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forma di aquila (v. Sec.)
Gentili lettori,
il mondo della filosofia, dei filosofi, è scosso alla radice
dalla successiva scomparsa, in un brevissimo arco di
tempo, di due figure cardine del pensiero filosofico
novecentesco, Ludovico Geymonat e Mario Dal Pra.
Due autori, la cui opera, le cui scelte di vita, la cui
militanza filosofica e culturale hanno profondamente
segnato lo sviluppo della filosofia di questo secolo. In
particolare, un lutto, una perdita che colpisce la tradizione
filosofica milanese, quella tradizione che agli inizi degli
anni ’50 si accingeva a diffondere, a discutere, a riflettere
l’eredità di pensiero lasciata da Antonio Banfi.
Al ricordo di Mario Dal Pra sarà dedicato il prossimo
numero di questa rivista. Qui ricordiamo Ludovico
Geymonat, la cui biografia filosofica, profondamente
caratterizzata da grande generosità culturale e costante
impegno civile, ha nutrito e nutre tutt’oggi in modo
decisivo il panorama e la fisionomia della nostra cultura.
Di Geymonat epistemologo, storico della scienza e della
filosofia, non vogliamo soprattutto dimenticare la
passione per il pensiero scientifico, la sua battaglia per
diffondere la filosofia della scienza, la logica, nel mondo
accademico e nella cultura contemporanea in genere.
Un fervore che traspare, lucido, preciso, nelle parole,
che vorremmo qui in parte riportare, con cui ebbe di
recente a presentare un convegno dal titolo: La filosofia
della scienza oggi (Europa 1993), organizzato a Napoli
(12-14 aprile 1991) dall’ Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici e dall’ Istituto Ludovico Geymonat per la
Filosofia della Scienza, la Logica e la Storia della
Scienza e della Tecnica:
«L’era moderna era stata caratterizzata dalla fiducia nelle
capacità conoscitive dell’uomo, capacità che l’avrebbero
portato a cogliere le regolarità dominanti nella natura
fisica e in quella sociale. Conoscere significa dunque
cogliere ciò che resta costante nella continua variazione
dei fenomeni. Questa costanza è il segno dell’oggettività
di ciò che noi osserviamo nel moto dei corpi celesti, come
in quello dei fenomeni umani, e questo è ciò che
caratterizza la conoscenza “vera”. Invece, il disordine è
ciò che caratterizza la semplice presa d’atto della natura
così come si presenta a noi nel momento di osservarla.
Al contrario, ciò che caratterizza il post-moderno è che in
esso l’ordine non è più il carattere distintivo della vera
realtà: si hanno allora fenomeni irregolari e ciò malgrado
oggettivi e questo implica che essi andranno studiati non
con la matematica che regolava i fenomeni ideali secondo
la concezione precedente, ma con una matematica nuova
(del disordine, della probabilità, del caos). Questo ricorso
a una diversa matematica è il primo carattere che distingue
la scienza post-moderna da quella moderna.
Se la scienza post-moderna è soprattutto interessata dalla
complessità ciò comporta che l’epistemologia dovrà
essere a sua volta interessata dalla complessità delle
possibili teorizzazioni scientifiche che nascono nei vari
campi del sapere. Dalla filosofia della scienza alle filosofie
delle singole scienza: questa potrebbe essere la formula
più opportuna per indicare il mutamento di prospettiva
segnato dal patrimonio conoscitivo contemporaneo. Ma
questa formula va complicata dalla consapevolezza che
anche l’epistemologia possiede oramai una storia
complessa, con differenti tradizioni concettuali, cui
occorre necessariamente riferirsi se si vuole avere
un’immagine meno imprecisa dei dibattiti contemporanei.
[...] Si tratta allora di recuperare tutta la ricchezza e la
complessità del dibattito epistemologico del Novecento
per mettere capo ad una riflessione capace di muoversi su
di un orizzonte aperto, da costruirsi attraverso un costante
confronto concettuale tra le differenti tradizioni di
pensiero.
Naturalmente nel momento stesso in cui denunciamo la
complessità delle varie tradizioni epistemologiche non
possiamo non favorire un confronto che sia il più ampio
e libero possibile. [...] Il franco riconoscimento
dell’esistenza di una pluralità di punti di vista presenti
all’interno delle stesse differenti tradizioni
epistemologiche deve infatti indurci a modificare il nostro
atteggiamento culturale di fondo nei confronti della
filosofia della scienza, abbandonando ogni pretesa
aprioristica di ridurla unicamente a questa o quella
componente esclusiva ed unilaterale per favorire un
programma di ricerca più aperto e comprensivo. Un
programma di ricerca sistematicamente in grado di
imparare lavorando anche tra le zone di confine tra le
varie tradizioni epistemologiche senza peraltro rinunciare
ad elaborare un proprio ed autonomo punto di vista.
E’ nostra convinzione che una più seria analisi
epistemologica dell’impresa scientifica possa oggi essere
conseguita unicamente puntando programmaticamente
sulla confrontabilità e sulla traducibilità reciproca tra le
diverse tradizioni, tra le diverse discipline e tra le varie
epistemologie che ne sono scaturite storicamente. Non è
più possibile inseguire il mito di un modello
epistemologico astratto e univoco, buono per tutte le
discipline scientifiche, né è più legittimo concepire la
filosofia della scienza separandola dalla storia della
scienza.
Anche alla luce di queste schematiche considerazioni la
riflessione epistemologica richiede dunque dialogo e
confronto come condizioni essenziali ed indispensabili
per il suo stesso sviluppo. La “nicchia” ambientale della
pratica scientifica in realtà costituisce anche la “nicchia”
ambientale più opportuna per la stessa riflessione
epistemologica la quale si può sviluppare e approfondire
unicamente nella misura in cui sappia difendere uno stile
di razionalità basato su un costante confronto critico tra
posizioni diverse, differenti e persino conflittuali, senza
escludere aprioristicamente alcuna tradizione
epistemologica. [...]
SOMMARIO
5 PROFILO
5 Ricordo di Ludovico Geymonat
48 Il ritorno dei neokantiani
49 Michael Walzer sui nuovi comunitarismi
50 La ‘pace perpetua’: storia di un dibattito
9 RESOCONTO
51 Wilhelm von Humboldt
9 Filosofia e politica in Germania tra le due guerre
52 La filosofia di Michael Dummet
52 Una nuova immagine di Platone
21 AUTORI E IDEE
53 Nietzsche tra filologia e attualizzazione
21 Lacan e la filosofia
54 Cielo fisico e cielo morale
21 Del simbolo, dell’uomo
56 Heidegger e i Greci
22 Un manifesto dell’edonismo
56 Filosofia e liberazione
22 L’integrità della ragione umana
57 Nuove vie della filosofia
23 Breve storia dell’apparenza
58 Da Vienna a Napoli: il viaggio di Lessing in Italia
24 Isaiah Berlin: il conflitto inevitabile
58 Pluralismo delle religioni
24 Giustificazioni di Dio
26 Habermas: pensiero post-metafisico ed etica del
60 CALENDARIO
27 Michael Dummet: alla base della verità
28 Su Sartre e Beauvoir
64 DIDATTICA
29 L’inumano dell’uomo: la morale di André
64 L’insegnamento della filosofia attraverso i testi
64 Interventi, proposte, ricerche
31 TENDENZE E DIBATTITI
65 Convegni
31 Ecce Nietzsche: un filosofo per tutti e per nessuno
32 Chi è Nietzsche?
67 NOTIZIARIO
33 Nietzsche alla ribalta nel mondo anglosassone
34 Il dibattito sul libero arbitrio
68 RASSEGNA DELLE RIVISTE
35 Ritorno alla Grecia
37 Trasformazione delle scienze dello spirito
39 PROSPETTIVE DI RICERCA
39 Diverse lingue
40 Maimonide e la cabala
40 Storia dello strutturalismo
41 Husserl
42 La ripetizione di Kierkegaard
42 Ripensando Kant e altri filosofi
43 Il granaio di Montesquieu
43 Wittgenstein: una biografia e un romanzo
44 Felice Tocco e la tradizione filosofica italiana
45 William Whewell
47 CONVEGNI E SEMINARI
47 Il dolore, la sofferenza
47 I problemi del tradurre
74 NOVITA’ IN LIBRERIA
PROFILO
Ludovico Geymonat
PROFILO
Per sessant’anni, fin dal primo libro del 1931, aveva E’ proprio questa esigenza che lo accompagnerà - se non
alzato la sua voce per scuotere il panorama filosofico lo guiderà - nelle diverse fasi della sua produzione
italiano, aveva condotto una “battaglia culturale” senza filosofica, nelle diverse e successive proposte teoretiche
risparmio di impegno contro ogni forma di idealismo e di che egli verrà facendo, sostenute da un altro elemento
soggettivismo, avendo fin da allora riconosciuto «la costante e, per così dire, più intrinseco al razionalismo
possibilità, anzi la necessità, di dare una nuova forma alla forte, caratteristico di tutta questa evoluzione: la convingnoseologia positivistica». E la sua non è stata una zione di una profonda unità fra scienza e filosofia, pur
presenza - intellettuale, morale, e addirittura fisica, con nelle distinzioni e nelle “tecniche” specifiche. Agli inizi
quel suo corpaccione da montanaro - che si potesse far del suo lungo cammino ebbe a dire che «qualunque
distinzione aprioristica dei due “pensieri” risulta illusofinta di ignorare o della quale sbarazzarsi facilmente.
