verso una persona appartenente ad un gruppo, semplicemente in quanto appartenente a quel gruppo, e che pertanto si presume in possesso di qualità biasimevoli generalmente attribuite al gruppo medesimo" [Allport: 10]. Il risultato maggiormente significativo che il pregiudizio comporta è il fatto di mettere il suo oggetto in una posizione di svantaggio, immeritato, sulla base del comportamento obiettivo. Vi sono secondo Allport alcuni fattori socio-culturali che favoriscono il diffondersi e il riprodursi del pregiudizio in una determinata società; è possibile quindi elencare dieci punti: - eterogeneità della popolazione; - facilità dei movimenti verticali; - rapide variazioni sociali con concomitante anomia; - ignoranza e barriere alla comunicazione; - densità relativa della popolazione che costituisce il gruppo minoritario; - esistenza di rivalità e conflitti reali; - sfruttamento a sostegno di importanti interessi della comunità; - sanzioni per combattere la coalizione contro capri espiatori; - leggende e tradizioni sostenenti l'ostilità del gruppo; - atteggiamenti sfavorevoli sia verso l'assimilazione, sia verso il pluralismo culturale. Per poter meglio comprendere la dimensione del pregiudizio, è utile tornare alla teoria dell'identità sociale di Tajfel ripresa anche da Alietti e Padovan: un individuo che appartiene ad uno specifico gruppo, sfruttato sulla base di precise linee di differenziazione sociale, come per esempio la "razza", agisce nei confronti di un Verso un modello di intelligibilità ( Taguieff ) Secondo Taguieff ciò che chiamiamo razzismo si distribuisce in tre diverse dimensioni: le attitudini, ossia le credenze, le opinioni, etc; i comportamenti e quindi le pratiche e le azioni; le costruzioni ideologiche. Differenti lavori sono giunti alla conclusione che non esiste una relazione causale tra razzismo-pregiudizio e razzismocomportamento, cioè tra la dimensione delle credenze, delle 16 opinioni e quindi tra il razzismo-ideologia e le pratiche di discriminazione, di persecuzione, di violenza. Non sarebbe dunque corretto unire causalmente ciò che potremmo definire pregiudizi razziali, con i comportamenti sociali razzisti, o meglio, tali comportamenti non derivano solamente da opinioni razziste o xenofobe. Un altro punto importante è che il razzismo si muove con riferimento alla "razza" in senso biologico, "razzismo classico", o riferendosi alle categorizzazioni elaborate sulla base dei tratti culturali, "razzismo culturale". Bisogna poi distinguere il "razzismo sfruttamento", vale a dire quello coloniale e schiavista, dal "razzismo dello sterminio", il quale auspica al totale annientamento di un determinato gruppo umano. Il primo può essere spiegato con la teoria marxista, ovvero la teoria della scelta razionale, sulla base di interessi economici, in cui è legittimato lo sfruttamento delle "razze inferiori". Nel secondo caso, lo "straniero" è visto come il nemico assoluto che minaccia la sopravvivenza della propria identità. Un'altra distinzione che viene proposta è quella tra "razzismo concorrenziale", cioè delle relazioni razziste connesse ad interessi contrastanti, e "razzismo del contatto", della fobia del contatto, del contagio, della contaminazione. Si possono mettere in evidenza le due forme del razzismoideologia: il "razzismo universalista", il quale rifiuta la differenza e si fonda sulla negazione dell'identità; il "razzismo differenzialista", basato sulla negazione dell'unità del genere umano. Prendendo in considerazione le caratteristiche in comune tra le varie forme di razzismo elencate, è possibile ipotizzare un "modello ideale di razzismo", partendo dalla distinzione tra le caratteristiche cognitive e le caratteristiche pratiche del razzismo. Per quel che riguarda le prime vi sono tre generi di operazioni ricorrenti: - una categorizzazione essenzialista degli individui e dei gruppi, la quale riduce l'individuo a membro di un gruppo, la cui appartenenza è normativa e implica il possesso di particolari tratti comuni ai membri del medesimo gruppo. Da ciò deriva la negazione della comune natura degli esseri umani. - Una stigmatizzazione degli individui, ossia l'esclusione simbolica dei membri ritenuti appartenenti ad un determinato gruppo, con la conseguente creazione di una serie di stereotipi negativi. - La convinzione che alcune categorie di esseri umani non siano civilizzate, ne tanto meno civilizzabili. Sono due quindi i principi al centro del pensiero razzista: gli esseri umani differiscono tra loro in maniera non egualitaria, ci sono cioè delle categorie di uomini ritenuti ad un più basso livello di umanità; questi gruppi umani che differiscono sono considerati inutili e pericolosi, perciò rifiutati e inammissibili. Per quel che concerne le caratteristiche pratico-sociali del razzismo è possibile distinguere tre ordini di azioni: - la segregazione, la discriminazione, l'espulsione dei "non accettati"; - la persecuzione, attraverso l'uso della violenza, nei confronti dei membri di un gruppo, proprio in quanto membri di quel gruppo; - lo sterminio di tutti gli appartenenti ad una determinata categoria della popolazione. Il razzismo non si riduce ad un discorso ideologico-politico ma "costituisce anche un'esperienza vissuta, mista di motivazioni non coscienti e di "buone ragioni" legittimatorie per il razzista, un'esperienza vissuta nella quale si intrecciano affetti (emozioni, passioni), racconti leggendari, convinzioni e interessi legati a delle situazioni, a dei contesti istituzionali, così come a delle pratiche sociali dotate di valore funzionale (legittimare, razionalizzare)" [Taguieff: 69]. La violenza razzista Nel momento stesso in cui viene a costituire la negazione di un individuo, il razzismo è violenza. È una violenza simbolica quando tocca l'integrità morale di una persona, quando si esprime attraverso il disprezzo, il pregiudizio, le manifestazioni di odio, senza dirette conseguenze sull'integrità fisica di una persona. La violenza razzista può essere, dunque, essenzialmente simbolica, oppure manifestarsi in forma di microviolenza, comportamenti di logoramento e anche in forme ancor più brutali come la violenza omicida. Rob Witte, ripreso da Wieviorka, nel suo lavoro sulla violenza razzista e lo Stato, del 1966, individua quattro fasi nel fenomeno della violenza razzista. Può trattarsi, secondo Witte, di un problema individuale, sociale, un problema che rientra in un determinato dibattito politico oppure un problema conseguente ad un'azione da parte dello Stato. "Il suo ragionamento, che si applica alle democrazie, non prevede il passaggio ad una quinta fase, in cui sarebbe lo Stato stesso a mettere in atto una politica razziale" [Wieviorka: 52]. Tenendo in considerazione il livello da cui scaturisce la violenza razzista, possiamo sostenere che questa può innescarsi a livello infrapolitico, dove è messa in atto da attori definiti in termini culturali, economici e sociali, che stanno al di fuori dello spazio politico o quanto meno dovrebbero ufficialmente essere fuori da tale ambito. L'estensione e la gravità della violenza sono determinate in questo caso dall'atteggiamento e dalla capacità di intervento dei poteri pubblici, ma anche da una eventuale legittimazione del fenomeno, oppure, per esempio il caso della Francia con il Front National, dalla presenza di partiti politici che la sostengono più o meno apertamente. In quanto fenomeno infrapolitico, la violenza razzista è strettamente legata alle tensioni che si generano nell'ambito socio-culturale. La violenza razzista può essere anche di tipo politico, ossia realizzata e coordinata da attori politici chiaramente intenzionati a condizionare la vita politica di una determinata società. In questo caso alle spalle vi è un'organizzazione che, sia dal punto di vista ideologico che pratico, guida la violenza per raggiungere precisi obiettivi, i quali possono essere conseguiti più o meno legalmente, anche se quasi sempre si trasforma in violenza incontrollata. Le cause principali della violenza razzista rimandano a due piani 17 di analisi essenziali: sociale da un lato e identitario, culturale, dall'altro. Nel primo caso, sul piano sociale, gli episodi di violenza sono posti in relazione ai meccanismi di funzionamento di una data società, dove alcuni gruppi cercano di mantenere una posizione dominante o di evitare l'indebolimento, l'esclusione dal quadro sociale. In alcuni casi la violenza può essere strumentale, cioè funzionale al mantenimento di un determinato ordine sociale: "qui, la violenza non mira a distruggere o a escludere del tutto il gruppo che prende di mira; intende semplicemente interiorizzarlo […] Tutto questo, in Sudafrica, è stato una caratteristica importante dell'apartheid" [ibidem: 56]. In maniera diversa, la violenza razzista può essere legata a situazioni di crisi economiche, in cui un gruppo, privo di risorse, si contrappone ad un'altro gruppo per escluderlo dal mercato del lavoro, "per mantenere la propria occupazione e le proprie condizioni di vita, per stabilire, attraverso la razza, una differenza sociale che rischia di venire abolita" [ibidem: 57]. Tuttavia, la violenza razzista può non rimandare a rapporti di dominazione o di sfruttamento e quindi ad una logica di declino sociale ma, al contario, può essere determinata dall'assenza di rapporti sociali e quindi da una logica di esclusione. "La violenza razzista può maturare anche a partire da significati prevalentemente culturali, secondo una modalità offensiva oppure difensiva" [ibidem: 60], in quest'ultimo caso può esprimersi come una reazione ad una minaccia che mina l'identità collettiva, che sia in termini di nazione, di comunità o di religione. In chiave offensiva può essere letta come un'identità collettiva che accompagna un processo di espansione, il razzismo coloniale ne è un esempio. "L'appello a un'identità nazionale, religiosa, etnica, o altro, nelle sue espressioni concrete non è di per sé né razzista né violento. Ma quando lo diviene, la sua peculiarità è di essere soprattutto differenzialista e di poter sfociare in una violenza senza limiti" [ibidem: 60]. tema di dibattiti politici, sostenuto da partiti che organizzano e dirigono la loro politica adottandolo come nucleo dei loro discorsi e progetti. · Razzismo totale. Il quarto livello infine è quello in cui il razzismo penetra in ogni parte del corpo sociale, vengono attuati programmi ispirati ad una dottrina razzista, mobilitando eventualmente le forze attive del paese, organizzate in funzione e a sostegno di alcuni principi razzisti fondamentali. L'esperienza nazista, o quella dell'apartheid in Sudafrica, sono esempi di attuazione di un razzismo totale. Il pericolo maggiore è quindi rappresentato dalla possibilità che il razzismo penetri nelle sfere istituzionali e politiche, poiché si apre così la via alla sua progressiva integrazione e a nuove prospettive di mobilitazione. "Legittima i comportamenti che vi si ispirano, mette a sua disposizione le risorse dei partiti politici al potere o delle istituzioni, risveglia nuove vocazioni nella vita intellettuale. Si tratta quindi di qualcosa di più di un semplice cambio di scala: rappresenta un salto di qualità" [ibidem: 66]. I mass media "Se non si è mai avuta diretta esperienza di individui originari di altri popoli, nell'incontro casuale che si può avere con tali persone, la loro percezione da parte degli attori sociali avverrà nell'ambito dell'orizzonte culturale costruito con le immagini e le rappresentazioni ricevute dai mezzi di informazione a cui essi hanno avuto accesso. Queste immagini strutturano la socializzazione anticipatoria dell'altro. Se esse sono positive, vi può essere un'apertura verso l'altro; viceversa, se sono negative, vi può essere chiusura ed ostilità" [Cotesta: 263]. I media, in alcune situazioni, contribuiscono a riprodurre il razzismo, ciò accade per esigenze di scoop, per ottenere le cosiddette informazioni-spettacolo, dando di conseguenza un certo peso e visibilità ad alcuni "attori" razzisti. Bisogna subito precisare che non sempre i media diventano "portatori di razzismo", in molti casi tentano di farsi attori dichiarati dell'antirazzismo. Non è dunque corretto incolpare eccessivamente i media per il loro contributo all'evoluzione del razzismo, così come non si bisogna esonerarli da qualsiasi responsabilità nel suo perpetuarsi. Ai media può essere riconosciuta una certa capacità di garantire riproduzione e diffusione al razzismo, quest'ultimo "è oggetto di comunicazione, è un'ideologia che i media riproducono e diffondono, perpetuando gli stereotipi e i pregiudizi che traversano la società considerata" [Wieviorka: 91]. In un'altra prospettiva le scienze sociali attribuiscono ai media la responsabilità della nascita dell'odio e dei pregiudizi razziali. I mezzi di comunicazione di massa sono visti come parte di un mondo a sé stante, come sostiene Patrick Champagne: "leggendo il giornale, la gente crede di apprendere ciò che accade nel mondo; in realtà […] non apprende altro che ciò che accade al giornale" [ibidem: 92]. In quest'ottica, il razzismo appare come il prodotto del lavoro della società su sé stessa e allo stesso tempo il risultato di una particolare attività di comunicazione, sviluppatasi Quattro livelli di razzismo · Infrarazzismo. Corrisponde al primo livello, qui il razzismo è debole e si manifesta senza una specifica unità, la violenza è diffusa, localizzata e i pregiudizi e le opinioni spesso non hanno conseguenze pratiche. Raramente hanno luogo processi di segregazione e gli atti di discriminazione, quando avvengono, sono il più delle volte contenuti. · Razzismo dispiegato. In questo caso il fenomeno è maggiormente consolidato, si verificano più frequentemente atti di violenza, i quali sono più brutali e messi in atto da gruppi attivi, come per esempio gli skinheads. A questo secondo livello il razzismo non è più un fenomeno marginale anche se le sue diverse espressioni non sono ancora collegate e integrate nella sfera politica. · Razzismo istituzionalizzato. A questo livello il fenomeno entra a far parte della vita delle istituzioni, le quali più o meno attivamente, in maniera implicita o esplicita, contribuiscono ad attuare la segregazione e la discriminazione. Il razzismo diventa 18 in maniera indipendente. Tuttavia, "nel circoscrivere il sistema dei media a uno spazio che tende a rendersi autonomo dal lavoro della società su sé stessa, si trascura quel che è proprio dei media in democrazia, vale a dire il ruolo che essi svolgono nella comunicazione moderna, che non si riduce certo né a una funzione di specchio, né a un'attività autonoma. Avviene per il razzismo quel che avviene per molti altri fenomeni sociali: i media non agiscono né in maniera omogenea né unidimensionale: fanno parte di sistemi d'azione che li vedono collegati a ogni sorta di attori" [ibidem: 93-94]. In "Sociologia dei conflitti etnici", Cotesta mostra come esempio dell'influenza dei media sulla formazione di pregiudizi e di sentimenti negativi, il caso dei giornali italiani riguardo al fenomeno dell'immigrazione. Secondo il sociologo le informazioni sull'immigrazione sono spesso impostate su stereotipi: "vi è una semplificazione eccessiva dell'immagine dell'altro tutta giocata in termini di allarme sociale […] Un'immagine imperniata sulla contrapposizione "noi"/"loro" e sui tratti di una caratterizzazione positiva per "noi" e negativa per "loro". "Noi" implica ordine, razionalità, solidarietà; "loro" invece implica disordine, irrazionalità, bisogno. […] La comunicazione sull'immigrazione legittima la "nostra" superiorità e la "loro" inferiorità" [Cotesta:]. L'antirazzismo La lotta contro il razzismo per poter essere veramente efficace deve seguire, o meglio, deve adeguarsi alle trasformazioni delle rappresentazioni "razzistizzanti" e alle continue riformulazioni di tali argomenti, pensare quindi ad una pluralità di razzismi, e alle metamorfosi che subiscono le concezioni razziste. Nel Luglio del 1950 e nel Giugno del 1951, le dichiarazioni dell'UNESCO si impegnavano a denunciare il razzismo come un "mito assurdo", basato su convinzioni scientificamente false, proponendo un programma fondato sull'istruzione scientifica e sulla lotta intellettuale; l'antirazzismo era così auspicabile mediante l'istruzione e l'educazione. Tuttavia diverse ricerche sui pregiudizi e gli stereotipi di alcuni psicologi sociali hanno messo in evidenza il carattere irrazionale connesso al pregiudizio razziale: l'individuo soggetto a tali pregiudizi si rifiuta di accettare la "verità" dei fatti scientifici e rimane ancorato alle sue idee, contrastando con l'ottimismo dell'antirazzismo portato avanti dall'UNESCO legato all'ideale educativo. In periodi più recenti si è passati da un programma universalista di educazione scientifica, alla pratica sistematica della sanzione giuridica, vedendo come unico metodo di lotta al razzismo la repressione giuridica: un ritorno al pessimismo nell'ambito antirazzista, un ritorno legato alla visione del razzismo come fenomeno inscindibile dalla natura umana. "Se lo spirito umano ha queste tendenze a essere razzista, è molto probabile che un simile comportamento si perpetui. […] La cosa naturale è il razzismo, non l'antirazzismo: quest'ultimo può essere solo una conquista" [Taguieff: 83]. In questa prospettiva la lotta al razzismo diventa un'infinita lotta contro la natura umana, una 19 continua opposizione al ritorno della natura cattiva nel debole ordine della cultura. Un errore in cui è facile cadere è l' "errore fondamentale di attribuzione", ossia la propensione a rimandare al comportamento di un soggetto sulla base delle disposizioni di quest'ultimo senza tenere in considerazione la situazione. Tale errore è spiegabile attraverso "l'efficacia simbolica di una teoria "disposizionalista" generale, intrecciata alla trama della cultura occidentale" [ibidem: 85]. Una teoria apertamente antirazzista può cadere nell'illusione disposizionalista. Ciò appare più chiaro prendendo come esempio la spiegazione di Memmi sulle cause del sistema coloniale: "gli europei hanno conquistato il mondo perché la loro natura li ha predisposti a farlo, i non europei sono stati colonizzati perché la loro natura li condannava ad esserlo" [ibidem:87]. Da ciò si potrebbe concludere che i conquistatori sono di natura superiore, mentre i conquistati sono di natura inferiore. La seguente citazione di Taguieff spiega chiaramente questo errore di interpretazione disposizionalista: "non si è razzisti, lo si diventa e dunque si può anche non esserlo più, pur essendolo stati. Il razzismo manifestato dal comportamento di un attore sociale non può essere spiegato attraverso le tendenze o le disposizioni di quest'ultimo. […] L'illusione disposizionalista va di pari passo con le pseudospiegazioni essenzialiste e con il ricorso a modelli di legittimazione attraverso la naturalizzazione dei fenomeni sociali" [ibidem: 88]. Taguieff si pone un'ulteriore domanda, apparentemente banale: perchè essere antirazzisti? Egli distingue sei differenti risposte. - In nome dell'Illuminismo, della civiltà, del progresso, lottando contro la barbarie, mettendo fine alle disuguaglianze fra gli esseri umani, alla discriminazione e alla segregazione. L'antirazzismo diviene un tentativo di "riumanizzazione" di una umanità viziata, ma può anche presentarsi come una forma di progressismo. Quello che è implicito in tale ragionamento è l'inevitabile gerarchizzazione tra ciò che viene riconosciuto come civile, contro ciò che viene considerato barbaro: esiste un confine tra barbarie e non-barbarie? Esiste quindi una scala di valori con diversi gradi di umanità? In questa prospettiva, l'antirazzismo, ad opera di un effetto perverso, offre i propri contenuti per un controrazzismo: "l'antirazzista pone se stesso, grazie alla sua posizione antibarbarica, tra i civilizzati e i civilizzatori; si attribuisce il titolo dell'essere più umano tra gli esseri umani; e pone i razzisti, coloro che egli percepisce come tali, tra i semiumani da controllare" [ibidem: 91]. - In nome della verità scientifica e del progresso della conoscenza, con la continua lotta alla falsità, ai giudizi erronei, ai ragionamenti infondati, stringendo così l'antirazzismo alla verità scientifica sempre in evoluzione. Non è comunque sufficiente aggrapparsi ad affermazioni che smentiscono scientificamente il razzismo. Pierre-Henri Gouyon pone il problema da un altro punto di vista, egli domanda a chi crede di poter lottare contro il razzismo limitandosi a dire che le teorie sulle razze umane non possiedono un fondamento genetico, a questi si chiede: e se invece ne avessero uno? Bisognerebbe in quel caso essere razzisti? La risposta a questa domanda è no, ma può essere un buono spunto per poter valutare la plausibilità della posizione antirazzista fondata sulla verità scientifica. - In nome del bene, della volontà di mettere fine all'infelicità umana e a tutto ciò che ferisce gli uomini, un antirazzismo morale che auspica il raggiungimento di un mondo fraterno e pacifico. Questo antirazzismo affonda le sue radici nella tradizione giudaico-cristiana, in una posizione ostile ad ogni pluralismo, quindi proiettata al riconoscimento di un unico Dio, di un'unica verità, non riconoscendo la diversità e operando contro questa una violenza simbolica. "La dolcezza fraterna ha un proprio rovescio: la durezza dell'unica via implicata nella triplice tesi del Dio unico, della verità unica e dell'unicità dell'umanità" [ibidem:96]. - In nome del fatto di evitare il peggio; un'altra risposta di ordine morale, in cui l'obiettivo non è quello di eliminare ogni forma di male, ma di evitare, o limitare le sue manifestazioni peggiori. Il male peggiore va eliminato e ciò che rimane comunque fuori dall'ambito del bene va tollerato. Tale tolleranza può essere distinta a tre livelli: sopportare gli insopportabili; riconoscere il valore di tutto ciò che differisce; sopportare solo le differenze che differiscono bene. Il problema nasce nella misura in cui non è possibile evitare il relativismo e il soggettivismo che rendono arbitrario qualsiasi tentativo di definizione di intollerabilità. Cosa può essere tollerato? Quale ordine morale può stabilire la linea di confine tra bene e male? - In nome della pace e dell'uguaglianza, attraverso l'eliminazione di tutte le barriere razziali, etniche, culturali che da sempre dividono gli uomini e li mantengono in conflitto tra loro. Il fine ultimo è quello di giungere ad una "civilizzazione mondiale", ogni divisione o differenziazione è un male, le identità nazionali al pari delle identità culturali diventano degli ostacoli. Questa posizione porta ad un inevitabile paradosso, ossia il fatto che gli stessi antirazzisti arrivano a praticare l'eterofobia, a rifiutare la differenza, proprio come i razzisti. - In nome del diritto alla differenza, del rispetto delle identità collettive, sostenendo che la diversità culturale sia un attributo essenziale della natura umana. Riconoscere la dignità al gruppo di appartenenza di un uomo vuol dire riconoscere la sua dignità di essere umano, dando valore alla sua identità collettiva. La negazione dell'identità è il compimento della disumanizzazione dell'uomo, l'antirazzismo è così un differenzialismo, pluralista. Tuttavia tale ragionamento implica una radicale posizione antiuniversalista, con la convinzione che il razzismo sia proprio una forma di universalismo, riducendolo così ad un'eterofobia biologizzante, un etnocentrismo mascherato. Facendo un confronto tra le ultime due risposte, giungiamo alla formulazione del "fondamentale dilemma dell'antirazzismo", ossia alla scelta fra il rispetto delle differenze, allo scopo di garantire la diversità umana, oppure il tentativo di creare una "unità della specie umana", attraverso la mescolanza. Taguieff nelle sue considerazioni conclusive mette da parte le problematiche che stanno dietro alle definizioni di razzismi e antirazzismi: "le difficoltà speculative incontrate nel tentativo di fondare la lotta contro il razzismo possono e devono essere messe tra parentesi in tutti quei casi in cui l'azione non può farsi attendere. In breve, per le situazioni in cui bisogna agire d'urgenza si possono fare delle scelte assiologiche e normative. […] La finalità è unicamente quella di ottenere alcuni risultati, adattandosi alle condizioni del contesto" [ibidem: 109-110]. Il sociologo pone la questione da un punto di vista operativo, tuttavia "in tutti quei casi in cui l'azione non può farsi attendere" si agisce a partire da presupposti di tipo emotivo ed ideologico. I risultati ottenuti sono la diretta conseguenza delle scelte operate e, tali scelte, derivano dalla posizione che decidiamo di assumere nel "discorso sul razzismo". L'analisi dei fenomeni razzisti e delle ragioni antirazziste deve essere condotta attraverso una riflessione storica e logica attenta ai processi di formazione e di trasformazione delle società. Tale riflessione, tuttavia, sarà necessariamente anche ideo-logica, il frutto delle convinzioni soggettive ragionate e rappresentate. Conclusioni Alla luce di questa analisi del razzismo, appare appropriata l'affermazione di Taguieff il quale, prendendo spunto da Hegel, afferma: "il noto in genere, appunto perchè noto, non è conosciuto" [ibidem: 1]. Il razzismo è ben noto eppure non lo si conosce. È infatti diffusa una generica opinione su questo fenomeno, difficilmente si trova qualcuno che non sappia nulla sul razzismo, ciò però non significa che ci sia una reale conoscenza delle sue implicazioni, delle sue origini, del suo perpetuarsi nella storia con continue trasformazioni e delle sue conseguenze a livello sociale, politico, economico e culturale. In ultima analisi, il razzismo (ma sarebbe più corretto parlare di razzismi) è una sfida che non va trattata né per eccesso, né per difetto, ossia, non va drammatizzata e considerata come una lotta insostenibile, né banalizzata o minimizzata. Il razzismo, in quanto parte dei meccanismi di funzionamento e di cambiamento sociale, è in grado di allargarsi ogni volta che le istituzioni e l'apparato politico risultano incapaci di gestire le difficoltà socioculturali in maniera democratica, o ancora meglio in maniera responsabile. Il rischio di razzismo è altrettanto evidente quando talune comunità prosperano, ed impongono ai propri membri "la legge del gruppo", senza rispettare i diritti e le generali modalità della vita della "civitas", arrivando nei casi estremi alla sua distruzione. Renate Siebert afferma che "la nostra responsabilità, se vogliamo contribuire a disimparare il razzismo, dovrebbe anche consistere in un'attenzione al linguaggio. Le razze non esistono? Bene, allora non ne usiamo neanche più la parola" [Siebert: 19]. Questo atteggiamento, che parafrasando Alberto Melucci potremmo definire come un processo di nominazione responsabile e rinnovata, può condurci su strade diverse da quelle che fino ad oggi abbiamo percorso: mettere in discussione un certo tipo di linguaggio non è solamente un esercizio accademico ma può essere un buon punto di partenza verso una migliore comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda. "Il problema, in ultima istanza, rimanda ad un'etica della responsabilità che possa comprendere la dimensione della 20 differenza e soprattutto cogliere in anticipo quali possono essere i "fatti sociali" che danno forma e sostanza al razzismo" [Alietti, Padovan: 187]. BIBILIOGRAFIA Alietti, Padovan "Sociologia del Razzismo" (2000) Carocci, Roma. Allport "La natura del pregiudizio" (1973) La Nuova Italia, Firenze. Bauman "Modernità e olocausto" (1992) Il Mulino, Bologna. Cotesta "Sociologia dei conflitti etnici" (2001) Laterza, Roma-Bari. Fabietti, Malighetti, Matera "Dal Tribale al Globale" (2000) Bruno Mondadori, Milano. Gallini "Giochi pericolosi. Frammenti di un immaginario alquanto razzista" (1996) Manifestolibri, Roma. Melucci "Culture in gioco" (2000) Il Saggiatore, Milano. Siebert "Il Razzismo" (2003) Carocci, Roma. Wieviorka "Il Razzismo" (2000) Laterza, Roma-Bari. Taguieff "Il Razzismo" (1999) Raffaello Cortina, Milano. 