Cassiano:La collina del prete
DOMENICO A. CASSIANO
LA COLLINA DEL PRETE
L’umana avventura di un arbresh di Calabria
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Cassiano:La collina del prete
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Alla periferia di Tirana, nella contrada detta “La Collina del prete”, fu
trovata una fossa comune con alcune ossa, tra cui quelle – sembra – di
Terenzio Tocci, fucilato a Tirana nell’aprile del 1945.
Ai mortali la Parca reca beni e reca mali
E ai doni degli dèi scampo non c’è.
Solone, Alle Muse.
Cassiano:La collina del prete
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PREMESSA
Nella memoria storica del paese esiste ancora, ben radicato, il ricordo
della tragica fine dell’avvocato Terenzio Tocci e non tanto della sua
avventura in terra albanese. Era comunemente chiamato “Don Terenzio”e,
negli anni ’40 dello scorso secolo, i paesani di lui favoleggiavano come di una
persona di potere senza, peraltro, sapere indicare che cosa effettivamente
facesse in Albania, quali erano i suoi rapporti col fascismo, che cosa avesse
mai fatto prima della occupazione fascista del 1939. Sembrava che fosse un
personaggio avvolto nel mito e nella leggenda. Noi e quanti erano ragazzi in
quel periodo ne sentivamo parlare dai grandi in piazza e nelle botteghe
artigiane – che, allora, fungevano anche da circoli e luoghi di aggregazione e
di socializzazione. Non riuscivamo a capire alcunché se non che “era arrivato
assai in alto”.
Dopo l’occupazione italiana dell’Albania, vi andarono a lavorare, con
mansioni varie, alle dipendenze di ditte italiane, molte persone del paese, per
lo più muratori, manovali, meccanici, autisti. Si diceva che “Don Terenzi gli
aveva trovato il posto di lavoro” con la prospettiva – almeno fino al 1942 – di
avere trovato in Albania una durevole, se non definitiva, sistemazione. Ma le
cose cambiarono con il tracollo della potenza militare dell’Asse. Dopo l’8
settembre del 1943, per quelle famiglie che avevano figli o genitori in Albania
arrivò la tragedia. Non riuscivano più a sapere nulla dei loro cari: dov’erano,
cosa n’era stato di loro con l’occupazione tedesca dopo il disfacimento
dell’esercito italiano. L’ansia e la preoccupazione aumentavano di giorno in
giorno e si trasmettevano all’intera popolazione. Come,del resto, era un fatto
inevitabile in un piccolo paese, dove tutti sono o amici o imparentati o,
comunque, legati con altri non meno rilevanti rapporti sociali.
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Poi, col tempo, verso la fine del 1944, incominciarono ad arrivare le
prime notizie. Si seppe che l’Albania era stata liberata dai Partigiani; che
molti soldati italiani avevano combattuto con il fronte di liberazione
nazionale, battendosi per la riconquista della indipendenza e della libertà
dell’Albania; che i nostri compaesani, che vi erano andati per lavoro, erano
salvi, ma Don Terenzio era stato arrestato e si trovava in un carcere, a
Tirana. La triste notizia mise naturalmente in apprensione tutti i paesani,
che volevano ovviamente conoscere i particolari, sapere delle accuse specifiche
formulate; per sapere qualcosa si recavano – singolarmente o a gruppi – dal
Parroco, Don Giovani, fratello di Don Terenzio. Neppure lui sapeva qualcosa
se non che il fratello era detenuto. Si trattava di una notizia – chissà – forse
non vera. Bisognava attendere lo sviluppo degli eventi. Quando le cose si
sarebbero chiarite, Don Terenzio sarebbe ritornato libero e potente come
prima o, forse, più di prima. Egli – certamente – non era capace di fare del
male; era di animo buono; aveva disinteressatamente trovato lavoro a molti
compaesani e li aveva anche ricevuti amichevolmente nella propria casa. Nel
paese, unanime era l’opinione sull’innocenza del Personaggio, sulla cui
rettitudine si giurava e spergiurava.
Passò il 1944 senza avere altre notizie. Ancora nessuno dei soldati e
degli operai aveva fatto ritorno in casa, però, le rispettive famiglie avevano
avuto rassicurazione che erano sani e salvi e che, ben presto, sarebbero
rientrati.
Nell’aprile inoltrato del 1945, si diffuse rapidamente per il paese la
ferale notizia: Don Terenzio era stato condannato a morte dal tribunale dei
partigiani e la sentenza era stata già eseguita. La cosa toccò nel profondo
tutti i paesani, come se fosse uno stretto parente. Le campane della Chiesa
suonarono a mortorio. L’indomani fu celebrata la messa in suffragio
dell’anima del defunto. Non si conosceva alcun particolare sulla qualità e
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quantità delle accuse, sull’andamento del processo, sul perché della terribile
condanna, inflitta ad una persona che, per amore della patria – che ora
l’aveva condannato – aveva rinunziato alla cittadinanza italiana e si era
trasferito in quel paese, ancora diviso in tribù che si facevano tra di loro la
guerra. Le opinioni dei paesani erano diverse così come le ipotesi, da cui
derivavano. E intanto si aspettava che ritornasse qualcuno dall’Albania,
lavoratore o soldato. Ognuno di costoro, essendosi trovato sul posto,
certamente sarebbe stato in grado di riferire la verità dei fatti e di fare la
cronistoria degli avvenimenti.
Finalmente, nel corso del mese di luglio 1945, arrivarono, alla
spicciolata, con mezzi di fortuna, i primi lavoratori emigrati. Noi ragazzi –
che giocavamo e ci rincorrevamo lungo l’unica strada carrabile, che spezzava
l’isolamento del paese – vedevamo questi uomini che non conoscevamo, ma li
seguivamo accompagnandoli fino alle loro case. Era come una festa. Furono
costoro che spiegarono qualcosa ai paesani senza riuscire a fugare ogni
dubbio sul perché della condanna capitale. Ora sono tutti deceduti. Essi
riferivano che il processo a Don Terenzio e ad altri capi del passato regime
era stato celebrato nei locali del cinema “Savoia” di Tirana; che Don Terenzio
si era difeso sostenendo la propria assoluta innocenza. Alcuni altri, che
avevano avuto modo di contattare persone della famiglia, riferirono che, più
volte, gli era stato consigliato di scappare, nascondersi, fuggire in Italia,
perché i capi del Fronte di liberazione nazionale avevano già deciso la sua
condanna a morte. Anche la moglie l’aveva pregato e implorato di mettersi in
salvo. Non ci fu nulla da fare. Egli non si mosse. Era convinto che contro di
lui ogni accusa sarebbe risultata infondata perché non aveva fatto del male a
nessuno. Anzi, i fascisti, con i quali aveva collaborato, per il dissenso
manifestato sull’operato del governo, l’avevano addirittura dimissionato
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dalla presidenza del Consiglio Superiore Corporativo. Ma – allora – perché la
condanna alla pena capitale?
Questa domanda rimaneva senza risposta. Ragazzi, assistevamo alle
discussioni che si svolgevano in vari posti del paese: naturalmente si
scontravano opinioni diverse e congetture diverse. Nessuno era in grado di
dare, però, una risposta soddisfacente ed esauriente al perché non era
scappato. I lavoratori ritornati – almeno quelli che l’avevano conosciuto ed
erano stati da lui ricevuti nella sua casa – garantivano della sua onestà e
bontà d’animo. Anche loro, però, non si sapevano spiegare il perché era
rimasto tranquillo nella sua casa ad aspettare che i Partigiani arrivassero a
Tirana, dal momento che era stato avvertito del gravissimo rischio che
correva.
Passarono gli anni ed i ragazzi di allora, diventati adulti, presero
ognuno la sua strada. Molti lasciarono il paese, ma non il suo ricordo. Perché
lì, in fondo in fondo, erano nati, cresciuti, avevano giocato con gli altri
ragazzi, correndo lungo i viottoli o a cercare i nidi nella vicina campagna.
Negli anni ’90 del secolo scorso, dopo la caduta del regime in Albania,
incominciarono a circolare sui giornali le notizie sulle esecuzioni di Tirana
ed, in particolare, su Terenzio Tocci, di cui qualcuno scriveva che andava
riesaminata la sua posizione e la sua condotta politica, non potendo essere
confuso con criminali di guerra o volgari voltagabbana.
Ritornava a riproporsi il dilemma: era un collaborazionista che si era
macchiato di tradimento oppure no? Dilemma di assai ardua – se non
impossibile – soluzione, data la complessità e l’anomalia del Personaggio e la
carenza di elementi probatori sicuri ed indiscutibili.
Le amministrazioni comunali, succedutesi nel paese, di vario colore
politico, non gli hanno mai dedicato una via o un qualche altro sito cittadino.
Non si tratta, però, di damnatio memoriae perché, in taluni atti ufficiali, il
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paese pensa di trarre un qualche vanto per avere dato i natali al nostro
Personaggio. Se non si ha il coraggio di dedicargli una via o, magari, di
apporgli una targa o un’epigrafe su marmo, vuol dire che il solo suo nome
desta un certo imbarazzo. Singolare destino commisurato, del resto,
all’anomalia del Personaggio.
Certamente, non si tratta di un caso unico e raro. La stessa cosa è
capitata a Leandro Arpinati (1892-1945), anarchico, socialista, infatuatosi di
Mussolini, diventato un potente gerarca, uno dei principali leaders in Emilia
– Romagna, podestà di Bologna, sottosegretario all’interno, venne silurato
dallo stesso duce che lo fece addirittura arrestare, nel 1933, per pretesi
dissensi e contestazioni sulla linea politica, ma, in effetti, perché geloso e
timoroso del suo crescente potere e dell’influenza che esercitava in ambienti
fascisti italiani.
Venuto il ’43 e caduto il fascismo, Arpinati aiutò i partigiani e,
perfino, qualcuno pensò di offrirgli il comando di una banda partigiana. La
sua villa diventa una succursale della Resistenza: vi trovano riparo sfollati,
partigiani azionisti, come Dino Zanobetti, e membri dell’Intelligence inglese
ed alte persone. Dopo la Liberazione, Arpinati era convinto di dovere
affrontare una fase di processi per il suo passato di gerarca, senza che potesse
essere accusato d’altro; passato che riteneva di avere in qualche modo
smacchiato e riscattato con il suo pentimento attivo e col rifiuto di
collaborare col duce nel governo della repubblica di Salò. Invece, avvenne che,
il 22 aprile del 1945, quando tutto ormai sembrava filare per il verso giusto,
fu ucciso nella sua casa da persone, rimaste, allora, ignote. Dopo anni si
appurò che probabilmente l’autore dell’assassinio era stato uno squinternato,
macchiatosi di numerosi delitti nel dopoguerra e condannato ad oltre
vent’anni di reclusione. (v. Brunella Dalla Casa, Leandro Arpinati. Un
fascista anomalo, ed. il Mulino, 2013).
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Per conseguenza, nonostante che Arpinati avesse dimostrato con i
fatti di avere rinnegato il fascismo, tuttavia su di lui ha continuato a pesare,
offuscandone la memoria, solo ed esclusivamente il suo essere stato un
importante gerarca fascista, venendo messo tra parentesi il suo dissenso con
Mussolini e la sua dissonanza col regime su problemi, come i Patti
Lateranensi, col filosofo Gentiile sulla amministrazione della Treccani o
sostenendo la necessità di provvedimenti di clemenza contro avversari
politici. Tutto questo non gli fu di alcun giovamento: egli sarà ricordato dai
fascisti come un traditore e non sarà considerato nella giusta e dovuta misura
dagli antifascisti che, in lui, continueranno a vedere il potente gerarca
fascista con gli stivaloni lucidi.
Anche per Terenzio Tocci – mutatis mutandis -
è avvenuta la
medesima cosa. La sua figura passa, nell’immaginario collettivo, come quella
di un giovane romantico e scapigliato che, in gioventù, si avventurò
sconsideratamente tra le tribù delle montagne albanesi, per poi finire
collaboratore dei fascisti invasori dell’Albania e, quindi, traditore della sua
patria. Si trascura che, ravvedutosi del collaborazionismo, tentò di
organizzare – non riuscendovi – un’opposizione che desse vita ad un nuovo
governo di unità nazionale anche al fine di fare cessare le feroci rappresaglie,
messe indiscriminatamente in atto dal governo quisling. Fascista e
collaborazionista con i fascisti, lo fu con indiscutibile certezza, ma – ed è
altrettanto certo – che ad un determinato momento, si ravvide dell’errore,
espresse anche alle alte sfere del regime la sua dissonanza e la sua opposizione
contro le linee di gestione politica del governo, senza concreti risultati,
pagando con la privazione della sua carica di presidente della camera fascista.
Tentò anche di fondare un partito repubblicano albanese con un ardito
programma sociale, come la riforma agraria fondata sul principio di dare la
terra a chi la lavora; esaltò – come, del resto, inequivocabilmente attestato dai
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suoi appunti per l’autodifesa – la rivoluzione comunista come “grandiosa”,
che aveva liberato l’Albania dalle tenebre del feudalesimo e che aveva dato
una nuova prospettiva alle giovani generazioni. Questo era l’uomo, con tutte
le sue contraddizioni, con la complessa sua personalità e che aveva – come
tanti in quel periodo – forse con eccessivo ottimismo, ceduto alle tentazioni
della storia e del potere.
Non valgono né le condanne e neppure le assoluzioni. Non resta che
prenderne atto. E’ arcinoto che larghi settori della cultura italiana non
furono contrari al fascismo ed, anzi, alcuni vi aderirono e lo sostennero,
salvo, poi, dopo la disfatta, scoprirsi improvvisamente antifascisti. Si è
trattato di un inammissibile cedimento morale, riscattato dalla tenace
opposizione di pochi col carcere e l’esilio. Tuttavia, le ragioni che condussero
o che guidarono molti intellettuali verso il fascismo, restano ancora
abbastanza nebulose ed oscure. Occorre avere coscienza di ciò per non cadere
nella facile denigrazione o nell’altrettanto facile, immotivata esaltazione.
L’ambivalenza della fisionomia politica del Tocci, la sua gioventù
romantica e scapigliata, l’alternarsi di luci ed ombre nei suoi atteggiamenti,
l’oggettiva disinvoltura ideologica dei suoi transiti politici, hanno
significativamente pungolato la mia curiosità e mi hanno spinto alla ricerca
ed alla consultazione di tutto ciò che è stato scritto su di lui, ma anche a
contattare quanti l’hanno conosciuto. Purtroppo ne ho trovato uno soltanto,
anch’egli già abbastanza avanzato negli anni, Salvatore Altimari, nato a S.
Cosmo Albanese nel 1929, attualmente residente in Cantinella di Corigliano
Calabro.
Salvatore Altimari, che ha fatto il carpentiere ed ora è pensionato, si
esprime con proprietà di linguaggio e ricorda perfettamente, anche nei
particolari, gli anni passati in Albania proprio durante gli anni cruciali della
guerra, prima e dopo l’8 settembre ’43, dove già vi era il padre Damiano, che
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vi si era recato nel 1941 per ragione di lavoro, insieme a tanti altri lavoratori
di S. Cosmo, fidando sul fatto della presenza del potente compaesano, che gli
avrebbe potuto dare una mano: cosa che puntualmente accadde. Terenzio
Tocci riceveva questi suoi compaesani che arrivavano magari con una lettera
del fratello Parroco – che, peraltro, manco conosceva – nella sua casa, a
Tirana, venendo loro incontro, nei limiti delle sue possibilità. Tutta questa
gente, senza lavoro in patria e senza risorse, aveva trovato, in Albania,
un’occasione preziosa per potere sbarcare il lunario e per procurare il pane
alla propria famiglia. Salvatore, che aveva 14 anni quando si recò in Albania
col padre Damiano, dice che lo scopo era, sì, il potere lavorare e guadagnare,
ma – in prospettiva – anche quello di trovarvi una sistemazione definitiva.
Questo ovviamente era il proposito prima della disfatta, perché dopo
maturarono ben altri pensieri.
Il padre di Salvatore frequentava la casa di Terenzio Tocci, come gli
altri compaesani. Quando, quattordicenne, arrivò in Albania, il padre lo
portò con sé a fare visita al Tocci. Lo trovarono nella villa che passeggiava, da
solo, lungo il viale. “ Vidi – mi riferisce Salvatore – un uomo piuttosto basso
e tozzo. Si salutarono con mio padre. Poi, mi accarezzò, tagliò da una vite lì
vicino un grappolo d’uva e me l’offrì, dicendomi: ”mangiala; quest’uva
proviene da un vitigno italiano”. Dopo di allora, non lo vidi più. Poi, ci fu
l’8 settembre. La notizia che v’era stato l’armistizio, io ed altri compaesani
l’apprendemmo nel cinema “Savoia” di Tirana, dove si proiettava il film “Le
due orfanelle”.Alla diffusione della notizia tutti gli spettatori applaudirono.
Finalmente era la fine della guerra. Ma, in effetti, non era così perché
l’esercito italiano si sbandò ed i tedeschi occuparono Tirana. Io e mio padre,
che ci trovavano all’autocentro, fummo ivi chiusi e fatti prigionieri dai
tedeschi. Fortunatamente, con grave rischio, riuscimmo a scappare: il
compaesano, Mulinari Cosmo, ci accolse nella sua casa. Fino al luglio 1945,
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epoca del rimpatrio, vivemmo e tirammo alla men peggio facendo qualche
lavoretto”.
Salvatore non ricorda com’è venuto a conoscenza dell’arresto di
Terenzio Tocci, ma certamente l’avrà saputo dal padre che era solito
frequentare la famiglia Tocci. Le udienze del processo contro il Tocci e gli
altri esponenti del passato regime si tenevano al cinema “Savoia”. Salvatore
non ricorda nulla in particolare. “Più volte - mi riferisce – la Signora Tocci
mi incaricò di portare al marito, nel carcere di Tirana, delle cose, che non so
di che si trattava, avvolte in un cestino di vimini, che consegnavo a chi
apriva il portone del carcere, dichiarando solo a chi era destinato e subito
andavo via. Ogni volta che mi incaricava di tale commissione, la Signora
Tocci mii dava anche il denaro per l’acquisto di un barattolo di marmellata
che – mi raccomandava vivamente - doveva essere di prugne da portare a
Don Terenzio”.
Queste cose Salvatore, una volta rientrato in paese, chissà quante
volte le avrà raccontate ai compaesani nei luoghi di lavoro, nei circoli, nelle
botteghe artigiane o passeggiando ai suoi amici. Colpiscono alcuni innegabili
tratti umani di pregnante commozione, ma che non contribuiscono a fornire
significativi lumi alla figura politica del Tocci, la cui responsabilità fu quella
di avere avuto fiducia nel fascismo, di avere ricoperto l’importante carica di
Presidente del Consiglio Superiore Fascista Corporativo, di essersene pentito
e di avere tentato di organizzare un’opposizione con la formazione di un
governo di unità nazionale. Tanti fascisti si salvarono, vivendo due vite –
una da fascista, prima, e quella da antifascista dopo. Per Tocci non fu così:
un processo equo e con le garanzie di difesa, gli avrebbe dato la possibilità di
spiegare le sue ragioni e, con ogni probabilità, non si sarebbe concluso con
quella condanna. Egli si era reso conto – come attestano i suoi appunti per
l’autodifesa – di trovarsi al centro di un grave equivoco: i fascisti o certi rozzi
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imperialisti italiani l’avrebbero considerato un voltagabbana; gli albanesi, che
non erano a conoscenza di certi particolari della sua recente condotta politica.
l’avrebbero considerato, tout court, un traditore, travisando la realtà dei fatti
accaduti.
In ogni caso, la sua umana avventura merita rispetto e
considerazione, anche se la sua importante vicenda politica in Albania
(deputato, prefetto, segretario generale della Presidenza della Repubblica,
ministro, Presidente della camera fascista), non è inquadrabile in un preciso
e specifico progetto politico a causa delle sue, a volte, improvvise e mutevoli
posizioni ed orientamenti. Nella pagine che seguono ho, comunque, cercato di
cogliere tutte le sfaccettature della sua composita personalità, senza riserve o
reticenze, con un’indagine che – forse – a tratti potrebbe sembrare spietata,
ma che vuole essere soltanto oggettiva.
Cassiano:La collina del prete
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I
Nel 1885, Gustavo Meyer in uno scritto sulla Nuova Antologia, a
proposito dell’”attività letteraria degli Albanesi d’Italia”, evidenziava
l’esistenza di “una animata vita intellettuale, la quale fra noi è del
tutto sconosciuta e perfino in Italia è appena osservata”. Sottolineava,
inoltre, il Meyer come “la classe colta degli Albanesi prende viva
parte allo sviluppo politico e letterario della patria italiana (il noto e
celebre deputato Crispi è un albanese della Sicilia) senza per questo
sentire meno profondamente l’affetto per la loro nazionalità.
Considerando la posizione eccezionale che è ancora sempre
riservata agli Albanesi d’Italia in relazione alla Chiesa, essi sono
cattolici-romani di rito greco ed il bisogno che ne consegue di avere
sacerdoti puramente nazionali, non può meravigliare il fatto che un
gran numero di uomini di molto valore intellettuale si sia dedicato al
sacerdozio, e che fra gli scrittori, la maggior parte siano sacerdoti”.
Questa vivacità “culturale” – che faceva capo a Girolamo de’
Rada ed ai poeti della sua scuola, come Giuseppe Serembe e Giueppe
de’ Rada, Francesco Antonio Santori di S. Caterina Albanese,
Domenico Antonio Marchese di Macchia e ad alcuni altri – oltre che
dispiegarsi nell’attività letteraria vera e propria, si prodigava anche
per l’indipendenza dell’Albania. Verso la fine dell’Ottocento, era stato
lo stesso Girolamo de’ Rada ad iniziare la pubblicazione, a sue spese,
del Fiamuri Arberit (La Bandiera Albanese), in Corigliano Calabro;
quasi contemporaneamente, usciva, in Sicilia, l’altra rivista Arbri i Rii
Cassiano:La collina del prete
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(Albania Nuova). Le due riviste furono i punti di riferimento e di
aggregazione per tutti gli intellettuali italo-albanesi. Esse tentarono di
unificare l’alfabeto e di individuare una lingua letteraria comune.
Nei primi dell’ottobre del 1895, si tenne in Corigliano Calabro,
nei locali del ginnasio “Garopoli”, il congresso linguistico italoalbanese, al quale parteciparono rappresentanti di tutti i Comuni (per
S. Cosmo erano presenti Francesco Saverio, Giovanni Andrea e
Achille Tocci) ed ebbe come presidente onorario Francesco Crispi, il
quale telegrafò al de’ Rada per accettare “la onorifica distinzione”,
aggiungendo anche: “Albanese di sangue e di cuore godo di questa
iniziativa che mi auguro sarà utile alla storia della civiltà albanese ed allo
incremento della sua letteratura”.
La rivista quindicinale Ili i Arbresvet (La Stella degli Albanesi),
la cui direzione fu affidata all’arciprete di S. Giorgio Antonio
Argondizza e che uscì solo per quattro numeri, come organo ufficiale
del congresso, tentò di portare avanti i due temi congressuali
dell’unità linguistica e della rivendicazione dell’indipendenza
albanese, due problemi di assai difficile soluzione, su cui, peraltro,
non v’era neppure unanimità nel piccolo mondo dei calabro-arbresh.
Il giovane Terenzio Tocci di S. Cosmo Albanese, in un suo
scritto, relativamente alla lingua, rilevava di non “comprendere in
base a quali criteri si voglia imporre il dialetto delle colonie (cioè, dei
paesi albanofoni, n.d.R.) a quello della nazione intera che ha la lingua
pura dei primi avi…mentre nelle colonie essa, benchè continui a
vivere, è sempre corrotta e ciò ognuno ben comprende se pensa che
Cassiano:La collina del prete
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esse, site in mezzo a paesi italiani, hanno un attivo commercio con
questi e da ciò uno scambio di vocaboli e anche di costumanze”. In
relazione alla questione politica, il Tocci denunziava la tendenza filomontenegrina della rivista in appoggio al progetto di unione fra
Albania e Montenegro, sostenuto “da qualche solitario” anche dopo il
matrimonio tra Vittorio Emanuele, erede al trono d’Italia, ed Elena di
Montene6gro.
Dal 21 al 24 aprile del 1901, si tenne a Napoli
un altro
congresso linguistico, del cui comitato promotore fece parte Cosmo
Serembe di S. Cosmo, presidente dell’associazione “La Giovane
Albania”. Anche questo congresso non approdò ad alcun concreto
risultato. Esso fu ferocemente stroncato da Terenzio Tocci per la sua
ambiguità e per la carenza di senso politico. “I congressi – scriveva il
Tocci – debbono essere politici soprattutto e quando si tengono non
bisogna chiedere alti patronati, ma si deve fare appello alla lealtà,
all’onore e alla generosità dei popoli, non dei governanti e della
diplomazia, perché diplomazia e tirannide sono sinonimi”.
Del resto, un noto giornalista dell’epoca, Ugo Ojetti, nelle sue
corrispondenze dall’Albania, a proposito delle associazioni e
dell’opera degli italo-albanesi, aveva avuto buon gioco nel criticare le
loro astratte ed ingenue enunciazioni, prive di realismo politico, poco
affidabili e che, pertanto, andavano prese cum grano salis: nient’altro
che solitarie esercitazioni retoriche di “grandi uomini del villaggio”.
Un altro congresso fu convocato e tenuto a Napoli nel giugno
del 1903 con lo scopo di unire gli italo-albanesi per concorrere
Cassiano:La collina del prete
all’indipendenza ed
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allo sviluppo dell’Albania. Fu individuato in
Ricciotti Garibaldi la personalità che avrebbe potuto – “secondo il
programma
di
Mazzini
e
di
Garibaldi”-
provvedere
all’organizzazione della gioventù italo-albanese “e tenerla pronta ad
ogni evenienza nel senso della rivendicazione dei diritti nazionali sia
dell’Italia e sia dei popoli balcanici”. Questa idea della consonanza
politica e della comunanza di interessi tra Italia e Albania sarà la linea
–
guida
del
movimento
arberisco
nella
rivendicazione
dell’indipendenza albanese. Essa era priva di realismo perché, già alla
fine dell’Ottocento, la politica italiana aveva ben altri progetti di
espansione e di dominio nell’altra sponda adriatica.
A proposito è opportuno sottolineare che il Collegio di S.
Adriano fu trasformato in Istituto Internazionale italo-albanese;
l’Ispettore generale delle Scuole Italiane all’Estero, Angelo Scalabrini,
vi venne nominato, nel giugno del 1900, Commissario Straordinario
perché ne curasse l’ammodernamento dell’insegnamento e la
ristrutturazione dei fabbricati,
lo dotasse di attrezzati gabinetti
scientifici e vi aggiungesse una Scuola Normale ed una Scuola
Agraria.
Il tutto era predisposto per attirare, con la concessione di borse
di studio, giovani dalle diverse regioni d’Albania, che avrebbero
costituito la futura classe dirigente di quel paese ed in qualche modo
garantito l’egemonia italiana. La rinomata Istituzione culturale
veniva, così, piegata a strumento di politica estera.
Cassiano:La collina del prete
Al Garibaldi
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venne affidata la presidenza
del “Consiglio
Albanese d’Italia” col solito programma politico dell’indipendenza
albanese. Ma anche questa volta
senza alcun risultato pratico.
“L’Albania – ha osservato Giovanni Laviola – per molti rappresentava
una terra sognata che essi idealizzavano, creandone un motivo di
scontri cartacei: nessuno partì per combattere. Quella che essi
chiamavano la madre patria dovette conquistare per altre vie la
propria indipendenza”.
In un periodo di rinascente nazionalismo, in cui i Balcani erano
il teatro dello scontro fra nazionalità diverse e fra gli opposti
imperialismi russo
e
austriaco,
gli intellettuali arbresh
si
trastullavano nel coltivare l’illusione romantica di affratellamento e
di libertà di tutti i popoli. L’Italia avrebbe dovuto adoperarsi per la
libertà dell’Albania; le due nazioni “sorelle” non potevano che filare
d’amore e d’accordo. Ma i fatti concreti e la realtà della politica estera
italiana parlavano un ben altro linguaggio.