Se n’è andato in silenzio, sommessamente, il 29 novem- ria. Nel suo reale sviluppo dell’umanità essi sono variabre dell’anno appena trascorso. Da due anni circa, dopo mente interconnessi fra di loro»; e nell’introduzione alla
un’accidentale caduta a Barge - il paesino del cuneese Storia del pensiero filosofico e scientifico, l’Enciclopedove aveva una casa che tanto amava e che da qualche dia Geymonat, come viene familiarmente chiamata dagli
anno l’aveva eletto cittadino onorario - era in ospedale: studenti, pubblicata in una prima edizione fra il 1972 e il
prima a Saluzzo, con un braccio rotto, poi qualche giorno 1976 riaffermerà: «Pensiero filosofico e pensiero sciena Revello, infine, dalla metà di ottobre, a Passirana di tifico non sono affatto in antitesi l’uno con l’altro, ma
Rho, per la riabilitazione. Al di là dei problemi della sono sue facce della medesima razionalità che faticosacaduta, aveva subito un forte attacco di parckinsonismo; mente si fa strada nella storia dell’uomo. Le “visioni del
ma niente faceva pensare ad una fine così improvvisa: lo mondo” elaborate a grado a grado da filosofi e da scienziati non risultano mai interaha stroncato un’influenza viramente soddisfacenti, mai dele, con altissimi accessi febbrifinitive, mai complete. Ma proli, proprio il giorno in cui la
prio in questa non definitività
moglie, ad una riunione delsi rivela il loro autentico caratl’Istituto Geymonat (sorto a
tere razionale, cioè la loro apMilano e Varese nel 1985), ci
partenenza a un vastissimo
aveva annunciato che Ludovico
processo che rifiuta di conclusarebbe stato dimesso il giovedersi in qualcosa di dogmatico
dì successivo.
e di indiscutibile. Sono visioni
Un giorno nella cella mortuaria
costituitesi sulla base di certi
dell’ospedale, poi la domenica
ben determinati argomenti, e
il trasporto a Barge: un paese
ricche di stimoli anche per chi
gli si è stretto attorno con semdi Corrado Mangione
si senta in dovere di criticarle
plicità per l’ultimo saluto, e
sulla base di ben altri argohanno pronunciato parole commenti. La loro funzione è di
mosse, non di circostanza, un
collaborare all’affermarsi delrappresentante del comune,
la ragione, di aprirle nuove
Norberto Bobbio, una nipote,
prospettive, di renderla nel
un compagno di lotta partigiana, un allievo, un compagno di Rifondazione Comunista contempo più cauta e più coraggiosa».
Non è certo possibile seguire qui passo passo l’evoluzio(cui Geymonat, com’è noto, aveva aderito).
Così ci ha lasciati Ludovico Geymonat. Aveva 83 anni, ne del pensiero di Geymonat, e dovremo accontentarci di
essendo nato a Torino l’11 maggio 1908. Nel ’30 si era alcuni cenni, collegati ad alcune delle sue opere principalaureato in filosofia (con Annibale Pastore), nel ’32 in li che in qualche senso segnano altrettante tappe del suo
matematica (con Guido Fubini); aveva quindi comincia- itinerario intellettuale e culturale.
to giovanissimo, a soli 23 anni, la sua militanza culturale Dopo l’esordio sopra richiamato, Geymonat viene attratcol volume: Il problema della conoscenza nel positivi- to (più volte lui stesso dirà “affascinato”) dal neopositismo, nel quale, come si esprimerà qualche anno dopo, vismo del circolo di Vienna e della scuola di Berlino: va
tentava di mettere in luce, con una lettura affatto nuova a studiare con Schlick, introduce in Italia il pensiero
del positivismo comtiano, «il carattere positivistico...di neopositivista (ad esempio, con La nuova filosofia della
alcune grandi tesi filosofiche»; ma nel “delineare” un natura in Germania, 1934), al quale aderisce, pur con
proprio “sistema” sembra al giovane filosofo «già un precise riserve, tra l’altro, circa l’ “assoluto antistoriciliberarmi in qualche modo da esso»: sicchè quel libro smo” dello stesso: «anche se non sono mai stato a rigore
esprime anche un atteggiamento che sarà costante in un neopositivista,...è certo che ne subii in misura rimarGeymonat, quello della ricerca critica continua, che gli chevole l’influenza», dirà nel 1977. Forse il momento più
derivava da una reale e sincera apertura di pensiero, pregnante di tale influenza è rappresentato dagli Studi per
attento ad accogliere criticamente novità, a vagliare solu- un nuovo razionalismo (1945), dove vengono raccolti in
zioni e posizioni diverse, a considerare sempre provviso- modo organico molti saggi già pubblicati e dove, accanto
rie le tappe delle proprie acquisizioni. Un atteggiamento a una “sofferta” adesione “alla cosiddetta filosofia neovitale e dinamico che gli proveniva dalla convinzione che positivistica”, si chiarisce il senso di quel “nuovo” che
«la filosofia, essendo puro pensiero, deve essere necessa- figura nel titolo, affermando che il «razionalismo, cui
riamente progresso e vita, non contemplazione statica o aspira la cultura moderna, deve essere ben più agguerrito
e penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati;
morte».
Ricordo di
Ludovico Geymonat
PROFILO
esso deve contemporaneamente essere: critico, ossia
capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse
contro la pura ragione dalle filosofie mistiche e decadenti, fiorite negli ultimi anni; costruttivo, cioè in grado di
soddisfare le esigenze di ricostruzione e di logicità caratteristiche della nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la scienza e la prassi
pongono innanzi allo spirito umano. E’ proprio in tempi
di filosofie “decadenti” che si fa più pressante l’appello
alla ragione, la quale «ha semplicemente deluso coloro
che amavano, per principio, l’oscurità, il mistero, l’imprecisione, la retorica». Una delle prerogative di questo
nuovo razionalismo è la consapevolezza della natura
postulazionale dei principi «di carattere ineliminabilmente convenzionale»; ma lungi dal rappresentare una
difficoltà, questo presenta il vantaggio che - come dirà nei
Saggi di filosofia neorazionalistica (1953) - l’indirizzo
neorazionalistico, che «non è, e non pretende, essere un
“sistema di verità assoluta”, ma un puro e semplice
modo...d’impostare il lavoro filosofico», dal momento
che non ha «sistemi precostituiti da difendere», si trova
ad essere «nella migliore disposizione possibile per apprezzare qualsiasi critica seria e far tesoro di ogni suggerimento concreto, che non nasconda preconcetti dogmatici di ordine generale».
E’ un’impostazione democratica del sapere, una visione
di totale apertura, si potrebbe dire “dialettica” in senso
lato (e sta proprio qui - a mio avviso - la reale motivazione
del suo successivo incontro e adesione al materialismo
dialettico, adesione che non fu motivata e mai si ridusse
a stereotipo ideologico) che porta Geymonat, con successive riflessioni, ad allontanarsi definitivamente dal neoempirismo (in particolare con Filosofia e filosofia della
scienza, 1960); fa certo parte di queste riflessioni - ed è
sicuramente la base lontana sulla quale Geymonat proporrà negli anni settanta il suo concetto di “patrimonio
tecnico-scientifico”- la ricerca sui rapporti fra scienza,
tecnica, convinzioni e istituzioni religiose che si concreta, nel 1957, nel prezioso volumetto su Galileo Galilei.
Questa continua ricerca approda negli anni settanta come sopra ho accennato - ad una ripresa di temi essenziali del materialismo dialettico ispirato alle idee di
Marx, Engels e Lenin col capitolo: “Primi lineamenti di
una teoria della conoscenza materialistico-dialettica”,
contenuto nel volume: Attualità del materialismo dialettico , pubblicato nel 1974 (gli altri tre capitoli del volume
sono dovuti rispettivamente a E. Bellone, G. Giorello e S.
Tagliagambe), e soprattutto in Scienza e realismo, del
1977 (dove veniva aggiunto uno specifico e significativo
riferimento al pensiero di Mao Tse Tung), che apparve
come diciassettesimo volume della collana di filosofia
della scienza che egli diresse, presso Feltrinelli, dal 1960
ai primi anni Ottanta.
Altro tema ripreso e sviluppato da Geymonat in particolare negli anni Ottanta è quello del rapporto della filosofia
della scienza con la storia della scienza: dico ripreso
perchè oltre alla ricerca, sopra ricordata, verso la scuola
neopositivistica, risale addirittura al 1947 quella Storia e
filosofia dell’analisi infinitesimale che - a mio parere resta in assoluto una delle migliori presentazioni storicoteoriche della problematica alla base dei fondamenti
della matematica. D’altra parte il suo interesse per la
matematica non venne mai meno, anche se i suoi inter-
venti specifici in questo campo si concentrano sostanzialmente nei primi anni dopo la laurea. Anzi, una delle
caratteristiche del discorso epistemologico di Geymonat
è proprio l’attenzione ai problemi che la matematica pone
e che rendono impossibili soluzioni troppo facili sul
piano filosofico: è qui opportuno ricordare che a Geymonat
si deve il rinnovato interesse per la filosofia della matematica e soprattutto per la logica matematica in Italia.
Questo tipo di indagini coinvolse tanto filosofi quanto
matematici e si può dire che la quasi totalità dei docenti
di tali discipline nella Università italiane sia stato, direttamente o indirettamente, legato a Geymonat.
Altro campo - più vicino a certa problematica neopositivista - è la filosofia della probabilità, su cui Geymonat
ritornò in parecchi periodi della sua vita, a partire dal
1940, fino al volume: Filosofia della probabilità (1982)
scritto in collaborazione con D. Costantini (un probabilista puro che proprio il rapporto con Geymonat aveva
indirizzato ad una visione più generale della sua disciplina, cosa che del resto era avvenuta anche per molti altri
giovani matematici e fisici).
