A12
Dario Ippolito
Diritti e potere
Indagini sull’Illuminismo penale
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I edizione: ottobre 2012
La storia delle pene è sicuramente più orrenda ed infamante per l’umanità di
quanto non sia la storia dei
delitti: perché più spietate e
forse più numerose rispetto
a quelle prodotte dai delitti
sono state le violenze prodotte dalle pene; e perché,
mentre il delitto è di solito
una violenza occasionale e
talora impulsiva, la violenza
inflitta con la pena è sempre
programmata, consapevole,
organizzata da molti contro
uno. Contrariamente alla
favoleggiata funzione di difesa sociale, non è azzardato affermare che l’insieme
delle pene comminate nella
storia ha prodotto per il genere umano un costo di
sangue, di vite e di mortificazioni incomparabilmente
superiore a quello prodotto
dalla somma di tutti i delitti.
Luigi Ferrajoli, Diritto e
ragione
Indice
11
Introduzione. L’Illuminismo: una filosofia militante
21
Capitolo I
Il paradigma illuministico del potere limitato
1.1. Le basi filosofiche del costituzionalismo, 21 — 1.2. La libertà
attraverso il diritto, 25 — 1.3. Bilanciamento dei poteri e rappresentanza politica, 30
39
Capitolo II
Montesquieu e la centralità politica della
questione penale
2.1. L’esito politico di un dibattito filosofico, 39 — 2.2. Legislazione penale e libertà individuale, 45 — 2.3. Ordine naturale e diritto penale, 47 — 2.4. Il principio di omogeneità, 53 — 2.5. La
laicizzazione del diritto penale, 57 — 2.6. Il diritto penale mite, 66
77
Capitolo III
Beccaria, la pena di morte e la tentazione
dell’abolizionismo
3.1. Una pena illegittima e inutile, 77 — 3.2. Controversie filosofiche intorno al patibolo, 84 — 3.3. La tentazione
dell’abolizionismo, 94
7
8
105
Indice
Capitolo IV
Diritto e processo penale nell’Illuminismo
meridionale
4.1. La recezione delle idee di Beccaria nel Regno di Napoli, 105
— 4.2. Antonio Genovesi e il problema penale, 109 — 4.3. Divergenze teoriche e convergenze ideologiche, 113 — 4.4. Dialogando
con Beccaria, 119 — 4.5. Legalità della pena e certezza del diritto,
123 — 4.6. Processo penale e libertà civile in Filangieri e Pagano,
127 — 4.7. Prove legali e tortura giudiziaria, 134 — 4.8. Il valore
probatorio della confessione, 139 — 4.9. Una nuova epistemologia
giudiziaria, 143
Introduzione
L’Illuminismo: una filosofia militante
“Illuminismo” è una parola relativamente recente. Affermatasi nel lessico storiografico a partire dal tardo Ottocento, essa
denota il grande e composito movimento culturale che si sviluppò, lungo il corso del XVIII secolo, all’insegna del rifiuto del
principio di autorità, della critica della tradizione e della libera
ricerca intellettuale in ogni sfera dello scibile. La classica e icastica definizione kantiana dell’Illuminismo come «uscita
dell’uomo dallo stato di minorità» ne coglie pienamente la radicale carica emancipatrice, connettendola alla valorizzazione
dell’uso autonomo della ragione: «Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto
dell’Illuminismo»1.
Gli intellettuali che nel Settecento operarono ispirati da tale
divisa si sentivano partecipi di una stagione culturale dallo
straordinario rilievo storico, i cui progressivi traguardi erano rivendicati con fierezza e celebrati attraverso la metafora
(d’origine biblica, ma integralmente secolarizzata) della luce
che scaccia le tenebre: non più la luce della rivelazione ma
quella della filosofia; non più le tenebre del peccato, ma quelle
dell’ignoranza.
“Philosophie” prese a denominarsi, nel suo epicentro francese, la cultura delle Lumières. “Philosophes”, per antonomasia, si
1
I. KANT, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo (1784), in ID., Scritti
politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET, Torino 1965, p. 141.