21 Una recensione riflessiva di un'etnografia dialogica: Il Quilombo di Frechal di Michele Parodi A Frechal il passato persisteva nel presente [...] come "modello per la realtà" e come strumento per rivendicare la proprietà della terra. In questo senso era "storia viva"1 "Non sono monumenti [...] Frechal è una cosa viva [...] Il quilombo 2 non è la sfinge, non è una piramide"3 Se l'analogia testuale invita ad analizzare le culture come dei testi, possiamo anche pensare, invertendo i termini dell'analogia, di analizzare un testo come una cultura. L'idea alla base di questo lavoro è stata allora quella di provare a realizzare una recensione come se fosse una sorta di etnografia. In questo caso, tuttavia, volendo analizzare un testo etnografico, Il Quilombo di Frechal, si trattava, inoltre, di creare un'etnografia di un'etnografia, un'antropologia dell'antropologia, coinvolgendo direttamente anche l'autore del testo e i suoi lettori in un complesso gioco di ruoli. Ciò che mi interessava era soprattutto tentare di rendere nella mia recensione gli aspetti performativi, illocutivi del testo etnografico che intendevo studiare. L'impresa si è rivelata sin dall'inizio estremamente difficile e intricata per i numerosi, sovrapposti, intrecciati piani di analisi: i nativi dell'etnografia di Frechal, il testo del Quilombo, il mio medesimo testo in costruzione, le idee dell'autore del Quilombo sul tipo di sperimentazione che intendevo svolgere. Soprattutto si è rivelata così difficile perché le mie interpretazioni critiche delle interpretazioni dell'autore si mescolavano con le mie interpretazioni teoriche generali che invece utilizzavano le interpretazioni dell'autore per sostenere le proprie tesi. Qui presento i risultati di questa esperienza timidamente abbozzata e certamente incompiuta. nella bibliografia d'esame avesse inserito Il Quilombo di Frechal 4, il libro in cui pubblicava i risultati delle sue ricerche su una comunità brasiliana di discendenti di schiavi, ricerche di cui avevo già letto alcuni resoconti preliminari 5. Fig. 1 Tradizionali case di Frechal (taipas)6 . Per fare in modo che il corso di etnografia, che ho poi effettivamente frequentato tra marzo e aprile 2004, non rimanesse solo una lunga discussione teorica di principi metodologici, avevo pensato di mettere in pratica direttamente le questioni epistemologiche che sarebbero emerse dalle lezioni, adottando un atteggiamento riflessivo e ponendo la massima attenzione alla processualità delle mie successive letture, alla dinamica dei miei punti di vista, nel dialogo tra i vari testi che avrei dovuto affrontare: i miei ricordi e i miei appunti delle lezioni, i testi teorici proposti, le monografie etnografiche, le mie note e le mie idee trascritte e organizzate in una sequenza apparentemente disomogenea, ma fedele alla temporalità effettiva e contestuale del mio pensiero; in pratica i miei testi "liminari", i miei "pretesti"7. 1. Premessa Oggi è il primo Maggio. Finalmente mi decido a mettere per iscritto in una forma coerente le tante idee che ormai da un mese ho iniziato a registrare tra i miei appunti. Una raccolta di note e di tracce disordinate che ora cercherò di percorrere fino in fondo, seguendo i differenti piani da me seguiti nelle diverse letture del Quilombo di Frechal. Tutto ha avuto inizio quando ho deciso di frequentare il corso di Metodi e teorie della ricerca antropologica, corso tenuto dal professore Roberto Malighetti all'interno della Laurea Specialistica in Etnologia e Antropologia Culturale. Conoscevo già il professore da parecchio tempo e mi interessava il fatto che 22 Verso il termine del corso nacque infine l'idea di raccogliere insieme questi materiali orientandoli ad un obiettivo concreto: la scrittura di una recensione dialogica di una etnografia dialogica: Il Quilombo di Frechal. Ciò mi avrebbe così permesso di inaugurare un rapporto realmente dialogico con il docente del corso, docente al medesimo tempo autore del testo che mi interessava affrontare. Ciò significava impegnarmi a sostenere innanzitutto le negoziazioni, i fraintendimenti, le manipolazioni, le complicità, le collusioni, che l'incontro tra me e l'autoredocente avrebbero necessariamente sviluppato8 . campo, simile al camaleonte, poteva raggiungere gli anfratti più intimi della psicologia nativa, mi sembrava molto riduttiva. Fig. 2 2. Prima lettura La mia prima lettura del Quilombo è stata profondamente influenzata dalle lezioni tenute dal professore Malighetti, lezioni impostate inizialmente9 su una critica epistemologica molto serrata dell'osservazione partecipante e sulla decostruzione della rivoluzione mitopoietica prodotta, all'interno della comunità accademica degli antropologi, dalla pubblicazione dei resoconti etnografici delle ricerche di Malinowski nelle isole Trobriand. In effetti anche successivamente le mie interpretazioni del Quilombo si sono sempre posizionate in rapporto dialettico con Malinowski, con le concomitanti letture dei suoi diari segreti10 e della sua prima importante etnografia, gli Argonauti del Pacifico occidentale11. Nelle mie interpretazioni, Malinowski/Malighetti, presentavano due differenti strategie di superamento dell'opacità dei nativi, strategie che io intendevo però considerare complementari mettendo in evidenza gli aspetti poietici contenuti in entrambi i punti di vista metodologici. Nella lettura dei primi capitoli del Quilombo sono stato inizialmente colpito dalla poca attenzione con cui l'autore si era impegnato a ritrarre un quadro particolareggiato della comunità di Frechal. Uno stile etnografico del tutto diverso dalla straordinaria profusione di descrizioni contenute nelle monografie di Malinowski. In effetti mi sembrava che la sindrome della tribù noiosa di cui Malighetti si dichiarava affetto12, fosse prodotta da griglie interpretative che non erano interessate a cogliere i dettagli della vita sociale, famigliare e comunitaria degli abitanti di Frechal. Lo stesso autore ne era cosciente13 , ed anzi questo problema costituiva il punto di partenza del suo lavoro etnografico. Questa mancanza di descrizioni, di dati osservativi esaurienti mi irritava poiché non forniva appigli alla mia immaginazione nutrita dalle letture di Amado e Garcia Marquez, dai miti di Zumbi do Palmares14, del "marronaggio" e delle rivolte nere, dal mito dei remoti tam-tam dei negri che svegliavano i viaggiatori europei15. In qualche modo ero anch'io sofferente di una patologia che mi obbligava alla "frustrante ricerca di tratti o eventi eccezionali [...] una sorta di "malattia infantile dell'antropologismo" 16 . Però, la mia inquietudine aveva anche una ragione metodologica più profonda. L'interpretazione critica di Malighetti dell'osservazione partecipante, nei termini di un'impossibile e paradossale immedesimazione totale con i nativi, di una miracolosa e mistificante empatia attraverso cui il ricercatore sul Zumbi. Il mio punto di vista era differente. Ad un certo momento il problema dell'osservazione partecipante mi si è in parte chiarito. La prolungata "co-presenza" dell'osservatore e dell'oggetto di ricerca, l'intimità che si sviluppa da tale vicinanza forzata, rende possibile connettere tra loro una grande quantità di dati concreti, osservazioni che il pensiero organizza gradualmente in quadri più o meno coerenti. E' da questa forma di intuizione che a mio avviso dipendeva l'inspiegabile "magia dell'etnografo" di cui parlava lo stesso Malinowski17 . Come dice Clifford, la Verstehen, "la comprensione degli altri, stando all'autorevole punto di vista di Dilthey (1914), scaturisce inizialmente dal mero fatto della coesistenza in un mondo condiviso"18, mondo costruito sulla base di indizi, tracce, gesti, schegge di senso, attraverso un contatto sensoriale che suggerisce una conoscenza cumulativa e processuale19. Si tratta dunque, secondo questa prospettiva di un'operazione molto lontana dall'immedesimazione empatica. Nell'introduzione agli Argonauti Malinowski insiste sull'importanza di organizzare le osservazioni di campo in carte sinottiche capaci di evidenziare i problemi irrisolti. Insiste sull'importanza di non trascurare né i fatti banali della quotidianità, né gli eventi eccezionali, che una prolungata permanenza permette di osservare. E' questo accumulo di informazioni ridondanti che sviluppa la possibilità analogica di determinare somiglianze, associando tra loro il quotidiano e l'eccezionale. Ed è da questo contatto concreto con il campo, che nasce la capacità stessa di osservare in profondità, la capacità, potremmo dire forzando la nostra interpretazione, di esercitare uno sguardo anche "ermeneuticamente" addestrato. E' lo stesso Malinowski, nell'introduzione agli Argonauti, che sottolinea l'importanza di compilare dettagliati e sistematici diari etnografici dove tenere conto della processualità delle proprie osservazioni: "E' importante che questo lavoro di raccogliere e fissare le 23 impressioni cominci abbastanza presto [...], perché certi piccoli particolari che fanno impressione finché costituiscono una novità non si notano più appena diventano famigliari, altri invece si possono percepire solo con una migliore conoscenza delle condizioni locali. Un diario etnografico, tenuto sistematicamente per tutto il corso del lavoro in un distretto, sarà lo strumento ideale per questo tipo di studio". 20 autobiografiche che invece aveva annotato con così grande impegno e fatica nei suoi diari? L'idea che Malinowski avesse espulso quei dati in quanto soggettivi e quindi non scientifici non mi sembrava risolvere del tutto la questione. La raccolta della più ampia possibile quantità di dati determina, inoltre, la loro irriducibilità ad uno schema unico, implicando digressioni, fuori tema, riaggiustamenti contraddittori e quindi forme di analisi che assomigliano, più che a classificazioni scientifiche, alla classificazione dei giochi di Wittgenstein: "Questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola, ma sono imparentati l'uno con l'altro in molti modi differenti. [...] Se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie. Come ho detto non pensare ma osserva!" 21. Possiamo così "veder somiglianze emergere e sparire. E il risultato di questo suona: vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda"22 . Nella mia idea, Malinowski nel costruire le sue categorie, ad esempio nel trattare le tipologie dello scambio e della magia trobriandese, metteva in campo una molteplicità di interpretazioni che più che assomigliare a rigide definizioni scientifiche, mi parevano "somiglianze di famiglia", interpretazioni dinamiche all'interno di un processo di progressivo approfondimento del materiale etnografico accumulato. Secondo Clifford con Malinowski "ci troviamo di fronte ad uno stile etnografico che non è ancora ‘autoritario’, negli specifici modi messi oggi in questione sul piano politico ed epistemologico. [...] Malinowski costituisce un complesso caso di transizione. [...]. [Negli Argonauti, in Coral Gardens 23 ] ci imbattiamo in pagine e pagine di formule magiche, nessuna delle quali, in sostanza, espressa con le parole dell'etnografo"24 . Miti, formule, dettagli che per sua stessa ammissione Malinowski non sempre riusciva a comprendere e che determinano il carattere "aperto", suscettibile di molteplici interpretazioni, delle sue monografie. Durante l'esame che ho sostenuto subito dopo la fine del corso25, ricordo di aver discusso con il docente il mio punto di vista su Malinowski invocando all'incirca gli stessi argomenti qui esposti. Alla fine il professore un po' dubbioso mi ha chiesto: "In cosa può servirti spiegare in questo modo la metodologia di Malinowski? Quale è lo scopo di questa operazione?". Senza sbilanciarmi troppo risposi che il mio fine principale era stato quello di cercare di svolgere un esercizio di decostruzione del suo punto di vista critico su Malinowski, esercizio che mi aveva permesso di individuare una serie di tracce con cui leggere e interpretare i testi di Malinowski e di conseguenza in opposizione anche il Quilombo. Ma era tutto qui? Un'altra domanda ha continuato ad assillarmi per lungo tempo: Perché Malinowski aveva ritenuto non significative, da un punto di vista etnografico, le vicissitudini A lezione, una volta, Malighetti ci ha narrato un episodio che gli è capitato a Frechal. Una notte una donna che era caduta in uno stato di trance era scappata nella foresta. Il villaggio si mobilitò per cercarla e riportarla a casa. Malighetti si unì alla spedizione notturna con tutto il suo armamentario di macchine fotografiche, torce elettriche per illuminare il sentiero, quaderni. Come ci ha detto si sentiva molto a disagio nel dover documentare una situazione per certi versi anche drammatica. Il suo racconto voleva commentare la natura intrusiva e violenta del lavoro sul campo. Leggendo il Quilombo mi sono stupito di non aver ritrovato questo racconto. Mi sembrava potesse essere molto significativo nel descrivere il contesto relazionale in cui erano implicati l'antropologo e gli abitanti di Frechal. Ma proprio qui stava il punto di non ritorno che giustificava anche la mia difficoltà nello scrivere una recensione tradizionale. I continui tentativi di svicolare dall'affrontare il compito che mi ero io stesso assegnato, la recensione del libro, le continue digressioni fuori tema (ad esempio i ricorrenti riferimenti a Malinowski), il mio sentirmi troppo vincolato da un progetto simile si poteva capire infatti, proprio a partire dalla natura del testo del Quilombo, dal suo stile difficile da decifrare ad una prima lettura. Tutto il suo impianto teorico era infatti teso a cogliere il complesso gioco intellettuale di scambi dialogici tra il punto di vista dell'antropologo e il punto di vista nativo. Gli aspetti relazionali, affettivi, sociali erano sacrificati ad un'analisi più astratta e concettuale delle soggettività in campo. Ma di questo ultimo punto ho preso coscienza solo molto dopo la mia prima lettura del Quilombo. Il problema principale per me era trovare il modo di scrivere una recensione che non fosse solo un breve riassunto, ma che riuscisse ad esprimere effettivamente qualcosa di ciò che la lettura del Quilombo aveva "prodotto" in me. Consisteva nel fare in modo che il lettore di queste righe potesse sperimentare un'esperienza simile. Il mio ambizioso progetto si proponeva di rendere attivi nel mio stesso testo quei meccanismi, quei dispositivi, che la lettura del Quilombo aveva innescato sviluppando euristicamente in me una comprensione superiore di tutta una serie di questioni teoriche e pratiche riguardanti la ricerca sul campo e la sua resa etnografica. Questa specie di "empatia interpretativa" tra il Quilombo e la sua recensione, a cui aspiravo, faceva parte di un mio più ampio progetto che coinvolgeva il problema di come restituire in un testo etnografico esperienze di tipo estetico o religioso, senza privarle del loro significato più profondo 26 . Nella mia idea per rendere il senso di un testo, di una pratica, di un rito, occorreva cercare di riprodurre i dispositivi che metteva in azione. Mettere in scena le procedure logiche con cui operava. 3. Opacità, spaesamento e loro soluzione: una recensione performativa 24 Non era sufficiente descriverli. Bisognava riuscire a farli agire nella scrittura lasciando che qualcosa del loro senso operativo pervenisse fino al lettore ultimo. Ed è proprio in ciò che mi sembrava di essere in sintonia con l'autore del Quilombo. Se il suo obiettivo era quello di rendere il senso e la processualità della sua esperienza etnografica non servivano descrizioni particolareggiate, al limite fuorvianti, occorreva rimanere fedeli a quella esperienza in un modo più profondo e "reale", "fenomenologico", occorreva riuscire a dire qualcosa di ciò che realmente era accaduto nell'incontro tra lui e alcuni abitanti di Frechal. Successivamente mi sono accorto che il mio atteggiamento attento ai fenomeni illocutivi, pragmatici poteva essere frainteso. Poteva sembrare voler attivare dei meccanismi già inscritti nel testo da tradurre, delle specie di essenze e dispositivi in esso contenuti ancor prima dell'incontro con il loro interprete, così contraddicendo l'idea, alla base del paradigma ermeneutico, secondo cui l'oggetto di analisi è già sempre il frutto di una interpretazione, di una "reciproca appartenenza di soggetto e oggetto"27. nativi. Gli sforzi dell'autore di fondare la propria autorità di antropologo sul campo. Narra i problemi d'igiene e di alimentazione, i disagi sofferti a causa del clima terribilmente caldo umido della stagione delle piogge (da gennaio a giugno), i problemi dell'isolamento e della mancanza di energia elettrica; i piccoli egoismi messi in atto per "sopravvivere" ad una situazione ambientale piuttosto difficile; le fughe mensili a Guimarães (la cittadina più vicina a Frechal) per telefonare in Italia, nutrirsi, rilassarsi e mettere al sicuro le note di campo; le ansietà iniziali del non saper cosa fare, gli imbarazzi paralizzanti prodotti dalla sua intrusione nella vita dei nativi, gli ambigui atteggiamenti manifestati nei suoi confronti da interlocutori che spesso lo evitavano e si sottraevano alle sue interviste28; i tentativi di affermare il proprio ruolo di ricercatore cancellando le associazioni fittizie con i meccanismi assistenziali della cooperazione in cui era stato precedentemente coinvolto 29 . 5. La ricerca dell'oggetto di ricerca 4. L'iniziazione alla comunità di Frechal Il primo capitolo, Dal punto di vista dell'antropologo, è certamente il più divertente. Contiene la parte diaristica del libro: le vicissitudini di un antropologo sul campo. L'iniziazione al villaggio di Frechal. Fig. 3 Mappa del Brasile. Frechal è una comunità, situata nel Nord del Brasile, nell'area amazzonica dello stato di Maranhão ed è stata riconosciuta ufficialmente dal governo federale comunità discendente dagli antichi quilombos. La denominazione Reserva Extrativista Quilombo do Frechal adottata dal decreto federale successivamente trasformato in legge nel 1994, sottolinea il carattere economicamente orientato, di "area estrattiva", delle zone protette dall'istituzione della riserva. Dal punto di vista dell'antropologo narra il primo contatto, i primi fraintendimenti, le prime negoziazioni tra l'etnografo e i 25 Alla fine di questa complessa fase iniziatica, è venuto fuori l'oggetto di ricerca scelto dall'autore: il tema dell'identità. Ma come è emerso effettivamente? Mi sembrava che questa scelta fosse stata il frutto di una specie di ripiegamento su un argomento sufficientemente astratto e vago da lasciare l'autore completamente libero di continuare il discorso teorico o metaetnografico che gli stava più a cuore. In seguito tuttavia mi è sembrato di capire che è stata invece l'opacità dei nativi, la difficoltà nello stabilire con essi un contatto effettivo a motivare questa scelta. Le sue ragioni a mio avviso erano state quindi specificatamente etnografiche, cioè dipendenti dal contesto pragmatico che l'autore aveva dovuto affrontare. L'operazione conoscitiva non poteva fondarsi unicamente sulla "complicità ontologica" e sui vincoli di "affinità" o di "co-appartenenza" che legano interprete e interpretato, sullo sforzo di incrociare le interpretazioni dei nativi con quelle dell'antropologo, gli aspetti emici con quelli etici, i concetti vicini all'esperienza con i concetti distanti30. E' l'autore medesimo a spiegare questo punto: "Nel corso del lavoro mi resi conto che era proprio il modello epistemologico a non funzionare. L'opacità dei miei interlocutori e le difficoltà del lavoro mettevano in crisi l'ottimismo cognitivo su cui si basava. [...] Il mio approccio interpretativo non arrivava, cioè, a concepire il sottile gioco d'interferenza fra le componenti personali e autobiografiche e le componenti disciplinari della ricerca" 31. Malighetti ha così operato una traslazione metodologica decisa a riconsiderare la pratica etnografica in quanto pratica sociale e il lavoro sul campo come il fondamento distintivo della disciplina . Il tema dell'identità è diventato, quindi, il tema decisivo attraverso cui penetrare all'interno di Frechal, coinvolgendo i suoi abitanti in una processualità effettivamente dialogica e polifonica. Come dice l'autore: "Il tema dell'identità si imponeva in qualche modo ed è stato particolarmente fortunato da tanti punti di vista, ma soprattutto da quello della bifocalità. Il libro si intitola: Identità e lavoro sul campo 33 dove identità è ambiguamente plurale e non singolare. Non è solo l'identità di Frechal ad essere considerata. Sono le identità, la mia e la loro, il gioco delle nostre identità. [...] Tutta la dialogicità si inserisce molto bene nel tema dell'identità e non è un caso che sia un tema molto sfruttato, molto ricercato in questi ultimi decenni".34 scorrevole, fruibile, leggibile e questo, come sempre, ha imposto delle scelte".38 La risposta alla prima domanda (perché è così importante testualizzare la processualità della pratica etnografica?), che era già presente nel libro 39, è maturata in me stranamente solo molto tardi, mentre ero già impegnato in una seconda lettura del Quilombo ed avevo ormai completato lo studio di Dal tribale al globale, e di Il filosofo e il confessore 40, i testi a cui il corso si affidava come riferimento teorico di base. Inizialmente mi sembrava del tutto paradossale riuscire a controllare i propri presupposti, i propri pre-giudizi, attraverso l'analisi della processualità delle proprie esperienze di campo. In quanto "pre-" dovevano essere considerati fuori dalla portata delle proprie possibilità di comprensione. La testualizzazione della processualità mi sembrava importante solo per minare lo stile etnografico troppo "autoritario" delle monografie tradizionali, creando resoconti resistenti ad interpretazioni totalizzanti41 , monografie aperte a una molteplicità non conclusiva di interpretazioni; una sorta di incompletezza capace di preservare l'alterità del campo e il suo carattere poietico e mutante. Questa mia interpretazione riduttiva del ruolo delle descrizioni autobiografiche e dialogiche mi permette ora di capire l'originaria difficoltà che avevo provato nel localizzare le aporie di Malinowski. Se una raccolta intensiva di dati "concreti", "il più completa possibile" e quindi ipoteticamente interminabile, determina una sorta di processualità anche nel paradigma dell'osservazione partecipante 42 , o anche in un tipo di osservazione etologica attenta a non compromettere l'oggetto della ricerca con l'osservatore, questa specie di circolarità interpretativa difficilmente riesce a mettere in discussione i pregiudizi su cui gli stessi protocolli osservativi si basano. La processualità delle interpretazione è limitata al livello referenziale superficiale, ai differenti modi di incrociare e selezionare i dati, mentre non giunge a coinvolgere i pre-concetti che guidano la ricerca, il livello meta in cui si organizzano i fenomeni di precomprensione attraverso cui i medesimi dati prendono senso. Risulta così chiaro, a questo punto, anche la ragione per cui Malinowski considerò i suoi diari del tutto privi di interesse ai fini della ricerca etnografica, occultando nella sua monografia tutta la problematicità esistenziale della sua vita alle Trobriand. La sua ingenuità epistemologica non gli permetteva di cogliere l'importanza ermeneutica di quei testi, la loro capacità di mettere in discussione la rigidità delle sue presupposizioni, gli scopi, le ragioni storiche contingenti e psicologiche più o meno inconsce che motivavano le sue scelte e il suo lavoro. Il paradigma etologico e il paradigma dell'osservazione partecipante risultano quindi del tutto insufficienti per fondare una metodologia della ricerca etnografica non viziata da un atteggiamento che essendo incapace di mettere in discussione i propri pregiudizi, risulta inevitabilmente etnocentrico. Una maggiore attenzione al "punto di vista del nativo", combinata con la rinuncia dialogica ad una parte della propria autorità in favore di forme di eteroglossia, diventa così essenziale e decisiva per il Diverse cose però non mi erano ancora del tutto chiare. Perché era così importante testualizzare la processualità della pratica etnografica, la successione degli errori, dei tentativi incompleti, dei fraintendimenti, delle manipolazioni reciproche? E se era così importante come mai ad un certo punto gli aspetti affettivi, sociali del contesto relazionale sparivano dalla scena del Quilombo, mentre le interviste progressivamente occupavano quasi tutto lo spazio? In principio mi pareva che dopo la drammatizzazione iniziale i soggetti, i protagonisti di quell'incontro che era avvenuto a Frechal, fossero tornati nuovamente dietro le quinte, estromessi dalla scena dell'azione. Le simpatie, le amicizie, le strategie, le tensioni erano state ancora una volta rimosse (ed ero sinceramente così apodittico nelle mie interpretazioni!). Tutto ciò mi ricordava infatti il combattimento dei galli di C. Geertz 35, dove, come dice Clifford il "primitivo senso di alienazione dai balinesi [...] viene superato grazie all'accattivante storiella dell'incursione della polizia e della sua [di Geertz] mostra di complicità"36. Subito dopo, l'autore (Geertz), in questo caso insieme alla moglie, si eclissavano per dare spazio all'etnografia vera e propria, condotta secondo i principi standard del paradigma interpretativo geertziano. Come dice lo stesso Malighetti, parlando del modello di analisi di Geertz, ancora una volta emergono i significati ma non i soggetti 37 . Nel caso del Quilombo, il seguito era però molto diverso e se il contesto relazionale era espulso dal testo, le soggettività erano incorporate in un assemblaggio molto denso e articolato di interviste. Erano stati i miei pre-giudizi che mi avevano impedito di vedere chiaramente questo fatto così evidente? E' solo interrogando il medesimo autore che ho compreso infine con chiarezza le ragioni della sua strategia: "Si è lasciato che fosse l'andamento della lettura [...] la qualità dell'intervista, il tipo di domande, rivelatori di questi rapporti. Certo sarebbe stato interessante e importante anche descrivere il contesto di ogni singola intervista, però avrebbe reso il testo davvero [...] molto complesso, molto articolato, molto difficile [...]. Ammesso che qui ci sia un tentativo di negoziazione, [...] in Geertz non c'è proprio, sparisce l'antropologo ma spariscono anche i nativi. Qui l'antropologo c'è attraverso le sue interviste, [...]. Ho privilegiato la negoziazione dei significati sul campo, ho privilegiato l'antropologo che continua a modificare i propri paradigmi, le proprie idee in relazione ai testi, alle interviste ecc., rispetto alla descrizione dei contesti... Anche perché si snocciola un discorso teorico che si articola processualmente. L'inserimento di parti che, come dire, contestualizzavano l'intervista avrebbe fatto perdere la processualità della ricerca che andava avanti, l'avrebbe proprio interrotta... Continuamente. E' stato invece fatto un grosso lavoro [...] per rendere il testo 26 discorso antropologico. Questa mescolanza di elementi personali autobiografici, di componenti disciplinari, il punto di vista dell'antropologo, e contestuali nativi, il punto di vista dei suoi interlocutori, innesca una complessa dinamica interattiva all'interno di un particolare spazio sociale43, una specifica modalità di scambio e di comunicazione caratterizzata da una riflessività cognitiva ed epistemologica che a sua volta genera la dialettica fra anticipazioni di senso e comprensione, un linguaggio di compromesso, una sorta di "pensiero meticcio" e "mutante", di scrittura "interculturale"44 . E' in questa maniera che può realizzarsi una fusione di orizzonti, un innalzamento a una universalità superiore45 , che, sebbene sempre precaria e intrinsecamente instabile, rappresenta forse il significato più profondo del tipo di incontro attivato dalla ricerca etnografica, il suo valore epistemologico e relazionale, mediazione di culture e visioni del mondo in origine reciprocamente inconcepibili. Fig. 4 Donne di Frechal mentre pilano il riso.50 6. Interviste e negoziazioni La metodologia di ricerca etnografica dell'autore, coerentemente con il paradigma dialogico da lui adottato, si è quindi basata soprattutto su interviste o meglio su conversazioni fissate su appuntamento, strutturate dalla presenza del registratore. Come dice egli stesso: "il mio lavoro sul campo è stato fondamentalmente relazionale e solo superficialmente osservativo, condotto from the door of my tent"46. Inizialmente, nelle sue pratiche di campo, l'autore era ancora catturato dalla "trappola oggettivante"47 che considera il testo culturale preesistente alla sua interpretazione: "pretendevo inconsciamente che fossero loro a fornire le interpretazioni e quindi per certi versi a produrre la monografia che invece ero chiaramente io a dover elaborare... Ne ero chiaramente cosciente quando misuravo su di me l'effetto delle mie domande a cui spesso io stesso non avrei saputo rispondere" 48 . I suoi interlocutori, sottoposti alle sue interrogazioni incalzanti e insistenti, sul significato di essere quilombola, non potevano direttamente formulare le interpretazioni che invece era l'antropologo a dover elaborare. Questo fu segnalato all'autore anche da molti dei suoi interlocutori: "Roberto. Sei tu che devi dire [...]. Come era, come non era. [...]. Vedi tutti questi panni. Io devo lavarli e tornare a casa [...]. Sei tu che devi scrivere il libro".49 Possiamo così vedere che se l'osservazione partecipante chiaramente non consente di assistere al miracolo di nativi che discutono della propria identità, un simile problema non è facilmente risolvibile neppure attraverso i tentativi dialogici che prescindono dai loro interessi e dai loro scopi. Questo perché i progetti indigeni e i progetti dell'antropologia sono molto spesso conflittuali. Certo si può “comprare” il coinvolgimento dei nativi nell'impresa antropologica, ma in mancanza di altre motivazioni i risultati di tale strategia sono molto aridi e privi della forza euristica in grado di guidare l'interpretazione. 27 Durante la lezione conclusiva del corso, alla critica di alcuni studenti che denunciavano l'assenza nel Quilombo di "dialoghi nativi", cioè della osservazione-registrazione delle elaborazioni degli abitanti di Frechal non provocate direttamente dalle domande dell'antropologo, Malighetti giustamente rispose: "Voglio parlare molto praticamente [...], lo scambio dialogico tra i nativi di solito è del tipo: "Ciao come stai? Bene grazie. Dove andiamo a coltivare il campo oggi?" [...] E' difficile [...] Non so se lei con le persone a lei intime parla molto spesso dell'identità italiana o della sua identità o dell'identità di sua moglie... Soprattutto è difficile che l'antropologo riesca a esserci proprio in quel momento [...] come una spia che esce dal cespuglio e cattura la frase sul quilombo mentre sta avvenendo [...]