Anche negli anni, immediatamente antecedenti alla prima
guerra mondiale, quando avrebbe dovuto essere chiaro che nei
rapporti fra gli Stati prevalgono altri interessi e non i sentimenti, si
continuò ad insistere su quell’ingenuo concetto: “l’Italia e l’Albania
debbono vivere da buone e fedeli sorelle, rispettose l’una dell’altra, in
collaborazione per i supremi interessi della giustizia internazionale,
della civiltà e della pace”.
E non è veramente un caso se coloro che sostenevano tali
amenità
in
politica
internazionale,
all’avvento
del
fascismo,
Cassiano:La collina del prete
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nonostante le conclamate professioni di fede democratica,
vi si
trovarono talmente coinvolti da diventarne strumento di propaganda
tra gli italo-albanesi ed in Albania, per la quale, com’è noto, la
“fraternità” e la “collaborazione” non altro furono
dell’indipendenza e concreta
che perdita
invasione straniera con conseguente
colonizzazione e snazionalizzazione.
In buona sostanza, tutto questo gran discutere in pro
dell’Albania e della sua indipendenza era puramente retorico e
accademico; neppure coinvolgeva in qualche modo le popolazioni
albanofone, le quali, nella stragrande maggioranza, oppresse da un
doppio analfabetismo nella propria lingua materna e nell’italiano, non
erano neppure in grado di recepire
ciò che si andava dicendo e
scrivendo da parte di esigui gruppi intellettuali isolati, slegati dai
problemi concreti della propria comunità e perloppiù espressione
della piccola borghesia paesana in crisi di identità ed in cerca di
occupazione e, perciò stesso, malcontenta e smaniosa di impossibili
avventure alla ricerca di una patria di sogno.
Questa piccola
borghesia rurale, chiusa al concreto e
quotidiano impegno civile in favore delle proprie comunità, ancora
civilmente
arretrate,
fondamentali
ed
senza
essenziali
scuole
pubbliche
strutture
e
civili,
prive
delle
depauperate
dall’emigrazione transoceanica massiccia, dava sfogo alla propria
fantasia, impegnandosi nelle più strampalate avventure intellettuali,
chiudendo gli occhi sulla realtà circostante e, infine, adagiandosi
comodamente nel fascismo, divenendone un necessario supporto nei
Cassiano:La collina del prete
19
paesi albanofoni, così oscurando e dimenticando la nobile tradizione
democratica e risorgimentale delle popolazioni albanesi della
Calabria.
Si discuteva su di una lingua letteraria comune in modo
astratto e utopico perché il problema, nei termini elitari in cui era
posto, interessava alcuni isolati personaggi e non la maggioranza
della popolazione che, pur usando la parlata locale, era del tutto
analfabeta nella stessa lingua che veniva tramandata oralmente e di
cui ignorava del tutto la scrittura.
Nessuno fu mai sfiorato dal dubbio – neppure lo stesso de’
Rada – che la “salvezza” della lingua albanese non avrebbe avuto
senso alcuno se fosse finalizzata solo alla conservazione di uno dei
“superstiti monumenti dell’antichità classica”. Ma la lingua serve al
popolo, è uno strumento vivo di comunicazione, e sarebbe stato
necessario, quindi, legare le ragioni della sopravvivenza della lingua
alle popolazioni che la parlavano, alle quali avrebbe dovuto essere
data la possibilità effettiva di continuare a permanere nei luoghi degli
antichi insediamenti, incentivandone le attività economiche, senza
costringerle all’emigrazione ed alla conseguente assimilazione con
altri gruppi linguistici ed alla definitiva perdita della propria identità
culturale.
Cosmo Serembe, alla fine dell’Ottocento, aveva fondato in S.
Cosmo “La Giovane Albania”, che aveva come programma
“L’Albania una, libera, indipendente”; interveniva – con apposite
pubblicazioni - nella questione del cosiddetto “alfabeto nazionale”
Cassiano:La collina del prete
20
per proporre l’adozione di quello approvato al congresso di
Costantinopoli del 1879 e nella questione politica per ribadire la
propria opposizione all’unione dell’Albania col Montenegro.
Ma si trattava, il più delle volte, di esercitazioni accademiche
tra intellettuali che, forse, contribuirono a portare all’attenzione
dell’opinione pubblica la “questione albanese”, la quale troverà la sua
soluzione solo dopo il primo conflitto mondiale nell’intricato
equilibrio degli interessi delle grandi potenze.
In precedenza e fino alle guerre balcaniche (1912-13), l’Albania
era dominio turco. Per ben due volte, nel 1883 e nel 1885, gli Albanesi
erano insorti contro il dominio ottomano senza alcun apporto degli
arbresh. Questo movimento anti-turco
sempre represso, dopo il
trattato di Berlino del 1878, era nuovamente divampato nell’estate del
1911 ad opera dei Malissori, gruppo di montanari cattolici del
retroterra di Scutari, capeggiati dal nazionalista Issa Bolleti. Fu una
disperata resistenza, una strenua lotta fra le montagne, contro il feroce
Turgut Pascià e durò poche settimane. Anche se conclusosi con un
netto insuccesso militare, esso fu veramente utile a fare conoscere la
drammatica situazione albanese alle grandi potenze dell’epoca, alle
quali, nel giugno 1911, fu indirizzata la cosiddetta Memoria dei
Malissori, scritta in francese dai guerriglieri per invocarne l’intervento
al fine di liberare – era scritto – cette terre que nous aimons et dont
l’armèe turque a fait un èpouvantable dèsert.
Il problema albanese costituì fra Russia, Impero Austroungarico, Italia, e Balcani un nodo di scontro per i contrastanti
Cassiano:La collina del prete
21
interessi; ad un certo momento, quando sembrava possibile trovarvi
una soluzione a causa di concessioni, promesse dai Turchi agli
Albanesi, saltò tutto in aria per lo scoppio, nell’ottobre 1912, della
prima guerra balcanica.
La conferenza di Londra del luglio 1913 creò lo stato
indipendente d’Albania, dopo che l’anno precedente – il 28 novembre
1912 – l’avevano proclamato, nella Conferenza di Valona, i delegati
da ogni parte d’Albania, issando per la prima volta la bandiera rossa
con l’aquila bicipite nera.
Nel marzo del 1914, fu nominato re il principe tedesco
Guglielmo di Wied che, nel settembre successivo, abbandonò il paese
per la manifesta sua incapacità di governarlo portandovi l’ordine e la
pace.
Allo scoppio della prima guerra mondiale fu di nuovo
occupata da greci, serbi, montenegrini, bulgari, austriaci e francesi,
che tentarono di spartirla, finchè, nel giugno 1917, divenne
protettorato italiano. Dopo il primo conflitto mondiale, tornò
indipendente e fu ammessa alla Società delle Nazioni, nel 1920,
costituendosi in repubblica. Successivamente, nel 1928, il Presidente
Zogu, con l’appoggio dell’Italia fascista, si proclamò re ed instaurò un
regime dittatoriale.
Cassiano:La collina del prete
22
II
Terenzio Tocci fu forse il solo personaggio italo-albanese che si
trasferì in Albania, ne prese la cittadinanza e fece parte della
dirigenza politica di quel paese almeno fino al 1943. Tumultuosa fu la
sua vicenda umana e politica, conclusasi tragicamente in Albania nel
1945, sulla quale inconferente sarebbe ogni espressione di ordine
moralistico. La storia non pronunzia sentenze di condanna o di
assoluzione; essa tenta di comprendere gli avvenimenti, le loro cause
ed i loro effetti attraverso la conoscenza reale degli avvenimenti e del
loro complesso ed, a volte, tortuoso sviluppo.
Era nato a S. Cosmo Albanese il 9 marzo 1880. Fu naturalmente
avviato agli studi nel Collegio di S. Adriano, che aveva e manteneva
ancora una consolidata tradizione culturale laica e libertaria. Dopo
alcuni anni, un vivace battibecco con un istitutore determinò la sua
espulsione dal Collegio.
Quindicenne,
nel
1895,
assistette
al
primo
Congresso
linguistico italo-albanese, presieduto da Girolamo de’ Rada, nei locali
del “Garopoli” di Corigliano Calabro. Terminò gli studi ad Urbino,
nella cui Università conseguì anche la laurea in giurisprudenza ai
primi del Novecento.
Esercita la professione forense per qualche tempo a Roma; ma
la sua passione è il giornalismo politico. Da repubblicano e
mazziniano, sulle pagine de La Terza Italia, diretta da Felice Albani,
sollecita l’interesse del partito mazziniano per le sorti ell’Albania. Per
Cassiano:La collina del prete
23
la sua liberazione, con la pubblicazione de La Questione Albanese, nel
1901, aveva sostenuto, in contrasto con le deliberazioni del Congresso
linguistico di Corigliano Calabro, che non l’alfabeto e la letteratura
erano necessari, ma una concreta azione immediata. “Quando un
popolo vuole essere libero non fa politica, ma guerra invece; non si
raccomanda ai diplomatici, ma al proprio coraggio…è da preferirsi
l’analfabetismo alla cultura deleteria che si riceve dagli stranieri. Si
convincano gli albanofili che per scacciare lo straniero dalla patria
basta che si sviluppi bene quella coscienza nazionale che là c’è; si
ricordino che sentimento nazionale c’è sempre stato, che non è
necessario che tutti sappiano leggere e scrivere perché quando si deve
cacciare lo straniero dalla patria, basta che si impari ad odiarlo,
facendogli comprendere che ha dei diritti che nessuno può
manomettere in qualsiasi modo e per nessuna ragione”.
Tra il 1906 ed il 1908, fonda due periodici: Il Corriere dei Balcani
e Speranze d’Albania. Il suo tentativo è quello di intervenire nella
annosa questione d’Oriente, da lui ritenuta giustamente “un incubo
tremendo per l’Europa, perché per la sua soluzione si può scatenare
in mezzo ad essa una guerra che condurrà a disastrose conseguenze i
popoli, trascinati a massacrarsi da governi che sono la negazione
assoluta di ogni principio di Giustizia e di Diritto”.
Ormai, è assai chiaro che tutto il suo impegno politico consiste
nel
prodigarsi
per
l’indipendenza
albanese.
Per
il
giovane
mazziniano, quella che era stata solo una “patria di sogno”, sotto i
rinascenti furori nazionalistici che avrebbero condotto l’Europa a
Cassiano:La collina del prete
24
sanguinosi conflitti, diventa un obiettivo da perseguire nella
convinzione
ingenua
ed
abbastanza
ambigua
della
pretesa
complementarità tra le aspirazioni italiane e quelle albanesi
alla
libertà e della reciprocità degli interessi fra le due Nazioni, pure
consapevolmente, ma strumentalmente propagandata da certi
dirigenti politici italiani e, se ingenuamente creduta in ambienti
popolari albanesi, altrettanto strumentalmente abbracciata dai gruppi
dirigenti nazionalzoghisti nella speranza di trovare un consistente
appoggio e aiuto dal governo italiano.
Si trattava di una visione caratteristica della prima ondata
romantica.
Dopo
la
l’inserimento dell’Italia
conclusione
del
moto
risorgimentale
e
nel gioco diplomatico internazionale,
nell’infuocato clima nazionalistico, diventava assai problematica la
comunione di interessi fra le due sponde dell’Adriatico.
Tra il 1908 ed il 1909, il giovane Tocci si reca nelle Americhe
per visitare le comunità di albanesi e di italo-albanesi nel tentativo di
raccogliere fondi per organizzare un movimento di protesta
all’interno dell’Albania allo scopo di richiamare l’attenzione del
mondo civile sulla situazione albanese.
Nella primavera del 1911, si reca in Albania inviato dal
generale Ricciotti Garibaldi per dare vita ad un governo provvisorio
che avrebbe dovuto richiedere l’intervento del generale, il quale
avrebbe dovuto rispondere con l’invio di una spedizione di volontari.
Tocci, sostenuto da alcuni notabili,
vi costituisce un governo
provvisorio della Mirdizia, regione dei Malissori, il 27 aprile. Solo più
Cassiano:La collina del prete
25
tardi, nel settembre 1911, riesce a mettersi a capo di tale governo,
quando ormai era conclusa la rivolta per l’azione diplomatica di
Russia, Inghilterra e Francia, da una parte e Austria e Germania
dall’altra.
L’esperienza, messa in atto in un momento poco opportuno,
non ebbe esito positivo: dall’Italia non arrivarono né gli aiuti
promessi e neppure i volontari garibaldini, di cui s’era fatto garante
Ricciotti Garibaldi, il quale – secondo il colorito e fantasmagorico
linguaggio del Tocci – “aveva rinnegato le gloriose tradizioni della
Camicia Rossa,
rinunziando definitivamente alla spedizione ed in
forma clamorosa, che suonava anche oltraggio alla gioventù italiana
che con baldanza eroica e cavalleria degne di ben altri tempi aveva
offerto il suo sangue alla causa degli oppressi albanesi”.
Naturalmente erano in gioco gli interessi delle grandi potenze
del tempo nei Balcani, verso cui l’Austria-Ungheria, scacciata
dall’Italia, tentava di estendere la propria egemonia. D’altra parte
l’Italia, alleata dell’Austria nella Triplice, in procinto di invadere la
Libia, non aveva alcun interesse di mettersi in contrasto con il
governo austriaco. Per tale motivo, sarebbe stata irrealizzabile la
spedizione garibaldina, promessa a parole, ma di fatto rimasta allo
stato “platonico”; lo stesso Ricciotti Garibaldi fu formalmente
sottoposto a procedimento penale al fine di non allarmare le grandi
potenze.
Inutilmente il Tocci protestò contro la politica italiana, in
un’intervista rilasciata al Giornale d’Italia nel giugno del 1911,
Cassiano:La collina del prete
26
sostenendo che “il Governo italiano non è stato mai nemico
all’italianità come in Albania. Esso non ha inteso come il suo interesse
collimi là con le più alte idealità nazionali e umanitarie”.
Ma il Tocci, fuggiasco, raggiunto a Podgoritza ed intervistato
dal giornalista democratico russo Michele Osorgin, esule in Italia, pur
esprimendo delusione per la condotta di Ricciotti Garibaldi, ritiene di
essere
in grado di guidare la rivolta, ormai finita, manifestando
quello che il giornalista giudica un atteggiamento piuttosto spavaldo
e spaccone.
…involontariamente, dal tono della sua voce – scrive il giornalista –
e dal suo modo di esprimersi, mi viene in mente quel genere, già noto da un
pezzo, di giovani oppositori italiani, repubblicani, sindacalisti, che ad ogni
momento invocano “un bello scossone che risvegli l’Italia”. Dunque, eccolo
qui il duce dell’insurrezione albanese! Giovani identici a questo, altrettanto
carini e limitati, anch’essi avvocati, conducono in Italia scioperi nelle
fabbriche, con un certo successo. La differenza sta solo nel fatto che costui è
stato gettato dalla sorte in una provincia turca. Si crede in quelli come si
crede in questo…e gli ultimi ad arrendersi sono proprio loro, accusando
intanto qualcuno di tradimento di un nobile ideale: i sindacalisti accusano i
riformisti, e viceversa, costui accusa Garibaldi ed il Montenegro. Ed ora –
prosegue Osorgin – mi si presenta in chiaro rilievo la figura del “capo del
governo provvisorio”. Un bravo giovane, pieno di abnegazione e di energia,
ma troppo cattivo politico per essere un duce. Che ridicolo malinteso!”
Ed, in effetti, come gli avvenimenti successivi dimostreranno,
gli atteggiamenti e le manifestazioni di irredentismo e di aggressivo
Cassiano:La collina del prete
27
nazionalismo, che andavano allora diffondendosi in Europa,
costituivano un pericoloso inganno ideologico perché suscettibili di
scatenare una inarrestabile catena di reazioni belliche.
Ma la politica degli Stati non segue le ragioni ideologiche o di
principio, essendo essa condizionata dall’economia, dalla posizione
geografica e da altri interessi di politica internazionale che, in quel
momento,
non consentivano al governo italiano di chiudere un
occhio o, addirittura, di sostenere il movimento insurrezionale
albanese.
V’è, inoltre, da rimarcare che i progetti garibaldini e mazziniani
non si risolsero in alcunché di concreto. L’altra componente della
sinistra italiana, quella socialista, dalle pagine dell’Avanti! del 16 nov.
1912, addirittura ridicolizzò la figura di Ricciotti Garibaldi, “povero
vecchio ormai ridiventato fanciullo come suole accadere nella tarda
senilità”, il quale non si rendeva conto dell’impossibilità storica della
riproposizione del garibaldinismo. “Così non è possibile plagiare il
garibaldinismo, riprodurlo in una edizione riveduta e corretta ad uso
e
consumo
degli
eroi
a
scartamento
ridotto
dell’Italia
contemporanea…
La gesta garibaldina ha avuto la sua stagione. Garibaldi non
torna più…Non è chi non veda la posizione grottesca in cui si trovano
i duci delle esigue schiere dei volontari italici. Costoro sono partiti per
soccorrere la Grecia…ma la Grecia, seguendo la Quadruplice cui è
indissolubilmente legata, dovrà aiutare i serbi nell’oppressione
dell’Albania…Una guerra di nazionalità, intrapresa da monarchie, si
Cassiano:La collina del prete
28
conclude sempre nel mercato e nel tradimento dei popoli. L’Albania
sarà dunque sacrificata. Tale è il manifesto disegno della Quadruplice.
Ebbene i volontari garibaldini che sino a pochi mesi fa spasimarono
d’amore per l’Albania…i garibaldini italiani cooperano oggi colla
Quadruplice allo smembramento dell’Albania”.
Quegli
intellettuali
arbresh,
che
si
interessavano
alla
problematica, e lo stesso Ricciotti Garibaldi dimostrarono di essere
ancora legati ad un’ottica risorgimentale di stampo romanticoottocentesco e di non avere compreso che l’indipendenza albanese era
legata alla nuova realtà internazionale, allo scontro delle nazionalità
balcaniche ed ai problemi emergenti dalla dissoluzione dell’Impero
Ottomano.
I tentativi di esponenti repubblicani italiani, come Damiano
Chiesa, Guido Mazzocchi e dello stesso Tocci, furono semplicemente
velleitari. Essi avrebbero voluto mettersi a capo di un vasto
movimento nella Mirdizia, ma si esaurirono nell’arco di qualche
settimana quando fu assai chiaro che, in Albania, non vi sarebbe stato
nessuno sbarco di volontari garibaldini, condotti da Ricciotti
Garibaldi che, sulle orme del padre, si era fatto promotore di una
spedizione velleitaria e non reale, come gli avvenimenti acclararono e
come non mancò di sottolineare la stampa internazionale ironizzando
sul “nuovo Garibaldi” che, a differenza del padre, “parla molto ma
non si è ancora per nulla fatto conoscere nell’azione…nel complesso,
la seconda edizione di Garibaldi ricorda una pessima traduzione da
una lingua eroica nel dialetto borghese contemporaneo”.
Cassiano:La collina del prete
29
III
Il 26 settembre 1913,
Terenzio Tocci inizia, a Scutari, la
pubblicazione del quotidiano Taraboshi, che uscirà fino all’11 agosto
1914, quando la pubblicazione verrà sospesa dai rappresentanti delle
grandi potenze. Il Tocci venne espulso dall’Albania per “motivi di
ordine pubblico” e confinato in S. Cosmo Albanese perché contrario
all’intervento italiano in guerra e assertore della neutralità italiana
nella Triplice Alleanza.
Egli era convinto che “lo sfasciamento dell’Austria sarebbe la
vittoria del panslavismo, fatale per gli Albanesi, pericoloso per gli
Italiani”. Ritornò in Albania dopo la fine della prima guerra
mondiale, stabilendosi, nell’agosto del 1920, a Scutari, dove gli venne
conferita la cittadinanza albanese.
Nel 1921 è nominato prefetto di Corcia e, nel 1923, fu eletto, per
la circoscrizione di Scutari, deputato all’Assemblea Costituente. Ma,
dal 1921 al 1924,
si inasprisce il conflitto politico in Albania tra
conservatori reazionari, capeggiati da Ahmed Zogu, e
forze
democratiche che avevano il loro punto di riferimento nel Bashkimi,
l’Unione che raggruppava un buon nucleo di studenti e di intellettuali
i quali sostenevano vigorosamente le rivendicazioni dei contadini, tra
cui, in particolare, la riforma agraria.
In questo tormentato momento di acuto scontro sociale tra
progressisti democratici e latifondisti conservatori, Terenzio Tocci è
sparito. Non prende posizione, anche se resta saldo e forte il legame
Cassiano:La collina del prete
30
con Zog, al quale, in buona sostanza, è debitore delle sue fortune
politiche in questo momento. Ufficialmente, la sua posizione è come
di attesa, di evidente ed ambigua ambivalenza. Eppure, da uno come
lui, democratico e repubblicano di ispirazione mazziniana e
garibaldina che, nel 1920, aveva capeggiato a Scutari la Società del
Lavoro ed aveva fondato, a Cosenza, nel 1898, il Circolo repubblicano
popolare, ci si attendeva una scelta decisa con il movimento
democratico o, quanto meno, con gli elementi borghesi progressisti
albanesi che, pure tra enormi difficoltà, riuscirono a costituire il
governo presieduto da Fan Noli (1882-1965), uomo di vasta cultura e
di apertura europea, che, nel 1920, era riuscito ad ottenere
l’ammissione dell’Albania alla Società delle Nazioni.
Nel 1924, i latifondisti albanesi assassinarono Avni Rustemi,
uno dei dirigenti del movimento democratico, che aveva fatto i suoi
studi nel Collegio Italo-albanese di S. Demetrio Corone. Ma il governo
di Fan Noli – che aveva affrancato l’Albania dalla sottomissione e
dall’asservimento all’Italia fascista - incontrò naturalmente una
violentissima opposizione da parte dei grandi proprietari terrieri
proprio a causa del programma di riforme sociali ed economiche, che
non riuscì a portare a compimento perché non ne ebbe il tempo
necessario.
Infatti, il 24 dicembre 1924, il fronte controrivoluzionario,
capeggiato da Zogu, con il diretto appoggio delle truppe reazionarie
serbe e delle guardie bianche, riuscì a rovesciare il governo,
costringendo Fan Noli all’esilio negli Stati Uniti, troncando
Cassiano:La collina del prete
31
l’esperimento democratico che probabilmente sarebbe stato assai
fecondo per l’avvenire dell’Albania, consegnando, in questo modo, il
potere a Zogu, il quale, di fatto, instaurò una dittatura personale,
riducendo al silenzio ogni opposizione sociale e politica, arrivando
fino all’assassinio di eminenti personalità democratiche, come Luigi
Gurakuqi, che aveva studiato in S. Adriano, nel Collegio italoalbanese, dove aveva avuto tra i suoi maestri il poeta de’ Rada e che
fu assassinato a Bari da agenti zoghisti.
Dopo la “normalizzazione” zoghista dell’Albania, Terenzio
Tocci riappare, pur mantenendo una certa ambiguità. Si fa più stretta
la sua intesa con Zogu quando questi viene eletto Presidente della
Repubblica (31 gennaio 1925); e Zogu premia la sua fedeltà facendogli
assumere la carica di presidente della Cassazione penale e, qualche
anno dopo (1927), quella di Segretario Generale della Presidenza della
Repubblica.
Ed era già abbastanza chiaro che Zog aveva dato vita ad un
governo autoritario: perseguitava gli avversari e li faceva assassinare
e neppure tutelava gli interessi e l’integrità nazionale. Con il suo
governo, infatti, fu agevolata la penetrazione italiana in Albania: in
forza del trattato segreto militare, il territorio albanese fu messo nella
completa disponibilità italiana in caso di guerra con la Jugoslavia; fu
assicurato all’Italia il controllo totale del settore economicofinanziario albanese;
l’Azienda Italiana Petroli Albanesi (A.I.P.A.)
ebbe la gestione esclusiva di tutte le risorse petrolifere.
Cassiano:La collina del prete
32
Le origini repubblicane, mazziniane e democratiche del Tocci
vanno, così, progressivamente sfumando, offuscate e sporcate, se non
definitivamente sotterrate, dalla connivenza, se non dalla complicità
nell’esercizio di un potere autoritario, intollerante e violento, oltre
che subalterno agli interessi italiani. In definitiva, non si riesce a
vedere come il Tocci potesse giustificare, sotto il profilo ideologico e
politico, la sua attuale posizione di subalternità a Zog ed alla sua
rozza e violenta compagnia con le pregresse battaglie politiche in
difesa della democrazia e della libertà.
Nel 1928, traduce e fa pubblicare scritti e discorsi di Mussolini.
La figlia
giustifica tale iniziativa, peraltro, in modo erroneo,
scrivendo che “uomini di Stato, scienziati, politici e letterati
seguivano con simpatia l’attività di Mussolini che alla ricostruzione
del Paese imprimeva ritmo e direttive. Mio padre, sempre costante
nell’idea di un’Albania libera ed indipendente sul cammino che
percorreva l’Italia, non poteva rimanere indifferente dinanzi a quel
movimento che vedeva filtrato attraverso l’Adriatico. Così nel 1928
trovò il tempo per tradurre in albanese vari scritti e discorsi di
Mussolini ( Fashiszmi, Tirana, 1928)”.
Evidentemente,
attraverso
l’Adriatico,
non
“filtravano”
l’antifascismo di Benedetto Croce, l’assassinio di Giacomo Matteotti,
di Piero Gobetti, di Giovanni Amendola, l’esilio di Don Luigi Sturzo,
la soppressione di tutte le libertà e dei partiti avversi al fascismo, gli
innumerevoli ed arbitrari arresti e le condanne al confino ed al carcere
Cassiano:La collina del prete
33
degli avversari, compresa quella dell’italo-albanese Antonio Gramsci,
una delle grandi menti dell’Italia contemporanea!
La pubblicazione fu giustamente interpretata come adesione ai
principi fascisti. Non per nulla Midhat Frasheri, fondatore del Partito
Nazionalista Albanese, scrisse che “questo libro si può ritenere per
ognuno di noi come guida, come un buon consigliere, che merita di
essere ascoltato e seguito”.
Il fatto vero è che, con la traduzione di scritti e discorsi di
Mussolini, il Tocci non solo faceva opera di diffusione del fascismo ed
additava come
modello di buon governo quello fascista, ma,
contestualmente, poneva un ulteriore tassello per
rendersi bene
accetto ed affidabile alle autorità italiane.
Quando Zogu da Presidente della Repubblica si autoproclama
Re degli Albanesi ( 1° settembre 1928), il Tocci si ritira a vita privata.
Non si pensi, però, ad un improvviso risveglio degli ideali
democratici e repubblicani. Tante volte in passato, con estrema
disinvoltura, aveva dato prova di tenerli in scarsa o nulla
considerazione. Almeno in tre occasioni, nel recente passato, si era
fatto sostenitore addirittura di prìncipi stranieri al trono albanese:
tanto era avvenuto con il principe Guglielmo di Wied; con il sostegno
alla candidatura di un esponente di casa Savoia e quando aveva
proposto come futuro re l’egiziano Fuad che, tra l’altro, lo foraggiava
a mani larghe, consentendogli la pubblicazione del Taraboshi.
Addirittura la candidatura del musulmano Fuad gli sembrava l’ideale
perché rappresentava la maggioranza della popolazione e, quindi, a
Cassiano:La collina del prete
34
differenza del principe cristiano che costituiva elemento di divisione,
il principe musulmano era in grado di ricomporre l’unità
dell’Albania, musulmana nella stragrande maggioranza.
Il malumore per l’elevazione al trono di Zog
era
da
considerarsi un episodio momentaneo, dovuto piuttosto al suo
carattere, che lo portava ad essere scontento in continuazione, ed alla
sua
indubbia
natura
di
bastian
contrario,
ragione
per
cui
paradossalmente coesistevano in lui tesi e antitesi senza essere
superate dalla sintesi: in concreto era certamente filo-zoghiano, ma
contemporaneamente era come portato a nutrire motivi di malumore
e di insoddisfazione, di cui non sa definire la natura, ma che, ne Il re
degli albanesi, attribuisce al suo essere “idealista e scontento
per…destino”.
Nel dicembre 1936, accetta, però, di entrare nel governo
zoghista come ministro dell’Economia Nazionale, carica dalla quale si
dimetterà
nel corso del 1938 per le reiterate critiche, mosse
all’Esecutivo, considerato poco dinamico e scarsamente sollecito agli
interessi nazionali.