Sullo “storicismo scientifico” di Geymonat mi limiterò a
ricordare il volume Scienza e storia (1985) come pure,
per molti versi, il volume “dialogico” (gli interlocutori
erano E. Agazzi e F. Minazzi) Filosofia, scienza e verità
(1989). Va qui sottolineato che lo “storicismo” di
Geymonat non fu mai puramente dottrinario, ma si concretizzò in specifiche indagini proprie e in numerose
iniziative editoriali e non (basti ricordare la collana Utet
da lui diretta dei Classici della Scienza, o la sua funzione
determinante nello sviluppo della Domus Galileiana). Ho
nominato di passaggio solo alcuni titoli della copiosissima produzione geymonatiana, come ho fatto cenno solo
ad un paio delle sue numerose iniziative editoriali; già
questi pochi esempi mostrano tuttavia che Geymonat ha
avuto rapporti con quasi tutti i grandi editori italiani e che
non ha certo disdegnato di “lanciarne” dei nuovi. Comunque, una bibliografia completa delle sue opere fino al
1977 si può trovare in M. Quaranta e B. Maiorca, L’arma
della critica di Ludovico Geymonat, (1977) mentre una
testimonianza illuminante sull’attività editoriale di
Geymonat si può trovare nel contributo di Emanuele
Vinassa di Regry, “Geymonat e l’editoria italiana”, al
volume Scienza e filosofia. Saggi in onore di Ludovico
Geymonat (1985) che contiene tra l’altro la bibliografia
di Geymonat aggiornata a quell’anno.
E’ difficile, e sarebbe comunque ingiusto “ridurre” una
personalità come quella di Geymonat alla sola dimensione di studioso: antifascita militante, partigiano combattente, civilmente e politicamente impegnato (prima nel
PCI, quindi in DP e infine in Rifondazione comunista) era
un entusiasta e un partecipe per natura. E con ciò non
voglio dire che fosse un uomo “perfetto”, come si è soliti
fare quando una persona cara ci lascia. Tutt’altro: aveva
difetti altrettanto marcati delle sue virtù, difetti che lo
rendevano un uomo talora difficile da trattare, con i suoi
scatti d’ira, le sue passioni brucianti seguite da indifferenza totale, con quel suo dividere la vita, nei comportamenti, in bianco o in nero, amico o nemico, razionale o
irrazionale, con una sorta di candida ingenuità insospettabile - e non sempre facilmente perdonabile - in un nome
e in uno studioso della sua levatura; personalmente ho
avuto con lui scontri molto aspri (condotti «con quell’as-
PROFILO
soluta sincerità che è la condizione di un’assoluta amicizia», come ebbe a scrivere nel 1964) che hanno veramente messo a dura prova un’amicizia più che trentennale.
Ma gli debbo anche riconoscere una grande capacità di
ammettere i suoi eventuali torti, o più semplicemente i
suoi sbagli, o abbagli, e una dedizione amicale totale, a
volte quasi imbarazzante.
Contrariamente a quanto più di un commentatore ha detto
in occasione della sua morte, Geymonat è stato lucido e
attivo certamente almeno fino al ricovero in ospedale, e
ne fanno fede, ancora una volta, i suoi interventi, volumi
o articoli, nei quali è rimasta fino alla fine evidente quella
«ricerca, talvolta esasperata, di chiarezza» che egli dichiarava essere un suo scopo fin dal 1945 e che più d’una
volta ha fatto dire a critici superficiali, e interessati, che
Ludovico Geymonat è scomparso il 29 novembre
1991 a Passirana di Rho. Nato a Torino l’11 maggio
del 1908, si forma nelle scuole dei gesuiti dalle
quali, pur essendo uno dei migliori allievi, è però
espulso a causa di un anomalo tema su Giovanna
d’Arco. Passato al liceo Massimo d’Azeglio vi
frequenta l’ultimo anno per poi iscriversi all’università torinese dove si laurea, prima in filosofia
(1930) con Annibale Pastore (discutendo una tesi
dedicata a Il problema della conoscenza nel positivismo), poi in matematica (1932) con Guido Fubini
(discutendo una tesi di analisi superiore), entrando
anche in contatto diretto con Giuseppe Peano.
Nel maggio del 1929 è già arrestato per antifascismo per aver firmato (insieme ad altri studenti, tra
i quali Massimo Mila, Franco Antonicelli, Umberto
Segre e Paolo Treves, cui si unì anche Umberto
Cosmo) una lettera di solidarietà a Benedetto Croce
il quale, dopo aver difeso in parlamento il laicismo
dello Stato ed aver criticato apertamente i Patti
lateranensi, era stato violentemente attaccato da
Benito Mussolini. In tal modo Geymonat si segnalò
immediatamente alle autorità fasciste per il suo
coerente antifascismo e per la sua tipica coscienza
morale. Durante tutti gli anni seguenti Geymonat
non si piegò mai al regime fascista e conseguentemente non accettò mai di iscriversi al partito fasci-
nei suoi scritti non era contenuta “abbastanza filosofia”.
Ma sarebbe difficile sopravvalutare il contributo di
Geymonat, del suo razionalismo agguerrito e combattivo, della sua battaglia per il superamento delle “due
culture”, alla cultura filosofica, storica e scientifica italiana dagli anni Trenta in poi; e mi piace terminare questo
breve ricordo con le parole con cui egli chiudeva l’introduzione alla Enciclopedia Geymonat: «Solo se sostenuta
dall’entusiasmo dei propri successi, se temprata dall’esatta valutazione delle difficoltà tuttora non risolte, l’umanità può persistere nella difficile via della ragione,
senza farsi tentare da quelle - tanto più comode - del
conformismo dogmatico o del pessimismo irrazionalista».
sta, anche se questa sua ferma e coerente decisione
ebbe un prezzo alquanto salato: lo costrinse ad
abbandonare l’insegnamento presso la Facoltà di
Scienze dell’Università di Torino (dove svolgeva
attività di assistente di analisi algebrica), gli impedì
di insegnare nei licei statali, pur avendo vinto a
pieni voti sia il concorso per l’insegnamento di
filosofia sia quello per l’insegnamento di matematica, che svolgeva presso il Liceo privato “G. Leopardi” (dove ebbe come collega di lettere Cesare
Pavese). Durante gli anni Trenta, avendo vinto il
premio Cantoni di filosofia bandito dall’Università
di Firenze, ottenne una borsa di studio con la quale
- anche grazie ad un aiuto finanziario del padre potè soggiornare a Vienna per un intero semestre
nel 1935, entrando in diretto contatto con gli esponenti del Circolo di Vienna. Durante questo soggiorno, oltre a legarsi in modo particolare con
Moritz Schlich e Friedrich Waismann, studiò con
attenzione le idee direttive del neopositivismo,
diventando ben presto uno dei più acuti e profondi
conoscitori italiani di questo movimento filosofico. Gli ultimi anni del regime fascista lo vedono
comunque sempre più impegnato nella lotta antifascista: la discussione e la conoscenza di un operaio
comunista come Luigi Capriolo, proveniente da
dodici anni di carcere e confino, lo inducono non
solo ad uscire dall’isolamento forzato di un generico antifascismo senza significativi sbocchi pratici
ma anche ad iscriversi senza riserve - nel 1940 - nel
Partito Comunista, nelle cui file partecipò in prima
persona alla lotta di Liberazione in Piemonte, dove
svolse un ruolo di primo piano come commissario
politico della 105 brigata Garibaldi “Carlo
Pisacane”, nonché come redattore capo responsabile per l’edizione torinese clandestina de “l’Unità”.
Dopo la Liberazione Geymonat torna più direttamente all’amato mondo degli studi, in primo luogo
pubblicando, negli stessi giorni dell’insurrezione
nazionale, il suo impegnativo volume: Studi per un
nuovo razionalismo e dando vita nell’immediato
dopoguerra (insieme ad altri intellettuali come Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Eugenio Frola,
ecc.) al Centro di Studi Metodologici di Torino con
il quale diffonde in modo critico la lezione neopositivista. Nel 1949 vince il primo concorso di filosofia teoretica indetto dalla caduta del fascismo e
diviene professore di filosofia presso l’Università
di Cagliari. Nel ’52 si trasferisce all’Università di
Pavia dove insegna Storia della filosofia per poi
ottenere nel 1957 la prima cattedra italiana di
Filosofia della scienza presso l’Università di Milano, che tiene fino al 1979. F.M.
Opere di Ludovico Geymonat (in volume)
Il problema della conoscenza nel positivismo
Bocca, Torino 1931
La nuova filosofia della natura in Germania
Bocca, Torino 1934
Studi per un nuovo razionalismo
Chiantore, Torino 1945
Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale
Levrotto & Bella, Torino 1947
Paradossi e rivoluzioni.
Intervista su scienza e politica
a cura di G. Giorello e M. Mondadori,
Il Saggiatore, Milano 1979
Per Galileo
a cura di M. Quaranta, Bertani, Verona 1981
Filosofia della probabilità
(con D. Costantini), Feltrinelli, Milano 1982
Saggi di filosofia neorazionalistica
Einaudi, Torino 1953
Riflessioni critiche su Kuhn e Popper
Dedalo, Bari 1983
Il pensiero scientifico
Garzanti, Milano 1954
Lineamenti di filosofia della scienza
Mondadori, Milano 1985
Galileo Galilei
Einaudi, Torino 1956
Scienza e storia, a cura di F. Minazzi, Bertani,
Verona 1985
Filosofia e filosofia della scienza
Feltrinelli, Milano 1960
Le ragioni della scienza
(con G. Giorello e F. Minazzi),
Laterza, Bari 1986
Storia della matematica
in Storia delle scienze
a cura di N. Abbagnano,
Utet, Torino 1962 (vol. I, pp.305-662)
La ragione e la politica
a cura di M. Quaranta, Bertani, Verona 1987
Storia del pensiero filosofico e scientifico
Garzanti, Milano 1970-76, 7 voll.