. Certo che anche loro [i nativi] ne parlano [...] è il momento in cui arriva l'avvocato. Allora si siedono, ma non parlano di come costruiscono la danças do Congo 51 , fanno discorsi specifici"52 A questa critica volutamente provocatoria dell'osservazione partecipante - si potrebbe obiettare che ogni parola, anche la più banale e quotidiana, può svelare molte cose dell'identità di chi la pronuncia (e qui la linguistica antropologica ci può insegnare moltissimo) - possiamo ora affiancare quanto detto in precedenza, la medesima critica che l'autore formula a se stesso: se è difficile capitare al momento esatto in cui le cose che ci servono accadono e sono dette, può anche essere difficile suscitarle con le nostre domande. La circolarità ermeneutica "gira a vuoto" e non funziona efficacemente operando su materiali passivi 53 . E' allora necessario intraprendere un lungo percorso iniziatico formato da una sequenza tortuosa di compromessi, collusioni e incomprensioni, malintesi e reciproci aggiustamenti. "Decisi quindi, di tenere presente la successione degli errori e dei tentativi, le interpretazioni false o incomplete e tutto quell'insieme complesso di sentimenti, qualità e occasioni che fondano la specificità del ‘metodo di lavoro’ antropologico" 54. E' il percorso di processi e negoziazioni, costruzioni e decostruzioni, semantizzazioni e risemantizzazioni narrato nel Quilombo. E' un metodo, per quanto paradossale possa sembrare, in un certo senso simile alla partecipazione empatica (l'autore non sarebbe d'accordo con questa analogia), almeno per l'intensità del coinvolgimento emotivo, cognitivo, esistenziale che richiede. Certo non si cercherà di trasformare se stessi in contadini discendenti di schiavi, ma lo sforzo di mettere in tensione i propri pregiudizi con quelli nativi avrà la stessa intensità e sarà guidato dalle stesse intenzioni di fusione e comprensione dell'altro che forse hanno motivato il sogno romantico di una perfetta adesione del proprio se ad una diversa cultura. Riassumendo il percorso fin qui seguito, possiamo enunciare sinteticamente la catena di implicazioni che ha caratterizzato la processualità del lavoro sul campo a Frechal: le implicazioni tra l'inadeguatezza del metodo interpretativo inizialmente adottato dall'autore e l'opacità e la passività dei nativi, quindi tra questa opacità e la sua scelta di riconsiderare il proprio modello metodologico in chiave processuale, dialogica e infine tra la nuova prassi metodologica e la scelta del tema dell'identità, o meglio delle identità, della sua e dei suoi interlocutori, come cavallo di Troia con cui penetrare all'interno di Frechal. La logica un po' troppo rigida e formale con cui ho cercato di ricostruire questa serie di nessi causali è stata discussa con l'autore. Qui sarebbe stato importante, avendo più tempo a disposizione, chiarire i nostri punti di vista innescando un'ulteriore possibilità dialogica. 7. Descrizioni dense Mi interessa chiarire a questo punto un'altra questione. Forse ho dato l'impressione di pensare che il Quilombo sia povero di descrizioni. Non è così. Il Quilombo non è povero di descrizioni. O meglio, fedele all'ispirazione geertziana che lo guida 55 , le continue descrizione che formano il suo tessuto sono dirette in profondità, descrizioni dense56 in cui il particolare e il generale si richiamano reciprocamente in una specie di simbiosi. Nel Quilombo, "non essendoci generalizzazioni attraverso i casi, ma solo al loro interno, l'elaborazione teorica procede a sprazzi, percorrendo un sentiero wittgensteiniano tortuoso e pieno di deviazioni ed incroci"58. Così le varie interpretazioni dell'identità quilombola vi emergono e svaniscono nell'intrecciarsi con gli eventi descritti, nel loro contesto "naturale", nessuna di esse giusta o sbagliata eppure tutte valide da un certo punto di vista, valide anche nel loro insieme nel loro accordarsi al tutto: "una sequenza sconnessa ma intellegibile di sortite sempre più approfondite"59 . L'apparente banalità, la semplicità istituzionale e cerimoniale dell'identità degli abitanti di Frechal - priva di possibili prese per i miti di fondazione dell'antropologia (la parentela, l'animismo, la possessione, la stregoneria, il dono... )60- inizialmente attribuita da Malighetti, anche se con incerta convinzione, al processo di rimozione del passato coloniale che li aveva discriminati e alle politiche di annullamento, dispersione, omogeneizzazione delle identità messe in atto dalle istituzioni schiaviste61, nel descrivere in seguito le sue difficoltà di adattamento alle condizioni di campo, viene attribuita dall'autore a se medesimo e alla sterilità, all'inefficacia dei paradigmi teorici e metodologici da lui adottati. Nel Quilombo è continuamente messa a profitto questa strategia oscillante, strategia anch'essa di ispirazione geertziana, in cui concetti lontani dall'esperienza62 (in questo caso il concetto di identità) sono chiariti attraverso i particolari che li incorporano, i vissuti esistenziali e fenomenologici più contingenti, mentre i particolari sono pensati con i concetti teorici che li spiegano: "non possiamo segare il ramo sul quale siamo seduti.. non possiamo che usare teorie generali, è lì che parte il circolo ermeneutico, dal sapere [...]. Se c'è un contributo teorico sull'identità è che l'identità è un modello teorico [...] l'identità è un concetto, un fuoco virtuale"63. E questo fuoco virtuale nel Quilombo non è indagato in relazione al rapporto tra struttura e processo, ma è ricercato dall'interno, "analizzandone la dinamica [...] a partire dagli attori sociali, dal loro vissuto, dalle loro rappresentazioni"64. 8. La dinamica di un incontro dialogico Torniamo ora alla domanda cruciale a cui ancora non abbiamo fornito una risposta decisiva: Come è stata superata nel Quilombo l'opacità di Frechal? Nonostante l'autore in più momenti affermi la fondamentale "eterotopia"65 tra discorso nativo e discorso antropologico e quindi la costitutiva ed inconciliabile opposizione tra i progetti nativi e i progetti del ricercatore sul campo, opposizione decisiva soprattutto nel fondare la sua autorità etnografica, a mio avviso il successo della ricerca di Malighetti a Frechal è dovuto proprio alla sua capacità di trasformare situazionalmente le proprie aspettative, i propri scopi adattandoli al contesto di campo, ai progetti nativi, alla loro logica e ai loro bisogni. Abbandonate tutte le velleità di riscoprire a Frechal i miti fondatori dell'antropologia e nello specifico ad esempio la ricchezza culturale dei culti afro-brasiliani, l'autore nel scegliere l'identità come polo decisivo attorno a cui articolare tutta la dialogia del suo incontro con i nativi, dimostra la strategica necessità di coniugare tale concetto astratto ai problemi più vivi dei suoi abitanti, al problema ad esempio di come costituire un'identità comune capace di rappresentare a se stessi e agli altri la propria unità. Esigenza questa per i quilombolas del tutto politica, motivata a sua volta dalla volontà di opporsi alla drammatica realtà del latifondo, ai soprusi di un fazendeiro incapace di continuare la consolidata relazione di armonia e pace vigente con i precedenti proprietari di Frechal; dalla necessità di dare peso giuridico alla legittimità delle proprie rivendicazioni appellandosi a dispositivi costituzionali che riconoscono ai successori degli antichi schiavi fuggiti il possesso della terra sulla quale vivono. L'identità a Frechal non è stata allora studiata dall'autore nei suoi aspetti culturali o folklorici ma nella sua valenza essenzialmente politica. Sono questi problemi concreti che hanno motivato, secondo il mio punto di vista, il crescente interesse di Malighetti per la storia sociale ed economica della regione di Frechal, per i documenti processuali della causa con il 28 fazendeiro, per le attività del Centro di Cultura Negra (CCN) di São Luís e della Sociedade Maranhense de Defesa dos Direitos Humanos (SMDDH). Risultano ora chiare le ragioni che hanno guidato l'autore nel selezionare i materiali etnografici da includere nel testo finale. Ad esempio possiamo comprendere la scelta di scartare argomenti anche molto interessanti e significativi come la possessione66 o il carattere endo-gamico delle relazioni di parentela a Frechal. Questi temi non erano decisivi per la strategia etnografica adottata dall'autore, esattamente come per Malinowski non apparivano cruciali i fatti descritti nei suoi diari. In definitiva proprio le questioni che in teoria avrebbero dovuto maggiormente compromettere l'antropologo nelle faccende locali, incrinando la sua autorità, si sono rivelate le più efficaci nell'attivare l'interesse nativo nei suoi confronti. Inizialmente la relazione dei nativi con l'autore si è caratterizzata per le reticenze, i sospetti, gli sviamenti e per una sorta di patto del silenzio. All'inizio gli informatori avevano solo una vaga idea di ciò che l'autore intendeva fare a Frechal67. Ma con il crescere della confidenza hanno iniziato ad apprezzare la possibilità di raccontare i loro problemi e le loro riflessioni (Ibidem). Durante le interviste l'identità quilombola rappresentandosi all'autore e a loro stessi, in un reciproco scambio interattivo di manipolazioni e collusioni, andava trasformandosi e definendosi con maggiore profondità. L'antropologo, in questo preceduto dalle associazioni (CCN, SMDDH) che avevano aiutato gli abitanti di Frechal ad istituire la causa contro il fazendeiro , ha acquisito un ruolo maieutico capace di indurre nei nativi nuove modalità strategiche con cui confrontarsi con l'alterità, con il mondo più vasto che circondava Frechal; un ruolo anche terapeutico, capace di suscitare nuove aspettative, nuove speranze, nuove energie. Nita, una giovane donna di Frechal, così descrive il suo incontro con l'autore: 9. A cosa serve l'antropologia? Ma il lavoro etnografico sul campo in cosa si è distinto dall'attività delle associazioni che hanno operato nello stesso territorio? Quale è stato il suo specifico impatto sui nativi e cosa è stato in grado di raccogliere e portare a casa? Inizialmente si è istituita una doppia manipolazione, dei nativi sul progetto antropologico e dell'antropologo sui progetti nativi. Gli abitanti di Frechal, addestrati dalle logiche giuridiche messe in atto dagli avvocati durante il processo contro il fazendeiro, hanno usato Malighetti come un documento, un supporto su cui appoggiare una rappresentazione condivisa dell'identità70 , oppure semplicemente come un mezzo per acquisire un prestigio, da spendere soprattutto con gli estranei e derivante dall'essere studiati da un antropologo italiano71. Hanno anche influenzato l'autore nelle sue scelte riguardo l'oggetto di ricerca, almeno determinando in parte il contesto relazionale in cui il loro incontro è avvenuto. Fig. 5 "Penso che il tuo lavoro sia ottimo perché ci sta aiutando a mostrare a noi stessi la nostra importanza. Attraverso le interviste Inácio.72 ci obblighi ad approfondire le cose [...] Roberto sta aiutandoci e noi aiutiamo Roberto a portare Frechal in Italia... " 68 . Allo stesso tempo è stato l'autore a coinvolgerli nel processo dialogico, stabilendo i luoghi e i tempi di tale incontro. Inoltre il Se però inizialmente mi era parso di scorgere un crescendo di medesimo bisogno di un sapere controllabile che portava intensità, un progressivo avvicinarsi e comprendersi, il graduale l'antropologo ad insistere sulle tracce scritte ha poi indotto istituirsi di una sorta di alleanza interpretativa tra l'autore e i suoi un'analoga attenzione e valorizzazione da parte dei nativi per le informatori, successivamente mettendo più attenzione alle date attestazioni documentarie 73 . Ma questo non è tutto. L'insistente dei brani delle interviste inserite nel testo, in cui il prima e il dopo attenzione dell'autore per la processualità, per il carattere si alternano senza sosta in un continuo oscillare difficilmente interpretativo essenzialmente contestabile di ogni costruzione controllabile, mi sono dovuto parzialmente ricredere. La fusione culturale, e quindi sul carattere fittizio di ogni identità, ha finito, tra i modelli interpretativi dell'autore e dei nativi si è svolta senza secondo me, per contagiare sottilmente il punto di vista nativo. seguire una logica semplicemente sequenziale ma subendo dei Questa mia interpretazione, molto azzardata, è difficilmente salti, affrontando nel suo svilupparsi delle accelerazioni e delle dimostrabile sulla base delle interviste inserite nel Quilombo. Se contrazioni. L'illusione da cui ero stato sedotto era anche l'effetto accolta mi sembra però chiarire il differente modo in cui la di un procedimento retorico: la messa in scena delle successive presenza a Frechal dell'antropologo ha influenzato i suoi stratificazioni della scrittura, della sua processualità temporale, interlocutori rispetto invece al ruolo svolto dalle varie dello scarto tra ""l'essere là" (sul campo), e "l'essere qui" (a associazioni che hanno operato a Frechal. Qui è come se io raccontare del campo)" 69 . provassi a ribaltare l'asimmetria tra l'antropologo e i suoi 29 interlocutori, tentando di guardare il processo di fusione dal punto di vista dei nativi. In una prospettiva dialogica la fusione si genera anche tra di essi74. La mia idea è che alcuni complessi concetti disciplinari: il carattere costruttivo, fenomenotecnico dei processi interpretativi, la loro funzione strategica e manipolatoria, si siano insinuati pragmaticamente tra alcuni nativi realizzando così una forma di fusione tra concetti vicini, la terra, la comunità e lontani dall'esperienza, la storia. La storia di Frechal inizialmente era concepita in modo sostanzialistico, come qualcosa da conoscere o da scoprire attraverso le tracce lasciate nelle persone, nei documenti, nel territorio. Come racconta Inácio, uno dei leader della comunità di Frechal: "Quando arrivò Dimas75[...] noi gli mostrammo i vari rifugi, le rovine. Loro furono lì a vedere e Alfredo Wagner76 disse che lì era il quilombo" 77. Nel corso del processo e successivamente, la storia del quilombo è stata rielaborata dagli abitanti di Frechal in termini narrativi, ma sotto gli stimoli dell'autore, a mio avviso, è affiorato, in un certo senso, anche il carattere fittizio delle storie narrate, carattere che si è infiltrato inscrivendosi sottilmente nei loro discorsi. Parallelamente è emerso il valore vitale, utopico, orientato verso il futuro del narrare: si dimentica. ‘Esatto’" 83 . Se protocolli di intervista non direttivi possono essere utili nel far emergere risposte inaspettate e destabilizzanti è chiaro che una totale non direttività, impedendo qualsiasi negoziazione tra l'antropologo e i suoi interlocutori non può innescare alcuna efficace dialogia. Il mestiere dell'antropologo, la sua "magia", consiste allora proprio nell'acquisire la capacità di gestire questo dilemma, di capire quando forzare le proprie interpretazioni e quando lasciarsi conquistare dalle interpretazioni native: " Inácio diceva... ‘No, no è il passato che crea il presente’, e però ‘storia viva’ è nata da lì. Non è che Inácio andasse in giro dicendo: ‘storia viva, storia viva, la nostra è una storia viva’ [...]. C'è un anno di vita in comune lì [...] però si, c'è anche quello, la forzatura. [...] E' il tuo mestiere... Il fare ricerca è acquisire quella sensibilità di capire cosa puoi provocare, cosa non puoi provocare, si potrebbe dire, cosa sei in grado di contenere, cosa non puoi contenere"84 Intervistando sul Quilombo due compagne di corso, sorprendentemente, sono emerse contemporaneamente le due possibili interpretazioni dell'operazione condotta dall'autore. L'interrogativo, anche se ingannevole, era molto semplice: "da dove arriva il concetto di ‘storia viva’? è un'invenzione di Malighetti o dei nativi?". Mentre la prima si era convinta che "la chiave di lettura lui [l'autore] l'aveva già"85, la seconda era persuasa che "la convergenza è stata si creata dall'autore, ma si è creata proprio nello scambio tra le interviste e le elaborazioni"86 , cioè nello scambio dialogico. Per lei anche i momenti più direttivi, quando Malighetti sembrava incalzare i suoi "Mundoca lasciò una storia viva [...] Ciò che lei sapeva, interlocutori imponendo provocatoriamente le sue idee (come nel raccontato dal marito, lo passava a noi.81 Se non fosse per i brano sopra citato), rappresentavano "un momento in cui il racconti di questa schiavitù [...] forse non avremmo avuto una dialogo funzionava, [...] uno dei punti in cui il gioco viene storia che potesse concretizzarsi [...]. Perché che cosa avremmo fuori"87. Anche se l'autore possedeva sin dall'inizio questa "chiave detto se non fossimo stati schiavi?82". di lettura" ciò rappresentava solo il punto di partenza su cui innestare un discorso dialogico che manteneva una propria Che la storia passata sia una costruzione del presente non emerge indipendenza e che poteva produrre sia fenomeni di convergenza mai spontaneamente nelle risposte degli abitanti di Frechal. che viceversa incomprensioni e contrasti. Ecco cosa ci dice Sembra però esserci un filo sotterraneo che scorre nei discorsi l'autore sul ruolo avuto nell'influenzare la realtà di Frechal: nativi registrati dall'autore e che indirettamente segnala quell'idea. Nei dialoghi si manifesta pienamente anche il ruolo attivo, "In che modo ho influenzato la realtà di Frechal? Questo è un ironico, provocatorio dell'antropologo. problema molto complesso [...], dovrei riflettere molto su questa cosa. […] Parlare a fondo di cosa abbia significato la mia "Il mio assunto teorico è che il presente crea il passato. Se non presenza a Frechal potrebbe essere oggetto di una ricerca. Anche incontravate l'articolo 68, la parola quilombo non sarebbe stata perché la mia presenza si è accompagnata a tante altre presenze. importante per voi [...]. Il presente vi obbliga a riconsiderare una Non è facile isolare il mio contributo" 88 . cosa del passato come molto importante. "Realmente. E' una verità. Tu hai detto in pochi minuti ciò che è Nel Quilombo di Frechal il carattere negoziale dell'identità è importante [...] il presente è tanto importante per il passato e io esplorato con grande meticolosità, potremmo dire, citando la frase penso anche così: io penso che anche il passato è importante per di Geertz con cui si conclude il libro, con "la precisione con cui ci il presente." tormentiamo a vicenda"89 . E' indagato il suo configurarsi come Si. Ma senza presente non hai conoscenza del passato. Il passato fenomeno precario, funzione instabile, luogo di concorsi cui "Ora io conosco l'altro lato della storia [...]. Questo è nato da me a partire da alcune riflessioni con me stesso [...]. Sarà che il lavoro degli schiavi fece questo Paese chiamato Brasile un Paese ricco?78 Così iniziai a studiare i libri [...] e a vedere che era una storia che non era raccontata dallo schiavo, ma che era raccontata dagli storici bianchi. Mi chiedevo: "Sarà che chi scrisse questo fu qualche schiavo?" 79 Essere quilombolas significa essere [...] lottatori, conquistatori, negri che hanno una conoscenza maggiore delle altre comunità80". 30 partecipano in misura ogni volta infinitesima le forze della natura e della storia90 , l'identità come spazio in continua effervescenza che manifesta un valore doppiamente pratico: mezzo performativo per legittimare i propri obiettivi e strumento euristico capace di isolare in un nome, in uno schema concettuale la polisemia del dato empirico; categoria della pratica che può essere detta solo in termini narrativi91. Ma tutto questo potrebbe sembrare solo accademia se nel Quilombo non fosse praticato, sperimentato etnograficamente sul campo. Ciò che risulta significativo nel Quilombo è infatti soprattutto la narrazione dell'incontro dialogico, il luogo in cui tutte le sofisticate teorie antropologiche sull'identità, prima accennate, si incarnano in un tessuto esistenziale più reale: sono le dinamiche di manipolazione, fusione avvenute nel contesto etnografico. Ma torniamo alla questione iniziale: il lavoro etnografico sul terreno in cosa si è distinto dall'attività delle associazioni che hanno operato nello stesso territorio? A mio avviso, il lavoro antropologico dell'autore, attraverso le pratiche di costruzione e decostruzione che ha manifestato anche sul campo nel tipo di domande proposte ai suoi interlocutori, è stato in grado di distanziarsi dalle strumentalizzazioni attraverso cui ad esempio i concetti essenzialistici di "territorialità", "anzianità di occupazione", "genealogia", "razza", si erano cristallizzati a Frechal durante le varie fasi del processo giudiziario. In questa prospettiva possiamo leggere quindi anche le differenze di punti di vista, le tensioni, le inquietudini tra l'antropologo ricercatore accademico (Malighetti) e l'antropologo militante al servizio di associazioni per la difesa dei diritti umani di minoranze etniche discriminate (Alfredo Wagner): pregiudizi? Oppure è solo riuscito a impartire, senza volerlo, la nuova lezione del sapere occidentale, in questo caso una lezione di antropologia interpretativa, a nativi ancora una volta troppo passivi? I concetti di creatività, poieticità, il concepire la storia come costruzione pragmatica, non fanno anch'essi parte del grande mito occidentale del progresso, dell'individuo demiurgo imprenditore di se stesso? Sono convinto che a questi ultimi interrogativi si possa rispondere negativamente e che probabilmente siano anche interrogativi mal posti e sbagliati. Ma preferisco mantenerli, mantenere il dubbio capace di minare le più occulte inclinazioni con cui imponiamo i nostri discorsi agli altri. Qui probabilmente ci scontriamo con i limiti e le forme generali della dicibilità: i discorsi, citando Foucault, sono pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano e in ciò manifestano la loro specifica irriducibilità e la "perpetua articolazione del potere sul sapere e del sapere sul potere" 93 . Ma infine potremmo ancora chiederci: saremo mai capaci di giungere al limite di noi stessi, fino a veder sorgere il vuoto in cui obliandosi sopravvivere alla propria scomparsa? 10. Capire l'antropologia a partire da cosa fanno gli antropologi Le narrazioni autobiografiche di campo, la descrizione della complessa fase di ricerca dell'oggetto di ricerca, contenute nei primi paragrafi del Quilombo, svolgono, secondo le parole dell'autore, delle "strategie testuali di costruzione di un'autorità e di introduzione al discorso. Ci sono anche strategie retoriche che hanno a che fare con la messa in intrigo, con la costruzione di qualcosa di leggibile, di fruibile"94. Ma vi è qui pure un'altra ragione più specificamente pedagogica: "Alfredo Wagner De Almeida è un'autorità in Brasile. [...] Lavora anche nel movimento dei Sem Terra... E' una persona che gira il mondo. [...] Abbiamo avuto discussioni, abbiamo avuto anche tensioni. Lui è un militante, a lui interessa che Frechal abbia la terra... [...] Usare politicamente certe categorie, come razza, gruppo etnico ecc. [...] è un grande problema. Non ho dubbi sulla buona fede di Alfredo, però se metti in gioco categorie come razza, colore ecc. poi se queste categorie che tu hai messo in gioco vengono usate da altri, che non sempre hanno le tue stesse finalità, la cosa diventa pericolosa. Specie per queste categorie che hanno una lunga storia. [...] Sono stato invitato dall'associazione degli antropologi brasiliani ad un convegno e qui ho fatto un discorso sull'etica, sulla ricerca... Sull'attenzione che bisogna avere nell'usare i concetti, perché prenderli e usarli, anche per finalità nobilissime, è comunque una questione delicata. [...] Ciò che voglio sottolineare è un problema etico. Non ho soluzioni. Voglio solo dire di fare attenzione".92 "Come dire, c'è tutta la ricerca dell'oggetto di ricerca. A uno studente che vuole fare ricerca potrebbe interessare... Non sto dicendo che sia la cosa più bella del mondo... Però si può dire: "Guarda Malighetti, anche lui aveva questo problema". Mentre Malinowski sembra che già il primo giorno sapesse cosa fare e come farlo... "95. "E' pesante fare ricerca, ti stressa. Per questo hai bisogno di scrivere [...]. Il messaggio allo studente allora è: guarda che se stai male perché c'è tensione è normale... Nel rapporto interpersonale si arriva a casa distrutti... Se poi ci sono anche 60° all'ombra e in più i tuoi interlocutori non parlano e sei anche stanco e magari mangi poco... Si fa ancora più fatica. […] Quando alcuni studenti mi dicono di voler fare ricerca sul campo li avverto delle difficoltà, anche economiche, e del rischio di tornare a casa a mani vuote"96. Possiamo così concludere che l'impegno peculiare di Malighetti, più che riportare a casa nuove conoscenze monografiche, ha portato indietro un'idea, un esempio di cosa significa fare antropologia oggi. Un dubbio però ancora rimane: Malighetti ha realmente attivato un processo riflessivo capace di decostruire anche i propri "C'è sempre un po' di pudore e timidezza nel tirare fuori il quaderno degli appunti, nel fare le domande. [...] Penso quanto il libro sia stato scritto anche per gli studenti, per coloro che... Sono imbarazzati a tirare fuori il quaderno degli appunti, che pensano che estraendo il quaderno in qualche modo tradiscono i 31 propri interlocutori, il loro rapporto di amicizia. Non si tratta di essere amici. Non si è amici. Si è lì perché si è antropologi e l'antropologo tira fuori il quaderno degli appunti. E questa è violenza. Penso a quanto il libro possa essere un libro introduttivo per capire cosa fanno gli antropologi, cosa è l'antropologia a partire dal vedere cosa fanno gli antropologi. Anche per via negativa dicendo: ‘L'antropologia deve essere il contrario di quello che fa Malighetti".97 Fig. 6 intrecciano nella pratica etnografica. Ma il valore formativo del Quilombo, a mio avviso, va oltre questo intento esemplare ed educativo. Il Quilombo con il suo complesso intreccio di interpretazioni costituisce un testo aperto, "un testo vivo" che suscita continuamente nuove possibilità di lettura. Così ne parla una compagna di corso: "Più lo leggevo, più mi piaceva, nel senso che leggendolo era come se... Mi sono vista così... Mi sono vista in circolarità ermeneutica con il libro [...]. Mi sembrava ogni volta di capire delle cose in più [...]. Se non avessi letto questo libro non so se avrei capito adeguatamente Dal tribale al globale, magari si avrei capito più o meno..." 99 Potremmo dire, continuando le sue parole: "si avrei capito, ma non così concretamente, così praticamente, così fisicamente". Il Quilombo costituisce perciò un testo poietico, un testo estetico 100 , la cui bellezza è inscritta nella potenzialità interpretativa che risveglia nei suoi lettori, nella sua incompletezza che induce a soffermarsi e a riflettere su di essa. Un testo creativo attraverso cui prendere coscienza dei propri pregiudizi e sviluppare le proprie capacità critiche. Tutto il mio intento è stato allora quello di manifestare questa proprietà profonda del Quilombo cercando di riattivarla nella mia recensione. Molte cose che ho scritto costituiscono delle interpretazioni estremamente personali del libro, interpretazioni più o meno condivisibili, spesso provocatorie. La mia adesione al testo va però cercata nel suo esito performativo: una recensione aperta, di un'etnografia aperta, di una storia viva. 11. Saudades Questa Estate sono andato in Brasile101 , un mese in viaggio tra São Paulo e São Luís. São Luís la capitale dello stato di Maranhão, a poche ore di viaggio da Mirinzal e Frechal. Ma non ho avuto il coraggio o la volontà di colmare quella distanza. Come se avessi avuto paura di superare lo spazio virtuale che ancora mi separava da Frechal e nutriva le mie aspettative, i miei desideri, le mie illusioni. Prima o poi ci tornerò. A São Luís ho incontrato Ivo102 , quasi per caso. Ho incontrato Elenice, figlia di Inácio e sorella di Hélio marito di Márcia madre di Kindè103 e Kindara 104. Forse non mi sentivo ancora pronto per incontrarli di persona... Poi una sera ho conosciuto Dimas, uno degli avvocati di Frechal come se il destino mi avesse guidato in quel bar sulla spiaggia, la praia do Calhau a São Luís... 105 Bambini quilombolas. 