11
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Introduzione
appellarono i suoi esponenti. Ciò non significa che essi condividessero una determinata dottrina filosofica: molteplici, differenti e non di rado confliggenti furono le posizioni teoriche e le
indicazioni normative maturate nel dibattito illuministico. La
comunione ideale riguardava invece la maniera di concepire e
praticare l’attività intellettuale; il modo di intendere la funzione
sociale del filosofo. Tale non era, agli occhi degli illuministi,
l’uomo di cultura ripiegato nell’universo speculativo della sua
dottrina. La riflessione filosofica doveva restare ancorata alla
realtà empirica e progredire per logica induttiva senza nulla
concedere allo “spirito di sistema” che aveva sedotto il razionalismo secentesco, trascinandolo — deduzione dopo deduzione
— nei cieli della metafisica.
La polemica contro le vane e sterili contemplazioni di una filosofia «che s’aggira nel nulla e non mette capo a nulla»2 ritorna insistentemente nelle pagine degli illuministi, che negano alla ragione umana la pretesa di bastare a se stessa nel viaggio
della conoscenza, richiamandola ad osservare i dati
dell’esperienza. Non si tratta solo di un abito epistemico: tale
postura antimetafisica è parte integrante del fondamentale
orientamento pragmatico che caratterizza lo stile di pensiero illuministico. Entro quest’ottica, il valore della riflessione teorica,
dell’indagine scientifica, dell’elaborazione ideale era misurato
col metro dell’utilità pratica, cioè del beneficio recato alla società. La bussola della filo–sofia doveva essere la fil–antropia:
il desiderio di contribuire alla felicità degli uomini, additando
gli ostacoli che ne impedivano il perseguimento e progettando
gli strumenti del loro superamento.
Si
integravano
così
alla
vocazione
pragmatica
dell’Illuminismo altri due suoi elementi connotativi: il carattere
essenzialmente laico e la dirompente attitudine critica. L’uomo
e il mondo erano gli oggetti del sapere che importava coltivare;
umani e mondani erano i valori e gli obiettivi che importava
realizzare. L’Illuminismo accelerò e incrementò il processo di
2
E. BONNOT DE CONDILLAC, Cours d’études pour l’instruction du Prince de
Parme (1775), Du Villard fils et Nouffer, Genève 1780, vol. XI, p. 498.
L’Illuminismo: una filosofia militante
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laicizzazione della cultura avviatosi con l’Umanesimo, il Rinascimento e la Rivoluzione scientifica. L’egemonia teologica sulla riflessione morale e politica si sgretolò definitivamente. Accantonati — come estranei al dominio della ragione — i problemi religiosi della salvezza ultraterrena e della giustizia divina, i philosophes si occuparono — come se Dio non ci fosse —
della giustizia tra gli uomini e della felicità su questa terra.
Ogni aspetto della realtà sociale fu messo in discussione. La
critica dell’autorità e della tradizione investì tutte le istituzioni,
le gerarchie, le prassi, le convenzioni e i modelli di comportamento ritenuti sprovvisti di giustificazione razionale. Il vecchio
e rispettato monito che suggeriva di parlare parum de Deo nihil
de rege fu rigettato recisamente: dapprima la religione e poi
l’assetto del potere statale furono sottoposti al vaglio critico della ragione. Deistica nel suo orientamento maggioritario, atea e
materialistica nelle sue componenti più radicali, la cultura dei
Lumi demistificò i sistemi positivi di credenza e gli apparati mitologici della religione, indagandone la genesi storica; attaccò
con veemenza le istituzioni ecclesiastiche, contestandone i privilegi e il potere; imputò alla Chiesa la responsabilità dolosa
dell’ignoranza popolare che frenava il progresso civile, favorendo il perdurare dell’iniquità sociale.
Sul versante politico, il movimento illuminista — benché
ideologicamente multanime — si contraddistinse per un comune profilo accentuatamente riformatore, le cui istanze di cambiamento furono intercettate solo in parte dagli esperimenti politici del dispotismo illuminato (che infatti, dopo aver suscitato
entusiastiche speranze, produsse cocenti delusioni). Una nuova
visione della politica alimentava la riflessione illuministica. Una
visione fondata sul paradigma del moderno giusnaturalismo
contrattualista, la cui antropologia egualitaria rappresentava
l’uomo come soggetto titolare di diritti naturali.
Dal riconoscimento del carattere intangibile della vita, della
libertà e della proprietà degli individui discendeva una concezione dello Stato antitetica rispetto a quella accreditata dalla
tradizione: sulla deontologia dell’obbedienza, che prescriveva i
doveri dei sudditi nei confronti del sovrano, si imponeva la teo-
14
Introduzione
rizzazione del dovere del sovrano di rispettare e proteggere i diritti del soggetto. Conseguentemente, l’idea della potestas legibus soluta era respinta e, di contro, si stagliava la consapevolezza che per tutelare gli individui era necessario regolare, limitare
e controllare l’esercizio del potere. È in questa prospettiva che
si inscrivono le teorie della sovranità della legge, della divisione
dei poteri e della rappresentanza politica, attraverso cui si profila il modello di Stato che orienta le proposte riformatrici e
l’impegno progettuale degli intellettuali dei Lumi, anche nel loro dialogo con i monarchi assoluti.