Cassiano:La collina del prete
35
IV
L’occupazione italiana del 7 aprile 1939 sarebbe stata per il
Tocci una “sorpresa” perché non riteneva che “il Governo Fascista di
Roma volesse sul serio invadere l’Albania…mi era giunto all’orecchio
che persone note per rettilineo patriottismo avevano pattuito con i
rappresentanti dell’Italia ufficiale e con qualche gerarca fascista che
sul trono del Regno d’Albania sarebbe stato posto un Principe della
Casa Savoia, che, pertanto, si sarebbe avuto non un’occupazione, ma
un temporaneo sbarco di truppe con funzioni di guarnigione”.
Era certamente contrario ad ogni logica considerare “patrioti”
persone che concordavano con lo straniero l’occupazione del proprio
Paese o acconsentivano allo sbarco – sia pure temporaneo – di truppe
straniere nei confini nazionali. Rientravano, intanto, anche i vecchi
quadri dell’opposizione borghese a Zogu, mettendosi a disposizione
dell’invasore.
Solo alcuni gruppi di intellettuali, di studenti ed
operai,
strade
nelle
di
Durazzo,
Skodra
ed
Argirocastro,
contrastavano eroicamente ed inutilmente l’invasore.
Fu una vivace resistenza che fece scrivere al Daily Telegraph:
“l’Albania ha parlato una lingua che l’Europa aveva perduto l’abitudine di
comprendere”. Altri intellettuali, durante il periodo di Zogu e del
colonialismo fascista, preferirono, come Giorgio Fishta, vendere
l’anima agli occupanti oppure si rifugiarono nella composizione di
poesie d’evasione. Mentre veri poeti come Migjeni fecero della poesia
uno strumento per combattere la corruzione e la servitù, per
Cassiano:La collina del prete
36
promuovere l’elevazione morale e culturale e per annunziare una
società nuova.
Il Tocci – secondo quel ch’egli stesso scrive in un’opera inedita
– quando il mattino dell’8 aprile la sua casa “fu invasa da vecchi
amici…approfittai per convocare presso di me amici provati cui davo
l’incarico di fare propaganda acchè l’esercito italiano in marcia verso
Tirana fosse accolto – e cordialmente - come amico ed alleato…Verso
le ore dieci dello stesso mattino arrivò la prima truppa italiana, ma io
non mi mossi di casa…accolsi ben volentieri l’invito della Legazione
d’Italia che mi invitava ad un colloquio con Galeazzo Ciano. A questi
spiegai – presente Francesco Jacomoni – che consideravo la truppa
italiana come un’armata di fratelli liberatori per l’organizzazione della
nuova Albania e Jacomoni disse a Ciano: “Tocci è l’unico amico
albanese che stanotte si è ricordato di noi e che ci ha mandato anche
dell’aiuto…
E mi parve che Ciano accogliesse la comunicazione quasi con
un senso di ammirazione e riconoscenza. Indi mi disse: “Sentite,
Tocci: preparatemi subito la lista del nuovo ministero” – al che
risposi: “stamattina non è possibile essendo stanco morto da tre notti
di veglia. In secondo luogo ho bisogno di consultare gli amici. Ma
domani l’avrete immancabilmente. Intanto tengo a dirvi che se non si
farà opera di moralizzazione e di rigenerazione, io mi metterò da
parte”.
Com’è assai chiaro ed evidente, tale comportamento di
sottomissione
e
di
adesione
alle
ragioni
dell’occupatore
e
Cassiano:La collina del prete
37
dell’invasore del proprio Paese non è affatto conciliabile con lo spirito
del mazzinianesimo e del garibaldinismo e neppure col buonsenso e,
naturalmente, con la salvaguardia dell’indipendenza nazionale.
Quanto all’annessione dell’Albania all’Italia, la figlia scrive:
“mio padre accettò come un lieto destino l’allontanamento di re
Zog…E salutò con riservato ottimismo l’unione delle due corone
perché, diceva, solo seguendo l’antica via dell’Italia, l’Albania poteva
trovare il suo benessere e la sua pace. Mia madre, invece, la pensava
diversamente. Infatti, diceva: “ meglio un mediocre re albanese che
un ottimo re straniero”. E così la pensavano tutti quegli Albanesi,
preoccupati e addolorati per la perdita dell’indipendenza.
Tuttavia, si deve rimarcare che anche gruppi di italo-albanesi la
pensavano allo stesso modo del Tocci: podestà e singoli cittadini –
senza esserne in alcun modo obbligati - inviarono al governo
telegrammi di felicitazioni.
Tra questi merita di essere ricordato il telegramma che il poeta
Salvatore Braile di S. Demetrio Corone inviò a Mussolini in data 12
aprile 1939, redatto in termini di smaccata retorica e di adulazione:
“Amatissimo Duce, comandato insegnamento lingua italiana glorioso
Seminario Francescano Scutari improvviso selvaggio irrompere
Albania
soldataglia serba capitanata venduto sanguinario Ahmet Zogu scampai
miracolosamente morte rifugiandomi consolato italiano seguì decennale
regno terrore Viva Duce Italia imperiale che novello San Giorgio ha liberato
Albania dal drago divoratore e che libererà presto mondo dalla rozza idra
bolscevica. Salvatore Braile insegnante italo-albanese”.
Cassiano:La collina del prete
38
Oggi, dal Diario di Ciano, apprendiamo che le dichiarazioni
ufficiali che, a parole, garantivano l’indipendenza, erano solo
strumentali: “Ho soprattutto successo – scrive Ciano - quando assicuro
che la decisione non intacca né formalmente né sostanzialmente
l’indipendenza albanese. Successo, beninteso, nella massa, perché vidi gli
occhi di alcuni patrioti arrossarsi e le lacrime scorrere sui volti. L’Albania
indipendente non è più”.
Nel 1940, quando – come scrive la figlia - vi erano ormai
“abbastanza prove per convincersi di quel che il Fascismo stava
facendo dell’Albania: non fusione di due popoli, non collaborazione,
ma asservimento, snazionalizzazione ed accantonamento dello
Statuto”, il Tocci accettò di collaborare apertamente e attivamente con
gli
occupatori,
presiedendo
il
Consiglio
Superiore
Fascista
Corporativo, corrispondente all’italiana Camera dei Fasci e delle
Corporazioni.
Egli non si rese conto della forte opposizione popolare, che
andava maturando contro gli invasori, neppure quando l’operaio
albanese Basil Laci attentò al re d’Italia.
Con la costituzione del Fronte di Liberazione Nazionale, nella
Conferenza di Peza del 1942, nasceva un organismo di massa, aperto
a tutti e subito appariva, assai chiaramente, che esso era l’unico e
legittimo detentore del potere politico, che lottava contro gli
occupanti ed i collaborazionisti. Incominciarono gli atti di sabotaggio,
le imboscate, gli attacchi ai presidi militari. Finalmente, dopo secoli di
dominazione straniera e dopo essere stato governato da un gruppo
Cassiano:La collina del prete
39
dirigente che aveva voluto ed accettato l’annessione, svendendo la
libertà e l’indipendenza nazionale, il popolo albanese si appropriava
del proprio paese e del proprio destino.
A questo punto, il Tocci si rivolge ufficialmente alla
Luogotenenza per evidenziare “che il fratricidio ci avrebbe sterminati,
che occorrevano misure che punissero i ladrocini e gli abusi, che una
distensione degli animi in rivolta poteva essere ottenuta con giustizia
e nuovi sistemi amministrativi, poiché gli abusi erano ormai
un
sistema del regime, che gli avversari dovevano essere perseguitati
legalmente e non con torture; che, pertanto, non era possibile per me
proseguire
nelle mie funzioni di Presidente della Camera
Corporativa in tale situazione…mi si disse che il mio ritiro sarebbe
stato interpretato come una manifestazione antifascista”. Dopo alcuni
giorni, il Tocci apprese dalla radio delle sue dimissioni.
Cassiano:La collina del prete
40
V
Ai primi del settembre 1943, gli italiani abbandonarono Tirana.
Le truppe tedesche occuparono l’Albania. La lotta partigiana andò
mano a mano intensificandosi fino a riuscire a conquistare la capitale.
Allora, il Tocci si ricorda delle sue origini mazziniane e repubblicane.
Convoca alcuni amici e consiglia loro di costituire un “Partito
Repubblicano Popolare Albanese” con alcuni precisi obiettivi
programmatici: dare vita alla Repubblica a suffragio universale;
“riforma agraria portata fino all’osso in base al principio che nessuno
possa possedere terre se non le coltiva direttamente; limitazione della
ricchezza nei possessi urbani; assistenza massima alla classe agricola;
libertà completa di stampa, di parola e di organizzazione”.
Ma era troppo tardi. Altre forze politiche ormai guidavano il
Paese nel tentativo di strapparlo dal buio di un medioevo in ritardo.
Conservatori e reazionari – tra i quali era schierato il Tocci abbattendo il governo democratico e sostenendo la dittatura di Zogu,
avevano mantenuto l’Albania nell’arretratezza ed, infine, le avevano
fatta perdere l’indipendenza, facendola precipitare nell’asservimento
coloniale. Non meno equivoco era stato l’atteggiamento della maggior
parte dei rappresentanti delle confessioni religiose, qualcuno dei quali
– come il francescano p. Anton Harapi – arrivò sino al punto di fare
parte del governo fantoccio e collaborazionista durante l’occupazione
tedesca.
Terenzio Tocci fu arrestato il 17 novembre 1944. Il processo,
celebrato davanti al Tribunale del Popolo, che teneva le sue sedute
Cassiano:La collina del prete
41
nella sala del cinema “Savoia” di Tirana, si protrasse a lungo. Si
difese vigorosamente, com’era, del resto, nel suo carattere, fatto di
impeti e di passione. Fece appello al suo passato di patriota ed alle
tradizioni della sua famiglia – come si apprende dagli appunti per
l’autodifesa, pubblicati dalla figlia.
“Un giorno – disse – la storia, quando sarà pubblicato il mio
libro Mezzo secolo di vita balcanica, dovrà darmi un posto nel
Risorgimento Nazionale, per le opere politiche e scientifiche, per la
rivoluzione del 1911 contro i Turchi, per la prigionia e l’internamento
che ho patito, ma non desidero essere ricordato se per la nera
misconoscenza e la grande ingiustizia di taluni, si possa sospettare
capace di alto tradimento e svergognarmi in vecchiaia come
strumento in danno dei popoli e soprattutto del nostro popolo! Nel
1898, ho fondato a Cosenza il Circolo repubblicano popolare e a
Scutari nel 1920 ho capeggiato la Società del Lavoro”.
Una delle accuse era quella di avere avuto rapporti d’intesa con
i fascisti per l’occupazione dell’Albania. Egli sostenne, contro ogni
evidenza, l’infondatezza del capo di accusa, invocando in suo favore
lo stato di necessità per avere tentato di salvare l’Albania da una
sicura snazionalizzazione.
“Il re fuggì col governo, la gendarmeria si sciolse, l’esercito
scomparve, gli impiegati si misero agli ordini di quelli che alcuni
chiamarono invasori ed altri liberatori; la massa, in parte dispiaciuta,
in parte spinta dalla fame di pane e dalla sete di giustizia, aspettò il
Cassiano:La collina del prete
42
fascismo con entusiasmo, cosicchè coloro i quali non si sottomisero,
formarono una eccezione e molti di loro subirono persecuzioni”.
Ma l’esistenza dello stato di necessità non si giustificava con la
volontaria sottomissione all’occupatore. Tocci non fu costretto ad
accettare l’occupatore ed a collaborare con esso. La resistenza contro
l’invasione, pur debole ed impari nella prima fase, dimostrava che
non tutto il popolo era pronto e disposto alla sottomissione allo
straniero, ma vi reagiva, anche con le armi, mettendo a repentaglio la
propria pelle, tanto da suscitare l’ammirazione, espressa dalla libera
stampa estera.
E questi erano i veri e gli unici patrioti che coraggiosamente
salvavano
l’onore
del
popolo
albanese
ed
il
suo
diritto
all’indipendenza. Del resto, lo stesso ministro degli esteri italiano,
Galeazzo Ciano, era costretto a prendere atto che non tutti i “patrioti”
erano disposti a credere alla bella favola della collaborazione fra le
due sponde dell’Adriatico.
Venendo alla giustificazione del proprio comportamento cercò
di farlo passare come l’estrinsecazione di una inammissibile ed
inconsistente “dissimulazione onesta”: “allora io pensavo che non
rimaneva altro che rispondere alle forze brutali con sottigliezza
mentale e con il tentativo di mettere l’Italia fascista con le spalle al
muro, cioè ricordando all’Italia che uno Stato di 45 milioni di abitanti
si getterebbe nel fango della vergogna, se fosse risultato sleale,
offendendo e calpestando un popolo nobile e piccolo come
l’albanese…E,
nello
stordimento
generale,
quando
tutti
si
Cassiano:La collina del prete
43
rallegravano in promozioni, nomine, decorazioni, io operai con
coraggio garibaldino ed iniziai fin dal 1° aprile 1939 le mie
proteste…Di nuovo il 15 aprile, in giugno, in ottobre del ’39, ho
puntato i miei piedi affinchè i fascisti rispettassero i diritti del popolo
albanese. E questa campagna l’ho svolta con lettere, conversazioni con
Mussolini, Ciano, Jacomoni, ed altri e ho continuato su questa linea
da privato e da alto funzionario, finchè ho potuto, sforzandomi con
tutta l’anima e non ascoltando le minacce del Comando dei
Carabinieri che, con ostinazione, voleva il mio internamento inItalia”.
Ma, se fin dall’aprile del 1939 e, cioè, proprio subito dopo
l’occupazione, aveva “puntato i piedi” nei confronti dei fascisti, non si
giustifica e non si spiega il motivo dell’accettazione dagli occupatori
fascisti dell’offerta della Presidenza del Consiglio
Superiore
Corporativo Fascista, che era sicuramente una carica pubblica che lo
poneva all’apice della dirigenza filo-italiana e gli dava grande
visibilità,
ma
inevitabilmente
lo
contrassegnava
come
collaborazionista.
Se reale fosse stato il suo dissenso e vere le sue pretese riserve
mentali, non avrebbe dovuto, alla guida della delegazione albanese,
nel maggio 1940, recarsi al Quirinale, a rendere l’omaggio dovuto a
Vittorio Emnuele III, nella nuova veste di “re d’Albania”.
Voleva dimostrare che la sua condotta non era penalmente
rilevante e reprimibile perché aveva agito in stato di necessità
nell’interesse generale della Nazione. Assumeva che tale circostanza
era ignorata da persone che non erano a conoscenza dei fatti nella
Cassiano:La collina del prete
44
loro effettiva evoluzione e trascurata da chi era “avvelenato da un
odio cieco”, ma che doveva essere presa in considerazione “da
persone come Voi – continuò, rivolgendosi ai Giudici nel tentativo di
captarne la benevolenza - che hanno deciso di fare opera edificatrice
e che a tal fine hanno offerto la vita…
Perciò, una rivoluzione grandiosa, vittoriosa come la vostra,
che ha dato alla gioventù un nuovo respiro, che creando una nuova
atmosfera, ha sotterrato il feudalesimo, piaga di questo povero
popolo, ora si fermi e stenda la mano ai principi del diritto
naturale…”.
Si tratta di concetti forti e, nello stesso tempo, in contrasto con
il suo recente passato. Se la “rivoluzione grandiosa” aveva sotterrato
il passato oscurantista, egli che aveva operato in quel passato e ne era
stato parte attiva o, comunque, uno degli attori, implicitamente se ne
dichiarava responsabile e, di conseguenza, non gli restava che
invocare la magnanimità dei vincitori, che si erano resi benemeriti
della Nazione per averle aperto una valida prospettiva di progresso e
di ammodernamento, contestualmente distruggendo le arcaiche e
feudali strutture.
Affrontando il tema del suo collaborazionismo con l’invasore,
sostenne, contro ogni evidenza, l’assenza di malafede da parte sua
come se vi fosse stato costretto con la forza.
Anche l’accusa circa la dichiarazione di guerra avrebbe dovuto
essere considerata priva di fondamento perché l’Albania era tenuta a
seguire la politica dell’Italia fascista, alla quale era legata da un patto
Cassiano:La collina del prete
45
internazionale in vigore. Per conseguenza, “avendo noi un legame col
popolo italiano, e questo vincolo non essendo mai stato né denunciato
né svalutato, la legge relativa alla guerra (che doveva essere una
colpa) non era altro che un atto che mandava in vigore la legge
stessa”.
Ma chi aveva consentito alla perdita dell’indipendenza
nazionale coll’asservire il proprio Paese al dominio coloniale,
evidentemente ne aveva accettato tutte le conseguenze e non poteva
non rendersene conto ed assumerne le responsabilità conseguenti.
Quanto all’accusa
relativa alla pubblicazione, nel 1928, dei
discorsi di Mussolini, come prova di collaborazionismo, portò, a sua
difesa, le lodi della stampa del tempo, aggiungendo anche di avere
avuto come scopo “l’amore per la Patria, la moralizzazione e
l’elevazione dei popoli”.
Relativamente
all’altro
capo
d’imputazione
riguardante
l’accettazione della Presidenza della Camera Corporativa, ribadì che
la sua scelta era stata fatta nell’interesse della Nazione per salvare il
salvabile: “questa era la nostra ideologia che ci era imposta dai fatti,
questa era una politica che aveva per scopo la salvezza dell’Albania
nel caso che l’asse italo-tedesco avesse vinto la guerra…quando persi
la speranza che la politica fascista poteva prendere la retta via,
nell’agosto del 1942, feci a Roma l’ultimo passo, con l’affettuosa
collaborazione del generale Ricciotti Garibaldi…debbo ricordare che
egli – Ricciotti Garibaldi – ed io, fin dalla primavera del 1942, ci siamo
Cassiano:La collina del prete
46
impegnati per una insurrezione contro il fascismo, unendo il nostro
popolo all’esercito italiano”.
Era una giustificazione scarsamente plausibile perché voleva
significare che, finchè reggeva il regime coloniale fascista, imposto
dall’occupazione, non si poteva fare altro che cercare di salvarsi
all’interno di quel sistema, “imposto dai fatti”, accettando, quindi,
l’invasione
paralogismo,
straniera.
un
All’evidenza,
marchingegno
era
un
logico-giuridico
inammissibile
senza
alcun
fondamento reale e . soprattutto – inaccettabile sotto il profilo morale,
che si poneva in contrasto con la Resistenza, con la sollevazione
popolare, la quale, invece, concretamente stava a dimostrare che era
pur possibile la non accettazione della servitù verso lo straniero, che
era la vera “ideologia imposta dai fatti”.
Ed era, pertanto, inevitabile che tale scelta volontaria di
collaborare, in posti di alta responsabilità, con lo straniero occupante
sembrasse al Tribunale evidentemente inconciliabile con l’invocato
stato di necessità. Egli stesso ne doveva essere convinto se, in via
subordinata, invocò dal Tribunale l’applicazione dell’amnistìa: “Che
io sia nella verità lo dimostrano gli stessi organi della Giustizia del
Popolo, poiché la Grazia l’hanno applicata a persone diverse che
hanno collaborato con l’occupazione fino all’ultima ora, anzi
passando dalle file fasciste a quelle naziste. Perciò l’amnistìa ha avuto
ampia interpretazione ed applicazione”.
Si rese conto il Tocci di trovarsi in “un grande disagio” perché
“la disgrazia maggiore è questa: se parlerete con alcuni imperialisti
Cassiano:La collina del prete
47
impazziti ed ignoranti d’Italia, vedrete che io sono un traditore perché
onoro e amo l’Albania, se invece parlerete con alcuni albanesi che non
mi conoscono o che non sono nella condizione intellettuale di capirmi,
sono di nuovo in colpa, perché onoro e amo l’Italia del Risorgimento,
di Mazzini, di Garibaldi, della fratellanza dei Popoli”.
Il tribunale del popolo pronunziò sentenza di morte per
fucilazione, che venne eseguita alle ore 19 del 14 aprile 1945, in via
Dibra vecchia, nella Collina del Prete, alla periferia di Tirana
Ma questo tragico epilogo, probabilmente, non scioglie tutti i
nodi di una personalità complessa e tormentata, come quella del
Tocci. Sicuramente accolse le truppe italiane come liberatrici,
collaborò col fascismo rivestendo cariche di alta responsabilità, come
la presidenza del Supremo Consiglio Corporativo ed in tale veste,
guidò i notabili albanesi ad omaggiare, nel maggio del 1940, Vittorio
Emanuele III, il nuovo re degli Albanesi.
Non è revocabile in dubbio che si tratta di una grave
responsabilità politica. D’altra parte, non si può sottacere che
effettivamente protestò per talune azioni di rappresaglia, per i metodi
illegali di persecuzione degli oppositori, per l’imperante corruzione e
per il disfacimento dello Stato di diritto.
Era questa, però, una critica all’interno del regime, destinata ad
essere – come, in effetti, fu – inefficace e, come gli avvenimenti
dimostrarono, neppure presa in considerazione, dannosa solo per lui
perché lo poneva in sospetto dei gruppi dirigenti collaborazionisti e
neppure lo salvava dal giusto risentimento e dalla diffidenza, se non
Cassiano:La collina del prete
48
dal disprezzo, degli oppositori. Forse, se il processo fosse stato
celebrato in un altro contesto storico, i giudici avrebbero potuto
riconoscergli – com’è avvenuto in tanti casi nel dopo-guerra – quelle
attenuanti, che lo avrebbero sottratto dalla condanna capitale o,
addirittura, applicargli quell’amnistìa invocata.
Né, in un periodo di così gravi e repentini sconvolgimenti era
facile e agevole la distinzione tra il suo presentarsi ed apparire come
uno dei massimi dirigenti ed il suo interno tormento, che lo portava al
rispetto della legalità e dei principi morali. E questo era anche il suo
grave limite, che lo caratterizzò per tutta la vita. Era in lui come una
sorta di duplice personalità: si accendeva improvvisamente per un
qualche progetto politico e, poi, andava gradualmente spegnendosi
fino all’abbandono, non appena ne prendeva coscienza delle difficoltà
di attuazione.
E tale parabola di entusiasmi improvvisi e di cadute, altrettanto
improvvise ed ingiustificabili razionalmente, la si vide
quando
sostenne l’ascesa al trono albanese del principe egiziano Fuad, o di un
Savoia o del principe Guglielmo di Wied e, poi, conosciuto Zogu, si
accese di lui, per successivamente metterlo da parte per ritornare alla
romantica illusione che la salvezza dell’Albania stava solo nella
politica di solidarietà con l’Italia fascista. E, infine, quasi alla vigilia
della tragica morte, ritornò alle sue origini democratiche e
repubblicane, consigliando i suoi amici di dare vita a quel Partito
Repubblicano con un vasto progetto di riforme sociali ed economiche
che egli forse avrebbe voluto fondare.
Cassiano:La collina del prete
49
Era come il fare ammenda di tutto un tumultuoso passato di
errori e di vaneggiamenti, di cui non si poteva sentire appagato
perché, nei fatti, doveva avvertire di non avere conquistato nella
storia quel posto e quella onorata collocazione che avrebbe voluto. Ne
sentiva il grande “disagio” dal momento che si rendeva conto – come
si apprende dagli appunti per la difesa, resi noti dalla figlia Rita – che
avrebbe potuto essere considerato “traditore” sia dagli italiani che
dagli albanesi.
La sua umana avventura, anche
se attraversata da molte
ombre e poca luce, merita di essere tolta dall’oblìo della storia non
foss’altro che per comprendere attraverso quali meccanismi e quali
oscure spinte un figlio della piccola borghesia rurale di un villaggio
calabro-albanese, che aveva fatto un rapido noviziato politico nella
democrazia massonico-repubblicana, ai primi dello scorso secolo, fu
spinto in un ambiente, certamente arretrato, come quello albanese,
restandone schiacciato e come disperso, la cui memoria venne espulsa
anche nella sua località d’origine con, del resto, giustificato fastidio.
Cassiano:La collina del prete
50
VI
La recente pubblicazione del saggio di Francesco Caccamo
(Odissea Arbereshe – Terenzio Tocci tra Italia e Albania, ed. Rubbettino,
2012) più che una riabilitazione politica,
vuole essere – ed
effettivamente è – una “riscoperta storica” di un singolare
personaggio che, pure se con le “sue luci e anche con le sue ombre”,
occupa un qualche spazio nella
storia “non solo albanese, ma
anche arberesh, italiana, in definitiva “adriatica”.
La ricerca storica è avvalorata dal risultato del minuzioso scavo
di archivio che illumina – suggerendone ulteriori approfondimenti singoli aspetti della vita del Tocci, finora rimasti sconosciuti o come in
ombra, nascosti dal tentativo di scrivere una cronaca pedestremente
apologetica
del personaggio. Neppure le pagine di Rita Tocci
(Terenzio Tocco, mio padre (Ricordi e Pensieri), Corigliano Calabro, 1977),
anche se giustificate dall’affetto filiale, offrono tanta sciatta e
maldestra apologia come quelle di certi scrittorelli che vorrebbero, per
ragioni strettamente politiche, erigere un monumento alla figura del
Tocci, riscattandone la damnatio memoriae, ed, invece, creano solo
danno e confusione.
Solo l’oggettiva ricerca delle fonti – come ha fatto il Caccamo –
può essere di aiuto nella comprensione del personaggio, non
complessivamente, cosa, del resto, impossibile per le esperienze
diverse, vissute dal Tocci, a partire dalla gioventù romantica ed
avventurosa, per passare, poi, dopo la fine della prima guerra
Cassiano:La collina del prete
51
mondiale, all’amicizia con Zogu ed al ritorno in Albania al servizio di
quest’ultimo, all’occupazione fascista ed alla sua tragica fine. Ove ben
si analizzino tali singoli aspetti, ci si rende conto che ci troviamo in
presenza di momenti diversi, a volte in contrasto tra di loro per
l’impostazione programmatica e per le opposte finalità.
Preliminarmente, mi corre l’obbligo di sottolineare che, tra il
Tocci e gli arbresh di Calabria, in modo particolare della provincia di
Cosenza, non v’è uno stretto legame. Il Tocci, in effetti, gradualmente,
si estraneò dalla comunità, ov’era nato, per dedicarsi al suo lavoro in
Albania e neppure si ha ricordo di sue visite ufficiali. Né agli Albanesi
di Calabria interessavano più di tanto le ingarbugliate vicende
skipetare.
Dopo secoli dal loro insediamento tra il declinare del secolo XV
e gli inizi del secolo seguente, le popolazioni albanofone della
Calabria settentrionale si dovevano considerare alla stregua del
“popolo minimo” calabrese o meridionale, in genere, del quale
condividevano le condizioni ed alla pari del quale subivano gli effetti
dell’arretratezza economica e del degrado sociale.
Dismesso il nomadismo, gli albanesi, nella stragrande
maggioranza, per lo più contadini ed altre minores gentes, si inserirono
nel tessuto sociale ed economico calabrese, senza farsi assimilare, ma
con esse si integrarono e gradualmente rafforzarono l’integrazione
mediante scambi di merce, parentele, rapporti di amicizia, di
comparatici e di lavoro. Diverso per pratica religiosa dalle
popolazioni indigene, il contadino arbresh non differiva in nulla
Cassiano:La collina del prete
52
dall’omologo calabrese. Anche i casali arbresh non erano diversi da
quelli calabresi per organizzazione architettonica.
Allo stato, non è possibile neppure ipotizzare una sostanziale
differenziazione
tra le popolazioni calabresi autoctone e quelle
albanesi sopraggiunte né con riferimento ai mestieri, né in relazione
all’organizzazione
ed alla struttura economica, all’organizzazione
della famiglia ed alla distinzione fra classi sociali ed alla ripartizione
delle ricchezze. Non sussiste, pertanto, una specifica diversità
arbreshe. Ciò perché la formazione culturale delle popolazioni
arbresh ed, in modo particolare, dei loro gruppi dirigenti è
essenzialmente italiana, europea, occidentale. E questo è il loro
mondo. Né potrebbe essere diversamente, essendo nate in Italia,
avendo quivi frequentato le istituzioni pedagogiche e culturali ed
assorbito l’humus culturale italiano o, meglio, calabrese e meridionale.
Invero, si ha l’impressione che, in Tocci, sia posticcia la
lacerazione della sua identità, quella arbresh diversa da quella
italiana, l’essere, cioè, preso da due mondi diversi. Tanto non era
stato possibile, per la verità, in casi di assoluta rilevanza: in Crispi e
Gramsci. Quest’ultimo, in una delle lettere dal carcere, esprime un
concetto ovvio e indiscutibile: L’essere io oriundo albanese non fu messo
in giuoco perché anche Crispi era albanese, educato in un collegio albanese e
parlava albanese.