98 Tutte le tematiche più complesse che deve affrontare l'antropologo sul campo - il problema di come stabilire la propria autorità, le possibili strategie retoriche con cui affermarla sul campo e nel testo, il problema dell'opacità dell'oggetto di ricerca, la violenza dell'intrusione etnografica e la conflittualità tra i progetti nativi e i progetti antropologici, il carattere costruttivo, manipolatorio, processuale dell'impresa etnografica e della sua testualizzazione, le oscillazioni problematiche delle interpretazioni dell'antropologo tra il generale e il particolare, tra concetti lontani dall'esperienza e concetti vicini - sono affrontate nel Quilombo svolgendo direttamente, nella processualità della scrittura, le ingarbugliate articolazione attraverso cui si 32 NOTE 1 R. Malighetti, Il Quilombo di Frechal, Cortina, Milano, 2004, Pag. 211. La parola portoghese quilombo deriva dai termini bantu quibundo, kilombu, espressioni con cui si indica l'accampamento, la tenda. Originariamente, la parola quilombos era usato dai portoghesi per denotare i campi di concentramento provvisori dove venivano radunati gli africani sulle coste dell'Angola e dell'Africa occidentale, prima di essere imbarcati per le Americhe. Successivamente il termine passo a designare le comunità di schiavi fuggiti dalle piantagioni e dalle aziende agricole delle colonie portoghesi in Brasile (Malighetti 2004, op. cit., p. 74). Il vocabolo derivato quilombolas, "abitanti del quilombo", ha un significato analogo a quello di bush negros ad Haiti, o di marrons nella Guiana e nel Suriname (Malighetti 2004, op. cit., p.14). Al di la della definizione storica ed etimologica, la definizione di quilombo possiede una polisemia di connotazioni dinamiche che si sono modificate storicamente e strategicamente anche in tempi recenti a seconda degli scopi di coloro che hanno avuto il potere di stabilirla e di affermarla (Malighetti 2004, op. cit., pp.101, 199-200). 3 Malighetti 2004, op. cit., p. 177. Intervista dell'autore ad Alfredo Wagner De Almeida, 23 Aprile 1996. 4 Malighetti 2004, op. cit. 5 R. Malighetti, Identità e lavoro sul campo nel Quilombo Frechal, 2000. In La ricerca Folklorica, n. 41, pp.97-111. 6 Foto gentilmente messa a disposizione da Roberto Malighetti. 7 Malighetti 2004, op. cit., pp. 3-4. 8 Per una serie di impegni contingenti e per la mancanza di tempo determinata dai termini di consegna della recensione, un'effettiva dialogia tra me e Malighetti non è stata alla fine realmente possibile limitandosi solo ad un'intervista molto strutturata effettuata a fine Giugno, ad alcuni brevi incontri informali e alla discussione del testo finale della recensione. Per questa ragione il titolo dell'articolo che doveva essere: Una recensione dialogica di una etnografia dialogica, è stato trasformato nel titolo attuale: Una recensione riflessiva di una etnografia dialogica. Nonostante ciò, posso però anche dire che nell'analisi e nella comparazione tra i vari testi affrontati, le lezioni del docente e le successive interviste, almeno una forma abbozzata di dialogia si è infine realizzata. 9 In particolare le lezioni del 17 e 19 marzo. 10 B. Malinowski, Giornale di un antropologo [A Diary in the Strict Sense of the Terme], Armando, Roma, 1992 [1967]. 11 B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 2004 [1922]. Entrambi i volumi, gli Argonauti e i diari, erano parte della biografia d'esame che comprendeva anche: U. Fabietti, R. Malighetti, V. Matera, Dal tribale al globale, Bruno Mondadori, Milano, 2000. 12 Malighetti 2004, op. cit., p. 43. 13 Ibidem, p. 52. 14 Gli storici riportano l'esistenza di molti quilombos. Il Quilombo dos Palmares fu però il più grande per estensione e durata. La sua origine é anteriore al 1600, e resistette più di 100 anni alle incursioni militari di olandesi e portoghesi. L'epopea di Palmares è legata alle imprese dei leggendari condottieri Zumbi (1655-1695) e Ganga Zumba. Nato in uno dei villaggi di Palmares, Zumbi, catturato ancora bambino (c.1660), fu consegnato ad un prete di Porto Calvo, padre Antonio Melo, che lo allevò insegnandoli a servire messa da chierichetto. Con il suo aiuto Zumbi apprese anche il portoghese e il latino. A 15 anni però fuggi a Palmares e ancora molto giovane fu capo di una delle tribù del quilombo, fino a diventare nel 1678 il capo delle forze armate dello stato. Dal 1670 al 1680 furono realizzati dai portoghesi moltissimi attacchi al Quilombo di Palmares. Nel 1694 ci fu un grande combattimento con molte morti dalle due parti. Infine il quilombo fu distrutto dai cannoni. Nel 1695 Zumbi fu visto nella foresta dello stato di Alagoas comandare un gruppo di ribelli alla ricerca di armi e munizioni. Il 20 novembre del 1695 Zumbi, tradito da un compagno, fu catturato e assassinato. La sua testa fu tagliata ed esposta in una piazza pubblica, a Recife. Le terre di Palmares furono divise tra i signori che avevano finanziato la battaglia finale. Nel 1986, ascoltando le rivendicazioni della comunità nera, le terre in cui esistette il Quilombo di Palmares, nella Serra da Barriga, furono acquisite dal Governo Federale, creando sul posto il Memoriale Zumbi, dove tutti gli anni, il giorno 20 Novembre, si realizzano atti pubblici, celebrazioni e commemorazioni. I fatti memorabili qui riportati sono il frutto di una sintesi di una serie di testi da me raccolti su alcuni siti Internet brasiliani (ad esempio http://www.vidaslusofonas.pt/) mobilitati nel rivalutare la storia degli schiavi in Brasile. Non hanno quindi un valore storico rigoroso e scientificamente documentato. Possono però essere utili per illustrare uno dei modi e il tipo di testi attraverso cui oggi si produce un idea diffusa e condivisa della storia e della cultura delle comunità nere afro-brasiliane. 15 "I grandi proprietari chiudevano un occhio: per loro, quel che importava era esclusivamente la produzione, e purché il negro conservasse la propria vitalità e la capacità di lavoro, tanto valeva che si divertisse". R. Bastide, I culti afro-americani. In H.-C. Puech, Storia delle religioni. Colonialismo e neocolonialismo, Laterza, Bari, 1978, p. 49. 16 R. Malighetti 2004, op. cit., p. 52. 17 Malinowski 2004, op. cit., p. 15. 2 33 18 J. Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino, 1999 [1988], p. 51. Cfr. Ibidem, p.52. 20 Malinowski 2004, op. cit., p. 29. 21 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995 [1953], p. 46. 22 Ibidem, p. 47. 23 B. Malinowski, Coral Gardens and Their Magic, 1935. 24 J. Clifford 1999, op. cit., pp.62-63. 25 Il giorno 26 Aprile 2004. 26 Cfr. M. Parodi, Arte, Religione e Medicina: il ruolo terapeutico e soteriologico dell'alterità presente, in Achab, Rivista Studentesca di Antropologia della Università Statale di Milano Bicocca, N.1, 2004, pp. 13-20. versione online: www.studentibicocca.it/achab. 27 Malighetti 2004, op. cit., p.6. 28 Cfr. Ibidem, pp. 26-34. 29 Cfr. Ibidem, pp.17-18. 30 Malighetti 2004, op. cit., pp. 56-57. 31 Malighetti 2000, op. cit.; vedi anche Malighetti 2004, op. cit., pp. 64, 67 32 Questa trasformazione paradigmatica sembra qui dimostrare nel modo più evidente e concreto come la dicotomia tra teorico e descrittivo sia fittizia, la teorizzazione rimandando sempre alla pratica, ai problemi concreti di una particolare situazione di campo e viceversa l'immediatezza irriducibile dell'evento risultando comprensibile e dotata di senso solo attraverso l'attività teoricointerpretativa dell'antropologia. Cfr. Fabietti, Malighetti, Matera 2000, op. cit., p. 139-140. 33 Si tratta del sottotitolo del Quilombo di Frechal: Identità e lavoro sul campo in una comunità brasiliana di discendenti di schiavi. 34 Cassetta 4, 32'45"- 33'45". La Cassetta 4 contiene la registrazione dell'intervista a Malighetti da me eseguita il 29 Giugno 2004. 35 C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1987 [1973], pp. 399-449 36 Clifford 1999, op. cit., p. 57. 37 Malighetti 2004, op. cit., p. 65. 38 Cassetta 4, 23'- 25'. 39 Cfr. ad esempio Malighetti 2004, op. cit., p. 69. 40 R. Malighetti, Il filosofo e il confessore. Antropologia ed ermeneutica in Clifford Geertz, Unicopli, Milano, 1991. 41 Cfr. Clifford 1999, op. cit., pp. 62-64. 42 Può essere utile, per chiarire il mio punto di vista su Malinowski, citare ancora l'introduzione agli Argonauti: "Nel lavoro effettivo sul campo la comparazione dei dati e il tentativo di metterli insieme riveleranno crepe e lacune nell'informazione che guideranno a nuove indagini. Per mia esperienza personale posso dire che molto spesso un problema mi sembrava risolto e ogni cosa ben ferma e chiara finché non cominciavo a buttar giù un breve abbozzo preliminare dei miei risultati. Solo allora mi accorgevo delle enormi deficienze, che mi indicavano dove vi erano nuovi problemi e mi guidavano ad un nuovo lavoro [...]. Questa fertilizzazione incrociata fra lavoro costruttivo e osservazione l'ho trovata preziosissima e penso che senza non avrei potuto compiere alcun reale progresso" (Malinowski 2004, op. cit., pp. 22-23). Riguardo al ruolo della teoria nella ricerca sul campo dice ancora Malinowski: "L'etnografo non deve solo tendere le sue trappole al posto giusto e aspettare quello che ci cadrà dentro. Deve essere anche un cacciatore attivo [...] guidato dai più moderni risultati dello studio scientifico [...]. Più problemi porterà con se sul terreno, più sarà disposto a plasmare le sue teorie in accordo con i fatti e a considerare i fatti come sostegno della teoria" (Malinowski 2004, op. cit., p. 18). Bisogna però ammettere che Malinowski non è sempre molto lineare nel descrivere il suo punto di vista metodologico: le sue esperienze personali di ricerca, il suo metodo pratico, contraddicono spesso la sua impostazione teorica. Così, nell'introduzione agli Argonauti, parlando del ruolo del ricercatore sul campo, afferma in sostanza il contrario di quanto sostenuto solo qualche pagina prima riferendosi alla sua esperienza personale: "Naturalmente egli può essere insieme un pensatore teorico e uno che lavora sul terreno, e in questo caso può trarre stimoli da se stesso, ma le due funzioni sono separate e nella ricerca effettiva devono essere separate sia come momenti sia come situazioni di lavoro" (Malinowski 2004, op. cit., p. 19). 43 Malighetti 2004, op. cit., p. 71. 44 Ibidem, p. 7. 45 Ibidem, p. 56. 46 Ibidem, p. 57. 47 Ibidem, p. 53. 48 Ibidem, p. 53. 49 Ibidem, p. 59. Intervista dell'autore a Marisete, 26 Febbraio 1996. 50 Foto gentilmente messa a disposizione da Roberto Malighetti. 51 Manifestazione che mette in scena la lotta tra due regni africani (Malighetti 2004, op. cit., nota 44, p.43). 52 Cassetta 1, 4'56"- 8'25". Le cassette 1 e 2 si riferiscono alla registrazione integrale della lezione finale del corso tenutasi il 16 Aprile 19 34 2004. Le indicazioni di tempo indicano l'inizio e la fine del brano citato nel testo. 53 Cfr. Malighetti 2004, op. cit., p.65. 54 Cfr. Ibidem, p.68. 55 Nonostante l'autore sia anche molto critico del tipo di analisi etnografica condotta da Geertz, dove, come abbiamo già evidenziato, e qui è ancora Malighetti a suggerirci le parole, "l'antropologo non è considerato un attore sociale che faccia parte della scena e gli interlocutori semplicemente sono assenti, o, al più, oggettivati in modo generico" (Malighetti 2004, op. cit., p.69-70). 56 Cfr. Geertz 1987, op. cit.; in particolare il primo capitolo: Verso una teoria interpretativa della cultura (nell'edizione originale inglese: Thick Description. Toward an Interpretative theory of Culture). 57 Durante l'esame che ho sostenuto con l'autore, l'ultima domanda del professore è stata la seguente: "Mi parli del rapporto tra il caso particolare e la teoria generale nel Quilombo". Non ricordo più bene cosa gli ho risposto, ma questa domanda ha continuato ad assillarmi per lungo tempo. 58 Malighetti 1991, op. cit., p.96. Cfr. Geertz 1987, op. cit., p.64. 59 Geertz 1987, op. cit., p. 64 60 Malighetti 2004, op. cit., p.43. 61 Ibidem, p.48. 62 Cfr. C. Geertz, Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna, 1988; in particolare il capitolo terzo: "Dal punto di vista dei nativi": sulla natura della comprensione antropologica. 63 Cassetta 2, 42'20"- 42'50". 64 Malighetti 2004, op. cit., p.137. 65 Ibidem, p.59. 66 "C'era tutto un capitolo, che è stato omesso, che era un capitolo divertentissimo dal mio punto di vista, sulla storia della trance, della possessione. C'era tutta la storia delle persone di Frechal che entravano in trance. Il mio problema era che quando ero con loro queste persone non cadevano mai in trance, ma appena andavo via un attimo, andavano in trance. I miei interlocutori allora mi dicevano: "Hai visto sei andato via e Mundica è andata in trance". Naturalmente cercavo di capire per loro cosa fosse la trance e se praticavano il tambor das minas [culto afro-brasiliano basato sulla possessione simile al candomblé di Bahia]. A Frechal non ne parlavano. Così ero arrivato a pensare che avessero un pensiero esoterico che non volevano rivelare. Se andavo da Mundica e le chiedevo di parlare del trance lei mi rispondeva dicendo che aveva vergogna a parlarne. Quando le chiedevo cosa facesse mentre era in trance, replicava di non saperlo appunto perché era in trance. Questa parte intendeva chiarire cosa volesse dire fare ricerca. Poi invece questo capitolo è stato omesso. Non c'era spazio. Bisogna fare delle scelte sempre dolorose" (Cassetta 2, 24'20"-28'35"). 67 Malighetti 2004, op. cit., p.42. 68 Ibidem, p.141. Intervista eseguita dall'autore il 31 Marzo 1996. 69 Fabietti, Malighetti, Matera 2000, p.154. 70 Cfr. Malighetti 2004, op. cit., pp.140-141. 71 Cfr. Ibidem, p.42. 72 Inácio: uno dei leader della comunità di Frechal e il principale informatore dell'autore. Foto gentilmente messa a disposizione da Roberto Malighetti. 73 Malighetti 2004, op. cit., p.140. 74 Bisogna però ricordare, per non essere fraintesi, che, come dice l'autore, "la fusione di orizzonti è [sempre] fatta da qualcuno, in questo caso dall'autorità dell'autore che ha autorizzato quella fusione. [...] Non è una fusione che accade nel mondo. Il meticciamento non è un processo naturale, è il prodotto artificiale di un autore che si è posto in quella prospettiva" (Cassetta 4, 36'20- 36'50"). 75 Avvocato dell'associazione SMDDH impegnato nella causa di Frechal contro il fazendeiro. 76 De Almeida Alfredo Wagner: antropologo brasiliano consulente della SMDDH e del PVN (Projecto Vida de Negro); autore di numerosi libri sui conflitti per la terra nello stato di Maranhão (vedi la biografia in Il Quilombo di Frechal). 77 Malighetti 2004, p. 204. Intervista eseguita dall'autore il 6 Maggio 1996. 78 Ibidem, pp.196-197. Intervista dell'autore a Hélio, 30 Maggio 1996. 79 Ibidem, p.198. Intervista dell'autore a Hélio, 24 Febbraio 1996. 80 Ibidem, p.198. Intervista dell'autore a Hélio, 30 Maggio 1996. 81 Ibidem, p.211. Intervista dell'autore a Inácio, 21 Aprile 1996. 82 Ibidem, pp.211-212. Intervista dell'autore a Inácio, 21 maggio 1996. 83 Ibidem, pp. p.216-217. Intervista dell'autore a Inácio, 21 Maggio 1996. 84 Cassetta 2, 21'26"-24'05". 85 Cassetta 3, 4'. La Cassetta 3 contiene 4 interviste eseguite il 16 Giugno 2004 ad alcuni compagni di corso. 86 Cassetta 3, 6'. 87 Cassetta 3, 12'. 35 88 Cassetta 4, 37'- 38'05". Geertz 1987, op. cit., p. 69. 90 Cfr. C. Lévi-Strauss, L'identità, Sellerio, Palermo, 1980 [1977], p.131. 91 Cfr. Malighetti 2004, pp.225-226. 92 Cassetta 2, 29'25"- 37'. Vedi anche Malighetti 2004, op. cit., pp. 206- 208. 93 M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, Torino, 1977, p.133. 94 Cassetta 4, -22'25"- 22'40". 95 Cassetta 2, 41'50"- 42'15". 96 Casetta 2, 47'10"- 50'40". 97 Cassetta 1, 19'40- 21'20". 98 Foto di Riccardo Teles, dal libro Terra de preto. 99 Cassetta 3, 44'20"- 47'05". 100 Cfr. U. Eco, Trattato di semiotica generale, Edizioni Bompiani, Milano, XII ed. 1991 [I ed. 1975], cap. 3.7. 101 Dal 19 Luglio al 19 Agosto 2004. 102 Ivo Fonseca Silva attualmente lavora per l'Associação das Comunidades Negras Rurais Quilombolas do Maranhão (ACONERUQMA). Associazione fondata nel 1997, successivamente al periodo di permanenza dell'autore a Frechal, in occasione del V Encontro de Comunidades Negras Rurais, Quilombolas e Terras de Preto do Maranhão. L'associazione ha sede in São Luís. 103 La partenza dell'autore, verso la fine del 1996, fu festeggiata (!) con una grande festa di tambor de crioula (danza realizzata in circolo esclusivamente dalle donne di fronte ai tamburi suonati dagli uomini che battono il tempo e cantano). In quella occasione fu anche celebrato l'ingresso dell'autore nella comunità come padrino di un nuovo membro del villaggio: Kindè (1995) figlio di Márcia e di Helio figlio di Inácio (Malighetti 2004, op. cit., p.18). 104 Nome di origine africana che significa abitante del quilombo (Malighetti 2004, op. cit., p.198). 105 Si ringrazia Roberto Malighetti per la disponibilità con cui ha assecondato questa strana esperienza di scrittura "etnografica". Inoltre tutti gli studenti della Specialistica di Antropologia Culturale che si sono sottoposti pazientemente alle mie assillanti domande sul Quilombo. 89 36 La coltivazione di papavero da oppio dilaga in Afghanistan di Elisa Giunchi Elisa Giunchi (tratto da: E. Giunchi, "Ridefinizione dell'identità nazionale e ricostruzione in Afghanistan", in C. Molteni, F. Montessoro, M. Torri, a cura di, Le risposte dell'Asia alla sfida americana, Bruno Mondadori, Milano, 2004). Nel 1999 l'Afghanistan era diventato il maggior produttore di oppio al mondo, superando il cosiddetto "triangolo d'oro" Thailandia, Birmania e Laos. L'anno successivo il mullah Omar aveva emesso un decreto che vietava la coltivazione del papavero, ma non il suo commercio. La produzione si era drasticamente ridotta, determinando l'aumento dei prezzi dell'oppio e dei suoi derivati sul mercato internazionale. Nell'autunno del 2001, approfittando dell'assenza di un'autorità centrale, in varie regioni del paese i contadini avevano ricominciato a seminare papavero da oppio. Nel gennaio successivo Karzai aveva vietato la produzione, la raffinazione, l'uso e l'esportazione di oppio, fornendo nel contempo incentivi ai contadini che distruggevano i propri raccolti. Ma dinnanzi al limitato controllo centrale sulle province e in mancanza di colture alternative altrettanto redditizie, il divieto di Karzai non ha avuto alcun effetto e la produzione di oppio è continuata ad aumentare. Già nel 2002 sono state prodotte 3.422 tonnellate di oppio. Nel 2003 il raccolto è cresciuto del 6%, arrivando a 3.968 tonnellate, vicino ai livelli record del 1999. A questi sviluppi hanno contribuito le condizioni climatiche, che hanno migliorato la produttività del terreno, e l'aumento della superficie coltivata a papavero da oppio, reso possibile dall'assenza di un controllo capillare del governo e di alternative economiche serie. Nel 2003, in effetti, la coltivazione di oppio si è estesa su 28 province rispetto alle 24 del 2002, passando da 30.750 ettari a 61.000. Un altro sviluppo preoccupante è rappresentato dal fatto che l'oppio afgano viene 37 sempre più spesso raffinato nel paese, tanto che, ormai, solo il 30% è esportato allo stato grezzo. Il valore delle esportazione di oppiacei, inclusi i loro derivati, è oggi di 2,3 miliardi dollari, una cifra equivalente al 50 % del Pil afgano. I contadini coinvolti nella produzione, circa il 7% della popolazione, ne ricavano introiti ben superiori al reddito medio. Ma i principali beneficiari del narcotraffico sono altri: signori della guerra, commercianti e trasportatori, militanti islamici. Le aree di Helmand, Kandahar e Nangarhar, tradizionalmente centri della coltivazione di papavero da oppio, sono controllate dai talibani, mentre la produzione di oppio nella provincia settentrionale di Badakhshan, che nel 2003 è diventata la terza provincia produttrice, è controllata dal partito estremista Hezb-i-Islami. Ed è proprio il legame tra estremismo e oppio che ha convinto Washington ad assumere nell'autunno del 2003 un ruolo più attivo nella lotta al narcotraffico, finora guidata dalla Gran Bretagna. Non è ancora nota la strategia che sarà seguita dagli Stati Uniti, ma è chiaro che la distruzione delle coltivazioni, qualora non sia parte di una strategia più vasta di collaborazione regionale e di incentivazione economica, rischia di essere poco efficace, se non addirittura controproducente. La questione dell'oppio afgano è complessa e presenta un dilemma di difficile soluzione: non vi può essere ricostruzione e sviluppo economico (e, quindi non è realistico pensare di poter offrire opportunità economiche alternative alla coltivazione dell'oppio) senza che sia ristabilita la sicurezza e senza che vi sia un governo centrale stabile; ma, in mancanza di opportunità economiche alternative, la coltivazione di oppio continuerà e, di conseguenza, rafforzerà i signori della guerra e gli estremisti, cioè coloro che hanno solo da guadagnare dall'attuale instabilità e frammentazione del potere. Alla confluenza di due oceani Sincretismi, ibridazioni e compresenze fra tradizioni indù e musulmane in India di Giulia Renata Maria Bellentani 1. Una cartolina dall'India, terra di scontro e d'incontro musulmani venne ad inserirsi una terza voce, quella della potenza coloniale perché questa sarebbe un'altra storia ancora da raccontare. La storia di come gli indù impararono a considerarsi sempre più indù, separati dai musulmani e i musulmani impararono a considerarsi sempre più musulmani, separati dagli indù; e i due gruppi non parlarono più l'industani, ma l'hindi e l'urdu, censiti come diversi nello stesso territorio. Questa sarebbe davvero un'altra storia da raccontare. Una storia tragica. Kolkata, West Bengal, fine Marzo 2003. E' il capodanno Sind. Un corteo di persone festanti si snoda lungo la strada. C'è "l'area delle danze", rigorosamente al maschile, ci sono gli immancabili portatori di lampade a gas sulla testa, ci sono carri con persone che offrono cibo; carri che portano immagini, credo, di santi musulmani; carri che portano generatori per illuminare altri carri. Conosco ben poco della storia e dell'iconografia di tradizione islamica perciò non riesco a comprendere quali siano le personalità omaggiate, ma non ho alcun dubbio sull'immagine trasportata per prima: è una divinità indù. E' Ganesh, è Ganapati, il dio dalla testa d'elefante, il figlio di Parvati, "colui che rimuove gli ostacoli", il "Signore della saggezza", ecc… ed è qui con la comunità Sind festante! Capisco il perché della sua presenza: il suo carro è bellissimo, con neon multicolori intermittenti, veramente degno di aprire il corteo. Perciò perché formalizzarsi e non farlo partecipare, stracarico di bimbi nei loro abiti più belli? D'altronde al Durga Puja insieme alle immagini di Durga viene portata in processione anche la Madonna cristiana, opportunamente adornata!1 2. Storia dell'India ANCHE islamica 2.1 L'arrivo dell'islam in terra indiana La tradizione vuole che l'Islam sia stato introdotto in India da un mercante dell'attuale Kerala, Cheramen Perumal, di ritorno dall'Arabia dove era stato convertito dal Profeta alle cui predicazioni aveva assistito. Cheramen Perumal sarebbe il fondatore della prima moschea indiana, situata nella cittadina di Cranganur, nei pressi di Cochin. Effettivamente la comunità musulmana del Kerala è la più antica dell'India; la sua origine risale molto prima dell'epoca delle conquiste musulmane e, soprattutto, occorre ricordare che queste non avvennero mai in questa zona meridionale dell'India. Questo ci dimostra che l'arrivo dell'Islam in India fu un processo che non avvenne solo con la forza militare, con lo scontro di culture narrato nei testi degli storici, ma fu anche un'ovvia conseguenza degli intensi scambi commerciali che l'India intesseva con le altre terre con viaggi di merci, uomini,ma anche di idee, pensieri, approcci.2 Anche il nord dell'India vide la penetrazione del pensiero islamico prima della sua definitiva conquista. Infatti l'islam cominciò a diffondersi sia nella vallata del Gange sia nel Gujarat nei decenni centrali del XI secolo, cioè in un periodo in cui né l'una né l'altra di queste regioni erano ancora passate sotto il controllo di stati retti da monarchi islamici. Qui la conversione fu opera dei mistici sufi, di cui parleremo più avanti. Il processo di conversione fu quindi indipendente dal processo di conquista. Questa è l'India di cui voglio parlare. L'India non è solo terra di fondamentalismi, di scontri tragici fra appartenenti alle varie tradizioni. Non c'è solo Ayodhya, simbolo estremo del fanatismo religioso e delle tragedie che questo comporta, anche se i nostri mezzi di comunicazione solo questo riportano. L'India è anche un luogo dove numerose tradizioni religiose coesistono, spesso influenzandosi reciprocamente non solo nella tradizione popolare di oggi ma anche nella storia di questo paese, che è caratterizzato non tanto da scontri quanto da coesistenze e ibridazioni. Voglio parlare non dell'India dei fondamentalismi, ma dell'India che sa essere sia indù che musulmana. Per questo cercherò nella sua storia i momenti in cui le due tradizioni religiose si sono incontrate, e non scontrate, dando anche talvolta origine a nuove espressioni di sentimento religioso. Perché il confronto con l'Altro non può risolversi solo in reciproca chiusura ma anche in dialogo, in ricerca di somiglianze e creazione del nuovo. Per quanto riguarda l'arrivo dell'islam in armi, le prime incursioni avvennero nel Sind, conquistato da Muhammad bin Qasim nel 711 - 712. Successivamente i governatori arabi del Sind, dopo aver ultimato la conquista della valle dell'Indo, avevano lanciato una serie di scorrerie e tentativi di invasione contro il resto dell'India, a cui i principi rajput3 si opposero con successo. Più difficile fu Scelgo di trascurare il periodo in cui nel dialogo fra indù e 38 fronteggiare le invasioni dei signori della guerra turchi che avevano Ghazni (Afganisthan) come capitale4. Questi riuscirono ad impossessarsi di Peshawar e delle zone circostanti e da qui, successivamente compirono una serie di incursioni che misero a ferro e fuoco una larga parte della vallata indo-gangetica, con l'obbiettivo non tanto della conquista quanto della razzia (soprattutto delle grandi ricchezze accumulate nei templi). Circa due secoli dopo questi avvenimenti ci fu un altro conquistatore turco - afgano che penetrò nella vallata gangetica: Muhammad, principe di Ghur, che pose le fondamenta di quello che sarà il primo regno musulmano in India, il Sultanato di Delhi. Muhammad Ghuri penetrò nella valle dell'Indo nel 1175, conquistandone uno dopo l'altro i principati arabo-islamici e da qui proseguì arrivando a conquistare rapidamente le immense distese della pianura gangetica. Con la sua morte, e con la morte del fratello, questi territori non fecero più parte del sultanato di Ghur ma vennero affidati ai generali di Muhammad e il più potente di questi nel 1206 assunse il titolo di sultano iniziando così la storia del sultanato di Delhi, anche se questa divenne la capitale solo col suo successore. Il periodo del sultanato di Delhi gettò le basi di una società islamica caratterizzata da una commistione di aspetti islamici e non islamici nell'ideologia dello stato e nella cultura popolare. Dopo la disgregazione del sultanato di Delhi e dopo un trentennio di guerre venne creato un nuovo stato imperiale musulmano: quello mughal, così chiamato perché il fondatore Sahir ud-Din Muhammad, detto Babur ("tigre"), di stirpe timuride vantava un'assai incerta parentela con Gengis Khan, il conquistatore mongolo. L'egemonia mughal durò circa duecento anni: dal 1526 fino alla conquista coloniale britannica. interna e le conversioni locali) fecero sì che fossero presenti tutte le varianti dell'islam: comunità religiose sunnite e comunità sciite, con un pluralismo di gruppi etnici e di movimenti, che si ispiravano alle concezioni degli ulama, dei sufi e dei riformatori. L'India mantenne sempre la sua caratteristica di presentare una coesistenza, talvolta sofferta e talvolta serena, di numerose tradizioni religiose. 2.2 Il buongoverno, fra indù e islam I governi musulmani nel subcontinente indiano si caratterizzarono da subito per l'attiva partecipazione di esponenti indù. Già il conquistatore arabo del Sind, Muhammad bin Qasim (sec. VIII) si rese conto che l'uso puro e semplice della forza era improponibile per governare una popolazione assai più numerosa per cui scelse la collaborazione con le precedenti classi dirigenti, stabilendo il modus operandi poi usato dal sultanato di Delhi e, successivamente, dal regno moghul. A tutte le popolazioni conquistate venne esteso lo status di dhimmi (cioè individui "protetti" in cambio del pagamento di una tassa pro capite) nonostante l'interpretazione letterale del Corano lo riservasse ai "popoli del libro", cioè ebrei e cristiani. 