Canettieri Alba Fleury

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L’ALBA DI FLEURY DA UN’ALTRA SPECOLA
h
Paolo Canettieri
Sapienza Università di Roma
1. Coordinate e metodo.
Lalba par umet mar atra sol
Poypas abigil miraclar tenebras
Al suono evocatore di questi due versi, il lettore può essere riportato
a quel chiaroscuro di significanti e significati che caratterizza le formule
magiche o gli indovinelli, oppure può restare intimorito quando, pur non
comprendendo appieno la significazione dell’intero dettato, percepisce
come minacciose e irsute parole come atra o tenebras, intuisce qualcosa di
misteriosamente orfico ed arcano in serie grafiche bizzarre e inintellegibili
come Poypas e abigil, o, infine, rivolge il pensiero all’armonia alchemica di
luce e tenebre e al melancolico sole nero che fu di Dührer prima che di Jung.
Del resto, qualcosa di misterioso ed enigmatico questo distico ce l’ha:
ripetuto tre volte in forma di refrain alla fine di altrettante strofette scritte
in buon latino ecclesiastico, si presenta nel ms. latore in una veste che ha
dato luogo alle più disparate (e spesso fantasiose) ipotesi interpretative,
nessuna della quali, è da dire fin d’ora, ha escluso l’intervento emendativo. Così, nel corso dei centotrenta anni passati dalla sua scoperta, per
via della variazione polimorfica imposta dagli editori ad un testo già non
chiaro di suo, il refrain di Phebi claro è divenuto un’alba amorosa o religiosa
o guerresca, un canto di scolta, un inno pasquale, un grido disarticolato
di gioia (quasi un giubilo), una khargia galloromanza. La discussione, poi,
non è stata pacifica, anzi, in alcuni casi si è assistito a puntate la cui retorica, sarcastica se non violenta, avrebbe potuto richiamare alla mente il
Letzter Kunstgriff della schopenhaueriana Kunst, Recht zu behalten (Frauenstädt 1864:34).
Arrivati a questo punto, si potrebbe pensare che l’animata congerie
d’ipotesi e l’animosità di taluni proponenti non lasci più spazio ad una seria riflessione e, del resto, non a caso, negli ultimi decenni la discussione
Romance Philology, vol. 66 (Fall 2012), pp. 211–308.
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Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
si è polarizzata sulle soluzioni estreme: quella che vede nel refrain un’inserzione seriore a costituire un inno pasquale (Lazzerini 1979, 1985, 1986,
2000, 2001, 2004, 2008) e quella che vi legge qualcosa di assimilabile ad
una khargia mozarabica (Hilty 1981a, 1981b, 1995, 1996, 1998, 2000, 2001):
entrambe hanno interpretato refrain e testo latino come realtà essenzialmente autonome, mettendo quindi in discussione l’unitarietà originaria
del testo e hanno obliterato la soluzione, in larga parte condivisa fino alla
fine degli anni ’70 del XX secolo, che metteva in relazione il refrain di
Phebi claro ai canti di scolta.
A me spiace dover riproporre un problema che è sembrato fanciullescamente pedante, quello del metodo, spesso vilipeso dalla filologia
tradizionale non tanto perché insussistente, quanto perché dato nei fatti
per implicito: il fatto è che ritengo necessario, ancora una volta, fissare
dei puntelli sui quali si possa convenire o anche dissentire, ma che rendano conto chiaramente dell’orizzonte ermeneutico e critico entro cui
ci si muove (peraltro qualcosa in proposito è stato già detto: cf. Chiarini
1974:10; Canettieri 2002).
In questo scritto proporrò infatti riflessioni e alcuni materiali di riscontro che vanno nella direzione di conservare nella sua integrità il testo
tràdito, alla luce di alcune considerazioni:
1. Nel testo latino le unità di scrittura corrispondono al lemma e ciò deve
valere anche per il testo del refrain.
2. Nel testo latino non si hanno errori certi. Nell’unico caso in cui sembra possibile ipotizzare un errore, l’eziologia è chiarissima: anche per il refrain varrà il principio per cui si emenda laddove è evidente la menda e si può
dedurre la sua eziologia. Saremo dunque testualmente “garantisti”: il testo è
buono finché non sarà dimostrato inequivocabilmente erroneo.
3. Negli inni latini la sintassi dei refrain è sempre molto semplice e normalmente paratattica: vengono giustapposte frasi brevi o brevissime, ognuna delle
quali è contenuta nel verso e generalmente ha valore semantico esortativo; mancano del tutto gli enjambement, le tmesi e le separazioni di elementi linguistici
coordinati mediante interposizione di elementi non coordinati: fino a prova
del contrario, anche il refrain di Phebi claro dovrà avere queste caratteristiche.
4. È indiscutibile che vi sia una comunanza lessicale fra testo latino e refrain (Zumthor 1963): è dunque più che verosimile che il dettato e il senso del
refrain debbano armonizzarsi quanto più possibile col dettato e col senso del
testo latino. Quest’ultimo assunto richiede che si risponda a una domanda
a mio avviso cruciale: che funzione ha il refrain in questo specifico contesto?
Da cui ne deriva direttamente un’altra: il testo è da considerarsi strutturalmente, tematicamente ed esteticamente unitario o il refrain è da considerarsi
elemento allotrio, aggiunto posteriormente?
Dirò subito che il complesso delle ricerche, ove si valuti correttamente
e senza preconcetti tutta la bibliografia preterita sull’argomento, indica
abbastanza precisamente la strada da percorrere. Sulla base di quanto i
miei predecessori hanno tracciato e con l’ausilio prezioso delle risorse
elettroniche oggi disponibili, tenterò quindi di fornire al lettore un qua-
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dro unitario, non senza ricorrere, laddove necessario, all’esercizio del dubbio: darò conto delle interpretazioni da me individuate fino a oggi, che
non comportino interventi né sul testo, né sulle unità di scrittura, né sul
continuum sintattico e sulla scansione versale così come essa è indicata dal
codice latore. Tenterò di fornire ragguagli circa la lingua in cui è scritto il
refrain, una lingua che ritengo modellata ad hoc sulla base di quella parlata
nel milieu monastico in cui il testo è stato allestito, con inserzioni di lemmi
circoscrivibili a quell’ambiente. Renderò partitamente conto delle interpretazioni, per via di un commento puntuale, verso per verso e parola per
parola, sia del testo latino sia del testo romanzo e fornirò anche alcuni
spunti per una lettura allegorica differente da quelle già proposte o ad
esse complementare (Becker, Suchier e Birch-Hirschfeld 1913, Lazzerini
1979, 1985; Kaps 2005). Cercherò di dimostrare l’unitarietà sostanziale del
componimento, nonché l’unicità dell’autore e dirò della funzione assolta
dal testo. Nelle conclusioni tenterò di collocare Phebi claro nel contesto che
gli è proprio e fornirò una proposta di attribuzione. La pars destruens, già
implicita nelle considerazioni di metodo, sarà volutamente esplicitata solo
nei limiti dei casi più rilevanti e comunque non toccherà le ipotesi già falsificate dai miei predecessori.
Interpretando il refrain alla luce dei canti di scolta e delle albe provenzali, mi rifarò in vario modo al quadro tracciato da Jeanroy (1889), Rajna
(1887), Gorra (1901 e 1912), Bertoni (1921), Monteverdi (1952), Zumthor
(1984) e, non ultimo, a quanto ha scritto al riguardo Aurelio Roncaglia
(1948 e 1951b), l’indimenticato maestro a cui va il pensiero nel licenziare
queste pagine.
Fornisco qui di seguito una trascrizione diplomatica del testo, ricontrollata direttamente sul manoscritto (se ne veda la riproduzione fotografica in Meneghetti 1997:fig. 9), e un’edizione, provvista di traduzione da
cui si possano desumere fin da subito le coordinate esegetiche entro cui
mi sono mosso.
1.1. Trascrizione diplomatica.
1] Phebi claro nondum orto iubare; Fert aurora lumen terris tenue
2] Spiculator pigris clamat surgite; Lalba par um(et) mar atra sol
3] Poypas abigil miraclar tenebras; En incautos ostium insidie
4] Torpentesq(ue) gliscunt intercipere; Quos suad(et) preco clamat surgere
5] Lalba part um(et) mar atra sol; Poy pas abigil miraclar tenebras
6] Abarcturo disgregat(ur) aquilo; Poli suos condunt astra radios
7] Orienti tendit(ur) septemtrio; Lalba part um(et)mar atra sol; Poy pas abigil
1.2. Edizione.
Phebi claro nondum orto iubare,
Fert Aurora lumen terris tenue;
Spiculator pigris clamat: “Surgite!”
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
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L’alba par, umet mar atra sol
Poypas abigil, miraclar tenebras.
5
En incautos ostium insidie
Torpentesque gliscunt intercipere,
Quos suadet preco clama[ns] surgere
L’alba part, umet mar atra sol
Poypas abigil, miraclar tenebras.
10
Ab Arcturo disgregatur Aquilo,
Poli suos condunt astra radios,
Orienti tenditur Septemtrio
L’alba part, umet mar atra sol
Poypas abigil, [miraclar tenebras].
15
1.3. Traduzione.
Non ancora sorto il chiaro raggio di Febo,
Aurora porta alle terre un tenue lume;
La scolta esorta i pigri: “alzatevi!”.
L’alba appare, il mare nero bagna il suolo
[oppure: il mare nero bagna il sole; oppure: il mare bagna il nero suolo]
La sentinella stia attenta a scrutare le tenebre
[oppure: Sentinella, alla veglia! Scruta le tenebre!]
Ecco che i nemici insidiosi
bramano catturare indifesi e sonnolenti
quelli che la vedetta convince, gridando, a levarsi.
L’alba appare, ecc.
Aquilone si dissocia da Arturo,
Le stelle del cielo nascondono i loro raggi,
Tende a Oriente il Settentrione.
L’alba appare, ecc.
2. Il testo latino.
2.1. Le unità di scrittura e gli errori del testo latino. Nel testo latino
le unità di scrittura coincidono quasi sempre con il lemma. In quattro casi,
lo spazio fra le due serie grafiche non è abbastanza ampio da non lasciar
dubbi sulla possibile agglutinazione: al rigo 1 l’unità di scrittura forse è
lumenterris (così Rajna 1887:68, Frank 1994:58 e Kaps 2005, lumen terris per
Meneghetti 1997, fig. 9), ma si consideri che il rigo è piuttosto schiacciato
lateralmente e che potrebbe quindi trattarsi di una necessità contingente
(cf. §2.2); al rigo 3 Rajna, Frank e Kaps leggono Enincautos, ma la separazione sembra qui abbastanza netta (En incautos anche per Meneghetti);
al rigo 4 forse è da leggere Quossuad(et) (con Rajna, Frank e Kaps; Quos
suad(et) per Meneghetti; anche qui il dato andrà messo in relazione con
la notevole lunghezza del rigo: cf. §2.2); al rigo 6 forse da leggere Polisuos
L’alba di Fleury da un’altra specola
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(così Rajna, Frank e Kaps, ma Poli suos per Meneghetti). Unica eccezione
certa è l’unità Abarcturo al rigo 6, che corrisponde anche all’unico caso
presente nel nostro inno di preposizione seguita da sostantivo: in ciò il
testo si conforma ad una prassi ben attestata in altri testi latini con scriptio
discontinua (Saenger 1982, 1990a, 1990b, 1997), oltre che in alcuni canzonieri provenzali (Zimei 2009). Al riguardo Rajna (1887:83) annotava:
Finché si trattasse di Enincautos, Quossuadet, Abarcturo, non avremmo certo
motivo di andar in traccia di una spiegazione diversa dalla consueta, che abbia
qui ricevuto un’espressione grafica il fatto della proclisia. Sennonché cotale
spiegazione non val punto per Phebiclaro, lumenterris, Polisuos. A prima giunta,
si sarà portati a non vederci altro che i capricci di scrittura; ma quando si sia
posto mente che i versi constano di dipodie trocaiche complete chiuse da una
dipodia catalettica —trochei ritmici, si badi, non propriamente metrici— e
quando si sia avvertito che i nostri raggruppamenti, così quelli notati dianzi,
come questi altri, rispondono sempre ad una dipodia, si dovrà bene ridursi a
conchiudere che in ciò appunto vada cercata la ragione della grafia. Si sono
scritte solitamente unite le voci che costituivano un’unità ritmica.
Il testo latino si mostra anche molto corretto: un possibile errore è
spiculator per speculator, peraltro spiegabile pensando a una grafia merovingica e comunque molto comune (cf. §2.5 ad loc.); più probabile l’erroneità della lezione rinvenibile al rigo 4, dove clamat sarà forse da emendare in clamans, che ovvierebbe alla mancanza di congiunzione (Schmidt
1881:336; Rajna 1887:68, n. 2). L’eziologia di questo errore sarebbe chiara:
clamat sugere per clamans surgere, con probabile titulus per la nasale nell’antecedente, potrebbe essere dovuto alla memoria, da parte del copista, del
quasi identico sintagma del v. 3, clamat surgite. Il verbo nella medesima
forma è del resto attestato, come si vedrà, anche nel più importante intertesto di Phebi claro, l’Ales diei nuntius di Prudenzio (cf. §2.4).
2.2. Un testo avventizio. Si tratta di un testo avventizio (Signorini
2009), copiato da una mano databile fra la fine del X secolo e gli inizi del
successivo (Bischoff 1984:263, n. 12) sulla colonna destra, rimasta libera,
della c. 50v del codice vaticano Reginense 1462, un manoscritto databile
tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, proveniente con ogni verosimiglianza dall’abbazia di Fleury-sur-Loire (Mölk 1969) e contenente gran
parte dell’opera di Fulgenzio e una serie di notae iuris. Nella carta che ci interessa le notae iuris sono copiate una alla volta e con relativo scioglimento
sulla colonna di sinistra, in una minuscola libraria di tipo merovingico
molto più grande e ariosa: le righe della colonna di sinistra sono quindi
di lunghezza del tutto disuguale l’una dall’altra. Per Phebi claro, invece, in
ogni riga, perfettamente allineata a quella della colonna di sinistra (ciò
che comporta una scrittura che utilizza la precedente rigatura), vengono
copiati due versi, separati da punto e virgola, con l’eccezione della settima
e ultima riga, in cui viene copiato, sempre con punto e virgola di separa-
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Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
zione metrica, anche l’inizio del verso successivo (coincidente con il secondo verso del refrain volgare).
È di rilievo che il copista si sia preoccupato di giustificare a sinistra
tutt’e sette le righe iniziando a copiare molto a ridosso della fine della
prima riga della colonna di sinistra. La giustificazione a sinistra ha effrazioni visibili alla quinta e alla sesta riga, in corrispondenza di un’evidente
minor lunghezza del testo della colonna di sinistra; si noti, peraltro, che la
quinta riga è l’unica a contenere entrambi i versi del refrain, mediamente
più lunghi di quelli latini.
Il trascrittore, sicuramente molto abile dal punto di vista grafico, ha
interesse per l’impaginazione e quindi per la giustificazione a sinistra e
a destra del testo; per quanto riguarda quella di sinistra, il nostro copista
ha collocato il suo primo rigo molto vicino alla fine della prima riga del
glossario, i cui lemmi, evidentemente, non sono tutti di uguale lunghezza:
ciò ha comportato la necessità, in alcuni casi (ll. 3, 7), di far rientrare
leggermente la giustificazione o, in altri casi (ll. 2, 4–6), di separare il testo aggiunto dall’originario mediante un consistente spazio bianco. Nella
settima riga il copista sembrerebbe essersi riallineato alla giustificazione
consueta, per via della maggiore ampiezza del testo copiato sulla colonna
di sinistra. Essendo ancora più lungo il testo della colonna di sinistra nella
riga successiva (l’ottava nel ms.), il copista ha probabilmente preferito copiare nella riga precedente solo l’inizio del refrain, per non scompaginare
la giustificazione e l’armonia estetica del testo copiato: se l’ultimo verso
fosse stato copiato integralmente nella riga successiva, la scrittura sarebbe
giunta all’incirca fino alla fine della seconda unità di scrittura (part) del
rigo precedente, con sfasatura dell’andamento binario e con obliterazione
della regolarità di scansione dei secondi versi. Si noti, infatti, che la spaziatura fra i versi è più ampia nelle ultime tre righe e che, di conseguenza,
anche i versi interni alle righe sono stati considerati, pur in subordine,
elementi in serie da giustificare a sinistra. Sembrerebbe, infine, che il copista abbia cercato di far rientrare comunque il suo testo all’interno dello
specchio di scrittura, che, come si è visto, è stato sforato solamente per
l’ultima riga e questo potrebbe essere il motivo per cui egli non ha previsto la copiatura oltre la settima riga.
I dati che abbiamo addotto hanno a nostro avviso un certo rilievo,
poiché: 1. implicano una certa progettualità nella copia e una ricerca di
armonia nell’organizzazione dell’impaginato; 2. fanno ritenere che il
testo dell’antigrafo coincidesse nella sostanza con quello copiato nel nostro codice, fatto salvo il terzo refrain, che forse lì era riportato per intero;
3. possono aiutarci a comprendere la ragione delle serie grafiche eventualmente agglutinanti di cui si è detto nel paragrafo precedente. In particolare al rigo 1 la vicinanza di lumen e terris potrebbe esser dovuta alla
volontà del copista di non fuoriuscire dallo specchio di scrittura (si noti
che, per la medesima ragione, nel rigo 2 la scrittura diviene più piccola e
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serrata). Lo stesso potrebbe valere per En incautos della terza riga (pure
caratterizzata da un ductus molto serrato) e per Quos suadet del rigo 4, che
contiene la porzione testuale più ampia delle prime sei, e per um(et) mar
dell’ultima riga.
Queste considerazioni, infine, ci permettono di escludere che il testo
sia mutilo per ragioni materiali e che ci sia stata un’intenzionale abbreviazione del terzo refrain, analoga a quella che si ritrova di norma nei testi profani provvisti di ritornello: il copista ha semplicemente cercato di
distribuire quanto più armonicamente possibile i quindici versi di Phebi
claro su sette righe, fornendo al testo e a ciascun verso interno una giustificazione a sinistra e ha distribuito il testo cercando di adattarlo alla parte
scritta in precedenza. D’altronde non si può escludere che nell’antigrafo
il refrain fosse abbreviato e che proprio per questa ragione il copista abbia
accodato l’ultimo verso al precedente (anche perché, essendo l’ottava riga
del testo originario particolarmente lunga, avrebbe di nuovo, e in maniera
più consistente, rotto l’allineamento della giustificazione a sinistra).
Riporto, infine, qui di seguito quanto mi scrive Maddalena Signorini
(che ringrazio) circa l’impaginazione:
Il testo dell’Alba (c. 50v) appare decentrato rispetto alla pagina del manoscritto nel suo complesso poiché è addossato alla prima colonna, contenente l’ultima porzione delle Notae iuris (cc. 39v–50v). L’anomalia può essere
spiegata rilevando da un lato un sostanziale disinteresse del copista per l’impaginazione complessivamente intesa rispetto al supporto ospite; dall’altro,
al contrario, una forte attenzione nei confronti della disposizione del ‘suo’
testo. Va infatti sottolineato che le pagine che contengono le Notae iuris, in
conseguenza della particolare natura di tale testo, presentano un tipo di rigatura anomalo, adattato alle circostanze. Il disegno, rigato a secco, prevede
una colonnina ai due lati dello specchio di scrittura, due colonne separate da
un intercolumnio e ciascuna divisa in due in maniera asimmetrica, così che
la parte di sinistra risulta sempre più stretta della destra. Poiché il trascrittore
delle Notae iuris ha utilizzato solo la prima colonna —e dunque la sua scrittura si ferma sempre prima (o subito prima) della riga che giustifica a sinistra
l’intercolumnio— il copista dell’Alba, anziché far iniziare il componimento,
come sembrerebbe più consueto, nella seconda colonna, allinea il suo testo
giusto al di là della stessa linea di giustificazione sinistra dell’intercolumnio
creando così nella pagina, appunto, un forte sbilanciamento a sinistra della
zona occupata dalla scrittura. Tuttavia questa scelta inconsueta si giustifica
considerando che in tal modo il copista riesce a utilizzare nella maniera migliore la rigatura preesistente: l’interlinea che poteva sembrare troppo ampia per una scrittura di modulo così minuto è invece perfettamente sfruttata
dall’inserimento della notazione musicale sovrapposta al testo; i due versi
appaiati sul rigo, come consueto nella trascrizione della lirica sino al pieno
XIV secolo, si dispongono perfettamente e in maniera simmetrica, il primo,
nella nuova colonna costituita da intercolumnio e prima metà della colonna
B del manoscritto originario; la seconda, nell’altra metà della stessa colonna
B. Ne è prova il fatto che i secondi versi di ciascun rigo rispettano sempre una
giustificazione di sinistra costituita da quella linea mediana che dimezzava la
seconda colonna originaria.
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Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
2.3. La metrica del testo latino. Il testo latino di Phebi claro è costituito
di tre strofe, ciascuna di tre versi di endecasillabi ritmici che presentano
il rarissimo schema 4p 7pp (notazione di Norberg 1958). Il primo emistichio, cioè, è sempre costituito di quattro sillabe con cadenza parossitona e
il secondo di sette sillabe con cadenza proparossitona. Si consideri che la
terminazione proparossitona nelle Gallie era pronunziata con due accenti,
uno sulla terzultima e uno sull’ultima. Così l’andamento ritmico del verso
sarà il seguente: òoòo òoòoòoò. Le strofe, così lette, presentano anche la
rima: in -e nelle prime due strofe e in -o nella terza (nel secondo verso la
rima -os è imperfetta). La struttura rimica del componimento fa pensare
ai testi della lirica profana romanza strutturati su coblas doblas con strofe
in numero dispari e in particolare al tipo, ben attestato soprattutto in
area galego-portoghese, con sole tre coblas. Sarebbe necessario uno studio
sistematico su questo procedimento in ambito liturgico, ma è certo che
la struttura con coblas doblas è attestata, in maniera ugualmente asimmetrica, almeno in un altro componimento provvisto di bilinguismo latino/
occitanico, oltre che di refrain: parliamo del notissimo inno natalizio In hoc
anni circulo (tràdito dal ms. parigino BN lat. 1139), dove l’appaiamento rimico riguarda le prime quattro e le ultime due strofe del testo latino (con
l’eccezione quindi di due sole strofe), tanto che Meneghetti (1997:182) ha
potuto rilevare che “nell’inno latino le serie di versi monorimi che costituiscono la prima parte di ciascuna strofe cambiavano terminazione
ogni due strofe (le strofe apparivano cioè, per usare la posteriore terminologia trobadorica, doblas)”. Questo dato potrebbe deporre a favore
dell’incompletezza di Phebi claro, che risulta asimmetrico metricamente,
oltre che troppo breve e lacunoso dal punto di vista del contenuto (cf.
§§2.3 e 2.4). Non è invece chi non veda che la struttura rimica aaaX (dove
X sta per il refrain) ci riporta, come nel caso di In hoc anni circulo, alla
forma definita ‘zagialesca’. Ulteriore consonanza con l’inno sammarzialese si ha nella forma metrica del verso: 4p 7pp Phebi claro, 7pp In hoc anni
circolo. Bilinguismo, utilizzo del refrain, organizzazione strofica (oltre che,
aggiungerei, due timbri rimici), tipologia zagialesca della strofe, accomunano quindi questi due componimenti.
Quanto al metro di Phebi claro, c’è da aggiungere che esso è stato uno
degli elementi che hanno fatto pensare a Lazzerini (1979:167–169) che
l’origine del testo latino potesse essere insulare, in particolare irlandese
e che fosse antecedente al refrain, considerato dalla studiosa un’inserzione
seriore. In effetti è da dire che il verso 4p 7pp differisce marcatamente dal
tipo normale dell’endecasillabo ritmico, che mostra una cesura dopo la
quinta o dopo la sesta sillaba. Secondo Herren (1974–1987, 2:224) “The
4p 7pp appears to be a Hiberno-Latin innovation, with several examples
datable to the seventh century”. I testi in questione, quasi tutti noti già
a Norberg (1958:118), sono l’Oratio pro itineris et navigii prosperitate, attribuita a San Gildas (PAC 4, 618; Bischoff 1984:154–161), la Lorica s. Gildae
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Sapientis (AH, 51, 262; Herren 1974–1987, 2:76–93), il Canon Evangeliorum
(Esposito 1912:3–5) e una parafrasi ritmica del Carmen Paschale di Celsio
Sedulio (Meyer 1917). Phebi claro mostra però una regolarità prosodica assente in tutti i testi insulari, che presentano invece numerosissime alterazioni ritmico-prosodiche, probabilmente dovute alle peculiarità della versificazione del latino irlandese (Herren 1990). Tali alterazioni sono invece
assenti in quello che si può considerare il testo strutturalmente più vicino
a Phebi claro, il notissimo carmen satirico/potatorio sull’abate di Angers,
contenuto in un manoscritto veronese del IX secolo. Ne riporto due strofe
delle cinque complessive (PAC 4, 591):
Andecavis abbas esse dicitur
ille nomen primi tenet hominum;
hunc fatentur vinum vellet bibere
super omnes Andechavis homines.
Eia eia eia laudes
Eia laudes dicamus Libero.
Iste malet vinum omne tempore
quem nec dies nox nec ulla preterit
quod non vino saturatus titubet,
velut arbor agitata flatibus
Eia eia eia laudes
Eia laudes dicamus Libero.
Si noti, oltre al medesimo metro 4p 7pp di Phebi claro, scandito con
totale regolarità, la presenza di rime (sia pur meno regolari di quelle del
testo che ci interessa) e di un refrain di due versi asimmetrici 8p — 4p
6pp. Se il secondo verso del refrain è uno dei più antichi esempi di decasillabo (De Alessi 1972:102), il grido Eia e l’esortazione (alla lode di Bacco,
in questo caso) ricordano elementi strutturanti il tipo innico con refrain,
che individueremo anche per il caso di Phebi claro (§3.1 e passim). Inoltre, la giustapposizione di due versi asimmetrici di cui uno “contenuto”
nell’altro, è elemento importante che assimila i due testi e che depone a
sfavore delle ipotesi di regolarizzazione metrica del distico (Rajna 1887:78,
ad esempio, ne faceva due decasillabi).
Questi dati, unitamente al fatto che l’Andecavis abbas è un testo certamente continentale, quasi certamente composto in Francia, d’ambiente
monastico o paramonastico, in un’epoca non lontanissima da quella in cui
è stato copiato Phebi claro, ci fanno ritenere che, fra i modelli metrici possibili, questo sia in assoluto il più vicino. Il fatto che sia un testo satirico,
d’ispirazione non immediatamente religiosa, è un dato che potrà avviare
nuove riflessioni sulla natura e sul senso di Phebi claro.
2.3. Genere e tema del testo latino. Non mi pare che possano più esservi dubbi sull’intima affinità che Phebi claro mostra con gli inni mattutini
(Laistner 1881; Schläger 1895; Becker 1929; Scudieri Ruggieri 1943; Ortiz
1943–1944; Szövérffy 1964–1965, 1:361; Becker 1967; Lazzerini 1979, 1985;
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Frank 1994; Meneghetti 1997, 1998; Lazzerini 2001; Kaps 2005), mentre
ben poco è stato detto sulla sua sostanziale estravaganza rispetto ai mattutini canonici. Secondo Rajna (1887:86–87) la presenza della scolta induce
a supporre “una forma molto antica di Alba, che invitasse gli uomini a
destarsi per ragioni guerresche”, anche se poi (87–88) lo studioso, correttamente, annotava: “Abbia pur qualcosa di guerresco, non sarà tuttavia in
quanto più o men guerresca che la nostra Alba fu trascritta nel codice ora
vaticano da una mano ch’ebbe ad esser quella di un frate benedettino. A
meno che il trascrittore non sia stato mosso da un semplice interesse artistico e musicale, fu certo un’idea religiosa che dovette incitarlo. Il precetto
di non poltrire, del non lasciarsi cogliere dal giorno chiaro nel letto, era
gridato con molta insistenza dal cristianesimo ai fedeli, ed agli ecclesiastici soprattutto; per i monaci poi veniva ad essere imposto propriamente
dalla Regola”. Molti altri autori, poi, hanno parlato di Phebi claro come di
un testo “paraliturgico”, senza che questo concetto fosse esaurientemente
chiarito.
In questo paragrafo mostreremo il quadro ambientale di riferimento
in cui sembra necessario inserire il testo, nel paragrafo successivo mostreremo i modelli innologici indiscutibilmente più vicini e, soprattutto, tratteremo delle sostanziali differenze che sussistono fra Phebi claro, i suoi precedenti e, in genere, i testi affini. Il commento puntuale verso per verso
servirà per apprezzare più in dettaglio quel misto di convenzionalità ed
originalità che caratterizza il nostro testo.
Innanzitutto, credo che si debba concordare con Kaps (2005:60–63)
sulla necessità di inquadrare questo inno nel contesto benedettino floriacense al quale appartiene il manoscritto che ce lo tramanda. Si rammenti
che il tempo della preghiera era scandito secondo le ore diurne, cioè la
Prima (circa alle 6), la Terza (alle 9), la Sesta (alle 12), la Nona (alle 15), i
Vespri (al tramonto) e la Compieta (prima di coricarsi), mentre di notte la
tradizione delle vigiliae (i turni di guardia delle sentinelle) aveva dato vita
ai tre notturni, riuniti poi in un’unica celebrazione detta, appunto, vigilia
o nocturna laus, cui faceva seguito (e spesso era ad essa unito) il Mattutino
o Matutinorum solemnitas cioè le Lodi (all’alba). La Regula di San Benedetto
nel cap. 8 (De officiis divinis in noctibus) prescrive che durante la stagione invernale, cioè dal principio di novembre sino a Pasqua, i monaci si sveglino
verso le due del mattino (“octava hora noctis surgendum est”), in modo da
prolungare il sonno un po’ oltre la mezzanotte e che il tempo che rimane
dopo l’ufficio vigiliare venga da loro impiegato nello studio del salterio
o delle lezioni (“Quod vero restat post vigilias a fratribus qui psalterii vel
lectionum aliquid indigent meditationi inserviatur”). Invece, da Pasqua
sino all’inizio di novembre, l’orario deve essere disposto in modo tale che
l’ufficio vigiliare sia seguito immediatamente dai mattutini, che devono
essere eseguiti al primo albeggiare (“sic temperetur hora ut vigiliarum
agenda parvissimo intervallo, quo fratres ad necessaria naturae exeant,
L’alba di Fleury da un’altra specola
221
mox matutini, qui incipiente luce agendi sunt, subsequantur”). Nella fonte
più importante della Regula di San Benedetto, l’anonima Regula magistri,
al capitolo De officiis divinis in noctibus si forniscono informazioni ancor più
analitiche al riguardo, anche in relazione al rapporto fra risveglio dei monaci, uffici e gallicinium o pullorum cantus (PL 88, coll. 1000–1004).
I capitoli 9–17 della Regula di San Benedetto ci danno poi un elenco
dettagliato circa l’organizzazione dei vari uffici divini e chiariscono con
una certa precisione anche quali inni si debbano recitare e quando. Così,
per le vigiliae invernali è previsto che venga intonato un inno ambrosianum,
che rientri cioè nel canone dei quattro certamente attribuibili a Sant’Ambrogio. Lo stesso vale per il periodo estivo, durante il quale l’ufficio notturno è quasi identico, ma, a causa della brevità delle notti, non vengono
lette le lezioni dal lezionario. L’ufficio vigiliare della domenica e delle
maggiori festività, invece, è molto più lungo e per questo i monaci sono
esortati ad alzarsi prima (“Dominico die temperius surgatur ad vigilias”).
Durante l’ufficio vengono cantati due inni: il primo è il Te Deum laudamus,
intonato dall’abate verso la fine dell’ufficio, il secondo è il Te decet laus
cantato sempre dall’abate dopo aver letto i Vangeli e dopo l’Amen (“Qua
perlecta, respondeant omnes Amen, et subsequatur mox abbas hymnum Te
decet laus, et data benedictione incipiant matutinos”). Il cursus dell’ufficio
vigiliare della domenica e delle festività per il natalizio dei Santi è mantenuto identico in ogni stagione, salvo il caso (ritenuto deprecabile) in cui i
monaci si alzino più tardi, nella quale circostanza si abbreviano le lezioni
e i responsori.
Vengono inoltre fornite indicazioni circa le Lodi della Domenica
(“Quomodo matutinorum sollemnitas agatur”) e dei giorni feriali (“Privatis diebus qualiter agantur matutini”) e anche per questi uffici è previsto un solo inno di stretta tradizione ambrosiana (“deinde lectio una
apostoli memoriter recitanda, responsorium, ambrosianum, versu, canticum de Evangelia, litania et conpletum est”). Una certa libertà nella scelta
dell’inno è data solamente negli uffici delle ore diurne, dove è previsto
un “hymnum eiusdem horae” per l’ufficio di Prima, Terza, Sesta e Nona e
Compieta, mentre per i Vespri è previsto, ancora una volta, solo l’ambrosianum. Quindi nella schematizzazione di Righetti (1955:493, n. 28): “S. Benedetto sembra distinguere due raccolte di inni. Gli inni fissi per la Vigilia, le Lodi e il Vespro hanno per titolo Ambrosianum e sono i quattro che
la tradizione attribuisce a S. Ambrogio; la seconda raccolta è anonima;
egli la recensisce sotto il titolo Hymnus eiusdem horae e sono mutabili a seconda del giorno e della festa”. La prassi di denominare ambrosiani gli inni
composti da Ambrogio è certificata da Isidoro di Siviglia nel De ecclesiasticis
officiis (6 De hymnis):
Sunt autem divini hymni, sunt et ingenio humano compositi. Hilarius autem, Gallus episcopus Pictaviensis, eloquentia conspicuus, hymnorum carmine
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
222
floruit primus. Post quem Ambrosius episcopus vir magnae gloriae in Christo,
et in Ecclesia clarissimus doctor, copiosus in hujusmodi carmine claruisse cognoscitur, atque iidem hymni ex ejus nomine Ambrosiani vocantur, quia ejus
tempore primum in Ecclesia Mediolanensi celebrari coeperunt, cujus celebritatis devotio dehinc per totius Occidentis Ecclesias observatur. Carmina autem
quaecunque in laudem Dei dicuntur, hymni vocantur. (PL 83, col. 743)
Quel che sembra certo, dunque, è che la regola benedettina non contempla l’elaborazione di specifici inni destinati al mattutino: secondo la
Regula, quindi, all’alba nei monasteri benedettini si dovrà cantare lo Splendor paternae gloriae di Sant’Ambrogio, cioè l’unico inno mattutino da lui
composto, un testo che ha poco a che vedere con Phebi claro. Ne riporto le
prime due strofe (AH 50, 5):
Splendor paternae gloriae,
de luce lucem proferens,
lux lucis et fons luminis,
diem dies illuminans
verusque sol, illabere,
micans nitore perpeti,
iubarque sancti spiritus
infunde nostris sensibus.