L’Illuminismo ebbe dimensioni europee e riverberi extracontinentali. Benché le sue radici affondino nella cultura scientifica, filosofica e politica dell’Inghilterra del Seicento, il suo
centro principale fu la Francia: per tutto il XVIII secolo
l’orizzonte cosmopolitico della “Repubblica delle Lettere” fu
percorso e colorato dai raggi vividi delle Lumières. Il legame
con la cultura inglese fu particolarmente intenso nei primi e
maggiori esponenti dell’Illuminismo francese: Voltaire (1694–
1778) e Montesquieu (1689–1755). Costretto a rifugiarsi in Inghilterra per sfuggire al carcere, Voltaire sfruttò il forzato esilio
(1726–1729) per stringere rapporti con scienziati, scrittori e
uomini politici di tendenza liberale. Tornato in patria, si impegnò in un’opera di divulgazione delle idee di Locke (1632–
1704) e di Newton (1643–1727), all’interno di una complessiva
proposta di rinnovamento culturale e politico che guardava
all’Inghilterra come modello di società. Nei lunghi decenni della sua indefessa militanza civile — conclusasi solo con la morte
nel 1778 — egli combatté il dogmatismo e il fanatismo religioso, esaltando il valore della tolleranza; contestò ogni forma di
potere arbitrario, in nome della libertà; indicò prospettive riformatrici nell’organizzazione della convivenza sociale, avvertendo che la marcia del progresso dipende dalle gambe degli uomini.
Nell’Esprit des lois (1748) di Montesquieu — che ai suoi
esordi letterari aveva graffiato la coscienza della società francese ritraendola nelle dissacranti pagine delle Lettre persanes
(1721) — il modello inglese trasfigurava in una teoria costitu-
L’Illuminismo: una filosofia militante
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zionale destinata a influenzare la cultura e le scelte politiche
delle generazioni successive. Le istituzioni d’oltremanica, per
Montesquieu, garantivano la libertà dei cittadini poiché impedivano gli abusi del potere attraverso un sistema di pesi e contrappesi, composto in modo che il potere arrestasse il potere.
Recuperando e sviluppando tesi di Locke e di Bolinbroke
(1678–1651), Montesquieu affermò la necessità di separare le
diverse funzioni potestative dello Stato, attribuendole a organi
distinti, per mettere al riparo i diritti degli individui dalla minaccia del dispotismo.
Alla metà del XVIII secolo, l’Illuminismo francese era ormai
un fiume in piena, il cui impeto spaventava i poteri forti
dell’Ancien régime. Emblematici appaiono i tentativi di fermare
la grande impresa editoriale e culturale dell’Encyclopédie
(1750–1766), che sotto la direzione di Diderot (1713–1784) e
d’Alembert (1717–1783) coinvolse oltre centocinquanta intellettuali, tra cui spiccavano le figure più rappresentative delle
Lumières. Dagli ambienti ecclesiastici, cortigiani, istituzionali si
levò a più riprese la denuncia delle idee circolanti nei volumi
dell’opera, il cui carattere eterodosso era percepito come
un’insidia per l’ordine religioso e politico. Effettivamente, sotto
un prudenziale velo intessuto di testi anodini e conformisti, traspariva l’insistita polemica contro la Chiesa cattolica e
l’avversione all’assolutismo monarchico, eroso nei suoi contrafforti ideologici da un discorso politico che poneva il consenso
dei governati a principio di legittimazione del potere e propugnava l’introduzione di istituzioni rappresentative a fianco
dell’autorità regia.
Approdi ben più eversivi ebbe la riflessione politica di Jean–
Jacques Rousseau (1712–1778), che ruppe il sodalizio intellettuale con gli encyclopédistes nella seconda metà degli anni Cinquanta. La sua teoria del Contratto sociale (1762), muovendo
dai postulati dell’uguaglianza e della libertà degli uomini nello
stato di natura, giungeva a concepire un paradigma di società
politica radicalmente democratico, che investiva direttamente il
popolo del potere sovrano di fare le leggi. L’uguaglianza nella
cittadinanza e la libertà come autonomia erano i cardini di un
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Introduzione
repubblicanesimo che si nutriva di esempi antichi e si apriva a
prospettive palingenetiche, riflettendo, nelle sue istanze di giustizia sociale e di rigenerazione morale, orientamenti diffusi
nella cultura delle Lumières.