Tutta quella retorica che si manifestava nei cosiddetti
Congressi italo-albanesi e la pubblicistica in italiano ed in arbresh non
toccavano per nulla la popolazione, in genere, analfabeta, costretta a
Cassiano:La collina del prete
53
sbarcare il lunario in condizioni di estrema precarietà e, proprio per
tale motivo, spinta ad una emigrazione transoceanica di carattere
biblico. Le avventure del Tocci, oltre Adriatico, non interessavano
nessuno nel piccolo mondo arbresh. Nessuno degli intellettuali di
origine arbresh, che aveva raggiunto una consolidata posizione
professionale, aderì all’invito del Tocci di recarsi in Albania. La loro
era una patria poetica, ideale, e non l’Albania, teatro dello scontro
delle varie tribù, all’interno, e oggetto di egemonia fra le grandi
potenze dell’epoca. E tale concetto è bene espresso nella lettera –
riportata nel saggio di F. Caccamo (pag. 117) - dell’avvocato Cosmo
Serembe, persona di elevata cultura, che esercitava la professione
legale a Milano, nella quale scriveva di avere “sempre sognato l’Albania
di Scanderbech” e non quella reale del tempo che “è ben altra cosa e mi
farebbe troppo soffrire spiritualmente”.
Di ben altro spessore si appalesa l’impegno culturale
dell’arbresh Costantino Mortati che, giovane studente liceale in S.
Adriano ai primi del secolo scorso, dalle pagine del periodico
studentesco, denuncia, sollecitando i lavoratori calabresi a prenderne
coscienza, le condizioni di servitù della classe lavoratrice, costretta a
vivere “la vita dei bruti, curve le fronti sotto la parca legge della
fame…il capitalista vi può impunemente sfruttare rubandovi una
parte del vostro salario…può gettarvi sul lastrico costringendovi fra il
delitto ed il morire d’inedia”. Perciò i lavoratori debbono associarsi.
La sola associazione è lo strumento primario ed imprescindibile della
loro emancipazione.
Cassiano:La collina del prete
54
Ma non è sufficiente. Occorrono, in più, l’istruzione e
l’educazione, in mancanza delle quali essi non possono diventare
coscienti dei loro diritti e, per conseguenza, “non potete ottenere
quella partecipazione alla vita pubblica, senza la quale non riuscirete
ad emanciparvi”. In queste tesi giovanili si ritrovano in nuce i princìpi
fondamentali di lavoro, libertà, giustizia ed uguaglianza, che il
costituzionalista
Mortati
porterà
all’attenzione
dell’Assemblea
Costituente e saranno le idee fondanti e basilari della Cosituzione
italiana.
Il giovane Tocci è su un’altra lunghezza d’onda. Espulso dal
Collegio di S. Adriano per motivi disciplinari, con un padre, clericale
sfegatato, che non gli era d’aiuto, costretto a trasferirsi a Cosenza per
finirvi gli studi, si sentiva –come scrive a Felice Albani – un povero
studente che, per una serie di tristi casi…benché maturo di pensiero e d’età,
era in ritardo negli studi curriculari. I “tristi casi” erano le truffe,
subìte dal padre, che avevano ridotto al lumicino il patrimonio
immobiliare della famiglia, causando anche il ritardo negli studi.
A Cosenza, allora fervida di iniziative politiche e culturali, il
giovane Tocci – certamente sotto l’influenza del noto agitatore
mazziniano e massonico, Felice Albani – incomincia ad interessarsi di
politica militante, aderendo al partito repubblicano. Fu determinante
l’influenza del radicale Felice Albani, segretario del Partito Mazziniano
Italiano, che, in coerenza con il pensiero del Mazzini, rifacendosi agli
ideali di nazionalità e di lotta contro le dinastie, si faceva promotore,
nei Balcani, della liberazione delle nazionalità oppresse e, quindi,
Cassiano:La collina del prete
55
dell’indipendenza albanese; all’Albani si dovevano molte delle
iniziative e convegni, anche a carattere internazionale, al fine di tenere
vivo il carattere risorgimentale dell’intervento nei Balcani. Uno dei
più attivi comitati Pro Albania – quello di Ancona – faceva
direttamente capo alla Terza Italia, organo del Partito Mazziniano.
Francesco Caccamo, nel saggio in oggetto, meritoriamente e
per la prima volta, utilizzando fonti di prima mano, analizza
particolarmente e documentandolo con gli articoli del Tocci,
pubblicati su La Terza Italia, il graduale convergere del Tocci sul
problema dell’indipendenza albanese, in nome del principio di
nazionalità ed in opposizione alle tendenze slavofile e grecofile,
prevalenti in Italia, ed, in tale prospettiva, collegando alla causa
albanese quell’Italia popolare e progressista che avrebbe dovuto
soppiantare il conservatorismo dell’Italia ufficiale.
Era una battaglia ideale che il Tocci, dalle pagine de La Terza
Italia, conduceva sul fronte dell’opinione pubblica italiana e nei
confronti della Nazione Albanese, diretta da Anselmo Lorecchio,
sostenitrice di un graduale processo di emancipazione dell’Albania
fino al raggiungimento dell’autonomia all’interno dell’impero
ottomano, alla cui strategia opponeva l’insurrezione armata. Eccoci,
dunque, pervenuti al duce dell’insurrezione albanese, che il giornalista
russo Osorgin, nella sua corrispondenza da Podgoritza, giudicherà
“spavaldo” ed “ingenuo”, ma “troppo cattivo politico”.
Con l’appoggio dell’Albani, il Tocci che, nel frattempo,
conseguita finalmente la maturità classica, si era iscritto in
Cassiano:La collina del prete
56
giurisprudenza presso l’Università di Urbino, fa una rapida carriera
politica all’interno del Partito Mazziniano. Conosce
Ricciotti
Garibaldi, secondogenito dell’Eroe dei Due Mondi, sempre speranzoso
nell’indipendenza albanese che, nonostante un passato di delusioni,
aveva costituito all’uopo il Consiglio Albanese d’Italia, collegandolo alla
federazione dell’Italia irredenta; diventa amico del Maestro del
Grande Oriente d’Italia, lo scultore e pittore Ettore Ferrari, deputato
radicale, irredentista e della sinistra nazionalista, che gli promette
protezione e aiuto.
In tale contesto, strinse rapporti col patriota albanese del nord,
Nikolla Ivanaj, detto anche Ivanaj Bey, affiliato alla massoneria ed in
contatto con la dirigenza del Partito Mazziniano. Altri due scutarini
strinsero rapporti d’amicizia col Tocci, che in seguito, si riveleranno
assai utili: Filippo Kraja, dipendente di una società di navigazione, e
Giacomo Cocci, Jak Koci, in albanese, imprenditore di Scutari,
tessitore di oscure trame politiche, instancabile e principale
sostenitore di Ahmed Zogolli, il futuro re Zog, filo-italiano che, da
Trieste, sosteneva la necessità e l’utilità dell’ingerenza italiana nelle
vicende albanese. Jak Cocci, nell’immediato primo dopoguerra, fu il
principale interlocutore, per conto di Ahmed Zog, col governo
italiano nel negoziare i termini e le modalità dell’intervento italiano;
quando, alla fine degli anni trenta del ‘900, la politica di re Zog
sembrò cambiare registro, si offrì alle autorità italiane come sicario
per la sua eliminazione.
Cassiano:La collina del prete
57
Non è inutile sottolineare, ad integrazione sul punto del saggio
del Caccamo, che nell’Albania del Nord, particolarmente a Scutari,
era nata e si consolidava una corrente filo-italiana, che ipotizzava
l’intervento italiano alfine di contrastare la consistente espansione
dell’impero austro-ungarico, soprattutto sotto il profilo dell’egemonia
culturale. Ma che il governo italiano, proprio con lo scopo di
mantenere la sua influenza e di ulteriormente espanderla, nel 1900,
trasformò il Collegio di S. Adriano in S. Demetrio Corone in scuola
laica e internazionale, per accogliervi, con la concessione di borse di
studio gratuite, studenti di Giannina, Durazzo, Scutari, Vlora e di
ogni parte d’Albania, inviandovi come regio Commissario l’Ispettore
generale delle Scuole italiane all’estero, Angelo Scalabrini. E grande
fu il concorso degli studenti – sottolineano le cronache dell’epoca – e
grandissimo il credito della scuola di S. Adriano. Sicchè S. Demetrio si
vide popolata, oltre che dagli studenti accolti nel convitto, anche da
numerosi altri studenti esterni, provenienti dalle Puglie, dalle
Calabrie e dalla Basilicata.
Cassiano:La collina del prete
58
VII
Forse la improvvisa ed inaspettata decisione del Tocci di
partire per le impervie montane albanesi per collegarsi ai ribelli, senza
un previo concerto ed in assenza di una efficace organizzazione di
volontari, forniti di adeguati mezzi finanziari, avrebbe richiesto una
più analitica puntualizzazione in considerazione che quella decisione
era anche l’inizio di un destino, incerto ed avventuroso, che si sarebbe
concluso tragicamente di fronte al plotone d’esecuzione, nell’aprile
’45, nella cosiddetta Collina del Prete, alla periferia di Tirana. Quale era
la posizione politica del Tocci, quali erano i termini del suo accordo
con Ricciotti Garibaldi, con Felice Albani e con i suoi amici albanesi,
quale impulso lo spingeva così prepotentemente da trascinarlo in
un’avventura rischiosa senza collegamenti internazionali, posto che
avrebbe dovuto essere assai chiaro e di palmare evidenza che alla
questione albanese ed alla sistemazione dei Balcani erano interessate le
grandi potenze europee.
Né il Comitato italiano Pro Albania, nel quale convivevano
tendenze politiche diverse, avrebbe potuto essere considerato, già per
questo, uno strumento politico capace di guidare l’insurrezione, di
supportarla convenientemente con armi, munizioni e volontari, per il
cui trasporto nei luoghi della rivolta ovviamente occorrevano navi e
denaro. Erano del tutto carenti tali presupposti organizzativi
essenziali per dare inizio alle operazioni e per sostenerle nel seguito.
Quando si diffuse la notizia dell’insurrezione albanese contro i
Giovani Turchi – che, nonostante le promesse, non avevano dato, anzi,
Cassiano:La collina del prete
59
neppure avevano inteso dare corso all’autonomia dei distretti
albanesi nell’ambito dell’impero ottomano – Ricciotti Garibaldi,
vincendo le pregresse perplessità, lanciò un manifesto per dichiarare
che “il momento dell’azione è arrivato”. Al che pronte seguirono le
proteste austriache e quelle turche ed immediatamente il governo
italiano predispose tutte le misure opportune ad ogni e qualsiasi
iniziativa di raccolta e di partenza di eventuali volontari garibaldini
dai porti italiani.
Quali garanzie avrebbe potuto avere, quindi, il Tocci sul buon
esito del suo tentativo? Che cosa avrebbe potuto fare da solo o in
compagnia di quattro amici tra gente che neppure conosceva? Non
potendosi neppure procedere all’organizzazione di una spedizione, la
ragione politica o, meglio, il buon senso avrebbero dovuto
sconsigliare l’avventura, salvo che non si volesse porre in atto un bel
gesto rivoluzionario solo …nell’immaginazione.
Si giocava alla rivoluzione. Giovani laureati o studenti falliti
della piccola borghesia – come aveva sostenuto l’Osorgin nella sua
corrispondenza – si ergevano a guide e condottieri della rivolta;
“carini e limitati” erano, però, “troppo cattivi politici”, capaci solo di
fare un gran baccano.
Qualche anno prima, un colto e stimato intellettuale di Lungro
– Camillo Vaccaro - seriamente e concretamente impegnato
nell’educazione ed istruzione delle masse contadine analfabete,
aveva, con dati di fatto, severamente ammonito gli italo-albanesi dal
fare affidamento su Ricciotti Garibaldi e sul “guasconismo” di alcuni,
Cassiano:La collina del prete
60
affermando che “purtroppo fino a ieri noialtri albanesi su pei giornali
abbiamo ammazzato normalmente tre volte al giorno il Sultano ed
abbiamo redenta la madre patria altrettante volte; ma non abbiamo
saputo ammazzare in noi quel guasconismo donchisciottesco – indice
di debolezza – che ci permette di sognare, poveri di tutto, la soluzione
rapida dei più complicati problemi diplomatici, a colpi di frasi…”
Facendo richiamo alla lezione del Cuoco, evidenziava che “le masse –
e nol voglia l’idealismo convenzionale – non si muovono pel fulgore
lontano di idee sublimi, ma per interessi propri, vicini, tangibili e
sentiti.. ci vuole pazienza e, cresciuta che sia, i frutti non
mancheranno, e se ne potrà trarre anche, se il caso lo richieda, il
legname per l’asta di Achille”.
Questa lezione di realismo politico non era destinata a
fruttificare.
Nel marzo del 1911, Terenzio Tocci ruppe gli indugi e partì per
il Montenegro: aveva avuto la promessa da parte di Ricciotti
Garibaldi, che Felice Albani giudicava essere “un confusionario”, che
sarebbe intervenuto solo se richiesto da un governo provvisorio,
costituito dai capi della futura rivolta. Ma rimaneva da provvedere
sull’arruolamento dei volontari, il loro armamento, la ricerca delle
navi per assicurarne la partenza, la raccolta dei fondi e – non facile
ostacolo da superare – il tacito consenso del governo italiano. Nulla di
tutto questo era stato previsto ed organizzato.
Il vecchio, ormai quasi nonagenario, ex deputato e suo parente
Guglielmo Tocci lo dissuase dall’intraprendere una simile avventura
Cassiano:La collina del prete
61
in quelle condizioni, ricordandogli “il povero fratello mio morto da
eroe ma per una impresa che potea parere seria solo a un poeta come
Mauro ed un utopista come quel fiore di galantuomo senza pari qual
era il buon Ricciardi…ricordandomi questa ed altre eroiche
imprudenze che costarono vita e sangue prezioso, dal profondo del
cuore esprimo un voto ardente che fa non averti a rimanere vittima
nobile di fantasmi e ambizioni altrui”.
Filippo Kraja, dopo avere constatato che dai circoli garibaldini
e mazziniani, non arrivavano gli aiuti finanziari, gli consigliò e quasi
gli impose in termini realisti e crudi di soprassedere alla impresa che,
senza denaro, già appariva velleitaria e pericolosa. A Francesco
Caccamo dev’essere riconosciuto il merito di avere portato alla luce e
debitamente utilizzato tale interessante documentazione. “Per
realizzare utopie quali le tue bisogna che tutti siano ispirati dal
profondo dell’animo dell’ideale di patria”. Ma le tribù albanesi – gli
sottolineava il Kraja – non possiedono “se non in germe” questo
ideale. Per indurle alla insurrezione “ci vuole denaro. Ma dal
momento che non si dispone di mezzi, perché corriamo dietro a
chimere? Inutile la tua logica con me: non mi persuaderebbe la logica
di Demostene. Tu non conosci il paese nostro”. Ed il Kraja, per fare
capire l’importanza del denaro, gli spiegava che i capi-tribù albanesi
si garantivano il potere e la sicurezza arruolando dei mercenari,
pagati dalle venti alle trenta lire mensili. Questa era la prassi ed a
questa prassi bisognava attenersi per raggiungere qualche risultato
positivo. “Non per un ideale”- come pensava il Tocci – si era disposti
Cassiano:La collina del prete
62
a lottare, ma per denaro: “la maggior parte lascia la vita per una lira al
giorno”.
A queste premesse tutte negative vanno aggiunte le profonde
diversità di vedute di Ricciotti Garibaldi e di Felice Albani: il primo
tergiversava perché intendeva agire secondo la tradizione garibaldina
nel tentativo di ottenere anche il coinvolgimento tacito della
monarchia e del governo italiano; il secondo scalpitava perché,
decisamente avverso a tale progetto, si richiamava agli ideali di
nazionalità e di lotta alle dinastie, nel cui ambito andava inquadrato il
movimento dei repubblicani di aiutare le popolazioni albanesi a
riscattarsi dall’oppressione.
La conseguenza non poteva che essere una soltanto e, cioè,
quella di paralizzare l’azione del Comitato Pro Albania. Sicchè Tocci e
compagni furono abbandonati al loro destino; attaccarono, male
armati, la fortezza di Alessio, ma furono facilmente respinti e
dovettero rifugiarsi nel Montenegro, sperando inutilmente nell’aiuto
di quel Sovrano, il quale non aveva interesse alcuno nell’assecondare i
rivoltosi; in realtà, fingeva di avere a cuore la soluzione della questione
albanese, ma, nei fatti, tale simulazione era strumentale per il
raggiungimento di suoi fini particolari.
La fine ingloriosa di codesta avventura fu segnata – com’era
naturale - da aspre polemiche ed anche inimicizie personali tra il
Tocci e l’Albani ed il Garibaldi, i mazziniani e gli stessi patrioti
albanesi, qualcuno dei quali – Simon Doda – rivelò che la
dichiarazione di indipendenza del 27 aprile 1911 fu estorta col fare
Cassiano:La collina del prete
63
credere che si trattava di una richiesta di armi e munizioni,
indirizzata a Ricciotti Garibaldi ed al Comitato Pro Albania.
Il Tocci, intervistato dal Giornale d’Italia nel giugno 1911,
polemizzò con Ricciotti Garibaldi perché non gli aveva inviato alcun
aiuto né in armi e né in volontari, menò gran vanto delle sue gesta, si
autoproclamò “capo del governo provvisorio” che aveva accettato di
presiedere semplicemente per dovere “così come la necessità mi
imponeva e permetteva di farlo”, anche “se in quelle condizioni
poteva sembrare eroico e pazzesco”; criticò il governo italiano per non
essere “mai stato nemico all’italianità come in Albania” e per non
avere compreso “come il suo interesse collimi là con le più alte
idealità nazionali e umanitarie”.
Quando l’intervistatore gli chiede se era stato inviato in
Albania da Ricciotti Garibaldi, il Tocci lo nega recisamente,
affermando orgogliosamente di non essere stato e di non essere
“l’emissario di nessuno”. Ammette, però, di avere avuto “una piccola
sovvenzione dal Comitato di Garibaldi”, non trascurando di
aggiungere, per sminuirla, che
“essa non servì se non in parte
minima alle necessità della mia azione. Avevo per fortuna altro
denaro raccolto da vari amici o che era frutto dei miei personali
sacrifici”. Ammette di essersi recato “laggiù senza neppure una
lettera di raccomandazione” , ma di avere concepito “un disegno assai
chiaro” perché aveva maturato la convinzione “che all’insurrezione
albanese occorresse, quanto più presto si poteva improvvisarla,
un’organizzazione ferrea di poteri civili e militari la quale si
Cassiano:La collina del prete
accordasse
con
quelle
64
magnifiche
antichissime
tradizioni
nazionali…senza una tale organizzazione, agli albanesi sarebbe
mancata la possibilità di uno sforzo concorde fattivo…”. E “tale
organizzazione doveva consistere in un governo provvisorio investito
della somma dell’autorità e della responsabilità”, che Tocci afferma di
avere costituito dimostrandolo con l’esibizione “di un foglio di carta
protocollo con tre pagine vergate di parole misteriose tra le quali
ricorreva spesso il suo nome: in calce al posto della firma…le
rispettive impronte digitali” di alcuni notabili albanesi. Contro ogni
evidenza, parla dell’esistenza di un “governo provvisorio” che
“provvede al mantenimento dell’ordine e della disciplina e alla
organizzazione dei posti di guardia”, e della esistenza di un esercito
di “sessantamila uomini atti alle armi (che) ubbidiscono come un solo
soldato”.
Quel
“giovane
avvocato
milanese
senza
clientela,
repubblicano per convinzione, albanese per lontana parentela”, che il
giornalista russo, ma esule in Italia, Michele Osorgin, inviato in
Montenegro dal giornale Russkie Vedomosti, incontrò “fuggiasco” a
Podgoritza, aveva fatto tutto lui, perfino costituito un “governo
provvisorio”, che garantiva l’amministrazione della Mirdizia.
Osorgin si era recato in Albania ai primi di giugno del 1911 ed
aveva constatato che i Malissori, montanari cattolici, ai confini del
Montenegro, guidati dal patriota Isa Bolleti, si erano ribellati e benché
sostenuti sotterraneamente dal Montenegro, soprattutto per le
Cassiano:La collina del prete
65
pressioni delle grandi potenze, avevano deposto le armi non prima di
avere stipulato un accordo con i Turchi il 12 settembre 1911.
Il giornalista russo fu testimone del velleitario tentativo di
esponenti repubblicani italiani, quali Damiano Chiesa, Guido
Mazzocchi e Terenzio Tocci, di mettersi a capo di un vasto
movimento in tutta la Mirdizia, che si esaurì, come si è detto, nel giro
di poche settimane. Di fronte a tale inammissibile e pericolosa
guasconata, Osorgin ha parole di pesante sarcasmo nei confronti dei
nuovi Mille e del nuovo Garibaldi, che rischiavano, senza rendersene
conto, di scatenare pericolosi conflitti fra le grandi potenze, con il loro
forsennato nazionalismo e l’aggressivo irredentismo, di cui si faceva
portatore il Tocci, il Tartarin alla caccia dei leoni turchi, il governatore
immaginario quanto provvisorio dell’Albania, catalogato in quel genere di
oppositori italiani, che menano molto rumore e si ripromettono di
“dare una bella scossa al Paese” per farlo filare diritto.
Aveva ragione Michele Osorgin. In Tocci e negli altri, più che il
solidarismo internazionale mazziniano, era possibile riscontrare la
prevalenza di spinte nazionalistiche, di quel tipo di nazionalismo
nostrano, provinciale, declamatorio e retorico ed, in fondo,
inconcludente.
Cassiano:La collina del prete
66
VIII
L’incontro con Zog, a Roma, e la successiva collaborazione con
lo stesso – determinante per la carriera politica del Tocci in Albania –
è acutamente analizzato nel saggio di Francesco Caccamo che non
trascura dall’evidenziarne tutti i risvolti particolari. Si fa piena luce
dell’attività del Tocci subito dopo la conclusione della prima guerra
mondiale.
Al fine di ottenere di potere rientrare a Scutari, in
memorandum ed istanze al Ministero degli esteri ed allo stesso
governo italiano, si dichiara favorevole alla linea di politica estera
italiana, non esistendo, a suo parere, “inconciliabilità di vedute” tra
l’Italia e l’Albania. Arriva fino al punto di fare intravedere la
possibilità dell’ascesa al trono albanese di un principe di casa Savoia,
“il
che
costituirebbe
la
maggiore
garanzia
della
fraternità
italo.albanese ed allontanerebbe per sempre ogni disordine ed anche
gli intrighi di nemici comuni”.
Non si può fare a meno di osservare come il Tocci, partito
repubblicano con spinte e velleità libertarie, non conosca il principio
di non contraddizione e riesca, con leggerezza e con apparente
convinzione, ad adattarsi alla realtà politica in movimento,
adeguandovi le sue mutevoli convinzioni. Non stupisce che in un
documento del Ministero degli Esteri del 28 luglio 1919, forse per
questa disinvolta capacità di adattamento, sia qualificato di
“mediocre capacità”.
Cassiano:La collina del prete
67
Intanto, la politica estera italiana seguiva, nelle trattative a
Parigi, la sua linea tradizionale, che era quella di procurarsi uno
spazio nell’Adriatico, com’era del resto consacrato nel Patto di
Londra, anche sacrificando parte del territorio albanese in favore della
Grecia e della Jugoslavia.
A questo punto, nel momento in cui il congresso panalbanese
di Lushnja si pronunziò contro ogni forma di protettorato e quando
sembrava che il giovane Zog o Zogolli dovesse capeggiare un
movimento militare antitaliano, il Tocci si schierò dalla parte
albanese.
Egli era veramente preso tra due fuochi e, cioè, il suo essere
italiano per nascita, cultura, formazione, ed il volersi sentire albanese.
Non riusciva a sciogliere i nodi di questo intricato rapporto. La
soluzione del quale poteva essere l’antico e romantico concetto dei
due popoli affratellati o delle due nazioni sorelle. Ma altra, più dura e
stringente, era la realtà della politica nazionale, della quale
evidentemente il Tocci “italiano” non voleva o non poteva prendere
atto, se non a pezzo di tagliare, di negare o di fare tacere la parte
italiana, che era in lui.
Giudicava – nel suo opuscolo Italia ed Albania – che tutta la
politica italiana in Albania, sin dal 1913, era stata frutto di errori, di
contraddizioni, priva di umanità, frutto di menzogne. Non se ne
accorgeva che, invece, era stata sempre la stessa, avendo sempre
perseguito un progetto di egemonia per garantirsi nell’Adriatico.
Riteneva che, stando ai pregressi rapporti, non v’erano alternative che
Cassiano:La collina del prete
68
o “una eterna guerra coloniale” oppure
l’ipotesi – che egli
naturalmente prediligeva – “di un’Italia ed Albania associate, alleate
da buone e fedeli sorelle, di cui la maggiore sorregge la minore,
rispettandone e facendone rispettare l’unità, l’indipendenza, la
completa sovranità territoriale”. Ma tale concezione, astratta e fuori
dalla realtà, - come le evenienze rudi e reali dimostravano - era tipica
di un poeta della politica.
Da una analisi, anche approssimativa della sua vicenda
politica anche durante il regime di Zog e durante l’occupazione
italiana, si vede chiaramente che la sua condotta oscilla tra i due poli
di riferimento, non agevolmente conciliabili, e, cioè, tra il suo essere
italiano ed il suo voler essere albanese. Quando Zog, infatti, tentò di
scostarsi dalla politica filo-italiana, Tocci incominciò a sganciarsi da
lui; fu allora che pubblicò una Grammatica della lingua italiana senza
maestro, tradusse e pubblicò Il Cuore di Edmondo De Amicis ed
un’antologia degli scritti e dei discorsi di Mussolini sotto il titolo di
Fashizmi: biseda e shkrime te B. Mussolini-t, certamente indubbia
esaltazione della personalità del dittatore italiano, ma che rispondeva
alla sua idea o, meglio, alla illusione che l’Italia, come sorella
maggiore, doveva garantire l’indipendenza della sorella minore,
Albania, particolarmente nel momento in cui si consolidava il potere
mussoliniano.
Alla fine degli anni trenta del ‘900, dopo un periodo non breve
di allontanamento dalla politica e di esercizio della professione
forense,
quando
Zog
sembrò
privilegiare
una
politica
di
Cassiano:La collina del prete
69
collaborazione con l’Italia, Tocci, nel 1938, assunse le redini del
ministero dell’Economia, si prodigò per il consolidamento dell’intesa
con l’Italia fascista, ciecamente convinto che “soltanto il ben avviato
ritorno di Roma a Maestra delle genti ci porterà alla Universalità
plasmata dal genio del “Dittatore Perpetuo” e che “per l’Italia fascista
è un dovere rigenerare un popolo…tanto più che il rinnovamento
albanese dovrà avere altri sviluppi nel futuro, utili ad entrambe le
nazioni”.
Ma questa, a ben considerare, poteva essere l’ideologia della
contingenza, suggerita dai fatti ed imposta, anzi, dalla momentanea
supremazia della “Roma imperiale”, alla quale evidentemente il Tocci
si adeguava, ritenendo di non avere altre scelte. Ma, in precedenza,
per esempio durante la campagna elettorale per l’elezione del
Parlamento di Tirana nella primavera del 1921, nella quale non fu
eletto, aveva sostenuto la tesi diametralmente opposta, rigettando la
teoria fallace ed illusoria secondo la quale l’Albania, a sostegno della
propria indipendenza e della propria libertà, aveva bisogno
dell’appoggio di una grande potenza straniera. Viceversa, un popolo
– e quello albanese, nella fattispecie – deve trarre dal proprio seno
tutte le risorse al fine di garantire alla propria patria una vita sua
particolare, che lo faccia vivere in autonomia, “di vita propria”.
Tocci, dopo le elezioni del 1921, riprese la pubblicazione del
Taraboshi, che trasformò in periodico, col quale si schierò a fianco di
Zog e del suo partito nazionalista, del quale redasse lo statuto
seguendo un indirizzo autoritario e verticistico. Con la protezione di
Cassiano:La collina del prete
70
Zog, fece una rapida carriera: fu prefetto di Korca, per poco tempo
ambasciatore al Cairo, direttore dell’ufficio stampa del governo
albanese e deputato nel 1923.