Ciò non toglie che nella consuetudine si potessero elaborare pratiche
differenti. Si dovrà in futuro effettuare una ricerca nei Consuetudinari di
Fleury. Per ora possiamo fornire alcune interessanti indicazioni leggendo
la Regularis concordia Anglicae nationis monachorum sanctimonialiumque, opera
di Sant’Ethelwold, composta sotto l’influsso dell’esperienza monastica di
San Dunstan e promulgata dal concilio di Winchester (975 ca.) per impedire che la diversità delle consuetudini e l’ingerenza dei laici provocassero
divisioni e contrasti. Ethelwold, già nel Proemio, dice a chiare lettere di rifarsi alle consuetudini monastiche in uso nelle Gallie, in particolare quelle
dei monasteri benedettini di Gand e di Fleury (PL 137, coll. 475–476). Egli
prescrive inoltre gli inni da cantare in inverno (Qualiter ordo hymnorum tempore hiemali) e fra essi spicca, per il mattutino consuetudinario, l’Aeterne rerum conditor di Sant’Ambrogio, che vedremo essere uno dei due principali
intertesti per Phebi claro (cf. §2.4), e, soprattutto, postula una maggiore libertà rispetto alla Regula della Domenica, delle sollenità festive, del periodo
dell’Avvento, della Quaresima e del tempo della Passione:
A Kalendis Novembris, usque in caput Quadragesimae, unus teneatur
ordo hymnorum, scilicet, ut in diebus brevioribus breviores dicantur hymni,
et in longioribus productiores etiam hymni psallantur: id est, ut Dominica
Vespera, O lux beata; ad Completorium, Christe qui lux es; ad nocturnas vero,
Primo dierum; et ad matutinas dicatur: Aeterne rerum conditor. Omni vero tempore ad nocturnam, ad matutinam, ad vesperam, exceptis Dominicis et festivitatibus sanctorum, feriales more solito teneantur. Praeclaris vero et festivis solemnitatibus, hymni competentes, usu celebrentur consueto. Adventus
L’alba di Fleury da un’altra specola
223
autem Domini, Quadragesimae, ac Passionis tempore hymni ejusdem cultus
legitime decantentur, ita tamen ut non hymni de jejunio, sed hi qui per totum annum currunt, Dominicis diebus sive noctibus tempore quadragesimali
celebrentur (ibid., coll. 485–486).
Fra le consetudini, peraltro, ne è riportata una in cui viene palesato
un procedimento responsorio bilingue, in questo caso greco-latino:
Quibus expletis per ordinem, statim praeparetur crux ante altare, interposito spatio inter ipsam et altare hinc et inde a duobus diaconibus. Tunc cantent Popule meus, respondentes autem duo subdiaconi stantes ante crucem canant Graece, Agios o Theos, Agios ischiros, Agios athanatos, eleison imas. Itemque
schola id ipsum Latine, Sanctus Deus. Deferatur tunc ab ipsis diaconibus ante
altare, et eos acolythus cum pulvillo sequatur, super quem sancta crux ponatur. Antiphonaque finita quam schola respondet Latine, canant ibidem sicut
prius, Quia eduxit vos per desertum. Idem vero respondeant subdiaconi Graece
sicut prius, Agios, ut supra; itemque schola Latine ut prius, Sanctus Deus. (ibid.,
coll. 492–493)
La Regularis concordia ci documenta anche circa l’antichità di una
prassi consuetudinaria propria del periodo pasquale e interna all’ordine benedettino di Fleury, cioè quella di mettere in scena la Visitatio
Sepulchri, prassi considerata dagli studiosi del teatro medievale alla stregua di una pièce proto-teatrale (Avalle 1984:95–97): ciò valga a dimostrazione della dinamicità creativa del monachesimo floriacense, entro il cui
alveo l’elaborazione dell’inno bilingue non sarà certo da considerarsi
stupefacente.
È qui infine da notare che al capitolo 43 della Regula, San Benedetto
si occupa anche dei casi in cui i monaci arrivino tardi all’ufficio notturno,
prescrivendo che coloro che arrivano dopo il Gloria del salmo 94 (che proprio per questo motivo dev’essere cantato molto lentamente e con pause),
non occupino il proprio posto nel coro, ma si mettano in quella parte che
l’abate avrà destinato ai negligenti, perché siano veduti da lui e da tutti, e
vi rimangano fino a quando, al termine dell’ufficio, abbiano riparato dinanzi a tutta la comunità con una penitenza. Ciò perché questi ritardatari
si correggano per la vergogna di essere visti da tutti. Se, infatti, rimanessero fuori del coro, qualcuno avrebbe la possibilità di tornare a dormire
o di sedersi fuori o di mettersi a chiacchierare, dando così occasione al
demonio; è bene invece che entrino.
Il motivo del sorgere, dell’alzarsi al momento opportuno è dunque
assolutamente fondamentale nella Regula del fondatore dell’ordine ed è
quindi del tutto naturale che il monaco sia esortato dagli altri monaci ad
alzarsi per tempo, affinché non ceda alle tentazioni del demonio. L’esortazione al levarsi e alla vigile attenzione è in effetti l’elemento peculiare e
ricorrente sia del testo latino di Phebi claro (surgite, surgere), sia, nella nostra
interpretazione, di quello romanzo (abigil, miraclar). Nella Regula magistri,
al capitolo De hebdomadariis divini officii in noctibus, si parla esplicitamente
224
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
del monaco preposto alla funzione di vegliare e chiamare i compagni
all’ufficio notturno, il vigilgallus (nome composto da vigil e gallus!) e se ne
descrivono partitamente i compiti (PL 88, col. 1001):
Ideo enim excitatio duobus modis committitur: ut et vicibus vigilent, et
si unus secundum carnis fragilitatem fuerit somno oppressus, alius forte vigilans constituta hora excitet negligentis collegae officium. Magna enim merces apud Dominum est excitantium ad divinum opus, quos pro fama regula
vigilgallos nominavit.
Quomodo ab eis fieri debeat excitatio
Cum hora constituta psallendi jam nocti occurrerit, surgat in his duobus
qui inventus fuerit vigilantior, excitet lente negligentiorem collegam hebdomadarum suarum. Et merito lente; quia adhuc non est petitum a Domino ab
omnibus in oratorio, ut clausa in completoriis labia ab eo aperiantur nocte.
Hos ergo ideo duos constituimus, ut invicem se suis vigiliis praeveniant. Ergo
surgentes ambo vadant cum reverentia ad lectum abbatis, et ibi oratione facta
dicant sibi lente hunc versum: Domine, labia mea aperies, et os meum annuntiabit
laudem tuam; et complentes sibi lente, mox pulsantes pedes abbatis suscitent
eum. Quo expergefacto, dicant simul, Deus: quo audito, abbas surgat intrans
in oratorio, et percusso indice oret tandiu, quandiu universi fratres ingrediantur, qui forte necessaria causa corporis occupantur. Quod si quis fecerit satis diu abbatem protrahere orationem, quod non licet, cum tarde fuerit
oratorio praesentatus, praepositos eorum culpa respiciat. Ideo enim diximus
in prima oratione abbatis universos exspectari, et mox debere occurrere, ut
omnes post inchoationem abbatis una voce scilicet petant a Domino aperiri
labia sua debere in nocturnis, sicut omnibus communiter petentibus a Domino fuerant clausa in completoriis. Nam ingredientes oratorium tertio dicant: Domine, labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam. Ideo enim
diximus tertio dici ab omnibus, ut ne quis frater modice tardius ingressus ab
hac postulatione versus fraudetur. Post quem versum, postquam ab omnibus
dictum, invitet et suscitet pastor oves suas per responsorium ad laudes Domini, dicens: Venite, exsultemus Domino, jubilemus Deo salutari nostro; ad cujus
vocis dulcedinem vel divinum favum omnis quae non accurrerit apes, sciat
se, evacuatam fructu mellis in spiritu, solam ceram corporis somno conficere,
futuro gehennae incendio concremandam.
In ogni caso, risulta evidente che entrambe le Regulae prevedono che
l’esortazione al levarsi sia rivolta ai monaci al momento delle vigiliae notturne, non per il mattutino, quando essi si dovevano considerare già alzati da tempo. Sotto questo rispetto, la funzione e il senso di Phebi claro si
spiega solo nel quadro di una regola già rilassata.
Un’altra questione di rilievo, infine, è quella del tipo di inno al quale
Phebi claro appartiene. Infatti si possono individuare due grandi gruppi, a
seconda dello scopo cui gli inni sono destinati (Fortescue 1910, s.v. hymn):
nel primo gruppo rientrano gli inni destinati al culto pubblico, comune
e ufficiale (la liturgia in senso stretto), nel secondo quelli destinati alla
devozione privata.
L’innodia liturgica si può ancora dividere in due gruppi: quello in cui
rientrano gli inni della liturgia sacrificale della Messa, raccolti nei Messali
e nei Graduali, e quello in cui rientrano gli inni della liturgia della pre-
L’alba di Fleury da un’altra specola
225
ghiera canonica, che hanno il loro posto nel Breviario o nell’Antifonario.
Anche l’innodia non liturgica, propria della devozione privata, può essere
ripartita in due tipi, a seconda che l’inno sia destinato al canto o sia eseguito in silenzio, in meditazione e in preghiera.
Esclusi i tipi innodici non liturgici, sia nella varietà cantata (cantiones e
muteti), la cui prassi è invalsa più tardi, sia in quella funzionale alla recitazione devozionale in silenzio (rhythmi, pia dictamina, psalteria rhythmica, rosaria rhythmica, officia parva, canzoni di glossa, ecc.), molto differenti e non
compatibili con la presenza della notazione musicale e del refrain, non c’è
dubbio che la varietà in cui rientra Phebi claro andrà ricercata all’interno
del primo tipo, quello della liturgia in senso stretto. Anche all’interno di
questo raggruppamento si può procedere senz’altro ad escludere i tropi
antiphonales (interpolazioni poetiche o ornamentazioni di una lezione, in
genere la terza, la sesta e la nona), le sequentiae (strutturalmente differenti
dalla tipologia innodica in senso stretto, in quanto costruite su strofe e
antistrofe) e i tropi graduales, cantati solo dal coro come interpolazioni al
Kyrie, al Gloria, al Sanctus, all’Agnus Dei. Della tipologia di Fortescue 1910
restano dunque essenzialmente due tipi: quello degli inni in senso stretto,
che, inseriti nelle horae canonicae e recitati dall’officiante, prendono il loro
nome dalle rispettive ore (“ad Nocturnas”, “ad Matutinas Laudes”, ecc.) e
quello degli inni processionali (hymni ad processione), cantati nelle processioni prima e dopo la Messa e raccolti anch’essi nel Missale e nel Graduale.
Quasi tutti gli inni di questo secondo tipo sono provvisti di refrain.
In questo secondo caso, la prassi innodica alla quale l’autore potrebbe
essersi ispirato è quella inaugurata da Theodulphus, abate di Fleury (ca 750–
ca 821), il cui inno Gloria laus fu inserito nella liturgia della Domenica
delle Palme e veniva cantato a Fleury, per consuetudine, alla fine della
processione: quando questa era arrivata alle porte del monastero, quattro religiosi cantavano l’inno all’interno dell’abbazia, con le porte chiuse,
mentre all’esterno gli scolari ripetevano tutti, in coro antifonale, i versetti:
Pueri Hebraeorum portantes ramos olivarum, obviaverunt Domino, clamantes et dicentes: Hosanna in excelsis.
Pueri Hebræorum vestimenta prosternebant in via et clamabant dicentes: Hosanna Filio David, benedictus qui venit in nomine Domini. (Rocher
1865:321)
Non mancano del resto casi di processioni fatte dai monaci all’esterno
del monastero, tutt’intorno alle mura, a piedi nudi (Rocher 1865:324) e
non è quindi affatto da escludere che il nostro inno avesse una funzione
processionale.
Ugualmente, non si può affatto escludere che Phebi claro appartenga al
tipo innodico canonico (A1 nella tipologia di Fortescue 1910) e che rappresenti un progetto ambizioso di innovazione dell’innologia tradizionale,
anche se è indiscutibile che la presenza del refrain permetta di far rien-
226
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
trare il componimento che ci interessa anche all’interno di un importante
sottogenere dell’innologia, quello, appunto dell’inno con responsorium: già
Ortiz (1943–1944:135) accostava Phebi claro alle frasi dell’Invitatorium del
Breviario romano, inframezzate alla recitazione di un salmo, con i versetti lunghi del capitulum che prevedono la recitazione dei versi brevi di un
inno mattutino, ricordando la “disposizione strofica” con refrain. Si tratta
di un tipo strofico che trova importanti corrispondenti in ambito profano
sia nelle chansons à refrain della lirica antico-francese sia proprio nelle albas trobadoriche, la cui peculiarità rispetto al resto della produzione lirica occitanica è proprio quella di essere composte, come Phebi claro, secondo il modello strofe + refrain ripetuto (Newcombe 1975; Smith 1976;
Doss-Quinby 1984:3): si tratta di un dato, a mio avviso, di fondamentale
importanza e ancora poco valorizzato nella determinazione dei rapporti
fra la nostra Alba bilingue e le albe profane e che può gettare nuova luce
sulle origini e lo sviluppo del genere alba nel Medioevo.
2.4. I principali intertesti. È estremamente significativo che i due
intertesti principali di Phebi claro siano due inni notturni, l’Aeterne rerum
conditor di Sant’Ambrogio e l’Ales diei nuntius (o Hymnus ad galli cantum)
di Prudenzio (Laistner 1881; Rajna 1887:88; Jeanroy 1889; Becker 1929;
Scudieri Ruggieri 1943; Roncaglia 1948; Kaps 2005:50–60). In entrambi,
il banditore del giorno è il gallo, a riprova del fatto che essi andavano cantati al gallicinium, cioè ancora a notte fonda. Ambrogio si rivolge all’Eterno
creatore dell’universo che governa la notte e il giorno e dà vita al mutare
delle stagioni e sottolinea che sta cantando il banditore del giorno, vigile
sentinella della notte profonda, chiarore notturno per i viandanti che divide i turni di guardia della notte. Destata dal gallo la stella del giorno libera il cielo dalla caligine (“solvit polum caligine”) e il navigante riprende
vigore e si placano i flutti del mare (“pontique mitescunt freta”). L’inno
ambrosiano contiene, come il nostro, l’esortazione ai credenti affinché
sorgano dal loro torpore: “Surgamus ergo strenue, / gallus iacentes excitat, / et somnolentos increpat, gallos negantes arguit”.
Nell’inno di Prudenzio sempre il gallo, cioè l’alato nunzio del giorno,
proclama col suo canto che la luce è vicina e Cristo, che ridesta i cuori, richiama i credenti alla vita (“Ales diei nuntius / lucem propinquam praecinit; / nos excitator mentium / iam Christus ad vitam vocat”). Cristo
invita i credenti a metter via i lettucci torpidi, sonnacchiosi e pigri e li
esorta a vigilare casti integri e sobri (“Auferte —clamat— lectulos / aegros, soporos, desides: / castique recti ac sobrii / vigilate, iam sum proximus”). La voce del gallo è figura del supremo Giudice (“nostri figura
iudicis”), che invita a lasciare il sonno (“suadet quietem linquere”) perché il giorno sta per venire, mentre gli uomini, coperti da orride tenebre
(“Tectos tenebris horridis”), stanno avvolti in pigre coltri. Il sonno è figura della morte eterna, il peccato, che come un’orrida notte, costringe a
giacere in greve torpore (“Hic somnus ad tempus datus / est forma mor-
L’alba di Fleury da un’altra specola
227
tis perpetis, / peccata ceu nox horrida / cogunt iacere ac stertere”). Ma
dall’alto viene ad ammonire la voce di Cristo che ricorda ai credenti che
la luce è vicina ed esorta la mente ad affrancarsi dal sonno (“Sed vox ab
alto culmine / Christi docentis praemonet, / adesse iam lucem prope, /
ne mens sopori serviat”). Al cantare del gallo, i vaganti spiriti maligni,
che si rallegrano del buio delle notti, atterriti si disperdono e svaniscono
(“Ferunt vagantes daemonas / laetos tenebris noctium, gallo canente exterritos / sparsim timere et cedere”), perché, quando si squarcia il velo
oscuro delle tenebre, la vicinanza della luce mette in fuga i ministri della
notte (“Invisa nam vicinitas / lucis, salutis, numinis / rupto tenebrarum
situ / noctis fugat satellites”).
Il significato allegorico di quest’alata figura fu mostrato da Cristo a
Pietro, quando gli predisse che lo avrebbe rinnegato prima che il gallo
avesse cantato: il peccato, infatti, si compie prima che il banditore del
giorno porti la luce al genere umano e metta fine al suo peccare. Inoltre,
nell’ora del riposo, quando il gallo canta con un fremito di gioia, Cristo
risalì dagli Inferi e umiliò la baldanza della morte, sottomise la legge
dell’inferno: la forza del giorno, insomma, vinse la notte e la costrinse a
ritirarsi. Al mattino è necessario che cessino le malvagità, s’addormenti
la colpa tenebrosa, si stemperi il delitto portatore di morte, ma nel tempo
che resta al chiudersi del corso della notte è necessario che lo spirito resti
vigile e vegli operoso e saldo come una sentinella (“Vigil vicissim spiritus
/ quodcumque restat temporis, / dum meta noctis clauditur, / stans ac
laborans excubet”). L’inno si chiude con una duplice esortazione, ai credenti e a Cristo. Infatti, poiché menzognere e futili sono le azioni fatte,
come dormendo, per la gloria mondana, il poeta chiede al credente di essere continuamente vigile (“Sunt nempe falsa et frivola, / quae mundiali
gloria / ceu dormientes egimus: / vigilemus, hic est veritas”). A Cristo si
rivolge perché dissipi il sonno, spezzi le catene della notte, sciolga l’antico
peccato e porti luce nuova (“Tu, Christe, somnum dissice, / tu rumpe
noctis vincula, / tu solve peccatum vetus / novumque lumen ingere”).
In Phebi claro il nunzio del giorno è lo spiculator/preco, che sembrerebbe
avere la stessa funzione del gallo, cioè quella di rappresentare allegoricamente sia Cristo, sia, con la sua voce, il supremo Giudice. Alcuni versi sembrano calchi precisi. Si confronti: “Auferte —clamat— lectulos / aegros,
soporos, desides” con “Spiculator pigris clamat: ‘Surgite!’”, oppure “suadet
quietem linquere” con “Quos suadet preco clama[ns] surgere”.
Si noti però che sia l’Aeterne rerum conditor sia l’Ales diei nuntius sono
inni ad galli cantum, cioè notturni, da cantare al gallicinium, non mattutini
da cantare al diluculum. Una certa affinità funzionale, oltre che un preciso
riscontro (cf. qui infra), si ha invece nell’innologia mozarabica, propria
di un culto certamente meno rigido, con l’inno Noctis tempus iam praeterit,
cantato durante l’ufficio mattutino della quarta Domenica di Quaresima
(AH 27, 30, In Laudibus):
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
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Noctis tempus iam praeterit,
Iam gallus canit viribus,
Gallo canente spes redit,
Aegris salus refunditur.
Somno gravati surgite,
Cordis reatum pandite,
Iesuque laudem dicite,
Qui nos redemit sanguine;
Detto questo, risultano del tutto evidenti le differenze fra Phebi claro e
gli intertesti principali: sia nel testo di Ambrogio, sia in quello di Prudenzio, sia nell’anonimo inno mozarabico (come, del resto, in tutti gli inni
mattutini che ho potuto studiare), l’aspetto allegorico non è mai implicito, esso anzi è sempre esplicitato il più possibile, tanto che Prudenzio
parla senza mezzi termini di figura. Inoltre, in tutti gli intertesti la figura
chiave del Cristo salvatore, del Cristo che risveglia gli animi dei peccatori,
è sempre menzionata a chiarissime lettere. Nei due bellissimi inni di Ambrogio e Prudenzio, come nell’innologia successiva, niente resta implicito,
la funzione didascalica risulta essere anzi assolutamente preminente: tutti
gli inni che abbiamo analizzato contengono esplicite menzioni di Cristo,
della Vergine o del Santo di turno. L’assenza di tali menzioni in Phebi claro
ci fa ritenere che il testo sia mutilo della parte in cui queste menzioni
erano presenti. Questo dato potrebbe trovare conferma e riscontro in ciò
che abbiamo già notato nel paragrafo precedente: l’inno potrebbe essere
lacunoso di una porzione cospicua della parte finale (cf. al riguardo Rajna
1887:88–89 e n. 3).
Il commento puntuale che segue mostrerà, ben oltre i due casi analizzati, l’estrema coerenza di Phebi claro con il sistema stilistico degli inni coevi e al contempo la sua estrema originalità rispetto ai canoni prefissati.
2.5. Commento al testo latino.
vv. 1–2. Il momento della notte descritto è il matutinum, o più probabilmente, il diluculum, universalmente considerato, non tanto come l’inizio del giorno, quanto come l’ultima parte della notte. Cf. in proposito
Rabano Mauro, De rerum naturis, X, 7 (De septem partibus noctis):
Noctis autem partes septem sunt: crepusculum, [vesperum], conticinium,
intempestum, gallicinium, matutinum, diluculum. [. . .] Gallicinium propter
gallos lucis praenuntios dictum. Matutinum est, inter abscessum tenebrarum
et aurorae adventum: et dictum matutinum, quod hoc tempore inchoante
mane sit. Diluculum, quasi jam incipiens parva diei lux: haec et aurora, quae
solem praecedit. Est autem aurora diei clarescentis exordium, et primus splendor aeris, qui Graece eos dicitur, quam nos per derivationem auroram vocamus,
quasi euroram [. . .]. Gallicinium autem conversionem peccatorum significat.
Unde eodem tempore Petrus, qui Dominum negando in tenebris oblivionis
erravit, et speratae jam lucis rememoratione correxit, et ejusdem verae lucis
adepta praesentia plene totum, quidquid mutaverat, erexit. Hunc opinor gal-
L’alba di Fleury da un’altra specola
229
lum aliquem doctorum intelligendum, qui vos jacentes excitans et somnolentos increpat, dicens: Evigilate, justi, et nolite peccare. Matutinum ergo sive diluculum resurrectionis Dominicae tempus significat, vel hominis a peccatis ad
justitiae plenam conversionem. Unde Psalmista ad Dominum ait: Ad te de luce
vigilo: et in matutinis meditabor in te, quia factus es adjutor meus (Psal. 72). Ad ipsum vigilatur, quoties in mundi ambitione dormitur. Nam illa sic consequimur, si ista deserere festinemus. Bene autem adjecit: In matutinis meditabor in te
(Psal. 107); et alibi: Exsurgam diluculo; quando tempus Dominicae resurrectionis eluxit, et tunc ejus laudes cerneret, quando genus humanum exemplo suae
resurrectionis animavit. Matutinum judicii dies sive resurrectio mortuorum,
ut in psalmo: In matutinis interficiebam omnes peccatores terrae (Psal. 100). Aurora
est Ecclesia, eo quod post tenebras peccatorum luce fidei illustrata sit, ut in
Job: Et ostendisti aurorae locum suum (Job. 38). (PL 111, coll. 292–294).
Ma è Amalario di Metz a fornirci nel capitolo 5 del De ordine antiphonarii, dove si tratta De matutinali officio quotidianarum noctium, la descrizione
più accurata e illuminante sulla questione:
Quoniam homo pars est mundi, apud Graecos appellatur mikrov kosmoı,
id est, minor mundus: et ideo non immerito statui temporum comparatur
tota series nativitatis humanae. Nox enim dicta est quod noceat aspectibus
vel negotiis humanis, sive quia fures latronesque in ea nocendi aliis occasionem nanciscantur. Ignorantia mentis, quae solet evenire ex tenebris peccatorum, comparatur nocti. [. . .] Talium mentes solet Christus propter suam misericordiam intervenientibus meritis sanctarum, visitare quodammodo hora
matutina. Matutinum est secessus tenebrarum, et adventus aurorae. Eo tempore sol appropinquat ad superiora, ut expellat tenebras a superficie terrae.
Adveniente sole, vero, expellitur caligo ignorantiae a mente humana, sicut
factum est super Petrum quando flevit amare, et quando misit Deus Natham
prophetam ad David, ut recognosceret peccatum suum. [. . .] Post matutinum
tempus sequitur diluculum. Diluculum est quasi jam incipiens parva lux diei.
Nisi haec pars pertineat ad noctem, non erunt septem partes noctis quas doctores enumerant, id est, crepusculum, vesperum, conticinium, intempesta,
gallicinium, matutinum, diluculum. De eadem hora dicitur in Evangelio: Una
sabbati valde diluculo veniunt ad monumentum. Eadem hora vocatur et mane.
Scribit et Joannes de eadem hora: Maria venit mane cum adhuc tenebrae essent.
Et Marcus, quod jam praetulit: Sero an media nocte, an galli cantu, an mane.
(PL 105, coll. 1252–1253)
Lo stesso Amalario, nel capitolo seguente (PL 105, col. 1255), annota:
“Mane est quidam angulus noctis et diei. Diluculum et exortus solis mane
vocantur, ut praetuli, in Evangelio”.
Il riscontro scritturale da Giovanni è di grande importanza, in quanto
dimostra in maniera inequivocabile che il diluculum può esser considerato
come un momento della notte in cui le tenebre ancora non si sono diradate (cf. §3.3, la nota a miraclar tenebras).
Da ultimo, a conferma, si noti il preciso riscontro con Phebi claro in
Censorino, De die natali:
Tempus, quod huic proximum est, vocatur de media nocte; sequitur gallicinium, cum galli canere incipiunt, dein conticinium, cum conticuerunt;
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tunc ante lucem, et sic diluculum, cum sole nondum orto iam lucet. (Cholodniak 1889)
Phebi. Febo ad intendere il sole si ritrova nell’innologia solo nel X sec.
e abbastanza raramenente. Simile la perifrasi nell’incipit dell’inno mattutino AH 51, 109 In sanctorum Apostolorum. Ad Laudes: “Ortu Phoebi iam proximo / Hymnum dicamus Domino”.
iubare. In clausola anche in AH 2, 120 (De Sancto Sacerdote hymnus):
“Benigna nobis hodie / Christi refulget gratia, / Solisque festa clarior /
Laetificat nos jubare”; AH 2, 133 (De portis supernae Jerusalem): “Auricolor
Chrysolithus / Scintillat velut clibanus, / Praetendit mores hominum /
Perfecte sapientium, / Qui septiformis gratiae / Sacro splendescunt jubare”. AH 7, 132 (De sancto Benedicto): “Laeta dies / aureo jubare / corruscat / aethra nitentia”. Costrutto e stilemi quasi identici in un testo
di ambiente floriacense, AH 13, 23 (In Translatione s. Benedicti): “Cordis
amore credulus / Senis promissionibus / Noctem pervigil excubat, / Precibus coelum penetrat, / Hinc sanctorum reliquiae / Claro monstrantur
jubare. // Nondum sol per orbem suos / Coelo fundebat radios”.
Aurora. La menzione dell’aurora, più o meno personificata e trattata
in termini mitologici, è presente nell’incipit di numerosissimi inni (ne
conto una cinquantina in Chevalier 1892–1921), soprattutto mattutini: Cf.
già Gregorio Magno AH 51, 31 (Die Dominica ad Matutinas Laudes): “Ecce,
iam noctis tenuatur umbra, / Lucis aurora rutilans coruscat; / Nisibus
totis rogitemus omnes / Cunctipotentem” e, fra i più antichi e importanti,
si veda anche AH, 51, 5 (Die Dominica ad Matutinas Laudes): “Deus, qui caeli
lumen es / Satorque lucis, qui polum / Paterno fultum brachio / Praeclara
pandis dextera; / Aurora stellas iam tegit / Rubrum sustollens gurgitem,
/ Humectis namque flatibus / Terram baptizans roribus”; AH, 2, 16, In matutinis laudibus: “Aurora jam spargit polum, / Terris dies illabitur, / Lucis
resultat spiculum, / Discedat omne lubricum” (già addotto da Lazzerini
1979:144); AH 2, 46 (In matutinis laudibus): “Aurora lucis rutilat, / Coelum
laudibus intonat, / Mundus exsultat, jubilat, / Gemens infernus ululat”.
lumen terris. Sintagma identico in AH 19, 188 (De sancto Columbano):
“Nostris solemnis saeculis / Refulget dies inclita, / Qua sacer coelos Columba / Ascendit ferens trophaea. // Sed priusquam eum mater / In auras lucis ederet, / E sinu solem prospicit / Terris lumen diffundere”.
v. 3. Spiculator. In questa forma compare sempre nel senso di ‘carnefice’ nell’innologia antica. La confusione fra speculator e spiculator non è
infrequente. Ad esempio nell’epistola di San Girolamo Ad Innocentium de
muliere septies percussa (PL 22, col. 329): “Jam spiculator exterritus et non
credens ferro, mucronem aptabat in jugulum”, ma in apparato: “Vitiose
[Martianaeus] tamen legerat ille speculator pro spiculator”. Cf. anche Du
Cange, s.v. e FEW 12, 162: “Lat. speculator confondu à basse époque (Ter-
L’alba di Fleury da un’altra specola
231
tullien) avec spiculator ‘bourreau’ fut emprunté dans ce sens par la langue
lettrée”.
Lazzerini (1985) ha allegato riscontri per l’interpretazione allegorica
che vede nello speculator il predicatore e Di Girolamo (2009) l’angelo custode. Nella Vulgata troviamo una ventina di volte speculator, due volte speculatio e quattro specula e speculari: il senso di queste parole, apparentate
a specere, spicere, respicere è sempre strettamente legato a quello di specula,
nel senso di ‘osservatorio, luogo d’avvistamento’. Mentre spicere, e respicere
significano soprattutto ‘guardare’, speculari riveste piuttosto la sfumatura
di ‘spiare, scrutare con attenzione’ e speculator equivale, generalmente, a
‘spia, guardiano, sentinella’ e traduce il greco skopó ı.
Nella patristica, e in genere nella letteratura religiosa mediolatina,
speculatio è spesso sinonimo di contemplatio, ma una significazione particolare è data dal fatto che questo lemma figura nell’etimologia tradizionale del monte Sion. Nel Medioevo, per interpretare speculatio, si fa intervenire speculum, ‘specchio’, allorché si vuole trattare di una conoscenza
mediata dalla figuralità o dalle similitudini, o si fa riferimento a specula,
che designa un osservatorio, per individuarvi la peculiarità di una visione
dall’alto: speculator è allora applicato a coloro che sono incaricati di sorvegliare ed osservare il popolo di Dio, cioè i vescovi o i sacerdoti o, in alcuni
casi, lo stesso Cristo.
Nella maggior parte dei casi reperibili nella Patrologia il termine speculator è collegato per via etimologica a episcopus. Fra le prime attestazioni
troviamo il trattato De duodecim abusionibus seculi, attribuito a Cipriano o
Agostino (PL 4, col. 879):
cum episcopus nomen graecum sit, speculator interpretatur. Quare vero
speculator ponitur, et quid a speculatore requiritur, Dominus ipse denudat,
cum sub Ezechielis prophetae persona, episcopo officii sui rationem denuntiat, ita inquiens: Speculatorem dedi te domui Israel. [. . .] (Ezech. 3, 17). Decet
ergo episcopum, qui omnium speculator positus est, peccata diligenter attendere, et postquam attenderit, sermone, si potuerit et actu corrigere.
Questo accostamento allegorico, fondato su base etimologica, ricorre
in maniera più o meno dettagliata in numerosissimi trattati liturgici
dell’Alto e del Basso Medioevo. Si legga, ad esempio, quello, molto dettagliato e specifico che abbiamo ritrovato nel De divinis officiis, attribuito ad
Alcuino (PL 101, col. 1235):
Episcopus Grece, Latine dicitur superintendens: epiv super skope§in intendere, hinc episcopus superintendens, id est supervidens: quia ipse debet
supervidere vitam subjectorum suorum, qualiter credant, qualiter vivant,
qualiter Dei praecepta custodiant. Antiquis temporibus in singulis civitatibus
erant turres altissimae constructae: unaquaeque civitas habebat suam turrim,
in qua stabat speculator assidue, ut a longe posset aspicere, si exercitus ve-
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niret ex aliqua parte; si videret exercitus venientem, nuntiabat statim regi,
et praeparabantur omnes ad bellum contra hostem illum. Speculatoris illius
similitudinem gerit modo episcopus: quia sicut ille stabat in altitudine turris,
sic episcopus et presbyter debent consistere in altitudine virtutum. Sicut enim
illa turriis caeteras domos excellebat, sic episcoporum et presbyterorum vita
debet excellere vitam subjectorum: et sicut ille speculator nuntiabat adventum hostis, ut se praeviderent cives, sic episcopi et presbyteri debent annuntiare populis sibi subjectis adventum nequissimi hostis diaboli, ut se praevideant, ne ejus laqueo capiantur.
Anche nell’Epistola 70 Ad Speratum episcopum, scritta nel 797, Alcuino
insiste specificamente su questa metafora (PL 100, col. 242):
Quotidie operemur bonum, dum tempus habemus (Gal. 6, 10); ne nos
tenebrae comprehendant (Joan. 12, 35), nec imparatos illa metuenda dies inveniat. Tu vero pastorali pietate ac sacerdotali auctoritate, non solum meam
suscitare litteris socordiam studeas, sed etiam omnibus te audientibus pia paternitate, ut vigilent, praedicare non cesses. Si lingua sacerdotalis clavis est
coelestis regni, decet ut guttur illius tuba sit aeterni Regis, dicente propheta:
Clama, ne cesses; exalta sicut tuba vocem tuam (Isai. 58, 1). Quis se parat ad bellum, si praeco in castris non clamat? Quis hostibus succinctus in armis obsistit introitum, si speculator in celso turris fastigio dormit?
