STATO e la Chiesa in Italia - Associazione Italiana dei Professori di

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Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa
Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Volume II - Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015
Voce pubblicata il 11/01/2015 -- Aggiornata al 01/03/2016
STATO e la Chiesa in Italia
Autore: Lorenzo Mancini
Il principio «Libera Chiesa in libero Stato»,
riconducibile al cattolico liberale francese Charles de
Montalambert e al riformato svizzero Alexandre Vinet e
fatto proprio da Cavour all’indomani dell’unità d’Italia,
segna una tappa importante nelle relazioni tra Stato e
Chiesa in quanto riassume il difficile decennio
precedente e cerca di delineare le linee guida per
quello successivo alla luce degli eventi che portarono
alla costituzione del Regno d’Italia; quelle parole
tuttavia, al di là della chiarezza e dell’efficacia,
nascondevano una serie di problemi politici e giuridici
circa la realizzazione pratica di quel principio, sullo sfondo di un difficile contesto di relazioni
internazionali con lo Stato della Chiesa, ormai privato di buona parte dei suoi territori, e con le altre
nazioni europee.
Pio IX intuiva tutte le difficoltà della mancanza di un territorio per la Chiesa che avrebbe dovuto
realizzare la sua universalità attraverso una “sovrannazionalità” non ancora ipotizzabile e tanto meno
definibile; al tempo stesso però comprendeva che ipotesi come quella neoguelfa non erano praticabili e
anche l’avvicendarsi della classe politica di governo con l’avvento della sinistra storica al potere
sembrava confermare l’irreversibilità del processo unitario.
Fin dal 1861, tra i problemi della nuova realtà, spiccava la → questione romana, ovvero quale ruolo
attribuire all’Urbe, capitale dello Stato Pontificio e simbolo del potere temporale dei papi che la Chiesa
intendeva come garanzia della propria libertà di azione (cf. allocuzione di Pio IX Maxima quidem laetitia
del 9 giugno 1862 e, dopo i fatti di Porta Pia, cf. l’enciclica Ubi nos del 15 maggio 1871).
Già in epoca cavouriana, in buona parte della classe politica di governo, si era consolidata l’idea che
trasferire a Roma la capitale del Regno d’Italia fosse una soluzione non solo percorribile ma a tratti
doverosa. Da una tale ipotesi scaturirono i primi progetti di regolamentazione della difficile possibile
coabitazione nella città, cui aggiungere tentativi di accordo e conciliazione fra le parti sotto la vigilanza
della Francia; le truppe di Napoleone III insieme a quelle di Pio IX, infatti, nel 1867 respinsero a Mentana
l’attacco di Garibaldi allo Stato Pontificio, non abbandonando successivamente quei territori,
contrariamente a quanto previsto dalla convenzione italo-francese del 1864 nella quale, tuttavia, l’Italia si
impegnava a non attaccare i territori papali.
L’escalation politica e militare del 1870 sul fronte franco-prussiano con il conseguente abbandono
francese della piazza di Roma e l’entrata delle truppe sabaude, portò, nell’anno successivo, alla
proclamazione di Roma capitale del Regno d’Italia, comportando la definitiva rottura tra Stato e Chiesa i
cui rapporti, nell’ultimo decennio, si erano via via irrigiditi. Le relazioni tra i due soggetti, le prerogative
del papa e della Santa Sede, venivano regolate unilateralmente dallo Stato con la Legge 13 maggio 1871,
n. 214 per le guarentigie delle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede per le relazioni della
Chiesa con lo Stato e non già con un atto di natura pattizia: a fronte del venir meno della sovranità
territoriale sullo Stato della Chiesa, veniva garantita l’inviolabilità del papa, gli onori sovrani, alcune
immunità ed esenzioni, il diritto di legazione attiva e passiva, la possibilità di mantenere i tradizionali
corpi armati a guardia dei palazzi lasciati al papa e la possibilità di poter usufruire di un proprio ufficio
postale e telegrafico. Veniva inoltre prevista un’indennità annua che non fu mai riscossa dal papa, ma che
andò fra le questioni affrontate dalla Convenzione Finanziaria nell’ambito dei Patti Lateranensi del 1929.