5 I conquistatori dovettero appoggiarsi ai brahmani, detentori del prestigio e delle conoscenze necessarie al governare, per creare un'amministrazione ordinata, efficiente e potente. Si stabilì così un rapporto d'interdipendenza fra l'élite brahmana e i regnanti islamici. L'ascesa al potere temporale di sovrani musulmani determinò una nuova situazione per cui l'islam divenne la religione della nuova classe dominante e convertirsi ad essa divenne per le classi agiate il passaporto per accedere ai vertici della società. Anche le classi più povere, in particolare dalit e tribali avevano una forte motivazione sociale per convertirsi all'islam: quella di sfuggire alla rigida classificazione indù che li vedeva come intoccabili fuori casta. Questo processo vede una progressiva islamizzazione della popolazione con l'espandersi dell'agricoltura. Ciò avvenne specialmente nel Punjab occidentale (al tempo del sultanato di Delhi) e nel Bengala orientale (con l'impero mughal) a seguito della colonizzazione interna promossa dai nuovi dominatori musulmani interessati ad ampliare gli insediamenti agricoli. Le popolazioni sedentarizzate vennero incoraggiate a convertirsi all'islam; incoraggiate, ma mai obbligate poiché la religione islamica non venne mai imposta con l'uso della violenza. La conversione all'islam si diffuse progressivamente con la creazione di stati retti da dinastie islamiche, ma ciò non portò mai alla completa conversione degli abitanti del subcontinente: sembra poco probabile che più del 20 - 25 per cento della popolazione sia mai divenuto musulmano. Inoltre le varie fonti da cui l'islam era giunto (le migrazioni dal Medio Oriente e dall'Asia 39 Gli indù furono coinvolti attivamente: nelle loro mani c'era l'amministrazione, i vertici dell'apparato fiscale e molte delle attività legate all'economia e al commercio, incluso il conio di nuove monete. L'influenza di questa elite era così forte che forse questo spiega il fatto che le monete coniate nel sultanato di Delhi, dal tempo di Muhammad fino al 1290, se presentavano da un lato la shahada (la dichiarazione dell'unicità di Dio) in caratteri arabi, dall'altro portavano impressi simboli religiosi indù quali la dea Lakshmi 6 o il toro Nandi 7. Obiettivo prioritario dei regnanti era il buon funzionamento dello Stato, piuttosto che la diffusione dell'islam. Già Balban (sultano di Delhi dal 1266 al 1287) ammetteva con cinico realismo che la realizzazione pratica di un governo basato sulla sharia non era più attuabile nel mondo contemporaneo; Alaud-din Khaliji (sultano dal 1296 al 1316) esplicitamente confermava: "Per quanto non abbia studiato la Scienza (religiosa) o il Libro (il Corano), sono un musulmano discendente da musulmani. Per prevenire la ribellione, nella quale a migliaia muoiono, io promulgo quegli ordini che ritengo buoni per lo stato e per il bene del popolo. Non so se ciò sia secondo la legge (islamica) o a essa contrario (ma) qualsiasi provvedimento io ritenga essere per il bene dello stato o adatto in un caso di emergenza, quello io decreto." 8 Dovere, e scopo, del monarca era guardare soltanto al bene pubblico. L'adattamento fra la nobiltà sultaniale e gli strati privilegiati della società indù (mercanti, finanzieri e aristocrazia rurale) fece sì che essa, pur continuando a sentirsi parte integrante dell'umma (comunità) musulmana si indianizzasse sempre di più dal punto di vista culturale.9 Ci furono così un numero crescente di traduzioni in lingua persiana di opere sanscrite, trattati in persiano sulle espressioni artistiche indiane e una produzione poetica che esaltava questa terra e i suoi abitanti. Sultani musulmani come Muhammad bin Tughlak presero l'abitudine di osservare festività indù, di intrattenersi con yogi indù e di onorare gli asceti jaina. Fino ad arrivare al tentativo d'un colto principe moghul10 di trovare la completa identità fra sufismo islamico e vedanta indù. Questo processo di adattamento e riconoscimento dell'Altro fu tutt'altro che fluido e uniforme, presentò una serie di contraddizioni clamorose ma diede anche vita a interessanti sperimentazioni di convivenza e incontro. 3. Gli ingredienti della religiosità nel subcontinente In India si incontrarono quindi induismo e islam: una tradizione religiosa antichissima ricca di innumerevoli variazioni e un credo assai recente ma non per questo privo di una pluralità di atteggiamenti. 3.1 Cenni sull'induismo ( e non solo) Induismo è un insieme di religioni così variegato e complesso che è più corretto parlare di tradizione indù11, all'interno della quale si possono inserire anche buddismo e jainismo, considerate dai non indù come religioni autonome, ma viste dagli indù come varianti più o meno eterodosse della tradizione. 3.1.1 All'origine: i Veda All'origine vi sono i Veda, composti probabilmente intorno al 1500 - 800, per la tradizione sono molto più antichi e privi di autore: non composti dagli uomini e neppure dettati da un Dio, ma visti dai veggenti. I Veda contengono inni dedicati a numerose divinità, canti liturgici per la celebrazione dei sacrifici, descrizioni della magnificenza delle divinità, formule magiche, incantesimi, preghiere con richieste di beni e felicità. In essi viene anche presentata una prima riflessione sull'origine e composizione del mondo, da cui si evince una concezione estremamente stratificata della società che pone ai vertici del prestigio la classe sacerdotale bramana. 3.1.2 I Vedanta, "fine dei Veda" e inizio della riflessione monistica. Il pensiero di Shankara. Nel corso della seconda metà del primo millennio a. C. la crescente insoddisfazione nei confronti di una ritualità vedica sempre più complessa e i cambiamenti sociali dovuti all'emergere di una nuova classe mercantile portarono alla nascita di nuove correnti di pensiero. La tradizione vedica, vissuta ormai come ovvia e limitata venne rinnovata con nuovi testi e commentari e nacquero anche nuove forme di pensiero eterodosso che da essa si discostavano (o addirittura la rifiutavano), quali il buddismo 12 e il jainismo 13. A questo movimento di rinnovamento appartengono i Vedanta 14 , ovvero "fine dei Veda": reinterpretazione delle loro verità universali e ultimo dei commenti considerati come scritture rivelate dagli indù ortodossi Nei Vedanta viene enunciato il "grande segreto" dell'identità tra anima universale (brahman) e anima individuale (atman) per cui tutti gli esseri e tutte le cose sono compartecipi dell'anima cosmica15 , da essa hanno origine e a essa faranno ritorno. Oltre al pensiero monistico le Upanishad apportarono l'idea del distacco dal mondo, la concezione ciclica della vita, l'attenzione dedicata alla contemplazione attraverso particolari tecniche di meditazione e molti secoli dopo furono alla base del pensiero di uno dei più importanti filosofi indù: Shankara (788-820), massimo esponente della scuola Vedanta (o Advaita: "senza un secondo") che per il suo monismo sarà una delle principali interlocutrici della tradizione islamica16.) Shankara, brahmano del Kerala, diede un contributo fondamentale alla sistematizzazione filosofica dell'induismo: tramite integrazione, selezione e sintesi delle tradizioni preesistenti elaborò un sistema filosofico omogeneo di grande raffinatezza, dando giustificazione intellettuale alle varie forme di religiosità popolare inglobate nella tradizione brahmanica. Rifacendosi alle Upanishad, Shankara afferma che esiste un'unica realtà, il Brahman, e ogni manifestazione di pluralità è un'illusione. La pluralità degli esseri viventi è avvertita come realtà a sé stante e l'anima individuale è vista come differente dall'anima universale solo a causa di una scorretta percezione. Questa illusione di dualità lega l'anima individuale al ciclo senza fine di morte e rinascite e va superata attraverso la corretta percezione, attraverso la conoscenza. Sono possibili due vie per arrivare all'unione con l'Assoluto. La prima è quella del superamento dell'illusione e della completa identificazione nel Brahman. La seconda, per chi non ha grandi doti intellettuali, è quella della religiosità popolare: la devozione ed unione con la divinità Brahma, che, come ogni manifestazione di pluralità, è illusione ma che attraverso essa permette il raggiungimento dell'Assoluto di cui anche Brahma è parte. 3.1.3 Il brahamanesimo "classico" A partire dal V sec. a C, come si è detto, vi fu una crescente insoddisfazione nei confronti della religione vedica e la fondazione di due nuovi pensieri spirituali: jainismo e buddismo, che si diffusero rapidamente in tutta l'India, evolvendosi e modificandosi. Dopo circa un millennio la tradizione dei Veda, preservata dai 40 bramani, ritornò ad essere la religione principale, seppur profondamente modificata. I numerosi dei vedici quasi scomparvero, relegati a ruolo di secondo piano rispetto a nuove divinità legate a culti locali. Fra i nuovi dei assunsero primaria importanza Brahma (il dio creatore), Vishnu (il dio conservatore) e Shiva (associato al preesistente culto fallico della fertilità e considerato il distruttore). Si formò una tradizione religiosa secondo cui Vishnu e Shiva17 discendevano periodicamente su questa terra, sotto varie forme col fine di ristabilire l'ordine e di eliminare il male (lo stesso Buddha venne cosiderato manifestazione di Vishnu.) Vennero riproposti i concetti presenti nelle Upanishad di brahman e di incarnazione. Vi furono anche derivazioni dal pensiero buddista e jaina: il concetto di "non violenza" dei jaina e l'importanza data al retto comportamento morale con l'introduzione della necessità di una via etica per congiungersi al brahman18. Permaneva però la subordinazione alla classe sacerdotale brahmanica; il processo di rinnovamento infatti non coinvolse la suddivisione sociale, confermata se non ulteriormente irrigidita. Una caratteristica fortemente innovatrice del tantrismo, forse derivata da preesistenti culti autoctoni, era l'enfasi data alla forma femminile della divinità, che ebbe come conseguenza l'emergere della Devi (la Dea) e la comparsa accanto alle divinità maschile di dee dotate di grandi poteri (sia in ambito indù20 che buddista21). Anche il tantrismo si proponeva come via per il conseguimento della liberazione attraverso il superamento della dualità per il raggiungimento dell'Unione, ma questa non era necessariamente solo metaforica. 3.1.4 La via dello Yoga Il termine bhakti significa "devozione", "venerazione" e a sua volta deriva da bhaj che, in contesto religioso, vale per adorazione amorosa o devozione, ma ha anche il valore di "condividere, prendere parte, godere". Implica quindi devozione verso una singola divinità ma anche magica associazione fra sacrificante e divinità, reciproca partecipazione.. Dando l'accento alla mistica unione col divino in un rapporto personale d'amore il movimento bhakti rende inutile l'intermediazione rituale del bramino22 e introduce l'uso dell'icona come livello di congiunzione tra fedele e il suo dio 23 . 3.1.6 Solo amore e devozione: la bhakti Nel medioevo indiano nacque e si diffuse un'altra corrente indù: la bhakti, dottrina della liberazione attraverso la fede, in esplicita opposizione alla dottrina vedica della liberazione attraverso le opere o la conoscenza. Libera dalle raffinate speculazioni filosofiche di Shankara e non interessata all'esoterismo dei Tantra, presentava un solo scopo: amare, amare profondamente il Divino, perdendosi in questo amore, smarrendo il proprio io per giungere all'Assoluto. All'interno dell'induismo, ma basata sui culti preesistenti, è la pratica dello yoga, che si vuole fondata da Shiva, chiamato anche il Grande Yogi. Il termine yoga significa "atto di aggiogare ad un altro": aggiogare mente e corpo al fine di ottenere una perfetta unità al di là dei limiti del pensiero e del linguaggio. Solo in un secondo tempo questa unione sarà intesa anche come unione col Divino. Durante il suo sviluppo lo yoga si servì di diversi strumenti per raggiungere i propri scopi: dagli incantesimi all'osservanza di doveri religiosi e condotte morali fino alle pratiche di ascetismo. In particolare ricordiamo le tecniche per il controllo del corpo e del respiro; la ripetizione di formule magiche e il completo assorbimento di sé nella contemplazione di un oggetto. Sotto il termine induismo convivono quindi una pluralità di sentimenti religiosi, articolati e complessi, che hanno conosciuto infinite variazioni e rielaborazioni nel corso dei millenni. In particolare le teorie del vedanta e del tantra, nonché le tradizioni popolari della bhakti, seppero dare vita a fedi in un'Unica Realtà Assoluta le quali si intrecciarono col lato più mistico dell'islam, il sufismo, accomunate dalla ricerca dell'unione con l'Assoluto rimanendo nell'esistenza. 3.1.5 La venerazione della Devi: il pensiero tantrico Altro grande periodo di rinnovamento del pensiero religioso fu il medioevo indiano (intorno al VII sec.) con la speculazione filosofica di Shankara e la diffusione di nuove correnti che proponevano metodiche di avvicinamento al divino senza l'intermediazione brahmanica. In quest'epoca si diffuse il tantrismo19 che si declinò sia in forma indù che in forma buddista (soprattutto in Tibet). Caratterizzato da un forte esoterismo, il tantrismo prevedeva l'utilizzo di riti magici e di incantesimi che, attraverso il controllo del corpo e dell'universo fisico, permettono di ottenere la liberazione dalla realtà materiale e l' interruzione del ciclo di morte e rinascita. Data la forte componente esoterica era una pratica riservata ai soli iniziati, di non importa che casta o genere, a cui veniva anche prescritta l'infrazione delle regole morali dell'epoca. 3. 2 Cenni sull'islam (soprattutto sul sufismo) 3.2.1 L'islam Col termine islam si definisce sia la religione islamica sia la comunità dei fedeli che la professano. La parola deriva dalla radice slm che significa "essere incolume", "essere sicuro" e più specificatamente "affidare", "rimettere qualcosa al giudizio di qualcuno" ed esprime una "concreta e attiva sottomissione alla volontà di Dio".24 Il termine muslim, che solo in un secondo tempo designò gli appartenenti all'islam, significa essenzialmente "monoteista" e pone così l'accento sull'aspetto fondamentale di questa dottrina 41 religiosa. Il punto centrale della dottrina islamica è espresso nella dichiarazione di fede islamica (la shahada, "testimonianza") che recita: "non c'è altro dio all'infuori di Dio e Muhammad è il suo profeta". L'islam è quindi una religione fortemente monoteistica annunciata sulla terra da un profeta, Muhammad, che si poneva come ultimo in una tradizione cominciata con Adamo e continuata coi profeti della tradizione ebraica. Muhammad ibn Abdullah (570 - 632 d. C.) 25 all'età di quarant'anni ricevette la prima rivelazione divina per bocca di Gabriele. La rivelazione continuò negli anni successivi. Le parole di Dio recitate da Muhammad ai fedeli, espresse in versetti articolati in sura, vennero da questi raccolte e trascritte dopo la morte del profeta, dando origine al Sacro Corano26. Il Corano raccoglie quindi la parola stessa di Dio, da Lui trasmessa attraverso l'angelo Gabriele27 al Profeta affinché questi la rendesse nota agli uomini. Il messaggio è rivolto ad ogni essere umano perché ogni essere umano è uguale agli occhi di Dio. Questa eguaglianza viene ribadita dal Profeta nel suo testamento spirituale, il Discorso d'Addio dove afferma: "tutti voi discendete da Adamo, e Adamo era fatto d'argilla. Non c'è superiorità di un arabo su un non arabo, né di un non arabo su di un arabo, né vi è quella di un bianco su di un negro, né quella di un negro su di un bianco, se non la superiorità guadagnata attraverso la consapevolezza di Dio. In verità, il più nobile fra di voi è colui che è più profondamente consapevole di Dio." 28 Ma vengono stabilite anche delle disuguaglianze: tra musulmano e dhimmi; tra ricchi e poveri, tra padrone e schiavo e tra maschio e femmina. Fondamentale è il rispetto delle virtù raccomandate: moderazione, equilibrio, timore di Dio, rispetto per la conoscenza, clemenza, protezione dei deboli, decoro personale, e l'adempimento dei propri doveri verso Dio, verso la comunità e verso la società in genere. Centrale è il concetto di dovere. Ad esempio, la preghiera è intesa come adempimento di una precisa volontà divina, rispetto del contratto che l'uomo ha con Dio e non come momento di avvicinamento del credente alla divinità. conservata nel cuore del Profeta e trasmessa solo ad alcune persone scelte. La prima conoscenza è presente nell'insegnamento dottrinale degli ulama mentre la seconda, strettamente esoterica, è il mistico percorso sufi che rappresenta quindi la dimensione interiore ed esoterica dell'Islam Il sufismo si sviluppò attraverso diverse fasi. I primi sufi erano musulmani ortodossi nel loro credo e nelle loro pratiche: non avevano ancora iniziato le speculazioni metafisiche e teologiche ed erano caratterizzati solamente dall'intenso timore di Dio e del suo giudizio e dalla rinunzia ai piaceri del mondo. Rinuncia e povertà erano però viste non come meritorie in sé, ma come espressione della devozione verso Dio. Importante era infatti non tanto l'assenza di beni, e quindi la mortificazione (che non è mai richiesta dall'islam), quanto il completo superamento del loro desiderio perché l'unico vero appagamento viene dalla devozione a Dio. In un secondo periodo i sufi, pur non abbandonando il loro ideale ascetico, centrarono sempre di più la propria attenzione sulla gnosi. In questo cambiamento giocarono un ruolo gli influssi del neo-platonismo, gli insegnamenti parsi, indiani e buddisti ed anche il misticismo speculativo cristiano. Il criterio discriminante è stato quello di accogliere nella propria tradizione quegli aspetti che fossero di supporto al concetto fondamentale dell'unicità dell'esserci. E' caratteristica del sufismo la costante tendenza di tentare la riconciliazione dell'islam ufficiale con pratiche e tendenze di origine non musulmana, come ben vedremo nelle vicende indiane di epoca moghul. L'approccio al divino dei maestri sufi era basato sull'esperienza diretta di Dio da parte del singolo, in un rapporto estatico che veniva descritto come un totale rapporto d'amore del fedele nei confronti dell'Assoluto. La realizzazione di questo rapporto era perseguita anche attraverso l'utilizzo di tecniche particolari, fra cui il controllo del respiro e l'invocazione dei nomi di Dio, basata sull'utilizzo di parole o sillabe che venivano affidate dai maestri ai discepoli. 3.2.2 La tradizione sufi Come abbiamo visto, l'Islam era già presente in India all'inizio del VIII sec., ma si diffuse in particolare nel periodo XII - XIII sec, proprio con la predicazione dei maestri sufi che non solo si era inserita nel sentimento religioso popolare della bhakti, ma godeva anche di una particolare predilezione da parte dei regnanti musulmani. Questi infatti si trovavano a dover dare coesione culturale e ideologica ad un vasto territorio con una cultura originaria profondamente diversa. Tentarono quindi di attenuare le rivalità fra le fazioni, consolidare l'unione tra i musulmani e integrare gli indù al potere. Per fare ciò l'ideale era appoggiarsi alle confraternite sufi perché erano ben integrate nella mentalità dell'epoca e avevano una concezione gerarchica del potere. Nel subcontinente indiano furono così presenti numerose confraternite sufi e vennero fondate anche diverse loro sedi, chiamate khanqa, comprendenti oltre alle sale per le riunioni e per l'audizione mistica, anche cucina29, celle per il ritiro dei residenti 3.2.3 Confraternite sufi in India Ci interessa in particolare la tradizione sufi poichè ebbe un ruolo di primo piano nell'islamizzazione dell'India e, contemporaneamente, dall'altro venne da questa influenzata. Secondo alcuni il termine sufi è derivato dall'arabo safa, "purezza"; secondo altri da suf, lana poiché nei primi tempi gli asceti indossavano vesti di lana come simbolo della volontaria povertà. Ma c'è anche chi sostiene che questo termine è troppo sublime per essere derivato da alcunché: esso ha valore per la sua pregnanza acustica, è una sillaba sacra. Questo vocabolo iniziò ad essere usato intorno al 815 d. C., ma ciò a cui si riferisce, l'esoterismo islamico, era già presente alla morte del Profeta. Il sufi ritiene che Muhammad ricevette due rivelazioni: una, contenuta nel Corano, è accessibile a tutti; l'altra, invece, venne 42 e alloggi per gli ospiti, nonché, a volte, la tomba del maestro. Costruite spesso ai margini delle città, le khanqa fungevano da centri di accoglienza per pellegrini di tutte le religioni. divino con tecniche mistiche e, possedendo poteri sovrannaturali, aiutano fedeli e anche sovrani nei problemi del mondo. A livello di credenza popolare c'è corrispondenza fra le devozioni che si effettuano sulle tombe dei santi ed i culti indù31. L'ordine che ebbe sempre maggior importanza in India fu la Cishtiya, fondata da un maestro sufi proveniente da Samarcanda: Mu'in - ud - Din Chisti (1141 - 1236) che, dopo molti anni di studio e peregrinazioni, si era stabilito in India, ad Agmir, dove si era sposato ed aveva fondato la sua khanqa. L'ordine, attivo ancora oggi, è improntato ad ampia tolleranza, non violenza e carità. " Spesso le analogia fra le concezioni, le tecniche e il modo di vita dei sufi rispetto a quelle dei locali sant'uomini bhakta erano così forti che i maestri sufi furono in grado di portare avanti il loro apostolato in India senza essere percepiti dal popolo comune come diversi dai maestro bhakta.32" Particolarmente attivi in ambito politico furono la Suhrawardiya e la Naqshbandiya. La Suhrawardiyya, fondata da 'Abu al-Qahin AbuNagib alSuhrawardi (morto nel 1168) e diffusa in India ad opera del nipote, ammetteva più degli altri ordini il coinvolgimento del fedele nella vita sociale e politica. Alla Naqshbandiya.faceva riferimento uno dei più noti pensatori sufi indiani: Shah Wali Ullah, esponente della corrente opposta a quella che andiamo ad analizzare. Scopo di Shah Wali Ullah era epurare il misticismo islamico di tutte le influenze esterne e trassformarlo in una concezione teo-politica per la supremazia dell'islam e il potere sunnita. Diffuse particolarmente fra i ceti alti legandosi alle elite locali era la Sattariya, fondata da 'Abd Allah Sattari (morto nel 1485), giunto in India dall'Iran. Fra gli ordini che, invece, rifiutavano la vita mondana ed erravano per il paese ricordiamo la Malamatiyya e la Qalandariyya. I Malamati, "quelli del biasimo" facevano voto di povertà non accettando neppure l'elemosina ed erano contro le manifestazioni esteriori della fede (in un certo senso anche contro i sufi secondo il concetto per cui è vanagloria palesare anche la santità). La Qalandariyya deriva il nome da qalandar: "vagabondo che si attira il biasimo con una condotta scandalosa e libertina". Sono considerati una discendenza dalla Malamatiya, oggi sono riassorbiti dalla Cishtiyya e spesso ricordati nei testi di musica qawwali. 3.3 Cenni, discorsi e conversioni fra sufi e indù Gli insegnamenti sufi ben si armonizzavano con la dottrina indù della bhakti poiché identificano in Dio l'oggetto dell'amore dell'asceta. Inoltre, questa non è la sola analogia riscontrabile fra le due dottrine e le figure ad esse collegate. La concezione sufi di Dio è simile a quella indù di brahaman.30 . La relazione fra il murid (discepolo) col suo pir (precettore spirituale) presenta strette similitudini con la devozione del discepolo verso il proprio guru: così come nessuno può diventare sufi senza l'aiuto di un pir, allo stesso modo fra gli indù chi desidera intraprendere un cammino spirituale deve in prima istanza cercare il proprio guru. Il sufi e il rinunciante indù, lo yogi distaccato dal mondo dotato di poteri magici, hanno lo stesso ruolo: ambedue hanno accesso al E così Muin-ud-din Chisti non solo riuscì a convertire il raja locale, Ram Deo, con la sua predicazione ma la tradizione racconta anche che, coinvolto in una sfida dialettica col bhakti yogi shaiva Jaipal33, riuscì a convertire Jaipal stesso, che grande reputazione di santità. Uno dei discepoli di Muin-ud-din Chisti, Farid-ud-din Gan-i Shakr34, stabilitosi in un piccolo villaggio del Punjab per condurre in perfetto isolamento la vita da santo eremita, venne dapprima venerato dagli abitanti indù del villaggio che poi presero l'abitudine di andare da lui per consiglio e successivamente la sua fama si estese e attorno a lui si raccolse un cerchia di discepoli che lo appellarono Baba Farid. Baba Nur ad-Din (1377-1438) fu addirittura soprannominato rishi, "veggente"35 , ma anche "colui che fa vedere" perché è l'ideale per tramite del quale gli altri uomini possono godere di uno sviluppo spirituale. Ricevette questo epiteto riservato ai più grandi sant'uomini indù grazie all'aderenza del suo credo e della sua regola di vita ai canoni dei sadhu e dei rishi indù. I suoi seguaci diedero vita alla Rishiyyah, confraternita sufi ancora oggi presente in Kashmir, che porta quindi un nome di origine vediche. Finora abbiamo parlato di sufi, ma bisogna ricordare anche il caso analogo dei dai, missionari appartenenti alla setta eterodossa e minoritaria degli ismaeliti (o sciiti settimani) che operarono soprattutto in Gujarat convertendo anche interi gruppi castali. Secondo un'antica tradizione il primo dai, il mulla Muhamad Ali, giunto in India via mare, era divenuto discepolo di un santo bhakta locale che aveva grande seguito in zona. Muhammad Ali giunse quindi a convertire all'islàm sia il suo maestro sia molti dei suoi discepoli, nonché alcuni membri della locale corte raj'put. 4. Monoteismi indiani in salsa mistica Nella terra del politeismo indù vi furono anche sentimenti religiosi monoteisti: il pensiero vedanta, il movimento bhakti e il misticismo islamico sufi. Questi si intrecciarono e si confusero tanto che c'erano discepoli bhakta con maestri sufi, discepoli sufi con maestri bhakta e discepoli che non avevano ben chiaro a quale corrente appartenesse il proprio maestro. Nel Nord dell'India l'influsso della predicazione bhakti e di quella sufi, unito all'insofferenza per la rigidità dell'induismo classico e alla sua inderogabile suddivisione gerarchica, originò a partire dal 43 XI sec. anche due nuovi percorsi per avvicinarsi al divino: il Nath panth e il Sat mat, di cui Kabir e Guru Nanak sono considerati esponenti . 4.1 Nath panth. Sviluppatosi nel XI-XII sec. e ancora oggi praticato, il Nath panth, fa risalire i propri insegnamenti al dio Shiva in persona (viene infatti chiamato Adi-nath, "primo maestro") e le proprie origini al leggendario Gorakhnath, considerato il più grande dei nove maestri nath che, secondo la leggenda, raggiunsero l'immortalità e si ritirarono sull'Himalaya. Questa credenza, assieme all'utilizzo di pratiche esoteriche volte a conseguire poteri magici, evidenzia il forte influsso del buddismo tantrico a cui si accompagna il monoteismo di derivazione bhakti. Il nath panth era incentrato sul culto di Shiva e ricercava il dominio del mondo sensoriale per poter giungere attraverso di esso alla liberazione. Rifiutava tutte le regole formali dell'induismo, quali le divisioni catastali, i pellegrinaggi ai luoghi santi, i riti, le visite ai templi, ecc… e si apriva al sufismo tanto da intrecciarsi ad esso sostenendo che Muhammad era stato discepolo di Gorakhnath, e che alcuni profeti nominati nel Corano non erano altro che maestri nath. La sostanziale analogia dei due insegnamenti fece sì che ci furono non solo prestiti di termini e di metafore simboliche fra le due fedi, ma anche conversioni di maestri nath al sufismo e di mistici musulmani al nath panth. 4.2 Sant Mat Accanto al Nath panth si sviluppa un'altra corrente mistica: il Sant Mat. Caratterizzata da un forte monoteismo, a differenza dei nath (che veneravano Shiva) o dei bhakta (che facevano oggetto della propria devozione uno dei molteplici avatar di Visnu e praticavano anche il culto degli idoli) prescriveva ai seguaci di riservare il proprio amore devozionale all'Essere assoluto e inconoscibile, senza attributi, privo di forma, omnipervadente e presente nell'intimo di ogni uomo, non pensabile in forma umana e identificabile con la Verità (Sat). A volte i fedeli, polemicamente, usavano contemporaneamente il nome di Allah Ram e Hari ma consideravano appropriati per identificare il Dio termini come Nam (nome) Shabd (parola) e Ek (uno). Nel Sant Mat la meditazione assume il ruolo centrale: col progressivo ritirarsi dalle percezioni sensoriali è possibile "morire vivendo", cioè iniziare il cammino mistico verso la Divinità; ma l'aiuto di un maestro è indispensabile per il corretto uso di queste tecniche. Anche nel Sant Mat c'era il rifiuto della divisione catastale 4.2.1 Kabir Fra i principali maestri del Sant Mat vi è Kabir36, che ebbe anche una grande familiarità con le tecniche yogiche del Nath panth. Egli apparteneva ad un umile casta di tessitori recentemente convertitesi all'islam residenti nella zona di Varanasi, la città santa degli indù. La sua personalità emerge di volta in volta come quella di un sufi e di bramino, di un paria e di un vaishnavita 37 , mentre la sua speculazione filosofica assume gli atteggiamenti più disparati con verosimile disinvoltura 38 . Egli si considera "il rampollo di Rama e di Allah" implicando così che il Brahman, il Non-Essere omipervadente, può avere più di un nome pur restando Uno; così chiama il Divino con una sequela interminabile di nomi: Allah, Rama, Shunya (Vuoto), la mistica sillaba Aum rappresentante la realtà suprema, Jagannath (Vishnu), Kartara (il Creatore), Rahim (il Compassionevole) e con tutti gli appellativi di Krishna39 quali Govinda, Gopinath, Madhava, Murari, ecc… Kabir talvolta personifica il Dio che il Sant Mat vorrebbe senza attributi, facendone un'Entità a cui ci si può rivolgere come Padre o come Madre o, meglio, come Sposo Amatissimo 40; Dio diviene pertanto il Supremo Oggetto d'amore, secondo la pura tradizione sufica. A minare questo amore c'è maya, "illusione", la tentatrice, l'ammaliante cortigiana che torna e torna ancora a sedurre il devoto, la liana che si avviticchia all'albero e vive della sua linfa, il pesante tendaggio che impedisce di vedere il sole. La personificazione emblematica della maya è direttamente derivante dal Satana sufico, il Demonio che rappresenta le buie forze del male e che ostruisce la via della fede. Ma una volta debellata maya appare ciò che è in realtà: una semplice manifestazione limitata dell'Illimitato, come espresso nel vedanta. Visto come tentativo di fusione di tradizioni indù e musulmane, il percorso di Kabir fu qualcosa di più: fu la ricerca di superamento delle religioni esistenti e dei loro testi, incapaci di avvicinare il fedele a Dio. Kabir combatté tutta la vita contro la strumentalizzazione di ogni tipo di religione, impartì i propri insegnamenti a indù e musulmani senza distinzione e non diede mai vita ad una vera e propria setta. Ma dopo la sua morte, raccolti i suoi insegnamenti in forma scritta, crebbe intorno alla sua figura una setta dalle regole rigide ed anche ossessive. 