Per Onorio d’Autun, invece, lo speculator è, più in generale, figura del
sacerdote (Speculum Ecclesiae, PL 172, coll. 861–862):
Nobis dicitur a Domino: Fili hominis, speculatorem te constitui domui Israel
(Ezech. 3). Speculator solet in alto stare, ut praevisos hostes possit civibus nuntiare. Ecclesiae pastores vel speculatores sunt sacerdotes, quorum vita in alto
virtutum debet locari, ut hostium adventus, id est daemonum vel viciorum
impetui possit Christianis praenuntiari.
In un sermone di Pietro Cellense lo speculator, oltre a essere figura del
vescovo e del sacerdote, lo è anche di Cristo (PL 202, coll. 890–891):
unde hic dicit: Fili hominis, speculatorem dedi te. Quo se alio nomine toties
in Evangelio appellaverit? quoties Filium hominis non succurrit memoriae? et
hoc tam solemne nomen principaliter episcopis, secundario omnibus sacerdotibus indulsit. Unde et episcopus superintendens, id est speculator interpretatur; et minores sacerdotes, qui licet non habeant plenitudinem potestatis,
tamen vocati sunt in partem sollicitudinis, eamdem accipiunt sollicitudinem
speculandi cum cura regendi populi. Hic vero Filius hominis de specula coeli speculatur super filios hominum, ut videat si est intelligens aut requirens
Deum; speculatur et conscientias omnium hic astantium bonae an malae
sint, mundae an immundae, devotae an indevotae. Speculatur speculatorem
utrum stet in specula sua totis diebus et totis noctibus, utrum clamet sicut leo
fortiter. Hoc enim officium est speculatoris, vigilare, aspicere et clamare assidue, et in sublimiori stare vel sedere. In vigiliis notatur sollicitudo, in aspectu
sive contuitu lectio et contemplatio, in clamore praedicatio in altiori statione
religio. Excludit sollicitudo negligentiam, lectio ignorantiam, contemplatio
saecularium negotiorum curam, praedicatio excitat timorem et amorem divinum, religio informat mores sibi commissorum.
L’alba di Fleury da un’altra specola
233
Quest’ultima, complessa, che vede nello speculator ogni ministro della
Chiesa di Cristo, è l’interpretazione allegorica, già sostenuta da Becker, Suchier e Birch-Hirschfeld (1913:12–13), alla quale ritengo ci si debba rifare.
C’è però da sottolineare che il lemma è attestato molto raramente nell’innologia del X secolo e in quella precedente e, per di più, in contesti che
presentano in genere scarsa attinenza con il nostro testo. L’occorrenza più
significativa è quella di AH 2, 10 (In matutinis laudibus), inno che compendia il Nox et tenebrae et nubila di Prudenzio: “Speculator adstat desuper, /
Qui nos diebus omnibus / Actusque nostros prospicit / A luce prima in
vesperum”, dove lo speculator è allegoria di Cristo (cf. glossa riportata in
PL 59, col. 794a: “Speculator, Christus, Iso.”), mentre al sacerdote rinvia
l’inno AH 31, 10: “Almus ille speculator / sacerdos in populo / Semper
astat super gregem, / pugnat contra impios, / Ut nec unam possit ovem /
rapere de gregibus”, dove, più che alla scolta, ci si riferisce al guardiano
del gregge di memoria scritturale.
“Surgite!”. L’incitazione ad alzarsi è già in Is. 60, 1: “Surge, illuminare, Jerusalem, quia venit lumen tuum et gloria Domini super te orta
est”, vero e proprio archetipo, anche per l’interpretazione in chiave cristologica (e utile anche per comprendere poi il senso di abigil miraclar:
cf. §3.3. commento relativo e gli altri riscontri da Isaia) e poi in Paolo
Rom. 13, 11: “hora est jam nos de somno surgere”, Eph. 5 14: “Surge qui
dormis, et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus”. Nell’innologia,
come abbiamo visto, entra fin dall’Aeterne rerum conditor di Sant’Ambrogio:
“Surgamus ergo strenue! / Gallus iacentes excitat, / et somnolentos increpat, / Gallus negantes arguit”. Analogamente anche nella prima strofa
dell’inno notturno Somno refectis artubus, attribuito allo stesso Ambrogio:
“Somno refectis artubus, / spreto cubili, surgimus: nobis, Pater, canentibus adesse te deposcimus”.
L’esortazione ad alzarsi è anche nell’inno mattutino Primo dierum omnium, attribuito a Gregorio Magno: “Primo dierum omnium, / quo mundus exstat conditus / vel quo resurgens conditor / nos, morte victa, liberat. // Pulsis procul torporibus, / surgamus omnes ocius, / et nocte
quaeramus pium, / sicut Prophetam novimus”. Già individuato da Lazzerini 1979 il riscontro da AH 27, 30 (Dominica 4. Quadragesimae. In laudibus):
“Noctis tempus iam praeterit, / Iam gallus canit viribus, / Gallo canente
spes redit, / Aegris salus refunditur. // Somno gravati surgite, / Cordis
reatum pandite, / Iesuque laudem dicite, / Qui nos redemit sanguine”
(già commentato supra).
Anche nelle albas trobadoriche ricorre di frequente l’invito al levarsi.
Cf. BdT 342, 1: “Or levetz sus, francha corteza gans! / Levetz, levetz! trop
avetz demoret, / qu’apropchatz s’es lo jors clers et luzans”; BdT 461, 203:
“Drutz al levar! / Qu’ieu vey l’alba e·l jorn clar”; BdT 409, 2: “Sus levatz /
drutz c’amatz”; BdT 156, 15: “Estatz sus elevatz / senhor, que Dieus amatz!”.
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BdT 76,23: “qu’ieu aug que li gaita cria:‘via! sus! qu’ieu vey lo jorn / venir
apres l’alba’”.
vv. 6–7. Per via delle condizioni della luce e dello stato non ancor vigile
degli uomini, il diluculum è il momento più propizio per attaccare una fortificazione. Numerosi trattatisti invitano a rafforzare la guardia e aumentare la sorveglianza. Settia (2002:253) annota: “L’attacco sferrato ‘summo
diluculo’, cioè di primissimo mattino, consente di sfruttare le condizioni
della luce non appena esse si presentano con la probabilità di cogliere di
sorpresa un nemico non ancora pronto a difendersi” (cf. ivi: 254–255 numerosi esempi di attacco in questo momento del giorno). Il senso allegorico è chiaro: Roncaglia (1948), a proposito del canto delle scolte modenesi, allegava numerosi inni “Dove sempre, sotto le metafore guerresche,
si allude, com’è chiaro, alla difesa dal diavolo e dalle sue tentazioni, dagli
incubi, dalle fallaci lusinghe dei sogni, dal pericolo delle oscure rivincite
che il corpo si prende nel sonno dello spirito”. Anche secondo Becker, Suchier e Birch-Hirschfeld (1913:12–13) i nemici sarebbero i pensieri peccaminosi. Riscontri innologici in Di Girolamo 2009:85–86.
Quasi identico al nostro il passo dell’Expositio in Psalmos di Brunone
d’Asti: “Boni speculatores, qui assidue vigilant, ne quasi incauti ab hostibus capiantur” (PL 164, col. 1005).
v. 8. suadet. Cf. il riscontro da Prudenzio addotto supra §2.4.
preco. Nell’Aeterne rerum conditor di Sant’Ambrogio, come si è visto, il
praeco diei è il gallo: “Praeco diei iam sonat, / noctis profundae pervigil, /
nocturna lux viantibus / a nocte noctem segregans”. Nell’innologia del X
secolo, invece, il lemma fa quasi sempre riferimento a San Giovanni Battista, il praeco verbi per antonomasia. Fra i molti esempi cf. AH 2, 55 (De S.
Johanne): “1. Praecursor alti luminis / Et praeco verbi nascitur, / Laetare,
cor fidelium, / Lucemque gaudens accipe”; AH 2, 122 (De decollatione Sancti
Johannis): “3. Hic Dei praecessit unum / matre natum filium, / Temporeque subsequente / praeco verax praeiit, / Mortis et praecursor ipsa /
morte primus concidit”; AH 14, 89 (In Nativitate s. Johannis B.): “1. Praeco
praeclarus sacer et propheta, / Regis aeterni paranymphus almus / Voxque
clamantis, Domino potenter / Dirige callem”. Cf. anche nota a spiculator.
vv. 11–13. Riferimenti astronomici si incontrano anche in alcune albas
provenzali: cf. Di Girolamo 2009:85. La strofa presenta notevoli difficoltà
interpretative, sia in ragione di varie polisemie testuali, sia per le numerose possibilità interpretative della configurazione astronomica rappresentata. La corretta lettura è tuttavia centrale per determinare la collocazione
stagionale dell’inno. Secondo Becker (1929), Zumthor (1984), Meneghetti
(1997, 1998) e Kaps (2005) le due perifrasi astronomiche rinvierebbero
al periodo postequinoziale e quindi l’inno sarebbe stato concepito per
essere cantato all’alba della Domenica di Pasqua. Un’analisi complessiva
dei tre versi ci porta, invece, a ritenere che la stagione configurata debba
essere l’autunno.
L’alba di Fleury da un’altra specola
235
Ab Arcturo. Oggi con il nome Arturo designiamo la quarta stella più
brillante del cielo. Il nome deriva dal greco Arctouros, che significa letteralmente Guardiano dell’Orso o Coda dell’Orso (ossia dell’Orsa Maggiore, la costellazione in cui è contenuto l’asterismo del Grande Carro): in effetti, Arturo si individua facilmente utilizzando le tre stelle del timone del Grande
Carro come guida, prolungandone la direzione per circa due volte la lunghezza del timone stesso, come risulta evidente dalle mappe celesti riprodotte in calce (figg. 4 e 5). Nella tradizione classica, da Plauto a Orazio, da
Plinio a Ovidio a Claudiano, Arcturus era una stella portatrice di tempesta
(procellosa): questa opinione trovava la sua ragion d’essere nel fatto che il
mare soleva essere tempestoso nel periodo dell’anno in cui Arturo sorgeva
la sera o tramontava al mattino. Così, secondo Vegezio (Epitoma rei militaris, 4, 39) la navigazione sarebbe sicura solamente “a die VI Kal. Iunias
usque in Arcturi ortum, id est in diem VIII decimum Kal. octobres”; in
seguito la navigazione diviene incerta “quia post idus septembres oritur
Arcturus, vehementissimum sidus”. Per Columella (Res rustica, 11 2, 21 e
43): “IX kal. Martii Arcturus prima nocte oritur, frigidus dies Aquilone vel
Coro, interdum pluvia [. . .] XI et X kalendas Iunias Arcturus mane occidit, tempestatem significat” (Rodgers 2010:433 e 439).
Il problema interpretativo, però, nasce dal fatto che già i latini
dell’epoca arcaica e classica con il nome Arcturus designavano sia la stella
che ancor oggi ha questo nome, sia la costellazione di Bootes, della quale
Arturo fa parte, e ben presto anche realtà astrali del tutto diverse: così Arcturus, per via dell’affinità onomastica, viene a designare la costellazione
di Arcton (già in Plinio, Naturalis historia 27, 33 “Arction aliqui potius Arcturum vocant”), nome con cui, peraltro, era possibile indicare sia l’Orsa
minore, sia l’Orsa maggiore (Gundel 1907:140). Tale polisemia si riscontra
anche nei Padri. Così, Boezio vedeva in Arcturus la stella che ancor oggi
porta questo nome e ugualmente, e più in chiaro, i suoi commentatori
d’epoca umanistica Giovanni Murmellio e Rodolfo Agricola nei Commentaria in Libros De Consolatione Philosophiae (PL 63, col. 1052):
Bootes. Arctophylax. Bootes oritur tertio idus Februarias, ut docet Ovidius in Fastis. Arctophylax autem interpretatur Ursi custos. Idem etiam appellatur Bootes. [. . .] Dicitur etiam Arcturus, ut docet Lactantius grammaticus. Servius tamen scribit Arcturum proprie esse stellam in signo Boote,
cujus ortus et occasus tempestates gravissimas facit . . .
Ma già Isidoro di Siviglia, nel De natura rerum, sulla base delle Scritture, fornisce un’interpretazione del tutto differente, assimilando Arturo
alle sette stelle del Grande Carro e quindi, allegoricamente, alla Chiesa
che rifulge delle sette virtù (PL 83, col. 998):
Arcturus est ille quem Latini Septentrionem dicunt, qui septem stellarum radiis fulgens, in seipso revolutus rotatur, qui ideo Plaustrum vocatur,
quia in modum vehiculi volvitur, et modo tres ad summa elevat, modo quat-
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Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
tuor inclinat. Hic autem in coeli axe constitutus semper versatur, et nunquam
mergitur. Sed dum in seipso volvitur, et nox finitur. Per hunc Arcturum, id est
Septentrionem, Ecclesiam septenario virtute fulgentem intelligimus.
Con questa opinione concorda l’autore dell’Espositio interlinearis Libri Job, con la variante per cui le sette stelle del Carro rappresentano la
somma della Trinità e delle quattro virtù principali: “Arcturus ex septem
stellis constat: ita et Ecclesia ex fide Trinitatis, et operibus quatuor principalium virtutum consummatur” (PL 23, col. 1461).
Nel Commentarius in Amos prophetam, attribuito a Rufino d’Aquileia,
Arcturus indica semplicemente la plaga del settentrione:
Notandum etiam illud, quod cum descriptionem aethereae informationis vellet amplecti, astrorum vocabulis quatuor plagas, quae etiam Climata
vocantur, expresserit: id est, Arcturo Septentrionem, Orione vero Australem,
quae est e regione, constituens: diei autem et noctis vicissitudine, ortum Solis, occasumque signando. (PL 21, col. 1076)
San Girolamo torna tre volte su Arturo nei Commentarii in Librum Job,
trattando dei relativi passi del Libro di Giobbe: una prima volta nel commento al versetto Ab interioribus egredietur tempestas, et ab Arcturo frigus, di
cui tratteremo parlando del lemma “Aquilo”, una seconda volta, solo en
passant, glossando il versetto Qui facit Arcturum, et Oriona, et Hyadas, et interiora Austri (PL 26, col. 638 “Qui facit Arcturum, id est, primos in resurrectione Ecclesiae”). Infine nel commento a Job 38, Numquid conjungere valebis
micantes stellas Pleiades, aut gyrum Arcturi poteris dissipare?, da cui risulta evidente l’identificazione di Arturo con il Septemtrio (PL 26, coll. 759–760) e
il numero sette con la settiforme grazia dello Spirito Santo:
Ait ergo Dominus ad Job: Numquid ut hae stellae junctae, et simul sint,
tua potentia facere potuisti? Septentrionis quoque sive Arcturi circuitum,
quem indesinenti gyro per sinistram plagam mundi in se feci recurrere, ut
totus in se vadat semper et redeat: numquid tu poteris dissipare? [. . .] In
hoc igitur coelo etiam stellae Pleiades, et Septentrionis, unam in se sacrae
interpretationis continent formam. Ipse enim septenarius numerus septiformis Spiritus gratias in se demonstrat, quae in hoc micant, ipsique gratiarum
spiritus in eodem firmamento coeli sunt fulgentes.
Rabano Mauro, commentando nel De universo ((9, 12–13) lo stesso versetto, si pone sulla medesima linea interpretativa, leggendo, come Isidoro
di Siviglia, in questa costellazione che sembra non tramontare mai un’allegoria per la Chiesa, che mai è tramontata, nonostante le tribolazioni
patite (PL 111, coll. 272–273):
Pleiades autem et Arcturus quid significent, in sententia qua Dominus ad
beatum Job locutus est, animadverti potest. Ait enim: Nunquid jungere valebis
micantes stellas Pleiades aut gyrum Arcturi poteris dissipare? [. . .] Arcturus vero ita
nocturna tempora illustrat, ut in coeli axe positus per diversa se vertat, nec
tamen occidat. [. . .] In Arcturo autem, qui per gyrum suum nocturna spatia
non occasurus illustrat, nequaquam particulatim edita vita sanctorum, sed
L’alba di Fleury da un’altra specola
237
tota simul Ecclesia designatur, quae fatigationes quidem patitur, nec tamen
ad defectum proprii status inclinatur. [. . .] Potest ergo per Arcturum, qui a
plagis frigoris nascitur, lex; per Pleiades vero, quae ab Oriente surgunt, testamenti novi gratia designari. Quasi enim ab Aquilone lex venerat, quae tanta
subditos rigiditatis asperitate terrebat, dum pro culpis suis alios praeciperet
lapidibus obrui, alios gladii morte multari.
Pur se il Septemtrio non è esplicitamente menzionato, come negli altri casi esaminati si tratta anche qui di una costellazione sempre visibile
(“non occasurus”) situata al Nord (“qui a plagis frigoris nascitur”, “Quasi
enim ab Aquilone lex venerat”, per cui cf. qui il commento relativo).
I brani (pochi e tardi) che troviamo nell’innologia riprendono quasi
testualmente il versetto di Job 38, accogliendo di fatto l’interpretazione
Arcturus = Septemtrio. Si legga AH 55, 92 (De sancto Bernardo Claraevallense):
“Ad superna suspirantes / In aeterna luce stantes / Invocemus iubilo, //
Ubi Pliades micantes / Igne lucent, exsultantes / In fluente rutilo; //
[. . .] // Gyrum dissipans Arcturi / Dator boni veri puri / Bernardum
eximium // Consummato transituri / Status cursu permansuri / Vocat
ad tripudium”; AH 64, 20: “Gyrum valens Arcturi terere, / Et, qui caelum
insignit sidere, / Lac exposcit et eget ubere”; AH 64, 784: “Cur, qui potest
Arcturum terere / Et qui solem dat signa currere, / Solus caelum sciens
disponere, / Vulneratur transiectus vomere?”; AH 64, 1018: “Tam nescires
verbis exprimere, / Quae sentires intus dulcescere, / Quam nequires Arcturum terere / Et Pliadas micantes iungere”.
Il complesso di questi riscontri mostra un’evidente polisemia del nome
Arcturus, in riferimento alla stella che ancor oggi porta il suo nome, ma
anche alla costellazione di sette elementi situata al Nord, sia essa il Grande
o, meno probabilmente, il Piccolo Carro. Per ciò che riguarda l’interpretazione allegorica, Lazzerini (1985) ha ritenuto che Arcturus, inteso come
stella, sarebbe da intendersi come figura del Cristo vittorioso sugli Inferi
e “simbolo della Chiesa trionfante”. I riscontri addotti e i molti altri adducibili fanno propendere per una doppia possibilità interpretativa: nel caso
in cui si veda in Arcturus la stella di Bootes, non sarà difficile scorgervi la
figura di Cristo, nel caso in cui vi si individui il Grande Carro, sarà giocoforza interpretarlo allegoricamente con la Chiesa.
Aquilo. Si tratta del vento gelido del Nord (cf. ad esempio Rabano
Mauro, De universo, 9, 25, De ventis, PL 111, coll. 281–282) e, per estensione,
dello stesso punto cardinale. Si noti che già Lazzerini (1985 e 1996) vedeva
in Aquilo l’allegoria delle forze del male, segnalando la raffigurazione di
questo vento “con corpo umano e testa inequivocabilmente demoniaca” sul
basamento di un candelabro conservato nella cattedrale di Essen. Si tratta,
in effetti, di un’interpretazione estremamente diffusa. Rabano Mauro, ad
esempio, nel medesimo contesto ora citato, chiarisce inequivocabilmente:
Aquilo dictus eo quod aquas stringat et nubes dissipet: gelidus est enim
ventus et siccus. Significat autem vel diabolum vel homines infideles, ut ini-
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Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
quitatis abundantiam et defectum charitatis. Unde scriptum est in propheta:
Ab aquilone exardescent mala super terram. (Isa. 14)
Nei commenti al versetto Mons Sion, latera aquilonis, civitas Regis magni
del salmo 47, Aquilo è interpretato sempre come vento gelido del Nord,
latore di rovina e morte, ed è accomunato al diavolo. L’autore del Breviarium in Psalmos (Agostino o Girolamo) ritiene che il monte Sion raffiguri
la Chiesa e Aquilone il male di cui è congregata (cf. qui commento a disgregatur), quindi addirittura il diavolo:
Vel mons Sion: hoc est, sancta Ecclesia. De latere aquilonis: quia de malis
est congregata. Unde dictum est: Ab aquilone exorientur mala quae sunt super terram. Hic aquilo diabolus, cui dicitur: Veni, aquilo, perfla hortum meum
(Cant. 4): hoc est, Ecclesiam tentationibus. (PL 26, col. 964)
Nelle Enarrationes in Psalmos (47) Sant’Agostino insiste sull’opposizione, anche topografica, del monte Sion ad Aquilo (l’uno disposto al Sud,
l’altro al Nord) e chiarisce la ragione per cui è possibile intendere Aquilo
come figura del demonio:
Contrarius solet esse aquilo Sion: Sion quippe in meridie, Aquilo contra
meridiem. Quis est iste aquilo, nisi qui dixit, Ponam sedem meam ad aquilonem,
et ero similis Altissimo (Isai. 14, 13, 14)? Tenuerat regnum diabolus impiorum,
et possederat Gentes servientes simulacris, adorantes daemonia: et totum
quidquid generis humani erat ubique per mundum, inhaerendo illi aquilo
factum erat. [. . .] Ideo et in alia Scriptura dicitur: Ab aquilone nubes coloris aurei; in his est magna gloria et honor Omnipotentis (Job 37, 22). Magna enim gloria
medici est, quando ex desperatione convalescit aegrotus. Ab aquilone nubes,
et non nigrae nubes, non caliginosae, non tetrae, sed coloris aurei. Unde nisi
gratia illuminante per Christum? Ecce, Latera aquilonis, civitas regis magni. Latera utique, quia inhaeserant diabolo. (PL 36, col. 534–535)
In maniera non dissimile, nel Commentarius in LXXV Psalmos, attribuito a Rufino d’Aquileia, si spiega che il monte Sion è da interpretare allegoricamente come il popolo giudaico, mentre latera Aquilonis sta a significare le genti infedeli possedute dal demonio e Aquilone il torpore indotto
dallo spirito maligno:
Per latera Aquilonis gentes designantur, quae torpentes frigore infidelitatis a diabolo possidebantur. Pro eo, quod ventus Aquilo constringit in frigore, non incongrue Aquilonis nomine torpor maligni spiritus accipitur. (PL
21, col. 835)
La lettura che vede ogni male venire dalla plaga di Aquilone si ritrova
nella Vita Sancti Edmundi di Abbone di Fleury, importante per l’ipotesi attributiva che forniremo infra al §4:
Denique constat, iuxta prophetae vaticinium, quod ab Aquilone venit
omne malum, sicut plus aequo didicere perperam passi adversos jactus cadentis tesserae, qui aquilonalium gentium experti sunt saevitiam: quas certum est adeo crudeles esse naturali ferocitate, ut nesciant malis hominum
L’alba di Fleury da un’altra specola
239
mitescere: quandoquidem quidam ex eis populi vescuntur humanis carnibus,
qui ex facto Graeca appellatione Anthropophagi vocantur. (PL 139, coll. 510)
Anche San Girolamo, nel commento In Zachariam prophetam ad Exsuperium tolosanum episcopum, opponendo Austro ad Aquilo, identificava questo
vento col demonio:
De his duobus ventis Ecclesia loquitur: Surge, Aquilo, et veni, Auster (Cant.
4, 16), ut Aquilone vento frigidissimo recedente, qui interpretatur diabolus,
Auster calidus ventus adveniat, quem sponsa perquirens, ait: Ubi pascis, ubi
cubas, in meridie (Ibid. 1, 16)? (PL 25, col. 1525)
Lo stesso San Girolamo nei Commentarii in Librum Job 36, insiste sulla
medesima interpretazione:
Et quia aliquando in Scripturis per figuram Aquilo ventus, diabolus esse
significatur: siquidem a Salomone Aquilo durus ventus dicitur: nomine autem dexter vocatur. A suis quippe dexter quidem dicitur, sed totus sinistri
operis auctor est. (PL 26 col. 688)
Un riscontro interessante è quello che che troviamo al capitolo 37
della medesima opera, quando San Girolamo commenta il versetto Ab interioribus egredietur tempestas, et ab Arcturo frigus (vi abbiamo già accennato
nella glossa all’emistichio precedente): “Arcturus vero, quia in sinistra
mundi est constitutus, adversariam partem significat: de cujus climate ventus aquilo gelidus spirat contra meridiem” (PL 26, col. 741). Secondo Girolamo, quindi, in questo versetto il freddo che viene da Arturo è portato
da Aquilone, che spira dalla medesima plaga in cui è collocato l’astro (o la
costellazione) che, in questo caso, sta a significare la parte avversa, quella
demoniaca.
Anche nell’innologia Aquilone indica il vento (AH 4, 226; 5, 98; 6,
25; 8, 56; 10, 116; 10, 420; 20, 68; 24, 2; 24, 8; 29, 6011; 32, 53; 34, 42; 35,
2003; 37, 250; 38, 7; 39, 40; 39, 79; 41, 4088; 42, 52; 43, 90; 48, 361; 48,
371; 50, 377; 54, 221; 64, 403) e, per estensione, il punto cardinale da cui
esso soffia, il Nord o il Nord Ovest (AH 5, 1; 6, 24; 7, 228; 8, 20; 10, 46; 14,
64; 17, 30; 22, 100; 23, 77; 25, 42; 28, 42; 37, 332; 43, 32; 50, 102; 50, 107;
50, 264). Concordemente con la tradizione esegetica patristica, Aquilone,
inteso come vento, sta a rappresentare il demonio o il male. In alcuni casi
tale significazione si incontra in maniera autonoma o semiautonoma rispetto alle due principali (AH 3, 3001; 8, 7; 8, 230; 11, 383; 21, 2006; 24,
56; 25, 56; 26, 68; 35, 6001; 36, 1001; 40, 280; 41, 2002; 41, 4001; 45, 4094;
46, 135; 49, 550; 55, 272). Anche negli inni, come nella patristica, l’oppositore di Aquilone, cioè il vento che a lui subentra e lo fa cessare, è l’Austro, mentre Arturo non è mai menzionato. Uno fra le decine di esempi
(AH 34, 42): “Aquilone pulso, veni, / Hortum, auster, flatu leni / Nostrum
perfla caelitu”. Anche nell’innologia, infine, Aquilone è un vento pessimo
e nefasto in grado di bruciare, uccidendoli nel gelo, i fiori della vita; a
240
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
questo vento demoniaco il monaco intima di allontanarsi dal chiostro
della sua anima: “Dum rixatur aquilo / tempore brumali / Et aquas incarcerat / claustro glaciali, / Iam exspirant lilia / flatu boreali, / Rosa pallens
moritur / frigore letali” (AH 50, 377); “Surge, aquilo pessime, / Ventus
urens nequissime, / Egredere de hortulo / Meo et claustro animae / Recedens velocissime / Facto alibi nidulo” (AH 48, 386). Si noti, infine, che
Aquilone è menzionato anche nelle Mytologiae di Fulgenzio: “ideo Aquilonis, venti filii, quia bona inquisitio spiritalis est, non carnalis” (Helm
1898:79).
disgregatur. Determinare il significato preciso di questo verbo è importante per comprendere a cosa faccia riferimento l’autore di Phebi claro
quando parla sia di Aquilo, sia di Arcturus. L’interpretazione più naturale
per Ab Arcturo disgregatur Aquilo, infatti, anche alla luce del luogo di San
Girolamo sopra addotto, è ‘Aquilone si dissocia da Arturo’, con Ab Arcturo
come ablativo di separazione e con probabile coscienza dell’etimologia di
disgregatur da grex (devo questo suggerimento ad Andrea Cucchiarelli, che
ringrazio). Ciò implicherebbe l’associazione del collettivo grex ad Arcturus,
che quindi sarebbe costituito da una pluralità di enti da cui Aquilo si dissocia, ciò che avvalorerebbe, per l’interpretazione di Arturo, l’ipotesi di una
costellazione. Del resto, si ricordi il luogo del Breviarium in Psalmos in cui
Aquilo è visto come il male di cui la Chiesa è congregata e le numerosissime
attestazioni in cui Arturo è figura della Chiesa. A tal proposito si noti che
la coscienza etimologica è ancora ben presente in un Rosario del XV secolo (AH 6, 51): “Qui pastor est, / qui congregat / opus per subtile / Oves
suas, disgregat / quas peccatum vile, / Et in unum aggregat / clementer
orile, / Sicque sursum sublevat / ad coeli cubile”. Si consideri nondimeno
che disgregatur può anche essere interpretato come passivo e Ab Arcturo
come ablativo d’agente: in tal caso sarebbe Arturo a disgregare Aquilo e il
male che esso sta a rappresentare.
Alla luce di quanto esposto, abbiamo quindi due interpretazioni possibili, peraltro, vista l’insita polisemia di Arcturus, non inconciliabili:
1. Il vento Aquilone (o il Nord) si separa da Arturo (la stella); 2. Il
vento Aquilone (o il Nord) si separa dal Grande Carro. In tutt’e due le
interpretazioni, Aquilone si dissocia da Arturo, poiché l’uno e l’altro vengono a trovarsi in posizioni differenti. Il senso allegorico, pur nella molteplicità di letture, è chiaro: il male si dissocia (o è disgregato) da Cristo
(per la prima interpretazione) e/o dalla Chiesa (per la seconda).
v. 12. Questo verso di chiarissima interpretazione è stato troppo trascurato dai commentatori in relazione al senso complessivo della strofe.
Esso, invece, ne rappresenta a mio avviso la chiave di volta. L’autore inframezza infatti le due notazioni astronomiche (cf. supra e infra) con
un’affermazione intesa a ribadire che il momento del giorno di cui si sta
parlando è l’alba. Tale notazione non avrebbe alcun senso se non fosse
funzionale ad una corretta interpretazione delle due notazioni astronomi-
L’alba di Fleury da un’altra specola
241
che. Il punto fondamentale è quindi questo: gli eventi stellari di cui si sta
parlando si verificano all’alba, anzi più precisamente al diluculum.
Il sintagma astra poli è molto diffuso nell’innologia del IX e del X secolo: cf. AH 7, 53; 50, 132 e 141 (Rabano Mauro); 51, 185.
v. 13. Il lemma Septemtrio è rarissimo negli inni, dove è utilizzato quasi
sempre ad indicare il punto cardinale del Nord. Eccone le occorrenze:
“Occasus, ortus, aquilo, septentrio, / Tellusque pontus, oceani limites”
(AH 14, 64 e AH 50, 102); “In portae urbis medio, / Quae respicit septentrio” (AH 22, 491); “Ortus, occasus, aquilo, septentrion, / Caelum terraque, mare, fontes, flumina” (AH 50, 107). In un solo caso, in un testo del
XIII secolo, Septemtrio indica la costellazione che ancor oggi porta questo
nome: “Astra septem, quae nunc Septentrio / Sursum levat et nunc deflexio / Flectit Austri certo iudicio, / Nutus eius subsunt imperio” (AH 64,
295). Tuttavia è indubbio che in Phebi claro quest’ultima significazione
è l’unica ammissibile, poiché il punto cardinale è per definizione fisso,
mentre il contesto in cui questa parola è inserita fa riferimento a qualcosa
di intrinsecamente mobile (“Orienti tenditur”).
La questione da risolvere è quella del momento dell’anno al quale l’autore di Phebi claro sta riferendosi: in primavera il Grande Carro raggiunge
il punto più alto sull’orizzonte, mostrandosi, capovolto, in direzione nord;
in estate appare visibile in direzione nord-nord-ovest, col timone verso
l’alto; in autunno raggiunge, a nord, il punto più basso sull’orizzonte,
sotto la Stella Polare; è solo in inverno che appare verso est, in verticale,
col timone rivolto verso il basso.
Qui ci interessa il momento in cui il Carro è proteso ad Oriente nel
punto del giorno indicato al verso precedente, cioè quando gli astri nascondono i loro raggi, cioè, ancora una volta, al primo albeggiare: ebbene,
al diluculum il Carro si trova in quella posizione solamente nel periodo
dell’anno che va dagli inizi di agosto fino a novembre (alla fine di questo mese lo ritroviamo già in gran parte situato verso il Nord): Phebi claro
sarà stata concepita con ogni probabilità per un giorno di questo periodo,
quando cioè tutte le stelle che tradizionalmente indicano il Nord (il Piccolo, il Grande Carro e Bootes con Arturo) si trovano all’alba nettamente
protese ad Oriente e quindi “disgregate” da Aquilo, inteso sia come punto
cardinale, sia come il vento che da quel punto spira. Le figure riportate
qui in calce chiariscono, mi pare inequivocabilmente, questo dato.
Una controprova di quanto affermiamo l’abbiamo leggendo le istruzioni fornite da Gregorio di Tours nel De cursu stellarum, opera in cui dichiaratamente il cielo è osservato in funzione degli uffici divini:
Admiramur et illud, quod stellae oriente ortae decedunt occidenti et
quaedam ex his in medio caeli apparentes, quaedam aquiloni propinquantes in circuitu rotentur nec rectam faciant viam, et quaepiam toto videantur anno, quaepiam mense, in quibus appareant, habeant definitos. De quo
cursu, si deus iubeat, velim de quanto experimentum accepi, rationem ne-
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
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scientibus dare. Set nomina, quae his vel Maro vel reliqui indiderunt poetae,
postpono, tantum ea vocabula nuncupans, quae vel usitate rusticitas nostra
vocat vel ipsorum signaculorum expremit ordo, ut est crux, falcis vel reliqua
signa: quia non ego in his mathesim doceo neque futura perscrutare praemoneo, set qualiter cursus in dei laudibus rationabiliter impleatur exhortor,
vel quibus horis qui in hoc officio adtente versari cupit, debeat consurgere vel
dominum deprecare. (Haase 1853:15–16)
Gregorio descrive attentamente le varie stelle e costellazioni in modo
che sia agevole identificare le figure celesti che via via si presentano prima
dell’apparire dell’alba (McCluskey 1998:106). Per le costellazioni, egli utilizza dichiaratamente i nomi utilizzati dal volgo, identificati dall’astronomo J. F. Galle nell’edizione di Haase (1853:42–49, ma vedi anche Bergmann e Schlosser 1987; McCluskey e van Gent 1987). In particolare, la
rubeola è identificata da Galle con Arturo:
Rubeola igitur et propter colorem, quem nomen significat, et quod omnibus mentibus conspicitur, Gallio auctore dubitari non potest quin sit Arcturus, quem quae stella minor praecedere dicitur, ea in eodem sidere Boote
est stella h. Arcturum vulgo carrum dici narrat Io. Ianuensis in Catholico s. v.
haud scio an perperam Arcturum ponens pro Ursa maiore.