Sul piano delle relazioni Stato-Chiesa, il titolo secondo, che ben rispecchiava il confronto parlamentare
tra posizioni separatiste e posizioni giurisdizionaliste, prevedeva una minore ingerenza dello Stato nella
vita e nell’organizzazione della Chiesa, pur mantenendo, salvo che per la diocesi di Roma e le sedi
suburbicarie, il placet e l’exequatur su questioni patrimoniali e sulle nomine che comportassero gestioni
patrimoniali. Il papa e la Curia Romana ribadivano il Non expedit, ossia vietavano la partecipazione alla
vita politica del neonato soggetto statuale, così come avevano già fatto in diverse occasioni a partire dal
1868, sulla scia di provvedimenti analoghi già utilizzati a partire d Pio VII durante la dominazione
napoleonica e dallo stesso Pio IX a partire dal 1849 (la lettera apostolica Cum Catholica Ecclesia del 26
marzo 1860, promulgata da Pio IX dopo la perdita delle Romagne, per esempio, ribadiva la necessità del
potere temporale e prevedeva la scomunica maggiore per chiunque avesse attentato all’integrità dello
Stato Pontificio) ; lo scontro tra le parti finì col radicalizzarsi anche sul piano culturale.
Ma se la “questione romana” continuò a dividere anche all’indomani della quasi contemporanea
scomparsa nel 1878 di Pio IX e di Vittorio Emanuele II e all’avvicendarsi sul trono di Pietro di Leone XIII
e su quello italiano di Umberto I, l’impegno sociale (→ questione sociale) sembrava essere il nuovo fattore
di coesione attraverso cui i cattolici italiani riuscirono a dare il loro apporto alla vita della nazione,
contribuendo ad un lento e graduale mutamento del clima politico sul piano formale e su quello
sostanziale. La capillare presenza dei cattolici a livello sociale, distribuiti nelle varie organizzazioni, fra
cui spicca l’Opera dei Congressi, compensava la loro mancanza di partecipazione alla vita politica in
senso stretto del Regno d’Italia; alla luce della Rerum Novarum anche la presenza dei cattolici a livello
sindacale cominciò ad attestarsi. Si alternarono e si contrapposero idee di partecipazione alle elezioni e
tentativi di conciliazione a posizioni intransigenti che rimarcarono l’insanabilità e l’irrimediabilità della
frattura creatasi fra Regno d’Italia e Chiesa Cattolica.
Un interessante barometro del clima politico connesso alla questione romana è rappresentato in tal senso
dalle vicende legate ai tre giubilei ordinari (1875, 1900 e 1925) e a quello straordinario del 1933, così
come, per altri aspetti ed in altro contesto lo sarà quello del 1950.
Gli anni di governo della sinistra storica, caratterizzati sul piano culturale da un acceso scontro fra
cattolici da una parte e correnti anticlericali di varia natura dall’altra (socialisti, massoni, positivisti,
mazziniani), evidenziarono il progressivo allontanamento dal separatismo cavouriano di matrice liberale
(→ liberalismo), facendo riaffiorare elementi di giurisdizionalismo che, già in occasione del dibattito
parlamentare sulle «guarentigie», avevano preso posizione contro il principio stesso della concessione di
garanzie, intese come privilegi, al pontefice e alla Santa Sede; tuttavia ciò non si tradusse in una modifica
della legge fondamentale che regolava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, limitandosi ad una serie di
provvedimenti di natura amministrativa e patrimoniale, tra cui spicca la Legge 17 luglio 1890 n. 6972
sulle opere pie (→ finanze ecclesiastiche). L’evoluzione dello scenario politico italiano in senso
trasformista aveva comportato un rallentamento dell’offensiva anticlericale da parte del governo,
individuando nel socialismo e nelle componenti radicali, avversari più temibili anche sul piano elettorale.