Scienza e realismo
Feltrinelli, Milano 1977
Contro il moderatismo
a cura di M. Quaranta, Feltrinelli, Milano 1970
Del marxismo
a cura di M. Quaranta, Bertani, Verona 1987
La libertà
Rusconi, Milano 1988
Filosofia, scienza e verità
(con E. Agazzi e F. Minazzi),
Rusconi, Milano 1989
I sentimenti
Rusconi, Milano 1989
La società come milizia
a cura di F. Minazzi, Marcos y Marcos,
Milano 1989
La Vienna dei paradossi
a cura di M. Quaranta, Il Poligrafo, Padova 1991
Filosofia e scienza nel ‘900,
a cura di M. Quaranta, Edizioni GB, Padova 1991
L’ultimo scritto di Geymonat, La filosofia dell’empirismo logico: una testimonianza sul Wiener Kreis,
è apparso nel volume: Il cono d’ombra. La crisi
della cultura agli inizi del '900, (a cura di F. Minazzi,
Marcos y Marcos, Milano 1991, pp. 21-44), ed è
dedicato ad una inedita testimonianza sul Circolo di
Vienna.
Sull’opera di Geymonat si veda:
AA.VV.,
Scienza e filosofia.
Saggi in onore di L. Geymonat,
a cura di C. Mangione, Garzanti, Milano 1985
M. Quaranta e Bruno Maiorca,
L’arma della critica di L. Geymonat,
Garzanti, Milano 1977
F. Minazzi,
Ludovico Geymonat:
dal neopositivismo al materialismo dialettico,
“Marx centouno”, n.7, 1991, pp.155-163
PROFILO
Monaco di Baviera, corteo in occasione dell'inaugurazione della Haus der Kunst (1937)
RESOCONTO
PROFILO
Credo che a La comunità, la morte,
Presentiamo qui gli atti di un dibattito sul tema: “Filoso- Roberto
l’Occidente di Domenico Losurdo ci
fia e politica in Germania tra le due guerre”, organizzato
Esposito
si debba accostare con il rispetto doda “Informazione Filosofica” presso la Casa della Culvuto a un libro importante: vale a dire
tura di Milano (25 novembre 1991), in collaborazione
attraverso una discussione impegnacon l’ Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli e
ta e non diplomatica dei problemi che
l’ Istituto Lombardo per gli Studi Filosofici e Giuridici di
Milano. Occasione del convegno e del dibattito che ne è solleva, delle soluzioni che prospetta, dei presupposti da
seguito è stata la presentazione dell’opera di Domenico cui muove. Un libro importante per almeno tre ordini di
Losurdo: La comunità, la morte, l’Occidente: Heidegger motivi. Intanto per la vastità del materiale che mette in
e l’ «ideologia della guerra» (Bollati Boringhieri 1991). campo ed esamina con una “filologia” inconsueta per un
Ricostruendo attraverso la biografia intellettuale e l’o- saggio di battaglia come pure esso è. Ad essere indagato
pera filosofica di pensatori significativi dell’epoca il in tutte le sue articolazioni interne non è solo il rapporto
clima culturale-ideologico di un’intera generazione di tra Heidegger e il nazismo, ma la relazione tra un’intera
intellettuali in Germania all’indomani della prima guer- generazione europea di intellettuali e quella
ra mondiale e fino alla presa del potere da parte del Kriegsideologie che costituisce il collante appunto ‘ideopartito nazionalsocialista, Losurdo va a cogliere uno dei logico’ (il saggio di Losurdo appartiene al genere un
nessi fondamentali della tradizione del pensiero occi- tempo assai frequentato della ‘critica ideologica’) di tutta
dentale: il rapporto tra filosofia e ideologia politica. una serie di opzioni linguistiche, concettuali e politiche:
Soprattutto il modo di questa ricostruzione, a partire cioè ad essa rimanda, infatti, non soltanto l’idea di “comunità”
nazionale, saldata misticadall’interno del pensiero di
mente nella comunanza di
determinati autori, per pro“sangue e suolo” appunto
cedere poi gradatamente aldal pericolo della guerra,
l’esterno, al contesto cultuma anche, più in generale,
rale-ideologico, politicoil rifiuto dei valori della
sociale, in cui l’opera di
modernità, a partire dai diquesti viene producendosi,
ritti universali della rivolurende il rapporto tra filosozione dell’89 fino alla defia e potere politico un promocrazia e al bolscevismo
blema decisamente inquie(nel libro di Losurdo semtante per le domande che
pre affiancati in un unico
pone circa il ruolo e le regiudizio positivo).
sponsabilità del “filosofaIl secondo motivo di intere” in determinate situaIntervengono Cesare Cases,
resse del volume è costituizioni politiche. Nel caso del
Roberto Esposito, Domenico Losurdo,
to dal fatto che questo prelibro di Losurdo, la pecuGiorgio Penzo, Stefano Petrucciani
zioso lavoro di scavo non
liarità dell’analisi di queavviene a scapito, ma in
sto rapporto è accresciuta
funzione di una tesi assai
dal fatto che le varie posinetta che lo colloca in mazioni filosofiche prese in eniera inequivoca all’intersame non vengono ricondotte né a un rifiuto di principio del coinvolgimento no del dibattito in corso e che è la seguente: quella
politico, né a un aperto schieramento ideologico con il “ideologia della guerra” presente in maniera diversamenpotere dominante, ma in tutte viene individuato, certo in te calibrata in tutti gli autori trattati e in particolare in
maniera ogni volta diversa, un presupposto problemati- Heidegger porta dritta al nazismo. Quest’ultimo costituico comune, che appunto costituisce l'oggetto dell'analisi sce il compimento politico - o l’effettuazione - di una
di Losurdo: una sorta di “incommensurabilità di fondo”, parabola teoretica che ha alla propria base la “deunivertra pensiero filosofico e ideologia politica. In virtù di un salizzazione” dell’idea di uomo e la naturalizzazione
tale presupposto l’autonomia che fonda la riflessione della storia già anticipata da Burke e De Maistre e a vario
filosofica in quanto tale non ammetterebbe che anche nel titolo presente nelle opere di Sombart, Jaspers, Jünger,
caso di una evidente e rinnovantesi sovrapposizione, se Schmitt e naturalmente Heidegger (non senza qualche
non addirittura identificazione tra contenuto filosofico e eco in autori insospettabili come Freud, Weber, Husserl,
contenuto ideologico, si possa parlare di contaminazio- Mann, Croce o Wittgenstein). Quando questa “ideologia” diffusa come un morbo mortale negli anni Dieci e
ne tra filosofia e potere politico.
Permane tuttavia irrisolto il peso del giudizio storico su Venti arriva a dedurre dalla disfatta della modernità la
un’epoca di crimine sistematico nei confronti dell’uma- necessità di un nuovo inizio miticamente rivestito dei
nità, a cui fa eco, ed è storia dei nostri giorni, il preoccu- panni dell’antica polis greca, allora i tempi sono maturi:
pante riaccendersi di ideologie razziste di compensazio- la cultura tedesca è pronta a riconoscere nel Führer l’
ne. Tutto ciò non permette, oggi come allora, di liquidare “eroe” che salverà l’Occidente dall’invasione dei “meril problema attraverso documentate attribuzioni di col- canti” ariani o ebrei (o peggio ancora “zingari, papuani,
pa. Il lavoro di Losurdo è in tal senso una testimonianza ottentotti”) che ne minacciano la sopravvivenza.
E arriviamo così al terzo merito del libro di Losurdo: la
eloquente.
Filosofia e politica
in Germania
tra le due guerre
RESOCONTO
PROFILO
capacità di distinzione interna che sottrae la propria tesi
ad ogni atteggiamento pregiudiziale. Distinzione non
solo tra antigiudaismo e antisemitismo; non solo tra i vari
intellettuali, diversificati in merito sia alla scelta nei
confronti del nazismo, sia all’itinerario filosofico che ad
essa li ha condotti; ma anche tra i differenti strati interni
dell’opera dei singoli autori. Dei quali comunque, a
partire da Heidegger, Losurdo è ben lontano da negare la
“grandezza” filosofica. Ciò che egli contesta è invece
l’atteggiamento pregiudizialmente “innocentista” di coloro che pur di arrivare al loro scopo o adottano quell’ermeneutica sillogistica secondo la quale, dal momento che
cultura e fascismo sono termini contraddittori, chiunque
sia filosofo - e grande filosofo - non può essere fascista;
o trattano l’adesione di Heidegger al nazismo come
episodio marginale e contingente del tutto esterno alla
formazione delle sue categorie filosofiche. Al contrario afferma Losurdo - tale adesione deve in qualche modo
originarsi in quelle categorie. E’ vero che esiste una sorta
di “eccedenza” della filosofia - di ogni filosofia, e di
quella di Heidegger in modo del tutto particolare - rispetto alla pressione del proprio tempo: ma anch’essa va letta
dentro coordinate storicamente determinate. Certo, non
bisogna mai perdere di vista la linea di confine tra
“teoria” e “ideologia”, ma neanche il fatto che tale linea
è per forza di cose segmentata, sfrangiata, interrotta. Non
solo, ma che non taglia orizzontalmente, come vorrebbe
Habermas, la produzione di Heidegger in due fasi distinte
e separate - prima e dopo il ’29 - bensì la attraversa
verticalmente in tutta la sua estensione. Tant’è vero che
già in Sein un Zeit si fanno strada alcune categorie poi piegate all’esito che sappiamo negli anni oscuri del rettorato.
Ma quali categorie? Proprio qui mi pare vengano alla luce
una serie di problemi non soltanto di interpretazione, ma
anche di coerenza interna rispetto ai presupposti teorici
che la fondano nel libro di Losurdo. Questi giustamente
richiama a sostegno della propria tesi la contrapposizione, al centro di Essere e Tempo, tra il “Se stesso autentico
della decisione” e l’impersonalità seriale di un “sì” che
«non ha il coraggio dell’angoscia davanti alla morte».
Non mi pare dubbio che siamo qui già in presenza di un
“gergo dell’autenticità” - per dirla con Adorno - che,
ambiguamente storicizzato nel destino della Gemeinschaft
tedesca, porterà al tragico cortocircuito della
Selbsbehauptung. Ma per quale via, per quale transito
teoretico? Secondo Losurdo per quella della “detrascendentalizzazione” e “deuniversalizzazione” del soggetto.