Durante la rivoluzione democratica del 1924, quando Zog, ferito
in un attentato, si rifugiò in Jugoslavia, si tenne prudentemente in
disparte in attesa dello sviluppo degli eventi, per poi schierarsi
nuovamente con Zog, quando, con le sue bande armate, sostenuto dal
governo jugoslavo e favorito dalle divisioni in campo democratico,
riprese il potere e si autoproclamò presidente della repubblica,
instaurando un potere dittatoriale.
Così Tocci – com’è evidenziato dal suo testo Il re degli Albanesi,
dove non si contano gli sperticati elogi a Zog – rinsaldò l’amicizia con
costui, assicurandosi ulteriori vantaggi nella progressione della
carriera: console generale a New-York per poco tempo nel 1925, poi
presidente della Corte di Cassazione penale, ed, infine, Segretario
Generale della Presidenza della Repubblica; nel frattempo, fondava il
periodico La Stampa (Shtypi), di cui assumeva la direzione, che
diventava organo del partito zoghista.
Le sue origini democratiche e repubblicane erano, ormai,
definitivamente poste nel dimenticatoio, solo un lontano e, forse,
fastidioso ricordo di una gioventù povera, romantica e ribelle.
Dopo l’autoproclamazione di Zog a re e la conseguente
abolizione della repubblica, si è già detto come e perché il Tocci ne
fosse stato in qualche modo turbato, tuttavia, bongrè malgrè, non lesina
le lodi sperticate al re degli albanesi che, fino a ieri senza storia, avevano
Cassiano:La collina del prete
71
finalmente trovato un punto fermo per la rinascita. E, ancora,
successivamente, celebrerà il primo anniversario del regno – come si
riferisce nel saggio storico citato – come l’alba della nuova vita degli
albanesi uniti dopo secoli”.
Di fronte a tali manifestazioni – evidentemente insincere e
ipocrite – si rimane di stucco nel venire a conoscenza che,
contemporaneamente, il Tocci – come reso noto dallo storico inglese
Fischer nel testo King Zog
ed opportunamente evidenziato nel
richiamato saggio – informava i diplomatici inglesi su particolari,
poco commendevoli, relativi al tenore di vita privata di Zog, alle sue
avventure galanti ed a quanto altro ne potesse sminuire il prestigio
all’estero.
Imboccata tale via, nella quale era assente un pur minimo
barlume di dialettica politica, degno di questo nome, il Tocci vi rimase
intrappolato come prigioniero, costretto a sopravvivere ricorrendo a
tutte le sue risorse per uscire indenne dalle congiure, dagli intrighi e
dai misteri di quel notabilato di bey, arretrato ma astuto, affamato di
denaro e di potere, che costituiva la corte zoghista.
Ministro dell’Economia Nazionale nel 1938, quando si era
avvicinato a Zog, considerandolo e appellandolo suo Altissimo
Protettore, criticava aspramente lo stesso governo, di cui era
componente, perché incapace di portare avanti una politica di
ammodernamento e denunciava gli ostacoli che incontrava a causa di
una mentalità meschina e intorpidita, che ha paura del dinamismo e del
progresso.
Cassiano:La collina del prete
72
Questa volta si scontrava con gli uomini più fidati, i più stretti
ed i più potenti collaboratori del re – il primo ministro Kota ed il
ministro dell’interno, Musa Juka – che Zog non avrebbe, mai ed in
nessun
caso,
sacrificato.
Inevitabili
divennero
le
dimissioni,
prontamente accettate.
Tocci non era riuscito a catturare la benevolenza del sovrano,
nonostante che, per esaltarne la personalità, fosse ricorso alla
pubblicazione – per esaltarne la figura anche all’estero - di Zog, re
degli Albanesi, sperticata manifestazione di adulazione strumentale e
di ricostruzione degli avvenimenti con disinvolto criterio a scopo
puramente laudativo.
Per la verità, sotto l’apparenza del contrasto tra ministri, la
sostanza era data dalla necessità, sostenuta dal Tocci. della
continuazione della politica di collaborazione e di cooperazione
economica con l’Italia, che non era del tutto condivisa dagli altri
membri del governo e dallo stesso Zog, sul punto di tentare altre
soluzioni di politica estera. Ma, ormai, nell’arco di pochi altri mesi,
l’occupazione
italiana
avrebbe
cancellato
la
monarchia
e
l’indipendenza albanese.
E Tocci?
Riuscì
a
sopravvivere
anche
con
i
conquistatori
italiani,
accapparrandosi una posizione di grande prestigio: la presidenza del
Supremo Consiglio Corporativo Albanese, equivalente alla italiana
Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Cassiano:La collina del prete
73
IX
A questo punto, si pone il problema della qualità o della forma,
attiva o passiva, della collaborazione con l’invasione italiana
dell’Albania nel 1939 e dell’aiuto o dell’assistenza, prestata al nemico
occupatore. In una parola, si rende necessario analizzare, in modo
particolare, se il Tocci accettò spontaneamente l’annientamento della
Stato nazionale albanese, operato dal fascismo invasore, se collaborò
col fascismo ed in quali forme pubbliche si esplicò tutta la sua attività
durante l’occupazione italiana.
Si tratta di un nodo cruciale e determinante del suo destino
politico che, in capo a sei anni, avrebbe avuto il tragico epilogo con
l’esecuzione della condanna alle pena capitale insieme ad altri
collaborazionisti ex-zoghisti e nazionalisti, per alto tradimento, al
tramonto del 14 aprile 1945, nella periferia di Tirana, nella Collina del
Prete ( Kodra e Priftit).
Dopo l’annessione dell’Austria da parte
della Germania
nazista, Galeazzo Ciano, allora ministro degli Esteri, propose al
suocero Mussolini l’annessione dell’Albania, a titolo di compenso per
avere lasciato mano libera alla Germania, ed anche al fine di fare
dell’Adriatico un mare interno italiano, per ragioni di sicurezza. Era,
questa, in fondo, la conclusione della tradizionale politica estera
italiana.
La proposta fu accettata dall’allora duce del fascismo. Tutta
l’operazione fu stabilita per la primavera del 1939. Quando Ciano si
recò in visita in Albania, in occasione della celebrazione del
Cassiano:La collina del prete
74
matrimonio di re Zog, approfondì la situazione albanese; al ritorno,
stese un dettagliato rapporto, nel quale evidenziava anche gli ulteriori
vantaggi dell’annessione, sottolineando le potenzialità di sviluppo del
suolo albanese, che, ove fossero debitamente sfruttate dall’Italia,
avrebbero potuto accogliere almeno due milioni di lavoratori e tecnici
italiani.
Si
passò
subito
all’organizzazione
dell’impresa,
i
cui
preparativi, all’interno albanese, furono demandati al rappresentante
diplomatico italiano, Francesco Jacomoni, il quale, legato alla
tradizionale diplomazia italiana di fare dell’Albania un “protettorato”
italiano, era inizialmente scettico sull’ipotesi dell’annessionismo. In
seguito alle pressioni di Ciano, preparò un “piano d’azione locale”,
nel quale, in definitiva, prevedeva che Zog restasse un re azzoppato
perché assoggettato all’Italia.
L’ambasciatore Jacomoni restava, comunque,
nella sua
convinzione della possibilità di un accordo con Zog e ne discusse con
Ciano, il quale, sempre più convinto dell’annessione, nel marzo del
1939, gli dette le istruzioni di iniziare le trattative per la definizione
di un nuovo trattato di alleanza con l’Albania sulla falsariga di quelli
anglo-egiziani ed anglo-iraqeni.
Ma Jacomoni, forte della pregressa esperienza nei Balcani,
capiva bene che un tale piano non sarebbe stato mai accettato dalle
autorità albanesi, aggirò l’ostacolo e propose tatticamente una
modifica del trattato del 1926. Venne, così, definito un nuovo progetto
che naturalmente fu sottoposto a Mussolini, il quale fece pervenire
Cassiano:La collina del prete
75
all’ambasciatore una sua controproposta, accompagnata da un
messaggio a Zog, articolato praticamente in termini da non lasciare
alternativa alla pura e semplice accettazione del protettorato,
proposto perentoriamente dal duce. Alla mancata accettazione da
parte di Zog, seguì l’ultimatum mussoliniano.
Era la guerra. Jacomoni, invitato a rientrare in Italia con tutto il
personale dipendente, chiese ed ottenne di restare in Albania perché
ritenne – da provetto ed esperimentato diplomatico – che la presenza
di un rappresentante italiano nella capitale albanese, anche per i
collegamenti già definiti e concordati con gli antizoghisti, avrebbe in
qualche modo coperto lo sbarco delle truppe italiane, facendo passare
tale atto di guerra in un atto di aiuto al popolo albanese, e dando
contestualmente l’impressione della continuità dello Stato albanese,
mentre Zog con la corte abbandonava Tirana.
In precedenza, Jacomoni aveva contattato e manovrato con un
gruppo di politici di Tirana e addirittura con bande armate, pagando
gli uni e le altre profumatamente perché organizzassero una sorta di
movimento popolare antizoghista ed in appoggio delle truppe
italiane, presentate come liberatrici ed in soccorso della popolazione
albanese. Il movimento, così preparato, doveva naturalmente
sembrava come una spontanea sollevazione popolare.
Mentre avveniva l’occupazione,
Galeazzo Ciano, nei locali
dell’ambasciata italiana a Tirana, reiterava astutamente, e prometteva
e dava le più ampie assicurazioni sulla permanenza dell’Albania a
Cassiano:La collina del prete
76
Stato indipendente. Contemporaneamente, riceveva quegli uomini
politici, già contattati dall’ambasciatore.
Tra questi, vi è anche Terenzio Tocci, come riferisce la stessa
figlia, riportando dal testo, scritto del padre,
Mezzo secolo di vita
balcanica, il brano del seguente tenore: “Il mattino dell’8 aprile la mia
casa fu invasa da vecchi amici e…da nuovissimi, cioè, da gente che –
ritenendomi erroneamente ed ingiustamente uno dei principali fautori della
nuova situazione che veniva a crearsi in Albania – era convinta di occupare
molto bene il suo tempo! Ma io non sciupai il mio tempo perché di amici e di
nemici (che si presentavano sotto il manto di “vecchi gregari”) approfittai
per convocare presso di me alla spicciolata amici provati cui davo l’incarico
di far propaganda acchè l’Esercito Italiano in marcia su Tirana fosse accolto –
e cordialmente – come “amico ed alleato” – non con la bandiera bianca issata
sul municipio, come da alcuni si voleva fare, ma con la bandiera nazionale
albanese e la italiana…verso le dieci dello stesso mattino, arrivò la prima
truppa italiana, ma io non mi mossi di casa, soprattutto perché seppi che
personaggi, i quali dodici ore prima avrebbero voluto seguire il Re in esilio o
si erano congedati da lui baciandogli le mani, si mettevano in mostra in
Municipio e dovunque potessero e non tralasciavano attimo per affermare
“fede fascista” ed italofilìa di calore e colore di neofiti ben attrezzati allo
sfruttamento della nuova epoca che si schiudeva. E ne sentii nausea. Ma
accolsi ben volentieri l’invito della Legazione d’Italia che mi invitava ad un
colloquio con Galeazzo Ciano (sottolineatura mia).
A questi spiegai –
presente Francesco Jacomoni – che consideravo la truppa italiana come
un’armata di fratelli liberatori per l’organizzazione di una nuova Albania e
Cassiano:La collina del prete
77
Jacomoni disse a Ciano: “Tocci è l’unico amico albanese che stanotte si è
ricordato di noi e ci ha mandato anche dell’aiuto. E oltre lui nessuno si è fatto
vivo, meno il Consolato bulgaro, che ci ha domandato notizie per telefono”.
E mi parve che Ciano accogliesse la comunicazione quasi con un
senso di ammirazione e riconoscenza. Indi mi disse: “sentite, Tocci:
preparatemi subito la lista del nuovo ministero”; al che risposi: “stamattina
non è possibile essendo stanco morto da tre notti di veglia. In secondo luogo
ho bisogno di consultare gli amici. Ma domani l’avrete immancabilmente.
Intanto tengo a dirvi che se non si farà opera di moralizzazione e di
rigenerazione, io mi metterò da parte”. Questa volta egli non rispose, ed
anche Jacomoni tacque. Tale lista che combinai l’indomani con alcuni amici
non ebbe alcun seguito, com’è ben noto e come spiegherò in appresso.
Intanto, la sera del 9 aprile a Tirana esplose una dimostrazione capitanata da
giovani, che evidentemente erano ispirati da uomini meno fiduciosi di me, e
cogliendo l’occasione della traslazione delle ossa del patriota Naim Frasheri,
inneggiarono alla libertà ed all’indipendenza della Patria, che ritenevano
aggredite e compromesse”.
Naturalmente, sotto le direttive di Ciano e
con la
determinante ed esperta collaborazione dell’ambasciatore, fu formato
il nuovo governo provvisorio con vecchi arnesi nazionalisti,
antizoghisti ed ex zoghisti. Nell’arco di cinque giorni dallo sbarco,
questo ristretto gruppo di asserviti e rinnegati, autoproclamatosi
Assemblea Costituente, riunitasi il 12 aprile 1939, deliberò di offrire a
Vittorio Emanuele III la corona d’Albania, proclamando l’unione
personale fra l’Italia e l’Albania. Vittorio Emanuele III delegò i suoi
Cassiano:La collina del prete
78
poteri in territorio albanese ad un Luogotenente Generale, nella
persona di Francesco Jacomoni. Il tre giugno 1939, Vittorio Emanuele
III, accettata l’offerta della corona albanese, emanava lo “Statuto
fondamentale del Regno d’Albania”, dichiarando di essersi assunto
“l’alto compito di provvedere alla cura dei Nostri figli e di condurre
anche questo nobile Popolo, rinnovato nel segno del Littorio, verso i
suoi più alti destini”.
Tuttavia, nonostante il soverchiante numero di servi, tutti
appartenenti ai ceti dirigenti del recente passato e, tra questi, anche
conosciuti ntellettuali, che si accodarono ai fascisti, deliberando –
come si legge nel verbale dell’Assemblea Nazionale Costituente – di
“essere memori e riconoscenti dell’opera ricostruttiva data dal Duce e
dall’Italia Fascista per lo sviluppo e prosperità dell’Albania”,
associando “più intimamente la vita e i destini dell’Albania a quelli
dell’Italia”, non mancarono i patrioti – com’è costretto ad ammettere
lo stesso Tocci nello scritto testè citato – che, nella stessa capitale, al
momento dell’occupazione, protestarono vivacemente per la libertà e
l’indipendenza perdute e che, come si è già sottolineato, in altre parti
del Paese, tentarono di resistere in armi all’invasore. Eppure, se i
patrioti avessero avuto un po’ di armi e munizioni, avrebbero potuto
respingere l’aggressore.
Filippo Anfuso, infatti, uno dei principali assistenti di
Galeazzo Ciano, dopo avere raccontato come costui, accompagnato da
un certo numero di grossi gerarchi, dopo avere fatto una breve
apparizione sul campo di battaglia, per strappare la medaglia di rito,
Cassiano:La collina del prete
79
commenta tutta la vicenda in questi termini: “se gli albanesi avessero
posseduto un corpo di pompieri ben addestrato ci avrebbero gettati
nell’Adriatico”.
E ‘ stato ripetutamente affermato da più parti che Tocci, alla
fin fine, fu un collaborazionista in buona fede e, spesso, anche in
dissenso col fascismo albano-italico. Per fare una qualche chiarezza
sulla cosa, occorre distinguere opportunamente tra i vari periodi
dell’occupazione italiana: quello della preparazione, della stessa
occupazione, dell’immediatamente dopo l’occupazione fino alla
nomina (aprile 1940)
del Tocci
alla Presidenza del
Consiglio
Superiore Fascista Corporativo ( Keshilli Eperm Korporativ Fashist).
Non si può seriamente avanzare dubbio alcuno sui rapporti –
anche di amicizia, oltre che politici – tra l’ambasciatore italiano,
Francesco Jacomoni ed il Tocci. Naturalmente Jacomoni sa - anche
perché le dimissioni da ministro del Tocci sono di dominio pubblico che egli è in rotta col nazional-zoghismo.
Constatata la sua disponibilità per una politica di stretta
collaborazione, anche sul piano economico, tra l’Albania e l’Italia, si
mette con lui in contatto e certamente lo trova disponibile all’ingresso
dell’esercito italiano in Albania in qualità di liberatore. Lo stesso Tocci
lo
afferma
nel
citato
scritto,
in
cui
esplicita
in
termini
sufficientemente chiari quale era la sua posizione: ricevere l’esercito
italiano come “amico ed alleato” ed, all’uopo, al momento
dell’invasione, incaricherà “amici fidati di fare propaganda” per la
buona accoglienza dell’esercito italiano. Si deve, conseguentemente,
Cassiano:La collina del prete
80
ritenere che il Tocci – ancora deputato in carica – è entrato a fare parte
di quel gruppo di politici di Tirana, dichiaratosi disponibile a
collaborare con l’Italia ed a rovesciare il regime abanese.
Tale inequivocabile dato di fatto spiega il perché Tocci viene
convocato da Ciano – per il tramite dell’ambasciatore Jacomoni – non
per essere salutato e riverito dal ministro e genero del duce, ma per
essere consultato circa la formazione di un governo provvisorio e la
convocazione
successiva
di
un’assemblea
per
approvare
l’occupazione avvenuta, simulandola sotto la finzione giuridica
dell’unione personale delle due corone. E Tocci, dichiara di essere
“stanco morto da tre notti di veglia” – evidentemente impegnato ed
assorbito nella preparazione e nel concordare gli accordi con gli
“amici” in vista di quel che sta per accadere - ed assicura e garantisce
al ministro degli Esteri italiano, cioè, al rappresentante di un altro
Stato, che sta procedendo militarmente alla conquista della sua Patria,
che, entro il termine di un giorno, dopo essersi consultato con i suoi
“amici”, avrebbe redatto e presentato la lista dei ministri per un
governo provvisorio. Cosa che effettivamente fece, ma che, per il
momento, rimase senza effetto per scelta di opportunità politica da
parte del governo italiano, come si dirà in seguito.
Il Tocci - deputato in carica, membro sicuramente autorevole
della classe dirigente - aveva l’obbligo di difendere l’indipendenza e
la libertà del proprio Paese contro le pretese di assoggettamento da
parte di altre potenze, quali che fossero e di protestare vivacemente
nei confronti dell’occupazione, magari unendosi ai manifestanti, anzi,
Cassiano:La collina del prete
81
dirigendo le manifestazioni di protesta ed organizzando la resistenza
contro l’occupatore, dovendo egli assumere, come espressione del
ceto dirigente, la responsabilità di dirigere anche gli altri e di mettersi
alla guida, occorrendo, dei nuovi percorsi storici e politici del proprio
popolo.
Invece, ciò non avvenne. Contrariamente ad ogni aspettativa,
il Tocci accettò con entusiasmo di rispondere alla chiamata di Ciano e
di preparare la lista dei ministri di un governo quisling, e, cioè, di un
governo asservito agli invasori
del proprio Paese e di essere a
disposizione degli invasori, collaborando con essi, nulla pretendendo
in cambio se non una politica di rettitudine e di risanamento morale.
Che sono veramente risibili richieste se fatte ad un invasore
prepotente e nel momento in cui avviene l’occupazione.
Tocci non può, dunque, essere considerato un collaborazionista
senza importanza, uno dei tanti poveri diavoli. Egli certamente
sapeva quel che faceva ed era in grado di valutare anche quali
sarebbero state le conseguenze dei suoi gesti e che valore avrebbe
potuto assumere la sua condotta politica, anche simbolicamente,
nell’immaginario collettivo.
Perché, dunque, così docilmente ubbidì alla chiamata di
Jacomoni che lo convocava davanti al ministro degli esteri italiano?
Perché non rifiutò sdegnosamente di comparire davanti al ministro
italiano che, in quel momento, doveva considerare un nemico in
quanto
stava
procedendo
dell’Albania? Perché
per
via
militare
all’occupazione
accettò dal rappresentante di una potenza
Cassiano:La collina del prete
82
nemica – proprio mentre erano in atto le operazioni militari di
occupazione -
l’invito di preparare e presentare la lista per un
governo provvisorio? Questo tipo di condotta – morale e politica - di
sottomissione, di obbedienza, di vassallaggio e di dichiarata
accettazione dei patti che lo straniero invasore impone, a sua
discrezione, proprio nel momento in cui procede all’invasione
militare, appartiene alla categoria spregevole dell’asservimento allo
straniero.
Si faccia l’ipotesi, a mò d’esempio, che se il Tocci - com’era suo
obbligo giuridico e non solo morale di cittadino albanese e di
deputato in carica – avesse sdegnosamente respinto gli approcci di
Jacomoni, denunziando il tentativo italiano di colonizzare l’Albania,
portando a conoscenza del Parlamento e dell’opinione pubblica le
pretese italiane di vassallaggio; che, invece, di andare a riverire il
potente ministro del Paese invasore, mettendosi a sua completa
disposizione, veramente – è il caso di dire – perinde ac cadaver - , avesse
organizzato la resistenza contro l’aggressione, probabilmente – anzi,
sicuramente – per quel che ha scritto Anfuso, l’aggressione avrebbe
potuto essere respinta o, quanto meno, la situazione politica avrebbe
preso un’altra piega. Ed il Tocci avrebbe sì rischiato – e fortemente
rischiato – ma avrebbe fatto il suo dovere morale ed adempiuto al suo
obbligo, anche come deputato, di rappresentante del popolo albanese
facendosene promotore della salvaguardia dell’indipendenza e della
libertà. E solo così avrebbe difeso, salvato ed onorato la sua dignità
di uomo, di cittadino, di deputato albanese e di ex ministro e, quindi
Cassiano:La collina del prete
83
di autorevole rappresentante della elevata classe dirigente di quel
Paese.
L’aggressione avrebbe potuto essere respinta proprio per i
gravi difetti di organizzazione e del materiale umano a sua
disposizione, come la
ricerca storica ha dimostrato. Lo stesso
Mussolini, del resto, poiché erano tanti a sapere dei pasticci combinati
in Albania, fu costretto a farne franca esposizione alla gerarchia
fascista ammettendo e spiegando le condizioni di precarietà in cui si
era svolta la spedizione.
Il capo di Stato Maggiore fu avvisato del progetto di invasione
solo 8 giorni prima e, cioè, il 29 marzo, e non gli fu, quindi, data
neppure la possibilità di interloquire in merito. Il comandante
designato dell’operazione fu avvisato solo il 31 marzo. L’aviazione
ricevette le istruzioni, dettate dal duce, solo due giorni prima
dell’invasione. Il generale Guzzoni dovette mobilitare il suo corpo di
spedizione mentre si trovava in treno per Brindisi. Ovviamente le
storie ufficiali presentarono l’occupazione dell’Albania come uno
splendido esempio di organizzazione militare. Questa fu una
evidente mistificazione, idonea ad impedire una più approfondita
inchiesta, che avrebbe potuto evidenziare anche alcuni profondi
guasti dello stesso regime con evidente conseguenza di ripercussioni
negative sull’opinione pubblica.
Mack Smith osserva, a tale proposito, che “la mistificazione fu
salutata con particolare favore dai comandanti della spedizione, che,
dopo aver temuto la corte marziale, furono felici di apprendere che il
Cassiano:La collina del prete
84
fascismo non si aspettava da loro nulla di meglio. Grandi scrisse a
Mussolini salutandolo come un secondo Augusto, come un eroe
nazionale che senza vacillare aveva aperto all’Italia una via che
l’avrebbe condotta, attraverso i Balcani, sino alla conquista
dell’Oriente”. Ed invece, nella realtà, la spedizione aveva dimostrato e
fatto toccare con mano l’eccesso di fretta, la mancanza di
preparazione e di addestramento, l’assenza di coordinamento tra
esercito, marina ed aviazione. Il che rendeva realista e fattibile, anche
con probabile successo, la resistenza contro l’occupazione.
Dal manoscritto richiamato, abbondantemente citato dalla
figlia, si viene a conoscenza, per confessione dello stesso Tocci, che
egli era a conoscenza - anzi ne aveva avuto “la sensazione” - che “ai
primi di aprile 1939 qualcosa di ben grave stesse per accadere, pensai che il
R. Esercito Italiano…potesse venire a liberare la Nazione Albanese da sistemi
governativi che l’asfissiavano, tanto più che mi era giunto all’orecchio che
persone note per rettilineo patriottismo avevano pattuito con i rappresentanti
dell’Italia ufficiale e con qualche gerarca fascista che sul trono del Regno
d’Albania sarebbe stato posto un principe della Casa Savoia e che, pertanto,
si sarebbe avuta non un’occupazione, ma un temporaneo sbarco di truppe
con funzioni di guarnigione”.
Il testo non lascia dubbi. Il Tocci sapeva, dunque, della
occupazione, sia pure “temporanea”, come la chiama, da parte di una
grande potenza europea, con l’intento addirittura di sostituirne il
capo di Stato
con un
esponente della sua casa regnante e che,
all’uopo, vi era stato patto apposito tra rappresentanti del governo
Cassiano:La collina del prete
85
italiano, gerarchi fascisti ed un gruppo di congiurati albanesi, che il
Tocci, senza accorgersi dell’ironia, identifica come persone note per
rettilineo patriottismo, proprio nel momento in cui rende pubblico il
loro pactum sceleris con l’invasore, che si obbligavano ad aiutare
nell’occupazione del proprio Paese e nella destituzione e nella
successiva sostituzione del capo dello Stato: cosa che ebbe
puntualmente a verificarsi subito dopo l’invasione.
Ma chi erano questi patrioti e, soprattutto, da chi si erano fatti
comprare per essere usati all’occorrenza? Certamente erano tutti
quelli che, a invasione conclusa, gestirono il potere con i fascisti
italiani, Tocci compreso, e che, in antecedenza, per come esattamente
documenta lo storico Denis Mack Smith nella descrizione della
politica bellicosa del fascismo, erano stati, in Albania, contattati,
convinti e foraggiati da Francesco Jacomoni.
Costui aveva contattato, in precedenza “segretamente varie
bande di briganti operanti sulle montagne, concordando con esse un
piano in base al quale questi uomini, ad un segnale dato, sarebbero
scesi nelle città, provocando una crisi che li avrebbe messi in grado di
organizzare una manifestazione popolare a favore dell’unione con
l’Italia”.
L’ambasciatore Jacomoni teneva questi due gruppi – briganti e
politici di Tirana -
a sua disposizione, naturalmente a spese
dell’erario italiano, manovrandoli ed usandoli a seconda degli
sviluppi degli avvenimenti. Nella notte tra il 7 e l’8 aprile, bande di
briganti dilagarono per Tirana. E Tocci ne dà conferma quando scrive
Cassiano:La collina del prete
86
che, quella notte, “le carceri giudiziarie erano state aperte e che gli
evasi, o liberati che fossero, assieme a malviventi percorsero le strade
della città dandosi a tutte quelle deplorevoli azioni che affiorano
presso i popoli che piombano nell’anarchia”.
Il piano particolareggiato dell’invasione era pronto già dal
febbraio 1939 e Jacomoni non riusciva più a contenere le pretese delle
bande dei briganti e dei politici di Tirana assoldati, “i quali,
naturalmente con l’avvicinarsi del momento di agire, alzavano il
prezzo”. Si trattava, quindi, di distinti e dignitosi patrioti, desiderosi
del benessere del proprio paese, o non piuttosto di masnadieri senza
distinzione, sempre pronti ad alzare il prezzo del tradimento?
Il rettilineo patriottismo degli “amici” del Tocci non si manifestò
in modo alcuno
a difesa della propria patria, limitandosi
evidentemente ad avvicinarsi alla borsa dell’ambasciatore per il saldo
del prezzo finale delle proprie vergognose e delittuose prestazioni,
accogliendo l’esercito italiano occupatore come alleato e liberatore,
anzi che, com’era nella realtà, come oppressore della libertà e
dell’indipendenza dell’Albania.
Come fece, del resto, lo stesso Tocci. Né più e né meno di come
si sono comportati i “patrioti”, collusi col governo fascista invasore,
ed i briganti, arruolati ed assoldati da Jacomoni.