Francesco Crispi, siciliano come il segretario di Stato card. Mariano Rampolla del Tindaro e già
consulente giuridico di Garibaldi, mitigò i toni anticlericali e giurisdizionalisti che avevano caratterizzato
i suoi interventi nel dibattito parlamentare sulla Legge delle Guarentigie, facendo affiorare la sua anima
mazziniana, risorgimentale e laicamente mistica, che non lo portò ad una totale chiusura in ambito
religioso, ma lo condusse talvolta ad ipotizzare una soluzione “americana” per comporre il conflitto con la
Chiesa; non va però dimenticato che fu Crispi a chiedere la destituzione del sindaco di Roma, colpevole di
aver fatto giungere attraverso il cardinal vicario gli auguri a Leone XIII per il suo giubileo sacerdotale. I
tempi non erano ancora maturi per una serena regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa che
comportasse una qualsiasi forma di conciliazione pur auspicata sia in ambienti cattolici (si pensi all’abate
di Montecassino Luigi Tosti e al vescovo di Cremona Geremia Bonomelli) sia laici e ancora nel 1886
venne ribadito «Non expedit prohibitionem importat». Fra le parti nacque un’accesa dialettica nella quale
i soggetti in causa sembravano chiedersi un passo indietro su argomenti che fino a quel momento erano
stati motivo di separazione (beni e istituzioni sul versante ecclesiale e partecipazione alla vita politica del
paese su quello statale). Un dato è certo: l’argomento stava a cuore e non era più oggetto di indifferenza
o di silenzio, ma dal vivace dibattito intellettuale, parlamentare e anche curiale non scaturirono soluzioni
politiche ed istituzionali che risolvessero la “questione romana”; gli ultimi anni del XIX secolo furono un
contesto ancora confuso ed inquieto che non offrì una soluzione pratica, ma che certamente si
caratterizzò per l’abbondanza di contributi e di riflessioni.
Per la classe politica di governo non era praticabile un dialogo tra laici e cattolici che individuasse
obiettivi comuni: l’autonomia etica doveva necessariamente comportare anche quella giuridica e non
poteva dunque tradursi in nessuna forma di intesa tra lo Stato e la Chiesa. Era ancora lontana la
“conciliazione conclamata” (A. C. Jemolo), ma cominciarono ad esserlo anche certi toni tipici dello
scontro dei decenni precedenti, così come appare dal pensiero di Croce e dalla politica giolittiana di
compromesso. L’individuazione di valori comuni tra laici e cattolici e la sua traduzione in una
conseguente strategia elettorale, arriverà solo nel 1913 con il “Patto Gentiloni” con cui i cattolici non
intransigenti, guidati dal presidente dell’Unione elettorale cattolica, Vincenzo Ottorino Gentiloni,
fornirono appoggio elettorale alla compagine giolittiana in cambio della salvaguardia di valori ed
interessi cattolici; il patto, che portò all’elezione di 79 deputati cattolici, si inserì in quel clima da tempo
voluto da Pio X di attenuazione del non expedit. Giuseppe Sarto, che già da Patriarca di Venezia aveva
lasciato intendere la sua visione delle relazioni Stato-Chiesa, eletto papa nel 1903, attuò un vivace
processo di riforma della Chiesa in molti aspetti della sua vita, oltre alla nota opposizione al →
Modernismo, con cui non è tuttavia identificabile il suo pontificato; sul piano dei rapporti con il Regno
d’Italia essi si svilupparono all’insegna di un certo pragmatismo, grazie anche al ruolo dell’abile
diplomatico e segretario di Stato card. Rafael Merry del Val y Zulueta, cercando soprattutto di
consolidare il ruolo internazionale della Santa Sede. Nel 1904 l’enciclica Il fermo proposito, pur
ribadendo la validità generale del non expedit, aveva di fatto concesso ai vescovi la facoltà, previa
richiesta, di permettere ai cattolici di rappresentare «il popolo nelle aule legislative […] pel bene delle
anime e dei supremi interessi delle vostre Chiese»; Pio X, inoltre, identificava come un dovere dei
cattolici quello di «prepararsi prudentemente e seriamente alla vita politica, quando vi fossero chiamati».