4.2.2 Guru Nanak Esponente del Sant Mat e fortemente influenzato dalla predicazione di Kabir, Guru Nanak (1469-1539) fu anche il fondatore della religione sikh. Di casta alta, proveniva da un gruppo sociale privilegiato e ricevette una solida istruzione frequentando nel suo villaggio sia gli insegnamenti del pandit41 sia, forse, quelli del mulla 42 allo scopo di apprendere il persiano. Nanak avrebbe mostrato fin dalla fanciullezza una spiccata inclinazione alla vita meditativa andando continuamente in cerca della compagnia di sadhu indù e di faqir musulmani. Ma la sua predicazione mostra non tanto un tentativo di sintesi delle due tradizioni, quanto un atteggiamento antitetico ad ambedue, ritenute incapaci, coi loro formalismi e superstizioni, di 44 avvicinare il fedele a Dio. Fortemente in rottura con le due tradizioni è l'usanza del langar, la cucina pubblica per il pasto serale che vedeva riunita tutta la comunità, senza differenze né di casta né di genere; infrangendo così sia le inflessibili proibizioni indù riguardo la consumazione e preparazione del cibo, sia l'isolamento delle donne proprio della tradizione musulmana. Nanak, come Kabir predicò sia a indù che a musulmani43 insegnando le tecniche della meditazione come via principale per arrivare all'unione col Dio ineffabile già in questa vita ma, a differenza del mistico di Varanasi, pose le basi per una vera religione istituzionalizzata quando designò il proprio successore alla guida della comunità religiosa. L'insegnamento di Guru Nanak si trasformò nelle generazioni successive in una religione istituzionalizzata, attenta ai segni esteriori di appartenenza, e dopo due secoli pure militarizzata. I guru sikh divennero non solo guide spirituali di una comunità religiosa, ma anche capi temporali di uno stato e spesso si scontrarono coi regnanti musulmani. Ma nel Guru Granth Sahib, Libro sacro dei sikh e loro autorità religiosa sono contenuti oltre agli insegnamenti di Guru Nanak, raccolti in forma scritta dai suoi discepoli, degli altri Guru e brani di mistici indù nonché di Kabir, anche versi di un mistico musulmano, Sheikh Farid. Nel sacro testo sikh viene affermata l'unicità di Dio 44 , che è anam, "senza nome", perché sono infiniti i nomi con cui gli uomini si sono rivolti a lui; nomi che lo stesso Nanak talvolta usa benché preferisca chiamarlo Nam, "nome", o anche Sat-nam, "vero nome". Obbiettivo del fedele è immergersi totalmente nella natura di Dio, sconfiggendo l'ignoranza con l'aiuto del Guru 45. Occorre liberarsi dall'egoismo. Nel percorso sikh non è contemplata la rinuncia al mondo e alle sue leggi, non viene indicato di cercare nella solitudine la via maestra per la salvezza, come invece era pratica degli asceti indù e talvolta sufi. Infatti il compito del credente sikh è quello di imparare a rimanere puro pur vivendo fra le impurità del mondo. 5. Moghul masala L'impero Moghul fu caratterizzato, come già il Sultanato di Delhi, da un'attiva partecipazione degli intellettuali indù alla corte islamica, non solo per quanto riguarda la complessa amministrazione dell'impero ma anche nel campo intellettuale e artistico. Questa pluralità di tradizioni di pensiero ed espressione, a cui si aggiunsero anche influssi europei, creò un particolare "masala", miscela 46 in cui erano presenti sia la tradizione sufi (si trattava di un impero islamico) declinata nelle sue più diverse forme, sia quella autoctona indiana, in particolare nelle sue espressioni monoteiste del vedanta e delle pratiche mistico-esoteriche dello yoga, soprattutto di origine nath e tantra. L'unione delle varie tradizioni è evidente nelle espressioni figurative, dove i canoni delle ritrattistica indù si fondono con la decorazione islamica, e nelle espressioni poetiche di cui 45 ricordiamo il Padmavat di Malik Muhammad Jayasi dove racconti locali di resistenza all'espansione musulmana divengono anche una rappresentazione del percorso mistico sufi nonché yogi. Da questo clima di commistione e di ricerca sincretica non ne è esente la famiglia imperiale: il più grande imperatore Moghul si propone come maestro sufi della "pace universale" e, più tardi, il giovane principe Dara Shikoh ritiene che le differenze fra Corano e Vedanta siano solo a livello linguistico. 5.1 Akbar. Il tentativo di una religione universale per un grande impero. All'interno di un discorso sul sincretismo religioso, merita un'attenzione particolare il secondo imperatore moghul, Akbar47 , che con le sue brillanti campagne militari e con lo splendore della sua corte fu il vero creatore della potenza moghul. Fin dall'inizio accolse nel suo seguito sia indù che musulmani, infatti la sua prima azione politica fu il matrimonio, nel 1561, con una principessa raj'put, figlia del raja Bihara Mahal di Amber (Jaipur) il quale chiedeva protezione offrendo in moglie la propria figlia (presso i raj'put questo comportava un rapporto d'alleanza in cui il padre della sposa aveva una posizione subordinata nei confronti del proprio genero). I familiari della sposa vennero ad assumere degli importanti ruoli a corte. Fu consuetudine di Akbar accettare la sottomissione dei vari principi e capi militari indiani ammettendoli a fare parte della nobiltà moghul. Questa non era una novità: sempre negli imperi musulmani in India erano presenti a corte anche indù e parsi, ma la loro accettazione non era mai stata così sistematica e frequente. Consapevole che il potere, per essere durevole ed effettivo, deve sposarsi al consenso Akbar cercò in un primo tempo di darsi una legittimazione ideologica indossando il manto del ghazi, del combattente per la fede. Di conseguenza l'assedio e presa della grande fortezza raj'put di Chittor (1568) venne presentata come vittoria dell'islam contro gli "infedeli" e furono prese misure restrittive contro gli indù. Ma tale presa di posizione non era affine alla personalità di Akbar e non durò a lungo. Infatti riportano le cronache dell'epoca che Akbar "fin dalla più tenera età conobbe i riti religiosi più disparati e con grande talento si impossessò del sapere a lui indispensabile, collezionando anche libri che si faceva leggere ad alta voce48 . Lentamente crebbe in lui la convinzione che in tutte le religioni ci fossero uomini dai sentimenti profondi e pensatori eccellenti e in tutti i popoli persone con grande capacità. Se si poteva trovare la verità in ogni dove, perché farla diventare patrimonio esclusivo di un'unica religione, addirittura di una fede giovane com'è l'Islam, con appena mille anni di vita?"49 . L'imperatore, dotato di una cultura straordinaria, di vivacità e curiosità intellettuali estreme e circondato da un gruppo di amici e consiglieri sia indù che musulmani, tutti di vedute eccezionalmente aperte, aveva incominciato ad interrogarsi sulla validità delle varie religioni. Nel 1575 fu fatta costruire nella nuova capitale, Fatehpur Sikri, la cosiddetta "casa delle preghiere" che divenne sede di dibattiti, presieduti dallo stesso imperatore, che coinvolgevano esperti rappresentanti dell'islam e delle altre religioni (indù, jaina, seguaci di Zoroastro, alcuni dotti padri gesuitie, pare, addirittura degli ebrei). Vennero anche fatte tradurre le principali opere religiose indù: il Mahabharata, il Ramayana, la Bhagavad Gita50, l'Atharva Veda e anche altri testi come il Pancatantra 51. Il sincretismo religioso dell'imperatore Akbar era tale che un suo contemporaneo disse di lui: "Per i musulmani era un indù, per gli indù un cristiano e solo per i cristiani un musulmano"52. Nel 1579 fu emessa la Dichiarazione (mahzar, poi definita dagli storici "Decreto dell'infallibilità") che dava l'ultima parola all'imperatore nelle dispute teologiche proclamando la capacità di Akbar sia di arbitrare in caso di controversie interpretative tra dottori della legge islamici, sia di dare nuove interpretazioni e, pertanto di promulgare leggi su base religiosa. Nello stesso anno Akbar enunciò la dottrina del sulh-i-kull (la "pace generale") una dottrina di "universale tolleranza odiata dai musulmani ortodossi" 53 che aveva come cardine il principio della tolleranza verso tutti. Coerentemente vennero abolite le imposte discriminanti quali la jizya, tassa procapite pagata dai dhimmi e le tasse imposte agli indù in pellegrinaggio. Venne abolito anche il regolamento che prescriveva una distinzione tra il modo di vestirsi degli indù e dei musulmani. Tra loro non ci fu più nessuna differenza ufficiale 54. La posizione di Akbar non era più limitata dai principi della legge islamica, bensì solo dalle esigenze del buon governo che, nella sua opinione, si fondavano sulla tolleranza verso tutte le confessioni religiose e sul perseguimento della gioia e della concordia. L'imperatore a partire dal 1582 cominciò a dare espressione alla propria religiosità praticando apertamente rituali di sua invenzione e proponendo un insieme di credenze i cui punti chiave erano il monoteismo e il ruolo sulla terra di un maestro supremo (ruolo ricoperto da Akbar). Questo viene visto da alcuni storici come abbandono dell'islam e tentativo di creare una propria religione (la "religione di Dio", dîn-i-ilâhi). Ma è più probabile che Akbar si considerasse un sufi, ovvero un maestro mistico che, pur rimanendo nell'ambito dell'islam, presentava molte analogie con la pratica devozionale della bhakti. Forse la sua identificazione con la figura di maestro sufi era il passo culminante del tentativo di dare una legittimità anche religiosa al proprio potere 55. Alcuni cortigiani seguirono per compiacenza il sulh-i-kull ma sostanzialmente nello stato rimase validissimo il principio della libertà di religione. Questa tolleranza rimase una delle caratteristiche dello stato moghul, tranne che durante il regno del quinto sovrano, Aurangzeb. XVI sec. e considerato uno dei capolavori delle letterature indiane di ogni tempo. L'autore è Malik Muhammad Jayasi56, seguace della Cisthiya e ispirato dai racconti popolari sulla caduta di Cittor, rielabora le "canzoni di eroi" del Rajasthan fino a comporre un poema che è al medesimo tempo un avvincente racconto di amore e di guerra e un'appassionata esposizione dei principi della dottrina sufi nonché del pensiero yogi. Nel Padmavat la narrazione delle gesta del re di Cittor si fa descrizione degli stadi della pratica spirituale sufi, dall'abbandono del mondo all'unione con Dio, fino al ritorno al mondo e alla comprensione della natura illuminante della propria vita quotidiana. Il primo capitolo si apre con una lauda al Divino, al Profeta, e agli imperatori: "In principio rammento quell'unico creatore, che diede la vita e che creò il mondo. Creò lo splendore della prima luce e, per amore di quella, il paradiso; creò il fuoco, l'aria, l'acqua e la terra e li dipinse di molteplici colori. Creò questo mondo, i cieli e gli inferi e generò svariate incarnazioni; creò l'uovo cosmico (…)57" . Ci si muove quindi in un contesto rigidamente monoteista, evidentemente islamico: la "prima luce" è il profeta Muhammad; ma contemporaneamente "l'uovo cosmico" fa riferimento ad uno dei più antichi miti cosmogonici indiani. Il poema narra del re Ratan'sen, sovrano di Cittor, che dopo aver udito un pappagallo - brahmano magnificare la bellezza di Padmavati, principessa di Simhal, decide di partire per conquistarne il cuore. Abbandona così il suo regno e i suoi beni, nonché la sua sposa Nag'mati, per farsi asceta e mettersi in cammino. È il tema, del tutto convenzionale nella poesia sufi, dell'abbandono del mondo e morte dell'io. Tutti mettono in guardia il giovane sovrano contro i pericoli di quella ricerca d'amore. Lo stesso pappagallo, che è "esperto dei quattro veda" afferma "Amare è un'impresa difficile (….). Per conoscere il loto, bisogna essere come quell'ape che, pur depredata lungo il sentiero, e pur rinunciando alla propria vita, non se ne allontana mai (…) Solo chi abbandona il mondo può percorrere quel sentiero: lo yogi, l'anacoreta, l'asceta, l'eremita."58 Il re compie questa scelta: indossa il saio da asceta e si mette in marcia perché "per chi è pazzo d'amore non esiste né sole né ombra"59, perché "fin quando non si giunge a perdere sé stessi non si ottiene nulla" 60 . È un "sentiero su cui spuntano germogli acuminati, sui quali verrà impalato un ladro o un nuovo Mansur"61 il mistico martire dell'islam che venne messo a morte per avere affermato la propria "identificazione amorosa" con Dio. È anche la via mostrata dalla tradizione spirituale indiana che, sin dalle Upanishad, considera il distacco dal mondo come requisito necessario per il raggiungimento della salvezza e della liberazione. Sopprimere il proprio sé, morire a sé stessi. Sopprimere l'"io"62 . Rinunciare a tutto. Quando Ratan'sen, incapace di accostare l'amata, decide di immolarsi sul rogo gli appare Shiva, dio degli asceti, che gli rivela 5.2 Malik Muhammad Jayasi. Il racconto del re innamorato, che è guerriero, è yogi, è sufi. In questa epoca di tentativi di riconciliazione dell'islam ufficiale con pratiche e tendenze delle tradizioni popolari di prevalenza indù un ruolo privilegiato spetta alla composizione della poesia spirituale. Un esempio è il poema Padmavat composto verso la metà del 46 il segreto della pratica spirituale "soggiogare il respiro e diventare padrone della tua mente e se devi morire, allora uccidi il tuo "io!" La resa di sé è completa. Come un sufi nella suo percorso verso il Divino, come uno yogi nella sua ricerca dell'Assoluto, così è Ratan'sen nel suo cammino verso la bella Padmavati" 63. Il tema dell'annullamento di sé nell'amore per il Divino unisce tradizioni mistiche musulmane e tradizioni religiose più propriamente indiane. La figura di Ratan'sen, il re che annulla il proprio io sul cammino dell'amore, fonde insieme temi, personaggi e ammaestramenti spirituali. Ratan'sen è allo stesso tempo il sufi - asceta figura che prevalse nei primi secoli del sufismo nei paesi arabi e nelle regioni di confine, e il sufi - mistico innamorato di Dio, figura che si affermò soprattutto in Persia. Mostra anche atteggiamenti propri della Malamatiya quando condotto di fronte al re del paese ove vive Padmavati e condannato al patibolo, potrebbe salvarsi rivelando di essere anch'esso un sovrano, ma invece dice: "perché chiedete la mia casta? Sire, io sono uno yogi mendicante, un'asceta senza casta, che non si adira per le ingiurie né si vergogna per le percosse (…) Come potrebbe non ridere, alla vista del patibolo uno come me, che vive dimorando nella morte?"64. È la tendenza a compiere atti disdicevoli per conquistare il disprezzo della gente o, comunque, di celare a tutti le proprie conquiste spirituali. Inoltre la figura del penitente - innamorato sufi viene interamente sovrapposta a quella dell'asceta indiano, in particolare con lo yogi di tradizione gorakh'nati: le corrispondenze con la dottrina dei nath sono tante e tali che tutta la prima parte del poema sembra una illustrazione didascalica. Quando Ratan'sen intraprende il sentiero d'amore la sua immagine esteriore corrisponde fin nei dettagli a un discepolo del Nath path65. D'altronde quasi contemporaneo a Malik Muhammad Jayasi è Shaikh 'Abdu'l-Qudddus 'Gangohi (m. 1573), i cui insegnamenti tendono a identificare completamente le nozioni sufi basate sull'idea dell'"unità dell'essere" con le dottrine formulate da Gorakhnath fino all'asserita corrispondenza dello stato di "vuoto" (shunya) con quello di "permanenza in Dio" (baqâ') tanto caro alla mistica sufi. Anche il pensiero tantrico è presente nel poema: la donna amata viene assimilata al guru, al maestro 66 . C'è anche l'eco della Bhagavad Gita dove Krishna insegnava ad Arjuna che la via non sta nell'astenersi dall'azione, ma nell'essere totalmente presenti in essa senza attaccarsi ai suoi risultati e all'io che la compie. Così Shiva esorta Ratan'sen a non rinunciare all'azione, ma ad immergersi totalmente in essa. Il sufismo sottolineava come le stesse conquiste spirituali andavano intese come strumento per partecipare in maniera finalmente libera e illuminata a quelle medesime "cose del mondo" dalle quali, in partenza si era generato un disgusto per la vita quotidiana. Il fine del percorso non è l'abbandono del mondo: è la capacità di andare oltre alle sue illusioni, pur rimanendovi all'interno. Così come la liberazione è chiusa nell'amore, così la verità è contenuta 47 nelle cose di ogni giorno. Nel Padmavat prima è raccontato il distacco dal mondo, dal suo inganno, consumando il proprio io nel fuoco dell'amore; poi il ritorno nel mondo: Ratan'sen, unitosi a Padmavati, rimane nel mondo, cogliendone la vera natura. Nel poema viene celebrata la vita intera intesa come vera e propria realizzazione della emancipazione spirituale. Essere nel mondo, non essere del mondo. Come aveva raccomandato Shiva a Ratan'sen: "uccidi il tuo io! Fuori, continua a parlare delle cose del mondo, ma in segreto dedicati a Quello che la tua anima ama"67 . Superato l'io; affrancatosi dai vincoli individuali di attaccamento e avversione; Ratan'sen ritorna a Cittor. Ha percorso il cammino d'amore e raggiunta la completezza, simboleggiata dall'unione di sé con l'amata. Nel palazzo lo aspetta l'altra sua sposa, Nag'mati. Così ora vi sono due regine: Nag'mati la scura e Padmavati la chiara, come la Ganga e la Yamuna 68, come le correnti energetiche del corpo umano che finalmente fluiscono libere e s'incontrano nell'istante della Consapevolezza. Ritornato a Cittor il re, come Arjuna, deve andare in battaglia. In quest'ultima parte del poema vengono conservati gli elementi della leggenda popolare con l'esaltazione del guerriero raj'put, della sua etica e del suo coraggio. Se Ratan'sen aveva già enunciato il motto "per la mia propria vita, non ho brama" ora le stesse parole riecheggiano sulle labbra di tutti i guerrieri impegnati nella battaglia di Cittor. Difensori e assalitori vanno incontro alla morte senza timore: si sono già affrancati da essa, sono dei "liberati in vita" (jivan - mukta). Sono come l'asceta innamorato: capaci del totale sacrificio di sé, liberati dai vincoli della vita umana. Pur combattendosi ferocemente, sono affratellati dal comune sacrificio di sé. La cruenta battaglia viene descritta con immagini che rimandano alla festa di Holi, ovvero la gioiosa festa indù della primavera. Ed è così che "tutte le donne si uccisero nel fuoco e tutti gli uomini uscirono in battaglia; l'imperatore distrusse la fortezza, e Cittor divenne musulmana"69 . 5.3 Dara Shikoh. Islam e vedanta come un'unica verità nella prospettiva d'un principe moghul. Dara Shikoh, nato nel 1615, figlio prediletto del quinto imperatore moghul, come il suo antenato Akbar manifestò grande vivacità intellettuale e vivo interesse per le religioni comparate ma, a differenza di questi, tale attenzione non era motivata da alcun calcolo politico, anzi. Dara dedicò tutto il suo tempo allo studio e alle traduzione dei testi sacri, così che giunse totalmente impreparato alla lotta per la successione al trono. In quanto figlio primogenito era designato a ereditare il potere del padre, Shah Jahan, ma nella lotta per il regno si dimostrò di scarso talento strategico e politico: era "ingenuo come un lattante" come affermò fratello Aurangzeb che lo sconfisse, lo fece condannare "per ripetute offese alla religione" e quindi decapitare nel 1659 70 . Dara ricevette una classica educazione da principe moghul con lo studio del Corano ma da subito ne rifiutò i commentari ortodossi e cercò la compagnia dei saggi sia musulmani che indù; venne iniziato all'ordine sufi dei Qadiri e ne seguì l'insegnamento esoterico che comportava la ritenzione del respiro e l'invocazione del Nome supremo; si interessò alla filosofia comparata e studiò la Torah, i Vangeli, i Salmi e i testi del sufismo, sempre attento a coglierne la dottrina dell'unità. Il suo scopo era studiare tutti i testi sacri al fine di conoscere la verità attraverso la parola divina, poiché egli riteneva che solo questa fosse l'interprete del proprio mistero e si presentasse talvolta velata e talvolta in modo accessibile a tutti. E fu nei testi sacri dell'India, nella filosofia del vedanta, che Dara trovò esposta chiaramente la dottrina dell'unità di cui il suo cuore aveva sete71 . Tradusse in persiano cinquanta Upanishad72 e forse anche la Bhagavat Gita e compose diverse opere, tutte a carattere religioso, fra cui la più rappresentativa del suo pensiero è la Majma 'al-Bahrayn, ovvero La confluenza dei due oceani, studio comparativo sulle nozioni filosofiche indiane e islamiche. Il testo presenta una esposizione dei termini tecnici delle due religioni trovando fra essi precise corrispondenze e identità. Dara infatti sosteneva che fra l'induismo e l'islam, sul piano trascendente della gnosi, non ci fossero che delle "divergenze verbali". Egli aveva la profonda convinzione che la realtà è una, ma appare sotto forme multiple rivestite da particolarità inerenti alle singole religioni. Ma molte conclusioni sono semplicistiche perché vengono viste solo le concordanze e manca invece lo spirito critico per cogliere differenze e incompatibilità. Inoltre le affermazioni fatte non vengono sufficientemente giustificate. Pare quindi esserci non tanto una ricerca metodica, un'analisi comparata delle due religioni, quanto un percorso intimo di visioni intuitive basate su una credenza a priori: la dottrina dell'unità universale. Questo studio appare pertanto come uno sforzo per confermare la sua visione di due religioni identiche fino ai loro minimi dettagli concettuali. Così la resurrezione islamica è analoga al pralaya73 perché ambedue denotano la fine di una condizione; poco importa che la prima segni il divenire post-mortem dell'anima nel suo passaggio negli intermondi e che l'altra si rapporti alla creazione e dissoluzione dei mondi secondo la dottrina dei cicli cosmici. L'arcangelo Gabriele, angelo della rivelazione, non è altro che Brahma74, divinità della creazione e poco importa che uno sia un angelo e l'altro una divinità perché ambedue denotano sul piano cosmogonico l'Intelligenza cosmica. Dara non trova alcuna differenza tra le dottrine indù e quelle islamiche poiché le realtà spirituali sono universali; ma soprattutto, perché non voleva trovare differenze: su di esse si basa l'ostilità fra ulama, bramani e pandit. Dara voleva appianare le discordanze, voleva estirparle per promuovere il sistema armonioso dell'unità universale scorto nel vedanta. Il sogno grandioso di Akbar di realizzare una religione universale dove indù e musulmani si potessero riunire liberati da tutti i pregiudizi confessionali e quello, più elevato, di Dara Shikoh che si sforzò di comprovare la stretta identità della gnosi speculativa dell'Islam e del monismo Advaita, non raggiunsero lo scopo di integrare pensiero indiano e cultura islamica. Però essi caratterizzano comunque "un'epoca privilegiata i cui valori sono lontani dall'essere conosciuti" 75 . Ma Dara venne condannato a morte, nel dolore della folla, e l'incoronazione ufficiale di Aurangzeb fu l'ultimo barlume di splendore della corte moghul. 6. Conclusioni. Oggi. L'India, il subcontinente indiano di cui si è parlato nel 1947, con l'indipendenza dagli Inglesi, venne suddiviso in due: uno Stato musulmano76 e uno Stato che taluni vogliono laico e altri indù Risulta un po' difficile portare avanti questo discorso di sincretismi e convivenze, quando ambedue si sono dotati di armamenti atomici destinati al vicino. In più dai dotti islamici vengono criticamente messi in discussione la dottrina dei santi e quegli aspetti che permettevano un dialogo con l'induismo sostenendo che "se vogliamo far rivivere l'islam (…) occorre che i musulmani si astengano da questo abuso, come il diabetico deve rinunciare allo zucchero" 77. Ma i dolci indiani sono dolcissimi e la commistione continua. Così ancora oggi in due dei principali santuari sufi di Delhi possono essere osservati atti d'origine indù, se non indù che vi giungono a pregare l'intercessione dei santi. Il santuario naqshbandi fondato a Delhi contenete la tomba di Mirza Mazhar Jan-i Janan78 è aperto agli asceti indù che vengono per pregare (a anche agli occidentali tanto che è noto come il "dargah79 degli italiani"). Numerosi indù vanno a pregare anche nel complesso sacro chishti chiamato Nizamuddin dove ogni anno si onorano quattro grandi feste: tre seguono il calendario lunare musulmano e la quarta è la festa di primavera, improntata all'induismo e fissata secondo il calendario luni-solare indù. E la circodeambulazione della tomba di Nizamu'd-Din Awliyya, ragione d'essere del complesso, viene fatta in senso orario com'è costume indù e non in senso inverso com'è uso nell'islam. Si diffondono nuovi movimenti sincretici quali la Warithiya, nata durante il periodo coloniale. Il suo fondatore, Warith Ali Shah (1818-1905), aveva viaggiato in Medio Oriente e in Europa, indossava l'ihram, il vestito del pellegrino alla Mecca, si comparava a Gesù e a Krishna. Il movimento, che non ha alcun rituale prefissato e semplicemente prescrive l'Amore, conta circa 400.000 discepoli fra musulmani (sciiti come sunniti), cristiani, ebrei, parsi e indù di tutte le caste. A questo punto non so più a quale gruppo religioso i Sind festanti visti a Kolkata possano appartenere. Ma non importa. Mi hanno dato l'opportunità di riflettere su alcune pagine della storia indiana che sono ben più ricche di quanto la teoria dello "scontro di culture" aveva scritto. Mi hanno fatto vedere un altro aspetto di questo paese, come se mi avessero mostrato un altro mondo. "Un altro mondo possibile", come discutevano i delegati indù e pakistani al social forum di Mumbai?80 48 NOTE 1 Ringrazio Stefano Caldirola per la sua testimonianza del Durga Puja di Jabalpur. Ricordiamo che sempre in Kerala esiste anche la più antica comunità cristiana dell'India, la cui evangelizzazione viene attribuita a San Tommaso. 3 I raj'put, gruppo a cui appartenevano pressoché tutte le dinastie regnanti del Nord India dalla fine del VIII sec., non erano gruppo razziale ben definito. Le loro origini derivano da un agglomerato di clan e di bande guerriere con in comune una sola caratteristica: essere coloro che nell'India del nord si dedicavano alla professione delle armi. Successivamente questi vari gruppi cominciarono a legarsi fra loro con rapporti matrimoniali, crearono una nuova classi nobiliare regolata da una rigida etica guerriera e i brahmani costruirono per loro delle nuove grandiose genealogie. 4 Si tratta di: Alptigin, che nella seconda metà del X secolo fece di Ghazni la sua capitale, e dei suoi successori: Sabuktigin prima e Mahmud poi. 5 Ma già in Persia erano considerati dhimmi anche i seguaci di Zoroastro. 6 Dea indù dell'abbondanza. 7 Cavalcatura della divinità indù Shiva e anche sua rappresentazione zoomorfa. 8 Cit. in: Torri Michelguglielmo, Storia dell'India, Laterza, Bari, 2000, p. 214. 9 Vedi: Torri Michelguglielmo, Storia dell'India, Laterza, Bari, 2000, p. 218. 10 Dara Sikoh, di cui parleremo più avanti. 11 Inoltre il termine indù venne usato per la prima volta dagli invasori arabi nel VII sec. per definire la popolazioni autoctone del subcontinente. 12 Il buddismo, una delle nuove dottrine "eterodosse", fu fondato da Siddartha o Gautama, detto il Buddha (l'"Illuminato"), vissuto tra la metà del VI sec. e la metà del V sec. a.C. La predicazione del Buddha si basava sulla constatazione che la vita è dolore, e che il dolore è l'inevitabile conseguenza del desiderio. Al dolore si può porre termine attraverso l'eliminazione del desiderio; il desiderio si può eliminare solo percorrendo il nobile ottuplice sentiero (retta visione, retta decisione, retto stile di vita, retto sforzo, retta attenzione, retta concentrazione). Buddha non si pronuncia sull'esistenza del divino, ma prende atto della sofferenza insita nel vivere e cerca una via per ovviare a questa dolorosa verità. Alla base del pensiero buddista c'è la constatazione che il desiderio ha origine dall'illusione che vi siano permanenza e individualità laddove né l'una né l'altra esistono. Il mondo è flusso e cambiamento continuo e anche il singolo non è altro che un'instabile aggregato di componenti che dopo la sua morte si riaggregheranno a formare altri individui, che però saranno condizionati dalle precedenti esperienze dei propri elementi costitutivi. Il fine del singolo deve essere quello di interrompere questo processo attraverso il raggiungimento del Nirvana, l'"Estinzione", pari all'estinguersi di una fiamma della candela, fine dell'esistenza individuale e raggiungimento di una suprema beatitudine. Col cambiamento della situazione socio - politica il buddismo, che nel frattempo aveva subito numerose modificazioni, scomparse pressoché totalmente dall'India ma si diffuse in tutta l'Asia. 13 Il jainismo fu fondato da Vardhamana Mahavira ("Grande Eroe") conosciuto come Jina ("Conquistatore"), contemporaneo del Buddha con cui presenta molte coincidenze. Il pensiero cardine del jainismo è che tutto ha un'anima propria, individuale: tutti i viventi e anche tutti gli oggetti apparentemente inanimati. Quest'anima, caratterizzata da purezza, beatitudine, omniscienza e autosufficienza, è immersa e compenetrata dalla materia attraverso un legame, il karma. Il karma incatenando l'anima individuale alla materia la condanna alla sofferenza della vita e al ciclo perenne delle reincarnazioni E' possibile agire su questo legame: gli atti egoistici e crudeli lo consolidano, mentre all'opposto l'ascetismo e la volontaria sofferenza lo alleggeriscono. Da qui l'enfasi sull'altruismo e sulla non violenza. L'ideale massimo del jainismo è quello dell'asceta che, per non nuocere ad alcunché, si lascia morire di fame e pare che anche uno dei più grandi antichi imperatori indiani scelse questa strada. 