Per me, al contrario, come anche per altri interpreti, per
quella della sua eccessiva universalizzazione; e cioè per
una mai smaltita caratterizzazione umanistica e spiritualistica che “tradisce” l’analitica del Dasein e la espone al
rischio di un’indebita traduzione politica: dove per umanesimo s’intende evidentemente una determinata concezione dell’umanità dell’uomo necessariamente - cioè
metafisicamente - portata a riconoscersi nella massima
estensione del dominio umano sulla terra. Non erano stati
questi la libertà e il compito affidati all’uomo anche dal
Dio cristiano? E non era stato proprio questo umanesimo
dell’essenza a giustificare in Husserl l’esclusione dal
concetto di uomo occidentale - vale a dire dell’uomo tout
court - di coloro che di quell’umanesimo non si erano fatti
ancora né soggetti, né oggetti, come lo stesso Losurdo
sottolinea?
Si direbbe che Heidegger respinga l’umanesimo classico
non perchè troppo, ma perchè troppo poco, spiritualistico; così che anche il costante richiamo all’essere-per-lamorte finisce per intrecciarsi indissolubilmente con la
traduzione ultraumanistica che vede nella morte l’estremo raccoglimento del soggetto intorno al suo inappropriabile proprium: appunto la propria morte. E’ la stessa
dialettica di prossimità e distanza che fa del pensiero
dell’Essere ancora un pensiero dell’uomo per l’uomo. O
anche: che nella rappresentazione della “distanza” celebra insieme l’assoluta presenza a se stesso di chi s’interroga sull’assenza della propria patria e sulla modalità
della sua riconquista, come fin nella Lettera sull’umanismo è dichiarato. Per non parlare della Einführung in die
Metaphysik, in cui l’oscillazione tra ontologia e antropologia perviene alla fine a una compiuta sovrapposizione.
Che sia l’Uomo ad essere affidato a una “cura” essenzialmente umana, umana per essenza, sta di fatto che è da tale
coappartenenza che si mette in moto quella potentissima
macchina mitologica, già pervenuta nella Rektoratsrede
al suo esito “istoriale-operativo”. E’ il punto, precisamente, in cui l’umanesimo heideggeriano trova compimento nel mito romantico dell’Opera, come appare chiaro dalla ripresa in chiave antimoderna dell’ “Inizio” greco
al centro anche del libro di Losurdo. Cos’altro è quella
Grecia, per Heidegger, se non il luogo di sutura filosofico-politico tra teoria e prassi, funzionalizzato al nuovo
destino della Germania?
E qui veniamo al secondo punto che mi lascia perplesso.
Losurdo batte, anche qui giustamente, sul ruolo politico
assegnato da Heidegger - da un certo Heidegger almeno,
perchè sicuramente esiste un precedente e successivo
Heidegger “impolitico” - alla filosofia. Convengo che sia
proprio questo il rischio ancora implicito nell’heideggerismo. Ma come contrapporre ad esso - è ciò che fa
implicitamente Losurdo - l’altra grande politicizzazione
europea della filosofia rappresentata dalla “filosofia della prassi” di Marx? E non era Marx stesso stato influenzato, in termini evidentemente diversi, dal medesimo
romanticismo dell’Opera, cui anche quell’Heidegger “politico” attinge a piene mani? Lo si potrebbe negare solo
contrapponendo un Hegel marxiano al Fichte heideggeriano, cosa che non mi sembra molto reggere da nessun
punto di vista (si pensi anche al ruolo di Schelling). E
d’altra parte debole mi pare anche la lettura del “comunismo” marxiano come opposizione dell’idea di “società”
a quella di “comunità”: quando è proprio la comunità
come restaurazione della totalità infranta dal capitalismo
al cuore della (storicamente infausta) utopia marxiana
lungo una traiettoria che se non ha al proprio inizio il
comunitarismo di Fichte, sicuramente ha quello di
Rousseau. Anche qui a meno di voler connettere tra di
loro liberalismo, democrazia e bolscevismo come contraltare “moderno” all’antimodernismo nazista.
Qui c’è un’ultima questione da puntualizzare. Personalmente trovo il libro di Losurdo utilissimo a combatter
l’assurda tesi - oggi ritornata in circolazione - della
identificazione “totalitaria” di comunismo e nazifascismo. Poche formule contengono pari potenziale di sem-
RESOCONTO
PROFILO
plificazione e di vero e proprio travisamento della realtà
storica. E tuttavia qualcosa in più va detto. Se non si vuole
rendere a quella grande potenza storica che è stato il
comunismo in questi settanta anni lo stesso torto che
fanno ad Heidegger coloro che ne negano ogni responsabilità filosofica, bisogna ammettere che esso si è contrapposto alla democrazia con la stessa determinazione con
cui lo ha fatto il fascismo. Anche se per motivazioni
opposte e imparagonabili. Lo dico senza nessun entusia-
smo per la democrazia presente e senza nessuna enfasi
per il suo ipotetico “valore”. Ma i fatti restano tali da
qualsiasi lato li si guardi. Anche per quanto riguarda la
modernità: se c’è un punto - un solo punto - in cui
comunismo e fascismo si toccano è la percezione che
un’epoca fosse finita e che fosse necessario pensare ad
un’ulteriorità capace insieme di compierla e di superarla.
Comunque ci si collochi, va quantomeno detto che tale
“ulteriorità” è stato meglio perderla che trovarla.
Potrebbe sembrare che Domenico
Losurdo nel suo interessante studio
sull’ideologia della guerra, La comunità, la morte, l’Occidente, dovesse
prendere in considerazione soltanto
la problematica di Heidegger, dato
che nel sottotitolo si legge Heidegger
e l’ “ideologia della guerra”. In realtà Losurdo allarga la
sua indagine ai principali pensatori della prima metà del
secolo che sono alla base di tale ideologia. Ricorrono
nomi noti, come Nietzsche, Klages, Spengler, Schmidt,
Baeumler, Weber e altri. In modo particolare però, Losurdo
prende in considerazione Jaspers. Ed è questa direi la
novità di tale studio, sulla quale vorrei soffermarmi.
Si è discusso a lungo sul rapporto tra il pensiero di
Heidegger e la cultura del nazionalsocialismo. In queste
discussioni non compare mai il nome di Jaspers. Losurdo
intende invece mostrare come neppure Jaspers si sarebbe
sottratto al fascino ambiguo dell’ideologia della guerra.
Dunque, non solo il pensiero di Heidegger, ma pure
quello di Jaspers deve essere posto sotto processo. Questa
è una tesi nuova nel contesto del dibattito sul germanesimo in genere e sul nazismo in particolare, ancora vivo in
questi anni. A riguardo vorrei far notare che se è possibile
mettere in luce nella problematica di Heidegger una certa
ambiguità, che potè essere utilizzata dalla cultura del
nazionalsocialismo, non è invece possibile a mio avviso
affermare altrettanto nei confronti del pensiero di Jaspers.
A differenza di Heidegger, Jaspers si è tenuto sempre
lontano da ogni ingaggio con la politica del nazionalsocialismo. E ciò non soltanto perchè aveva una moglie
ebrea, ma soprattutto perchè Jaspers come uomo è stato
sempre profondamente coerente con il suo pensiero.
Anzi, ritengo che nessun pensatore del nostro secolo
abbia saputo mettere a fuoco una filosofia della libertà
come quella di Jaspers.
Losurdo da parte sua cerca di sottolineare con insistenza
in alcune espressioni prese dagli scritti di Jaspers un
possibile rapporto con i temi di fondo dell’ideologia della
guerra, come quelli della morte, del pericolo, del destino
che si ritrovano nella tematica della comunità. In questo
contesto Losurdo mostra a mio avviso di non tenere ben
presente la distinzione di fondo tra alcune categorie
esistenziali tipiche della filosofia della vita e dell’esistenzialismo e le stesse categorie esistenziali che vengono
elevate da Jaspers al livello ontologico. Per sottolineare
questa sua profonda distinzione, Jaspers parla più precisamente di categorie esistentive: si tratta dell’esistenza
aperta alla trascendenza. Ciò comporta che i momenti
esistenziali della morte, del pericolo, del destino e della
comunità ricevano in questo ambito di trascendenza
jaspersiana un significato del tutto diverso da quello che
Losurdo intende mettere in luce nel contesto di una
ideologia della guerra. In Jaspers le categorie esistenziali
della comunità, del pericolo, della morte e del destino
ricevono un senso ontologico. Esse sono ben distanti
dall’essere considerate nello stesso senso dell’ideologia
della guerra, appunto perchè hanno il solo compito di
portare l’esistenza di fronte alla trascendenza.
Se Jaspers parla della fedeltà alle origini, alla storicità,
ciò non significha che parli di una fedeltà all’esseretedesco ma piuttosto all’aprirsi al problema ontologico
del fondamento del singolo. Così, se Jaspers esprime il
suo rammarico per il fatto che al posto del destino
dell’uomo subentri un legame alla macchina sociologica,
egli vuole con ciò mettere in luce soltanto la dimensione
inautentica del “si” anonimo, dove l’individuo si trova
alienato. Non si tratta di un disprezzo aristrocratico della
massa, ma solo della preoccupazione che l’individuo
venga massificato. Ed ancora, se Jaspers parla di un
legame alla sostanza della propria storicità, non intende
la coscienza di sentirsi membro della comunità popolare,
ma la coscienza di aprirsi al fondamento dell’uomo, che
è dato soltanto dall’apertura alla trascendenza. Se nello
scritto La situazione spirituale del tempo (1931) Jaspers
asserisce di preferire la morte all’asservimento, questo
non significa un elogio delle morte nel senso dell’ideologia della guerra, ma solo un elogio della libertà. In uno
degli scritti politici più fondamentali redatti dopo il 1945,
La bomba atomica e il destino dell’uomo, Jaspers arriva
a formulare il paradosso che sarebbe meglio perdere la
vita piuttosto che perdere il dono misterioso della libertà.