Sul piano internazionale, l’intensificarsi dell’attività diplomatica fra le nazioni, precedente la → Prima
guerra mondiale, vedeva il paradosso di una Santa Sede molto impegnata in tal senso, in virtù anche di
quanto concesso dalle Guarentigie in materia di legazione attiva e passiva, ma della sua esclusione dalle
grandi conferenze internazionali per il fatto, non trascurabile, di non essere uno stato; a ciò si
aggiungano anche le pressioni esercitate dall’Italia sulle altre nazioni, specialmente quelle legate da
trattati di alleanza, affinché la notorietà, il prestigio e l’impegno della Santa Sede non si traducessero in
richieste, da parte di paesi terzi, di concessioni territoriali che l’Italia avrebbe dovuto elargire al nuovo
ipotetico stato papale. In più la guerra fece emergere, come prevedibile, la contraddizione di un soggetto
con dignità internazionale, vocazione sovranazionale, ma pur inserito, suo malgrado, in un complesso e
mutevole sistema di alleanze nel quale doveva pur muoversi, ma non più come uno stato sovrano. La
Santa Sede rimaneva così esclusa, almeno sul piano formale, dai grandi consessi internazionali nei quali,
prima, durante e dopo la prima guerra mondiale, si discuteva il futuro dell’Europa e del mondo intero; in
tale contesto si inserì anche l’inascoltato famoso appello di Benedetto XV nel settembre 1917 per una
soluzione del conflitto. Il sistema degli equilibri fra le potenze giocava sia a favore sia a sfavore della
Santa Sede per quanto riguardava la soluzione della questione territoriale, a seconda di quale potenza se
ne faceva promotrice e di quali fossero le sue ragioni: il pontefice aveva intuito che una fase geopolitica si
stava concludendo, una nuova se ne apriva e la Chiesa non poteva non inserirsi in questo nuovo scenario
internazionale. Tuttavia, al di là della mancata soluzione sul piano del diritto internazionale, notevoli
furono gli sviluppi sul piano politico che, a partire dalla Conferenza di Parigi del 1919, portarono ai Patti
Lateranensi del 1929; il decennio in questione, infatti, vide consolidarsi su diversi fronti il ruolo dei
cattolici italiani (→ Università cattolica → Partito Popolare) che contribuirono ad un vivace dibattito
politico onnicomprensivo che non si limitò ad affrontare la sola questione territoriale, bensì tutti gli
aspetti delle relazioni tra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica; in tal senso, importante fu il contributo di
Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando, per l’Italia, e di monsignor Bonaventura Cerretti e
del cardinal Pietro Gasparri per la Santa Sede. Anche Alfredo Rocco, giurista fra i principali teorici del
fascismo e ministro della Giustizia e degli Affari di Culto, avvertiva la necessità di una soluzione del
problema fra le parti: la commissione incaricata di studiare la riforma della legislazione ecclesiastica (cui
prendevano parte anche tre prelati) concludeva i suoi lavori presentando un progetto di revisione, ma che
tuttavia si sarebbe tradotto in una serie di provvedimenti legislativi e non in un accordo fra le parti.
Le reazioni di Pio XI, il fervido lavoro della politica e
della diplomazia, portarono alla soluzione del 1929, nel
contesto di un disegno internazionale più ampio e
diversificato definito “svolta concordataria”, con la
firma dei Patti Lateranensi (→ Concordati),
comprendenti il Trattato del Laterano, con cui si
chiudeva la “questione romana” e si istituiva lo Stato
della Città del Vaticano, l’annessa Convenzione
finanziaria e il Concordato. Il Governo di Mussolini
concludeva dunque la pagina risorgimentale forse più
complessa per intensità, durata ed implicazioni
politiche nazionali ed internazionali; erano certamente lontani i toni mussoliniani anticlericali di pochi
anni prima, tipici del → Fascismo delle origini. Ma la conciliazione sancita dalle firme di Mussolini e
Gasparri e dalle parole di Pio XI era destinata, di lì a breve, a mostrare alcune crepe già presenti da
tempo e fisiologicamente generate dal confronto tra la Chiesa e il regime: un primo segnale in tal senso
fu il dibattito parlamentare sulla ratifica degli accordi. Il dato di fatto fu comunque la conclusione della
fase separatista e l’inizio di quella concordataria che, in quel determinato contesto, assumeva il
significato di un gioco fra le parti teso ad inglobare la controparte nella realizzazione del proprio progetto
ideologico (quello fascista per il regime, quello di “cristianità” per la Chiesa), ma i fatti del 1931,
denunciati dall’enciclica Non abbiamo bisogno, scritta in difesa dell’attività e delle finalità → dell’Azione
Cattolica, fecero emergere in modo conclamato quei problemi già presenti in fase di preparazione degli
accordi; tuttavia la portata dei Patti firmati solo due anni prima, con gli annessi vantaggi di varia natura
per entrambe le parti, riportò la situazione ad una «pace di compromesso, senza vincitori né vinti» (A. C.
Jemolo) che durò fino al definitivo mutarsi dei rapporti, compromessi da nuovi scontri sul ruolo e l’attività
dell’Azione Cattolica, dall’avvicinarsi alla Germania nazista, della promulgazione delle leggi razziali nel
1938 (→ Ebrei) e al definitivo fallimento del progetto di ‘assorbimento ideologico’ portato avanti da
entrambe le parti.