Di questa stella Gregorio scrive:
Haec stella in septembre oritur et matutino apparet, quae a quibusdam
rubeola vocatur, tamen prius [in] initio apparet noctis et sic iterum oritur
mane; ergo lucet in septembre hora I. in octubre horas II. in novembre III. in
decembre et in ianuario VIII. in februario VIII. in martio VII. in aprile VI.
in iunio IIII. in iulio III. in augusto II. set primum ut diximus, oritur; habet
tamen aliam minorem, quae praecedit. (Haase 1853:17–18)
Dopo la figura della costellazione del Carro si legge:
De his stellis, quas rustici plaustrum vocant, quid dicere possumus, cum
non ut reliquae stellae oriuntur aut occidunt? Set tamen quantum ex ipsis intellegimus, non silemus. A sapientibus septentrio vocatur propter numerum;
unde et plaga illa, in qua habentur, a quibusdam ex eorum nomine vocitatur: nos vero aquilonem dicimus. Apparent ergo haec stellae a parte aquilonis
omni tempore. Cum in aestivo noctes fuerint breviores, istae humilius habentur et ad lucem thimonem ad occidentem faciunt; cum vero autumnum versus proficientes noctes crescere ceperint, et haec altiora continent caeli et sic
usque diminutionem reiteratam noctium faciunt. Hoc tamen sciendum, quod
in hieme adpropinquante lucem thimonem vertit ad orientem; noscendum
etiam est illud, quod omnibus annis aequaliter oriuntur. (Haase 1853:23)
Questo passo chiarisce in maniera evidente il senso di “Orienti tenditur Septemtrio”. Dopo aver enumerato le costellazioni a suo avviso più
importanti, Gregorio si sofferma a descriverle, mese per mese, nel loro
sorgere e tramontare notturno e mattutino:
Scripsimus de ortis vel occasibus sive cursibus stellarum, pauca signa,
quot arbitrati fuimus sufficere, praeponentes: nunc ea pandimus, qualiter ad
L’alba di Fleury da un’altra specola
243
officium dei observandum possit devotio humana consurgere; et forsitan detrahit aliquis, cur non a mense martio vel ab ipso nativitatis dominicae die
sumpserimus exordium: noverit, quia stella, quae mense martio observatur,
in alio oritur mense. (Haase 1853:24)
Inizia quindi a descrivere il cielo autunnale all’alba, sempre caratterizzato dalla presenza della rubeola (Arturo):
September. In mense septembre oritur ergo stella splendida, quam supra rubeolam diximus, aliam prope se habens minorem praecedentem; ergo
quando in septembre oritur, si signum moveatur ad matutinos, quinque psalmos in dei laude concinere in antiphonis potes; iam vero si ad noctis vis signum caeleste requirere, falcem observa, et cum in hora diei quinta advenerit,
surge; certe si vigiliam perpetim celebrare volueris, si consurgas, cum stellae apparent, quas butrionem superius vocitamus, explicias nocturnos cum
galli cantu. Octoginta psalmos in antiphonis, priusquam matutinos incipias,
explicabis. Octuber. In octubre vero falcis illa cum oritur, mediam noveris
esse noctem; deinde celebratos nocturnos cum gallorum cantu, nonaginta in
antiphonis concinere poteris psalmos; deinde adtende rubeolam, quae cum
hora diei venerit secunda, si signum ad matutinum moveas, decim poteris
concinere psalmos. November. Mense novembre iam prolixioribus noctibus
falcis hora noctis quinta oritur. Quod si sic consurgas, celebratos nocturnos
gallique cantum, centum X psalmos psallere poteris. Rubeola vero cum hora
tertia venerit, si signum sonet, nihilominus psalmos in antiphonis explicabis
ad matutinos. December. Mense decembre falcis hora oritur quarta; si illa
hora consurgas, dictis nocturnalibus hymnis vel galli cantu dupliciter, hoc est
LX in his duobus cursibus psalmis, quia ante dominicum natalem maturius
consurgere debes, tunc relicum psalterium in antiphonis decantabis. Signum
ad matutinos si moveas rubeola, XXX psalmos expedite decantandum. Post
eas oriuntur in hoc mense stellae illae, quae crucem maiorem praecedunt,
quas w nominavimus, in quibus est una aliarum clarior ac lentior, quam commodius poteris observare.
Nelle descrizioni celesti relative a Gennaio, Febbraio, Marzo e Aprile
la rubeola non è più menzionata, ma Gregorio disegna invece un’altra costellazione, identificabile con la Lyra (cf. Galle in Haase 1853:44 “Ceterum
quae huic loco praeposita est figura non convenit cum alia ulla ex iis, quae
supra positae sunt; res tamen cogit, ut eandem esse fateamur, quae supra
est §44 Lyrae, quam omega Gregorius appellat; scilicet illo loco librarii fortasse culpa figura vitata est”) e chiarisce:
Ianuarius. Mense ianuarius post dictos nocturnos stellae ipsae oriuntur,
inter quas, ut superius diximus, quae est clarior, observatur; si ad horam die
tertiam venerit, si matutinos incipias, XV psalmos poteris psallere. Februarius. Mense Februarius quando oritur stella illa, quam inter stellas superiores diximus clariorem, si nocturnos incipias, mediam esse intellegas noctem;
cum stella ad horam diei quartam advenerit, si signum ad matutinos commoveatur, XII psalmos poteris explicare. Martius. Mense Martio cum quadragesima advenerit, et maturius consurgere debes; quando stella est in hora II
diei, si surgas, dicis nocturnos et galli cantum, quae dupliciter, ut superius
diximus, hoc est in directis LX psalmos; quibus expeditis sallis in antiphonis
XX psalmos et stella illa venit ad horam V diei; quod si sic inchoas matutinos,
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Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
XXX decantatis cum antiphona psalmis lucescit. Aprilis. Mense autem aprile
si adhuc quadragesima est, similiter observabis quae praeterita. Si tardius
consurgere volueris, observabis stellam, quam inter eas quae signum Christi
faciunt, diximus clariorem; quae cum orta fuerit, si signum commoveatur ad
matutinos, octo psalmos poteris in antiphonis expedire.
Dal quadro tracciato risulta insomma del tutto evidente che, per Gregorio di Tours, Arturo (la rubeola) era una stella fondamentale per determinare come doveva procedere l’ufficio ad galli cantum e il mattutino nel
periodo autunnale. Secondo McCluskey (1998:110):
Gregory’s instructions suggest that implicit in early Western monasticism
was an institutional framework for the continued practice of astronomy. This
kind of astronomy reflected and reinforced the monastic values from which
it sprang: obedience to the Rule, which provides a framework of uniform
order, which the abbot or his representative observes to call his fellows to
prayer.
I commenti della Regula di San Benedetto riflettono spesso l’interesse
dei monaci per le questioni astrologiche legate alla determinazione dei
tempi dell’ufficio divino notturno e mattutinale. Già nel tardo IX secolo
il monaco Hildemar tentava di risolvere il passaggio della Regula (VIII,
1–3) nel quale è prescritto che in inverno i monaci debbano alzarsi nell’ottava ora della notte. Hildemar notava infatti che questa prassi potrebbe
apparire eccessivamente rigorosa, poiché in inverno la notte può durare
fino a diciotto ore e ciò significa che, interpretando “ottava ora” a partire
dall’inizio fisico della notte, all’apparire delle tenebre, i monaci avrebbero
dovuto alzarsi prima di mezzanotte e pregare dieci ore fino all’alba. Risolveva quindi la questione evidenziando che, agli equinozi, notti e giorni
hanno lo stesso numero di ore (dodici) e che Benedetto intendeva tale
schema come valido per tutto l’anno:
Quid est: octava hora surgendum est? —ac si diceret: nec ante octavam
horam, nec post octavam, sed in ipsa hora octava surgendum est, v. gr. sicuti
hic depictum est. Hoc notandum est, quia illa spatia sunt horae; nam virgae
non sunt horae, sed fines horarum. Qui haec rationabiliter vult facere, horologium aquae illi necessarium est. In hoc loco forte quaerit aliquis, quare
K. Benedictus dixit: octava hora noctis surgendum est, cum December et Januarius menses in nocte habent horas XVIII et in die VI? Dure videtur dicere, et contrarius est sibimet, cum hora noctis octava aliquando est minus
de media nocte, aliquando etiam solummodo media nox. Cui respondendum
est: nec dure dixit, nec sibi etiam contrarius est, quia, quamvis ipsa octava aliquando existit ante mediam noctem, sicut diximus, aliquando in ipsa media
nocte, tamen aequinoctium custodivit, quod aequaliter habet in die et nocte
horas, i. e. XII in die, et XII in nocte, et juxta ejus rationem aequinoctii dixit
in nocte horas XII et in die, maxime cum Dominus dicat: Nonne duodecim
horae sunt dici? Cum enim dicit et jam, non est una pars orationis, sed duae,
h. e. conjunctio copulativa, quae est et, et adverbium temporis; et jam digesti, i. e. decoetis cibis. Sciendum est, quia istud digesti ad cibum attinet, i. e.
ad decoctionem ciborum, et per decoctionem ciborum attinet ad sufficientem refectionem somni, quia, sicut dicunt multi, tamdiu non reficitur homo
L’alba di Fleury da un’altra specola
245
somno, quamdiu non digeritur cibus. At ubi digestus fuerit cibus, tunc est
refectio somni, et ipsa digestio non fit plena ante mediam noctem. (Mittermüller 1880:277–278)
Hildemar, poi, commentando la Regula XI, 11–13, nota che il monaco
che è stato scelto dall’abate per annunziare il tempo della preghiera deve
essere punito nel caso in cui svegli troppo tardi i confratelli; tuttavia, gli
spetterà una pena meno severa nel caso in cui le nuvole oscurino il cielo
e, dunque, nell’incertezza dell’ora, per la paura di dare il segnale troppo
presto, alla fine lo ha dato troppo tardi. Hildemar, qui, non menziona alcun altro metodo di determinazione dell’ora che non sia la contemplazione della volta celeste:
Quantitas, dixi, peccati, quia potest provenire, ut ad primam turmam
fuisset dies; potest fieri, ut ad secundam vel tertiam. Ac per hoc tantum major
est negligentia, quantum plus cito facta est dies, et iterum tanto minor est
negligentia, quantum plus dies tarde praeoccupaverit illud officium. Deinde
etiam considerari debet affectus negligentis, quia potest fieri pro somnolentia, h. e. quia multum amavit dormire et ideo tarde surrexit ad signum tangendum. Secundo modo potest fieri, ut pro pigritia et delectatione jacendi,
quia forte tempore congruo se excitavit, tamen pro delectatione et pigritia jacuit plus, quam debuit, et ideo postmodum signum tarde tetigit. Tertio modo
potest fieri, ut signum tarde tactum fuisset pro potatione vini, i. e. forte quia
fleuthomatus fuit, aut pro caritate hospitis, quam solent monachi facere, bibit
plus, quam debuit, et ideo tarde surrexit. Quarto etiam modo potest fieri pro
nubilo, quia, cum surrexit ante horam et pro nubilo stellam videre non potuit
et timendo tangere ante horam tetigit post horam. Iste talis, qui causa nubili
tarde tetigit signum, tautum ad matutinum satisfaciat; ille autem, qui pro potatione aut pigritia tarde tetigit signum, non solum ad matutinum, sed etiam
ad primam vel tertiam satisfaciat. (Mittermüller 1880:288–289)
Analogamente, Pier Damiani nel De perfectione monachorum (17) raccomanda che, quando le stelle non sono visibili, il significator horarum, una
figura analoga a quella del vigilgallus di cui parla la Regula magistri, deve
cantare i salmi per notare il passare del tempo (PL 145, col. 315). L’obbligo di calcolare il tempo guardando le stelle è anche nelle regole previste dalla riforma cluniacense, che specificamente assegna questo ruolo
al sacrestano (McCluskey 1998:111). Del resto, sarà importate notare che
anche l’abate Abbone di Fleury, seguendo Macrobio, fornisce un sistema
di misura del tempo direttamente correlato alla rotazione delle stelle, oltre che all’uso di una clessidra ad acqua (ibid.). È di sommo rilievo per la
nostra ricerca che questo abate “in the tenth century wrote several works
on astronomy, one of which he annexed to his new edition of the Computus of Helperic of Auxerre” (Constable 1975:6). Del resto, un Horologium
stellare monasticum (Constable 1975:17–18) descrive come osservare le stelle
dall’interno del monastero per determinare il tempo della preghiera
notturna e mattutinale durante l’anno (Poole 1915): secondo Dachowski
(2008:44) “The description of the monastery strongly suggests that this
work was written specifically for Fleury”.
246
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
Il periodo che meglio si attaglia alla recitazione del nostro inno è
quello fra l’autunno e l’inverno e alcuni indizi ci portano a ritenere che si
debba pensare ai giorni o alle settimane immediatamente precedenti l’Avvento. Si legga quanto scrive Amalario di Metz in proposito nel capitolo relativo (De adventu Domini) del De ecclesiastici officiis (sottolineo gli elementi
utili per la comprensione figurale del nostro testo):
Scripsimus in superioribus libellis, in quinta hebdomada ac quarta ante
nativitatem Domini, inchoari praeparationem adventus Domini [. . .] De ordine saecularium possumus intelligere, quod lectio dicit in quinta hebdomada ante nativitatem Domini. Propter hoc dies veniunt, dicit Dominus et
non dicent ultra, vivit Dominus qui eduxit filios Israel de terra Aegypti: sed,
Vivit Dominus, qui eduxit et adduxit semen domus Israel de terra Aquilonis. Adduxit
Dominus filios Israel de terra Aquilonis, quando de Babylonia reversi sunt in
Judaeam: Sed melius adducit nostros bonos saeculares Dominus ad Judaeam,
id est, ad veram confessionem de confusione Babyloniae, quando eos liberat
de potestate diaboli et de corpore ejus. Hoc fit per baptismum, quem habent
saeculares fideles et spiritales communem. Qui in animo patiuntur Aquilonis
rigiditatem, membra diaboli sunt. [. . .] Officia cantorum et Presbyterorum
quae celebrantur in sacramentario, et habent initium in quarta hebdomada
ante nativitatem Domini spiritales per quatuor Evangelia ad potiorem perfectionem excitant. Unde dicit Epistola, quae eodem die legitur. Scientes quia
hora est jam nos de somno surgere: Nunc autem propior est nostra salus, quam
cum credidimus. [. . .] Praeparationem nobis necessariam insinuat Paulus
apostolus in memorata epistola, quae legitur quarta hebdomada ante nativitatem Domini. Nox, inquiens, praecessit, dies autem appropinquavit. Abjiciamus ergo opera tenebrarum, et induamur arma lucis, sicut in die honeste ambulemus, non in commessationibus; et ebrietatibus, non in cubilibus
et impudicitiis, non in contentione et aemulatione: sed induimini Dominum
Jesum Christum? Sicut per plures et frequentiores nuntios movetur magis ac
magis animus subditi ad sollicitudinem suscipiendi praelatum: ita renovatione cantus movemur magis ac magis ad curam nostrae praeparationis in
susceptionem Domini. Ideo octo dies ante Nativitatem Domini renovantur
ferme tota note responsorii et antiphonae, ut per hoc frequentius nos excitemur ad purgandas omnes quisquilias turpium cogitationum ac terrenarum,
et dignum habitaculum, ornatum videlicet piis cogitationibus, paremus regi
regum et Domino dominantium. (PL 105, coll. 1219–1221)
Risulta così chiaro perché nell’incipit dell’inno si dica che l’astro di
Febo non è ancora nato (“Nondum orto”) e si intende meglio la collocazione temporale al diluculum, quel momento della notte, cioè, in cui le
tenebre non si sono ancora diradate, ma già si intravede il tenue lume
del giorno a venire: Cristo deve ancora nascere e il suo popolo è in attesa
dell’evento salvifico. Le tenebre oscurano ancora il mondo, ma coloro che
sono preposti a vigilare ridestano i credenti e li salvaguardano dalle insidie del Nemico.
3. Il refrain. Data una risposta alla questione del “quando” dovesse
essere cantato Phebi claro, restano due ordini di questioni fondamentali da
risolvere: quello del rapporto fra testo latino e refrain e quello della modalità di esecuzione dell’intero componimento. Abbiamo visto che uno dei
L’alba di Fleury da un’altra specola
247
problemi principali su cui ha dibattuto la critica è quello della possibile
esogenia del refrain: la maggior parte dei critici ritiene che il refrain fosse
fin dall’origine scritto in funzione di Phebi claro, o già in volgare o in un latino già corrotto da vari barbarismi, pronto per essere vieppiù deformato
dalla trasmissione orale o scritta. Si è anche supposto che esso fosse un
canto popolare, o comunque un segmento testuale preesistente al testo
latino, e che quindi l’autore del testo latino lo avesse semplicemente inglobato, come faranno più tardi i trovieri autori delle chansons avec des refrains
(Doss-Quinby 1984), modellando il proprio testo in funzione di quello
(Zumthor 1963). Infine si è ritenuto plausibile che “l’uno e l’altro siano il
frutto di un unico atto creativo” (Chiarini 1974:20).
È evidente che la questione non è di poco momento: dalla sua soluzione dipende direttamente la corretta impostazione del problema delle
origini di uno dei più importanti generi lirici trobadorici, l’alba, così come
la questione dell’esistenza di canti popolari di tradizione orale e del rapporto che può essersi istituito fra la letteratura monastica in latino, la
letteratura popolare tràdita oralmente e la letteratura cortese in lingua
volgare. Lo vide bene già Pio Rajna (1887:86), che pur scartando l’ipotesi (effettivamente molto poco economica) di Stengel (1885) secondo il
quale il testo latino era la traduzione di un’alba volgare preesistente, così
argomentava:
Per quel che spetta alla storia della poesia romanza in genere e della provenzale in ispecie, il non potersi la nostra Alba prendere come una traduzione, non nuoce per nulla. Se non è traduzione, imitazione, in senso molto
largo, non di un determinato originale, ma di un tipo di composizione, vuol
essere ritenuta di sicuro. Perlomeno è ben certo che un poeta erudito non
poteva pensare a introdurre in un’Alba latina un ritornello volgare, se delle
Albe volgari per intero non ne fossero esistite fin d’allora. E dall’imitazione
ci è dato argomentare di queste Albe qualcosa più che l’esistenza. Esse avevano come tratto caratteristico il ritornello, e un ritornello in cui appunto si
ripeteva l’annunzio dell’apparire dell’alba, ponendolo in bocca ad una scolta;
il che viene a dire che erano molto simili a quelle che nel medesimo territorio
provenzale ritroviam poi nel secolo XII e nel XIII.
Direttamente legate, magari meno importanti da un punto di vista
critico, ma certo di non poco rilievo, le domande sulla funzione del bilinguismo in questo genere di testi: 1. Esiste un legame di senso fra testo latino e refrain e in caso affermativo, quale? 2. Il testo latino è modellato sul
refrain, o, viceversa, il refrain è stato composto in funzione del testo latino?
3. È possibile che si tratti di un insieme organico fin dall’origine? 4. Il bilinguismo ha una funzione stilistica, estetica o pratica?
Da quest’ultima domanda discende il secondo ordine di questioni:
quello che riguarda come e da chi dovesse essere cantato il refrain e quindi
quale dovesse essere il pubblico destinatario dell’inno. Secondo Picchio
Simonelli (1984:303) “sembra proprio che il testo sia stato concepito per
un canto a due voci: un coro di monaci, o di canonici, intonava le strofe
248
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
latine e un coro responsivo, probabilmente il popolo o i novizi, intonava
il refrain. E anche la struttura antifonale imponeva una rispondenza ritmico-musicale tra le strofe e il refrain”. Con questa prospettiva concorda,
nella sostanza, Kaps (2005:69–70), la quale però preferisce vedere nell’opposizione strofe/refrain un problema di ordine stilistico ed estetico, piuttosto che pragmatico; se il refrain fosse cantato dal popolo o dai novizi o da
altri sarebbe quindi una questione secondaria: “Der Einsatz der Volksprache erfolgt vielmehr aus stilistisch-ästhetischen Gründen, wie nicht nur
die engen thematischen Bezüge zwischen Strophen und Refrain, sonder
auch der Kontrast in Melodie und Harmonik aufzeigen können”.
Del resto, è stato più volte notata una differenza sostanziale fra il tipo
melodico messo in atto nel testo latino e quello, molto più semplice, del
refrain (Vecchi 1952:118; Hilty 1996:305–306). Secondo Kaps (2005:71)
“Aufgrund dieses starken Kontrast zwischen den Strophen und dem Refrain wurde in der Forschung die Hypothese aufgestellt, dass die Melodie des Kehrreims einem anderen Stück, das vielleicht sogar aus mündlichen, volk stümlichen Dichtung entnommen worden sein könnte, mit dem
neuen volkssprachlichen Text unterlegt wurde. Die inhaltlichen Parallelen, die zwischen den lateinischen Strophen der Alba bilingue und ihrem
Refrain bestehen, sprechen jedoch gegen die Tatsache, dass auch der Text
des Refrains aus einem volkssprachlichen Stück entlehnt wurde”. L’analisi
che segue mostrerà la congruenza dell’ipotesi di fondo di Kaps, pur precisandone alcuni aspetti sostanziali.
Innanzitutto ricordiamo che una monodia eseguita da due cori semiindipendenti che interagiscono fra loro, cantando alternatamente, viene
detta in stile antifonale. In particolare, la salmodia antifonale (o innodia
se il testo è un inno) consiste nel canto di un salmo da parte di due gruppi
di coristi in maniera alternata (in contrapposizione allo stile responsoriale, cioè il coro di fedeli alternato ad un “solista”, ossia il celebrante). Cf.
in proposito Isidoro di Siviglia nelle Etymologiae (6, 19):
Antiphona ex Graeco interpretatur vox reciproca, duobus scilicet choris
alternatim psallentibus ordine commutato, sive de uno ad unum, quod genus
psallendi Graeci invenisse traduntur. Responsorios Itali tradiderunt, quod
inde responsorios cantus vocant, quod alio desinente, id alter respondeat. Inter responsorios autem et antiphonas hoc differt, quod in responsoriis unus
versum dicit, in antiphonis autem versibus alternant chori. (PL 82, col. 252)
L’ipotesi più probabile, insomma, è che il refrain di Phebi claro fosse
cantato dal coro in forma responsoriale rispetto al testo latino, cantato
con ogni verosimiglianza dall’abate.
Per ciò che riguarda il testo del refrain, mi sembra opportuno, prima
di fornire un’interpretazione, riepilogare le ipotesi fino a oggi avanzate
(rassegne anche in Chiarini 1974, Zumthor 1985 e Lazzerini 2008), analizzandone l’incidenza. Non sono incluse nella rassegna le ipotesi nettamente interventiste, al limite dell’inverosimiglianza, come quelle di Laist-
L’alba di Fleury da un’altra specola
249
ner 1881, Camilli 1913 e Becker 1929; tutte le integrazioni proposte dagli
editori sono inserite fra parentesi quadre, la traduzione/interpretazione è
sempre in italiano e rispecchia quella dell’editore:
Schmidt 1881: “L’alba part umet mar atra sol / Poy pas’a bigil mira clar
tenebras”: “L’alba attrae al di là dell’umido mare il sole, che attraversa obliquamente il poggio; guarda come illumina le tenebre!”
Stengel 1885: “L’alba part umet mar atra sol. / Poy pas’a bigil mira clar
tenebras”: “L’alba appare, il sole attrae l’umido mare, inclinato da una parte
oltrepassa il poggio e rischiara luminoso le ombre”.
Rajna 1887: “L’alba part umet mar atras ol poy / pasa bigil miraclar tenebras”: “L’alba, al di là dell’umido mare, dietro il poggio passa vigile a spiare
per entro le tenebre”.
Monaci 1892: “L’alba part umet mar atra sol, / po y pasa Bigil mira clar
tenebras”: “L’alba dalla parte dell’umido mare attrae il sole, poi che esso
passa il Vigil (una montagna), ecco il chiarore nelle tenebre”.
Marchot 1900: “L’alba part, umet mar atrà sol; / po y pasa Bigil: mira
clar tenebras”: “L’alba appare, il sole aspira l’umido mare, poi [il sole] passa il
Vigil (una montagna), ecco le tenebre fatte chiarore”.
Gorra 1901: “L’alba par [l]u[nc] e[l] mar atras [e]l poy / pasa [‘l] [v]igil:
mira clar[s] las tenebras”: “L’alba appare lungo il mare, dietro il poggio; passa
la scolta: Mira, chiare sono le tenebre”.
Dejeanne 1907: “L’alba par tumet mar [e] t[e]r[r]a sol / Poy pasa bigil
[v]ira[n] clar tenebras”: “L’alba appare, il sole colpisce con i suoi raggi il mare
e la terra. Poi passa la sentinella, le tenebre si mutano in chiarore”.
Angeloni 1908–1911: “L’alba par, tumet mar atra sol, / po y pas abigi[t]
miraclar tenebras”: “L’alba appare: gonfia il nero mare, il sole, poi, in quella,
disordinatamente qua e là caccia mirolucendo le tenebre”.
Novati 1908–1911: “atra[s] sol abigi[t] tenebras”; “il sole caccia le nere
tenebre”.
Foerster 1911 [1932]: “L’alba par, umet mar atra sol. / Pos y pasa vigil,
mira [ann]ar tenebras”: “L’alba appare, il sole attrae l’umido mare. Poi la sentinella fa il suo giro e vede l’oscurità andar via”.
Gorra 1912: “L’alba par [l]u[nc] e[l] mar atras l[as] poypas”: “L’alba appare lungo il mare dietro le poypas ([una sorta di] torre edificata su una
collinetta artificiale)”.
Marchot 1922: “L’alba par umet mar / atra[s] sol; [b]o[i’] y pas: / ‘Abigil,
mira clar / tenebras!’”: “L’alba divide un mare umido attraverso la terra; /
passa il boia: ‘sveglia, ecco le tenebre [fatte] chiarore’”
De Bartholomaeis 1926: “L’alb’apar tumet mar at ra’ sol. / Po y pas, a,
bigil! Mira clar tenebras”: “L’alba appare, si gonfia il mare a’ raggi del sole.
Poiché (ora che) io (scolta) vi passo (nel cammino di ronda), deh, svegli! Ecco
chiare le tenebre”
Vecchi 1952: “L’alba par (t)umet mar / at ra’ sol po y pas: / a bigil! mira
clar / tenebras!”: “L’alba appare, si gonfia il mare ai raggi del sole, poiché
passo: deh! svegli! Ecco chiare le tenebre!”
Zumthor 1963: “L’alba, part umet mar, atra sol; / Poy pasa bigil: mira
clar tenebras”: “L’alba, dal lato dell’umido mare, attira il sole. Poi passa la
scolta: guarda le tenebre schiarirsi!”
Chiarini 1974: “L’alba part umet mar atra sol. / Po y pasa bigil miraclar
tenebras”: “L’alba, al di là dell’umido mare, rompe l’oscurità. Poi, ecco, passa
la sentinella a scrutare le tenebre”.
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
250
Lazzerini 1979, 1985, 1986, 1999, 2001, 2004: “L’alba par, tumet mar;
atra[s] sol / poypas abigi[t] miraclar tenebras”: “L’alba appare, è gonfio il
mare, il sole discese nelle oscure fortezze a sbalordire le tenebre”. Figuraliter:
“Il Cristo-sole reduce dalla discesa agl’inferi riporta la grazia e la vita (la Pasqua, festa di primavera, coincide col risveglio della natura e la supremazia
della luce sul buio)”.
Hilty 1981a, 19181b, 1995, 2000: “L’alba par(t), u me mar’ atra sol; / Po
y pas, a bigil, mira clar tenebras”: “L’alba appare. Oh madre, egli si avvicina
da solo! Poiché passo a lui, oh cielo, guardiano, guarda il chiarore come se
fossero tenebre”.
Picchio Simonelli 1984: “L’alba par u met mar atra sol. / Poy pas abigil miraclar tenebras”: “L’alba appare dove il mare buio fa sorgere il sole. Di
poco (l’alba) avanza vigile a far miracolo delle tenebre”.
Kaps 2005: “Lalba part umet mar atra sol / Poy pasa bigil mira clar tenebras”: “L’alba appare, l’umido mare tira su il sole. Poi la vigilia è finita.
Guarda come si rischiara l’oscurità”.
Paden 2005 [già in Lazzerini 1979:161–162] : “L’alba par, tumet mar,
atra[s] sol / poy pasa, bigil, miraclar tenebras”: “L’alba appare, è gonfio il
mare: poi il sole passa, vigile, a sbaragliare le tenebre”.
Del resto, le proposte possono moltiplicarsi quasi all’infinito, la messe
immensa delle combinazioni essendo garantita dalle seguenti ambiguità:
1.
Il genere del componimento, a oggi:
1a. Un inno mattutino
1b. Un’alba amorosa
1c. Un’alba religiosa
1d. Un’alba guerresca
1c. Una khargia
2. La lingua del refrain, a oggi:
2a. Latino volgarizzato
2b. Galloromanzo: occitanico, guascone, francese, francoprovenzale
2c. Mischsprache
3. La discrezione delle serie grafiche, a oggi:
3a. part umet, par tumet, par u met
3b. atra sol, atras ol, at ra sol
3c. Poypas, Poy pas, Po y pas
3d. abigil, a bigil (con a talora agglutinata al colon precedente)
3e. miraclar, mira clar
4. Gli interventi sulle serie grafiche individuate, a oggi:
4a. umet] [l]u[nc] e[l], ume<t>
4b. atra] [e] t[e]r[r]a, atra[s]
4c. sol] l[as]
4d. Po] Po[s], [b]o[i’]
4d. pasa] pasa [‘l],
4e. abigil] abigi[t], -a [v]igil
4e. mira] [v]ira[n],
4f. clar] clar[s], [ann]ar
5. L’interpretazione della serie grafica, semplice o corretta, a oggi:
5a. par ‘appare’; ‘divide’, part ‘al di là’, ‘dalla parte’
L’alba di Fleury da un’altra specola
251
5b. umet ‘umido’; tumet, ‘gonfia’, ‘si gonfia’, ‘colpisce’; [l]u[nc] e[l]
‘lungo il’; u met ‘dove mette’; u me’ ‘o mia’
5c. mar ‘mare’; mar’ ‘madre’
5d. atra ‘attrae’, ‘attira’, ‘aspira’, ‘si avvicina’, ‘tira su’, ‘l’oscurità’,
‘nero’, ‘buio’; atras ‘dietro’, ‘oscure’, ‘attraverso’; [e] t[e]r[r]a ‘e la
terra’; at ra’ ‘ai raggi’
5e. sol ‘sole’, ‘rompe’, ‘solo’; ol ‘il’; [e]l ‘il’; [la]s ‘le’
5f. Poypas ‘fortezze’; Poy ‘poggio’, ‘poiché’, ‘poi’, ‘di poco’; Po y ‘poiché
io’, ‘poiché vi’, ‘poi vi’ ‘poi, ecco’; Po[s] ‘poi’; [b]o[i’] ‘il boia’; pas
‘passo’ (vb), ‘avanza’; pas’, pasa ‘passa’, ‘attraversa’, ‘oltrepassa’, ‘fa
il suo giro’
5g. abigil ‘sveglia!’; a bigil ‘obliquamente’, ‘inclinato da una parte’,
‘deh, svegli’, ‘oh, gurdiano’; abigil ‘vigile’ (agg.), abigi[t] ‘caccia’ (vb), ‘discese’ (vb); bigil ‘vigile’ (agg.), ‘guardiano’, ‘sentinella’,’scolta’, ‘il Vigil’, ‘la vigilia’
5h. miraclar ‘scrutare’, ‘sbalordire’, ‘sbaragliare’, ‘far miracolo’; mira
‘guarda’ (imper.), ‘mira’ (imper.) ‘rischiara’ (3a pers. pres.), ‘vede’,
‘ecco’; [v]ira[n] ‘si mutano’; clar ‘come illumina’, ‘chiarore’, ‘luminoso’, ‘chiare’; [ann]ar ‘andar via’, ‘schiarirsi’
Per di più la varianza interpretativa, oltre al genere, alla lingua, alla
segmentazione grafica, all’integrazione testuale e all’aspetto semantico,
incide anche sul rapporto sintassi/verso.
Per ciò che riguarda la lingua, se partiamo dai dati certi e ci fondiamo
sulle unità di scrittura tràdite, dobbiamo constatare che essa contempla
quattro lemmi certamente “volgari” (L’alba, par, mar, miraclar [o clar]),
due potenzialmente solo latini (umet, atra), due/tre di lettura ancipite (sol,
[mira], tenebras) e due non immediatamente catalogabili (abigil e poypas),
ma certamente non latini. Si consideri che atra da atraire è inammissibile
dal punto di vista metrico (è richiesto un accento sulla prima a), oltre che
linguistico, così come inammissibile per ragioni metriche e linguistiche
è atras, considerato da alcuni preposizione, dove in occitanico è attestato
solo come avverbio, con accento sulla seconda a. La nostra lettura renderà
conto della possibilità di leggere atra come volgare, ma umet, allo stato
delle ricerche, sembrerebbe irriducibile: questo comporta l’impossibilità
di sciogliere a priori l’ambiguità per i lemmi di lettura ancipite e di considerare la lingua, comunque, composita o artificiale. Concordo quindi
con Chiarini (1974:13) nel considerare che “l’ipotesi meno avventurosa,
dato il divario linguistico esistente fra strofe e ritornello, è che questo riproduca abbastanza fedelmente il tipo idiomatico proprio della regione e
del tempo in cui verosimilmente il testo fu composto” e nel ritenere che
il “bilinguismo” latino/romanzo non riguardi solo la dialettica fra corpo
della strofe e refrain, ma vada esteso anche al refrain: in questo caso, però,
parleremo qui più propriamente di mistilinguismo, in una forma peraltro del tutto assimilabile a quella delle kharagiât mozarabiche (Chiarini
1974:16–20).