La manifestazione di Tirana della sera del 9 aprile, guidata e
animata da giovani che inneggiavano alla libertà e protestavano
contro l’aggressione in nome del diritto del proprio Paese
all’autonomia ed all’indipendenza, dovette metterlo in angoscia ed in
Cassiano:La collina del prete
87
contrasto con la propria coscienza, per avere assentito, consentito e
fatto applaudire l’esercito
di occupazione e, così, di fatto, voluto
l’occupazione del proprio Paese; per essersi successivamente così
umiliato da presentarsi – non da deputato in carica ed ex ministro ad un ministro dell’Italia occupante per riceverne gli ordini e mettersi
a sua disposizione, come servitore.
Indubbiamente, valutata nel suo complesso, la condotta del
Tocci, prima e dopo l’occupazione italiana, presenta molte zone di
ambiguità, ma inequivocabilmente essa non è in contrasto con gli
invasori, anzi, manifestamente accettati come liberatori, con i quali
intende collaborare, tanto è vero che, su incarico di Ciano, aveva
anche stilato la lista dei futuri ministri del governo provvisorio, che
non poteva che essere di collaborazione ed asservito all’invasore.
Cassiano:La collina del prete
88
X
Ad occupazione avvenuta,
giuridica
sistemata sotto la simulazione
di unione con l’Italia, nell’arco di qualche settimana,
contemporaneamente l’ambasciatore Francesco Jacomoni che – come
si è già esposto – aveva concordato con gli esponenti nazionalisti ed
ex-zoghisti i piani d’azione – promosse subito la formazione del
governo provvisorio, presieduto da Shefqet Verlaci, e la riunione (12
aprile 1939) di una cosiddetta assemblea costituente che, in
obbedienza ai voleri degli invasori, proclamò la decadenza del
precedente governo e della dinastia regnante, offrendo la corona
d’Albania al re d’Italia in considerazione della costituita unione
personale dei due Paesi.
Il 3 giugno 1939, fu emanato lo “statuto fondamentale del
regno d’Albania” in forza del quale le basi costituzionali e fasciste
dello Stato italiano furono estese al paese balcanico, ormai saldamente
occupato. L’unico organo caratteristico era il “consiglio superiore
fascista corporativo”, formato dai componenti del Consiglio Centrale
del Partito Fascista Albanese e dai componenti effettivi del Consiglio
Centrale dell’Economia Corporativa, che aveva sostanzialmente
funzione di organo consultivo e legislativo ed approvava i disegni di
legge da presentare alla sanzione del re, al quale era riservata la
facoltà di rifiutare il visto e di chiedere una seconda discussione, a
norma dello “statuto fondamentale”(art. 26).
Il
Tocci,
certamente
collaborazionista
con
l’invasore,
nell’immediatezza della conquista fascista dell’Albania, non ebbe
Cassiano:La collina del prete
alcun incarico di rilievo
89
nè di secondaria importanza. Anche se
Jacomoni garantiva per lui, considerandolo “un intelligente e sicuro
amico”, tuttavia, forse per i suoi trascorsi politici non lineari, per le
recentissime e mirabolanti lodi a Zog, espresse nel testo citato Zog, re
degli Albanesi, di fresca pubblicazione, per i suoi continui e disinvolti
cangiamenti ideologici, forse anche per una certa spigolosità di
carattere che lo faceva apparire irrequieto, instabile e pronto ai facili
entusiasmi ed agli altrettanto facili capovolgimenti ed alle ribellioni –
che apparivano repentine ed inspiegabili, ma in effetti finalizzate,
nell’immediato, non ebbe il conferimento di incarico ministeriale e
neppure altri alti riconoscimenti, dati, peraltro, con molta liberalità ad
altri esponenti ex nazional-zoghisti, tutti bene ricompensati per i
servizi resi ai fascisti liberatori.
Verlaci ed alcuni altri esponenti del pregresso gruppo dirigente
zoghista furono nominati senatori del Regno d’Italia; padre Giorgio
Fishta – che aveva venduto la penna e la coscienza agli occupanti - fu
nominato accademico d’Italia; qualcun altro era stato promosso
ambasciatore; a Ernesto Koliqi, notorio nazionalista, fu attribuita la
titolarità della cattedra di lingua e letteratura albanese all’Università
La Sapienza di Roma, che tenne fino al pensionamento e che non gli
fu tolta neppure all’avvento della Repubblica in Italia. Insomma, una
serie di riconoscimenti e di conferimenti di incarichi pecuniosi o di
sinecure, dai quali il Tocci si sentiva ingiustamente escluso perché, per
ragioni che non spiega, egli riteneva di avere bene meritato e, quindi,
Cassiano:La collina del prete
90
di aspettarsi, un riconoscimento di qualche rilievo nella vita pubblica
dai nuovi padroni del suo povero Paese.
Incominciò, allora,
a scalpitare, a sollevare critiche – come
attestano le lettere del Tocci a Jacomoni, pubblicate dalla figlia - alle
procedure adottate per la nomina dei ministri e per quella dei
cosiddetti costituenti, alla scelta dei personaggi ai quali venivano
affidati incarichi governativi, giudicati tutti incapaci di garantire un
sano governo del paese, promuovendone il progresso, il processo di
moralizzazione e di rinnovamento.
Poiché gli era stato assicurato che ciò che era avvenuto non
aveva molta importanza, perché assolutamente provvisorio, egli
faceva osservare a Jacomoni “rispettosamente che anche nel breve
periodo di due o tre mesi possono essere fatti gravi danni da un
gruppo di persone che non sono all’altezza del momento storico e
possono anche non temere il clamore pubblico appoggiandosi alle
armi italiane, pur essendo queste in Albania per un altissimo ideale
di rigenerazione politica, sociale e morale (!?)”.
Tocci non era un collaborazionista in odore di dissenso, ma era,
invece, un collaborazionista perfetto, con tutti i crismi. Egli
era
provvisoriamente soltanto scontento per non essere stato accontentato
nelle sue aspettative politiche o per non avere avuto il compenso,
proporzionato ai meriti acquisiti per i servizi. Le sue critiche al
sistema coloniale, imposto alla sua patria, peraltro, accettato e voluto
da lui stesso, inviate anche allo stesso Mussolini, circa, per esempio,
“gli atteggiamenti da conquistatori che generano odio…molti sono tentati a
Cassiano:La collina del prete
91
riesaminare la situazione ed a ritenere che Zog in fin dei conti simboleggiava
e garantiva la nazionalità salvatasi contro molti invasori lungo i
millenni…”, non possono essere all’evidenza considerate come
espressione di opposizione e di resistenza all’occupazione straniera,
perché ci troviamo in presenza di ovvie considerazioni sulla condotta
degli invasori che persone avvedute pur avrebbero dovuto prevedere
nell’acconsentire all’invasione. Se costoro sono stati così allocchi ed
imprudenti
da
consegnare
il
proprio
Paese
allo
straniero,
benevolmente accogliendolo ed affidandosi alla sua generosità,
avrebbero pur dovuto aspettarsi che inevitabilmente il conquistatore
– ritenuto erroneamente liberatore, in buona od in cattiva fede – si
sarebbe arrogato diritti di padronanza ed, alla fine, se non proprio
scacciati, per così dire, di casa, li avrebbe ridotti in condizione di
asservimento e di basso vassallaggio.
Tocci
si agitava e scalpitava a Tirana, presso l’ambasciata
italiana, con Francesco Jacomoni, manifestando tutta la sua amara
scontentezza. Il rappresentante italiano, ormai nominato Luogotenete
di Vittorio Emanuele, cercava di tenerlo buono perché tutto sarebbe
stato definito, una volta superata la contingenza (“Il Dottor De Angelis
mi ha informato che si tratta di un periodo transitorio…”).
Considerato che in loco, non riusciva a spuntarla neppure col
suo amico Jacomoni, incominciò a viaggiare per Roma nel tentativo di
trovare ascolto presso le alte sfere del regime fascista che, ora, a
invasione compiuta, sembravano ignorarlo. Bussò inutilmente alla
porta dello stesso Mussolini, al quale, per la verità, - come emerge
Cassiano:La collina del prete
92
dalla documentazione dell’Archivio del ministero degli esterigabineto Albania,
evidenziato nel citato saggio di F. Caccamo - la
sua “stessa persona…non era gradita”. Nell’ottobre del 1939, parte
speranzoso per Roma, visto che i giorni passavano inutilmente e –
scrive – “constatando che i piccoli della cornacchia si facevano sempre
più neri – come dice un nostro motto popolare – andai a Roma per
incontrarmi con Mussolini. Ma il Duce non volle o non credette di
ricevermi”.
Finalmente, un mese dopo, nel corso del novembre, dopo
avere inutilmente tentato di conferire con Mussolini o col genero
Ciano,
venne
ricevuto
dall’infinitamente
molto
più
modesto
sottosegretario per gli affari albanesi, Zenone Benini, al quale
consegnò un promemoria sulla situazione politica albanese e sulle
misure necessarie – secondo lui - per risanarla.
Non voleva apparire un questuante, uno che andava a chiedere
il compenso per le prestazioni effettuate, ma politico e uomo di Stato,
intento all’interesse generale, che, dopo accurata analisi della
situazione e delle condizioni politiche, sociali e morali del Paese,
proponeva gli opportuni ed adeguati rimedi, finalizzati alla riuscita
della collaborazione con l’Albania, in previsione che quest’ultima
potesse convenientemente svolgere la funzione di
“Avanguardia
dell’Impero nei Balcani se li si vuole federare attorno a Roma”.
Nell’occasione,
ritornò
a
bussare
discretamente,
ma
vigorosamente, reiterando le sue aspirazioni ad un incarico politico o
culturale di prestigio, nell’ordine, o accademico d’Italia, o Presidente
Cassiano:La collina del prete
93
del Consiglio Superiore Fascista Corporativo, - istituito con lo Statuto,
ma ancora non operativo -
o senatore del Regno d’Italia o, infine,
nella peggiore delle ipotesi, ministro dell’economia nel governo
albanese quisling. Tocci aveva, di conseguenza, accettato il nuovo
regime che, peraltro, aveva voluto, ed era un collaborazionista in
attesa di riceverne il beneficio od il compenso atteso, finora non
arrivato. Ma che arrivò ai primi dell’aprile 1940 con la nomina, che
aveva richiesto, di Presidente del Consiglio Superiore Fascista
Corporativo.
Il 16 aprile avvenne l’inaugurazione, preceduta da un
messaggio reale. Il Tocci, ormai nella qualità di presidente, pronunziò
il discorso e naturalmente, nell’esaltazione del duce, ricorse al suo
solito florilegio di esagerazioni verbali – che poi tanto dovranno
nuocergli . indicandolo anche come il maggiore amico della nazione
skipetara ed imprudentemente affermando, con altisonante retorica,
inverosimili certezze come, per esempio, “gli albanesi sono convinti che
come nazione e come stato nella comunità imperiale vivranno e
progrediranno con sicura rapidità e guardano a Roma come ad eterno faro di
civiltà e di giustizia nella storia del mondo”.
Nello scritto, reso noto dalla figlia, steso evidentemente dal
Tocci a giustificazione ed a difesa del suo collaborazionismo - e che,
pertanto, va necessariamente preso cum grano salis – ironizza su tale
istituzione, rilevando che era una Camera delle corporazioni,
“ma..senza corporazioni ed in cambio con una nuova facciata
posticcia, adorna di Fasci e di molti sottintesi”.
E continua
Cassiano:La collina del prete
94
affermando – in senso contrario a come effettivamente si era svolta
tutta la vicenda - di avere accettato “quella carica” solo dopo avere
rifiutato di essere nominato Ministro delle Finanze o Consigliere
presso la Luogotenenza. In effetti, “quella carica” egli l’aveva richiesta
perché, di fatto, lo poneva al vertice della vita politica albanese, dopo
il Luogotenente, donandogli grande prestigio e visibilità.
Nella sua qualità di Presidente
del Consiglio Superiore
Fascista, guidò la delegazione dei politici e dei notabili e feudatari in
ritardo schipetari che si recarono al Quirinale per omaggiare il nuovo
sovrano dell’Albania e per portargli anche la relativa corona.
Nella edizione albanese del Giornale d’Italia del 23 giugno 1940,
si dà notizia della solenne riunione del Consiglio Superiore Fascista
Corporativo per l’approvazione del decreto reale in forza del quale
l’Albania deliberava di considerarsi in stato di guerra contro tutte le
Potenze contro le quali l’Italia era in guerra. Era una dichiarazione di
guerra supplementare, da parte dei fascisti albanesi, in aiuto della
“sorella maggiore”, che il Tocci, nella qualità di Presidente della
farsesca assemblea, esaltò oltremisura nella manifestata fede nella
sicurezza della vittoria delle gloriose armi italiane, nelle quali si
trovano fuse quelle albanesi.
Dichiarò di sentirsi “fiero del nostro sangue perché oggi la
nostra Nazione dà una magnifica prova della sua maturità politica e
dimostra che realmente ha posto termine al periodo degli intrighi e
della politica delle avventure”. Sottolineò la rilevanza del “primo
articolo della legge (che) dice: “Il regno d’Albania si considererà in
Cassiano:La collina del prete
95
guerra con quegli Stati con i quali il regno d’Italia sarà in guerra”.
L’unione della corona dei Savoia con la corona degli Skanderbeg
viene suggellata con il sangue. In questo articolo non soltanto si
uniscono secoli di storia, ma con esso questo popolo piccolo, povero,
ingannato, tradito, col fraterno aiuto dell’Italia, si può dire si vendica
contro l’Inghilterra e la Francia. Se non pensasse in questo modo il
popolo albanese, noi diremmo che la nostra Nazione meriterebbe la
sorte degli uomini senza virilità”.
Veramente parole senza senso, al limite dell’incoscienza, messe
in fila disinvoltamente per condannare, con la stucchevole retorica
d’occasione, un “popolo piccolo, povero” ad un destino di guerre e di
intuibili disastri e tragedie, in modo indeterminato e senza limiti di
tempo e col vincolo perenne alle scelte ed alle sorti, fauste o infauste,
di un altro Paese. Tutti i nemici dell’Italia fascista diventano
automaticamente
nemici
del
popolo
albanese.
Altro
che
la
resurrezione del popolo albanese; ne era l’annientamento.
Con l’approvazione della legge – che obbligava l’Albania a
subire, di fatto, la rovinosa sorte del fascismo – Terenzio Tocci, con la
diligenza del collaborazionista, nella inconsapevolezza della gravità e
della pericolosità degli obblighi internazionali, che caricava sulla
propria nazione, affermò, invece, che, con tale atto deliberativo, la
“Camera Fascista Albanese non soltanto difende gli interessi vitali
della Nazione, ma si mette anche su una via che un giorno ci onorerà
nella sua nuova storia che si sta scrivendo con il sangue in questi
tempi”.
Cassiano:La collina del prete
96
Tocci non soltanto manifesta la sua cieca fede nel littorio, ma,
nel delirio guerrafondaio, sposa anche la croce celtica: “…non soltanto
proviamo al mondo che nel campo imperiale siamo legati per la vita e
la morte, ma diciamo anche che siamo pronti e vogliamo combattere a
fianco dei nostri fratelli d’oltre Adriatico e a fianco dei valorosi amici
ed alleati della Germania di Hitler. Tale collaborazione costituisce un
onore per la nostra Nazione”.
Tocci lascia intendere – non è dato conoscere se in buona od in
mala fede – che l’Albania è componente della Comunità imperiale di Roma
e deve, di conseguenza, essere all’altezza dell’alto compito e se “noi
sappiamo che verso il nostro diritto di non lasciare calpestare la terra
albanese da piede nemico (ma non l’avevano lasciata calpestare ai
fascisti occupatori?), abbiamo il dovere civile di combattere, come si
addice al valore albanese, nel nome del re imperatore e del duce del
fascismo”.
Il “povero popolo albanese, ingannato, tradito”,
ancora
costretto dal notabilato agrario dei bey, legato ai fascisti, a subìre un
vero e proprio regime feudale, avrebbe dovuto dimostrare – secondo
il Presidente della Camera fascista albanese - di difendere il proprio
onore e la propria dignità disponendosi a combattere per interessi e
ideali, che non gli appartenevano, solo perché così aveva deciso un
gruppo di rinnegati, che avevano accolto lo straniero invasore come
liberatore.
Non si riesce a comprendere che cosa aveva a che fare o che
avrebbe potuto avere in comune il contadino o l’artigiano o
Cassiano:La collina del prete
97
l’impiegato albanese con la difesa dell’Impero, che, peraltro, non
conosceva, che non gli aveva portato alcun beneficio ed, anzi, gli
avrebbe procurato molti guai, rovine e morti. Bisogna ritenere che il
Presidente della camera fascista albanese, per i suoi percorsi politici
pregressi, per il suo grado di istruzione, non era a livello di uno zotico
bey semianalfabeta; e quando faceva quelle gravi ed impegnative
affermazioni in virtù delle quali il popolo albanese avrebbe dovuto
identificare nell’Italia fascista una ragione propria e diretta, assoluta
ed immediata della sua sorte, doveva essere certamente consapevole
di interpretare la volontà e gli interessi del ristretto ceto dominante e
non dell’intero popolo albanese. A meno che, nel delirio della fede
cieca ed assoluta nel littorio, non avesse smarrito l’intelletto.
Tale discorso che accompagnava, manifestando entusiastico
consenso, l’approvazione della clausola in forza della quale il popolo
albanese assumeva l’obbligo di combattere in tutte le guerre
dell’impero fascista, riveste una particolare importanza ai fini
dell’indiscusso collaborazionismo del Tocci.
Egli, infatti, pur riconoscendo – come appare dagli appunti per
l’autodifesa davanti al Tribunale del Popolo, resi noti dalla figlia –
l’esistenza della “collaborazione”, si chiede se si è concretizzata in un
delitto ai danni della patria; “se si è svolta con buona fede o non”.
Naturalmente la sua risposta è di avere agito in perfetta buona fede
nell’interesse e non a danno del proprio Paese, facendogli trarre,
durante l’occupazione, tutti i vantaggi possibili, trascurando del tutto
tutta la sua azione e quella della camera fascista albanese e dell’intero
Cassiano:La collina del prete
98
ceto dirigente filo-fascista, finalizzata a portare l’Albania nell’inferno
della guerra.
“Dunque, dov’è il “dolo” elemento indispensabile per la
costruzione e formazione del delitto?
E poiché siamo in questo
argomento, l’accusa che mi si fa, aggiungo: nessuno mi può accusare
di antipatìa per la nazione inglese, poiché avrebbe dovuto accusarmi
di ignorare il grande contributo che l’Inghilterra ha dato alla
civilizzazione del mondo…”. Assume – contrariamente al vero – di
essere indenne da colpe e di non rispondere a verità l’esistenza di un
pregiudizio antinglese che determinava l’approvazione della guerra.
Ma tutti l’avevano ascoltato gridare, dallo scranno di presidente, ed i
giornali l’avevano scritto, che una delle motivazioni della discesa in
guerra, a fianco dell’Italia fascista, era il fatto che il popolo albanese,
“col fraterno aiuto dell’Italia, si può dire si vendica contro l’Inghilterra e
la Francia…(che)..durante la guerra balcanica hanno aiutato i nemici
della nostra razza che volevano sopprimerci…”.
Comprende che la dichiarazione di accettazione della guerra,
portata al voto della camera fascista, era un ostacolo difficile da
superare; allora, ricorre all’ipotesi del patto internazionale da
osservare: “avendo noi un legame col popolo italiano, e questo
vincolo non essendo mai stato né denunciato, né svalutato, la legge
relativa alla guerra (che doveva essere una colpa) non era altro che un
atto che mandava in vigore la legge stessa”.
Il che era un volere forzare i fatti per piegarli a sostegno di una
tesi inammissibile. In primo luogo, l’unione personale tra le due
Cassiano:La collina del prete
99
corone – a prescindere che si trattava di una pura simulazione della
colonizzazione – non imponeva la scelta della guerra, ma – secondo il
verbale del 12 aprile 1939 della sedicente assemblea costituente –
“vincoli di una sempre più stretta solidarietà” con l’obbligo di
stringere futuri “accordi ispirati a questa solidarietà”.
L’obbligo della guerra sicuramente non avrebbe potuto essere
considerato, in nessun caso, e né qualificato come tipico e compreso
in una politica, ispirata alla collaborazione bilaterale, avente come fine
ultimo la solidarietà. La camera fascista albanese avrebbe pure potuto
denunziare il pactum belli, che non rientrava nel principio della
solidarietà, deliberando di non darvi esecuzione; tanto più che
l’alleata Italia non era aggredita, ma era essa a dichiarare la guerra.
Sussisteva, quindi, una indubitabile gravissima responsabilità,
consapevolmente assunta, dai componenti della camera fascista e dal
suo
presidente
nell’approvazione
della
dichiarazione
e
nell’accettazione della guerra con la costrizione del popolo albanese a
combattere e morire per la cosiddetta comunità imperiale.
Cassiano:La collina del prete
100
XI
Con la nomina alla presidenza del Consiglio Supremo Fascista,
Terenzio Tocci s’è venuto a trovare al centro del potere fascista in
terra albanese e, quindi, a toccare con mano ed a vivere e sopportare il
modo “coloniale” di esplicazione del potere. Sulla carta esistevano il
governo e tutti gli altri organi di gestione dello Stato, ma, di fatto, tutti
dipendevano da Roma, dal potere centrale, che, ad un certo momento,
istituì un apposito Sottosegretariato per gli affari albanesi.
Non tardò il nostro ad esperimentare che la famosa politica di
collaborazione e di solidarietà fra le due nazioni “sorelle” era solo una
favola; la realtà vera era l’incipiente processo di snazionalizzazione e
di colonizzazione. Il cosiddetto Statuto, che avrebbe dovuto costituire
la legge fondamentale dell’unione delle corone, era puramente e
semplicemente carta straccia. Di fatto, quindi, lo Stato albanese aveva
cessato di esistere dal tempo dell’occupazione italiana.
L’Albania è diventata una riserva di caccia per abili trafficanti,
per funzionari pubblici, italiani e albanesi, che rubano a man bassa; la
corruzione è diffusa anche nelle alte sfere ex zoghiste ed ora fasciste;
ogni ideale è scolorito o del tutto svanito. Da quanto si legge nel testo
di Rita Tocci, che riporta ampi stralci degli scritti paterni, si
comprende come non pochi funzionari del paese occupante, gerarchi
o parenti di gerarchi o protetti da costoro, facevano “i loro comodi
come se l’Albania fosse una colonia, vi erano alcuni che intendevano
fare da padroni”. E cita alcuni casi esemplari, come il consigliere dei
lavori pubblici che elargiva “con imperiale larghezza lotti e lotti di
Cassiano:La collina del prete
101
terreno a centinaia di sudditi italiani…generali, ammiragli, dottori e
professori ecc. . Non mancavano i nomi di ufficiali subalterni e di
sottufficiali”.
O il consigliere del ministero dell’industria che
distribuiva concessioni minerarie e che, alle rimostranze delle
commissioni delle finanze e dell’industria, oppose che quelle erano
“le direttive del Duce”.
Il Nostro non comprese o non volle comprendere che tutto
questo sfasciume morale e politico aveva una sola origine:
l’occupazione italiana dell’Albania, che aveva distrutto lo Stato
albanese, creandovi una colonia di fatto, ed aveva consegnato il Paese
a profittatori e traditori, interessati solo ai propri affari in danno degli
interessi collettivi. Di conseguenza, a fronte di un ristretto nucleo di
privilegiati, albanesi e italiani, la grande maggioranza della
popolazione era costretta a soffrire e sopportare.
Al Tocci, pur costretto dalle oggettive contingenze a battere il
muso contro la miriade di soprusi, concussioni, ruberie ed abusi vari,
neppure passò per la testa che l’unico rimedio contro tanto degrado
non era la costituzione di “qualcosa come il “Fronte della Corona”,
cioè,
arrestare
l’opera
di
snazionalizzazione
ed
arrivare
immediatamente al rispetto dello Statuto, che più tardi, dopo la
guerra… si sarebbe riveduto”.
Era perfettamente inutile invocare il rispetto di uno strumento
giuridico che – oltre a nascondere lo stato effettivo di colonizzazione –
era stato imposto dallo stesso occupante. Non aveva, quindi, senso
alcuno
rifarsi
allo
Statuto;
bisognava,
invece,
battersi
per
Cassiano:La collina del prete
102
l’indipendenza dell’Albania e non illudersi dietro le fole della politica
di pretesa solidarietà da parte dell’Italia fascista. Possibile che il Tocci
era tanto ingenuo da non capire che l’Italia fascista aveva occupato
l’Albania per ragioni di sicurezza internazionale? Resta veramente
assai difficile ammettere una simile ipotesi. Il fatto è che egli, invece di
fare
resistenza attiva o
passiva, aveva scelto
di adeguarsi
all’occupazione ed era stato cooptato nelle alte sfere dirigenziali e,
pour cause, aveva finito coll’abbracciare ciecamente la causa del
littorio, mettendo nel dimenticatoio le sue origini mazziniane che gli
avevano fatto scrivere, in altri tempi, parole come queste che ora
sembravano bestemmie: “quando un popolo vuole essere libero non
fa politica, ma guerra invece; non si raccomanda ai diplomatici, ma al
proprio coraggio e se cade, risorge, purchè abbia fede nei suoi destini
e da essa sappia trarre la forza e il coraggio che creano gli eroi”.
Quam mutatus ab illo!
Da fascista e da collaborazionista sui generis nutriva l’illusione
che,
nell’ambito
dell’organizzazione
fascista,
avrebbe
potuto
muoversi con una certa autonomia e chiedere e pretendere di essere
ascoltato dagli occupanti e dai loro servi del governo quisling per
imporre un freno alle prevaricazioni dei colonizzatori. Era, né più e né
meno, come pretendere che i ladri non rubassero.
Neppure ciò che era avvenuto subito dopo l’occupazione gli
aveva fatto aprire gli occhi per fargli vedere la realtà della soggezione
del proprio Paese, trattato come vinto e sottomesso, che, però, onde
evitare colpi di mano e aiuto al nascente movimento partigiano –
Cassiano:La collina del prete
103
ancora alquanto in difficoltà, ma destinato ad una rapida crescita –
dovette subìre un severo sistema di rappresaglie indiscriminate e di
illegali, feroci repressioni, secondo un piano particolareggiato
studiato ed elaborato in vista della campagna albanese, ispirato al
principio di recidere col terrore ogni possibilità di collegamento tra i
gruppi partigiani, schierati in difesa dell’indipendenza nazionale, e la
stragrande maggioranza della popolazione, fiancheggiatrice del
movimento partigiano.
Solo quei politici skipetari, che avevano visto o vedevano
nell’esercito italiano, anzi che un invasore, un “liberatore”, potevano
veramente fare finta di non capire le modalità ed i termini di
attuazione del progetto di occupazione: in un primo momento il
piano prevedeva l’assoggettamento economico dell’Albania allo
scopo di ridurla alla condizione di protettorato italiano ed, in un
secondo momento, di vera e propria provincia italiana.
Proprio la finalità e la definizione ultima dell’operazione
portarono le autorità italiane a progettare e poi adottare le suddette
misure repressive contro ogni possibile e sospettabile manifestazione
di resistenza, come le numerose fucilazioni illegali, l’arresto e la
detenzione arbitrari, l’internamento in campi di concentramento in
Italia ed in Albania.
Un documento del servizio di informazioni militari, pubblicato
nel testo La campagna di Grecia del generale Montanari, spiega in
termini chiari il perché delle misure di repressione: “la propaganda a
noi contraria…cerca di eccitare gli atavici istinti all’insurrezione…solo
Cassiano:La collina del prete
104
il timore di immediate rappresaglie tiene a freno i mestatori albanesi.
Qualora essi si sentissero relativamente liberi di agire o, peggio,
nostre disavventure militari risvegliassero gli istinti di rapina e di
guerriglia della popolazione, sarebbe da attendersi l’immediata
costituzione di bande che troverebbero largo aiuto in armi e
munizioni…”.
Ben preso arrivarono le “disavventure militari” quando le
truppe italiane furono respinte dal fronte greco e costrette
all’arretramento. Allora, per contraccolpo, divenne difficoltoso il
controllo dell’ordine pubblico all’interno dell’Albania. Anche se le
milizie collaborazioniste abbandonarono l’esercito italiano, non per
questo venne a cessare la repressione antipartigiana da parte delle
forze di occupazione, la quale – come documenta l’archivio dell’ANPI
– si attuò con massacri della popolazione, con incendio e distruzione
di abitazioni e di villaggi, torture di prigionieri politici ed altre non
meno ingiuste ed orribili forme.
