A12 Dario Ippolito Diritti e potere Indagini sull’Illuminismo penale Copyright © MMXII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 isbn 978-88-548-5493-2 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: ottobre 2012 La storia delle pene è sicuramente più orrenda ed infamante per l’umanità di quanto non sia la storia dei delitti: perché più spietate e forse più numerose rispetto a quelle prodotte dai delitti sono state le violenze prodotte dalle pene; e perché, mentre il delitto è di solito una violenza occasionale e talora impulsiva, la violenza inflitta con la pena è sempre programmata, consapevole, organizzata da molti contro uno. Contrariamente alla favoleggiata funzione di difesa sociale, non è azzardato affermare che l’insieme delle pene comminate nella storia ha prodotto per il genere umano un costo di sangue, di vite e di mortificazioni incomparabilmente superiore a quello prodotto dalla somma di tutti i delitti. Luigi Ferrajoli, Diritto e ragione Indice 11 Introduzione. L’Illuminismo: una filosofia militante 21 Capitolo I Il paradigma illuministico del potere limitato 1.1. Le basi filosofiche del costituzionalismo, 21 — 1.2. La libertà attraverso il diritto, 25 — 1.3. Bilanciamento dei poteri e rappresentanza politica, 30 39 Capitolo II Montesquieu e la centralità politica della questione penale 2.1. L’esito politico di un dibattito filosofico, 39 — 2.2. Legislazione penale e libertà individuale, 45 — 2.3. Ordine naturale e diritto penale, 47 — 2.4. Il principio di omogeneità, 53 — 2.5. La laicizzazione del diritto penale, 57 — 2.6. Il diritto penale mite, 66 77 Capitolo III Beccaria, la pena di morte e la tentazione dell’abolizionismo 3.1. Una pena illegittima e inutile, 77 — 3.2. Controversie filosofiche intorno al patibolo, 84 — 3.3. La tentazione dell’abolizionismo, 94 7 8 105 Indice Capitolo IV Diritto e processo penale nell’Illuminismo meridionale 4.1. La recezione delle idee di Beccaria nel Regno di Napoli, 105 — 4.2. Antonio Genovesi e il problema penale, 109 — 4.3. Divergenze teoriche e convergenze ideologiche, 113 — 4.4. Dialogando con Beccaria, 119 — 4.5. Legalità della pena e certezza del diritto, 123 — 4.6. Processo penale e libertà civile in Filangieri e Pagano, 127 — 4.7. Prove legali e tortura giudiziaria, 134 — 4.8. Il valore probatorio della confessione, 139 — 4.9. Una nuova epistemologia giudiziaria, 143 Introduzione L’Illuminismo: una filosofia militante “Illuminismo” è una parola relativamente recente. Affermatasi nel lessico storiografico a partire dal tardo Ottocento, essa denota il grande e composito movimento culturale che si sviluppò, lungo il corso del XVIII secolo, all’insegna del rifiuto del principio di autorità, della critica della tradizione e della libera ricerca intellettuale in ogni sfera dello scibile. La classica e icastica definizione kantiana dell’Illuminismo come «uscita dell’uomo dallo stato di minorità» ne coglie pienamente la radicale carica emancipatrice, connettendola alla valorizzazione dell’uso autonomo della ragione: «Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo»1. Gli intellettuali che nel Settecento operarono ispirati da tale divisa si sentivano partecipi di una stagione culturale dallo straordinario rilievo storico, i cui progressivi traguardi erano rivendicati con fierezza e celebrati attraverso la metafora (d’origine biblica, ma integralmente secolarizzata) della luce che scaccia le tenebre: non più la luce della rivelazione ma quella della filosofia; non più le tenebre del peccato, ma quelle dell’ignoranza. “Philosophie” prese a denominarsi, nel suo epicentro francese, la cultura delle Lumières. “Philosophes”, per antonomasia, si 1 I. KANT, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo (1784), in ID., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET, Torino 1965, p. 141. 