14 I Vedanta sono chiamati anche Upanishad, termine composto da upa, che significa "complementare", "aggiuntivo" e ni-sad "sedere ai piedi di un maestro". 15 Ma questa affermazione non comporta un'etica della fratellanza. 16 Vedi l'opera di Dara Shikoh. 17 Brahma ha un ruolo minore nel culto. Non è stato abbandonato il pensiero "utilitaristico" dell'epoca vedica e quindi si considera inutile venerare e omaggiare il dio creatore quando non c'è più bisogno di lui dato che il mondo è già stato creato. 18 Non solo quindi la via della conoscenza e dell'adempimento degli obblighi rituali come era in precedenza. 19 Da Tantra, "trama e ordito", ovvero i testi religiosi di questa corrente. 20 Nei Veda era invece presente una sola divinità femminile. 2 49 21 Il buddismo, che all'inizio non si era pronunciato sul divino, aveva assunto all'epoca la forma di religione dotata di divinità proprie, fra cui la figura divinizzata di Buddha (che era anche entrato nel pantheon indù). 22 Il movimento non critica il sistema brahmanico, ma si esprime al di fuori di esso. 23 Nel medioevo si iniziò la costruzione di edifici sacri templi proprio per accogliere le icone. 24 Vedi Vercellin Giorgio, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, Torino, 199, pp. 6-7. 25 Muhammad ibn Abdullah è un personaggio storico su cui abbiamo notizie relativamente accurate ed abbondanti. 26 Il quale contiene 114 sura (6536 versetti), ordinate per lunghezza decrescente, fatta eccezione della prima. 27 Gabriele nella tradizione islamica viene chiamato angelo e non arcangelo come presso i cristiani. 28 Cit. in: Torri Michelguglielmo, Storia dell'India, Laterza, Bari, 2000, p. 174. 29 Langar, come nella tradizione sikh. 30 E come fra i sufi oltre alla scuola monistica c'è anche quella shuhudi che presenta un moderato panteismo, così nell'induismo abbiamo il non-dualismo advaita (o vedanta) e la dottrina vishishtadaivita della dualità non differenziata. 31 " Per i musulmani i santi rimpiazzano i numerosi dei degli indù" Garcin de Tassy 1831 cit in: Gaborieau Marc, Le Soufisme et les Confréries dans l'Inde contemporaine, intervento alla Conferenza Internazionale The role of sufism and Muslim brotherhoods in contemporary Islam. An alternative to political Islam?, Centro Edoardo Agnelli per gli Studi Religiosi Comparati, Torino, 20-22 Novembre 2002, p. 14. 32 Torri Michelguglielmo, Storia dell'India, Laterza, Bari, 2000, p. 176. 33 Nella tradizione indiana la comparsa di un nuovo maestro comportava la sua sfida dialettica da parte degli esponenti degli altri pensieri religiosi. 34 m. 1245. 35 I rishi erano coloro che in virtù della perfezione dell'ascesi avevano "visto" i Veda. 36 Vissuto probabilmente tra il 1398-1448. 37 Seguace di Vishnu. 38 Vedi Mishra Laxman Prasad (a cura di), Mistici Indiani Medievali, UTET, Torino 1971, pp. 35 - 36. 39 Krishna, come Rama, era per gli indù uno degli avatar di Vishnu. 40 "Hari è il mio Amante / ed io sono la sua sposa, / tanto piccola / quant'Egli è immenso". Pada 117 in Mishra Laxman Prasad (a cura di), Mistici Indiani Medievali, UTET, Torino 1971, p. 39. 41 L'autorità religiosa e intellettuale indù. 42 Dotto erudito nelle discipline religiose musulmane. 43 Una strofa popolare lo ricorda così: Baba Nanak shah faqir / hindu ka guru musal'man ka pir : "Il venerabile padre Nanak, sovrano fra i santi, maestro degli hindu e precetttore dei musulmani" ( Giorgio Milanetti, Il Dio senza attributi, Ubaldini, Roma, 1984, p. 47) 44 Il Guru Granth Sahib si apre con: "Uno è l'Essere supremo. Il suo Nome è "colui che veramente è". E' un Dio personale, creatore, privo di paura e inimicizia. Non soggetta al tempo tempo è la sua immagine. Non generato, esistente per se stessa, Egli è il maestro dispensatore di grazia". (in Piano Stefano, Canti Religiosi dei Sikh, Bompiani, Milano 2001). 45 Il maestro. La tradizione sikh vede dieci Guru succedersi alla guida della comunità. Sucessivamente il ruolo del Guru è stato affidato al testo sacro, il Guru Granth Sahib. 46 Masala è la miscela di spezie usata nella cucina indiana. Usiamo scherzosamente questo termine per indicare quanto questo momento fosse ricco di molteplici apporti che, fusi insieme, crearono quel momento culturale unico che è il periodo moghul. 47 Akbar regnò dal 1556 al 1605. 48 Akbar era analfabeta. Gli storici danno diverse motivazioni a questo fatto. Alcuni spiegano ciò con l'infanzia passata fra campi di battaglia, con un'educazione militare ma non intellettuale. Altri, appartenenti alla tradizione musulmana ortodossa che tutt'ora non esprime grandi simpatie per Akbar, affermano che semplicemente egli si è sempre disinteressato di leggere e scrivere (ma allora perché la biblioteca di 28.000 volumi e la grande considerazione in cui teneva i libri?) Più probabile l'ipotesi che il sovrano fosse dislessico. 49 Abu al-Fazl, storiografo alla corte di Albar. In Behr Hans-Georg, I moghul. Splendore e potenza degli imperatori d'India dal 1369 al 1857, Garzanti, 1987, p. 114. 50 Mahabharata e Ramayana sono i due grandi poemi epici-religiosi della tradizioni indù e contengono la descrizione delle gesta di due avatar di Vishnu. La Bhagavad Gita è parte del Mahabharata e contiene la predica che Krishna, avatar di Vishnu, fa al principe guerriero Arjuna esortandolo ad andare in battaglia. Viene qui proclamato che solo tramite le azioni disinteressate, la devozione e la fede nella grazia divina si può giungere alla comunione col brahman. 51 Raccolta di racconti aventi lo scopo di educare il giovane principe all'arte del governo. Si presume che questo testo, giunto in Europa tramite le tradizioni islamiche, diede l'ispirazione a Baccaccio per il suo Decameron. 52 al-Badaoni , in Behr Hans-Georg, I moghul. Splendore e potenza degli imperatori d'India dal 1369 al 1857, Garzanti, 1987, p. 115. 50 al-Badoni, sunnita ortodosso, fu storiografo di corte, prima che l'imperatore lo licenziasse come storiografo a causa delle sue idee ortodosse e gli affidasse il compito di tradurre il Mahabharata! 53 Behr Hans-Georg, I moghul. Splendore e potenza degli imperatori d'India dal 1369 al 1857, Garzanti, 1987. 54 E al-Badaoni nei suoi scritti così commenta "segno più che certo che l'imperatore aveva definitivamente abbandonato la vera via". (Cit. in Behr Hans-Georg, I moghul. Splendore e potenza degli imperatori d'India dal 1369 al 1857, Garzanti, 1987, p. 131). al-Badaoni nei suoi appunti era sempre fortemente critico nei confronti dell'imperatore e del sincretismo dell'epoca. Ad esempio, commentava così quanto avveniva a corte: "il motivo fondamentale è la grande quantità d'ogni colore e setta venuti a corte da tutte le parti. Sua maestà ascolta l'opinione di ciascuno, ma tiene conto soltanto di quelle a lui favorevoli e respinge le altre. Così Akbar raccolse tutto ciò che gli esseri umani possono trovare nei libri, con uno spirito di osservazione in contrasto con i principi dell'Islam. In seguito l'imperatore rifiutò la verità rivelata e diede retta a tutte le bestemmie dei cortigiani contro la nostra gloriosa religione". 55 Così ipotizza Marc Gaborieau (in Le Soufisme et les Confréries dans l'Inde contemporaine, intervento alla Conferenza Internazionale The role of sufism and Muslim brotherhoods in contemporary Islam. An alternative to political Islam?, Centro Edoardo Agnelli per gli Studi Religiosi Comparati, Torino, 20-22 Novembre 2002. 56 Nato nel 1495 d. C. 57 Padmavat I.1 (in Giorgio Milanetti, Il poema della donna di loto, Marsilio, 1995, p. 67). 58 Padmavat XI.5 (p. 127). 59 Padmavat XV.2 (p. 143). 60 Padmavat XI.6 (p. 127). 61 Padmavat XI.6 (p. 127). 62 Padmavat XXII.10 (p. 176). 63 Afferma: "Il mio viaggio avrà fine solo quando la potrò incontrare. Allora mi strapperò la vita, chinerò la fronte a terra, e le darò un trono nel cuore. (…) Se mi chiedesse la vita, gliela offrirei in sacrificio; se volesse la mia testa, gliela donerei assieme al collo; se mi volesse uccidere, mi inchinerei ancora di più. Per la mia propria vita, non ho brama: sto davanti alla porta dell'amore e chiedo a lei per elemosina. La sua sola vista è una lucerna e io, il mendicante, sono la falena: se pure mi passasse una sega sulla testa, morirei senza piegare un dito XXIV p 191. 64 Padmavat XXV.2 (p. 198). 65 "Si coprì di cenere il viso bello come la luna e le membra profumate di sandalo, finché tutto il suo corpo parve fatto di terra; quindi prese il cordone d'asceta, lo zufolo, l'anello e il gorakh'dhandha (il bastone dell'asceta shivaita) il panno per meditare, la collana di rudraksha (rosario shivaita ) e la gruccia, indossò il saio, strinse il bastone in una mano e, come un Perfetto (siddha), cominciò ad invocare Gorakhnath". Padmavat XXII.1 (p. 129). 66 Ratan'sen afferma: " È Padmavati il mio maestro: io sono il suo discepolo, e solo per lei ho praticato l'ascesi". Padmavat XXIV.8 (p. 191). 67 Padmavat XXII. 10 (p. 176). 68 I due principali fiumi sacri hindu, ma anche metafore del femminile - maschile, sinistro - destro, ecc… 69 Padmavat LVII.4 (p. 400). 70 La vittoria del terzogenito Aurangzeb comportò la sconfitta (con battaglie od inganni) e uccisione anche degli altri fratelli - rivali e la condanna di Dara appare totalmente strumentale agli scopi politici di Aurangzeb e niente affatto rappresentativa del clima tollerante dell'epoca. Clima che d'altronde finì con l'ascesa di Aurangzeb, musulmano ortodosso con spiccata tendenza al bigotto, che creò un mostruoso apparato di inquisizioni e spionaggio. 71 Shayegan Daryush, Hindouisme et Soufisme. Une lecture du Confluent des Deux Océans, Albin Michel, Paris, 1997 p. 13. 72 Le Upanishad vennero tradotte col titolo Sirr-e Akbar, "Il più grande dei misteri", e Dara scrisse anche una prefazione che comincia con la formula indù convenzionale Om Shri Ganesha Namoh (omaggio a Ganesh). In esse Dara trovò pienamente espressi e spiegati i segreti che aveva cercato a lungo con un'intensa lettura dei testi sacri di tutte le religioni. Dara chiama le Upanishad "il primo dei libri celesti" e "la fonte delle corrente monoteistiche" e ritiene addirittura che siano state menzionate nel Corano nel seguente verso: "Questo è l'onorevole Corano, nel libro nascosto, che nessuno lo tocchi se non il puro. Esso è una rivelazione dal Signore dei mondi". Per Dara Shikoh l'nsegnamento nascosto nel cuore del Profeta, il sapere che nessuno tranne il puro poteva comprendere era il testo delle Upanishad, che permettono di conoscere lo sconosciuto e di comprendere il non capito. 73 Pralaya: "dissoluzione", letteralmente un processo (pra) di fusione (laya), e dunque di dissoluzione e distruzione, in particolare riferimento alla distruzione dell'universo al termine di ogni era cosmica. A ciò segue un nuovo processo di creazione o emanazione. Mahapralaya: la distruzione dell'universo che si ripete al termine di ogni era cosmica. Dara nel suo testo afferma: "I monisti indiani ritengono che dopo un lungo soggiorno al paradiso e all'inferno avverrà il maha parala (mahapralaya) che è la 51 resurrezione maggiore, come si deduce dal versetto "Quando verrà il cataclisma molto grande (Corano LXXXIX:35) e "Allora sarà soffiato nella tromba (una prima volta) e coloro che sono nel cielo e sulla terra saranno fulminati, tranne quelli che Allah vorrà risparmiare" (Corano XXXI: 68). Coloro che Allah vorrà risparmiare sono i gnostici che sono protetti contro l'incoscienza e l'ignoranza in questo mondo come nell'altro. Dopo la distruzione dei cieli e della terra e l'annullamento dell'inferno e del paradiso, e la conclusione dell'età di brahmanda e l'assenza di questo, le genti del paradiso e dell'inferno raggiungeranno la liberazione mokt (mukti), ovvero i due gruppi diverranno uno con l'Essenza divina, come dice questo versetto: "Tutti coloro che sono sulla terra sono perituri, quando sussisterà il volto del tuo Signore che detiene la maestà e la magnificenza" (Corano LV : 26, 27). Majma 'al-Bahrayn, cap. XIX, "La descrizione della Resurrezione" (in Shayegan Daryush, Hindouisme et Soufisme. Une lecture du Confluent des Deux Océans, Albin Michel, Paris, 1997). Mukti, o moksha, significa "liberazione" e consiste nel riassorbimento nel brahman, nell'Assoluto divino. Di essa Dara così scrive: "La mukti consiste nel riassorbimento e annullamento di tutte le particolarità nell'Essenza divina come appare in questo versetto: "la Soddisfazione di Allah è più grande. Là è l'Immenso Successo" (Corano IX : 72). Entrare nel rîzwân-e akbar che è il Paradiso è la liberazione, mukti (…)". Majma 'al-Bahrayn, cap. XX. 74 Majma 'al-Bahrayn, cap. XXI. 75 Shayegan Daryush, Hindouisme et Soufisme. Une lecture du Confluent des Deux Océans, Albin Michel, Paris, 1997, p. 12. 76 Che poi diverrà due stati musulmani. 77 Abul A'là Maududi 1903-1979 il teorico dello stato islamico Pakistan cit in Gaborieau Marc, Le Soufisme et les Confréries dans l'Inde contemporaine, intervento alla Conferenza Internazionale The role of sufism and Muslim brotherhoods in contemporary Islam. An alternative to political Islam?, Centro Edoardo Agnelli per gli Studi Religiosi Comparati, Torino, 20-22 Novembre 2002, p. 16. 78 Mirza Mazhar Jan-i Janan (1699-1781) poeta e mistico, noto per le sue simpatie per gli indù. Egli considerava gli avatar indù come dei profeti. 79 Santuario. 80 Ancora una volta ringrazio Stefano Caldirola per i suoi lunghi resoconti dall'India. Inoltre ringrazio Marilia Albanese, Alessandra Consolaro, Elisa Giunchi e Jolanda Guardi per le preziose indicazioni bibliografiche. 52 BIBLIOGRAFIA Albanese Marilia, Appunti per il Corso di Cultura Indiana, ISIAO, Milano, s.d. Appadurai Arjun, Il numero nell'immaginazione coloniale, in Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001 (ed. or.: Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis-London, 1996). Armstrong Karen, L'islam, Rizzoli, Milano, 2001 (ed.or.: Islam, 2000). Baghat R. B., Role of Census in Racial and Ethnic Construction e Census and the Construction of Communalism in India. Saggi reperibili nel world wide web a partire dal sito dell'International Institute for Population Sciences di Mumbai (www.ipsindia.org). Behr Hans-Georg, I moghul. Splendore e potenza degli imperatori d'India dal 1369 al 1857, Garzanti, 1987 (ed. orig.: Die Moguln, Dusseldorf, 1979). 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L'amore gay e le contraddizioni attraverso le quali è vissuto e praticato, forse può allora rappresentare una delle nuove porte d'Oriente. Da costruire e da aprire. Arabi e noi, Gianni De Martino Homosexualités", stampata in Francia nel marzo del 1973 e immediatamente ritirata dal commercio. Il capitolo di immediato interesse è il secondo dal titolo "Les Arabes et Nous", probabilmente a cura di Michel Foucault, che poi è anche diventato un libro indipendente. Entrambi sono praticamente introvabili e quel che è più interessante è il fatto che in Francia questi libri sembrano non esistere e non essere mai esistiti, non risultando infatti in nessun catalogo bibliotecario nazionale regionale o cittadino. Una sorta di rimozione dall'inconscio collettivo. Il senso politico dell’omosessualità nel mondo arabo Olio su tela di Jones Michel. Immagine digitale tratta da Gaymiddleeast Community Introduzione Parlare di omosessualità nel mondo arabo-mussulmano vuol dire affrontare una questione antropologica rilevante perché in essa confluiscono tematiche classiche di questa disciplina quali i rapporti tra i generi, il nesso tra sessualità e potere, la questione coloniale, lo scontro (più ideologico che realmente fondato tra oriente e occidente) e anche quello relativo alla Umma virtuale. Tutta questa complessità non era sfuggita agli antropologi francesi già a partire dagli anni settanta, quando cominciarono a denunciare pubblicamente i rapporti di potere che si venivano a creare tra i giovani europei e gli operai arabi, prevalentemente magrebini, ma non solo, e che si esprimevano appunto in relazioni di tipo omosessuale. Nomi quali quello di Michel Foucault, JeanPaul Sartre, Felix Guattarì, Gilles De Leuze e molti altri hanno analizzato la questione in una rivista monografica "Recherches" con il titolo "Trois Milliards de Pervers. Grande Encyclopédie des 54 La teoria o quella che l'autore definisce "..encore moins comme une théorie" è quella che lega la pratica omosessuale al campo dell'indagine politica: "…présence diffuse et mobile d'un de désir, mise à jour d'un rapport de forces, d'une violence et d'une mort au sein du désir même, dans l'instauration d'un code érotique spécial: ‘je sens toujours la mort, j'ai l'expérience de la mort chaque fois que je me fais enculer. Surtout avec les Arabes’ …découvre au contraire une sexualité qui, sous cette forme ou sous une autre, appartient de toutes manières au champ social politique, et investit les lignes des force constitutives de ce champ". La lettura politica dell'omosessualità può essere affrontata su differenti livelli ; tale pratica esprime una sorta di affermazione dei rapporti di dominazione (coloniale e non solo) attraverso l'inversione. La pratica omosessuale con uomini del mondo arabo sembra talvolta presentarsi come un rituale che prevede tre fasi assimilabile a quelle del Diwan; va precisato però che se ne possono osservare gli elementi tipici ma in modo diffuso e non ritmicamente 1 sequenziali. 1 - la pianificazione del viaggio e del soggiorno, all'interno di un movimento esotico del pensiero e delle proiezioni dell'immaginario, che possono essere riscontrate non solo nelle interviste somministrate a viaggiatori abituali, ma anche nel flusso pubblicitario che le agenzie specializzate propinano nei circuiti mediatici televisivi, quali tv satellitari (si pensi a gay TV) o a riviste di interesse. 2 - la ricerca in strutture turistiche di qualche ragazzo o uomo arabo per consumare l'atto sessuale in qualche albergo. 3 - la richiesta immancabile di " regali occidentali " e magari di un visto per andare in Europa. (omo)sessuale occidentale, nella logica perversa e inversa della passività tra le lenzuola, sembra essere il prolungamento (M. Foucault direbbe "fallocratico") del territorio nazionale, dell'impero coloniale, nel senso delle categorie socio-cognitive che esso ha generato e continua a generare, pur in modi differenti e meno evidenti. (in questa direzione sembra leggersi la figura tratta dal libro sopra citato). Che la pratica omosessuale sia una questione squisitamente politica e non morale, non solo nell'analisi antropologica, ma anche, dialogicamente nelle convinzioni dei protagonisti mussulmani, si vede bene nel cortometraggio, presentato al Cinefestival di Torino nel 2003, all'interno di una rassegna sul cinema di genere arabo, dal titolo Yawmiyat A'hir (Diary of a Male Whore) di Tawfik Abu Wael, prodotto in Palestina, a colori nel 2001. Il cortometraggio, il lingua palestinese, e doppiata in inglese, è la trasposizione del romanzo autobiografico Il pane nudo di Mouhammed Shukri, scritto sulle disavventure di un giovane marocchino molto povero, il quale picchiato dal padre, è costretto da fame e povertà a lasciare il proprio villaggio, per andare nella capitale, dove giunto, tra i molto espedienti adottati per sopravvivere, c'è anche quello della prostituzione omosessuale (con un anziano occidentale). Nel cortometraggio però il giovane magrebino (eterosessuale) diventa un giovane palestinese, Esam, che non si trova più il Marocco ma a Tel Aviv e il suo prostituirsi, finalizzato alla sopravvivenza, è con un maturo israeliano. Da questo adattamento traspare chiaramente una lettura politica dell'omosessualità, vista da un arabo. L'occidentale è, secondo ricerche effettuate e secondo la consuetudine di pensiero della comunità omosessuale occidentale, prevalentemente, se non esclusivamente coinvolto, su esplicita richiesta, in qualità di maschio ricettivo. Il maschio penetratore è l'arabo, per il quale comunque non è concepibile un ruolo (femminile ?) di passività/sottomissione, poiché egli è il detentore del deposito virile e quando anche questi consumasse un atto sessuale con un con-sessuale mussulmano, quest'ultimo finirebbe per venire classificato sotto una categoria sociale che non è quella del maschio (arab). Storia, Corano e omosessualità Il termine che designa l'omosessuale è luti. L'accanimento che si osserva nelle Scritture è tale da far pensare che in passato, soprattutto tra i militari, fosse molto praticata quale forma di coercizione. Secondo M. Chebel i termini arabi utilizzati variamente per descrivere la pratica della sodomia non stanno ad indicare l'omosessualità addomesticata e civilizzata, quale viene intesa oggi, ma è relativa piuttosto ad una pratica sessuale bruta, di dominanza, una specie di omosessualità panica allo stato grezzo, la quale trasgredisce contemporaneamente i codici dell'ospitalità (si trova eco di ciò anche nel libro della Genesi), della natura sovrana e della morale tribale. Tale forma di violenza sessuale, applicata indifferentemente ai maschi e alle femmine, e che si concretizzava in stupri sui vinti durante battaglie e razzie, sembra fosse particolarmente diffusa tra i nomadi ai tempi del Profeta. La norma coranica è da intendersi probabilmente come una prima forma di legislazione progressista che intendeva tutelare i più deboli. Leggiamo infatti che tutti i rapporti extramatrimoniali erano fortemente condannati dalla Sharia, e in particolare, per quanto riguarda quelli omosessuali nel Corano: VII, 80-81: "E Lot, quando disse al suo popolo: ‘Compirete forse voi questa turpitudine, tale che mai nessuno la commise prima di voi al Nella pratica omosessuale con un maschio occidentale si assiste ad una inversione, almeno psicologica, dei rapporti (coloniali/neo economici) di potere, finalizzato però alla riaffermazione perversa, della disuguaglianza politica, culturale, sociale. Il breve e fugace atto di sottomissione sessuale del maschio occidentale è, inversamente, una riaffermazione, violenta a tratti del potere dell'uomo bianco. Questo rituale, per quanto molto diverso da quelli ai quali siamo abituati quando poniamo altrove la nostra attenzione, come tutti i rituali di inversione pone una questione di tipo politico, sul rapporto economico tra zone diverse del pianeta; parafrasando Marc Augé, esso mette in scena il potere (economico, tecnologico e occidentale) bianco, contro la sottomissione araba. Questa struttura, che lo stesso M. Augé definisce perversa, mette in scena parossisticamente, la mutazione della sorgente del potere (l'occidentale è il passivo sottomesso, l'arabo è il penetratore che, almeno nel contesto di una camera di albergo, domina). Quello che in realtà avviene, e lo sottolinea bene Michel Foucault, ha a che fare con la morte, quella del maschio arabo, e metonimicamente della cultura/civiltà/storia che esso porta e rappresenta, quale " Altro", ha a che fare con la sua oggettivazione e la sua trasformazione. L'affermazione 55 mondo? Poiché voi vi avvicinate per libidine agli uomini anziché alle donne, anzi voi siete popolo senza freno alcuno’. E anche: XXVI, 165-166: “V'accosterete voi ai maschi fra le creature dell'Universo? E avrete un commercio carnale con gli uomini, abbandonando le spose che per voi ha creato il Signore? In verità siete un popolo di trasgressori ignoranti ed empi”. Un hadith dice che ‘…quando un uomo monta un altro uomo, il trono di Allah si agita’; tale comportamento è ritenuto come una forma di ribellione (fitna) ed e associata anche alla seduzione. In particolare il liwat (maschio recettivo) è considerato un maledetto, un folle che fa danno a se stesso. La Sharia, all'articolo 307, decreta che "…ogni mussulmano maggiorenne che avrà commesso un atto impudico, o innaturale, con un individuo dello stesso sesso, sarà punito con la pena di morte da attuarsi tramite pubblica lapidazione". La pratica omosessuale era comunque molto diffusa, come testimonia anche la fiorente letteratura araba in materia di erotismo. La quantità e la qualità delle produzioni è tale che alcuni antropologi hanno suggerito di considerare l'esistenza di un terzo genere, quello dei prostituti (khanith), per i quali però è complesso trovare un analogo equivalente culturale occidentale. L'aspetto importante che suggerisce l'utilizzo di questo termine è che nel mondo mussulmano sembra che in passato fosse riconosciuta all'uomo una maggiore libertà nell'assunzione del genere e del ruolo, non essendo esso legato ad una fenomenologia biologica statica e dinamica troppo e pubblicamente evidente. La perdita progressiva di questa flessibilità potrebbe essere legata all'incontro con altre culture. L'antropologia comparativa sembra portare prove in questa direzione. La proibizione dell'omosessualità maschile è comunque ben radicata nell'Islam fin dalle origini e a nulla sono valsi tentativi successivi di studio e approfondimento per cercare di introdurre spazi di variante o di possibilità. Nel XIV secolo assistiamo alla nascita di un discorso laico sulla questione, peraltro molto rigido che vede in questo comportamento una causa di decadenza, rimproverando la mancanza di generazione, in un momento storico di grande incertezza perché i Mongoli cominciavano l'aggressione all'impero dei califfi. Proprio questo discorso sembra riportarci ad una dimensione politica dell'omosessualità. bianco passivo non è considerato maschio nel senso di Arab, come non lo è l'adolescente che presta sé al piacere dei coetanei). L'omosessualità intesa come forma eterodossa dell'idioma maschile si pone nelle dinamiche dei rapporti di genere in particolare credo per quanto riguarda il controllo critico della riproduzione dello spazio pubblico (maschile) e dei quello privato (femminile), perché la discrepanza spaziale all'interno del Diwan si pone come elemento di rottura formalmente non integrabile nel concetto di Arab, pur presentando tutti gli altri requisiti sociali che ne legittimerebbero la presenza contestuale. Un maschio che pratica l'omosessualità, in privato, è tollerato purché il suo comportamento non abbia visibilità (potere) nella sfera pubblica. Quando questo avviene siamo di fronte, non tanto ad una perversione di tipo morale, quanto piuttosto di una perversioneinversione di tipo politico, una pesante critica al potere pubblico dei maschi (anziani). La pratica omosessuale in Palestina, nella sua evidenza fenomenologica, sembra essere prevalentemente giovanile (tra i 18 e i 34 anni). In essa sembrano confluire, almeno dalle risposte degli intervistati una critica ai padri anziani, colpevoli dell'incapacità di aprirsi ad un mondo in rapido cambiamento. Said, un omosessuale palestinese di circa 30 anni, esprime la sua rabbia rivolta verso l'anziano padre, che sente ogniqualvolta vi è una recrudescenza negli attacchi israeliani. Nonostante l'affetto che traspare dalle sue parole, emerge anche la sofferenza per un conflitto culturale, quando egli si definisce "gay man and Palestinian" e quando afferma la sua paura che il padre "flight…to escape me, the gay son he could never embrace". L'annullamento dello spazio (l'abbraccio), quando questo è in un contesto percepito come extra tribale, determinerebbe la distruzione dell'idioma della maschilità, e significherebbe il riconoscimento della critica stessa alla società ed in particolare alla configurazione dei rapporti di genere. Said sembra ben comprendere questo processo, che forse non è completamente cosciente, ma è interessante osservare come esso venga apertamente messo in relazione con la guerra (War, Fight). In medio oriente le comunità omosessuali più visibili, potenti e sviluppate sembrano essere fiorite in quei paesi che hanno incorporato e sperimentato un lungo periodo di guerra sul proprio territorio. Il caso più emblematico è forse quello libanese. L'esistenza pubblica di un maschio, che deliberatamente sceglie di non aderire ai canoni riproduttivi sia in senso sociale che biologico, è dotata di una forza così distruttiva, che rischia di minare l'assetto stesso della società; per questo motivo spesso gli omosessuali vengono uccisi dagli stessi familiari, secondo il rapporto delle associazioni gay, in particolare di AGUDAH e di Amnesty International. Secondo Malek Chebel, antropologo psicoanalista, "...attraverso i problemi sessuali, certo molto complessi, della gioventù araba impegnata in una dinamica di mutazione sociale, la questione omosessuale non cessa di porre la problematica dei processi di costruzione e di articolazione dei cambiamenti personali, istituzionali e politici in una struttura tradizionale, conservatrice per definizione" 2. Diwan e omosessualità: il caso palestinese E' necessario precisare ai fini di una corretta comprensione che nel mondo arabo non esiste una omosessualità inquadrabile secondo le categorie culturali più vicine al pensiero occidentale. Si parla di comportamento e pratica dell'omosessualità ma non di identità e di identificazione. Persone omosessuali mussulmane esistono, come esistono