L’utilizzo della modalità pattizia sortiva dunque l’effetto di evidenziare la delicatezza dell’equilibrio che
legava lo Stato fascista alla Chiesa Cattolica e ciò fu ancora più evidente durante il pontificato di Pio XII,
già successore di Gasparri alla Segreteria di Stato, caratterizzato nella prima parte, dallo svolgimento
della → Seconda guerra mondiale. A differenza del primo conflitto, vi era ora lo Stato della Città del
Vaticano, che, collocato nella capitale dell’Italia fascista, doveva mantenere la sua neutralità e le relazioni
con le potenze belligeranti: furono per la Santa Sede anni di intensa attività diplomatica ed umanitaria.
La fine del conflitto, gli sviluppi politici ed istituzionali italiani riaccesero inevitabilmente a tutti i livelli e
in diversi contesti il dibattito sulla natura e le modalità dei nuovi rapporti tra lo Stato e la Chiesa
Cattolica; in questo dibattito decisivo fu il ruolo della → Democrazia Cristiana che, particolarmente negli
anni di lavoro → dell’Assemblea Costituente e con l’apporto di altre forze politiche, seppe farsi portavoce
del ruolo che i cattolici avevano svolto fin dalla caduta del regime fascista nel processo di ricostruzione
politica del paese. In merito al tema dei rapporti con la Chiesa Cattolica, oltre ai dibattiti più ampi sui
principi fondamentali della Costituzione e sulle libertà e sulle formazioni sociali, la discussione si
concretizzò negli artt. 7 e 8 che affrontavano rispettivamente il tema delle relazioni tra la Chiesa e la
Repubblica Italiana e quello del pluralismo confessionale: lo Stato affermava la sua neutralità in materia
religiosa, garantendo «l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge» e in merito ai
rapporti con la Chiesa, affermava che «Stato e Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine,
indipendenti e sovrani» e che «i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi»; il dibattito, come
immaginabile, fu acceso e si orientò in un compromesso fra chi voleva accentuare l’elemento
dell’internazionalità o quello della laicità. Il dato importante e non scontato in partenza, fu comunque il
riconoscimento a livello costituzionale dei Patti Lateranensi che pur andavano adeguati al nuovo
ordinamento democratico: gli anni ’50 e ’60, infatti, videro lo sviluppo del “diritto concordatario” inteso
come «strumento di raccordo tra il diritto ecclesiastico e il diritto canonico» (G. B. Varnier, Il concordato
nel dibattito giuridico italiano, in AA.VV., Chiesa e Stato in Italia. Ieri ed oggi, 90). L’analisi della fase
concordataria repubblicana deve, ancor più delle precedenti, porre maggiore attenzione al concetto di
“nazione cattolica” (A. Riccardi), da integrare con quelli di “chiesa” e di “stato”, rilevando continuità o
discontinuità di modelli, ma soprattutto novità dovute ai profondi mutamenti culturali e sociali di quegli
anni a livello planetario e nazionale. In questo contesto si inserì anche il Concilio Vaticano II che, pur non
interessato direttamente agli aspetti tecnici delle relazioni tra gli stati e la Chiesa, tuttavia contribuì in
modo profondo ad una nuova e più ampia visione dei rapporti tra comunità cristiana e comunità civile
come poi sintetizzato nella costituzione conciliare Gaudium et spes.