11 12 Introduzione appellarono i suoi esponenti. Ciò non significa che essi condividessero una determinata dottrina filosofica: molteplici, differenti e non di rado confliggenti furono le posizioni teoriche e le indicazioni normative maturate nel dibattito illuministico. La comunione ideale riguardava invece la maniera di concepire e praticare l’attività intellettuale; il modo di intendere la funzione sociale del filosofo. Tale non era, agli occhi degli illuministi, l’uomo di cultura ripiegato nell’universo speculativo della sua dottrina. La riflessione filosofica doveva restare ancorata alla realtà empirica e progredire per logica induttiva senza nulla concedere allo “spirito di sistema” che aveva sedotto il razionalismo secentesco, trascinandolo — deduzione dopo deduzione — nei cieli della metafisica. La polemica contro le vane e sterili contemplazioni di una filosofia «che s’aggira nel nulla e non mette capo a nulla»2 ritorna insistentemente nelle pagine degli illuministi, che negano alla ragione umana la pretesa di bastare a se stessa nel viaggio della conoscenza, richiamandola ad osservare i dati dell’esperienza. Non si tratta solo di un abito epistemico: tale postura antimetafisica è parte integrante del fondamentale orientamento pragmatico che caratterizza lo stile di pensiero illuministico. Entro quest’ottica, il valore della riflessione teorica, dell’indagine scientifica, dell’elaborazione ideale era misurato col metro dell’utilità pratica, cioè del beneficio recato alla società. La bussola della filo–sofia doveva essere la fil–antropia: il desiderio di contribuire alla felicità degli uomini, additando gli ostacoli che ne impedivano il perseguimento e progettando gli strumenti del loro superamento. Si integravano così alla vocazione pragmatica dell’Illuminismo altri due suoi elementi connotativi: il carattere essenzialmente laico e la dirompente attitudine critica. L’uomo e il mondo erano gli oggetti del sapere che importava coltivare; umani e mondani erano i valori e gli obiettivi che importava realizzare. L’Illuminismo accelerò e incrementò il processo di 2 E. BONNOT DE CONDILLAC, Cours d’études pour l’instruction du Prince de Parme (1775), Du Villard fils et Nouffer, Genève 1780, vol. XI, p. 498. L’Illuminismo: una filosofia militante 13 laicizzazione della cultura avviatosi con l’Umanesimo, il Rinascimento e la Rivoluzione scientifica. L’egemonia teologica sulla riflessione morale e politica si sgretolò definitivamente. Accantonati — come estranei al dominio della ragione — i problemi religiosi della salvezza ultraterrena e della giustizia divina, i philosophes si occuparono — come se Dio non ci fosse — della giustizia tra gli uomini e della felicità su questa terra. Ogni aspetto della realtà sociale fu messo in discussione. La critica dell’autorità e della tradizione investì tutte le istituzioni, le gerarchie, le prassi, le convenzioni e i modelli di comportamento ritenuti sprovvisti di giustificazione razionale. Il vecchio e rispettato monito che suggeriva di parlare parum de Deo nihil de rege fu rigettato recisamente: dapprima la religione e poi l’assetto del potere statale furono sottoposti al vaglio critico della ragione. Deistica nel suo orientamento maggioritario, atea e materialistica nelle sue componenti più radicali, la cultura dei Lumi demistificò i sistemi positivi di credenza e gli apparati mitologici della religione, indagandone la genesi storica; attaccò con veemenza le istituzioni ecclesiastiche, contestandone i privilegi e il potere; imputò alla Chiesa la responsabilità dolosa dell’ignoranza popolare che frenava il progresso civile, favorendo il perdurare dell’iniquità sociale. Sul versante politico, il movimento illuminista — benché ideologicamente multanime — si contraddistinse per un comune profilo accentuatamente riformatore, le cui istanze di cambiamento furono intercettate solo in parte dagli esperimenti politici del dispotismo illuminato (che infatti, dopo aver suscitato entusiastiche speranze, produsse cocenti delusioni). Una nuova visione della politica alimentava la riflessione illuministica. Una visione fondata sul paradigma del moderno giusnaturalismo contrattualista, la cui antropologia egualitaria rappresentava l’uomo come soggetto titolare di diritti naturali. Dal riconoscimento del carattere intangibile della vita, della libertà e della proprietà degli individui discendeva una concezione dello Stato antitetica rispetto a quella accreditata dalla tradizione: sulla deontologia dell’obbedienza, che prescriveva i doveri dei sudditi nei confronti del sovrano, si imponeva la teo- 14 Introduzione rizzazione del dovere del sovrano di rispettare e proteggere i diritti del soggetto. Conseguentemente, l’idea della potestas legibus soluta era respinta e, di contro, si stagliava la consapevolezza che per tutelare