Inoltre, la situazione limite, che è una delle categorie
esistentive fondamentali di Jaspers, è lontana dal poter
essere interpretata nel senso della comunità guerresca
tipica dell’ideologia della guerra. La categoria fondamentale per leggere gli scritti politici di Jaspers dopo il
1945 è quella della “conversione interiore”, che chiarisce
la distinzione di fondo tra politica e sovra-politica. Se si
tiene presente questa categoria esistentiva politica e quella filosofica della comunicazione, si può capire come la
distinzione che Jaspers fa tra comunità e società non
possa essere racchiusa nello schema dell’ideologia della
guerra.
E’ noto che la problematica della comunicazione si fonda
sulla distinzione tra il conoscere tipico dell’intelletto e il
comprendere tipico della ragione. La ragione non è
estrinseca all’intelletto, ma è lo stesso intelletto quando
Giorgio
Penzo
PROFILO
questo prende coscienza dei suoi limiti conoscitivi. La
verità tipica del conoscere non riguarda il fondamento
dell’uomo; mentre la verità della ragione riguarda solo il
fondamento dell'uomo, che come tale si sottrae ad ogni
presa dell’intelletto conoscente. La problematica esistentiva della comunicazione non può perciò essere messa a
fuoco dall’intelletto, ma solo dalla ragione. I tratti caratteristici della comunicazione esisitentiva sono l’essereunito-a, cioè all’altro, e l’essere-in-solitudine. Questa
categoria esistentiva è diversa da quella esistenziale di
essere-isolati, poichè questa riguarda il singolo in rapporto alla società. Si capisce così come Jaspers intenda la
distinzione tra comunità e società. La prima si compone
di più singoli aperti alla solitudine del proprio fondamento e quindi aperti al nulla. Si tratta di una comunità sotto
l’angolo visivo della comunicazione, grazie alla quale
ogni singolo è aperto alla trascendenza. La seconda
invece è composta da più singoli, aperti solo alla dimensione dell’intelletto. Nell’unione esistentiva della comunità viene meno da una parte ogni verità rivelata, nel
senso di una verità religiosa ben delineata, dall’altra ogni
concezione del mondo che è alla base delle diverse
ideologie. Questi due modi inautentici della comunicazione, l’uno a livello religioso e l’altro al livello politico,
sono invece propri della società.
In una conferenza del 1956, La dimensione collettiva e il
singolo, Jaspers distingue tra comunità sostanziale e
società tecnica. Questa distinzione implica due diversi
modi di concepire l’autorità. Se nella comunità l’autorità
proviene dall’interno, nella società l’autorità proviene
dall’esterno, decadendo così ad autoritarismo, aperto
sempre al pericolo della violenza. Nel contesto dell’autoritarismo Jaspers non fa distinzione tra Stato e Chiesa,
perchè si è sempre di fronte a una autorità ben definita.
Nella consapevolezza di essere in possesso della verità,
lo Stato e la Chiesa si sentono giustificati ad imporre ai
loro membri tale verità conosciuta. In particolare Jaspers
allude allo stato marxista e soprattutto a quello nazista,
che sarebbe l’espressione più tipica del totalitarismo. In
tal senso la comunità tedesca tipica dell’ideologia della
guerra sarebbe piuttosto espressione della società e non
già della comunità.
Se si vuole comprendere più a fondo la distinzione
jaspersiana tra comunità e società, si deve tener presente
la distinzione che fa Max Stirner tra comunità e società,
alla quale corrisponde rispettivamente la distinzione tra
rivolta e rivoluzione. La rivolta è un atto del tutto esistenziale in quanto indica l’intima ribellione dell’individuo
che non intende perdere nell’anonima società la sua
interna coerenza. Si tratta di voler superare ogni estraniazione dell’io nell’anonimo della massa. Il cosidetto egoismo stirneriano non può a mio avviso essere definito,
come vogliono Marx ed Engels, come un egoismo puramente anarchico. Stirner intende tematizzare un’esistenza dalla quale esuli ogni concezione universale, che egli
definisce come “santa”. La dimensione universale del
concetto che è alla base delle diverse ideologie rappresenta il momento dell’estraniazione dell’io, e perciò
appartiene all’ambito della società, dove l’io non è più
“mia proprietà”. Di qui il titolo dell’opera di Stirner del
1845, L’unico e la sua proprietà.
A differenza della realtà della rivoluzione che morde su
un terreno sociale e presuppone il riconoscere come
valido un vivere secondo leggi, il momento della rivolta
si esaurisce solo in un atto interiore. Più precisamente, si
ha una presa di posizione del soggetto rispetto all’oggetto, senza curarsi di modificare l’oggetto. In forza di
questo atto l’oggetto perde la sua santità. E caduta la
santità dell’oggetto, il soggetto si trova ad essere per se
stesso nella dimensione di io come proprietà e quindi
nella dimensione di unico. In qualsiasi rivoluzione invece, per quanto radicale essa sia, muta solo l’oggetto,
mentre rimane intatta la santità di questo. L’ideologia
della guerra verrebbe considerata da Stirner come un’espressione “santa” e perciò inautentica. Quando Marx ed
Engels scrivono la loro critica all’opera di Stirner, che
apparirà ne L’ideologia tedesca, mostrano di non aver
saputo cogliere la verità profonda della rivolta e quindi
della comunità. In questa, il singolo si trova unito all’altro
singolo al di fuori di ogni dimensione santa della legge e
quindi al di fuori di ogni concezione ideologica.
Posto in chiaro che non è del tutto oggettivo interpretare
la categoria esistentiva di Jaspers di comunità come
categoria esistenziale tipica dell’ideologia della guerra,
riesce facile chiarire il problema che riguarda la realtà
storico-esistenziale di essere-tedesco, tipica di Jaspers,
che secondo Losurdo dipenderebbe anch’essa dall’ideologia della guerra. A riguardo si può fare una considerazione di carattere generale. Non c’è dubbio che Jaspers
parli con simpatia dell’essere-tedesco. Però egli dà a
questa espressione un significato ben diverso da quello
tipico dell’ideologia della guerra. La concezione di essere-tedesco di Jaspers richiama Nietzsche, secondo il
quale essere-tedesco significa dis-germanizzarsi. Purtroppo il super-uomo di Nietzsche è stato interpretato nei
primi decenni del nostro secolo sotto l’angolo visivo
della filosofia della vita e dell’esistenzialismo. Sotto il
primo aspetto è stato letto per lo più in chiave di un
darwinismo più o meno brutale, e sotto il secondo aspetto
è stato letto in chiave eroica. Jaspers dà di Nietzsche
un’interpretazione a livello di filosofia dell’esistenza.
Secondo Jaspers, come anche secondo Nietzsche, non c’è
un modello fisso rispetto al quale sia possibile definire
l’essere-tedesco. In altre parole, nessuna cultura tedesca
può dire di se stessa di essere un’autentica cultura germanica. Così, se Losurdo accusa Jaspers di parlare con
simpatia dell’essere-tedesco, ci si rende però conto che
non si tratta di un essere-tedesco ben determinato come
quello sostenuto dall’ideologia della guerra.
Così pure quando Losurdo parla dell’amicizia di Jaspers
con Weber, che indubbiamente nutre delle simpatie per
un certo nazionalismo, ciò non implica che Weber abbia
influenzato Jaspers in questo ambito. E’ noto che Weber
insegna a Heidelberg dal 1897 al 1899 e che durante
questo tempo Jaspers partecipa al suo circolo culturale. Il
nome di Weber ricorre spesso negli scritti di Jaspers. In
particolare Losurdo ricorda la monografia su Weber del
1932, dal titolo Max Weber. Essenza tedesca nel pensiero
politico, scientifico e filosofico. Nella nuova edizione del
1952 viene tralasciato il richiamo all’essenza tedesca che
poteva dare adito a qualche ambiguità. Per chiarire però
il suo particolare modo di vedere l’essenza tedesca,
RESOCONTO
PROFILO
Jaspers ci tiene a sottolineare che il suo lavoro su Weber
appare per la prima volta nel tempo in cui diventa
pericolosa la violenza nazista. Weber è per Jaspers un
filosofo che non si limita a insegnare filosofia, ma a
viverla. Nella commemorazione tenuta nel 1920 per la
morte di Weber, Jaspers sottoliena che in Weber si può
vedere l’essenza di ogni esistenza filosofica, che si rivela
nella coscienza di fronte all’assoluto nelle sue diverse
espressioni. Questa coscienza si esprime nella ragione
che è l’orizzonte ultimo delle responsabilità. In questa
lettura Jaspers vede Weber non già come un rappresentante di una determinata concezione di essere-tedesco,
ma come un rappresentante della ragione.
Non c’è alcun dubbio che, se Jaspers parla dell’esseretedesco, lo fa proprio in polemica con l’interpretazione
dell’ideologia della guerra. Quando dopo il 1945 si
doveva pensare a riproporre un’autentica tradizione culturale tedesca, Jaspers pensa a figure come Lessing, Kant
e soprattutto Goethe. Sono significative le due conferenze che egli tiene in onore di Goethe. La prima, del 1947,
porta il titolo Il nostro avvenire e Goethe ed è tenuta
quando Jaspers riceve il premio Goethe della città di
Francoforte. La seconda del 1949 porta il titolo L’umanità di Goethe ed è tenuta in occasione del secondo centenario della nascita di Goethe, nella cattedrale di Basilea.