comunità gay squisitamente arabe ma questo è un fenomeno decisamente recente, al riguardo del quale dirò più avanti. La pratica omosessuale acquisisce la forma di un idioma di genere particolare ma sempre e comunque maschile. E' raro se non impossibile trovare, nel medio oriente, omosessuali effemminati, salvo il loro inserimento in altre categorie culturali locali (il 56 L'omosessualità in Palestina rappresenta anche, nonostante i suoi alti costi, il miraggio di "un biglietto aereo per l'Europa (Occidente)"; esso però non è un processo cosciente e strumentale come si può osservare in Marocco, ma qualcosa di estremamente più sottile, forse incorporato, inconsciamente idiomatizzato nella costruzione dei giovani. L'impossibilità di un Coming out 3 in patria e la paura mortale di un Outing4 danno origine ad un flusso migratorio, che interessa immediatamente Israele. Infatti, secondo un accordo firmato nel 1951 all'ONU, anche da Israele, la persecuzione per motivi sessuali permette di fare domanda di asilo politico; ma per un omosessuale palestinese non è facile. Sono circa trecento i giovani gay conosciuti, che hanno scelto di fuggire dalla Cisgiorrdania o dalla Striscia di Gaza, per andare a vivere, ma spesso a sopravvivere in Israele. Qui giunti, sempre secondo quanto riferisce Amnesty International, dimenticano la lingua araba e imparano alla perfezione l'ebraico, si atteggiano come giovani israeliani: pizzetto, pantaloni militari sdruciti e indossando anche medaglioni e ciondoli con la stella di David. Rimane però forte il senso di colpa, l'asciumà, il senso di venire meno ai propri doveri riproduttivi e quindi anche materiali verso il proprio clan. Per un palestinese questo equivale a essere un collaborazionista perché l'omosessualità è innanzitutto un tradimento sociale verso la propria patria. La vita dei giovani gay emigrati in Israele è così fragile, perché ricattabili in ogni momento; spesso, continua Amnesty International, vengono comprati come informatori in cambio di una promessa di documenti. Rani, 19 anni, ricorda come, scoperto dai parenti, fosse scappato a Tel Aviv, dopo che dei militanti palestinesi lo volevano obbligare a partecipare ad un attentato suicida per "espiare la sua colpa"5 . Nonostante la seconda Intifada, e nonostante essa renda certamente difficoltosa la vita dei giovani palestinesi omosessuali, le coppie miste che vedono un palestinese e un israeliano "fare famiglia" sono veramente molte. Ma come si spiega che un odio, se non atavico certamente molto radicato e complesso, venga superato in situazioni marginali come queste, inteso in senso sia sociologico che antropologico? Ad una prima osservazione puramente visiva, tutte le coppie sembrano ricalcare il modello occidentale di "Gay Pride", ma nessuno dei ragazzi con i quali sono venuto in contatto è decisamente effeminato. Il modello del maschio (Arab) è certamente lontano, e per questi giovani normalmente viene utilizzato il termine tanguy, che probabilmente vuol dire immaturo, debole, infantile, ma che non rimanda immediatamente ad una pratica o a una condizione omosessuale; esso sta ad indicare i giovani che vestono secondo i canoni europei, sottolineando quindi che i giovani gay palestinesi e israeliani, nel seguire tale modello, non esprimono che una possibile condizione giovanile e non uno specifica rivendicazione in chiave di genere o orientamento. Ma allora qual è il senso di queste coppie? Semplice opportunismo? O movimento culturale? Bisogna sapere, che nonostante il forte veto dei religiosi ortodossi, e una opinione pubblica abbastanza contraria, come mi spiega Nir, il mio amico informatore a Tel Aviv, le coppie omosessuali sono riconosciute e due giovani maschi possono unirsi attraverso un contratto matrimoniale, dal 1997. La complessa situazione politica sembra accanirsi proprio verso le coppie miste, nonostante lo status di rifugiato politico dei palestinesi omosessuali; i permessi di soggiorno rilasciati dal ministero dell'interno e dal quello degli affari sociali non vengono progressivamente rinnovati, a motivo del veto dei servizi di sicurezza, gettando però nella clandestinità centinaia di giovani, che peraltro rischiano seriamente la vita, non potendo più rientrare in Palestina. La questione è di estrema gravità ed è presa molto seriamente non solo dalle associazioni omosessuali locali, tra le quali la più importante è Agudah che fornisce questi dati, ma anche dalle associazioni per la tutela dei diritti umanitari. Shaul Gonen, membro di Agudah riferisce che la condizione degli omosessuali palestinesi è drammatica e che le coppie miste spesso decidono di vivere in clandestinità, inosservate, rimanendo chiuse in casa dopo ogni attentato per paura di forme di rappresaglia. Prima dell'11 Settembre gli omosessuali palestinesi erano costretti a nascondersi solo in quei luoghi e in quelle comunità dove i gruppi di integralisti islamici erano particolarmente forti e in soprattutto in zone quali Nablus, Hebron, i villaggi nei dintorni e nei campi profughi da Gaza; mentre in città quali Ramallah ed El Bireh era tollerata dall'Autorità palestinese. A seguito della seconda Intifada, le coppie miste (visibili) sembrano diminuite in Israele, per i timori di espulsioni e rappresaglie, ma ad un rapido calcolo statistico potrebbero essere circa meno di 290. Samir e Shlomi, israeliano e palestinese hanno circa trent'anni e vivono insieme da cinque. La loro unione è sancita da un contratto matrimoniale ed è rispettata e tollerata. Purtroppo il permesso di soggiorno di Samir è scaduto e non è stato possibile rinnovarlo, nonostante i suoi 14 anni di residenza in Israele e l'interessamento di numerose persone. Samir non può tornare nel suo villaggio in Cisgiorrdania perché verrebbe arrestato, probabilmente torturato, accusato di collaborazionismo e anche ucciso dai suoi stessi familiari, nonostante la legge palestinese preveda meno di 5 anni per il reato di sodomia e pratiche omosessuali. Said invece vive nei Territori occupati ed è fornito della carta di soggiorno, o meglio dell'autorizzazione a risiedere il Israele; ciò nonostante è costretto a vivere quasi come un clandestino6. Ha 27 anni, parla un ottimo ebraico ma un pessimo inglese. Anche lui ha per compagno un israeliano con il quale convive e lavora. Ha preso consapevolezza di sé durante l'adolescenza ed è venuto a conoscenza della comunità gay israeliana attraverso i media. Il suo primo approccio con Israele è passato per la prostituzione, fin quando, scoperto dai parenti, è stato costretto alla fuga, anche perché il fatto è avvenuto al ritorno del padre dal pellegrinaggio alla Mecca. Sa di non poter tornare a Ramallah perché probabilmente verrebbe ucciso e l'unico modo per evitarlo sarebbe quello di uccidere Shlomo, per espiare il peccato, dimostrarsi pio, e salvare l'onore della sua famiglia, riscattandosi così dalla maledizione che il padre gli ha fatto. Quando si affronta la questione religiosa dice "...mi sento mussulmano e praticante. Lo so che l'omosessualità è un peccato, 57 ma questa è una cosa tra Allah e me. (N.d.A. fuori dal Diwan). Per il resto sono un buon mussulmano". Riconosce di avere rapporti migliori con gli ebrei e spera un giorno di poter vivere in pace e poter considerare gli ebrei alla stregua di fratelli. Non nasconde la speranza che la Palestina possa diventare uno Stato pienamente sovrano in senso democratico, e spera che il contributo del movimento omosessuale possa servire in tal senso. Anche Shlomo fatica a vedere la differenza tra il combattere per il riconoscimento dei diritti degli omosessuali, fare pressione sul governo perché accolga i profughi ed essere contro l'occupazione. L'aspetto interessante, con dati di prima mano raccolti (virtualmente), è che l'omosessualità sembra essere significativamente diffusa tra i giovani militari israeliani e come si legge anche in uno studio a cura dell'esercito di Israele; mi è difficile comprendere se in termini di comportamento o di identità, ma la questione è comunque interessante poiché sembra presentare una analogia con la critica che i giovani omosessuali palestinesi incorporano nei confronti del Diwan. Uno Stato fortemente militarizzato, e, nei suoi dirigenti, molto in difficoltà a trovare "vie terze" per una pacifica convivenza e una reciproca tutela, viene criticato attraverso forme sotterranee di comportamenti eterodossi anche dal punto di vista della pratica o dell'identità sessuali; un recente film ha affrontato la questione 7. Possiamo allora trovare in queste linee di indagine un primo punto fermo. Una coppia mista, pubblicamente riconosciuta che integra la cultura israeliana e quella palestinese, meticciandole, anche tra Oriente e Occidente, rappresenta, non solo una critica, ma in senso funzionalista, un processo di creazione/trasformazione e di adattamento/ibridazione di comunità culturali costrette a condividere ecologicamente spazi sociali e territori. Il fenomeno è molto simile all'inoculazione tra gli alberi. Due piante, anche di specie differenti, venendo in contatto, e sfregando la corteccia fino a consumarla e a mettere in contatto la loro parte viva, finiscono spesso con dare origine a un innesto naturale. Inoltre, considerando una qualunque società, non come un blocco statico, ma come l'espressione di un mutamento in continua evoluzione, dinamico e non totalmente ciclico, l'omosessualità, sia il comportamento omosessuale, che la vera e propria identificazione di gruppo e di orientamento, hanno una funzione molto simile alle anse di espansione dei fiumi, nei periodi di piena. Mi spiego: nella logica dell'inversione l'esistenza di gruppi omosessuali o di pratiche di tale natura è funzionale alla riaffermazione, alla ri-produzione e al mantenimento dei valori del gruppo dominante (in questo caso di matrice eterosessuale, maschile e femminile). L'emersione di una modalità permanente, in termini identitari e culturali, è certamente questione complessa e non solo dal punto di vista antropologico, ma è forse in relazione all'anomalo periodo di anomia che stiamo attraversando, alla generale insicurezza e alla conseguente ipertrofia di valori e modelli che i media diffondono ormai a livello planetario. Dunque l'omosessualità sembra avere tre funzioni importanti: la prima è quella della creazione di uno spazio intimo, che non è però quello privato associato alla femminilità, uno spazio che non gode di una valenza pubblica (maschile) e dei diritti conseguenti ma che risulta essere funzionale alla riproduzione della società in termini di idiomi, per una ri-appropriazione perversa dei confini. La seconda funzione è simmetricamente correlata alla prima e certamente più evidente: riguarda l'aspetto critico della riproduzione degli idiomi di genere e dello spazio (potere in relazione a ) ad esso associato. Essa rappresenta lo spazio di rottura, di incommensurabilità, di distanza tra l'ideale e il reale, la necessità continua della "parola", dell' "idioma" detti e ri-detti, continuamente ri-affermati. E' una funzione critica al potere, il quale rischierebbe altrimenti di essere autoreferenziale, a rischio di incancrenimento, funzione che lo obbliga a riaggiustare continuamente il tiro in relazione all'individuo, all'economia, alle parole, e a tutti gli input e ai suoi stessi output, nel processo di retroazione, nella logica di un equilibrio, di una complessità caotica e contingente 8 . La terza funzione è quella dell'inoculazione, che potremmo anche chiamare "ponte". Una coppia omosessuale mista, proprio per la sua marginalità sociale, non in senso morale ma funzionale, crea legami deboli9 e (socialmente) ritrattabili, perché, avendo la funzione di apripista, avvia il processo di creazione di categorie e prassi sociali nuove e terze, ma non avendo una generazione biologica che sia la sintesi delle due provenienze, non rischia di inserire nel tessuto sociale forze "altre", potenzialmente pericolose per l'identità del sistema e in definitiva per la sua stessa esistenza, pur permettendo appunto esperimenti e pratiche di tipo sociale, quali, banalmente, la convivenza. Le statistiche qualitative e quantitative sulla composizione delle coppie omosessuali sembrano confermare questa ipotesi, nonché il materiale etnografico raccolto e analizzato. Corpi, Islam e omosessualità La categoria dell'impuro L'incontro del mondo arabo con il messaggio del profeta ha radicalizzato una bipolarità che forse prima era più flessibile, come detto, almeno per l'orientamento di genere o semplicemente per le pratiche sessuali in generale. Assumiamo dal medioevo islamico come l'universo sociale, peraltro rimasto immutato da allora10 fosse stato distinto dalla teologia e dalla giurisprudenza in dhakar (sesso maschile) e ountha (sesso femminile), entità complementari ma ordinate secondo una gerarchia religiosa. Dhakar è un termine che rimanda l'idea di membro virile, di memoria e di radice, costruendo culturalmente il maschio come colui che ha ricevuto il deposito virile da Dio per la trasmissione del messaggio divino, come essere forte e sintesi di pene, ragione e fede. L'uomo è difettosamente memoria di Allah, che comunque rimane l'unico, pura trascendenza, verticalità assoluta e che soprattutto non va in coppia. Ountha rimanda invece l'idea di debolezza, erba verde, smemoratezza, ed è associata inconsciamente a Iblis, il senza pene per eccellenza. 58 Il giovane omosessuale, cresciuto nella pedagogia tribale, anche quando accetta di vivere come un luti, ha con il proprio corpo un rapporto molto particolare, quasi ossessivo; infatti fin da piccolo apprende la categoria dell'impurità. I suoi atti sono inconsapevolmente guidati dall'assimilazione del Corano. Bisogna però precisare che tale comportamento non affonda le radici nella psicologia individuale è proprio una sovradeterminazione culturale, uno spazio performativo e cognitivo. Non è l'atto sessuale, neanché se omofilo, ad essere considerato impuro, quanto piuttosto i liquidi organici quali il sangue (in analogia con il mestruo femminile), il liquido seminale maschile, gli escrementi, l'urina, le cui tracce devono essere lavate dal corpo per una esigenza metafisica. La cura del corpo occupa molto tempo nel giovane omosessuale, come in tutti i credenti, poiché, al di là della pratica, è necessario per mettersi davanti a Dio nella preghiera, attraverso le abluzioni (rituali)11 . picchiarlo con ogni possibile oggetto, compresi ferri arroventati, perché sorpreso in compagnia di un amico. Le immagini del processo della Queen Boat (celebratosi in Egitto), e salito all'attenzione per la grande quantità di imputati accusati12 di "atti immorali" 13, circolate clandestinamente sulla rete, pur sfocate, riportano particolari raccapriccianti. Le brevi testimonianze riportate sull'Internazionale e apparse su Telquel con i titolo di "Détenus pour déviance sexuelle" parlano da sole: "…una volta arrestati, i sospetti vengono torturati. In tre casi, dove si era stabilito che la vittima di un assassinio aveva avuto rapporti omosessuali, centinai di gay sono stati arrestati e torturati per strappargli confessioni e anche per sadiche rappresaglie…”. "Eravamo 300 o più. Ho visto torture incredibili. I lineamenti di un ragazzo, si chiamava Shadi, si distinguevano a malapena: aveva gli occhi gonfi, il volto sembrava un pallone da calcio per tutte le percosse che aveva ricevuto. Abbiamo visto un altro gay al quale avevano slogato una spalla. Gli avevano legato le mani dietro la schiena e l'avevano appeso al telaio della porta. Poi gli avevano legato una bombola di gas alle gambe. Dopo, nella cella, lo avevano ammanettato ad un anello conficcato per terra. Gli impedivano di andare al gabinetto. Lo hanno lasciato così per quattro giorni". L'articolo continua con i racconti di ustioni inferte, di scariche e morse nei genitali per tempi infiniti, di bottiglie impropriamente utilizzate. Il parlamento palestinese sta preparando una legge, che prevede però un iter lunghissimo prima della presentazione al premier, ma l'opposizione è grande poiché, spiega Isam Abdeen, docente universitario e consulente governativo, "se venisse approvata una legge simile, scoppierebbe una guerra civile", poiché continua "...non può essere considerata una forma di libertà, è piuttosto un'offesa...". Un teologo iraniano, recentemente interrogato sul tema da uno studente durante una conferenza universitaria, ha affermato che la giusta condanna per chi pratica gli atti omosessuali condannati da Corano e Sharia, dovrebbe "...essere tagliato in due partendo dalla testa". AIDS Nonostante questa cultura di cura del corpo, e la presenza dei media, la prevenzione ad opera delle associazioni omosessuali israeliane e non, secondo l'agenzia Reuters la diffusione del virus HIV tra gli arabi omosessuali negli strati più poveri della popolazione palestinese (e israeliana) è maggiore di quella che l'OMS ha stimato essere fino ad oggi in questa regione. L'ostilità culturale peggiora costantemente l'epidemia e la pressione sociale non migliora lo stato delle cose, poiché l'AIDS è tabuizzato e considerato, soprattutto dagli anziani, un castigo divino a motivo del proprio comportamento. Secondo il direttore del Centro AIDS di Hadassah i sieropositivi presenti nei territori palestinesi sono circa 200. Tortura Spesso in Palestina, come in altri paesi mussulmani quali l'Iran e l'Egitto, quando un omosessuale viene arrestato viene sottoposto a tortura. E' difficile capire - ci vorrebbe un indagine approfondita sul campo- se le forme di tortura, delle quali porterò esempi di seguito, possano inquadrarsi in un qualche discorso. Probabilmente sì. E' molto impressionante sentire parlare dell'argomento e sorge spontaneo chiedersi il perché di tanto odio, non giustificato a mio avviso neanche dalle categorie culturali che costituiscono l'identità di genere. La Umma virtuale: The Gaymiddleeast Community Molti omosessuali arabi e mussulmani sono emigrati all'estero, sia negli USA che in Europa e questo ha permesso recentemente la nascita di una fragile rete Web tutta palestinese. Il 21 marzo è stato deciso il suffisso che distinguerà i siti palestinesi (.ps). Mailing List appositamente dedicate esistono da tempo quali: [email protected], o la più recente [email protected] e numerose altre divise per regione geografica di provenienza e accomunate dalla comune matrice omosessuale, islamica e anche a volte palestinese. Esistono anche chat dedicate e siti che mettono in contatto omosessuali mussulmani tra loro, nel più puro stile occidentale. Decido di iscrivermi alla Mailing List [email protected] e dopo poco tempo vengo ammesso nel gruppo, nonostante le mie origini italiane e cristiane. Scelgo di non intervenire mai e semplicemente Ahmed ha 23 anni e vive in Israele dal 1998. In occasione dei funerali del padre è tornato in Cisgiorrdania, dove è stato fermato dalla polizia, condotto in caserma e picchiato. Ha passato l'intera notte immerso in una fossa piena di acqua di fogna, poi, in assenza di prove e di una confessione, è stato rilasciato. Mohamed racconta, e sono ancora ben visibili i segni delle ultime ore trascorse nella casa della sua famiglia, di essere stato legato ad una colonna dai fratelli e dai genitori, che hanno iniziato a 59 This group is conected and activated by gaymiddleeast.com - the biggest website for/about GLBT in the Middle East. You can join us and send your Add's / News / Stories and more, by this you will join the big revolution that GayMiddleEast.com creat on the net.We always need more information and participation to help us taking that revolution forward. The countries on http://www.gaymiddleeast.com : Bahrain, Egypt, Iran, Iraq, Israel, Jordan, Kuwait, Lebanon,Oman, Palestine, Qatar, Saudi Arabia, Syria, UA Emirates, Yemen. di osservare gli argomenti che vengono trattati. La Mailing List in questione rappresenta un'assoluta novità ed esiste da poco più di un anno. I parteciparti coprono tutto il medio oriente ed è aperta come leggiamo sullo stesso sito ai mussulmani dei seguenti paesi (Middle East). E' interessante notare la presenza di Israele. Il gruppo sembra essere di circa 40. Tre sono i sottogruppi. Quello dei moderatori e fondatori, gli assidui e gli occasionali che si dividono in arabi e non arabi. Sembra esserci una correlazione il numero dei presenti per Stato, la forma di governo e l'atteggiamento politico omofobico o omofilo di questi. In quei paesi dove vi è una persecuzione maggiore, troviamo nella Mailing List più rappresentanti, (es. Egitto, Siria, Iran), mentre sono praticamente assenti o quasi quelli dove vi è una comunità omosessuale con potere politico, visibilità o riconoscimento legale (es. Libano, Israele). L'età dei partecipanti va dai 18 ai 54 anni ma con una concentrazione e una moda attorno ai 27-32. I casi over 40 sembrano essere mussulmani europei naturalizzati all'estero, generalmente nei paesi anglofobi o avventurieri "esotici" occidentali. Gli argomenti trattati sono i più vari: dalla mercificazione sessuale, alla politica interna, alle vicende legate ai rapporti internazionali, prevalentemente statunitensi, alla religione e al rapporto tra vita mussulmana e omosessualità, nonché un buon livello di animazione culturale dedicata14. Il mio incontro con Nadr avviene una sera di quelle piovose in chat; sono solo e agli inizi della raccolta del materiale sugli omosessuali palestinesi. Dopo giorni di appostamento, durante i quali sperimento costantemente un senso di frustrazione nel vedere la stanza (Room) sempre vuota, e ad attendere invano che il responsabile di Agudah mi rinvii le risposte alle domande per le quali si era così gentilmente prestato, compare il suo nome e lo contatto. E' cordiale ma sembra avere una grande fretta. Nonostante ciò riusciamo a chattare la prima volta circa un'ora e anche altre volte. Ci scambiamo saltuariamente scarne e-mail. Scopro in seguito che riesce ad avere la disponibilità di una connessione una o due volte la settimana. Parla un pessimo inglese molto elementare. Mi chiede di inviargli una fotografia e sembra essere molto contento del fatto che un ragazzo italiano si interessi a lui per conoscere la vita dei palestinesi. Vive a Gaza e si definisce (sessualmente) top "…looda: i am top…". Riporto di seguito stralci di conversazione. W.: hi looda: hi W.: are you palestinian? looda: yas W.: wow looda: you W.: i am form italy looda: i am in gaza W.: i am a university student W.: i am looking for gay in palestina looda: wer ar you W.: now? looda: yas W.: at home in italy W.: milan W.: do u know it? looda: you love palastenyen W.: are you there? 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W.: to be gay there il forbidden, no? looda: i am not have poy frand W.: sorry... do you fell alone? looda: i am alone W.: any gay friend? looda: in gaza no mor gay …………………………….. looda: you comein gaza W.: i woul d like W.: i will do when possible W.: i never come there before looda: no possible looda: i com you ?? looda: you go in egypt W.: could you come to Italy? looda: i wil thet …………………………. W.: i will send an email from hot mail on monday, ok? looda: i am not have mor tokin english looda: ok W.: ok W.: i am leaving now looda: ok W.: bye Nadr, we hear soon W.: ciao looda: pye W.: bye bye W.: ehi... W.: ciao looda: ciao W.: :-) looda: pye Conclusioni Il cambio della condizioni di vita degli omosessuali palestinesi e non, e il riconoscimento dei loro diritti civili non potrà non passare attraverso un generale miglioramento della situazione in Medio Oriente, e attraverso un'evoluzione in senso pluralista e democratico degli stati islamici, in particolare della Palestina fonte di tanti conflitti. L'assetto democratico e parlamentare non è in ogni caso garanzia del buon esito di questo processo, come dimostrano le vicende politiche recenti. La vera sfida, come sempre è quella del dialogo culturale, e quello della costruzione di una via terza che sappia valorizzare gli aspetti migliori di tutte le parti in causa, per la costruzione di un nuovo umanesimo (poiché credo che questa parola non sia proprietà esclusiva di nessuna cultura, quanto piuttosto l'affermazione della bontà ontologica dell'essere umano e della sua capacità creativa). 61 L'operato delle associazioni israeliane, di quelle dei diritti umani, dell'OMS per quanto riguarda la prevenzione dell'AIDS e la riflessione antropologica (sessuale, politica e medica) porterà certamente quei frutti, i cui primi germogli cominciano ad intavvedersi. L'augurio è che ci si renda conto che i diritti degli omosessuali palestinesi non sono che uno dei tanti aspetti dei diritti dell'uomo, per migliore i quali è necessaria una adeguata attenzione politica e antropologica anche su questo argomento così specifico e forse poco accademico. Se anche alla comunità omosessuale mediorientale verrà offerta la possibilità di integrarsi nel rispetto del ruolo che tale forma di pratica e di identità incorporata sembra avere all'interno di tutti i gruppi umani, di tutte le società e non solo quelle islamiche e localizzate nell'area del Medio Oriente, avremo forse un mattone in più per pace e giustizia. Per ora ci rimane un campo di indagine antropologica interessante e fecondo per la comprensione non solo dei ruoli di genere, ma anche di come i sistemi e gli idiomi possono mutare anche in contesti fortemente religiosi e ortodossi. NOTE 1 Cfr Mauro Van Aken Chebel Malek, Le corp dans la tradition au Magreb, Parigi, PUF, 1984 3 Rivelazione spontanea pubblica o privata della propria omosessualità. 4 Situazione per la quale la condizione omosessuale di una persona diviene di dominio pubblico, anche in un contesto più privato, per motivi che prescindono dal suo consenso e dalla sua volontà. 5 Rani è misteriosamente scomparso dopo aver rilasciato questa breve intervista, secondo quanto riportano i suoi amici. 6 La carta rilasciata a chi gode dello status di rifugiato per discriminazione sessuale non è un vero e proprio permesso di soggiorno ma fornisce uno status ibrido e spesso non è rispettato dalla polizia. 7 Youssi and Jagger, Israele 2002 8 "Contingente" nel senso utilizzato da K. Popper 9 I legami deboli per loro natura creano ponti, secondo le recenti acquisizioni della teoria delle reti cfr. M. Bukanan 2004 10 Stesso destino per il Cristianesimo se si pensa che i manuali di morale sui quali si formano generazioni di sacerdoti fa ancora riferimento, per quanto guarda l'omosessualità, alle parole di San Girolamo (?) che nel Medioevo scriveva come …Dio la notte prima di incarnarsi nel seno della vergine Maria avesse voluto sterminare tutti i pervertiti sodomiti, per poter nascere in un mondo di puri … 11 Ritorna l'idea dell'incontro sessuale leggibile in chiave rituale. 12 I media riportano che le persone coinvolte negli arresti erano almeno 300. 13 Si parla di "atti immorali" perché l'omosessualità ufficialmente non esiste; essa è un'invenzione occidentale. 14 Così ben organizzata che a volte mi veniva il sospetto fosse stata commissionata da Amazon.com. 2 BIBLIOGRAFIA Libri Augè Marc, Poteri di vita poteri di morte. Introduzione a un'antropologia della repressione, Cortina editore, Milano, 2003. Chebel Malek, Le corp dans la tradition au Magreb, Parigi, PUF, 1984 Eickelmann, Antropologia del Medio Oriente. Fabietti Ugo, Culture in bilico antropologia del Medio Oriente, Bruno Mondadori, Milano, 2002. Herdt Gilbert, Guardian of the flutes, University of Chicago Press, 1994. Internazionale, "Essere gay nel mondo arabo", n° 546 - Anno 11 Mouhammed Shukri, Il pane nudo. Patanè Vincenzo, Arabi e noi. Amori gay nel Magreb, Derive Approdi, Roma, 2002. Recherches, Trois Milliards de Pervers. Grande Encyclopédie des Homosexualités, Francia, marzo 1973. 62 Said Edward, Orientalismo, Edizioni Feltrinelli. Van Aken Mauro, Facing Home. Palestinian Belonging in a Valley of Doubt, Shaker Publishing, 2003. Vercellin Giorgio, Istituzioni del mondo mussulmano, Einaudi, Torino 1996. Siti internet www.amnestyinternational.com www.gay.it www.gayarab.org www.gay.tv Filmati Yossi and Jagger, Israele, 2002. Filmati sul caso della Queen Boat. Tawfik Abu Wael, Yawmiyat A'hir, Diary of a Male Whore, video '14 col, Palestina, 2001, Middle Easter Cinemas. 4 Achab segnala... Afriche in movimento: seminari sull´Africa in Bicocca A partire da quest´anno, nell´ambito degli insegnamenti di antropologia della facoltà di sc. della formazione, verrà organizzato un seminario permanente sull´Africa dal titolo "Afriche in movimento". Si tratterà di una serie di incontri con studiosi italiani e stranieri con l´obiettivo di discutere sulle dinamiche politiche sociali e culturali dell'Africa contemporanea. Qui di seguito riportiamo i primi 3 incontri. Altri 3 verranno organizzati nel corso del secondo semestre. Luogo e orario verranno comunicati in seguito. 28 ottobre - Francesco Remotti (Università di Torino) Putrefazione e rigenerazione della vita nel bananeto nande 25 novembre - Ivo Quaranta (Università di Bologna) Politiche del silenzio: AIDS e nuove soggettività giovanili a Nso’ (Camerun) 14 dicembre - Georg Klute (Università di Bayreuth) La poesia della rivolta tuareg Per informazioni rivolgersi a: [email protected] 63 Se volete collaborare con la Rivista con vostri articoli o commentare, proporre temi di discussione o suggerimenti, scrivete a: [email protected] oppure a: [email protected] La versione on line della rivista è disponibile su www.studentibicocca.it/achab