gli individui era necessario regolare, limitare e controllare l’esercizio del potere. È in questa prospettiva che si inscrivono le teorie della sovranità della legge, della divisione dei poteri e della rappresentanza politica, attraverso cui si profila il modello di Stato che orienta le proposte riformatrici e l’impegno progettuale degli intellettuali dei Lumi, anche nel loro dialogo con i monarchi assoluti. L’Illuminismo ebbe dimensioni europee e riverberi extracontinentali. Benché le sue radici affondino nella cultura scientifica, filosofica e politica dell’Inghilterra del Seicento, il suo centro principale fu la Francia: per tutto il XVIII secolo l’orizzonte cosmopolitico della “Repubblica delle Lettere” fu percorso e colorato dai raggi vividi delle Lumières. Il legame con la cultura inglese fu particolarmente intenso nei primi e maggiori esponenti dell’Illuminismo francese: Voltaire (1694– 1778) e Montesquieu (1689–1755). Costretto a rifugiarsi in Inghilterra per sfuggire al carcere, Voltaire sfruttò il forzato esilio (1726–1729) per stringere rapporti con scienziati, scrittori e uomini politici di tendenza liberale. Tornato in patria, si impegnò in un’opera di divulgazione delle idee di Locke (1632– 1704) e di Newton (1643–1727), all’interno di una complessiva proposta di rinnovamento culturale e politico che guardava all’Inghilterra come modello di società. Nei lunghi decenni della sua indefessa militanza civile — conclusasi solo con la morte nel 1778 — egli combatté il dogmatismo e il fanatismo religioso, esaltando il valore della tolleranza; contestò ogni forma di potere arbitrario, in nome della libertà; indicò prospettive riformatrici nell’organizzazione della convivenza sociale, avvertendo che la marcia del progresso dipende dalle gambe degli uomini. Nell’Esprit des lois (1748) di Montesquieu — che ai suoi esordi letterari aveva graffiato la coscienza della società francese ritraendola nelle dissacranti pagine delle Lettre persanes (1721) — il modello inglese trasfigurava in una teoria costitu- L’Illuminismo: una filosofia militante 15 zionale destinata a influenzare la cultura e le scelte politiche delle generazioni successive. Le istituzioni d’oltremanica, per Montesquieu, garantivano la libertà dei cittadini poiché impedivano gli abusi del potere attraverso un sistema di pesi e contrappesi, composto in modo che il potere arrestasse il potere. Recuperando e sviluppando tesi di Locke e di Bolinbroke (1678–1651), Montesquieu affermò la necessità di separare le diverse funzioni potestative dello Stato, attribuendole a organi distinti, per mettere al riparo i diritti degli individui dalla minaccia del dispotismo. Alla metà del XVIII secolo, l’Illuminismo francese era ormai un fiume in piena, il cui impeto spaventava i poteri forti dell’Ancien régime. Emblematici appaiono i tentativi di fermare la grande impresa editoriale e culturale dell’Encyclopédie (1750–1766), che sotto la direzione di Diderot (1713–1784) e d’Alembert (1717–1783) coinvolse oltre centocinquanta intellettuali, tra cui spiccavano le figure più rappresentative delle Lumières. Dagli ambienti ecclesiastici, cortigiani, istituzionali si levò a più riprese la denuncia delle idee circolanti nei volumi dell’opera, il cui carattere eterodosso era percepito come un’insidia per l’ordine religioso e politico. Effettivamente, sotto un prudenziale velo intessuto di testi anodini e conformisti, traspariva l’insistita polemica contro la Chiesa cattolica e l’avversione all’assolutismo monarchico, eroso nei suoi contrafforti ideologici da un discorso politico che poneva il consenso dei governati a principio di legittimazione del potere e propugnava l’introduzione di istituzioni rappresentative a fianco dell’autorità regia. Approdi ben più eversivi ebbe la riflessione politica di Jean– Jacques Rousseau (1712–1778), che ruppe il sodalizio intellettuale con gli encyclopédistes nella seconda metà degli anni Cinquanta. La sua teoria del Contratto sociale (1762), muovendo dai postulati dell’uguaglianza e della libertà degli uomini nello stato di natura, giungeva a concepire un paradigma di società politica radicalmente democratico, che investiva direttamente il popolo del potere sovrano di fare le leggi. L’uguaglianza nella cittadinanza e la libertà come autonomia erano i cardini di un 16 Introduzione