Qui di seguito riporto un prospetto con il numero degli interventi per
252
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
ciascun editore: precede il numero relativo agli interventi sulle unità di
scrittura (non includo i casi in cui si verifichi alternanza nel ms., ma contemplo i casi in cui la discrezione della serie potrebbe essere dubbia, come
prep. + sost.), segue quello degli interventi sul testo e poi quello delle fratture sintattiche del verso; fra parentesi, a titolo solo indicativo, la somma.
La sigla LNC indica che l’interpretazione linguistica e/o metrica non è
corretta per le ragioni discusse. Nella prima lista l’ordinamento è cronologico, nella seconda l’ordine va dal più oneroso al meno oneroso, facendo
precedere tutti gli interventi non corretti:
Ordinamento cronologico:
Schmidt 1881: 2-0-1
Stengel 1885: 2-0-1
Rajna 1887: 3-0-1
Monaci 1892: 3-1-0
Marchot 1900: 3-0-0
Gorra 1901: 4-8-1
Dejeanne 1907: 4-5-0
Angeloni 1908-1911: 2-1-1
Marchot 1922: 3-4-1 (diff. suddivisione in vv.)
De Bartholomaeis 1926: 5-0-0
Foerster 1932: 3-4-0
Vecchi 1952: 6-0-0 (diff. suddivisione in vv.)
Zumthor 1963: 3-0-0
Chiarini 1974: 2-0-0
Lazzerini 1979: 1-2-1
Hilty 1981a ecc.: 3-1-0
Picchio Simonelli 1984: 1-0-0
Kaps 2005: 1-0-0
Paden 2005: 2-1-1
(3) LNC
(3) LNC
(4) LNC
(4) LNC
(3) LNC
(13) LNC
(9)
(4) LNC
(8) LNC
(5)
(7) LNC
(6)
(3) LNC
(2) LNC
(4)
(4)
(1) LNC
(1) LNC
(4)
Ordinamento dal più al meno oneroso:
Gorra 1901: 4-8-1
Marchot 1922: 3-4-1 (diff. suddivisione in vv.)
Foerster 1932: 3-4-0
Rajna 1887: 3-0-1
Monaci 1892: 3-1-0
Angeloni 1908–1911: 2-1-1
Schmidt 1881: 2-0-1
Stengel 1885: 2-0-1
Marchot 1900: 3-0-0
Zumthor 1963: 3-0-0
Chiarini 1974: 2-0-0
Picchio Simonelli 1984: 1-0-0
Kaps 2005: 1-0-0
Dejeanne 1907: 4-5-0
Vecchi 1952: 6-0-0 (ma diff. suddivisione in vv.)
De Bartholomaeis 1926:5-0-0
Paden 2005: 2-1-1
Lazzerini 1979: 1-2-1
Hilty 1981a ecc.: 3-1-0
(13) LNC
(8) LNC
(7) LNC
(4) LNC
(4) LNC
(4) LNC
(3) LNC
(3) LNC
(3) LNC
(3) LNC
(2) LNC
(1) LNC
(1) LNC
(9)
(6)
(5)
(4)
(4)
(4)
L’alba di Fleury da un’altra specola
253
3.1. La sintassi e la funzione dei refrain negli inni cristiani. Nei testi
religiosi mediolatini il refrain ha forma paratattica, mancano la tmesi e
l’enjambement, la frase coincide con l’unità stichica. Una delle caratteristiche fondamentali dei refrain è quella di contenere un’esortazione, espressa
con l’imperativo o il congiuntivo esortativo. Si prendano i seguenti refrain
di due versi tratti da Norberg 1988:73 e da Norberg 1958:148-153: “Salvator mundi Christus dei filius, / nobis ut fiat precamur propitius”; “Prece
pulsemus Christi matrem Mariam, / ut impetremus peccatorum veniam”;
“Adtende homo quod pulvis es / Et in pulverem reverteris”; “Venite et gaudete / nato Christo Domino” (con cadenza 6p, come il secondo verso del
refrain di Phebi claro, secondo la nosra lettura: cf. infra); “Miserere nobis”
(modello di refrain nelle preces mozarabiche, cantate in Quaresima); “Deus
miserere, Deus miserere, in peccatis eius”; “Deus miserere, Deus miserere,
miserere nobis pro peccatis nostris”; “Miserere Domine, Miserere Christe”;
“Supplicanti populo Christe miserere”; “Christe resuveniad te de mi peccatore”; “Miserere finis noster adest. Succurre Christe”; “In tremendo die
iudicii”; “In pavendo die iudicii”; “Penitenti Christe da veniam”; “Miserere,
mei piissime”; “Ab inferno Christe nos libera”; “Eia laudes dicamus Libero”
(nell’Andecavis abbas esse dicitur, poema parodico con lo stesso metro delle
strofe latine di Phebi claro); “Parce redemtor”; “Miserere, miserere, Deus
miserere”; “Veniam ei concedet peccata dele”; “Et miseratus parce populo tuo”; “Redemtor peccantibus miserere”. Unico caso con enjambement
e tmesi nel medesimo verso: “Sanctus Iohannes baptista ad dominum /
deum pro nobis exoret altissimum”. Si noti che in tutti i casi si tratta di
esortazioni, generalmente rivolte al Signore, ma talora anche ai fedeli,
come esortazioni sono anche quelle dei seguenti refrain tratti dai Carmina
Cantabrigensia: “Pater, nate, / spiritus sancte, / te laudamus / ore corde /
. . . vite / siti fragilitate” (7); “Imperatoris Heinrici / catholici / magni ac
pacifici / beatifica animam, / Christe” (9); “Henrico requiem, rex Christe,
dona perennem” (17); “Rex Deus, vivos tuere et defunctis miserere” (33).
Questa tendenza, peraltro, permane inalterata nel tempo, tanto che la
forma sintatticamente semplice del refrain si riscontra in tutte le cantiones
natalizie del vol. 20 dell’AH e in moltissime di esse tutti i caratteri esaminati risultano patenti (cf. AH 93, 94, 98, 99, 100, 102, 118, 120, 121, 130,
131, 166, 177, 178, 179, 181, 186, 202, 209, 224, 276, 278, 288, 289).
3.2. Struttura metrica del refrain. Si tratta di un distico, in conformità con molti inni (cf. supra) e con la maggioranza dei testi lirici anticofrancesi provvisti di refrain (Doss-Quinby 1984:35). L’interpretazione
dell’andamento metrico e ritmico del refrain dipende in parte dall’interpretazione del testo e dall’individuazione della lingua in cui esso è scritto.
Se possiamo affermare con certezza che il primo verso è costituito di tre
versicoli trisillabi con cadenza ossitona e un accento secondario di prima
(L’álba pár —úmet már— átra sól), per il secondo verso non possiamo esser
certi che la scansione sia la medesima, poiché non conosciamo, se non
254
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
congetturalmente, né il significato né l’etimo di almeno due lemmi (Poypas
e abigil) e perché il lemma tenebras è ancipite sia dal punto di vista linguistico (latino-romanzo), sia all’interno della lingua latina: nella tradizione
innologica, ad esempio, è considerato nella maggior parte dei casi come
proparossitono, ma non mancano casi, sia pur più rari, di parossitonia (cf.
infra nota relativa). L’unico incontro vocalico presente, quello di Poypas,
va considerato dieretico sia perché è contrassegnato da due note musicali (Schmidt 1881:340; Restori 1892; Restori in Camilli 1913:417; Chiarini 1974:8; Kaps 2005:48), sia per ragioni linguistiche di cui tratteremo
nella nota relativa (§3.3). Invece, quale che sia il suo significato, miraclar,
per ragioni etimologiche risponde al paradigma ritmico individuato per
il primo verso (míraclár): tale dato non sarebbe contestabile neanche dividendo l’unità di scrittura in due lemmi (mira clar). Se si tiene fermo questo
punto e si ritiene necessario che anche il secondo verso debba avere una
simmetria interna, allora Poypas dovrà avere la medesima struttura accentuale e dunque per il ritmo complessivo del verso si danno due possibilità:
se tènebras è proparossitono (quindi la parola è da considerarsi latina classica), la seconda unità di scrittura andrà interpretata come abigìl e tutt’e
quattro piedi avranno la medesima struttura accentuale òoò di quelli del
primo verso, pur ripetuti per quattro volte (così Beck in Foerster 1932:268);
nel caso in cui si ritenga tenèbras parossitono (e che quindi la parola abbia
subito lo spostamento d’accento o che sia romanza: cf. commento relativo), allora la simmetria richiederebbe che anche abigil fosse parossitono
e il secondo verso dovrebbe avere una struttura trocaica: óo - óo - óo - óo
- óo - óo, a fronte della struttura dattilica del primo: óoó - óoó - óoó (così
Becker, Suchier e Birch-Hirschfeld 1913:12–13). In entrami i casi, dunque,
avremmo un distico (secondo la notazione convenzionale della poesia ritmica mediolatina, nel primo caso 9pp, 12 pp, nel secondo 9pp, 12p), però
solo nella seconda ipotesi il secondo verso sarebbe divisibile in due emistichi simmetrici 6p + 6p. Quest’ultima struttura metrica è congruente
con quella di numerosi refrain presenti nell’innologia mediolatina. Il verso
di 9pp è quello del notissimo refrain “Adtende homo quod pulvis es / Et
in pulverem reverteris”, presente nel poema abecedario d’epoca merovingica Audax es vir, iuvenis e poi in disparati componimenti ritmici medievali
(PAC 4, 495–496; Norberg 1958:148–149). Per ciò che riguarda il secondo
verso, già Norberg annotava che il tipo 6p si trova in numerosi refrain, sia
in forma singola (tipo Miserere nobis) (Meyer 1914:165), sia in forma composta. Norberg cita ad esempio due refrain (Meyer 1914:138 e 165) presenti
nell’innologia mozarabica: “Deus miserere / Deus miserere / en peccatis
eius” (3x6p); “Deus miserere, / Deus miserere. / Miserere nobis / pro peccatis nostris” (4x6p). La forma 2x6p si trova attestata in uno dei Carmina
Cantabrigensia (17) Lamentemur nostra, socii, peccata, seguita da un distico
8p + 5p. Del resto, per ciò che riguarda il complesso metrico, una forma
simile a quella del nostro ritornello, con una struttura che giustappone un
senario doppio ad un verso di poco più breve, in questo caso l’ottonario,
L’alba di Fleury da un’altra specola
255
è rintracciabile in un canto di pellegrinaggio (PAC 4, 652): “Audi nos rex
Christe, / Audi nos Domine, / Et viam nostram dirige”.
Anche il novenario si trova appaiato a versi doppi parossitoni, in
questo caso settenari in una poesia profana di epoca merovingica (Boucherie 1875:33): “Dum myhy ambolare / Et bene cogetare / Audivi avem
adclatire”.
Il refrain mostra al suo interno rapporti non indifferenti alla simbologia e alla “mistica dei numeri” d’ascendenza neoplatonica e neopitagorica (Wallis 2005). I versicoli trisillabici, marcati peraltro anche dalla
partizione grafica, sono 7 in tutto, 3 nel primo e 4 nel secondo verso. Del
numero 7 parla S. Benedetto nella Regula XVII: “Ut ait propheta: septies
in die laudem dixi tibi. Qui septenarius sacratus numerus a nobis sic implebitur, si matutino, primae, tertiae, sextae, nonae, vesperae completoriique tempore nostrae servitutis officia persolvamus, quia de his diurnis horis dixit: Septies in die laudem dixi tibi. Nam de nocturnis vigiliis
idem ipse propheta ait: Media nocte surgebam ad confitendum tibi. Ergo
his temporibus referamus laudes Creatori nostro super iudicia iustitiae
suae, id est matutinis, prima, tertia, sexta, nona, vespera, completorios,
et nocte surgamus ad confitendum ei”. Il sette, inoltre, nella sua composizione di tre più quattro elementi rinvia al numero della Trinità e dei Vangeli e, nel suo insieme, ai doni dello Spirito Santo (Koetsier e Bergmans
2004:182).
Il primo verso ha una base ternaria (3x3), il secondo una base binaria
(4x3 o 6x2): l’insieme risponde a quel principio di perfetta armonia dato
dalla fusione dei due “schemi” binario e ternario (Avalle 1988), e il rapporto si inverte se consideriamo le parole-unità di scrittura: 6 nel primo
verso (naturalmente considerando Lalba come una sola unità lessicale,
oltre che grafica) e 4 nel secondo, per un totale di 10, altro numero perfetto. A riprova di una ricercatezza formale dell’insieme che esclude che
il refrain sia il prodotto di un’evoluzione linguistica, si noti inoltre che nel
primo verso si hanno tre gruppi con una parola di due sillabe, seguita da
una parola monosillabica (2 + 1), nel secondo le quattro parole sono tutte
trisillabiche quindi: 2 + 1, 2 + 1, 2 + 1; 3, 3, 3, 3. Schematizzando:
7 versicoli
3 sill. per versicolo
3 × 3 sill. nel 1° verso
4 × 3 o 6 × 2 sill. nel 2° verso
10 parole in tutto
6 parole nel 1° verso
4 parole nel 2° verso
3 parole di 1 sill. e 3 di 2 sill. nel 1° verso (2 + 1, 2 + 1, 2 + 1)
4 parole di 3 sill. nel 2° verso (3 + 3 + 3 + 3)
Nella seconda ipotesi, inoltre, alcuni rapporti aritmetici potrebbero
collegare il numero dei piedi del refrain a quello della strofe latina. Qui infatti abbiamo tre versi con schema ritmico óo - óo - óo - óo - óoó: quindi il
256
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
tipo trocaico è ripetuto quattro volte in ogni verso, seguito da un proparossitono con doppio accento. Secondo Chiarini (1974) i versi della strofe latina “hanno un’andatura trocaica per la regolare successione delle sillabe
toniche e delle sillabe atone, con un tempo vuoto dopo l’ultima tonica”:
secondo tale interpretazione la struttura del secondo verso del refrain con
i suoi sei trochei sarebbe uguale, con la compensazione del tempo vuoto,
a quella della strofa.
Nel complesso ogni strofe presenta 12 “piedi” trocaici e 3 dattilici. Il
primo verso del ritornello presenta lo stesso numero di piedi dattilici (3)
e il secondo la metà dei piedi trocaici (6). Il numero dei versi della strofe
(3) e il numero complessivo di 33 sillabe (qualora l’inno si dovesse considerare integro), sono di alto valore simbolico.
Insomma, sembrerebbe che sia il ritmo sia il numero delle parole
marchino una strutturazione a doppia base, ternaria e binaria, nel rispetto delle strutture armoniche pitagoriche e della concezione platonicoagostiniana dell’armonia dell’universo, di cui furono importanti fautori
sia Ugo di Cluny (Lazzerini 1985:31), sia Abbone di Fleury, il cui approccio
numerologico si rifà al De arithmetica di Boezio (Peden 2003:83–84). In particolare, per ciò che riguarda la simbologia del sette, Koetsier e Bergmans
(2004:181) annotano che “Abbo characterizes seven as the ‘virgin number’
symbolizing wisdom and the soul, because it is the only number less than
ten which is not a product or a factor of any other number less than ten”.
Questo argomento depone a favore dell’ipotesi dell’unitarietà del testo (sostenuta da Zumthor 1963), nel senso che gli elementi volontariamente allusivi alla simbologia dei numeri fanno pensare ad un autore
colto, con ogni probabilità il medesimo che ha composto il testo latino,
e militano invece a sfavore dell’ipotesi (sostenuta da Dejeanne 1907; Angeloni 1908–1911; Camilli 1913; Becker 1929; Lazzerini 1979, 1985, 2000,
2001) che vede nel refrain una trasformazione nella direzione del volgare
di un originale latino.
3.3. Commento al refrain.
L’alba par(t). La prima frase del refrain è quella che presenta meno
problemi d’interpretazione. L’alba è certamente lemma romanzo, la presenza dell’articolo certifica senza ombra di dubbio tale lettura (Chiarini
1974). Si noti che, escluso questo caso, i sostantivi del refrain non presentano l’articolo, coincidendo per questo tratto sia con i Giuramenti di Strasburgo (Avalle 1966), sia con le Benedizioni di Clermont-Ferrand (Hilty
1995:29–30).
Per ciò che riguarda par, non è da sottovalutare la considerazione di
Lazzerini (1979:159, n. 55), secondo cui: “par con caduta della t finale, è provenzale, mentre il francoprovenzale ne presupporrebbe la conservazione”.
Il sintagma è certamente tratto dall’usuale grido delle scolte per annunziare l’apparire dei primi bagliori del nuovo giorno, come documen-
L’alba di Fleury da un’altra specola
257
tato inequivocabilmente da un passo della Guerra de Navarra, in cui il grido
è riportato in forma di discorso indiretto: “E quant venc lendeman que·l
gaita de la tor / Escridec autamentz que paria l’albor” (Berthe, Cierbide,
Kintana, Santano e Alli 1995:2, 123, vv. 1444–1445). Un altro dato ancora
troppo poco valorizzato, seppur più volte notato, è quello della coincidenza
di questo segmento testuale con il quarto verso del refrain dell’alba trobadorica Dieus, aydatz attribuita nei canzonieri a Bernart Marti o Raimon de
las Salas (Pulsoni 2006). La prima cobla di Dieus, aydatz introduce al tema
dell’alba: si richiede l’aiuto del Signore per gli uomini cari, dolci e veritieri, e si richiede la pace nel momento in cui gli uccellini iniziano i loro
canti gioiosi e i gorgheggi. Nel refrain si ribadisce il fatto che sta giungendo
il giorno e richiede l’aiuto di Dio con medesimo sintagma (Dieu aydatz):
L’alb’e·l jorns
clars et adorns
ven. Dieus aydatz.
L’alba par
e·l jorn vey clar
de lonc la mar
e l’alb’e·l jorns par.
Poi entra in gioco la gaita, che invita gli amanti ad alzarsi e a congedarsi l’uno dall’altro con amore e baci (“Sus levatz, / drutz c’amatz, / que
sem pars / er bels jorns e gays / e·l comjatz / sia datz / ab dous fars / et ab
plazens bays”); li invita inoltre ad affrettarsi perché l’indugiare ormai è pericoloso: il marito della donna è vestito e munito di armi (“Enselatz / e pujatz, / car l’estars / no·us er pro hueymays, / que·ls maritz / ay vist vestitz /
e ben garnitz”). Dopo il refrain la cobla successiva fa parlare la donna, che
invita la gaita alla veglia e alla guardia e rifiuta la separazione dall’amico:
nonostante le armi del nemico-marito, non si allontanerà dalle braccia del
suo amato. Invita poi la gaita a tacere e dissimulare il loro segreto (“Be
velhatz / e gaytatz, / gayt’ encars / que no.us er nuill fais. / Non crezatz /
per armatz / que jogars / del mieu amic lays, / qu’en mon bratz / jauzen
jatz; / mas l’afars / no.us iesca del cays; / s’autr’o ditz, / faytz n’esconditz /
soven plevitz”).
Nell’alba profana le insidie del nemico sono quindi quelle del marit.
Le somiglianze fra Dieus, aydatz e Phebi claro non si limitano al sintagma
L’alba par, ma si possono estendere anche al testo latino e ad altre parti
del refrain stesso. L’attacco delle strofe è composto di tre versi di tre sillabe, coincide cioè con il modulo fondamentale del nostro refrain. Ecco lo
schema metrico del componimento:
aab c, aab c, aab c;
333 5 333 5 333 5
ddd
344
eea f f f f
344 3445
Si noterà che lo schema aab di trisillabi è il medesimo del primo verso
del refrain di Phebi claro e che la consonanza si estende anche alla cadenza
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
258
con vocale in -a. Si tratta di una cadenza che trae probabilmente origine
nel grido Eià vigilà, che ritroviamo nel canto delle scolte modenesi (cf.
infra). Del resto lo schema che ripete tre volte tre trisillabi è ben noto alla
tradizione occitanica. Le Leys d’amors, descrivendo l’enneasilabo, citano
due versi scomponibili anche in tre trisillabi in rima tra loro (testo Fedi
cit. in Pulsoni 2006):
E gayre no vezem uzar en novas rimadas d’aytal entricamen de bordos, quar
non an bela cazensa. Empero ab rimas multiplicadas poyria be estar, et adonx
[h]aurian bela cazensa, segon qu’om pot vezer ayssi en aquestz versetz, los
quals hom pot tornar a .vi. sillabas. Et enayssi de dos bordos de novena sillaba
pot hom tornar en tres bordos de seyzena:
Lo mon veg mal adreg e destreg
Quar apleg franh hom dreg per naleg.
Moduli trisillabici, ripetuti tre, ma anche quattro volte si ritrovano nei
descortz occitanici e nei lais oitanici (Canettieri 1995:467–468 e 267–268),
testi di derivazione sequenziale e di natura soprattutto musicale. Dell’enneasillabo inteso come verso composto di tre trisillabi parla anche Dante
Alighieri, chiaramente con la terminologia propria della metrica italiana
(3 = 2’) (Canettieri 1999).
Anche nell’alba attribuita a Raimbaut de Vaqueiras Gaita be assistiamo
ad un procedere ritmico analogo a quello individuato, con i primi due
versi di ciascuna cobla che presentano il rarissimo enneasillabo composto
da un trisillabo ed un esasillabo e con il trisillabo riecheggiante anche
nel terzo, nel quarto, nel quinto e (al femminile) nel sesto verso (Riquer
1975:845–846):
Gaita be, gaiteta del chastel,
quan la re que plus m’es bon e bel
ai a me trosqu’a l’alba.
E·l jornz ve e non l’apel;
joc novel
mi tol l’alba,
l’alba, oi l’alba!
Gait’, amics, e veilh’e crid’e bray,
qu’eu sui ricx e so qu’eu plus voilh ai.
Mais enics sui de l’alba,
e·l destrics que·l jorn nos fai
mi desplai
plus que l’alba,
l’alba, oi l’alba!
Gaitaz vos, gaiteta de la tor,
del gelos, vostre malvays seynor,
enujos plus que l’alba,
que za jos parlam d’amor.
Mas paor
nos fai l’alba,
l’alba, oi l’alba!
L’alba di Fleury da un’altra specola
259
Domn’, adeu! Que no puis mais estar;
malgrat meu m’en coven ad annar.
Mais tan greu m’es de l’alba,
que tan leu la vei levar;
enganar
nos vol l’alba,
l’alba, oi l’alba!
Moduli identici si incontrano anche nella poesia lirica antico-francese, sempre in relazione al cantare delle scolte. In un testo anonimo
d’impianto lirico-narrativo (Linker 265, 1009), è messo in scena un pastorello mentre compone dichiaratamente un contrafactum del grido della
scolta (“contrefist la gaite”) giustapponendo quattro versicoli trisillabici e
venendo quindi a formare una struttura metrico-sillabica identica a quella
del secondo verso del refrain di Phebi claro:
L’autre jour par un matin,
sous une espinette,
trovai quatre paistoriaus;
chascuns ot muzete,
pipe, flajot et fretel.
La muze au grant challemel
ait li uns fors traite;
por commencier le rivel
contrefïst la gaite
et an chantant c’ escriait:
“si jolis, si mignos, com je suis
(Rivière 1974–1976:1, 78)
n’iert nuns jai”.
Moduli trisillabici si hanno anche, nella lezione di tre canzonieri
(PXH), nel refrain di un’altra pastorella che mette in scena una scolta, li
guete Guis, mentre suona la lupinele:
En Pascor un jour erroie
joste un bois lez un larris.
Truis pastoreaus aatis;
dïent qu’il menront grant joie,
et si avront le fretel,
pipe et muse et chelemel,
s’amie chascuns amis,
et si ert li guete Guis,
notant de la lupinele:
“Vatendo, reviendo, si me di adando
qu’il mechant de do do do do dele”.
(Tishler 1997:11, 991)
Un ultimo caso è quello dell’aube antico-francese Gaite de la tor, in cui
viene mimato attraverso l’emissione delle tre sillabe hu et hu il canto o il
grido della scolta o il suono dello strumento musicale da essa suonato per
dare l’allarme (Monari 2005:679–680 e n. 28):
Gaite de la tor,
gardez entor
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
260
les murs, se Deus vos voie!
C’or sont a sejor
dame et seignor
et larron vont en proie.
Hu et hu et hu et hu!
Je l’ ai veü
la jus soz la coudroie.
Hu et hu et hu et hu!
A bien pres l’ocirroie.
(Tischler 1997:13, 1147)
Va detto che nell’interpretazione corrente la serie “Hu et hu et hu
et hu” è trattata come un unico blocco fonico, ma ritengo che sia invece
necessario intravedervi due trisillabi ripetuti identici e uniti dalla congiunzione et, per via della strutturazione del penultimo verso delle strofe
III-VII, dove il trisillabo risulta ben isolato dalla parte portatrice di significato proprio ed è riecheggiato dal verso immediatamente successivo (“Je l’
ai veü”, ecc.). Si veda, ad esempio, il refrain della terza strofa:
Hu et hu et hu et hu!
Or soit teü,
compainz, a ceste voie.
Hu et hu! Bien ai seü
que nos en avrons joie.
Questi dati metrici, a mio avviso, hanno fondamentale importanza,
poiché individuano nel procedere trisillabico del refrain di Phebi claro la
struttura tipica del canto di scolta, dando di fatto ragione alle tesi di Jeanroy (1889:63–75), secondo cui l’Alba bilingue dimostrerebbe proprio che
già nel X-XI secolo esistevano canti popolari di scolta in lingua volgare, da
cui avrebbero preso spunto anche le albas profane. Non sarà di scarso rilievo, allora, che si intravedano alcune consonanze fra Dieus, aydatz e Phebi
claro riguardanti sia il piano del significato, sia quello del significante:
L’alba par
e l’alb’e·l jorns par
de lonc la mar
L’alba par
L’alba par
umet mar
Altri riverberi incidono sul piano fonico / semantico:
vey clar
Sus, levatz,
miraclar (cf. infra la nota a miraclar)
surgite
Altri ancora riguardano esclusivamente il significato (cf. infra la discussione su Poypas e abigil):
que·ls maritz
ay vistz vestitz
e ben garnitz.
Non crezatz
Per armatz
que jogars
de mon amic lays
ostium insidie (contesto bellico)
L’alba di Fleury da un’altra specola
Be velhatz
E gaytatz,
gayt’; encars
261
abigil (esortazione alla veglia: cf. infra)
miraclar (esortazione alla guardia: cf. infra)
spiculator, preco, poypas
Infine si individuano alcune consonanze che riguardano le sonorità
vocaliche (qui in grassetto):
senher cars
que sem pars
Enselatz
Be velhatz
tenebras
L’alb’e·l jorns
clars et adorns
atra sol
Sus, levatz,
sia datz
tumet mar
miraclar
Nel complesso mi sembra che si possa affermare con buon margine di
certezza che Dieus aydatz rappresenti un controcanto profano del refrain di
Phebi claro. Ora, se è molto improbabile che il trovatore provenzale fosse
a conoscenza dell’inno floriacense, è però più che verosimile che l’autore
dell’inno abbia utilizzato materiali metrico-melodici e contenutistici che
circolavano nella Francia del Sud, con ogni verosimiglianza un canto di
scolta, abilmente rifunzionalizzato nella direzione mattutinale. Al medesimo canto (come vedremo la tradizione è molto compatta e resistente al
tempo), si sarà rifatto l’autore di Dieus, aydatz, applicando ad esso le variazioni opportune per renderlo utilizzabile nel quadro di un’alba profana.
Se lì il protagonista è lo speculator - preco - poypas, la cui funzione è quella di
svegliare i pigri e di vigilare sull’arrivo dei nemici, qui è la gaita, incaricata
di mettere in guardia gli amanti e vigilare su di essi, nonché di avvertirli
del sopraggiungere del marito ostile e armato.
Aggiungeremo che la solidarietà fra i due testi può essere un elemento da valutare nella discussione sull’attribuzione di Dieus, aydatz (Pulsoni 2006): dati gli elementi intertestuali che abbiamo addotto, infatti, la
localizzazione in ambito guascone che proporremo per il refrain di Phebi
claro (cf. infra), potrebbe essere un elemento che avvalora sia l’ascrizione
di quell’alba profana al trovatore Bernart Marti, vicino agli ambienti guasconi di cui fu esponente di rilievo Marcabru (Roncaglia 1969a:40; Beggiato 1984:29–30), sia l’ipotesi di Roncaglia (1969b) circa la possibile
identificazione di Bernart Marti con Bernart de Saissac, trovatore la cui
collocazione geografica ben si armonizza con l’area linguistica meglio
compatibile con il refrain di Phebi claro.
umet mar atra sol. Al rigo 2 leggo, con Meneghetti 1997, um& mar,
ma forse è da leggere um&mar, mentre escluderei um &mar di Frank 1994:
i due lemmi da sciogliere saranno quindi, con ogni verosimiglianza, umet
e mar. In accordo con i principi sopra enunciati, non interverrei su umet, a
mio avviso da interpretare come 3a pers. sing. pres. del latino umeo o humeo,
‘essere umido, bagnato’. Più difficile, invece, interpretare umet come esito
262
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
occitanico dell’aggettivo latino humidus, riferito a mar (interpretazione
che, come vide Rajna 1887, avrebbe a supporto Virgilio, Aen. V, 594 humida
maria). . . . sarebbe umeda: l’esito provenzale atteso da HUMIDU latino è
infatti *umde (cf. ad esempio cobde da CUBITU), mentre l’unica forma attestata sembrerebbe essere il latinismo umit e, a1 momento, non è dato
individuare ragioni specifiche di un’evoluzione conforme a quella supposta. Inoltre, il sostantivo mar è molto più frequentemente femminile nelle
lingue galloromanze e, quindi, in linea di massima, sarebbe da attendersi,
piuttosto che umet mar, umda mar.
Il verbo umeo, intransitivo in latino, è qui usato transitivamente probabilmente per analogia con ardeo, suo antonimo della medesima coniugazione, passato dall’uso intransitivo a quello transitivo già nel latino tardo e
ben attestato in questa forma nelle lingue romanze (Svennung 1941:130–
131; Norberg 1943:183; Ageno 1964:29–30; vedi in Norberg 1943:132–150
e Ageno 1964:28 e sgg. esempi del fenomeno in numerosissimi altri verbi).
La nostra è quindi una preziosa attestazione, che colloca anche umeo fra
quei verbi “monovalenti intransitivi del latino” che “tendono, per il lor
significato, a passare fra i bivalenti, cioè a venir usati anche come transitivi”: si tratta di “verbi che indicano un processo, e lo indicano come
confinato nel soggetto, ma talora vengono impiegati in riferimento a un
processo che si provochi esternamente al soggetto: cioè come transitivi,
o come causativi” (Ageno 1964). Nel caso di umeo del latino classico, il
processo di bagnare è confinato nel soggetto e viene impiegato per un processo esterno al soggetto, mentre umet dell’Alba bilingue rientra fra quei
“verbi passati a designare un’azione, un processo, un mutamento, ecc., che
l’oggetto effettivamente subisce (accrescere, ardere)” (Ageno 1964:28, n. 1).
Questa interpretazione presenta due problemi non insormontabili: 1. Si
tratterebbe dell’unico verbo morfologicamente latino nel quadro del nostro refrain (vs par, forse abigil, miraclar). 2. Sarebbe un hapax dal punto di
vista semantico. Entrambi i problemi, a mio avviso, si risolvono proprio
pensando al quadro più ampio del senso che ha il refrain in quest’inno
e del senso che ha in esso il volgare: l’utilizzo di umet in forma transitiva
ha l’evidente funzione di connotare l’eloquio nella direzione di un latino
imbarbarito, oltre che di un volgare più o meno farcito di latinismi: potrebbe cioè essere stato scelto proprio per marcare l’alternanza stilistica
fra il latino dotto dell’inno, cantato da monaci colti, forse dall’abate, e
quello barbarolettico del refrain, cantato dal popolo o da monaci indotti,
che avrebbero utilizzato al modo volgare un lemma raro e dotto del latino
classico. Del resto, della complessità dell’interpretazione di umeo, nella
sua significazione attiva e passiva, testimonia la tradizione esegetica, da
Servio in poi, a commento di un luogo “aurorale” per eccellenza, Aen. 4,
7 (“umentemque Aurora polo dimoverat umbram”): paradigmatica, ad
esempio, la glossa a humens del Glossarium Ansileubi (Lindsay, Mountford
e Whatmough 1926:284): “h[umens] est quod facit humidum, non quod
fit”, ma poi, s.v. humentes: “humidi sunt. humorem accipiunt” (e cf. anche
L’alba di Fleury da un’altra specola
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s.v. humectat: “inundat. inrigat”). Cf. anche Schol. Aen. 4, 7 “umens est quod
facit, umidum quod fit”.
Anche su atra non è necessario intervenire: è stato proposto (Angeloni
1908–1911; Picchio Simonelli 1984) di riferire quest’aggettivo a mar, femminile già nel latino dell’Itinerarium Antonini (III sec.) e in tutte le lingue
galloromanze. Si consideri, del resto, che “atrum . . . mare” è in Orazio
nel senso di ‘mare burrascoso’ (Sat. 2, 2, 16–17), ma qui si potrebbe anche
intendere che non è stato rischiarato dalla luce del sole.
Un’altra ipotesi è che atra debba riferirsi a sol e allora è necessario
pensare che si tratti di un maschile: da atrum l’esito regolare, ma inattestato, sarebbe *adre e poi *aire. Ritengo però che le discrepanze di questa
forma dal nostro atra siano spiegabili su base linguistica. La mancata sonorizzazione di t è spiegabile considerando che esiste una vasta regione
del dominio guascone in cui le consonanti latine c, p, t intervocaliche si
sono conservate fino ai nostri giorni e che lo stesso trattamento ha avuto
luogo quando p e t si trovano nei gruppi consonantici pr e tr (si veda in
Rohlfs 1977:131 gli esempi di la latre < aratrum e Petraulo, petrusco, petreño
< petr-). Il centro di questa particolare pronuncia è dato dai parlari béarnesi delle valli d’Aspe e di Baréton, cioè nella regione a sud-ovest d’Oloron, ma si trovano esempi in tutta la Guascogna, ciò che fa presumere che
questo fenomeno abbia abbracciato primitivamente una regione molto
più vasta. Troviamo qualche esempio nelle valli d’Ossau e nel Lavedan.