La circolazione internazionale delle idee illuministiche sfruttò una molteplicità di veicoli comunicativi. Giocarono un ruolo
importante le istituzioni culturali e i nuovi luoghi della socialità
borghese. Si moltiplicarono le accademie, le società scientifiche, le logge massoniche, i salotti intellettuali, i caffè, che mettevano a contatto uomini, esperienze, saperi diversi, favorendo
le opportunità di dialogo e di lettura. Il mercato librario si
espanse considerevolmente beneficiando dei progressi della
scolarizzazione e dell’alfabetismo. Crebbe in particolare la produzione e il commercio di opere di divulgazione che facilitavano l’accesso ai più diversi campi della conoscenza. La stampa
periodica, con la sua agilità e la sua fruibilità, si impose — a
partire dall’Inghilterra dello «Spectator» e della «Review» —
quale principale strumento di informazione e formazione. Una
miriade di gazzette politiche e giornali letterari proliferò in tutta
Europa.
Attraverso tutti questi canali andò formandosi una nuova
dimensione della vita sociale: l’opinione pubblica, la cui crescente consistenza cominciò ad assumere un peso politico di
fronte ai governi. Il movimento dei Lumi si inserì in questo
processo di sviluppo della società civile, promuovendolo e indirizzandolo. I suoi esponenti, dibattendo pubblicamente di questioni inerenti alla vita pubblica, si rivolgevano direttamente
all’opinione pubblica, con un’intenzione formativa e pedagogica. Impegnati a costruire una coscienza collettiva avvertita e affrancata dalla tutela dei poteri tradizionali, gli illuministi incarnarono il prototipo del moderno intellettuale, che spende nella
vita activa la propria capacità riflessiva. L’impatto sociale della
presenza nella sfera pubblica di questi nuovi intellettuali variò
sensibilmente da paese a paese. In Francia, la diffusione del
pensiero critico delle Lumières preparò il terreno culturale su
cui attecchì l’albero della Rivoluzione.
L’Illuminismo: una filosofia militante
17
Centri vivaci dell’articolato e poliedrico dibattito illuministico furono anche l’area germanica e la Penisola italiana.
L’Aufklärung, esaltato da Kant alla fine del secolo, ebbe un precocissimo esordio in ambito giuridico con Thomasius (1655–
1728), che rinnovò in senso riformatore la moderna dottrina del
diritto naturale. Direttamente influenzato dai modelli francesi fu
invece il circolo illuminista lombardo dell’Accademia dei Pugni, che sotto la guida di Pietro Verri (1728–1797) si lanciò nel
brillante esperimento pubblicistico del Caffè (1764–1766). Da
questo dinamico ambiente culturale scaturì una dei testi più
rappresentative del movimento illuministico europeo: Dei delitti
e delle pene (1764) di Cesare Beccaria (1738–1794).
Sviluppando e radicalizzando la dottrine penali di Montesquieu, il giovane patrizio milanese denunciò le storture e le
iniquità del sistema punitivo d’antico regime, contestando il carattere confessionale delle proibizioni, la ferocia delle punizioni, la barbarie della procedura e l’arbitrarietà dei giudizi. Nella
pars construens del suo discorso, egli sviluppò una teoria garantistica rivolta alla limitazione del potere statuale e
all’espansione della libertà civile. Accolto dall’entusiasmo dei
philosophes e subito tradotto in francese, Dei delitti suscitò un
vasto dibattito internazionale sulla necessità della riforma del
diritto penale e dell’ordinamento giuridico in generale.
Collegando la sicurezza dei diritti soggettivi alla certezza del
diritto oggettivo, gli illuministi contestarono il sistema multilivello delle fonti e degli ordinamenti d’origine medievale, additandone gli effetti nel caos normativo e nell’arbitrio giudiziario.