repubblicanesimo che si nutriva di esempi antichi e si apriva a prospettive palingenetiche, riflettendo, nelle sue istanze di giustizia sociale e di rigenerazione morale, orientamenti diffusi nella cultura delle Lumières. La circolazione internazionale delle idee illuministiche sfruttò una molteplicità di veicoli comunicativi. Giocarono un ruolo importante le istituzioni culturali e i nuovi luoghi della socialità borghese. Si moltiplicarono le accademie, le società scientifiche, le logge massoniche, i salotti intellettuali, i caffè, che mettevano a contatto uomini, esperienze, saperi diversi, favorendo le opportunità di dialogo e di lettura. Il mercato librario si espanse considerevolmente beneficiando dei progressi della scolarizzazione e dell’alfabetismo. Crebbe in particolare la produzione e il commercio di opere di divulgazione che facilitavano l’accesso ai più diversi campi della conoscenza. La stampa periodica, con la sua agilità e la sua fruibilità, si impose — a partire dall’Inghilterra dello «Spectator» e della «Review» — quale principale strumento di informazione e formazione. Una miriade di gazzette politiche e giornali letterari proliferò in tutta Europa. Attraverso tutti questi canali andò formandosi una nuova dimensione della vita sociale: l’opinione pubblica, la cui crescente consistenza cominciò ad assumere un peso politico di fronte ai governi. Il movimento dei Lumi si inserì in questo processo di sviluppo della società civile, promuovendolo e indirizzandolo. I suoi esponenti, dibattendo pubblicamente di questioni inerenti alla vita pubblica, si rivolgevano direttamente all’opinione pubblica, con un’intenzione formativa e pedagogica. Impegnati a costruire una coscienza collettiva avvertita e affrancata dalla tutela dei poteri tradizionali, gli illuministi incarnarono il prototipo del moderno intellettuale, che spende nella vita activa la propria capacità riflessiva. L’impatto sociale della presenza nella sfera pubblica di questi nuovi intellettuali variò sensibilmente da paese a paese. In Francia, la diffusione del pensiero critico delle Lumières preparò il terreno culturale su cui attecchì l’albero della Rivoluzione. L’Illuminismo: una filosofia militante 17 Centri vivaci dell’articolato e poliedrico dibattito illuministico furono anche l’area germanica e la Penisola italiana. L’Aufklärung, esaltato da Kant alla fine del secolo, ebbe un precocissimo esordio in ambito giuridico con Thomasius (1655– 1728), che rinnovò in senso riformatore la moderna dottrina del diritto naturale. Direttamente influenzato dai modelli francesi fu invece il circolo illuminista lombardo dell’Accademia dei Pugni, che sotto la guida di Pietro Verri (1728–1797) si lanciò nel brillante esperimento pubblicistico del Caffè (1764–1766). Da questo dinamico ambiente culturale scaturì una dei testi più rappresentative del movimento illuministico europeo: Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria (1738–1794). Sviluppando e radicalizzando la dottrine penali di Montesquieu, il giovane patrizio milanese denunciò le storture e le iniquità del sistema punitivo d’antico regime, contestando il carattere confessionale delle proibizioni, la ferocia delle punizioni, la barbarie della procedura e l’arbitrarietà dei giudizi. Nella pars construens del suo discorso, egli sviluppò una teoria garantistica rivolta alla limitazione del potere statuale e all’espansione della libertà civile. Accolto dall’entusiasmo dei philosophes e subito tradotto in francese, Dei delitti suscitò un vasto dibattito internazionale sulla necessità della riforma del diritto penale e dell’ordinamento giuridico in generale. Collegando la sicurezza dei diritti soggettivi alla certezza del diritto oggettivo, gli illuministi contestarono il sistema multilivello delle fonti e degli ordinamenti d’origine medievale, additandone gli effetti nel caos normativo e nell’arbitrio giudiziario. Data la congerie di diritti locali, di particolaristiche normative cetuali, di massime giurisprudenziali e di autorità dottrinali, fiorite nei secoli intorno ai rami del diritto romano, del diritto canonico, del diritto feudale, ecc., la funzione di ius dicere si risolveva nel potere di ius dare. Nella confusione del diritto vigente, gli organi giurisdizionali disponevano pienamente del diritto vivente. Contro il disordine