Naturalmente più aspra e dura diventava la repressione nel
momento in cui aumentava la pressione del movimento partigiano,
che andava estendendosi in tutto il territorio nazionale ed esercitava
un forte richiamo particolarmente sulle gioventù, ma trovava anche
un appoggio decisivo nella popolazione.
La fucilazione del giovane Vasil Laci che, il 12 maggio 1941,
aveva attentato a Vittorio Emanuele III, scatenò una forte ed
impetuosa dimostrazione popolare, per le vie di Tirana, contro
l’occupazione
italiana.
La
successiva
reazione
delle
truppe
Cassiano:La collina del prete
105
d’occupazione, con il concorso delle milizie collaborazioniste e del
governo quisling, fu portata a compimento attraverso rappresaglie
pubbliche ed indiscriminate al fine di terrorizzare la popolazione e di
ammonirla di non turbare ulteriormente l’ordine pubblico.
In seguito, proprio allo scopo di scoraggiare altre rivolte, il
governo collaborazionista in collegamento con la Luogotenenza,
eseguì una serie di indiscriminate e pubbliche impiccagioni, facendo
fucilare diversi simpatizzanti e partigiani, aderenti al partito
comunista albanese, presi prigionieri dai fascisti italo-albanesi.
Il governo presieduto dal collaborazionista Merlika Kruja,
succeduto a Verlaci nel dicembre 1941, su precise indicazioni italiane
e con il concorso delle forze occupanti, pianificò il sistema repressivo
per tutto il territorio albanese con l’adozione dei metodi fascisti, usati
nelle colonie africane.
Nelle città, come Valona, Fieri, Berat, Argirocastro, dove era
cresciuto
e
fortificato
il
movimento
partigiano,
le
milizie
collaborazioniste di Kruja e le truppe italiane posero in atto numerosi
e sanguinosi rastrellamenti, occupazioni e distruzioni di villaggi,
arresti arbitrari, interrogatori seguiti da torture, dei supposti
oppositori.
Tutti i villaggi della zona di Skrapari furono dapprima
saccheggiati dei beni rinvenuti, poi incendiati e rasi al suolo. Un altro
eccidio fu consumato da italiani e collaborazionisti albanesi a
“Mallakastra”, conosciuta come la Marzabotto albanese. Degli ottanta
villaggi furono tutti rasi al suolo dall’artiglierie e dall’aviazione, con
Cassiano:La collina del prete
106
centinaia di morti, in quattro giorni di combattimento, per il sospetto
di essere luogo di rifugio delle truppe partigiane.
A Tirana, la caserma del viale regina Elena, oggi chiamata
Rruga Barrigades, divenne il simbolo dei luoghi delle torture, inflitte
agli oppositori politici, inermi ed indifesi, e degli omicidi perpetrati
contro gli stessi. Oltre quarantamila, tra civili e partigiani, furono
arbitrariamente reclusi nelle prigioni o nei campi di concentramento.
Molti partigiani, al fine di allontanarli dalla loro patria e per troncare
ogni legame col movimento, furono deportati in Italia per essere
carcerati nelle prigioni pugliesi o confinati a Ustica, Ventotene e
Lipari.
Furono ingenti i danni, in persone e cose, arrecati all’Albania
dalla occupazione italiana, oggi esposti e sintetizzati nel Museo della
Resistenza: 28.000 morti, 12.000 feriti, 43.000 deportati ed internati nei
campi di concentramento, 61.000 abitazioni incendiate, 850 villaggi
distrutti, 100.000 bestie razziate, centinaia di migliaia di alberi da
frutto distrutti. I criminali di guerra italiani, inclusi nell’apposita lista
delle Nazioni Unite, furono tre, ai quali vennero aggiunti altri 142 a
richiesta del governo albanese. Ma nessuno fu mai processato per i
gravi crimini contro l’umanità, perpetrati in Albania durante
l’occupazione italiana.
Mentre accadevano tutti gli avvenimenti surriportati,
stessa
capitale
Tirana
avvenivano
manifestazioni
contro
nella
gli
occupatori, seguite da pubbliche impiccagioni e fucilazioni, si
eseguivano in tutto il territorio albanese repressioni e feroci
Cassiano:La collina del prete
107
rappresaglie, il movimento partigiano si ingrossava e diventava
rappresentativo dell’indipendenza e della libertà della nazione,
Terenzio Tocci dov’era? Egli era certamente a Tirana a presiedere il
Consiglio Corporativo Fascista e, per tale carica, sicuramente doveva
essere a conoscenza che il popolo albanese, in tutte le parti del Paese,
organizzava la resistenza contro gli invasori, e che, per neutralizzare
il movimento patriottico partigiano, truppe italiane e collaborazionisti
albanesi avevano pianificato la rete di repressione, che si attuava nel
modo illegale e sanguinoso, come si è detto.
Non risulta da alcuna parte che egli avesse mai preso in
considerazione le ragioni della stragrande maggioranza degli
Albanesi che manifestavano o lottavano, inquadrati nelle compagnie
partigiane, contro l’occupazione italiana. Né che abbia – con l’autorità
della sua alta carica – qualche volta vivacemente protestato o spiegato
una qualche opposizione contro le illegali e incivili pubbliche
impiccagioni, eseguite a Tirana, o contro le ricorrenti illegalità,
perpetrate nella caserma-prigione di viale Elena di Tirana o contro il
saccheggio e la distruzione di interi villaggi, incendiati e rasi al suolo.
Se egli fosse stato un collaborazionista in buona fede, come lo si
vorrebbe fare apparire con addomesticate ricostruzioni degli
avvenimenti, sicuramente di fronte agli evidenti crimini, perpetrati
nel corso dell’occupazione italiana, non avrebbe potuto tacere. Invece,
nulla vide – o non volle vedere - di quanto di drammatico accadeva
sotto i suoi occhi; si consumavano eventi storici, che avrebbero
sconvolto la geografia e la politica europea ed il Tocci ancora credeva
Cassiano:La collina del prete
108
nell’unione delle corone, nella “Roma imperiale”, nella “fratellanza”
italiana, proprio nel momento in cui avrebbe dovuto, per la forza
prorompente degli avvenimenti, dei fatti e dei misfatti sperimentati,
almeno – non dico, convertirsi al liberalismo – ma apportare una
radicale correzione alle sue vedute politiche, senza aspettare che le
sue ideologie ed i suoi miti si consumassero insieme alla fine
inevitabile della cosiddetta potenza fascista – come ormai non era
difficile intuire dal succedersi delle vicende internazionali e dal corso
preso dagli avvenimenti bellici.
Il fatto che elevasse – sempre rispettosamente – qualche critica
su disfunzioni amministrative e della condotta del governo fantoccio
di Tirana, non è certamente sufficiente a collocarlo tra gli oppositori
ed i contestatori del regime. Ciò perché egli, in effetti, propone e
suggerisce l’adozione di rimedi per la “moralizzazione” del Paese,
per il rafforzamento e consolidamento del regime, per la riuscita della
“rivoluzione nazionalista” ed il buon esito del cosiddetto ideale della
fusione tra italiani e albanesi ed, in definitiva, della politica della Roma
Imperiale, “simbolo di un ciclo storico mondiale che riprende il suo
corso”, com’era sua “ferma convinzione”, secondo quanto scriveva al
Luogotenente Jacomoni il 31 marzo 1941, così esprimendo una
convinzione politica basata sul nulla.
Eppure, non ci voleva molto per capire la realtà della
colonizzazione da parte italiana, nascosta dietro la retorica della
collaborazione tra due popoli, uniti dallo stesso destino. Già il modo
frettoloso che aveva caratterizzato il passaggio all’unione delle
Cassiano:La collina del prete
109
corone, avvenuto nell’arco di poco più di una settimana dalla
occupazione, avrebbe dovuto costituire un campanello d’allarme. Ma
l’atto successivo, posto in essere dalla Roma Imperiale con apposito
regio decreto del 18 aprile 1939, in forza del quale veniva creato il
Sottosegretariato di Stato per gli affari albanesi (SSAA), rendeva
esplicite le intenzioni degli occupatori. La creazione, infatti, del
predetto Sottosegretariato, con sede in Roma, alle dipendenze dirette
del Ministero degli Esteri italiano, segnò l’inizio di una serie di
procedimenti in contrasto con l’affermazione dell’indipendenza
albanese, più volte ipocritamente affermata dal governo italiano.
Da rilevare, inoltre, che il decreto di istituzione del nuovo
organo non vide la partecipazione, nella fase della stesura, di nessun
membro o rappresentate del governo albanese: questo spiega il
mancato inserimento del decreto, come pure la legge di assunzione
della corona d’Albania da parte di Vittorio Emanuele, nella
legislazione albanese.
A fare nascere i dubbi sulla vera natura giuridica dell’unione
fra i due Paesi, concorreva, in aggiunta, anche la circostanza oggettiva
che il nuovo organo era modellato sul Sottosegretariato del Ministero
dell’Africa italiana.
Fu l’Italia occupante a creare, con propria legge (13.7.1939, n.
1103), ed istituire a Tirana, la Luogotenenza generale, i cui servizi
centrali e periferici furono demandati alla regolamentazione del
Ministero degli esteri italiano. Così la costituzione di un organo
costituzionalmente rilevante e di primaria importanza, come la
Cassiano:La collina del prete
110
Luogotenenza generale del re in Albania, restò una decisione solo ed
esclusivamente italiana perché non vennero mai approvate e
promulgate analoghe leggi albanesi per la nomina del Luogotenente e
per l’istituzione della Luogotenenza. Per conseguenza, sotto il profilo
giuridico,
anche la Luogotenenza, del cui titolare la nomina era
riservata al re, era nient’altro che organo dello Stato italiano, e
fungeva da strumento di controllo politico sull’Albania.
Ulteriore strumento di controllo fu l’istituzione – il 2 giugno
1939 – del partito fascista albanese, unico ammesso, totalmente
subordinato all’italiano partito nazionale fascista, come chiaramente
emerge dalla nota, posta a premessa dello statuto del nuovo partito,
esplicitamente definito “non autoctono, né autonomo, ma filiazione
del partito nazionale fascista”.
La sua natura era sancita come “milizia civile volontaria agli
ordini di Benito Mussolini, creatore e duce del fascismo”, il quale
impartiva le sue disposizioni al segretario del partito fascista albanese
attraverso il segretario nazionale del PNF, che era rappresentato –
presso il partito albanese – da un ispettore del partito italiano,
coadiuvato da un segretario federale e da due ispettori federali del
PNF.
Soltanto chi vagava tra le nuvole, dunque, e non chi aveva i
piedi ben piantati per terra, avrebbe potuto credere alla favola
ingannatrice, reiteratamente recitata dalle autorità dello Stato
invasore, dell’esistenza dello stato albanese, libero e indipendente.
Cassiano:La collina del prete
111
XII
Terenzio Tocci, ormai inserito tra le alte gerarchie
fasciste albanesi, non dava molto affidamento ai padroni di Roma. Sia
Ciano che il duce ne avevano un fastidio quasi fisico; più volte
rifiutarono di riceverlo.
E certamente ragioni v’erano per diffidare del Nostro: egli
continuamente interveniva – sia verbalmente con il Luogotenente che
inviando a Roma promemoria e memorandum – al fine di correggere
errori, modificare la condotta dei funzionari italiani in Albania per
non irritare gli albanesi, eliminare gli abusi particolarmente nei lavori
pubblici, arrestare l’azione di completa fascistizzazione.
Questi rilievi e osservazioni – fatti dal Presidente del Consiglio
Corporativo, sicuramente nell’interesse complessivo del regime –
irritavano , e di molto, le autorità romane, che non sopportavano
alcuna critica, anche proveniente dall’interno dell’organizzazione.
Tocci, che era un nazionalista che aveva condiviso con convinzione
l’unione delle due corone, riteneva che lo Statuto dovesse essere
osservato alla lettera; non si era per nulla reso conto del carattere
formale e strumentale attribuito allo Statuto dalla dirigenza fascista
per simulare l’occupazione.
Perciò, mentre Roma o chi per essa – nel caso la Luogotenenza
del re – parlava soltanto la lingua del dominio coloniale, il Presidente
del Consiglio Corporativo – che andava ritagliandosi un proprio
spazio politico – non l’intendeva o, comunque, fingeva di non
intenderla e riteneva di potere conferire alla pari con le pompose
Cassiano:La collina del prete
112
gerarchie romane o addirittura con lo stesso duce. Avvertendo che le
sue osservazioni non erano prese in considerazione, punto nel
proprio orgoglio, nell’autunno del 1941, in piena crisi greca, si recò a
Roma con un memoriale di dieci pagine per essere ricevuto da
Mussolini.
Già il marchingegno, a cui dovette ricorrere, denota il grado di
corruzione nelle gerarchie del regime fascista. Conviene leggere il
resoconto del Tocci. “ Andai, dunque, a Roma, temendo che non si
volesse sapere la verità o che per lo meno non piacesse udirla da me,
regalai alcune migliaia di lire a persona che promise di fare giungere
il mio plico al Duce. E pare che quel denaro non sia stato speso
invano… almeno per quanto riguardasse il recapito, perché a onor del
vero, il mattino del 13 gennaio 1941, Mussolini mi ricevette in
presenza di Ciano. (Per la moralità dei tempi: la persona che, dietro
compenso lauto, faceva avere al padrone d’Italia i lamenti dei poveri
negri, era una spia di Ciano!)”.
Le considerazioni del Tocci sul colloquio e le sue impressioni
inclinano al pessimismo per l’avvenire. Testimoniano di una crisi
incipiente di fiducia nel fascismo. “Quando me ne tornavo all’albergo
– scrive il Tocci – pensai: tutto questo tempo è perduto. E a dire il
vero, quelle tali migliaia di lire non mi vennero affatto in mente,
tanto mi preoccupavano l’aspetto del Duce e molti dubbi
sull’avvenire dell’Albania che, secondo me, – in quell’ora – non
poteva essere guidata dal Duce – uomo ingannato, tradito e privo di
Cassiano:La collina del prete
113
quella salute che è tanto necessaria a chi troppo concentra nelle sue
mani”.
Dunque, l’Albania “non poteva essere guidata dal Duce”. Qui è
concentrato tutto il disegno politico segreto del Tocci e la chiave di
volta per capire i successivi sviluppi. Per tutta l’esperienza
accumulata, per la conoscenza di uomini e cose, vizi privati e
pubbliche virtù degli stracci umani che lo circondavano, Tocci
perviene alla conclusione che, in Albania, era necessario un profondo
e radicale mutamento. Non di regime, ma di uomini dello stesso
regime. Si trattava naturalmente di un processo che avrebbe avuto un
percorso tormentato, ma che pure bisognava tentare con tutte le
cautele e le riserve del caso.
I tempi per iniziare l’attuazione di tale progetto sembrarono
maturi nell’autunno del ’42, quando anche le sorti della guerra erano,
più o meno, compromesse ed in Albania, nonostante la feroce rete
repressiva predisposta dalle truppe occupanti e da
quelle
collaborazioniste, dilagava ormai il movimento partigiano, che non
era fatto solo da comunisti, ma anche di nazionalisti del Balli
Kombetar.
Dalle notizie, fornite dalla figlia, si deve ritenere che il Tocci,
già in tale epoca, soleva tenere riunioni private con la maggioranza
dei deputati per uno scambio di opinioni sulla situazione del Paese.
Una di tali riunioni private avvenne nel novembre 1942, “…quando –
scrive il Tocci – il mio disgusto era al colmo e scrissi ufficialmente alla
Luogotenenza che la situazione giorno per giorno peggiorava in
Cassiano:La collina del prete
114
maniera assai pericolosa, che il fratricidio ci avrebbe sterminati, che
occorrevano misure che punissero i latrocini e gli abusi, che una
distensione degli animi in rivolta poteva essere ottenuta con giustizia
e nuovi sistemi amministrativi, poiché gli abusi erano ormai un
sistema del regime, che gli avversari dovevano essere perseguitati
legalmente e non con le torture; che pertanto non era possibile per me
proseguire nelle funzioni di Presidente della Camera Corporativa in
tale situazione. Per risposta ebbi alcune minacce che aderivano
perfettamente alla teatrale mentalità dei gerarchi fascisti; e fra l’altro
uno mi disse che il mio ritiro sarebbe stato interpretato a Roma come
una manifestazione antifascista”.
Com’è assai chiaro, Tocci idealmente era ormai fuori dal
fascismo; era un collaborazionista pentito, che stava studiando,
insieme ad altri, allo stato ignoti, come uscire, gradualmente, da un
governo quisling, assolutamente prono ai voleri di Roma, per poterne
costituire un altro,
idoneo a porre fine alla guerra civile ed
all’esercizio reiterato della manifesta illegalità.
I deputati, suoi amici, che egli convocava per private riunioni,
dovevano costituire il nerbo di quella formazione politica, detta
“partito della Corona”, che, senza mettere in discussione l’assetto del
regime, avrebbe dovuto dare uno sbocco politico nuovo all’Albania al
fine di uscire dalla guerra civile con un governo di “concentrazione
nazionale e di fiducia popolare”, che, in seguito, avrebbe sicuramente
avuto altri sviluppi.
Cassiano:La collina del prete
115
Per non destare i sospetti della Luogotenenza, sembrò
“prudente tattica” quella di affidare allo stesso Tocci, nella qualità di
Presidente del Consiglio Corporativo, l’incarico di recarsi “in udienza
speciale” presso il Luogotenente per proporre misure idonee per
evitare ulteriori abusi, furti, discordie, il protrarsi del fratricidio, e per
chiedere “un governo di concentrazione nazionale e di fiducia
popolare”. Ma “due dei “camerati” – che avevano preso parte alla
riunione – non tennero chiuso il becco; “volarono alla Luogotenenza
per annunziare che il parlamento affilava le armi per una rivoluzione!
Effettivamente nella modesta sala della Camera di Tirana era
palpitata qualcosa come nella Pallacorda di Versailles (mia la
sottolineatura)…ma noi non domandavamo la Costituzione, invece
chiedevamo che si rispettasse la Costituzione e non ci si ritenesse
svincolati dalla fedeltà al Re”.
Il Tocci si faceva soverchie illusioni. Ciò che riuscirà ai gerarchi
fascisti nel Gran Consiglio del fascismo il 25 luglio 1943, non sarebbe
potuto riuscire a lui ed ai suoi amici del “partito della Corona”, alla
periferia del cosiddetto impero, privi di alte protezioni e di appoggi
popolari, in un povero paese popolato da spie assoldate e da traditori
prezzolati. Congiurati – come effettivamente erano -
furono
facilmente scoperti e neutralizzati. Tocci, la mattina del 24 nov. 1942,
mentre si preparava per recarsi alla camera fascista, apprese dalla
radio che aveva dato le dimissioni e che erano state accettate. Altri
furono costretti pure alle dimissioni; qualcuno fu arrestato.
Cassiano:La collina del prete
116
Il professore Alessandro Serra, ufficiale dell’esercito italiano di
stanza a Tirana ed amico del Tocci, ricorda, in un suo libro di
memorie, che l’ex Luogotenente, Francesco Jacomoni, da lui
appositamente interpellato, gli riferì che
– relativamente al
dimissionamento del Tocci – “si trattava di un ordine che giunse da
Roma”.
Finalmente, il Nostro deve prendere atto che la politica delle
due nazioni sorelle
è stata smentita dalla prassi. Al nuovo
Luogotenente, generale Pariani, succeduto a Jacomoni, in un
colloquio avuto alla vigilia dell’armistizio dell’8 settembre ’43,
confesserà che “raccomando da oltre un anno a tutti di “separarci
signorilmente” dagli italiani onde poter vivere da buoni vicini nel
futuro”.
L’8 settembre segnò anche la fine dell’Unione italo-albanese.
Dopo tale data si accentuarono, da parte della popolazione albanese,
tutti quei segnali di opposizione all’occupazione italiana, già evidenti
fin dall’aprile 1939, con dimostrazioni, boicottaggi. Anche il
movimento comunista, trasformatosi dal novembre 1941 in partito
comunista, promosse alcune manifestazioni.
Un movimento per un certo periodo incerto ed ambiguo fu il
Balli Kombetar (Fronte Nazionale), costituito nel 1942, nazionalista e
conservatore, il quale inizialmente aderì al movimento partigiano e
tentò un accordo con il partito comunista con fini antitaliani;
successivamente si accordò con le autorità italiane per combattere i
comunisti
albanesi
ed,
infine,
addirittura
arrivò
fino
alla
Cassiano:La collina del prete
117
collaborazione con le forze di occupazione tedesche, con fini
antitaliani ed anticomunisti.
La maggioranza dei soldati italiani, sbandati perché lasciati senza
direttive da Roma, fu fatta prigioniera dai tedeschi ed avviata verso i
campi di concentramento tedeschi sparsi in Europa. Una parte delle
forze armate italiane decise di reagire contro i tedeschi e affiancò il
movimento partigiano, dando vita, fin dal 16 settembre ’43, al
Comando italiano truppe della montagna, inquadrato nell’esercito di
liberazione nazionale albanese. Tale Comando fu, poi, sostituito, dopo
il giugno ’44, dal Comando truppe italiane d’Albania. Molti soldati
italiani decisero di entrare a fare parte delle formazioni partigiane
albanesi, costituendo dei reparti autonomi, di cui il più famoso è il
Battaglione Gramsci.
Lo stato d’animo del Tocci nel periodo tra l’occupazione
nazista di Tirana e l’arrivo delle milizie partigiane, è evidenziato dallo
stesso Tocci in una lettera al francescano Paolo Dodaj, in cui afferma
di sentirsi “oppresso, perduto, disorientato come un uomo in alto
mare senza nemmeno la tradizionale tavola di salvataggio…sono
sotto il pieno dominio di preoccupazioni che confinano con la
disperazione”.
Il suo progetto politico di dare vita ad un governo di
concentrazione nazionale era evidentemente e definitivamente fallito.
La sua effettivamente era una situazione oggettivamente difficile e
che si prestava anche ad interpretazioni superficiali. Sentiva, certo, il
peso della sua responsabilità – il francescano Paolo Dodaj gli aveva
Cassiano:La collina del prete
118
chiesto se fosse “perseguitato da una crisi di coscienza” – per avere
ricoperto l’incarico di Presidente del Consiglio Corporativo Fascista,
ma riteneva di essersi riscattato, denunziando gli abusi del regime,
chiedendo un nuovo governo sostenuto dal consenso popolare e,
infine, pagando il prezzo delle sue scelte con la destituzione.
Come avrebbe potuto intervenire nella realtà politica albanese,
dopo la definitiva sconfitta dell’Asse? Inservibili ed inadeguate tutte
le vecchie ideologie, aveva intuìto che la battaglia politica si sarebbe
imperniata sulle grandi formazioni politiche con programmi di
riforme radicali nell’economia e nelle strutture delle istituzioni
pubbliche. Tocci ritorna, così, alle sue origini repubblicane; convoca
alcuni “dei pochissimi” amici rimastigli, e consiglia la fondazione del
“Partito Repubblicano Popolare Albanese”.
Il programma è ultrademocratico:
repubblica popolare con
suffragio uninominale diretto. “Riforma agraria portata fino all’osso
in base al principio che nessuno possa possedere terre se non le
coltiva direttamente o come direttore-amministratore di aziende
agricole; limitazione della ricchezza nei possessi urbani in modo che
nessuna casa possa rendere più del cinque per cento annuo netto;
semplificazione
dell’organizzazione
statale
e
avviamento
dei
funzionari governativi superflui all’agricoltura; assistenza massima
alla
classe
agricola
con
concomitante
programma
di
disurbanizzazione; libertà completa di stampa, di parola e di
organizzazione, quando tale libertà non manchi di rispetto alle
religioni ed alla loro morale; punizione con pena severa per tutti i
Cassiano:La collina del prete
119
funzionari statali che dolosamente si sottraggono al loro dovere;
elevazione della Besa a Istituto Nazionale messo sotto la protezione
dello Statuto fondamentale della Repubblica”.
Era un programma – parzialmente demagogico e adeguato alla
situazione sociale, politica e culturale albanese – che non andò oltre
l’enunciazione. Non si hanno notizie che amici o sodali del Tocci
abbiano dato vita – o, almeno, tentato – ad una simile formazione
politica. Nel caos della guerra civile tra movimento riformatore,
ampiamente egemonizzato dai comunisti, e nazionalisti conservatori,
la nuova formazione politica non trovava un proprio spazio o, quanto
meno, ci sarebbe voluto un bel po’ di tempo per crearsene uno. E, poi,
con quel programma, socialmente spinto, non avrebbe potuto che
collocarsi a sinistra. Ma, a sinistra, sarebbe stato schiacciato dalla
concorrenza del partito comunista, che aveva un suo radicamento
sociale e – allora, nel momento dell’utopia – poteva contare anche su
intellettuali progressisti e democratici di notevole prestigio, come il
poeta e scrittore Seifulla Maleshova, successivamente isolato
dall’integralismo dogmatico comunista e destinato a finire i suoi
giorni, nel 1970, nel confino di Fieri.
Tocci era consapevole che l’unica uscita di sicurezza, nella
situazione data, non era quella di scappare clandestinamente e di
mettersi eroicamente in salvo, come avevano fatto tanti ex zoghisti o
nazionalisti collaborazionisti. Egli riteneva, invece, che, anche nelle
mutate condizioni politiche del dopoguerra, avrebbe potuto avere
voce in capitolo e fare valere le sue carte contrariamente a quel che,
Cassiano:La collina del prete
120
invece, le apparenze facevano intravedere, presentandolo come
esponente del vecchio regime da buttare via o da mettere fuori
servizio. Egli, invece, riteneva di avere benemeritato dalla patria
perché, nel momento in cui i vecchi gruppi dirigenti del notabilato
albanese si erano umiliati e messi al servizio degli occupanti, aveva
tentato di frenare il processo di snazionalizzazione servendosi della
carica di presidente del Consiglio Corporativo fascista ed aveva
pagato di persona.
Era, perciò, convinto che i nuovi gruppi dirigenti avrebbero
riconosciuto i suoi meriti oggettivi e, probabilmente, gliene avevano
già dato atto in separati pourparlers. Aveva maturato una così ferma
convinzione in proposito che, reiteratamente, rifiutò di scappare.
Secondo il racconto della figlia – che non v’è motivo di disattendere un “capo partigiano” – “uno di quelli che non riescono a rendere
nemico anche il cuore” – gli aveva mandato a dire, attraverso il
siculo-albanese Gaetano Petrotta, amico del Tocci e frequentatore
della sua casa, di cercare di mettersi in salvo perché il “tribunale dei
partigiani” aveva deciso la sua condanna alla pena capitale. Ma niente
da fare: il Tocci non si mosse di casa.
Successivamente,
proprio
alla
vigilia
dell’ingresso
dei
partigiani a Tirana (17 novembre 1944), si rifece vivo Gaetano Petrotta
che, sempre a nome dell’innominato “capo partigiano”, gli rinnovava
l’invito di farsi uccel di bosco, avvertendolo, altresì, delle non proprio
benevoli intenzioni nei suoi confronti da parte del movimento
partigiano. Anche questa volta Tocci fu irremovibile. Nemmeno i
Cassiano:La collina del prete
121
pianti e le accorate preghiere della moglie e della figlia valsero a fargli
mutare opinione. Perché? La domanda richiede una spiegazione che
non sia di fantasia, ma razionale.
Il Nostro non era, certamente, un idealista, capace – come
Socrate – di sacrificarsi per testimoniare i propri convincimenti su
valori fondamentali della vita. Egli, invece, da esperto politico doveva
sapere – e di sicuro, ne aveva la consapevolezza – che l’egemonia,
oramai
chiaramente
delineatasi,
del
movimento
partigiano,
significava l’egemonia del partito comunista albanese ed, in tale
contesto, in teoria non poteva essere – al minimo - che emarginato, se
non proprio punito come ex collaborazionista. Non poteva, inoltre,
non essere a conoscenza che, dopo l’approvazione della Carta
Atlantica dell’11 agosto 1941, la guerra contro i paesi dell’Asse
acquistava progressivamente e nettamente un carattere di guerra
ideologica contro il nazismo e contro il fascismo. Ed egli, come si è già
sottolineato, non si considerava fascista, anche se aveva sostenuto il
fascismo.
E, allora, perché non scappò?