Goethe viene proposto al popolo tedesco come una figura
“tedesca” di primo piano da imitare. E’ il tempo in cui
Jaspers scrive le sue opere politiche e parla di sovrapolitica come di una nuova dimensione etico-pedagogica
per il popolo tedesco del dopoguerra. Jaspers intende la
dimensione di sovra-politica come un “mutamento interiore”. In queste conferenze su Goethe egli si pone il
problema fino a che punto i grandi del passato possano
ancora avere un senso per il tempo presente, senza esporsi
con ciò al pericolo di cadere in un culto o peggio in una
divinizzazione di questi “grandi”. Jaspers dà al termine
grandezza un significato fondamentalmente diverso da
quello tipico della cultura eroica dell’ideologia della
guerra. E’ grande per Jaspers solo colui che aiuta il
singolo ad aprirsi al suo fondamento interiore. Così
Goethe è grande, secondo Jaspers, perchè riesce a realizzare l’esistenza umana in una pienezza spirituale che di
rado si può constatare nella storia. Solo in questo modo
la realtà umana racchiusa nelle opere di Goethe può
essere ancora attuale per il popolo tedesco.
Purtroppo la politica di Jaspers come sovra-politica, cioè
come conversione interiore non può essere capita pienamente neppure dalla Germania democratica. Per questo
egli pensa di abbandonare la sua amata Germania. Il
dolore del distacco sarà un motivo di polemica con la sua
amica e scolara Hannah Arendt, che non riusciva a capire
perchè Jaspers voleva ancora riconoscersi tedesco. Anche l’ebrea H. Arendt cade però nell’equivoco che la
Germania dovesse essere circoscritta alla Germania della
cultura prussiana. Ma né Nietzsche né Jaspers si riconoscono in questa angusta Germania, pur affermando nello
stesso tempo di voler essere ancora tedeschi.
Penso che il libro di Losurdo sia molto importante,
perchè credo che sia il primo tentativo attuale di far uscire Heidegger
da quella specie di “splendido isolamento” in cui era finito nel dopoguerra e in cui il suo indubbio rapporto con il nazionalsocialismo diventava quasi una questione di scelte personali, una
contesa tra chi optava per una philosophia perennis, di
fronte alla quale ogni errore politico diventa una veniale
debolezza della carne, e chi si accaniva contro il peccatore, invocando un rogo tardivo, che poi sarebbe stato un
rogo postumo. In questa situazione la messa al bando di
Heidegger decretata dal marxismo si rivela un’arma a
doppio taglio, poichè l’etichettatura come pensatore reazionario o progressista collocava Heidegger in una compagnia che, buona o cattiva che fosse, era pur sempre una
compagnia che aveva una sua legittimità storica, non solo
consolante, ma pure conveniente.
Come ricorda Losurdo, Lukács, che certo non esitava ad
amettere o radiare a seconda dell’ideologia politica, in
base al convincimento che nessuna concezione del mondo è innocente, mostrò un insolito rispetto per Heidegger
sia nella Distruzione della ragione, sia nel saggio
Heidegger redivivus, sulla Lettera sull’umanismo a Jean
Beaufret, sia nel poco noto libro sull’esistenzialismo.
Losurdo conosce benissimo Lukács, che prima di lui
aveva spiegato l’adesione del pensatore al nazismo nel
contesto della “distruzione della ragione”, ma il suo libro
non è affatto un duplicato di quello di Lukács e non solo
Cesare
Cases
perchè ci sono di mezzo quasi cinquant’anni di ricerche
e di pubblicazione di nuovi documenti, ma perchè quel
libro soffriva delle pastoie che l’autore si era autoimposto. Heidegger era relativamente ben trattato, ma anche
lui era una sottosezione di una sezione di una totalità
malefica, che restava tale anche se vi capitava dentro un
diavolo più intelligente degli altri. Lukács non poteva
fare a meno di sussumere in qualche categoria e chiedeva
alla totalità la forza di picconare i suoi singoli rappresentanti. Losurdo invece parte dal concreto, parte da
Heidegger per tastare il terreno intorno a lui, che si rivela
assai fecondo, in cerca di analogie. In questa prospettiva
le contraddizioni interne del filosofo passano in secondo
piano; non si vuole nel libro fare quella critica immanente
cui Lukács aspirava, ma che raramente otteneva, perchè
il pregiudizio ideologico arrivava alla meta prima di
questa critica.
Una critica immanente l’aveva già condotta molto bene
Sternberger nella sua tesi di laurea del 1930, pubblicata
solo alcuni anni fa; la tesi verteva su un solo paragrafo di
Essere e tempo, quello - non ricordo più se il 91 o il 93 in cui si pone la morte a fondamento dell’Esserci come
essere per la morte. Sternberger con un’analisi puntuale
dimostrava l’assurdità di fondare l’esistenza umana su
un’esperienza che l’uomo non può mai avere in prima
persona. A Losurdo non interessa la morte come principio dell’ontologia heideggeriana, ma come tema centrale
dell’epoca nei dintorni della prima guerra mondiale,
tema di cui quella heideggeriana non è altro che la
PROFILO
versione più radicale, una delle versioni più radicali.
L’esaltazione del sacrificio e la mistica della comunità
sono le altre componenti di quella che Losurdo chiama
l’ideologia della guerra. Nel ravvisarne la presenza nei
contemporanei Losurdo non esita a fare i nomi non solo
di Jaspers, di Weber e di Husserl, ma anche di Buber e di
Rosenzweig, che la recuperano a favore dell’ebraismo,
sicchè anche coloro che saranno le future vittime del
nazionalsocialismo hanno atteggiamenti che li portano in
vicinanza del razzismo nazionalsocialista. A questo punto ci si può chiedere se un fenomeno così vasto, che
coinvolge anche le vittime dell’odio antisemita nutrito
dalle fantasie comunitarie, non abbia un minimo di legittimità teorica. Losurdo sembra contestarlo e in questo si
accosta a Lukács; per esempio, per quanto riguarda i
francofortesi, egli li porta in vicinanza di Heidegger, ma
all’ultimo momento li distacca, dimostrando come in essi
viva sempre la speranza di realizzare l’illuminismo,
mutando le basi della società. Questo è filologicamente
corretto ed è valido contro Lucio Colletti che fin dalla sua
recensione della Dialettica dell’Illuminismo, contemporanea alla versione italiana, mostra di non aver capito
nulla di questo libro e di ritenere che sia un libro rivolto
contro l’Illuminismo. In realtà però, se faceva eccezione
per Heidegger e Schmitt, soprattutto per ragione politiche, il nazionalsocialismo era un trauma difficilmente
superabile per degli emigrati ebrei antinazisti. Horkheimer
e Adorno avevano seguito la massima di Benijamin,
secondo la quale bisogna imparare dal nemico.
Losurdo parla di “eccedenza di teoria” sull’ideologia; ma
in che cosa consiste questa eccedenza? A mio avviso nel
fatto che il romanticismo anticapitalistico, non avendo
prospettive positive che passino necessariamente attraverso il capitalismo, come le ha il marxismo, è molto più
sensibile agli aspetti negativi di questo e al tipo di uomo
che incarna questi aspetti negativi. Per fare la mia parte di
pedante, chiamato come esperto di tedesco, dirò che in
Losurdo c’è un unico errore terminologico che mi sembra
significativo, dato che negli errori vien fuori l’inconscio,
soprattutto in un uomo come Losurdo, che esamina tutto
alla luce della ragione. A un certo punto del testo si parla
del richiamo alla grecità in Heidegger, che non può essere
un elemento unificante per tutta l’umanità, ma serve a
definire gli schieramenti in lotta: «il nome di Eraclito non
è la formula per il pensiero di un’umanità in sé abbracciante l’intero globo». Si tratta di una citazione da
Heidegger, a cui tra parentesi fa seguito il termine tedesco, Allerweltsmenschheit an sich. Losurdo traduce «l’umanità in sé abbracciante l’intero globo», dando l’impressione che si tratti di una polemica contro l’umanesimo in generale, contro la retorica umanistica, mentre non
è così, perchè Allerweltsmenschheit non vuol dire l’umanità che abbraccia l’intero globo, ma vuol dire un’umanità buona per tutti gli usi. L’espressione Allerwelt ha
sempre una connotazione negativa; in questo caso indica
un’umanità da quattro soldi. Cioè qui la polemica è
contro l’umanesimo come ideologia del piccolo borghese alienato, americano o russo che sia. Heidegger aveva
questi due bersagli, così come in generale l’ideologia
della guerra esaminata da Losurdo. Si tratta quindi di una
polemica contro l’ultimo uomo di Nietzsche; e questa
polemica, a mio parere, prescindendo dalle implicazioni
politiche che ne ha tratto Heidegger e in generale l’ideologia della guerra, prescindendo dalla esaltazione della
bionda bestia ellenico-germanica, questa polemica ha il
suo aspetto legittimo.
Penso che questa sia la ragione della tenace sopravvivenza dell’anticapitalismo romantico, benchè Lukács credesse di essersene sbarazzato non solo personalmente,
ma anche sul piano teorico. E penso anche che questa sia
la ragione per cui la Germania, e in fondo tutto il mondo,
dopo essersi di nuovo adagiati nel capitalismo, hanno
proclamato Heidegger il grande pensatore dell’occidente. Questo anche perchè, a differenza di Nietzsche,
Heidegger permette di continuare a filosofare, cambiando il linguaggio e chiudendo gli occhi di fronte alla realtà.
Una realtà che riappare nella genesi del pensiero heideggeriano delineata da Losurdo, di cui vorrei di nuovo
esaltare il libro, dopo aver fatto osservare qualche suo
limite, che del resto io giustifico ampiamente, perchè
anche l’Allerwelt, l’umanismus è sempre buono contro
l’ideologia della morte, ripercorsa in questo libro.