La parola betèt (< vitellum) è comune a quasi tutta la Guascogna occidentale, mentre altre parole con questo trattamento si incontrano diffuse
in tutta la Guascogna, parte dell’Ariège, in Tarn e Tarn-et-Garonne e nel
Gers (Rohlfs 1977:130 e sgg).
Da questo punto di vista vi sono strette relazioni fra le valli béarnesi
e la regione limitrofa dell’Alta Aragona. La mancata lenizione è molto
diffusa nelle valli aragonesi di Biescas, Broto, Faulo e Bielsa. Ma anche
qui c’è una zona molto più vasta, che si estende verso ovest fino al limite
basco-aragonese, dove si incontra ancora qualche esempio che permette
di concludere che anche nel Nord della Spagna questo trattamento dovesse essere molto più esteso. Documenti medievali dei secc. XI e XII ci
danno per le valli dell’Ebro (Saragozza, Rioja) pescato, collata, aripa, paco,
ripera, copierto. Per la spiegazione del fenomeno Rohlfs ritiene che sia necessario supporre che la sonorizzazione, attribuibile al sostrato gallico,
sia restata inefficace nei territori dominati dall’elemento basco-aquitano.
Secondo Jungeman (1955:247) l’assenza del bilinguismo celto-latino in
questa zona è sufficiente per spiegare il perdurare di queste consonanti
del sistema latino, anche se la possibilità di un influsso basco non è da
escludere.
Per questo dato, come per quello relativo a umet, è estremamente significativa la coincidenza con un fenomeno linguistico che ritroviamo nelle
Benedizioni di Clermont-Ferrand, per le quali Hilty (1995:28) ha proposto
una localizzazione in area guascone sulla base della forma erpa per erba,
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ritenuto dallo stesso Hilty un ipercorrettismo riconducibile al medesimo
fenomeno che ci interessa.
Infine, per la grafia -a utilizzata per indicare la vocale con timbro indistinto di appoggio al nesso -dr-, andrà considerato che essa è attestata in
ambito galloromanzo fin dalle origini (Avalle 1966:80–81). Nei Giuramenti
di Strasburgo, in particolare, troviamo la -a dopo nesso di dentale + -r- con
fradra per fradre e sendra per sendre. Secondo Avalle (1966:80) “Dato che la
A atona finale e intertonica e la vocale d’appoggio hanno dato in francese
il medesimo esito, e cioè una e prima sorda e poi muta, è molto probabile
che l’uso oscillante di -a, -e, -i, -o (la -u di deus sarà un latinismo), stia a rappresentare una reale incertezza nella rappresentazione di un fonema per
cui l’alfabeto latino mancava del segno corrispondente”. Si tratta, peraltro, di un tratto fondamentale per la localizzazione, tipico di alcuni testi
collocabili al confini fra area d’oc e d’oïl. Esso è presente nei documenti
più antichi dell’Angoumois, in particolare in un certo numero di carte
redatte nell’abbazia di Cellefrouin, a Nersac e ad Angoulême, nonché
nella Cronaca di Carlo Magno dello Pseudo Turpino, il cui autore era probabilmente originario della Saintonge (Avalle 1966:109–115). Quest’area
geografica, collocata a ridosso della Gironda, individua un’area di confine
fra zona oitanica, limosino e guascone. Sempre secondo Avalle (1966:114)
“La distribuzione geografica di tali testi e documenti non è casuale, ma
sembra in qualche modo legata alla linea di confine linguistico fra le due
zone d’oc e d’oïl. Il fatto è importante e ci spiega il perché di questo curioso fenomeno: trattandosi di zona posta a cavallo fra le due aree linguistiche d’oc e d’oïl, è naturale che i parlanti stabilissero mentalmente
l’equivalenza -e (langue d’oïl) -a (langue d’oc), e che pertanto, nel caso
di scambio fra i segni relativi, la -a venisse estesa indebitamente anche
ai casi in cui -e ha valore di vocale d’appoggio”. Tale spiegazione, però,
contrasta con il probabile valore fonetico dell’oscillazione predicato dallo
stesso Avalle. Sembra invece più probabile che all’altezza dei Giuramenti
di Strasburgo e poi anche nel X secolo, la vocale d’appoggio non avesse
ancora una precisa consistenza timbrica, e che potesse essere resa in maniera differente, anche all’interno del medesimo testo (proprio nei Giuramenti di Strasburgo, come noto, oltre a fradra è attestato anche fradre). Un
altro esempio emblematico dello scambio a/e è quello delle Benedizioni
di Clermont-Ferrand, dove troviamo evidente confusione nell’espressione
“tomides mans e tomidas pes”. In questo stesso testo, lo si è visto, abbiamo
anche il fenomeno dell’ipercorrettismo erpa che ha fatto pensare ad una
localizzazione guascone e, analogamente, troviamo madre, che rinvia invece ai confini settentrionali dell’area d’oc. Le Benedizioni presentano insomma gli stessi tratti linguistici caratteristici del nostro componimento,
che potremo grosso modo trattare come sedimentazione stratigrafica di
tratti propri della zona occidentale della Francia, fra Angoumois, Limosino e Guascogna.
In conclusione, possiamo affermare che l’aggettivo atra potrebbe es-
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sere un latinismo apparente, la cui funzione stilistica sarà stata, anche in
questo caso, quella di rimarcare la barbarolessi: la struttura del verso richiede infatti che atra vada riferito a sol, che nell’occitanico sta sia per
‘sole’, sia per ‘suolo’ e che quindi un aggettivo femminile o neutro plurale del latino sia trattato come maschile nel contesto che ci interessa: un
barbarismo evidentemente reso possibile dal contesto linguistico e culturale al quale si è voluto far riferimento col refrain. È possibile che questo
elemento, congiunto all’uso transitivo di umet, non sia casuale, ma rientri
in un progetto culturale ben preciso, con ben precise finalità stilistiche e
registrali.
Abbiamo qui due sensi possibili. Nel primo caso il senso sarebbe: ‘Il
mare bagna la terra oscura’ cioè non ancora rischiarata dal sole. A riscontro si può addurre l’inno di AH 2m, 32: “Nox atra rerum contegit / Terrae
colores omnium, / Nos confitentes poscimus / Te, juste judex cordium”.
Oppure questo notissimo inno mattutino tratto dal Cathemerinon di Prudenzio (AH 2, 7): “Nox et tenebrae et nubila, / confusa mundi et turbida, /
lux intrat, albescit polus: / Christus venit; discedite. / Caligo terrae scinditur / percussa solis spiculo, / rebusque iam color redit / vultu nitentis
sideris”. Se fosse buona tale interpretazione, infine, un intertesto interessante sarebbe il mattutino AH 51, 5 (Die Dominica ad Matutinas Laudes),
dove l’Aurora che copre le stelle (come in Phebi claro al v. 12), humectis flatibus, battezza la terra con la rugiada mattutina:
Aurora stellas iam tegit
Rubrum sustollens gurgitem,
Humectis namque flatibus
Terram baptizans roribus.
Il sintagma “atra sol” rinvierebbe così allo stilema, universalmente diffuso, che fa riferimento alla terra nera (o “negra terra”), in contrapposizione alla terra bianca, che, come vedremo meglio più avanti, dà origine
ad un toponimo proprio in Guascogna.
Anche se non impossibile, più onerosa è la seconda lettura, con atra
riferito a sol nel senso di ‘sole’. La sola attestazione coeva a me nota, in cui
il sole-Febo è avvicinato all’obscuritas marcata con l’aggettivo ater, peraltro
riferito al diavolo, è quella che troviamo in un Calendario inglese (British
Library, Cotton Julius A vi), databile alla prima metà dell’XI secolo: “15 kl
[MAR] Pisciculis Phoebus reclusus Zabulus ater. Sol in Pisce” (Temple
1976:62).
Certo, non è irrilevante notare: 1. che l’immagine del sole oscurato è
evangelica (Matt 24, 29: “statim autem post tribulationem dierum illorum
sol obscurabitur et luna non dabit lumen suum et stellae cadent de caelo” e
cf. anche Marc 13, 24–25; Apoc 6, 12); 2. che, ovviamente, si ritrova in vari
inni coevi al nostro; 3. che il sole nero è una delle più importanti icone
del sistema alchemico occidentale, oltre che della psicologia junghiana
(Marlan 2005); 4. che l’immagine del sole-Febo bagnato si trova nel De ae-
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tatibus mundi et hominis attribuita a Fulgenzio: “Perdit ignis naturam in imbrem migratus, desudat humectus in radiis Febus, et ut divinitas impravit,
flamma etiam pluere didicit atque in suis incendiis guttas habere se repentina expavit” (Helm 1898:178). Pur tuttavia, in mancanza di più specifici
appigli scritturali, questi riscontri non sembrano ancora sufficienti per avvalorare una lettura in cui il sole scuro sia compatibile con la situazione
aurorale rappresentata nel refrain del nostro inno.
Poypas. Se è necessario considerare il refrain per blocchi sintattici
verso/frase e quindi privo di enjambement, uno dei problemi principali per
l’interpretazione del secondo verso è quello di comprendere cosa si celi
dietro la serie grafica Poypas e, di conseguenza, di determinare il soggetto
della frase. L’ipotesi che ci sembra più probabile è che l’unità grafica non
debba essere scomposta e che il lemma vada in qualche modo riconnesso
a poypia che troviamo variamente attestato in numerosi documenti mediolatini (Du Cange, s.v.) e all’ugualmente attestato poype (o poëpe) del francese e del francoprovenzale (Gorra 1912; Lazzerini 1979; Lazzerini 1985).
Si tratta di un sinonimo di mota, “una specie di collinetta artificiale sulla
cui cima era edificata una casa quadrata, in origine di legno, con due o
tre piani, che poteva anche avere una torre. Intorno al colle si scavava un
fossato, e a una certa distanza si erigeva tutto all’intorno una palizzata,
che era alla sua volta circondata all’esterno da un altro fossato; e all’ingiro interiormente poteva esser difesa da torri. Era questa costruzione,
del secolo nono, una forma assai primitiva di castello fortificato, che nella
storia dell’architettura ha grande importanza, perché da essa derivarono
poi i poderosi castelli cinti di mura del medio evo” (Gorra 1912:173). Il
lemma comporta un’evoluzione semantica analoga a quella di molti altri
toponimi, per cui il nome della ‘mammella’ (nel caso specifico puppia)
viene attribuito ai rilievi naturali aventi forma sinusoide e quindi ai tumuli artificiali e naturali; di qui il termine viene utilizzato anche per significare, per traslato, ciò che sopra questi tumuli è edificato, in genere
fortificazioni, ma anche villaggi o accampamenti.
Questi rudimentali castelli erano generalmente denominati motte
nel nord e nord-ovest della Francia e poypia nel Delfinato, nella Bresse,
nella Dombes. Le poypias erano costruite in zona pianeggiante ed erano
interamente artificiali, distinguendosi così dalle mottes semiartificiali delle
regioni collinose e dai “reliefs aménagés” delle zone di montagna. Tutte
queste forme di fortificazione avevano in genere forma conica ed erano
dotate di una piattaforma adiacente, la bassa corte, con piano ellittico,
dove erano accolti i contadini e il bestiame del signore in caso di attacco.
Fortificazione e bassa corte erano protette da fossati (talora raddoppiati)
e in alcuni casi anche da rinforzi di terra e altri materiali provenienti
dai fossati. L’edificazione necessitava di un enorme lavoro, per la costruzione sia del tumulo principale, sia delle strutture annesse, bassa corte e
rinforzi.
Le poypas propriamente dette servivano soprattutto da posto di sicu-
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rezza e di sorveglianza. Si trattava cioè con ogni probabilità di luoghi in
cui, in origine, si collocavano vedette o sentinelle per prevenire l’arrivo
dei nemici e avvertire i difensori del forte: tutti i tumuli identificati con
questo nome o con nomi analoghi, infatti, sono sormontati da torri d’avvistamento. In numerosi atti, databili dal X al XIII secolo, che trattano
di scambi, acquisti e vendite di terreni e di feudi si specifica che si vende
tale e tale castello con la sua poypia. Secondo Jolibois (1846:133–134): “La
Bresse et la Dombes présentent un terrain plat et légérement ondulé. Au
moyen-âge, il était couvert de taillis et d’epaisses forêts; dans ces guerres
particulières de seigneur à seigneur qu’entretenait le régime féodale, l’ennemi pouvait, à l’abri des bois touffus, s’approcher des murs des châteaux
et les surprendre; il fallait donc près de chacun un lieu élevé d’où quelque
sentinelle pût donner du cor et avertir de l’approche de l’ennemi. Au lieu
que les autres provinces offrant un terrain moins plat et plus montagneux,
chaque seigneur pouvait placer son château au haut des collines ou sur la
pointe des rochers. Delà ou pouvait découvrir au loin l’arrivée de l’ennemi
et préparer sa defense”.
Il termine poypa (con le sue varianti grafiche e linguistiche) ben diffuso nella piana alluvionale della regione Lionese, nell’Ain e nell’Isère,
insomma nel Delfinato nella Bresse e nella Dombes, non è sconosciuto in
ambito occitanico e guascone. In particolare La Popie è un “mamelon arrondi à l’O. de l’église de Saint Circ-La Popie, Lot, sur lequel sont les ruines
d’un chateau du XIIIe siècle” (Nègre 1990–1998, 2 = 1991, 1192 [22269]).
Il nome di “Guillelma de la Popia, mater Poncii de la Popia” compare in
alcuni documenti localizzabili nel Tarn, e numerosi altri personaggi provenienti da Saint-Circ-La Popie “sur le Lot, à l’est de Cahors, localité qui
[. . .] s’impose comme indiscutable quand on lit que l’act a été dressé à
Calvignac, bourg très voisin de la Popie” (Amargier 1979:30–31). Secondo
Nègre (ibid.) “on dit [lò pò:pyo] = occ. pòpia ‘espece de fourgon pour tisonner le feu (Tarn)’, dont le sens premier doit être celui du dérivé popel
‘mamelon, tetin’”. Ugualmente, con il nome La Popio (var. in La Paupio e
La Popeia) è designato in numerosi documenti un “chateau en ruines sur
une butte naturelle, com. Saint Avit Sénieur, Dordogne” (ibid. [22270]). Infine ritroviamo il toponimo Poupas in Tarn et Garonne (ibid. [22271]: “anc.
motte féodale sur un couteau; = prob. gasc. poupe ‘mamele’ + suff. augm.
-as ‘gros mamelon’”). Nel complesso, è chiaro che il medesimo termine,
usato per designare l’esatto equivalente della poypia di ambito francoprovenzale, si riscontra nel Lot, nel Tarn, nel Tarn-et- Garonne e in Dordogne,
cioè in un’area molto compatta fra Ducato di Guascogna e d’Aquitania
(oggi Aquitania e Midi-Pyrenées). In particolare, Saint-Avit-Sénieur è un
comune situato nel sud del Dipartimento della Dordogne (nell’arrondissement di Bergerac) nella regione dell’Aquitania. Ancora oggi si distingue
per la presenza di una grande chiesa della fine del sec. XI, parzialmente
fortificata, costeggiata dalle vestigia di un’abbazia di canonici regolari di
Sant’Agostino, edificata in onore di Sant’Avito. Situato in prossimità della
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valle della Couze, all’estremità di un altopiano, delimitato da due vallate
secche, sul cammino per Santiago de Compostela che parte da Vézelay,
il borgo è collocato su un sito che offriva facilità difensive sia ad ovest
sia a sud. In altri tempi il luogo, limitrofo all’abbazia cisterciense di Cadouin, era denominato “mont Dauriac”. Alla fine dell’XI secolo in questo
sito viveva una piccolissima comunità monastica custode della tomba di
Sant’Avito (Dubourg-Noves 1979). Ancor più interessante il caso di Poupas, per via della brevissima distanza (meno di quaranta chilometri) che
lo separa dal monastero benedettino di Moissac, notissimo e importantissimo centro associato a Cluny dall’abate Odilone, tappa per il cammino
per Santiago de Compostela e florido centro di alta produzione innologica (Fraisse 2006).
Nel complesso, possiamo quindi dire che il termine poypa individua
bene le prime modalità di fortificazione e che può essere preso come
lemma comprensibile da un’ampia comunità linguistica, dalla Guascogna all’Occitania, dalla Borgogna alla Savoia e al Delfinato. Per ciò che
riguarda il significato del termine presente nel nostro testo, è difficile stabilire esattamente a quale stadio dell’evoluzione semantica ci troviamo: le
attestazioni che indicano in poypia una fortificazione già ben strutturata
sono tutte del tardo XIII secolo. Se è vero che questo termine “finisce a
un certo punto per identificarsi con la fortezza cui serviva ordinariamente
di base” (Lazzerini 1985:26) e che non è casuale “l’analoga evoluzione di
podium, che nel latino medievale assume anche il significato di ‘domus rustica, curtis, praedium rusticum, castrum, castellum; maxime de iis quae
supra podium seu collem extructa sunt’” (Lazzerini 1985:153), nulla ci assicura che nell’epoca in cui fu composta l’alba con il termine poypa si designasse la fortificazione nel suo complesso e non semplicemente il tumulo,
turrificato o meno, che serviva da posto di osservazione.
Dal punto di vista grammaticale poypas può essere sia un femm. pl. da
poypa, sia l’esito occitanico di poypanus, cioè colui che abita, più o meno
temporaneamente, la poypa, termine in parte analogo a castelas < castellanus (‘colui che abita il castello’). In questo secondo caso, l’area di localizzazione del nostro testo sarebbe ristretta, ancora una volta, all’occitania
propriamente detta e alla Guascogna, dove abbiamo tracce precocissime
e diffusissime della caduta di -n mobile. In Guascogna, in particolare, n finale (in posizione intervocalica) accorda con l’-n detta instabile dell’antico
occitanico e può scomparire del tutto in Béarn e in Bigorre, mentre in altre zone resta nasalizzata la vocale finale (Rohlfs 1977:158). In ogni caso, il
termine va inteso come caso retto (nominativo o vocativo a seconda delle
interpretazioni: cf. infra).
Dal punto di vista dell’interpretazione allegorica, la poypa, collina
preposta all’avvistamento, sarà figura del monte Sion, il mons speculatorius per eccellenza, allegoria della chiesa, fin da Sant’Agostino, che ne
chiarisce esaurientemente il senso nelle Enarrationes in Psalmos (PL 37,
col. 1307):
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Ut annuntietur in Sion nomen Domini. Primo enim premebatur Ecclesia,
quando mortificabantur compediti: post illas pressuras annuntiatur in Sion
nomen Domini, cum magna libertate, in ipsa Ecclesia. Ipsa enim Sion: non
ille unus locus primo superbus, postea captivatus; sed Sion cujus umbra erat
illa Sion, quae interpretatur Speculatio; propterea quia in carne positi videmus in priora, extendentes nos non ad praesens quod est, sed ad id quod futurum est. Ideo speculatio. Omnis enim speculator longe prospicit. Specula
dicitur, ubi ponuntur custodes: fiunt istae speculae in saxis, in montibus, in
arboribus, ad hoc ut de loco eminentiore longe videatur. Sion ergo speculatio, Ecclesia speculatio. Unde speculatio? Longe videre, hoc est speculatio.
San Girolamo, nel passo delle Enarrationes a commento del versetto
Mons Sion, latera aquilonis, civitas regis magni, collega il monte Sion, allegoria della Chiesa da cui si osserva l’Eterno e si riconosce la Gloria di Cristo,
col diabolico vento Aquilone:
Aquilonis intelligibilis gravis est flatus, qui prius tempestates asperrimas
et procellas humanis movebat affectibus: coepit suos amittere, qui vexabat
alienos. Gentem omnem everterat Judaeorum, nationes omnes suo revinctas
tenebat imperio, ipsius erant latera; hoc est, aspirabant cum eo. Sicut enim
principis latera dicimus stipatores ejus et comites, et sicut mulier latus est viri,
eo quod morigera ei societate jungatur; ita latera erant diaboli, qui faciebant
ipsius voluntatem. Ii ergo nunc sunt mons Sion, qui Deum speculantur aeternum, et ipsi noctibus et diebus intendunt. Vide mihi Paulum cum persequeretur Ecclesiam Domini, latus aquilonis fuisse: vide nunc cum legitur in Ecclesia, montem esse speculatorium, per quem Christi gloriam cognoscimus,
et videmus. (PL 14, coll. 1147–1148)
Lo stesso San Girolamo, nella Translatio homiliarum nove in visiones Isaiae Origenis Adamantii, ci fornisce un indizio per comprendere la ragione
per cui l’abitante della poypa possa essere menzionato nel nostro testo
(PL 24, col. 929):
Habet autem ita: Et erunt signa et prodigia a Israel in Domino Sabaoth, qui
habitat in monte Sion. Qui enim habitat in speculatorio, et in omni anima potest conspicere veritatem, iste facit signa et prodigia per Salvatorem, et post
Salvatorem per Apostolos, et ubicumque invenitur anima apta ministerio signorum et prodigiorum Dei, sive juxta spiritalem curationem, sive sensibiliter exhortando eos, qui veniunt ad fidem, non est otiosus Deus, qui tunc fecit
signa et prodigia, etiam nunc operari ea.
Chi abita nel Monte Sion, cioè il monte speculatorio, allegoria della
Chiesa (vulgariter: il poypas), può scrutare ogni anima e comprendere
quelle che sono più vicine al Signore. Si noti la perfetta congruenza di
questo riscontro con quanto scrive Amalario di Metz nel capitolo 76 (De
responsoriis prophetarum) del De ordine antiphonarii circa i responsori da cantare nel mese di Novembre, quando si può supporre con buona verosimiglianza che l’inno dovesse essere cantato (cf. supra e infra):
In Novembri mense juxta morem Romanae Ecclesiae, in prima hebdomada cantamus responsorios de psalmis, in tribus sequentibus de prophetis.
Non requiratur in prophetis ordo historiae: nec enim mos est prophetarum,
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ut ordinem historiarum sequantur: sed tactum Spiritus sancti, qui ubicunque vult, spirat, et cum vocem ejus audieris, nescis unde veniat et quo vadat.
Isti enim responsorii vice diversorum missorum, Spiritus sancti praemittuntur ante adventum Christi. In nullis libris Veteris Testamenti toties reperitur
admonitio Spiritus sancti ad populum, ut convertatur ad Deum, quoties in
prophetis. Et ideo quia in proximo est, ut veniat salus mundi, id est in mense
Decembri, ut eadem admonitio in Novembri mense frequenter celebretur,
necesse est. Adveniente tempore, quod nominatur Adventus Domini, ea quae
lucidius narrant de Christi nativitate leguntur et cantantur. Nemo prophetarum tam lucide et aperte prophetat de Christi nativitate, quantum Isaias.
Propterea ipse legitur in adventu Domini. Quem statum sequuntur et responsorii, qui evidentissime reboant de nativitate Christi. Omnes prophetae de
Christo prophetaverunt: idcirco in Novembri mense et eorum libri leguntur,
et de ipsis sumpti sunt responsorii. (PL 105, coll. 1311–1312)
Il Poypas, ‘qui habitat in monte speculatorio’, allegoria del Monte Sion,
se visto nella chiave profetica di Isaia, è quindi figura centrale dell’Avvento
di Cristo: egli, oltre ad esortare i fedeli e a metterli in guardia contro le
tenebre del peccato ancora pervasive, riesce a vedere da lungi l’arrivo del
Salvatore. Particolarmente significativo, infine, è il passo dell’Expositio in
Psalmos di Brunone d’Asti che abbiamo già citato in quanto richiama anche letteralmente la seconda strofa dell’Alba: “Id ipsum significat et mons
Sion, qui speculatio interpretatur. Boni speculatores, qui assidue vigilant,
ne quasi incauti ab hostibus capiantur”.
abigil. Per ciò che riguarda abigil si possono individuare due letture
che rispetterebbero, oltre che la serie grafica così come è tràdita, anche
l’unità di scrittura, fornendo nel contempo un senso del tutto armonico
con il contesto delle strofe latine e con la funzione esortativa che abbiamo
individuato come fondamentale negli altri refrain dell’innologia. Le due
letture, peraltro, si accordano con la duplice interpretazione prosodica
che abbiamo dato del secondo verso del refrain nel paragrafo 3.2.
Lettura 1. abigil è il congiuntivo presente, con valore esortativo, di un
ipotetico *avigilar, derivato dal latino advigilare ‘vigilare, far la guardia,
stare attento’, verbo tecnico perfettamente applicabile al ministerio dello
speculator / preco. Da un punto di vista linguistico c’è da dire che l’esito
occitanico sarebbe avelhar e che avremmo qui a che fare con una forma
intermedia fra latino e romanzo: si tratterebbe, in tal caso, di un ulteriore
uso idiolettico, proprio dello specifico ambito monastico cui l’inno era indirizzato. Del resto, non è da tacere che i due fenomeni linguistici che
distinguono il lemma attestato nel refrain dall’esito normale occitanico
si ritrovano entrambi nella Passione di Augsburg (X sec.). La mancata caduta dell’intertonica trova riscontro in apenderaunt (v. 3 e v. 6), dove l’esito
normale sarebbe apendran (Hilty 1995:32) e in bat[e]raunt al v. 1 (l’integrazione è in Lazzerini 1995:14). La i al posto della richiesta e chiusa si
incontra nel lemma acid del v. 4, dove l’occitanico vorrebbe aced (la lezione ab l’acid è ripristinata da Lazzerini 1995:14–15, nota 11 sulla base
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della serie grafica oblaeid: secondo l’autrice, non si tratta “necessariamente
di un oitanismo, ma forse un riflesso della scripta merovingica, come in
altri testi volgari arcaici, a cominciare dai Giuramenti di Strasburgo [dift
< debet]”). La conservazione della postonica è inoltre in tomida nelle Benedizioni di Clermont- Ferrand, dove l’esito normale occitanico sarebbe
tomda (Hilty 1995).
Particolarmente interessante è l’utilizzo di b per v che fa pensare a
un guasconismo o a un iberismo, magari proprio dell’ambiente monastico
mozarabico (Díaz y Díaz 1959, 1965), dell’autore o del copista. Infatti bisogna considerare che nella penisola iberica, in tutta l’area pirenaica e nella
Guascogna la confusione fra i suoni b e v era generalizzata sia in posizione
intervocalica sia in posizione iniziale già nel latino volgare d’epoca imperiale e che quindi la differenza fra b e v in Guascone come nei dialetti
iberoromanzi e mozarabi di fatto scompare, dando luogo a confusione
grafica (Luchaire 1879:203; Baldinger 1962; Rohlfs 1977:128; Galmés
de Fuentes 1994:59). Peraltro, questa particolare pronuncia e la relativa
grafia non è limitata alla Guascogna, ma si estende fino all’Alvergna e al
Languedoc, anche se il suo vero centro è indiscutibilmente la Guascogna
(Ronjat 1932, vol. 2:2, 6). Già Rajna (1887:77) annotava che “in una vasta
regione provenzale, la quale abbraccia tutto il territorio sud-ovest, estendendosi nientemeno che da Beziers a Bajona, da Montalbano ai Pirenei, il
v latino suona b”. Non è certo un caso che il betacismo sia rappresentato
graficamente nella strofa guascone del discordo plurilingue di Raimbaut
de Vaqueiras BdT 392,4 (bos per vos e boste per vostre) e che in alcuni casi è
sospettabile persino in Marcabruno (Tavani 1986; Bec 1987; Conte 2003).
Si noti che questo dato linguistico, che ci porta verso la Guascogna, risulta
perfettamente congruente e anzi corrobora quanto abbiamo sostenuto in
proposito di atra e di poypas.
Per ciò che riguarda la pertinenza con le strofe latine, abbiamo già
notato che la funzione dello speculator è la vigilanza. Del resto, la maggior
parte degli studiosi che hanno scritto sul refrain di Phebi claro, pur sciogliendo differentemente, hanno intravisto nella serie grafica abigil il lemma
latino vigil, interpretato appunto come ‘scolta’ (da ultimo Kaps 2005).
Sant’Ambrogio nell’Hexaemeron parla del “pervigil speculator” che salvaguarda le mura della città dagli attacchi del Nemico (PL 14, col. 262) e
nelle Enarrationes in XII psalmos dice che i “Boni fili Core” sono “pervigiles
specula mentis intenti” (PL 14, col. 1145).
Nel De conflictu duorum ducum et animarum mirabili revelatione del monaco Raniero di San Lorenzo leodiense i custodes delle fortificazioni, posti
nelle specole, hanno la funzione di vigilare (advigilabant) sull’accampamento (PL 204, col. 83): “Castris interea custodes advigilabant, / In speculis positi lustrabant omnia visu, / Prospectumque soli longe lateque petebant, / Cum procul adventare aciem cernunt numerosam”. Del resto,
il verbo advigilare, da cui si suppone possa dipendere abigil non è assente
272
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
nell’innologia del X secolo. In un tropario del X secolo leggiamo l’inno
AH 34, 240 (De sancto Georgio): “Sancte Georgi, te / poscimus, quaerimus /
ac pulsamus, / nostris precibus / advigilare digneris”.
Si aggiunga che l’esortazione alla veglia, come ha notato Schläger
(1895) con vigilare o evigilare è scritturale: 1 Cor 15 34 “Evigilate, justi, et
nolite peccare”; Marc 13 33 “Videte, vigilate, et orate”, Marc 13 35–37 “Vigilate ergo, quia nescitis, qua hora Dominus vester venturus sit. Illud autem scitote, quoniam si sciret pater familias qua hora fur venturus esset,
vigilaret utique, et non sineret perfodi domum suam”; Luc 12 37 “Beati
servi illi, quos cum venerit dominus, invenerit vigilantes”.
Il congiuntivo esortativo è usato nell’inno attribuito a San Gregorio
Magno (AH 51, 24): “Nocte surgentes vigilemus omnes, / semper in psalmis meditemur atque / viribus totis Domino canamus // dulciter hymnos”.
Lo stesso Gregorio (Dialogorum libri quattuor III, 20, PL 77, col. 272) insiste sul medesimo concetto, con parole richiamate nel testo latino di Phebi
claro: “Laboriosum est valde atque terribile contra inimici insidias semper
intendere, et continue quasi in acie stare! Laboriosum non erit, si custodiam nostram non nobis sed gratiae supernae tribuimus, ita tamen ut et
ipsi, quantum possumus, sub eius protectionem vigilemus”.
Nel sermone De duabus civitatibus dei et diaboli di Ildeberto di Lavardin
la Gerusalemme celeste è così descritta (PL 171, coll. 864–865):
Nunquam est ibi nox, sed semper dies. Ait enim Joannes: Non erit in ea
nox (Apoc. 21, 25) sed semper sunt ibi vigiles speculatores, de quibus Ecclesia
in Canticis: Invenerunt me vigiles, qui custodiunt civitatem (Cant. 3, 3). Ipse etiam
Dominus facit civitatem, et facit excubias, quia: Nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam (Psal. 126, 2). [. . .] Sunt ibi assidui praecones,
qui eos sibi providere assidue hortantur. [. . .] Ipsa civitas est Ecclesia; [. . .]
Non est ibi nox infidelitatis, de qua ait Apostolus: Nox praecessit, dies autem
appropinquavit (Rom. 13, 12). Vigiles sunt episcopi, sacerdotes, et alii praelati,
qui circa oves Domini vigilant. Praecones sunt praedicatores, quibus dicitur:
Clama, ne cesses, quasi tuba exalta vocem tuam, et annuntia populo meo scelera eorum
(Psal. 58, 1).
Tale interpretazione allegorica risulta ancor più chiara nel sermone
De custodibus Jerusalem civitatis sanctae, attribuita ad Ugo da San Vittore, a
commento di Isai. 62 (PL 177, coll. 1003 e 1006):
Super muros tuos, Jerusalem, constitui custodes; tota die et nocte in perpetuum
non tacebunt. Qui reminiscimini Domini, ne taceatis, et ne detis silentium ei, donec
stabiliat, et donec ponat Jerusalem laudem in terra (Isai. 62). Jerusalem civitas sancta et civitas sancti, sancta Ecclesia est, cujus rex ei peregre proficiens praeposuit custodes ac speculatores, qui eam die ac nocte custodiant, et a malo
defendant. Sunt ergo diversae speculae et diversi speculatores, imo speculatorum ordines, qui in diversis locis sanctae civitatis praesideant, hostes arceant, cives custodiant. [. . .] Debent ergo sancti speculatores in alto sedere
per spiritualem conversationem, vigilare per circumspectionem, circuire per
sollicitudinem, tubis clangere per praedicationem, fistulas inflare per conso-
L’alba di Fleury da un’altra specola
273
lationem, citharizare per bonam operationem, cantare per gratiarum actionem. Et haec omnia facere debent die et nocte, id est in prosperis et adversis.
Unde et ipse Isaias, cujus haec verba quae praeposuimus, de seipso dixit: Super speculam Domini ego sum jugiter per diem, et super custodiam meam ego sum stans
totis noctibus. Donec, inquit, stabiliat et donec ponat Jerusalem laudem in terram
(Isai. 21)
Il verbo evigilare, che come si è visto è presente nelle Scritture in
forma imperativa, non è assente nell’innologia. Nell’inno AH 25, 44 (De
sancta Barbara), del X secolo, lo troviamo nell’invitatorio Ad Matutinum:
“Virgineae prolis / ad laudes evigilemus / Et veri solis / ortum iubilis resonemus”. Nell’Hymnus Mediae Noctis AH 27, 79, tràdito da codici coevi al
nostro si legge:
Iesu, defensor omnium
Protector et mirabilis,
Suetum noctis advenit,
Et nos sopore dediti
In tuo sancto nomine,
Qui custos et defensor es,
Evigilemus spiritu,
Ut mereamur lampades;
Cantores tuos, Domine,
Quos iubes nocte surgere
Ad invocandum nomen tuum,
Quod nobis est laudabile.
Quem omnis terra metuit
Pro tanta magnitudine,
Sequamur in tua laude,
Quod pie, sancte, praecipis.
Hymnorum cantus resonet
De corde te credentium,
Sequamur cuncti gaudii
Promissa sancti spiritus.