Naturalmente, allo stato, si può avanzare qualche ipotesi, avvalorata
proprio dal suo comportamento. Quando bussarono i partigiani alla
sua porta di casa – riferisce la figlia – Tocci uscì in questa espressione :
“almeno con questi ci capiremo” e obbedì all’invito di seguirli al
Comando per dare alcune spiegazioni. Non era, quindi, affatto
preoccupato che potesse essere arrestato come criminale di guerra. La
circostanza deve fare arguire l’esistenza di un pregresso accordo con
Cassiano:La collina del prete
122
alcuni rappresentanti del movimento partigiano, che egli, per la
delicatezza della cosa, doveva tenere ben segreta anche agli stessi
amici e famigliari.
Per questo motivo non intese scappare e seguì i partigiani al
Comando per dare “alcune spiegazioni”. Dopo di che sarebbe stato
libero.
Tanto
era avvenuto,
del
resto,
anche
con
altri
ex
collaborazionisti non solo dei fascisti, ma dei nazisti, come lo stesso
Tocci non trascurerà di rilevare nelle note per l’autodifesa,
osservando che “abbiamo migliaia di persone che hanno collaborato
con l’occupazione fino all’ultima ora, anzi passando dalle file fasciste
a quelle naziste. Perciò l’amnistia ha avuto ampia interpretazione ed
applicazione”.
Non si può ritenere Terenzio Tocci così sprovveduto ed
ingenuo da attendere a mani giunte nella sua casa i partigiani. In
precedenza, nella transizione dal regime zoghista, egli aveva saputo
tessere la tela delle sue amicizie politiche, restando ben a galla, anche
come ex ministro ed amico personale del deposto sovrano. Era
riuscito, in seguito, nel regime fascista, imposto all’Albania con le
armi, a farsi attribuire un incarico istituzionale assai rilevante. Aveva,
quindi, sempre diligentemente e pragmaticamente predisposto la sua
personale transizione da un regime all’altro, per nulla curandosi delle
ideologie o di quella specificamente e pubblicamente professata nel
periodo precedente. L’ideologia è da lui considerata strumentale
rispetto al potere; conseguentemente, ciò che conta è il potere, per la
cui ricerca si ricorre all’ideologia.
Cassiano:La collina del prete
123
Anche con il movimento partigiano aveva evidentemente usato
lo stesso metodo e doveva avere avuto assicurazioni tali sulla sua
salvezza da convincerlo a non muoversi di casa. Egli era, peraltro, sul
piano delle rivendicazioni sociali schierato su posizioni di estrema
sinistra, come evidenziava la bozza programmatica del partito
repubblicano popolare e come – più e meglio – si espliciterà nella
richiamata nota per l’autodifesa, nella quale esalterà il ribaltamento di
regime in Albania come “una rivoluzione grandiosa, vittoriosa come
la vostra, che ha dato alla gioventù un nuovo respiro, che creando una
nuova atmosfera, ha sotterrato il feudalesimo, piaga di questo povero
popolo, ma ora si fermi..una rivoluzione trionfatrice demolisce,
stritola, spiana per abbozzare ed innalzare la sua costruzione. Ma un
simile metodo di agire, vivo, dinamico, galvanizzante, si ferma alla
porta di alcuni principii che hanno la loro sorgente nella natura…”.
Per essere stato arrestato al Comando e portato al giudizio del
“tribunale dei partigiani”, qualcosa non ha funzionato. E’ impossibile
sapere che cosa. Le carte non parlano ed i protagonisti di quella
tragedia sono morti, quasi tutti, di morte violenta. E’ certo, però, che
il partito comunista albanese, pur diviso in varie correnti, nella
conferenza di Labinot del marzo 1943, non aveva disdegnato di
sollecitare e di ricercare la collaborazione dei nazionalisti in vista
dell’insurrezione generale, partendo dal dato di fatto che buona parte
di essi, soprattutto rappresentanti della media borghesia, s’erano
schierati o stavano per schierarsi con il Fronte di Liberazione
Nazionale; altri si mantenevano neutrali. Solo quei gruppi di
Cassiano:La collina del prete
124
nazionalisti che rappresentavano gli interessi della borghesia
reazionaria e dei latifondisti, erano schierati col Balli Kombetar, mentre
pochi di loro stavano in disparte in attesa dello sviluppo degli eventi.
Addirittura, nella richiamata Conferenza, furono ripresi e
criticati quegli atteggiamenti di impazienza e la mancanza di tatto di
alcuni singoli comunisti e di alcune organizzazioni nei riguardi dei
nazionalisti titubanti o tentennanti o neutrali e di quelli che facevano
parte del Balli Kombetar.
La Conferenza deliberò esplicitamente di dare prova di
pazienza nell’intento di realizzare l’unione e la collaborazione con i
nazionalisti. Anzi, i comunisti furono
incaricati di lavorare
instancabilmente per portare dalla loro parte tutti colono che erano
all’opposizione, anche con quelli che erano recalcitranti, al fine di
convincerli e di farseli alleati, fossero pure instabili. Non deve, quindi,
meravigliare che anche il Tocci – anzi, soprattutto uno come lui, noto
e con influenza su certa opinione pubblica – fosse avvicinato da
elementi della dirigenza partigiana ed avesse con loro concordato le
modalità ed i termini dell’alleanza o, meglio, del sostegno al nuovo
potere politico.
Qualcosa
in
seguito
non
andò
per
il
verso
giusto.
L’impressione è che i precedenti politici del Nostro siano stati valutati
in modo unilaterale da qualche frazione del partito comunista ed
abbiano costituito oggetto di scontri interni, facendo prevalere la linea
più intransigente che vedeva nel Tocci, soltanto ed unicamente, il
fascista ex presidente del Consiglio Corporativo, senza valutarne la
Cassiano:La collina del prete
125
singolare e multiforme personalità, che, invece, andava approfondita
per una reale ed oggettiva conoscenza dell’uomo e del politico. Del
resto, la posizione dei comunisti albanesi, come si è sottolineato,
mirava al recupero dei nazionalisti, che solitamente rappresentavano
la piccola e media borghesia e, cioè, una consistente e rilevante fetta
della popolazione.
Cosa sia accaduto, come e perché sia avvenuto, non è dato
sapere nei termini reali per la carenza delle fonti. Però, è realmente
accaduto; se ne ha una riprova nella più volte citata nota per
l’autodifesa, nella quale il Tocci individua la fonte delle infondate
“accuse ordite presso gli organi della giustizia contro di me”. Chi
sono costoro? Essi sono “persone che non sanno i fatti” oppure “li
hanno visti o li vedono da un punto di vista soggettivo, avvelenato da
un odio cieco”. Per conseguenza, solo persone che ignoravano i
termini della rottura reale tra Tocci ed il fascismo avrebbero potuto
formulare le accuse o, se non li ignoravano, soltanto sentimenti di
odio nei suoi confronti ne sarebbero stati alla base.
Spiega il Tocci
analiticamente la presa di distanza dal
fascismo con queste motivazioni: “1) si facevano persecuzioni senza
pietà, trasgredendo ogni limite legale; 2) le ruberie ed il contrabbando
impoverivano il popolo; 3) lo Stato albanese, attraverso i due delitti
soprannominati, andava verso la scomparsa anche per la politica
personale di Mustafà Kruja. Faccio rilevare che queste cose le avevo
messe in luce più dì una volta e soprattutto nell’agosto 1942 e che le
dimissioni decise nell’agosto 1942 e date nell’ottobre dello stesso
Cassiano:La collina del prete
126
anno, mi sono state accettate dal giornale Tomori, volendo con questo
sistema fascista punirmi pubblicamente con pesante dileggio. Ma per
coloro che ricordano e che simboleggiano gli avvenimenti, bisogna
ricordare che la risposta l’ha data la gioventù albanese che il giorno
della bandiera (28 novembre) ha atteso le massime autorità nella
piazza Skandebeg con fischi, mentre acclamava il mio nome”.
Ricorda ancora di essersi dimesso quando “l’Italia era forte ed
insieme alla Germania combatteva…perciò il mio allontanamento
dalla politica con eco insurrezionale, aveva un valore ed era un
grande e nobile dono all’altare della patria, perché se l’asse italotedesco non avesse perso la guerra, sulla mia testa sarebbe passata la
macchina fascista con tutto il suo peso, per uccidermi fisicamente e
moralmente. Ma queste cose le avevo tenute presenti quando diedi le
dimissioni e le avevo… valutate nel mio cuore, quando riunii la
Camera che doveva presenziare ad una conferenza di Mustafà Kruja,
in silenzio, nel lutto, per protesta contro le malvagità del Partito e di
Mustafà Kruja che segnavano l’apice della criminalità politica ed
amministrativa. Ricordi questo popolo ingannato e troppo fiducioso
che alcuni deputati scomparvero, non diedero le dimissioni e sulla
mia ribellione stesero i panni neri dell’egoismo, del cinismo e della
paura”.
Tocci aveva maturato la fondata convinzione che, dopo
l’allontanamento dalla Presidenza del Consiglio Corporativo ed il
tentativo di fondare o di contribuire alla costituzione di un governo di
transizione verso un sistema democratico ed avere definitivamente
Cassiano:La collina del prete
127
abbandonato il fascismo, i successivi rapporti con elementi della
Resistenza, lo avessero definitivamente riscattato dal suo recentissimo
passato e reso immune da risvolti giudiziari. Definita e chiarita nei
termini sopra delineati, la sua posizione, egli riteneva che fosse
provata la insussistenza di ogni sua qualsivoglia responsabilità nei
crimini, consumati dai fascisti e dal governo fantoccio ai danni della
collettività o che, in ogni caso, restava provata la sua assoluta buona
fede.
Tragico errore – si deve constatare post factum – che gli costerà
la vita ed un imbarazzato silenzio sulla sua fine. La sua immagine è
restata offuscata da una singolare anomalia: i fascisti ed “alcuni
imperialisti impazziti ed ignoranti d’Italia” lo considerarono un
traditore ed un voltagabbana, perché aveva denunciato i crimini del
fascismo albano-italico; gli antifascisti non riuscirono a dimenticare il
ruolo fondamentale, esercitato da lui durante l’occupazione del 1939 e
successivamente, almeno fino al 1942.
Cassiano:La collina del prete
128
Note bibliografiche
Per lo scritto di G. Meyer, cfr.: G. Meyer, Della lingua e della Letteratura
Albanese, in “Nuova Antologia”, vol. L, serie II, 15 aprile 1885, in cui l’Autore, dopo
avere osservato che nel testo di N. Camarda (Gli scrittori Albanesi dell’Italia
Meridionale, Palermo, 1867) il materiale raccolto è più completo che nel testo di G.
Stier (Die Albanesen in Italien und libre literatur, pubblicato nel Periodico Mensile
Universale nell’anno 1853, pp. 864-874), traccia, fra l’altro, per non parlare di Giulio
Varibbobba o di Antonio Santori o di “altri, le cui opere o non furono mai stampate,
o io non ebbi innanzi agli occhi”, una sintesi delle opere poetiche del de’ Rada,
osservando che “egli ricevette l’impulso dalle canzoni popolari come vengono
presentemente cantate fra i suoi connazionali, e nelle sue poesie cercò di adottare la
forma di questa poesia popolare per la poesia artistica. Secondo il suo parere
esistono fra gli Albanesi della sua patria tali cicli di canzoni, quali dalle ricerche
scientifiche sono posti come prolegomeni e fondamentali delle poesie omeriche e di
altre più antiche epopee. Più tardi, nel 1866, egli pubblicò quei canti popolari
albanesi, intitolandoli Rapsodie di un poema albanese…La figura del de’ Rada ha
qualcosa di commovente, quel vecchio colpito ultimamente dalla morte di tutti i
suoi discendenti diretti e laterali, non si stanca di combattere con la parola e con la
penna per la sua nazionalità…”.
Giuseppe de’ Rada, figlio del poeta Girolamo, nato nel 1852 e deceduto il
1883, aveva sposato la signora Maria Rosa Tocci di S. Cosmo, sorella dell’On.le
Guglielmo Tocci; aveva pubblicato nel 1871 una grammatica albanese, ristampata
nel 1965 (cfr. G. de’ Rada, Grammatica della lingua albanese, a cura del figlio
dell’Autore Girolamo de’ Rada junior, Cosenza, 1965 (ed. MIT). Lasciò manoscritti
Cassiano:La collina del prete
129
alcuni sonetti ed alcune altre poesie, pubblicate nel 1965 (cfr. Giuseppe de’ Rada,
Opere, a cura Girolamo de’ Rada Junior e V. Selvaggi, Cosenza (ed. MIT), 1965.
Francesco Antonio Santori era nato a S. Caterina Albanese
da umili
genitori il 16 settembre 1819. Il suo nome di battesimo era Francesco Paolo, che
mutò in Francesco Antonio quando fu ordinato sacerdote nel convento francescano
di S. Marco Argentano. Ebbe fama di predicatore; nel 1858, tenne un quaresimale a
Napoli. Abbandonò- non si sa per quale motivo - la vita monastica per ritirarsi nel
1860 nel paese natìo. Successivamente, nel 1875, fu nominato parroco di S. Giacomo
di Cerzeto, ove morì il 7 settembre 1894. In vita, pubblicò solo Il Canzoniere Albanese
ed Il Prigioniero politico (1848).
Lasciò un considerevole numero di opere
manoscritte, alcune delle quali pubblicate recentemente ( cfr. F. A. Santori, Tre
Novelle, a cura di I. C. Fortino, Carmine Stamile, Ernesto Tocci, Cosenza (ed.
Brenner), 1985; Id. Brisandi, Lletixhia e Ulladheni, a cura di I. C. Fortino, Cosenza (ed.
Brenner), 1977; Id., Panaini e Dellja – Femija pushtjerote, a cura di G. Gradilone, Roma,
1979; Id. Satirat, in “Studime filologjike; Tirana, 1982, a cura di Carmelo Candreva e
Gjovalin Shkurtaj; Id. Un saggio inedio di F. A. Santori sulla lingua alanese e i suoi
dialetti, a cura di F. Altimari, Cosenza, 1982, Id. Alessio Ducagino, 1984, a cura di F.
Solano; Id., Emira, Grottaferrata, 1984, a ura di F: Solano ). Il Canzoniere Albanese è
stato ristampato a cura di F. Solano (Ed. Quaderni di “Zjarri) nel 1975.
Domenico Antonio Marchese era nato a Macchia Albanese il 1° dicembre
1879 da Pietro, fratello di Francesco Saverio, e da Marianna Cunari. Studiò nel
Collegio di S. Adriano. Si iscrisse in giurisprudenza presso l’Università di Napoli,
senza conseguirvi la laurea. Partecipò ai congressi linguistici di Corigliano Calabro
Cassiano:La collina del prete
130
e di Lungro. Pubblicò i testi di poesia: Merii (Tristezza), Corigliano Calabro (tip. del
Popolano), 1898, con la traduzione in italiano; Rrympa (Raggi), Corigliano Calabro
(tip. del Popolano), 1900; Liufa e Male ( Pugne e amori) – Poesie albanesi – Corigliano
Calabro (tip. del Popolano), 1915; ed altri componimenti poetici su riviste varie.
Prese parte alla prima guerra mondiale col grado di tenente. Nel 1910, aveva
sposato Emilia Tocci di Vaccarizzo Albanese, figlia di Domenico Antonio Tocci,
dalla quale ebbe tre figli: Pierina, morta giovanissima di malaria; Samuele, studente
universitario di Lettere, morto nella seconda guerra mondiale nel fronte jugoslavo il
18.7.1942 e sepolto a Novo Merto, Lubiana; Leopoldo, professore di Lettere e poi
Preside, trasferitosi in Nicastro. Nel 1919, fu incaricato dell’insegnamento della
lingua e letteratura albanese nel Collegio di S. Adriano. Nel 1921, seguendo le
grandi correnti migratorie dal Sud d’Italia, emigrò in Argentina e da qui passò al
Perù, dove morì, per attacco cardiaco, a Chiucha Alta (Lima) il 27 settembre 1926
(cfr:. Ortenzia Corino, Na shprishemi rrembat mbi dhen.. La poesia di Domenico Antonio
Marchese fra “raggi”, “tristezze” e “battaglie”, tesi di laurea, inedita, discussa
all’Università della Calabria- Facoltà di Lettere e filosofia – nell’anno acc. 1995-96).
Sulla attività giornalistica italo-albanese, cfr. Domenico Cassiano, Temi e
problemi della stampa arbreshe, in “Laboratorio di Educazione Permanente”, Cosenza,
anno III (1982), n. 3-4, pp. 27-38.
Sui congressi linguistici e le varie associazioni, cfr. Giovanni Laviola, Società,
Comitati e Congressi Italo-Albanesi dal 1895 al 1904, Cosenza, 1974.
Cassiano:La collina del prete
131
Gli scritti di Terenzio Tocci sono tratti da T. Tocci, La questione albanese,
Cosenza, 1901.
Cosmo Serembe era nato a S. Cosmo Albanese nel 1879. Nipote del poeta
Giuseppe Serembe, pubblicò Kenka Lirie (Canti di libertà); La patria nei canti popolari
albanesi, Cosenza (Tip. Riccio), 1899; Il pericolo clericale in Italia (fatti e cifre), Milano,
1913. Aveva studiato nel Collegio di S. Adriano e poi nel Liceo “Telesio” di
Cosenza. Conseguita la laurea in giurisprudenza, si trasferì a Milano, ove esercitò
l’avvocatura. Morì a Milano nel 1938. Lasciò numerosi manoscritti, tra cui – pare –
anche un poema in 25 canti, intitolato Kenget e Kruies.
Le corrispondenze di Ugo Ojetti furono raccolte nel volume L’Albania,
Lettere, I, Roma, 1901.
Sull’adesione al fascismo e la sua diffusione in Albania da parte di elementi
italo-albanesi, cfr. Rita Tocci, Terenzio Tocci, mio padre (Ricordi e pensieri), Corigliano
Calabro, 1977, in cui scrive, pag. 71: “Uomini di Stato, scienziati, politici e letterati
seguivano con simpatia l’attività di Mussolini che alla ricostruzione del Paese
imprimeva ritmo e direttive. Mio padre, sempre costante nell’idea di un’Albania
libera ed indipendente sul cammino che percorreva l’Italia, non poteva rimanere
indifferente dinanzi a quel movimento che vedeva filtrato attraverso l’Adriatico.
Così, nel 1928 trovò il tempo per tradurre in albanese vari scritti e discorsi di
Mussolini. E’ significativo il giudizio che Lumo Ekendo, cioè Midhat Frasheri, il
futuro fondatore del Partito Nazionalista Albanese, dà su quel libro in
“Diturjia”(luglio-settembre 1928, p. 352). “Se il lettore albanese legge albanese dove
Cassiano:La collina del prete
132
c’è scritto italiano e Albania dove c’è scritto Italia, questo libro si può ritenere per
ognuno di noi come guida, come un buon consigliere che merita di essere ascoltato
e seguito”.
Sull’Albania come “terra sognata” e come “madrepatria” poetica, è
significativo quanto scrive Girolamo de’ Rada al Tommaseo (cfr. in E. Paratore,
L’umanità di Gerolamo de’ Rada attraverso testi recentemente scoperti, in “Shejzat” (Le
Pleiadi), Roma, 1964, pp. 256 e seg.):”E perché non posso io seguire gli impulsi replicati
ond’Ella mi spinge ad un viaggio in Albania? Ho in casa figli piccoli con la madre sola;
coltivo i pochi miei fondi e n’ho il mantenimento e, negli alberi giovanetti, la promessa che
l’abbiano proprio i miei figli. E abbandonandoli ora, tutti essiccherebbero uniti. Poi, là non
conosco nessuno; né credo si sappia delle mie poesie: e con pochi mezzi sarei di continuo
impedito e mortificato come fra stranieri sconosciuti. Forse da me fu dato solo rialzare la
lingua della tradizione albanese…O se Iddio mi ha serbato ad altro e mi chiamerà è questo la
difesa del nome del suo figliolo, a cui i popoli e i regi congregati fanno guerra”.
Le notizie su Terenzio Tocci sono tratte da Rita Tocci, Terenzio Tocci mio
padre (ricordi e pensieri), Corigliano Calabro, 1977, cit. e da Francesco Caccamo,
Odissea Arbereshe Terenzio Tocci tra Italia e Albania, Soveria Mannelli, 2012
Le principali pubblicazioni di Terenzio Tocci sono:
La Questione Albanese, Cosenza, 1901;
L’Albania e gli Albanesei, Milano, 1911;
Il Governo Provvisorio di Albania, Cosenza, 1911;
La Rivista dei Balcani, Roma-Milano, 1912;
Cassiano:La collina del prete
133
I delitti del Taraboshi ovvero la Civiltà Europea a Scutari d’Albania, Scutari, 1914;
L’anarchia albanese, Scutari, 1914;
L’Italia e l’Albania, Cosenza, 1915;
I crimini della politica, Korcia, 1922;
Grammatica Albanese, Tirana, 1929;
Il re degli Albanesi, Milano (ed. Mondadori), 1938.
Su Terenzio Tocci, cfr. anche Alessandro Serra, Albania: 8 settembre ’43 – 9 marzo
1944, ed. Longanesi, Milano, 1976, pp. 120 e seg..
Su Ricciotti Garibaldi, il tentativo insurrezionale in Mirdizia, cfr.: F. Guida,
Ricciotti Garibaldi e il movimento nazionale albanese in “Archivio Storico Italiano”,
Firenze, 1981, n. 507, pp. 97-138; A. Becca Pasquinelli, La vita e le opere di M. A.
Osorgin, Firenze, 1986, pp. 62-64.
La notizia dei telegrammi di felicitazione per l’occupazione dell’Albania,
compreso quello del poeta sandemetrese Salvatore Braile, è riportata da
Belluscio,
G.
1509-1939: microstoria, gli Arbereshe in mostra all’Archivio di Stato di
Cosenza, in Mezzoeuro del 17.10.2009.
Sulla rivoluzione del giugno 1924 in Albania e la successiva sconfitta delle
forze democratiche, cfr.: AA.VV. Storia del Partito del Lavoro d’Albania, Tirana, 1971,
pp. 18 e seg..
Fan Noli era nato nel 1882 nella colonia albanese di Ibrik-Tepe (Tracia); aveva
fondato la chiesa autocefala ortodossa in Albania. Uomo di vasta cultura, aveva
tradotto in albanese Cervantes, Shakespeare, Edgar Allan Poe; scrisse la storia di
Cassiano:La collina del prete
134
Skanderbeg; fu musicologo e poeta; pregevole il suo “Album” di poesie, pubblicato
a Boston nel 1948. Come delegato dell’Albania, ottenne nel 1920 la sua ammissione
alla Società delle Nazioni. Dopo il colpo di stato zoghista, si rifugiò negli Stati Uniti,
ove morì nel 1965 ( cfr. Joyce Lussu, La poesia degli Albanesi, ed. ERI, Torino, 1977,
pp. VII-XXI).
Sugli intellettuali durante il colonialismo fascista, cfr.: J. Lussu, La poesia
degli Albanesi, ed. ERI, Torino, 1977..
Sulla nomina a ministro dell’Economia del Tocci, il plenipotenziario italiano
F. Jacomoni ha scritto ( cfr. La politica dell’Italia in Albania, cit. da R. Tocci, op. cit.,
pag. 79): “Il nuovo presidente del Consiglio era Koco Kotta, un ortodosso che
godeva fama di italo-filo. Ministro degli esteri diveniva Ekrem Libohova, fratello
del defunto Mufid bey…Ministro dell’Economia Nazionale diveniva un intelligente e
sicuro amico, Terenc Toci”.
Sull’occupazione italiana dell’Albania, cfr. : Francesco Jacomoni, La politica
dell’Italia in Albania, ed Cappelli, 1965; Denis Mack Smith, Le guerre del duce, Milano,
1992; Davide Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della
“brava gente” (1940-1943), ed. Odradek, Roma, 2008; Archivio ANPI, La Resistenza
Albanese, consultabile sul sito internet dell’Anpi; Enzo Misefari, La Resistenza degli
albanesi contro l’imperialismo fascista, Ed. di cultura popolare, 1976; G. Ciano, Diario
1937-1943, ed. Rizzoli, Milano, 1999; L’Unione fra l’Italia e l’Albania Censimento delle
fonti (1939-1945) conservate negli archivi pubblici e privati ( a cura di Silvia Trani), Roma,
2002; Istituto di studi marxisti-leninisti, Storia del Partito del Lavoro d’Albania, Tirana,
Cassiano:La collina del prete
135
1971; Hinstitut d’Histoire de l’Acadèmie des sciences de la R. P. d’Albanie, La lutte
antifasciste de libèration nationale du peuple albanais, Documents principaux, 1941-1944;
Tirana, 1975; F. Bonasera, Albania 1943-1946, Ancona, 1959; G. Lombardi, L’8
settembre fuori d’Italia, Milano, 1966; G, Bonomi, Albania 1943. La tragica marcia dei
militari italiani da Tepeleni e Argirocastro a Santi Quaranta, Milano, 1972.
Seifulla Maleshova (1901-1971), noto anche con lo pseudonimo di Lame
Kodra, era nato il 2 marzo 1901 nel villaggio di Limar, dove ricevette l’istruzione
primaria, per poi continuare, grazie ad una borsa di studio del governo italiano, nel
Collegio di S. Adriano, in S. Demetrio Corone. Qui, insieme al suo amico, Pascal
Odhise, pubblicò il periodico Studente Albanese, ove comparvero le sue prime poesie.
Conseguita la maturità classica, si iscrisse alla facoltà di medicina presso
l’Università di Roma. Dopo tre anni abbandonò gli studi di medicina per ritornare
in Albania, nel 1924, a Tirana, per fare da segretario del primo ministro Fan Noli,
durante la breve rivoluzione democratica. Per sfuggire alla repressione zoghista, si
rifugia a Parigi, da dove successivamente si recherà a Mosca, nella cui università
completò gli studi di filosofia. Espulso dal partito comunista, come Bucharin e poi
riabilitato, fu professore di filosofia all’università. Nel 1941, rientra in Albania,
dove è tra i fondatori del Partito Comunista; si batte con gli occupatori fascisti e
nazisti come partigiano e componente influente del movimento di liberazione
nazionale. Durante la guerra di liberazione, divenne famoso per le sue poesie,
pubblicate con lo pseudonimo di Lame Kodra. Nel 1945, è stato eletto presidente
della “Lega degli Scrittori”, appena fondata, ed è stato anche nominato ministro
della cultura. Nello stesso anno, sarà pubblicato il suo primo volume di poesie con
lo pseudonimo di Lame Kodra. La sua linea politica democratica, scevra di
Cassiano:La collina del prete
136
dogmatismi, ispirata realisticamente al dialogo anche con gli avversari ed al loro
rispetto, ben presto lo mise in contrasto con il dogmatismo ottuso di Enver Hoxha,
col quale, peraltro, lo divideva, in genere, la visione politica generale. Secondo
Maleshova il partito comunista albanese doveva ispirarsi alla democrazia e
governare con metodo democratico ed, in politica estera, non operare chiusure.
Secondo il Quinto Plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista d’Albania,
riunitosi nel febbraio 1946, “Seifulla Maleshova professava l’opinione secondo cui il
nuovo sistema democratico in Albania avrebbe dovuto essere un sistema del tipo
democratico borghese. Egli preconizzava l’attenuazione della lotta di classe,
sopravvalutava la forza delle classi rovesciate e non aveva fiducia nella forza del
Partito e del popolo…Egli era, in essenza, contrario all’edificazione del socialismo e
fautore del libero sviluppo del capitalismo” (crf. Storia del Partito del Lavoro
d’Albania, a cura dell’Istituto di Studi marxisti-leninisti presso il Comitato Centrale
del Partito del Lavoro d’Albania, Tirana, 1971, pp. 288 e seg.). L’accusa era
ovviamente del tutto infondata e sottintendeva piuttosto un forte contrasto
d’opinioni sulla conduzione politica da seguire in Albania. Maleshova fu escluso da
ogni carica sia al governo che al partito e, dopo avere scontato alcuni anni di
reclusione, fu confinato a Fier a fare il magazziniere, dove, il 9 giugno 1971, morì
per un attacco d’appendicite, solo ed evitato da tutti. La sua bara fu accompagnata
al cimitero di Fier dalla sua unica sorella e da due agenti del Segurimi, il famigerato
servizio segreto.