delle fonti e il potere discrezionale dei giudici, gli illuministi propugnarono il completo rinnovamento legislativo del diritto — delle sue forme e dei suoi contenuti — attraverso la produzione di testi normativi uni- 18 Introduzione tari, completi e coerenti, composti da regole chiare, generali e astratte, dedotte dai dictamina rectae rationis Proprio in ambito penale la lotta per la codificazione del diritto si caricava di implicazioni politiche particolarmente rilevanti. La sola affermazione del principio di legalità nullum crimen et nulla poena sine lege valeva a delegittimare ab imo i sistemi punitivi esistenti. Gli illuministi misero a fuoco la questione penale come questione cruciale dell’ordine civile, nella piena consapevolezza della tragicità del potere di punire: potere terribile, eppure necessario. Necessario perché in assenza di norme disciplinanti la convivenza sociale rafforzate dalla sanzione penale pubblica, la vita, l’integrità e la libertà delle persone restano esposte alla violenza privata, nel vigore della legge del più forte. Terribile perché tale potere, pur giustificandosi in base al fine della salvaguardia di quei diritti, invade la sfera di immunità da essi costituita, stabilendo le condizioni della loro privazione. Il disegno di un paradigma statuale caratterizzato dalla subordinazione della potestà pubblica alla legge, in funzione della tutela dei soggetti, trovava così nella qualificazione dei reati, nella definizione delle pene, nell’organizzazione dei giudizi un banco di prova cruciale e decisivo. Nella riflessione illuministica sui limiti del potere punitivo dello Stato il campo del proibibile era circoscritto dall’affermazione dei principi di materialità, offensività e responsabilità personale, che vietavano la produzione di norme costitutive di status criminali e sottraevano l’identità soggettiva al disciplinamento penale. La gamma delle punizioni comminabili trovava invece i suoi criteri determinativi nei principi di necessità, proporzionalità e umanità della pena che escludevano l’efferatezza punitiva e imponevano la modulazione della severità delle pene lungo la scala della gravità dei delitti. Se la depenalizzazione dei comportamenti non qualificabili come reati e la mitigazione del sistema penale erano le principali rivendicazioni sul versante del diritto sostanziale, per quanto riguarda il processo la cultura giuridica dei Lumi investì con tutto il vigore della sua critica demolitrice i pilastri L’Illuminismo: una filosofia militante 19 dell’inquisitio di matrice romano-canonica: ovvero un procedura penale fondata sulla carcerazione preventiva dell’accusato, la segretezza dell’istruzione probatoria, la posizione di inferiorità della difesa rispetto all’accusa e la confusione tra organi requirenti e organi giudicanti. La proposta riformatrice si legava all’elaborazione teorica di un antitetico paradigma garantista: il processo accusatorio, ancorato alla presunzione di innocenza e strutturato sulla parità e il contradditorio tra le parti, sulla pubblicità e l’oralità della procedura, sulla terzietà e imparzialità del giudice. Le indagini sull’Illuminismo penale raccolte nelle pagine che seguono sono focalizzate su tematiche e figure particolarmente rilevanti nel dibattito giuspolitico settecentesco. Il primo capitolo, dedicato all’illustrazione del paradigma illuministico dello Stato sub lege, è un breve prologo, funzionale a evidenziare il nesso tra costituzionalismo e garantismo. Il secondo capitolo esamina la filosofia della pena di Montesquieu, cercando di elucidarne alcuni aspetti controversi. Nel capitolo successivo, è affrontato il problema della pena di morte in Beccaria, a partire dall’analisi dell’argomentazione sviluppata nel celebre paragrafo XXVIII di Dei delitti e delle pene. L’ultimo capitolo è dedicato alla riflessione sulla questione penale dei tre maggiori esponenti dell’Illuminismo meridionale: Antonio Genovesi (1713– 1769), Gaetano Filangieri (1753–1788) e Mario Pagano (1748– 1799). Questo libro ha una sola ambizione: quella di essere un convincente invito alla lettura di altri libri. Libri che furono scritti senza dimenticare che «l’importante non è far leggere, ma far pensare»3. 3 Ch.L. de MONTESQUIEU, Lo Spirito delle leggi (1748), a cura di R. Derathé, Rizzoli, Milano 1996, l. XI, cap. XX, p. 340.