Clamor in nocte factus est,
Iesus ingressus ianuis
Evigilantes provocat
Intrare sancta regia.
Fra gli inni riconducibili all’XI secolo troviamo l’occorrenza di evigilet ancora in AH 7, 71 (In Resurrectione DN.): “Eoa lux / occurrat octava, / quae
est et prima, / evigilet, / qui dormierat / et potum mortis biberat, / det
tristi mundo gaudia, / qui ejus tulit peccata”.
Interrogandosi sul senso del canto delle scolte modenesi, Roncaglia
(1948:31) si domandava: “Non è del resto lo stesso termine di vigilia una
metafora tolta dal linguaggio militare, e ricalcata sull’uso militare romano
la divisione della notte in tre vigiliae e connesso il tutto alla concezione
della vita come continua battaglia e militia Christi?”. Amalario di Metz,
nel De Ordine Antiphonarii, trattando De numero lectionum et responsoriorum
suprascriptarum noctium ci chiarisce, oltre al senso e all’origine militare
274
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
e scritturale delle vigilie notturne, anche la funzione che aveva l’esortazione rivolta al popolo di Cristo tramite il responsorio a partecipare alle
vigiliae:
Addiscimus ex vigiliis militaribus, ad quid instruamur ex tribus lectionibus et responsoriis. Dicit sanctus Ambrosius: Imitare milites istius saeculi,
et te militem esse Christi existima. Armiductores constituerunt in militia sua
dormientibus militibus castra tueri per tres vigilias in nocte. Quarta autem est
in matutinali tempore, quando nos matutinos cantamus. In memoratis tribus
vigiliis vigiles constituti sunt, qui custodiunt militum dormientium corpora,
et supellectilem eorum. In militia saeculari vicissim dormiunt milites, et vicissim vigilant. In Christianorum vero militia dictum est in Evangelio Marci:
Quod autem vobis dico, omnibus dico, Vigilate. Tres lectiones et tres responsorii
per quotidianas noctes insinuant sanctae plebi, clerum Ecclesiae Dei ad hoc
esse intentum ut admoneat per lectionem, hoc est, suam doctrinam et per
responsorium, hoc est, clamorem non parvum mentis praedicando et exhortando populum Dei ad vigilias, si Dominus domus repente venerit, sero an
media nocte, an galli cantu, an mane, ne inveniat eum dormientem. Si enim
venerit Dominus domus secundum Lucam, in secunda vigilia, et si in tertia
vigilia venerit, et pulsanti confestim aperitur, beati sunt servi illi. Haec est
intentio cleri Dei, ut si quis gravi somno addictus, in prima vigilia negligens
exstiterit, in secunda vigilia solerti cura exspectet Dominum revertentem a
nuptiis: Quod si etiam in secunda vigilia negligens exstiterit, saltem in tertia
vigilans inveniatur. Notandum est, quod unaquaeque anima fidelis quacunque die exuta fuerit corpore, septimam sabbati recipit, et resurrectio sanctorum corporum octavam diem exspectat: ita quaecunque anima evigilaverit a
gravi somno negligentiae per curam ecclesiasticam, sive in prima vigilia, sive
in secunda, sive in tertia, statim attingit matutinum tempus in quarta vigilia. Ut reor, sancta Romana Ecclesia hoc speciatim nobis insinuat per suam
consuetudinem. Ipsa enim quotocunque ordine vel numero lectionum viderit
maturam procedere, ut audivi, dimittit nocturnale officium, et incipit matutinale, periculosum est enim transgredi terminos patrum, hoc est, nisi aut in
maturitate, juxta auctoritatem prophetae David surgamus, aut juxta consuetudinem nostrae fragilitatis, in gallicinio. (PL 105, coll. 1251–1252)
Nel medesimo testo Amalario di Metz spiega che la vigilia con l’invitatorio rivolto al popolo, giusta il precetto scritturale, va fatta solamente
a mezzanotte, e non durante la prima vigilia, riservata esclusivamente ai
chierici (col. 1306):
Primam [vigiliam] solet apostolicus facere in initio noctis, quae fit sine
invitatorio, quoniam ea hora non invitatur populus ad vigilias. Populus enim
invitatur ad vigilias ea hora noctis de qua dicebat David propheta: Praeveni
in maturitate, et clamavi. Si quis vult discere quae sit illa hora, legat sanctum
Augustinum super psalmum decimum octavum, invenietque ibi maturitatem
esse positam pro media nocte. Ea hora ingreditur clerus et populus ad secundam vigiliam, et cantatur invitatorium.
Queste parole sembrano quindi escludere che l’esortazione alla veglia
mattutinale ad galli cantum possa essere diretta al popolo: si tratta piuttosto di una prassi tutta interna al clero e agli ordini monastici. Un passo
di Gregorio Magno nell’Expositio in Librum B. Job (VI, XIII, 3) è invece
L’alba di Fleury da un’altra specola
275
fondamentale per comprendere il senso del rapporto fra testo latino e refrain. In esso infatti si chiarisce come sia necessario che colui che chiama
i dormienti alla veglia vigili innanzitutto su se stesso e che, per fugare le
tenebre del peccato, egli sia nello stato della più pura perfezione (PL 76,
col. 532):
Qui alios ex officio adhortantur, prius se in bonis operibus exerceant. Est adhuc
aliud in gallo solerter intuendum, quia cum jam edere cantus parat, prius
alas excutit, et semetipsum feriens, vigilantiorem reddit. Quod patenter cernimus, si sanctorum praedicatorum vitam vigilanter videamus. Ipsi quippe
cum verba praedicationis movent, prius se in sanctis actionibus exercent, ne
in semetipsis torpentes opere, alios excitent voce; sed ante se per sublimia
facta excutiunt, et tunc ad bene agendum alios sollicitos reddunt. Prius cogitationum alis semetipsos feriunt, quia quidquid in se inutiliter torpet, sollicita investigatione deprehendunt, districta animadversione corrigunt. Prius
sua punire fletibus curant, et tunc quae aliorum sunt punienda denuntiant.
Prius ergo alis insonant quam cantus emittant, quia antequam verba exhortationis proferant omne quod locuturi sunt operibus clamant; et cum perfecte
in semetipsis vigilant, tunc dormientes alios ad vigilias vocant.
Ut recte suo munere defungantur praedicatores et doctores, habent a Deo. Sed
unde tanta haec doctori intelligentia, ut et sibi perfecte vigilet, et dormientes ad vigilias sub quibusdam clamoris provectibus vocet, ut et peccatorum
tenebras prius caute discutiat, et discrete postmodum lucem praedicationis
ostendat, ut singulis juxta modum et tempora congruat, et simul omnibus
quae illos sequantur ostendat?
Dunque, l’abate che chiama alla veglia ed esorta i monaci a fuggire
dalle tenebre del peccato, dovrà essere egli stesso nella condizione della
più completa perfezione e vigilare, in primis sulle proprie azioni. Questi
riscontri, nei quali si esorta (exortare, invitare, vocare) alla veglia liturgica
(ad vigilias), aprono la strada alla seconda interpretazione.
Lettura 2. abigil è un’esortazione diretta alla veglia, analoga, quanto a
senso e a costrutto, al nostro all’armi o all’erta e coincidente nella sostanza
col grido registrato nel canto delle scolte modenesi (Roncaglia 1948:7–8),
dove ritroviamo in effetti tutta una serie di elementi testuali coincidenti
con varie peculiarità del nostro inno:
O tu qui servas armis ista moenia,
noli dormire, moneo, sed vigila.
[. . .]
Nos adoremus caelsa Christi numina:
Illi canora demus nostra iubila,
Illius magna fisi sub custodia
Haec vigilantes iubilemus carmina:
“Divina mundi rex Christe custodia,
sub tua serva haec castra vigilia”
[. . .]
Te vigilante nulla nocet fortia,
Qui cuncta iugas procul arma bellica.
[. . .]
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
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Fortis iuventus, virtus audax bellica
Vestra per muros audiantur carmina,
Et sit in armis alterna vigilia,
Ne fraus hostilis haec invadat moenia.
Resultet haecco comes: “eia, vigila!”
Per muros: “eia, dicat haecco, vigila!”.
L’esortazione riecheggiante che le scolte si ripetevano a vicenda lungo
le mura della città è espressa qui con l’imperativo vigila e preceduta dal
noto grido di giubilo e di guerra eia. Era questo il tipico richiamo che le
scolte mettevano in atto per verificare se il compagno era ancora vigile;
esso doveva essere estremamente diffuso se ancora Gonzalo de Berceo,
in altro tempo e in altro luogo, ne riprende la forma essenziale (Dutton
1975:8–9):
¡Eya, velar! ¡Eya, velar! ¡Eya, velar!
Velat, aljama de los judíos,
¡eya, velar!,
que non vos furten al Fijo de Díos.
¡Eya, velar!
Ca furtárvoslo querrán,
¡eya, velar!,
Andrés e Peidro et Johán.
[. . .]
Don Philipo, Simón e Judas,
¡eya, velar!,
por furtar buscan ayudas.
¡Eya, velar!
Si lo quieren acometer,
¡eya, velar!,
¡oy es día de parescer!
¡Eya, velar!
¡Eya, velar! ¡Eya, velar! ¡Eya, velar!
Mi sembra qui di estremo interesse il fatto che l’esortazione sia
espressa con l’infinito, come nell’alba profana BdT 461, 203 dove è però rivolta al levare, al sorgere, ma ugualmente gridata dalla scolta (qui gaita):
Quan lo rossinhols escria
ab sa par la nueg e·l dia,
yeu suy ab ma bell’amia
ios la flor,
tro la gaita de la tor
escria: “drutz, al levar!
qu’ieu vey l’alba e·l iorn clar”.
Torneremo su questo dato linguistico nel commentare il lemma seguente, miraclar. Qui si noti solamente che il grido delle scolte “eia, vigila!”
può essere metricamente scandito come un doppio trisillabo a cadenza
ossitona (e-i-à // vi-gi-là): anche se trattato come bisillabo nel canto delle
scolte modenesi, la scansione trisillabica di eia è attestata nel conductus
L’alba di Fleury da un’altra specola
277
sammarzialese Ex Ade vitio (Lazzerini 1979:152; Stevens 1986:61). Il refrain
di Phebi claro, come abbiamo visto, procede in maniera del tutto consona a
questo sistema ritmico, sia nell’andamento trisillabico, sia nella timbricità
della maggior parte dei versi, che presentano, fin dall’attacco, la terminazione in -a (L’alba par, umet mar, Poypas, miraclar, tenebras). Se quest’ipotesi
è vera, allora avremmo a che fare con una perfetta rifunzionalizzazione,
al limite del contrafactum, del grido d’allerta delle scolte che dalla tarda
latinità si protende fino alla fine del Medioevo e forse oltre.
L’esortazione alla veglia si trova, oltre che in negativo nel primo refrain
dello Sponsus (Avalle e Monterosso 1965: “Gaire no.i dormet”), anche nella
forma di un controcanto profano, nelle albe trobadoriche, fin da Gaita be,
gaiteta del chastel, attribuita a Raimbaut de Vaqueiras, (BdT 392, 16a; Bergin
1956:10; Riquer 1975:846): “Gait’, amics, e veilh’e crid’e bray”. Puntuale
il riscontro nell’alba religiosa di Falquet de Romans, BdT 156,15 (Arveiller-Gouiran 1987:13), contenente tutte le esortazioni e tutti gli stilemi propri di un inno mattutino: “Vers Dieus, el vostre nom e de sancta Maria, /
m’esvelharai hueimais, pus l’estela del dia / ven daus Jerusalem que·ns essenha quec dia: / estaitz sus e velhatz, / senhors que Dieus amatz, / que·l
jorns es aprosmatz / e la nuech ten sa via; / e sia·n Dieus lauzatz / per nos
e adoratz / e·l preguem que·ns don patz / a tota nostra via”.
La locuzione Poypas abigil sarebbe qualcosa di molto simile al nostro
Sentinella, all’erta, “Grido di guerra, col quale si chiamavano i soldati sotto
l’armi. Non si usa più che nelle piazze forti, e di notte, per evitare ogni
agguato; viene dalla parte diritta, e si ripete dalla sentinella in questa
maniera: Sentinella, all’erta; e nel caso in cui la sentinella a sinistra non
risponda collo stesso grido, se ne dà immantinente l’avviso concertato”
(Dizionario della lingua italiana [Padova: Tipografia della Minerva, 1827]).
Francesco Guerrazzi ci offre una bella rappresentazione dell’echeggiare
di questi gridi:
“All’erta sto!” —urla una scolta— “All’erta sto!” —risponde un’altra—
“All’erta sto!” s’intende ripetere da cento voci a mano a mano digradanti
nella lontananza, finché per troppo spazio vengono affatto a mancare. Tale
è l’ufficio delle sentinelle ad ogni quarto d’ora che passa. “Ecco —riprende
il Baglioni— così gli anni si chiamano passando; così dopo la vita succede la
fama, dopo la fama nulla; noi siamo l’eco dell’eco, ombre di sogno”. (Gualandi 1836:2, 237)
L’esortazione abigil deriva dal lat. ad vigilium, dove vigilium è sinonimo di vigilia ed è attestato già in Varrone, nel De lingua Latina 6, 80
“Visenda vigilant, vigilium invident” e nelle Saturae Menippeae 105: “ut eius
consilio potius vigilium adminicularem nostrum”. Tale lemma ha dato
luogo, mediante prefissazione, a pervigilium, che, oltre alla veglia notturna
continuativa, indicava la festa sacra primaverile in onore di Venere, rappresentata, appunto, nel Pervigilium Veneris, poemetto anonimo peculiarmente provvisto di refrain (“Cras amet qui numquam amavit quique amavit
278
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
cras amen”: cf. Cucchiarelli 2003). Se vigilia in latino poteva avere il senso
concreto di uno specifico ‘turno di guardia’, vigilium neutro è probabilmente più antico e maggiormente diffuso a livello popolare (tanto che Ernout e Meillet 1932:s.v., sulla base di vigilium, ipotizzano un antico neutro
collettivo *vigilia ‘le temps de veille’).
Il termine advigilium si ritrova anche, come sinonimo di matutinum e
in forma lessicalizzata, nella Vita Ezonis, una cronaca del X secolo di ambiente benedettino (Du Cange s.v., ripreso poi in numerosi lessici di settore), anche se qui l’integrazione proposta dall’editore non sembra certa
(AS, Maii 5, col. 54c: “sed semper solennibus, usque quo·integrum decantaretur, hymnis et suis (ut solebat) placitis nimium Deo precationibus intentus, fixus eodem loco permansit”, così commentato: “Interpolator ad
integrum: sed non displicet Advigilium, sumptum pro Laudibus, quæ Matutinum seu Vigiliarum Officium per tria Nocturna divisum claudunt. Oratio autem Dominica post decantatos singulorum Nocturnorum Psalmos
secreto recitatur, ante cujusque Nocturni Lectiones: quod iis solis notatum volui, qui Sacrorum Ordinum expertes divini Officii ritus ignorant”):
si noti, nondimeno, la simmetria fra questo monastico advigilium e il pervigilium classico.
Non si può del resto escludere che abigil derivi direttamente dal frequentissimo ad vigiliam o ad vigilias (cf. supra), utilizzato qui in forma
apocopata per ragioni metrico-ritmiche (troncati della fine sono normalmente gli ordini militari, come, in italiano, “presentat arm”, “fianc arm”,
“spall arm”, “fronte a sinist”, “fronte a dest”, “fianc sinist sinist”, “fianc
dest dest”) o che nasca per simulare il riecheggiamento circolare per le
mura dell’esortazione canonica, vigila!, di cui dice il canto delle scolte
modenesi.
Si tenga presente, infine, che la forma bigil per vigilia è ben attestata nell’antico inglese, nello scozzese e nell’irlandese (Lytteil 1877:140;
O’Reilly e O’Donovan 1864:62; Carnie 2008:158; per vigil Ernout e Meillet
1932, s.v.) e che ciò potrebbe essere un interessante indizio della vicinanza
dell’autore ad ambienti anglosassoni (cf. infra). Nel complesso possiamo
quindi formulare più di un’ipotesi plausibile che giustifichi questa forma
a partire dalla canonica esortazione alla vigilanza che le scolte rivolgevano a se stesse o alla popolazione.
miraclar tenebras. Il verbo miraclar va interpretato (con Rajna
1887:78–79) come denominale da miracle, inteso nel senso di ‘donjon’
(LR 4, 239) e con significato identico a quello di mirador ‘Ausichtsturm,
Wachturm’ (SW 5, 284), miranda (FEW 6, 3, 152; Du Cange, s.v.) e mira
(FEW 6, 3, 153). L’equivalenza di miracle e mirador è dimostrata dai tre passi
della Chanson de la Croisade Albigeoise in cui compaiono i due termini:
E aquels del capdolh eisson al mirador
Al comte de Monfort mostreron de la tor
Una senheira negra ab semblan de dolor.
(Martin-Chabot 1931–1961:2, 154, lassa 163, vv. 58–60)
L’alba di Fleury da un’altra specola
279
E cant lo jorns s’esclaira e pren la resplandor
S’en es ichitz l’avesques fora al parlador;
Cavalier e borzes e li baro ausor
I vengon de la vila e van al mirador
E l’avesques e l’abas e·l prebost e·l prior
(ibid. 2, 226, lassa 175, vv. 5–10)
Aisi s’aparelharon e son aperceubutz,
Que guarnirs e combatres lor es jois e salutz;
Lo retendirs dels grailes les deport’e desdutz
E·l sonetz de las trompas, tro que pareis la lutz.
Pero ilh de la vila lor an tals gens tendutz
Que·l capdolh e·l miracle son aissi combatutz
Que lo fust e la peira e lo ploms n’es fondutz.
(ibid. 2, 156, lassa 164, vv. 5–11)
Annota FEW (1967:6, 3, 156, n. 18) “In der endung vielleicht durch
afr. habitacle m. ‘habitation’ beeinflusst; vgl. mlt. miralium ‘poste frontière
d’observation’ [. . .]. Die erbwörtliche entwicklung dieses wortes dürfte im
ortsnamen Montmirail (Marne und Sarthe) vorliegen, im 12. Jh. als Mons
Miraculi bezeugt [. . .] und von Longnon als ‘poste d’observation militaire’
interpretiert”. Nègre (1990–1998, 1991, 2:1125 [21103]) indica inoltre i seguenti toponimi del sud della Francia, riconducibili al medesimo etimo e
al medesimo significato: “Mirail, com. la Réole, Gironde; du Miralh, 1276;
= occ. miralh ‘miroir’ (FEW 6, 2, 151b), c.a.d.: ‘objet qui attire les regards
comme un miroir’. Le Miral, com. Poyols, Drôme; campus dou Mirail, 1517”,
cui si aggiungeranno le zone denominate Mirail o Le Mirail presso Bordeaux, Marcellus, Tolosa, Lantosque, Baumont, e per la Savoia, Méraillet ‘Hameau de la commune de Beaufort’ (Gros 2004:276). In tutti questi casi il
significato dell’etimo proposto va evidentemente corretto: non si tratta di
luoghi “che attirano gli sguardi come uno specchio”, ma di antiche postazioni di guardia. In particolare sul primo, presente nei pressi de La Réole,
torneremo diffusamente nelle conclusioni. Produttivo anche il toponimo
dal femminile *miracula: cf. Nègre (1990–1998, 1991, 2:1125 [21105])
“Mirailhe, com. Coudon, Aude; chateau de Miralhe, 1148, chateau de Montmirat, 1185, Montmija, 1781; = occ. miralho, attesté au sens ‘brillante comme
un miroir’ (FEW 6, 2, 152a), qui a dû avoir le même sens que occ. miralh
= ‘miroir, objet attirant les regards comme un miroir’. Miralhes, com. Lagrasse, Aude; de Mirallas, 1119, de Mirallis, 1287”, cui si può aggiungere
A la Miraille, presso Grignols, Gironde. Anche in questi casi il significato
dell’etimo proposto va corretto.
Per ciò che riguarda la storia della semantica di mirari, si consideri
(FEW 6, 2, 155):
mirari lebt in allen romanischen sprachen weiter. Die ursprüngliche bed.
‘sich verwunden’ ist nur in rum. mirà v.r. erhalten. Die andern romanischen
sprachen kennen nur die jüngere, ebenfalls lt. bedeutung ‘aufmerksam betrachten’, so ait. mirare ‘guardare, contemplare’ (13. jh.), kat. sp. pg. mirar ‘regarder, épier’ und im Galloromanischen [. . .]. In der bed. ‘spiegel’ stehen
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
280
sich die formen auf -atorium und -aculum gegenüber, wobei -atorium im nordfr.
schon in vorliterarischer zeit lt. speculum vollständig verdrängt hatte. [. . .]
Von einem eigentlichen nebeneinander der beiden typen miralh, mirail, mirador, miroir im apr. und afr. kann nur mit ein einschränkungen gesprochen
werden, da der eigentliche nordfr. typus nur miroir ist und die vereinzelten
-ail-formen ebenso aus dem apr. entlehnt sein können wie etwa ait. miraglio.
Umgekehrt könnte apr. mirador wie ait. miradore ‘miroir’ (13. jh. Monaci), miraturi (13. jh.) als kommerzielle bezeichnung aus Nordfrankreich erklärt werden, da diese ablt. auf -atorium nur in okzitanischen dialekten erhalten ist, die
nordfr. einfluss offen stehen. Zudem ist die in der troubadourlyrik häufig auftretende übertragene bedeutung ‘modèle, example’ nur bei apr. miralh nicht
aber bei mirador bekannt
Sempre in accordo con Rajna (1887:79) si noterà, in aggiunta e a conferma di quanto qui sostenuto, il sistema parallelistico che si viene ad instaurare fra i derivati di specio /spicio e quelli di miror, nel momento in cui
molti dei secondi sono passati nel latino volgare e nelle lingue galloromanze a sostituire i primi:
spec-ere
latino specere ‘guardare, osservare’
mir-ari/-are
latino mirari ‘meravigliarsi, stupirsi,
ammirare’
mediolatino mirare
antico occitanico mirar ‘guardare,
osservare, spiare’
antico francese mirer ‘guardare attentamente, contemplare, ammirare’
-ator
——— (v. specul-ator)
-ator
latino mirator ‘ammiratore’
antico occitanico miraire
‘ammiratore’
-atoriu
——— (v. specul-atorius)
-atoriu
latino volgare miratorius
antico occitanico mirador ‘torre di
vedetta, specola’ ‘tournelle placée
au sommet du donjon’
-anda
———
-anda
mediolatino miranda ‘donjon, tour
de guet’
antico occitanico miranda
antico francese mirande ‘donjon, tour
de guet’
antico italiano miranda ‘belvedere’
(anche come toponimo)
-abundus
——— (v. specul-abundus)
-abundus
latino mirabundus ‘preso da stupore’
-atio
——— (v. specul-atio)
-atio
latino miratio ‘meraviglia, stupore’
(v. spec-ulatio)
L’alba di Fleury da un’altra specola
-ula / -ulum
latino miraculum ‘prodigio’
latino specula ‘specola
latino speculum ‘specchio’
italiano specchio, antico
occitanico espelh
281
mirac-ula / -ulu
antico occitanico antico francese
miracle ‘miracolo’
latino volgare *miraculu, *miracula
‘specola’
antico occitanico miracle, miralh,
miralha ‘specola’ Bearn pun mirau
‘belvedere’
latino volgare miraculum ‘specchio’
antico occitanico miralh, antico
francese mirail ‘specchio’
-ulari
latino speculari ‘osservare,
spiare, sorvegliare’
-ulare
latino volgare *miraculare
‘osservare, spiare, sorvegliare’
antico occitanico miraclar, miralhar
‘osservare, spiare, sorvegliare’
delfi natese e altri dialetti occitanici
miraillà ‘guardare’
Gers miralhà ‘guardare allo specchio’
Bearn ‘riflettere in uno specchio’
-ulator
latino speculator ‘osservatore,
spia di guerra,
-ulator
——— (v. mir-ator) antico
occitanico = gaita antico francese =
guete ‘guardia, scolta’
-ulatio
latino speculatio ‘spionaggio,
contemplazione’
-ulatio
-ularium
latino specularium ‘specchio’
-ularium
———
-ularis
latino di specchio
-ularis
———
-ulativus
latino speculativus ‘speculativo’
-ulativus
———
-ulatorius
latino speculatorius ‘di esplorazione,
di osservazione’
-ulatorius
——— (v. mira-toriu)
-ulabundus
latino speculabundus ‘che sta in
osservazione, di vedetta’
———
——— (v. mir-abundus)
In questo contesto l’utilizzo del termine miraclar per l’osservazione
dall’alto propria dello speculator appare perfettamente congruente: è la
perfetta sostituzione in volgare di speculari. Del resto, ancora il poeta béarnese Roger Lapassade utilizza il termine miralhar esattamente accepito
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
282
nel senso di ‘guardare da lontano, ammirare’ (Per noste edicions, Ortez,
1992):
Lo moment qu’ei passat de miralhar l’estela,
de cossirar l’amor au temps de primavèra,
lo moment de prestir hens lo pialòt d’argèla
l’esconuda Beutat: que dromi quan m’apèra
Si ricorderà, a rinforzo della tesi qui sostenuta, il passo sopra citato
di Pietro Cellense in cui si esplicita qual sia l’ufficio della sentinella: “Hoc
enim officium est speculatoris, vigilare, aspicere et clamare assidue, et in
sublimiori stare vel sedere”; i primi due termini, vigilare e aspicere sono
l’equivalente di abigil e miraclar.
Per ciò che riguarda l’uso dell’infinito con funzione esortativa, abbiamo già detto che esso si incontra in almeno due testi riferibili alla scolta
ed è ben attestato sia nello spagnolo antico (Beardsley 1921:85–86), sia nel
francese sia nel provenzale (Meyer-Lübke 1890–1906:3, §528; Diez 1872:3,
203; Luker 1916).
Nelle albe occitaniche si individuano vari riscontri dell’invito rivolto
alla gaita a compiere il proprio ufficio principale, quello di scrutare,
espresso col verbo gaitar: fin nell’incipit nella già citata Gaita be, gaiteta del
chastel, con reiterazione nel primo verso della seconda cobla: Gait’, amics, e
veilh’e crid’e bray, dove si noteranno i tre cardini portanti dell’ufficio dello
speculator di cui parla il Cellense (gaitar = aspicere, velhar = vigilare, cridar =
clamar). Si legga anche il primo verso della terza cobla: “Gaitaz vos, gaiteta
de la tor” (ma qui nel significato di ‘guardarsi da’). Infine è da notare che
nell’alba profana di Cadenet, BdT 106, 14 troviamo la gaita che esorta se
stessa a gaitar e a cridar:
S’ieu en vil castelh gaitava
ni fals’amors i renhava,
fals si’ieu si no celava
lo jorn aitan quan poiria,
car volria
partir falsa drudaria;
et entre la leial gen
gait’ ieu lialmen
e crit, quan vei l’alba.
Anche nell’aube trovierica Gaite de la tor, di cui abbiamo già parlato, la
gaite viene invitata a far la guardia sulle mura del castello: “Gaite de la tor, /
gardez entor / les murs, se Deus vos voie”.
Un’attestazione, infine, è nel Fiore, son. 32, dove il grido della “scolta”
è “Guarda, Guarda” e dove abbiamo anche una preziosa conferma dell’utilizzo del corno come strumento proprio della guardia (ed. Contini 1984):
Gelosia andava a proveder le porte,
Sì trovava le guardie ben intese
L’alba di Fleury da un’altra specola
283
Contra ciascuno star a le difese
E per donar e per ricever morte;
E MalaBocca si sforzava forte
In ogne mi’ sacreto far palese:
Que’ fu ‘l nemico che più mi v’afese,
Ma sopra lui ricad[d]or poi le sorte.
Que’ non finava né notte né giorno?
A suon di corno gridar: “Guarda, guarda!”;
E giva per le mura tutto ‘ntorno
Dicendo: “Tal è putta e tal si farda,
E la cotal à troppo caldo il forno,
E l’altra follemente altrù’ riguarda”.
Utilizzo peraltro confermato anche dal corrispondente passo del Roman de la Rose (ed. Lecoy, 1965–1970, vv. 3971–3884), dove al corno si aggiungono cennamelle e buccine, ma anche flauti e cornamuse:
Male Bouche, que Dex maudie!
or soudoiers de Normandie.
Cil garde la porte detrois,
et si sachiez qu’aus autres trois
vet sovent et vient. Quant il set
qu’il doit la nuit faire le guiet
il monte le soir as quarniaus
et atempre ses chalumiaus
e ses buisines et ses cors;
une foiz dit lais e descorz
e sons noviaus de controvaille
as estive de Cornoaille
autre foiz dit a la flaüte
c’onques ne trova fame jute.
In conclusione, mi sembra che i riscontri addotti, sia innologici, sia
patristici, sia inerenti alla poesia profana trobadorica, trovierica e anticoitaliana rinviino compattamente ai tre compiti principali della scolta (nel
nostro testo il poypas): innanzitutto quello di vegliare (nel nostro testo reso
con abigil), quello di scrutare in lontananza (nel nostro testo miraclar) e
quello di gridare (clamat, clamans nelle strofe latine del nostro testo).
L’ultimo lemma da commentare, tenebras, anche se non presenta problemi interpretativi, apre una questione di non poco rilievo sul piano prosodico. Se, infatti, sarà da accettare l’interpretazione che vede in abigil
un congiuntivo esortativo (da advigilet), per ragioni di simmetria interna
al secondo verso del refrain (cf. supra), tenebras dovrà essere considerato
parossitono, conformemente a tutte le parole del latino volgare in cui il
gruppo muta cum liquida non fa più posizione (tenébrae, colúbra, tonítru, intégra, cathédra, ecc.). Del resto, tenébras certamente parossitono per ragioni
metriche è in un testo scritto da Oddone di Cluny, autore ritenuto “assai prossimo, per tempi e per luoghi, all’autore dell’Alba” (Lazzerini 1985:
20–21, n. 5):
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
284
Iste veternosas, quas texit origo, tenebras
Perfidiaeque chaos fidei splendore fugavit.
(Swoboda 1900:5, vv. 199–203)
Nella maggioranza dei casi presenti nell’innologia tenebras è da considerarsi proparossitono, anche se non sono pochi i casi in cui è certamente
parossitono. Ad esempio, fra i testi del IX secolo, si hanno circa 20 occorrenze del lemma, di cui tre parossitone (e sempre nella forma all’accusativo plurale):
Cera, domus mellis. Iam cetera turba colentum
Nigrantes tenuat vario splendore tenebras,
Ubertat stuppas, fervet discordia concors,
Ut, dum sacra pio peraguntur mystica ritu,
Aemula sidereis vigilent funalia flammis. (AH, 50, 165)
Tu pater es veri, verus Deus, omnia verax,
Te verum Dominum cuncta creata probant.
Ergo fuga densas, o lux immensa tenebras,
Detege mendosos luminis ore globos
Non confundantur miles te principe pacis. (AH, 50, 175)
Deleas nostrum facinus, precamur,
Nosque conserva, benedicte princeps.
Mentium furvas supera tenebras,
Lux pia mundi. (AH 50, 231)
Anche fra i testi del X secolo si registra un esempio certamente
parossitono:
Aeternus et clemens
creaturae
opifex
orbem terrae,
Mundum tenerent
cum tenebrae
et aquae
indiscretae. (AH 49, 612)
Insomma, la parola tenebras se interpretata come latina, sarà prosodicamente “ancipite” (parossitona o proparossitona), se interpretata come
galloromanza sarà di necessità parossitona.
In conclusione, ritengo di poter interpretare gli ultimi due versicoli
del refrain come esortazione, rivolta al poypas, cioè alla scolta, a vigilare
con la massima attenzione e a scrutare le tenebre. Il diluculum è quindi
visto dall’autore di Phebi claro, oltre che come figura di preannunzio del
Verbo e della Resurrezione di Cristo, anche come il momento di massimo
pericolo per gli attacchi del Nemico, sia esso quello reale o quello della
figuralità cristiana.
4. Conclusioni (con un’ipotesi attributiva). Per comprendere le ragioni della polisemia che si è frapposta all’interpretazione corretta di Phebi
L’alba di Fleury da un’altra specola
285
claro, sia nella sua parte latina, sia in quella “volgare”, bisognerà riflettere
su un dato addotto da Aurelio Roncaglia (1948:36), che a proposito del
canto delle scolte modenesi notava come nel medioevo il compito delle vigiliae murorum, o vigiliae civitatis dovesse essere assolto da laici e da chierici
indistintamente: “l’uso delle vigiliae murorum doveva esser familiare a un
chierico non meno che l’uso delle vigiliae liturgiche”. Si ricorderà del resto
il passo in cui Amalario di Metz dava prova di perfetta coscienza della
derivazione delle vigiliae liturgiche dalle vigiliae militari romane e ad esso
si aggiungerà l’epistola 18 di Gregorio Magno, allegata dallo stesso Roncaglia, contenente le esortazioni che il papa rivolge al vescovo di Terracina,
Agnellus, perché provveda a far sì che nessun chierico si sottragga alla
vigilanza delle mura cittadine (PL 77, coll. 921–922):
Quia vero comperimus multos se a murorum vigiliis excusare, neque per
nostrae vel Ecclesiae suae nomen, aut quolibet alio modo, defendi a vigiliis
patiatur; sed omnes genealiter compellantur, quatenus, cunctis vigilantibus,
melius auxiliante Domino, civitatis valeat custodia procurari.
I documenti storici provenienti dai monasteri confermano tale assunto: i monaci di veglia, ci dice ad esempio un documento riportato dal
Du Cange (s.v.) e già addotto da Gorra (1901:506–507) “debent omni
nocte vigilare, et Vigilias cum clava invicem notificare. Id est is, qui vigilias
facit, debet clavae percussione subinde se vigilare indicare, quod etiamnunc faciunt vigiles in Berfredis seu turribus urbium sub regni confinia”.