I
L
C
A
R
D
I
N
A
L
E
AGOSTINO CASAROLI CON BETTINO CRAXI ALLA
FIRMA DELL’ ACCORDO DI REVISIONE DEL
CONCORDATO D’ ITALIA (Umberto Roazzi /
Giacominofoto, ROMA – 1984-02-18) p.s. la foto e’
utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e’ stata
scattata, e senza intento diffamatorio del decoro
delle persone rappresentate
Sul piano politico e giuridico si cercò di declinare una nuova concezione di laicità, su quello culturale la
secolarizzazione occupò uno spazio crescente e sul piano ecclesiale, l’istituzione della → Conferenza
Episcopale Italiana nel gennaio del 1952, introdusse un nuovo soggetto protagonista delle relazioni tra lo
Stato e la Chiesa che, come sarà evidente nell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense del 1984
(cf. art. 13 n. 2) sostituì la Santa Sede nella gestione dell’accordo e dei successivi atti connessi. Circa
l’interesse e il coinvolgimento degli italiani in merito al tema delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, vi è
da rilevare come essi siano stati particolarmente intensi in concomitanza delle grandi battaglie politiche
su temi etici come, per esempio, divorzio (1974), aborto (1981) e fecondazione assistita (2005), ma che
invece si siano mantenuti su livelli piuttosto bassi in occasione dei momenti istituzionali in cui quei
rapporti si traducevano in atti di portata storica; è il caso dei citati accordi di Villa Madama del febbraio
1984, in cui per la seconda volta nella storia d’Italia un non cattolico come il presidente del Consiglio dei
Ministri Bettino Craxi, concludeva con il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli, il suddetto
accordo di revisione del concordato, preceduto da un dibattito politico e giuridico ventennale sulla
necessità e le eventuali modalità di procedere ad una revisione: per rimarcare la portata non debitamente
percepita di quegli accordi, si noti che al punto 1 del Protocollo addizionale veniva definitivamente
sancita l’abolizione del principio della religione cattolica come sola religione dello Stato, di fatto già
presente nell’articolo 8 della Costituzione (cf. inoltre sentenza 203/1989 della Corte Costituzionale).
Diversi gli scenari storico-politici e ancor più diversa la loro velocità di cambiamento: le relazioni StatoChiesa, oggi più che mai, non possono essere comprese se non con uno sguardo multidisciplinare e
comparatistico, per i nuovi scenari sociali, politici ed internazionali in cui sia la Chiesa, sia gli stati sono
oggi inseriti. In tal senso utili fonti si rivelano i diari dei protagonisti della storia delle relazioni StatoChiesa, attraverso cui cogliere sia la complessità degli eventi e del contesto, sia quella degli individui.
L’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea, poi, pose un inevitabile confronto fra il diritto ecclesiastico
degli stati membri e sulla più ampia tematica delle loro relazioni con la Chiesa Cattolica e/o con altre
chiese. Le relazioni con gli altri stati, l’inserimento in organizzazioni internazionali o la partecipazione a
convenzioni, così come la missione universale della Chiesa Cattolica, specialmente alla luce del Concilio
Vaticano II, non poterono più essere considerati elementi a margine della trattazione: questa fu la grande
intuizione e l’impegno dei pontefici nella seconda metà del ‘900 e l’elezione di Karol Wojtyła nel 1978, in
uno dei momenti più difficili per il cattolicesimo italiano, fu un segno incontrovertibile di una tendenza a
cui anche l’Italia non poteva sottrarsi: la “svolta concordataria” che aveva interessato anche l’Italia nel
1929, si riproponeva in un contesto totalmente diverso con Giovanni Paolo II e il già citato Accordo di
revisione del Concordato del 1984, aveva la duplice valenza di inserirsi in una storia tutta italiana con le
proprie radici nel Risorgimento, ma anche tra quei 147 accordi firmati dalla Santa Sede tra il 1978 e il
2003.
Il decennio successivo, sullo sfondo della complessa ridefinizione del ruolo dei cattolici in politica (con
particolare riferimento ai Convegni ecclesiali nazionali di Loreto 1985 e Palermo 1995), vide il declinarsi
nel nuovo contesto di tematiche classiche del diritto concordatario legate ai rapporti finanziari tra Stato e
Chiesa o agli interessi religiosi dei cittadini, ancora oggi oggetto di accesi dibattiti politici: si pensi, solo
per citarne alcuni più noti, al finanziamento pubblico della Chiesa, al sostentamento del clero,
all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, all’assistenza spirituale nelle strutture
obbliganti e alla condizione giuridica e fiscale degli edifici di culto che in Italia è resa ancora più
particolare per l’elevato numero di quelli di valore storico, artistico e architettonico.
Anche in Italia le relazioni tra lo Stato e la Chiesa furono interpellate e sfidate da nuove istanze culturali,
politiche e religiose, ma anche da nuovi assetti geopolitici ed istituzionali: si tratta allora di comprendere
una relazione bilaterale, che tuttavia entra necessariamente sempre più in relazione con un contesto
globale, più conosciuto, ma anche profondamente diverso e mutevole rispetto a quello del 1861. In questo
alveo si è mossa e si muove la storia di una Chiesa e di uno Stato che si sono trovate a gestire la presenza
sul territorio italiano della Santa Sede.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX
secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento
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