Data la congerie di diritti locali, di particolaristiche normative
cetuali, di massime giurisprudenziali e di autorità dottrinali, fiorite nei secoli intorno ai rami del diritto romano, del diritto canonico, del diritto feudale, ecc., la funzione di ius dicere si risolveva nel potere di ius dare. Nella confusione del diritto vigente, gli organi giurisdizionali disponevano pienamente del diritto vivente. Contro il disordine delle fonti e il potere discrezionale dei giudici, gli illuministi propugnarono il completo
rinnovamento legislativo del diritto — delle sue forme e dei
suoi contenuti — attraverso la produzione di testi normativi uni-
18
Introduzione
tari, completi e coerenti, composti da regole chiare, generali e
astratte, dedotte dai dictamina rectae rationis
Proprio in ambito penale la lotta per la codificazione del diritto si caricava di implicazioni politiche particolarmente rilevanti. La sola affermazione del principio di legalità nullum crimen et nulla poena sine lege valeva a delegittimare ab imo i sistemi punitivi esistenti. Gli illuministi misero a fuoco la questione penale come questione cruciale dell’ordine civile, nella
piena consapevolezza della tragicità del potere di punire: potere
terribile, eppure necessario. Necessario perché in assenza di
norme disciplinanti la convivenza sociale rafforzate dalla sanzione penale pubblica, la vita, l’integrità e la libertà delle persone restano esposte alla violenza privata, nel vigore della legge
del più forte. Terribile perché tale potere, pur giustificandosi in
base al fine della salvaguardia di quei diritti, invade la sfera di
immunità da essi costituita, stabilendo le condizioni della loro
privazione.
Il disegno di un paradigma statuale caratterizzato dalla subordinazione della potestà pubblica alla legge, in funzione della
tutela dei soggetti, trovava così nella qualificazione dei reati,
nella definizione delle pene, nell’organizzazione dei giudizi un
banco di prova cruciale e decisivo. Nella riflessione illuministica sui limiti del potere punitivo dello Stato il campo del proibibile era circoscritto dall’affermazione dei principi di materialità,
offensività e responsabilità personale, che vietavano la produzione di norme costitutive di status criminali e sottraevano
l’identità soggettiva al disciplinamento penale. La gamma delle
punizioni comminabili trovava invece i suoi criteri determinativi nei principi di necessità, proporzionalità e umanità della pena
che escludevano l’efferatezza punitiva e imponevano la modulazione della severità delle pene lungo la scala della gravità dei
delitti.
Se la depenalizzazione dei comportamenti non qualificabili
come reati e la mitigazione del sistema penale erano le principali rivendicazioni sul versante del diritto sostanziale, per quanto
riguarda il processo la cultura giuridica dei Lumi investì con
tutto il vigore della sua critica demolitrice i pilastri
L’Illuminismo: una filosofia militante
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dell’inquisitio di matrice romano-canonica: ovvero un procedura penale fondata sulla carcerazione preventiva dell’accusato, la
segretezza dell’istruzione probatoria, la posizione di inferiorità
della difesa rispetto all’accusa e la confusione tra organi requirenti e organi giudicanti. La proposta riformatrice si legava
all’elaborazione teorica di un antitetico paradigma garantista: il
processo accusatorio, ancorato alla presunzione di innocenza e
strutturato sulla parità e il contradditorio tra le parti, sulla pubblicità e l’oralità della procedura, sulla terzietà e imparzialità
del giudice.
Le indagini sull’Illuminismo penale raccolte nelle pagine
che seguono sono focalizzate su tematiche e figure particolarmente rilevanti nel dibattito giuspolitico settecentesco. Il primo
capitolo, dedicato all’illustrazione del paradigma illuministico
dello Stato sub lege, è un breve prologo, funzionale a evidenziare il nesso tra costituzionalismo e garantismo. Il secondo capitolo esamina la filosofia della pena di Montesquieu, cercando di
elucidarne alcuni aspetti controversi. Nel capitolo successivo, è
affrontato il problema della pena di morte in Beccaria, a partire
dall’analisi dell’argomentazione sviluppata nel celebre paragrafo XXVIII di Dei delitti e delle pene. L’ultimo capitolo è dedicato alla riflessione sulla questione penale dei tre maggiori esponenti dell’Illuminismo meridionale: Antonio Genovesi (1713–
1769), Gaetano Filangieri (1753–1788) e Mario Pagano (1748–
1799).
Questo libro ha una sola ambizione: quella di essere un convincente invito alla lettura di altri libri. Libri che furono scritti
senza dimenticare che «l’importante non è far leggere, ma far
pensare»3.
3
Ch.L. de MONTESQUIEU, Lo Spirito delle leggi (1748), a cura di R. Derathé, Rizzoli, Milano 1996, l. XI, cap. XX, p. 340.