Non si dovrà, nondimeno, in alcun caso interpretare il nostro testo come
semplice canto di esortazione alla veglia pura e semplice: abbiamo visto
che esso fornisce invece una pluralità di significazioni. Il diluculum sarà
quello reale, quello in cui il monaco deve vigilare in attesa del mattutino
e quello in cui il vigilgallus suona il signum di raccolta in vista dell’ufficio,
ma sarà anche il momento del giorno di massimo pericolo, quello in cui la
scolta del monastero deve stare nella massima allerta. Il Nemico sarà rappresentato da Normanni, Ungari e Saraceni che in quest’epoca predavano
i monasteri più ancora che le fortificazioni esclusivamente laiche, ma sarà
anche il Demonio, che attacca il fedele ancora dormiente di prima mattina, procurando inaspettate tentazioni della carne: la militia Christi e la
militia vera e propria sono, insomma, anche per il nostro inno, le due facce
della stessa medaglia.
Ci si può chiedere a questo punto quale senso abbia, in questo contesto, il bilinguismo e se esso sia da considerare una manifestazione della
natura paraliturgica di Phebi claro o sia piuttosto un ricercato —raffinato
diremmo— espediente stilistico, con una sua finalità specifica.
In linea generale, è da dire che i sostenitori dell’ipotesi di un effetto
stilistico ricercato, si sono concentrati sulle affinità fra Phebi claro e le kharagiât mozarabiche. Sempre Aurelio Roncaglia (1951b), notava che il nostro
testo presenta “al termine d’ogni strofa latina, un ritornello che assomma
la ricorrenza dell’efuvmnion col carattere (e l’estensione) di elemento stro-
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
286
fico terminale, proprio del refrain nel senso che a noi ora interessa, e presenta inoltre, per curiosa coincidenza (ma sarà poi solo una coincidenza?),
anche la regolarità linguistica della khargia”. Per Roncaglia, quindi, l’utilizzo del refrain, il bilinguismo, l’utilizzo di linguaggio infantile, l’oscurità
stessa del dettato accomunerebbero kharagiât e Alba bilingue. Sulla medesima linea interpretativa si sono posti Chiarini (1974), Zumthor (1984) e
Hilty (1981a, 1981b, 1995, 1996, 1998, 1998, 2000). Del resto, non mi pare
sia stato notato che inni in qualche modo assimilabili a Phebi claro, non per
il bilinguismo, ma per la loro natura anche pratica, con evidenti finalità,
si trovano proprio nella liturgia mozarabica. Si legga ad esempio l’Ymnus
de sterilitate pluvie (PL 86, coll. 921-922), dove si noti, oltre al ricorrente e
insistito betacismo, anche la buona qualità linguistica e la finalità evidentemente arcaica di invocare l’aiuto divino per far piovere su una regione
arida:
Squalent arva soli pulbere multo
Pallet siccus aer terra fatescit
Nulla roris onus nulla venustas
Quando nulla vires gratia florum
Tellus dira sitit nescit aroris
Fons iam nescit aquas flumina cursus
Erbam nescit humus nescit aratrum
Magnorum rupta patet turpis iätu
Estu ferbet humus igneus ardor
Ipsas urit abes frondea ramis
Fessis tecta negant pulbis arene
Sicco dispuitur ore viantis
A quest’inno fa da pendant l’Ymnus de ubertate plubie:
Obduxere polum nubila celi
Absconduntque diem sol [sole] effugato,
Noctes continuas sidere nudas
Et lune viduas carpimus olim.
Ether dira micat igne corusco,
Concusoque tremit cardine mundus,
Celi porta tonat, raptaque credas
Axis etherei vincla resolvi.
Excrescunt pluviis equora ponti,
Nec fines proprios iam freta norunt,
Terrarum tedio fluctuat unda,
Errabunda secat arva carina.
Appigli di natura storico-documentaria che avallino tale ipotesi, del
resto, non mancano. Le affinità fra forme e temi propri della letteratura
arabo-andalusa e quelli caratterizzanti la gran parte dei testi delle origini
romanze e della paraliturgia sammarzialese (dal X all’XI secolo) sono ben
note, evidenti e garantite non dalle corrispondenze di un solo elemento
del sistema, ma dal sistema nella sua interezza: se il bilinguismo del nostro
L’alba di Fleury da un’altra specola
287
testo si può ricondurre alla matrice fondamentale delle kharagiât mozarabiche, la sua forma strofica (aaaX), come quella dell’inno bilingue latino/
limosino In hoc anni circulo, di molti versus sammarzialesi e della maggior
parte dei primissimi componimenti lirici profani scritti in provenzale ha
analogie sostanziali con lo zagial praticato nella Spagna non ancora riconquistata dai cristiani (Roncaglia 1949, 1951a, 1951b; Pollmann 1965; Meneghetti 1997:184–185). Rapporti fra monaci d’area iberica, di rito mozarabico, e monaci legati più o meno direttamente a Cluny o a San Marziale
di Limoges sono addirittura certificati, come è anche evidente l’osmosi
e la circolazione di uomini e idee fra i due mondi arabo-musulmano e
romanzo-cristiano (Roncaglia 1949:92; Meneghetti 1997:183–184).
L’influenza dell’innologia mozarabica su Phebi claro, peraltro, spiegherebbe bene la ragione della ripresa massiccia di motivi da quello che abbiamo definito il suo principale intertesto, l’Ales diei nuntius di Prudenzio,
autore ispanico presentissimo in tutti i codici dell’innologia mozarabica
(AH 27:35–41) e l’utilizzo di motivi tipici dei notturni Ad galli cantum in un
inno mattutino (cf. supra).
La nostra lettura comporta, è evidente, che l’inno sia stato composto
da un autore di eccellente cultura classica, patristica, innologica, e con
buone conoscenze in fatto d’astronomia, tanto che non si può non dare
ragione a Bertoni (1921), quando, rifiutando l’interpretazione di matrice
romantica, annotava: “Anche questo componimento [. . .] non può essere
popolare: troppe sono le immagini classiche, troppa è la pulitezza della
frase e l’eleganza dello stile, perché non si debba attribuirlo alla penna di
un dotto conoscitore della poesia latina”. Sulla stessa linea interpretativa
si poneva, in maniera circostanziata, Picchio Simonelli (1984). Del resto,
l’affinità con le kharagiât per ciò che riguarda il bilinguismo, aveva portato Chiarini (1974:20) ad opinare che “se il ritornello fosse stato reperito
dal poeta nella tradizione popolare romanza, esso non potrebbe essere
che interamente volgare. Il suo bilinguismo esclude dunque quella eventualità, anche se nulla vieta di supporre che in esso siano rifluiti materiali
di tipo tradizionale, come in moltissime kharagiat non propriamente popolari, ma popolareggianti”.
La nostra lettura del refrain di Phebi claro comporta inoltre vari indizi di
natura linguistica che fanno pensare che l’autore potesse essere originario dell’area sudoccidentale della Francia, o che comunque il testo avesse
subito in qualche modo un’influenza dei parlati di quest’area linguistica:
i lemmi atra, poypas, abigil e miraclar sono tutti compatibili con un’area linguistica riconducibile alla parte occidentale dell’Occitania. Contatti specifici fra i monaci dell’abbazia floriacense e quelli d’area guascona non mancarono. Famosissimo è il caso del monastero di La Réole, che deve il suo
nome proprio alla Regula di San Benedetto e che fin dal VII secolo rientrò,
pur fra alterne vicende, fra i priorati dell’abbazia di Saint-Benoît-sur-Loire
e ne divenne presto il più importante (Rocher 1865:42, 67 e 332–333). Del
288
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
resto, altre propaggini di Fleury in Guascogna non mancano: durante
l’amministrazione dell’abate Amalberto (978–985) “l’abbaye étendit sa
jurisdiction dans les provinces du midi de la France par la fondation du
monastère de Pontons, sur le bords de l’Adour, au diocèse d’Acqs, monastère qui, après la translation des reliques de saint Maur, prit le nom de
Saint-Maur de Pontons. Ce lieu dépendait de la Réole, qui elle-même revelait directement de Fleury” (Rocher 1865:152). Il monastero de La Réole
rappresenta un trait-d’union perfetto fra Fleury e gli ambienti ispanici di
rito mozarabico e costituisce quindi un ottimo punto di riferimento per la
localizzazione di Phebi claro:
4. Facile Floriacenses monachi libros ex Hispania sibi petere poterant;
nam eod. tom. VIII Galliae Christ., col. 1541, de Mummone, sive Mummoleno, abbate Floriacensi saeculo VII dimidiato, haec narrantur: “Hunc dum
in Hispaniam voti causa tenderet, Burdigalae mortuum tradunt in monasterio Sanctae Crucis. Forte in illas partes profectus fuerat ad ordinandum
proximum Regulae monasterium, quod ante Normannorum tempora Floriacensibus subjectum fuisse instrumentum ejus restitutionis docet”. Regulense
monasterium in Vasconia erat, de quo agitur in Vita S. Abbonis. Verum in his
diutius immorari non vacat. (PL 81, coll. 819–820)
Una serie di constatatazioni di ordine storico e geografico avallano tale
ipotesi e sostanziano le parole dell’inno di precisi riferimenti. Innanzitutto
andrà considerato che a La Réole esiste ancora il toponimo Mirail, un
tempo Lamothe du Mirail (Girault de Saint Fargeau 1837:174), a riprova
del fatto che abbiamo a che fare con una motte (Lapouyade 1846:299–300):
La sommité la plus remarcable de la commune est le mamelon du Mirail:
c’est un petit tertre conique, arrondi, dont la tête, couronnée d’un moulin
à vent, se fait remarquer au loin. Du haut du Mirail, l’oeil plonge sur une
vaste étendue du bassin de la Gironde. La fleuve, large et majestueuse, décrit
une ligne pareille à celle qui embrasserait, en partie, l’arène d’un immense
amphitéatre. A l’orient s’étendent les riches plaines de Bourdelles et de Lamothe-Landerron. La flèche aiguë du clocher de Sainte-Bazeille se détache
au loin sur les collines azurrées de l’Agenais. Sur la rive gauche du fleuve apparaissent, dans le lointan, les hautes plaines du Mas-d’Agenais, de caumont,
de Marcellus et de Meilhan. Près de Hure on remarque les cultures variées de
la haute et de la basse plaine. De distance en distance pyramident les clochers
des églises de Hure, de Fontet, de Loupiac, de Blaignac, de Puybarban, de
Floudès, de Bassanes, de Barie, de Mazerats, de Castets; et tout à fait à l’occident se dessinent les piles et les culées du pont de Langon. C’était sur la haute
plaine de la rive gauche que passait l’ancienne voie romaine de Bordeaux à
Agen. Encore, du coté de l’occident, on découvre les coteaux de Frimont, de
Saint-Aignan et la ville de La Réole aux vieux murs démanteleés. Au nord
de ce son des vallons et des coteaux, dont l’aspect assez triste présente un
contraste frappant avec beau paysage méridional.
La descrizione di Lapuyade è perfettamente coerente con quanto abbiamo detto circa la forma delle poypas. Lo stesso Lapouyade (1846:308–310)
ci parla delle rovine di una villa d’epoca romana, la villa Pontesia, poi de-
L’alba di Fleury da un’altra specola
289
nominata “de la Recluse”, che si trovano all’immediato ridosso della cima
del Mirail: “L’emplacement de cette villa était on ne peut mieux choisi.
Qu’on ne représente une grande et riche habitation située à mi-côte, protégée contre les vents du nord par le coteau du Mirail et par les tertres qui
l’accompagnent”. Intorno al Mirail doveva sorgere anche l’antica Squirs
e il monastero dove soggiornò e fu ucciso Abbone di Fleury (Lapouyade
1846:310–311): in tutta la zona ovest della città, infatti, e in particolare proprio sulla cima della collina si sono ritrovati numerosi manufatti d’epoca
medievale “des tombeaux en pierre, de diverses grandeurs, contenant des
agrafes, des molettes d’éperon en cuivre, et des monnaies” (Lapouyade
1846:311). Questo toponimo, in origine probabilmente Miracle, e la sua
posizione si accordano perfettamente con ciò che abbiamo detto circa
l’origine e il senso del verbo miraclar.
Si consideri inoltre che La Rèole si trova in quell’area fra Dordogna e
Garonna nominata ancor oggi “Entre-deux-Mers”, già nel X secolo “Inter
duo maria”. Ciò si accorda con quanto abbiamo detto circa l’interpretazione del doppio versicolo “umet mar atra sol”: la notazione ci riconduce
cioè ad un dato di ordine materiale, pratico. Si legga ancora quanto scrive
Jouannet (1837:46) su una fonte che si trova proprio sul Mirail:
L’Entre-deux-mers, où les sources d’eau vive se présentent en grand nombre, renferme plusieur fontaines intermittentes ou intercalaires, situées pour
la pluspart dans le voisinage d’une ligne qui serait conduite du point où
les marées cessent d’être sensibles sur la Dordogne, au même point sur la
Garonne.
A Gironde, rive droite de la Garonne, au confluent du Drot et de la Garonne, sur une sommité calcaire, le puits situé au bas du bien de Boutaud est
sensible au débordement des deux rivières.
Près de la Réole, même rive, sur la partie moyenne et méridionale du
tetre du Mirail, à trois lieues environ du point où le dernier flot des marées se
fait sentir, il existe une fontaine que l’on croit sensible aux flux et reflux.
Su questo fenomeno cf. anche Lapouyade (1846:304): “Une seule
source, située vers la partie moyenne et meridionale du Mirail, peut mériter quelque attention. A l’écoulement de ses eaux succède une suppression, plus ou moins prolongée, qui a induit des esprits, amis du merveilleux, à croire qu’elle communiquait avec la mer, et participait du flux et
reflux qui caracterise la marée”.
Inoltre, come noto, in quest’area geografica si assiste al fenomeno del
mascaret (il nome è guascone), una brusca sopraelevazione dell’acqua di
un fiume o di un estuario provocata dalla marea montante nel momento
delle grandi maree. Si produce all’imboccatura e nel corso inferiore di
alcuni fiumi quando la corrente è contrastata dal flusso della marea montante: una grande massa d’acqua marina si dirige allora verso l’estuario
del fiume (spinta dalla marea) e lo risale, creando un fronte turbolento di
grande violenza. Nella regione dell’Entre-deux-Mers questo fenomeno è
290
Romance Philology, vol. 66, Fall 2012
particolarmente visibile sulla Dordogna, intorno a Vayres e sulla Garonna
fra Langoiran e Podensac. Pur se meno forte, a La Réole, le acque della
Garonna esondavano praticamente ogni giorno (Lapouyade 1846:304).
Ancora, sulla produttività in questa zona del toponimo che trae origine dalla forma della mammella, che abbiamo visto essere all’origine del
nome poypa si potranno leggere le righe di Jouannet (1837:47): “A Ruch, autre commune de l’Entre-deux-mers, au lieux du Tait (ou Tet), le roc, dans une
infractuosité duquel est placée la fontaine dite la Font-de-la-Poupe, présente
à l’extérieur des concrétions auxquelles on trouve quelque ressemblance
avec des mamelles. Cette ressemblance, remarquée très anciennement, à
en juger seulement par l’étymologie du nom de la fontaine (Pupa), donna
lieu à une superstition qui n’est pas entèrement effacée: quelques femmes,
pour être meilleures nourrices, vont encore boire à la Font-de-la-Poupe”.
Non solo, ma abbiamo anche notizia precisa di un episodio altamente
significativo che ci permette di avanzare un’ipotesi abbastanza solida di attribuzione del nostro inno. L’episodio in questione è narrato da Aimoino
di Fleury, un monaco di origine perigordina, allievo di Abbone, l’abate
che dal 998 al 1004 resse il cenobio floriacense e che abbiamo più volte
menzionato nel corso del nostro commento (Riché 2004): i due erano legati da vincoli d’amicizia e di affinità culturale, tanto che alla morte di
Abbone Aimoino ne scrisse una dettagliatissima biografia, la Vita Sancti
Abbonis Floriacensis (PL 139, coll. 387-414). Aimoino ci narra che i monaci
guasconi del monastero La Réole erano caduti nel più deplorevole lassismo e che quindi l’abate fu costretto a intervenire: egli considerava come
un dovere fondamentale quello di ricondurre alla regola cenobitica tutti i
monasteri collegati alla casa madre di Fleury. A La Réole, però, sembrava
davvero difficile riformare i costumi e ricondurre all’originario rigore
monaci che conducevano una vita ritenuta scandalosa e che erano noti
per il loro spirito violento e ribelle: Abbone, a chi gli chiedeva di recarsi a
La Réole per riportare al più presto nel monastero la Regola del fondatore,
rispondeva che sarebbe partito quando avrebbe avuto il coraggio di porre
fine alla sua vita: era infatti diffusa da molto tempo una superstizione, secondo cui nessun abate di Fleury sarebbe mai tornato vivo da quel luogo.
Aimoino ci fornisce queste informazioni, insieme ad una relazione dettagliata in cui chiarisce l’origine dell’influenza che Fleury aveva su La Rèole
(PL 139 col. 406):
cap. xvi. Regulae monasterium reformaturus adit. Suos ibi relinquit.
Est in illis partibus [i.e. in Guascogna] monasterium quoddam Squirs, ut
fertur, antiquitus nominatum; a modernis, contrario nunc vocabulo, Regula
vocitatum. Nulla quippe religionis norma, nulla aut rara bonae conversationis saltem vestigia usque ad haec in eodem loco apparuere tempora. [. . .] In
quo loco, tam ab ipso venerabili Richardo quamque a duobus ejus successoribus, Amalberto ac Oylboldo, diu multumque elaboratum est, quo vere is locus, per habitatorum conversationem, vocabulo uteretur suo; nec quidquam
utilitatis actum. Post quos dum hic vir beatus Abbo regiminis adeptus esset
L’alba di Fleury da un’altra specola
291
gradum, quibusdam sibi persuadentibus quatenus eo proficisceretur, respondebat cum joco se illuc iturum quando eum satietas cepisset vitae. Ferebatur
denique nulli praedecessorum ejus post iter Guasconiae diu vivere licuisse.
Abbone, com’è ovvio, non mancò ai suoi obblighi di abate e partì per
la Guascogna, dove incontrò i conti Bernart e Sancho, figli del duca Guglielmo, alla cui generosità Fleury doveva la restituzione del monastero de
La Réole. Dovette però ben presto ripartire, senza esser riuscito ad intraprendere la riforma e a ripristinare l’osservanza della disciplina; lasciò lì
alcuni monaci del suo monastero, ma anche loro si accorsero ben presto
che, se volevano rimanere in vita, era meglio andar via. Abbone, sospettando che essi avessero agito con pusillanimità, designò altri frati per tentare l’impresa; ma anche in questo caso le continue vessazioni dei confratelli guasconi costrinsero i floriacensi a ripartire.
Abbone prese allora una decisione estrema: pur persuaso d’andare
a morire, si assunse la responsabilità di tornare di persona, facendosi
accompagnare da tre religiosi fra i più ferventi: Remigio, Guglielmo e
lo stesso Aimoino. Nella Vita Sancti Abbonis le tappe dell’iter sono minuziosamente annotate. La compagnia passò sulla strada per numerosi monasteri: quello di San Cipriano di Poitiers, quello di Charroux, quello di
Nanteuil-Saint-Benoit, vicino a Larochefoucaud. Fece poi soggiorno ad
Angoulême.
I quattro monaci andarono poi a visitare presso il castello di Albaterra
un signore denominato Giraut, zio di Aimoino. Il giorno dopo traversarono il piccolo fiume Ille (Ella) e giunsero a Villafranca, dove lo stesso
Aimoino era nato e dove ancora risiedeva la madre Aunedruda, sorella del
signore di Albaterra, Giraut:
cap. xviii. Domi a Giraldo exceptus et a matre Aimoini.
Nam, dum ad castrum, cui Albaterra [Aubeterre] nomen est, tendere deliberassemus, repente dominus ipsius castri nobilis vir, nomine Giraldus, post
tergum nostrum celerrime adveniens apparuit. Qui dum inquireret quinam
essemus, et beatum patrem nostrum Abbonem adesse cognovisset, gaudens
ob ejus praesentiam, ait ad eum: “Dominum, inquiens, fidemque meam testor,
me admodum gaudere quod te, domine, videre merui; nam bonitas et sapientia tua universo nostro pervulgata sunt orbi. Unde, si tuae placet benignitati,
hospes tibi ero in hac nocte perliberalis, cuncta victui necessaria tribuens”.
Fecit ut dixerat, et usque ad noctem permanens, etiam in obsequendo, famuli
fungebatur officio. [. . .] Porro nos eadem die qua de Albaterra promovimus,
transmeato Ella [Ile] flumine, una cum beato Abbone, in villa, quae Ad-Francos dicitur, hospitati sumus. Suscepit nos inibi genitrix mea, memorati militis
Giraldi consanguinea, vocabulo Aunenrudis, cum quanta potuit humanitatis
exhibitione.
I quattro monaci proseguirono poi il loro viaggio, attraversando la
Dordogna e le gole di un pericoloso torrente, il Droth, e infine, dopo aver
percorso orribili cammini, arrivarono a La Réole. L’acceso rigetto della
riforma da parte di quei monaci guasconi era ulteriormente alimentato
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dall’antipatia per i “francesi” del Nord della Loira. Ogni minimo particolare era argomento di polemica. Così, i rozzi servitori del monastero si
mettono a questionare con quelli dell’abate a proposito del foraggio per le
cavalcature dei floriacensi. Abbone subito convoca i suoi e li esorta a sopportare tutto con pazienza e si propone di richiamare l’attenzione su questi fatti del conte di Guascogna e del suo advocatus loci per il monastero.
Sabato 11 novembre del 1004, Abbone celebrò con grande devozione
le solennità festive della messa di San Martino e poi, quel giorno come
il seguente, si recò a perlustrare il monte in cui era situato il monastero,
lodando e ammirando non solo la solidità di quel luogo, ma anche le fondamenta degli edifici più importanti:
Erat ea die celebris universo orbi beati pontificis Martini Turonici solemnitas, et sanctus vir magna cordis ac corporis alacritate missarum festiva celebravit solemnia. Qua die et sequenti, quae Dominica fuit, idem Dei famulus
Abbo, post sancti sacrificii per seipsum oblationem ac corporis refectionem,
montem in quo monasterium situm est undique perlustrans, laudare simul ac
mirari non solum loci firmitatem, verum etiam maximorum quae inibi fuerant aedificiorum fundamenta coepit.
Prendendo spunto dalle visite dell’abate, Aimoino ci fornisce preziosi
ragguagli sulla posizione del monastero: era situato sulla sommità di una
montagna, e circondato da altre tre colline a est, a nord e a ovest, mentre la Garonna lo lambiva a sud, in una profonda e pericolosa valle. Ad
oriente e a occidente, fra un monte e l’altro, scorrevano in angustissime
gole due fonti, denominate dai Franchi Mosella e Mosa: poco lontano da
qui Aimoino credeva di poter riconoscere anche il palazzo di Cassignol,
che Carlo Magno aveva abitato e dove, impegnato in una spedizione contro i Saraceni in Spagna, aveva lasciato la moglie incinta di Ludovico il
Pio, che qui nacque. La posizione de La Rèole rendeva questo castrum dunque di difficile accesso per i nemici, se non dal lato Nord, dove era stata
costruita una robusta torre con pietre quadrate, che ora mostrava solo le
tracce delle sue rovine. Guardando ammirato quello e gli altri edifici diroccati, sorretti comunque per i lati scoscesi del monte dalla ferma tenacia del cemento, gli viene allora fatto di dire ai compagni, non senza una
punta d’orgoglio: “qui sono più forte del re mio signore, possedendo una
cittadella in una contrada in cui il suo potere è così poco rispettato”:
Horum itaque locorum situm, a sancto viro laudatum, succinctim litteris
mandare opportunum fore credimus. Monasterium Regulae, in honore principis apostolorum Deo dicatum, in monte est positum. Qui videlicet mons a
tribus lateribus, orientali, aquilonali et occidentali, aliis cingitur montibus; a
meridie Garonna vallatur flumine periculosaque vallis voragine. Ab oriente
inter ipsum et alterum montem vallis existit perangusta, per quam fons meat,
quam incolae Mosellam nuncupant; simili modo ab occidente alterius fontis
rapido alluitur cursu, cui Mosa nomen est. Haec nomina a Francis illis imposita aestimantur, qui a Magno Carolo ad tuitionem provinciae ibi relicti
L’alba di Fleury da un’altra specola
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sunt. Non longe quippe ibi abest palatium ipsius magni principis Cassinogilum, sed quasi tribus milliariis, in quo idem imperator uxorem suam, Ludovici Pii matrem, gravidam reliquit, dum contra Sarracenos expeditionem
in Hispaniis ageret. Quod et Heinardus vitae illius relator scribit, et nos in
libro miraculorum sancti patris Benedicti breviter expressimus. Locus sane
Regulae ob supra dictam positionem non facile hostium patuisset accessui,
nisi ab aquilone parva ei adjaceret planities, cui conditor municipii vel, ut
quidam volunt, civitatis, turrim quadris lapidibus exstructam opposuit, quae
nunc ruinarum tantummodo suarum indicia praefert. Igitur tam hujus quam
caeterorum aedificiorum dirutos parietes, et per devexa totius montis latera
propter firmam caementi tenacitatem dependentes, homo Dei conspicatus
admiransque, laeto nobis arridens vultu, infit: “Potentior, inquiens, nunc sum
domino nostro rege Francorum intra hos fines, ubi nullus ejus veretur dominium, talem possidens domum”.
L’attenzione e la sorpresa di Abbone riguardo alle modalità di fortificazione del monastero e del borgo ad esso collegato spiegano bene la
ragione per cui l’abate avrebbe deciso di pensare al refrain del suo inno
come contrafattura di un canto di scolta. Il giorno della festa di San Brizio (era martedì 13 novembre) un monaco guascone, Anezan, descritto
da Aimoino come perfido e infido, lo stesso che aveva acceso la rissa per
la biada di pochi giorni prima, riaccese gli animi. Uno dei servitori dei
monaci di Fleury, profondamente irritato dalle ingiurie che i monaci guasconi rivolgevano contro l’abate suo maestro, arrivò a assestare sulla testa di un palafreniere de La Réole un colpo di bastone così violento che
quello cadde a terra mezzo morto. La mischia divennne generale. Abbone,
ci dice Aimoino, nonostante la difficoltà della missione, non era venuto
meno alla sua vocazione intellettuale: stava scrivendo, componeva alcune
ratiunculae relative al computus, era quindi provvisto di calamo, inchiostro
e pergamena, insomma dei materiali scrittorii con cui avrebbe potuto anche comporre Phebi claro. Sentendo i tumulti e le grida esce dal monastero
per sedare la rissa. Uno dei Guasconi corre verso di lui e lo uccide con un
colpo di lancia:
Interea vir Domini Abbo, intra claustrum monasterii residens et quasdam computi ratiunculas dictitans, tumultuantium clamore exaudito, foras
ab inferiori montis parte progreditur, et ad reprimendos suos, qui superiora
occupaverant loca, festinans, ab uno adversae partis satellite lancea tam valide vulneratur in laevo lacerto ut interiora costarum adactum penetraret
ferrum.
Bernart, duca di Guascogna, vendicò la sua morte, i sedici servitori
furono trattati con bontà dalla duchessa Rosemberga, che procurò loro
i mezzi per tornare a Fleury, dove si apprese la fatale notizia proprio il
giorno della festa della Tumulazione di San Benedetto, nel mese di dicembre. Odilone, abate di Cluny, il più intimo amico di Abbone, venuto per
prender parte alle celebrazioni si unì nel pianto ai confratelli floriacensi.
Quel che avviene dopo riguarda il processo di santificazione dell’abate,
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festeggiato solennemente il 13 novembre a La Réole, dove il corpo fu inumato di fronte all’altare di San Benedetto e dove restò fino al 1476. I religiosi di Fleury inviarono a tutti gli abbati dei monasteri di Francia e ai
fedeli un’enciclica, per raccomandare alla compassione e alle preghiere di
tutti l’anima del loro padre.
Aimoino ci ha lasciato anche un breve regesto dei miracoli compiuti
da Abbone post mortem (PL 139, coll. 413–414), nei quali si sottolinea almeno due volte come il miracolo della guarigione dalla cecità si compia
durante l’ufficio del mattutino.
Abbone potrebbe essere un eccellente candidato per l’autoria dell’Alba
di Fleury. Abate in un periodo perfettamente compatibile con quello in
cui l’inno è stato scritto, Abbone, già molto prima della sua elezione, era
stato praepositus scholaribus del monastero, del quale elevò le scuole al più
alto livello facendone un vero foyer di studi religiosi, scientifici e letterari.
Egli stesso, del resto, aveva compiuto gli studi a Fleury, dove apprese i rudimenti della lectura, del canto, della grammatica, della dialettica e dell’aritmetica. Ma allorché divenne responsabile degli studi dell’abbazia si recò
a Parigi, a Reims e ad Orléans dove acquisì nuove conoscenze in filosofia,
in astronomia (la disciplina prediletta nella quale ebbe un maestro d’eccezione, Gerberto) e in musica. Tornato a Fleury, dette agli studi abbaziali
nuovo impulso e aggiunse al cursus studiorum le discipline che aveva appreso: la competenza in queste materie spiega bene l’insistenza nei dettagli astronomici e la qualità della musica e della metrica di Phebi claro.
Fu poi chiamato presso il monastero inglese di Ramsay, un tempo famoso per la qualità del suo insegnamento, ma che allora aveva bisogno
di qualcuno che ne riorganizzasse gli studi e ne elevasse la qualità. Doveva essere curiosissimo, in ogni campo, tanto da distinguersi persino
per le sue notazioni etnologiche e per l’attenzione per le lingue straniere.
Nella Vita Sancti Eadmundi Abbone riporta persino parole dell’antico inglese, mostrando in questo una propensione per la citazione in lingua allotria che ben potrebbe armonizzarsi con quella dell’autore dell’Alba di
Fleury:
Quod ut factum est, res dictu mirabilis et saeculis inaudita contigit.
Quippe caput sancti regis, longius remotum a suo corpore, prorupit in vocem
absque fibrarum opitulatione aut arteriarum praecordiali munere. Vespillonum sane more pluribus pedetentim invia perlustrantibus, cum iam posset
audiri loquens, ad voces se invicem cohortantium et utpote socii ad socium
alternatim clamantium: “Ubi es?”, illud respondebat designando locum patria lingua dicens: “Her, her, her!”, quod interpretatum Latinus sermo exprimit: “Hic, hic, hic!” (PL 139, col. 515).
Si fa chiaro anche il cerchio entro cui si può collocare l’origine di
Phebi claro: nel quadro più ampio del tentativo di ricondurre alla Regola benedettina i monaci guasconi, Abbone avrebbe pensato anche ad un inno
mattutino, da recitare durante una festività autunnale, forse nella prima
L’alba di Fleury da un’altra specola
295
domenica dell’Avvento, probabilmente durante una processione fuori o
dentro le mura cittadine. Il rituale prevedeva una scansione verticale della
recitazione: l’abate cantava il canto in latino e i monaci guasconi, forse
uniti alla popolazione del borgo, rispondevano con il refrain in volgare. Il
latino per Abbone doveva rappresentare il livello alto, quello dell’abate,
venuto a riportare le giuste costumanze, il volgare il livello basso, quello
del popolo e dei monaci, certo non esentati per la loro incultura dall’esortare il padre alla continua veglia; chi canta il testo latino sta, forse anche
fisicamente, in alto e canta da solo, chi canta il refrain volgare sta in basso
e canta coralmente. L’abate incitava i suoi monaci e la popolazione a sorgere, a destarsi dalle tenebre del peccato, ricordava loro la pericolosità
delle insidie del nemico. I monaci, dal canto loro, lo esortavano, col ritmo
e le parole delle scolte, a mantenere alta la guardia, a scrutare le tenebre,
per essere pronto a combatterle. Le parole del refrain, intessute di barbarismi, raccolti da Abbone negli ambienti monastici guasconi (e non solo) ricordavano un iter, un percorso di vita: quello che aveva portato l’abate dal
monastero di Ramsey al viaggio per la Guascogna, ricordavano la tappa
ad Albaterra (la ruminatio di quel nome avrà prodotto il contrario atra sol),
patria del fedele allievo Aimoino, con la mimesi dello strano linguaggio
ivi parlato. Quelle parole arcane ricordavano altresì la prossimità con i territori della Spagna, ancora in gran parte da riconquistare alla cristianità.
La raffinatissima struttura metrica e ritmica di quel refrain alludeva alla
Trinità, ai Vangeli, allo Spirito Santo. La terza strofe, con le sue precise notazioni astronomiche, chiariva che il periodo era quello che preconizzava
l’Avvento imminente, alla maniera del Profeta Isaia.
Un progetto di grande ambizione, ma anche di grande ironia, quello
di Abbone, il tentativo di scrivere un inno mattutino canonico, giocando
sul barbarismo e la barbarolessi. Un progetto che, probabilmente, non fu
mai portato a termine: l’uccisione del grande abate floriacense per mano
del barbaro guascone spiega, tragicamente, l’incompletezza di un testo nel
quale si riesce comunque ad intravedere il tenue lume della nuova poesia.
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Fig. 1. L’alba nel periodo postequinoziale (qui 4 aprile del 1000) all’altezza di Parigi: il Septemtrio è nettamente rivolto a
Occidente (il punto di convergenza dei meridiani celesti indica il Nord).
304
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Le immagini qui riprodotte sono state
elaborate con il software Stellarium.
Fig. 2. L’alba del 6 agosto del 1000 all’altezza di Parigi: il Septemtrio tende verso Oriente, Arturo non è ancora visibile.
L’alba di Fleury da un’altra specola
305
Fig. 3. L’alba del 18 settembre del 1000 (5 settembre del calendario giuliano) all’altezza di Parigi: comincia a sorgere
Arturo (cerchiato), verso Oriente (resterà visibile pochi minuti). Le stelle del Septemtrio sono già scomparse alla vista.
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Fig. 4. L’alba del 6 ottobre del 1000 (23 settembre del calendario giuliano) all’altezza di Parigi. Il Septemtrio è a Oriente
(e così l’Orsa Minore). Arturo, sorta da circa un’ora e mezza, è nettamente dissociata dal Nord, verso Est: scomparirà
alla vista dopo circa mezz’ora.
L’alba di Fleury da un’altra specola
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Fig. 5. Il diluculum del 26 novembre (13 novembre del calendario giuliano) del 1004 a La Réole, in Guascogna: il Septemtrio è proteso col timone verso Oriente (e verso Est tende anche l’Orsa Minore). Arturo (cerchiata) è nettamente
dissociata dal Nord, verso Est.
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