Stefano
Petrucciani
dedicato addirittura un libretto). L’importante del libro di
Losurdo, però, è che non si ferma neppure alla messa in
evidenza di questa connessione, ma compie un passo
successivo e significativo. Mostra cioè come questa
interna policità o scelta di campo della filosofia di
Heidegger abbia le sue origini, ovvero le sue motivazioni
nel rapporto stretto che intercorre tra il pensiero heideggeriano, da un lato, e dall’altro quel complesso ideologico che, semplificando un po’, si può riassumere nelle
parole chiave “ideologia della guerra” e “critica reazionaria della modernità”. A mio avviso la questione davvero significativa e di grande interesse è proprio questa:
Losurdo ci mostra, in sostanza, che non si deve guardare
al nazismo di Heidegger come al traviamento di un
grande filosofo; l’ottica che ci propone è completamente
diversa. Guardare alla filosofia di Heidegger come a una
nità, la morte, l’Occidente.
Heidegger e l’ideologia della guerra) sta certamente nel modo in cui
esso reimposta e ricontestualizza la
questione del nazismo di
Heidegger. Il libro, infatti, va oltre
la questione delle scelte filonaziste del filosofo, scelte
ormai comprovate e sulle quali non rimane molto da dire.
Non si ferma a riflettere solo sulla circostanza inquietante
di un filosofo che si fa nazista: mostra anche come vi sia
un legame forte, non scindibile tra molti aspetti del
pensiero di Heidegger e le sue scelte politiche. Queste, in
altri termini, non sono certo l’incidente di percorso che
capita a un filosofo perso nel cielo delle idee (come Talete
quando cade nel pozzo e viene deriso dalla servetta tracia,
nell’aneddoto cui recentemente Hans Blumenberg ha
Uno dei meriti principali del libro di Losurdo (La comu-
PROFILO
filosofia che è profondamente permeata e imbevuta da
elementi ideologici, e che proprio per questo può anche
diventare, a un certo punto e per un certo periodo,
teorizzazione nazista (sebbene caratterizzata da un modo
molto specifico di interpretare il nazismo). Non il traviamento di un grande filosofo, quindi, ma la ideologicità e
politicità di una filosofia, ri-spetto alla quale le scelte
politiche non sono un incidente.
A questo proposito mi sembra che uno dei risultati più
importanti del libro di Losurdo sia quello di mostrare
come il passaggio della prima guerra mondiale sia a tutti
gli effetti decisivo per comprendere i percorsi dell’ideologia tedesca che sboccano nel nazismo. Questo è il
passaggio cruciale, perchè è proprio dalla “ideologia
della guerra” che scaturiscono tutti quei topoi concettuali
che poi il nazismo sfrutterà ampiamente. L’esaltazione
bellicistica, mostra Losurdo, contagia buona parte della
grande cultura tedesca; e non è difficile ritrovare le tracce
di questa ideologia della guerra anche nel pensiero di
Heidegger. Basta leggere per esempio un passo inequivocabile che Losurdo cita da un corso su Hölderlin del
1934-35: «Proprio la morte che ogni singolo uomo deve
morire per sé e che singolarizza all’estremo ogni singolo
per sé, proprio la morte e la disponibilità al sacrificio crea
innanzitutto lo spazio della comunità dal quale scaturisce
il cameratismo». Qui, evidentemente, l’eco dell’ideologia della guerra è ancora fortissima. Perciò, se si accoglie
il tipo di lettura proposto da Losurdo, la discussione sul
pensiero di Heidegger viene, per così dire, ri-orientata, e
il vero problema diventa quello di capire quanto questa
importante filosofia sia però permeata dalla assimilazione di indigesti materiali ideologici.
La questione perciò, si potrebbe dire, non è più o non è
tanto una questione concernente il rapporto teoria/biografia, ma diventa cosa diversa: una questione interna
alla teoria. Losurdo dunque critica, e direi a ragione, la
pretesa che era stata di Habermas nella introduzione al
libro di Farias: non è possibile separare con un taglio di
coltello, nella produzione di Heidegger, la filosofia ovvero la pura teoria dall’ideologia. Non lo si può fare né
fissando un discrimine cronologico (come accadeva nel
testo di Habermas), né assegnando alcuni testi all’ideologia e altri alla teoria. In tutta la produzione di Heidegger,
sostiene Losurdo, le due dimensioni sono intrecciate,
come del resto accade non solo nel pensiero di Heidegger,
ma in tante altre filosofie, più o meno a noi vicine. Ciò ha
un’implicazione sulla quale mi vorrei soffermare un
momento. Losurdo ci suggerisce di leggere i testi (della
storia della filosofia e del pensiero politico, non solo i
testi di Heidegger) comprendendoli come un intreccio
dove convivono cose diverse: il testo è attraversato dal
conflitto delle ideologie e vi partecipa, ma ciò non vuol
dire che sia riducibile a pura e semplice ideologia. C’è un
momento di autonomia e di autoconsistenza della teoria
(in questo caso della teoria heideggeriana, ma il discorso
ha una validità generale) che non è riportabile riduzionisticamente a epifenomeno di conflitti sociali. Ripeto, c’è
un momento di autonomia della teoria, anche se, come
sostiene Losurdo, la linea di separazione tra teoria e
ideologia non è né comoda né confortevole, ovvero i
confini e i discrimini non sono facili da tracciare. Però
questi confini ci sono, almeno nel senso che non è
praticabile, e non è nelle intenzioni di Losurdo, una
lettura riduzionistica del pensiero filosofico.
Questo mi sembra un buon punto di partenza per affrontare quello che comunque è un problema molto serio, e
cioè la questione del rapporto tra i condizionamenti
storici e ideologici e la pretesa di verità della teoria. La
precondizione per discutere seriamente questo problema,
a mio avviso, è quello di comprendere che esso non può
essere coerentemente trattato nello spazio teorico di un
riduzionismo radicale (sia esso un riduzionismo foucaultiano, nietzscheano, come quelli che oggi vanno più di
moda). E non può esserlo per la semplicissima ragione
che la negazione radicale della pretesa di verità della
teoria, in quanto sia teorizzata, è autocontraddittoria. Lo
è perchè contiene in sé quella pretesa di verità di cui nega
l’esistenza, quando pretende di ridurla a epifenomeno di
altro. A partire da qui, perciò, dovrebbe cominciare la
discussione del problema, che non è né semplice né
agevole da trattare.
L’altra questione presente nel libro di Losurdo sulla quale
mi vorrei soffermare, invece, è quella che concerne i
nessi che si possono stabilire fra tre termini: da un lato il
pensiero heideggeriano, dall’altro quella che per comodità possiamo chiamare la “critica reazionaria della modernità” e cioè quella che, semplificando, possiamo attribuire alla Scuola di Francoforte (ma gli autori più rilevanti
a questo proposito, tra i francofortesi, sono secondo me
Marcuse e Adorno). Innanzitutto un chiarimento: per
critica reazionaria della modernità (Marcuse parlava a
questo proposito della Weltanschauung di un nuovo
realismo eroico-popolare) possiamo intendere, con tutto
l’arbitrio che è inevitabile quando si ragiona su concetti
così ampi, un pensiero che si definisce in sostanza attraverso una serie di coppie concettuali dove l’un termine
designa il valore e l’altro il disvalore. Queste antitesi, che
vengono tutte ripercorse nel libro di Losurdo, sono ad
esempio Kultur contro Zivilisation, comunità contro società, organicismo contro individualismo, ideologia della guerra contro umanitarismo, culto del pericolo contro
ricerca della sicurezza, retorica del tragico contro banalità quotidiana, gerarchia di valore tra gli uomini contro
uguaglianza, culto della radici contro universalismo razionale, popolo-nazione contro internazionalismo, e si
potrebbe continuare.
Abbiamo visto come non sia difficile mostrare gli intrecci
che legano il pensiero heideggeriano con molte di queste
tematiche (che compongono un vasto e differenziato
arcipelago, abitato da autori di diverso livello, dai notevoli Sombart e Spengler fino a libellisti di infima qualità).
Ma allora che rapporto vi è tra la critica heideggeriana
della modernità e la critica della modernità e dell’illuminismo che viene svolta dalla Scuola di Francoforte, e
soprattutto da Horkheimer, Adorno e Marcuse? Su questo punto, che Losurdo a mio avviso affronta in modo
equilibrato, faccio solo due o tre considerazioni.
Innanzitutto bisogna ricordare che proprio alla Scuola di
Francoforte si deve una precoce e intransigente critica
della ideologia antimoderna e antiliberale che si afferma
in Germania e che confluisce nel nazismo. Esemplare a
questo proposito è il saggio di Marcuse che appare nel
RESOCONTO
PROFILO
1934 sulla “Zeitschrift für Sozialforschung” col titolo La
lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria
dello Stato. Si tratta di un prezioso catalogo critico di
molti dei temi che ritroviamo analizzati anche nel libro di
Losurdo: Marcuse sottopone a un giudizio impietoso
tutta la nuova Weltanschauung cui anche Heidegger,
secondo lui, dà il suo contributo. Gli aspetti fondamentali
del pensiero antiliberale, antimoderno e totalitario sono
per Marcuse: la eroicizzazione dell’uomo, il naturalismo
organicistico, l’odio per le idee dell’89, il culto della
comunità, del destino, del sacrificio, del mito, il disprezzo per la felicità delgli individui. Ma l’altro punto importante è, aggiunge Marcuse, che qui non siamo di fronte
solo a un pensiero irrazionalistico: piuttosto l’esaltazione
irrazionalistica, che è antiliberale sul piano ideologico,
ma non sul piano dei rapporti economico-sociali, ha in
realtà un fine nescosto molto razionale, e cioè quello di
stabilizzare le strutture del sistema di produzione dominante e di promuovere la sottomissione ad esso con
iniezioni di narcotico ideologico.
Non vi possono essere dubbi, perciò, sul fatto che la
critica francofortese della modernità si contrappone frontalmente alle correnti ideologiche che attaccano la modernità e il liberalismo dal versante opposto, ivi compreso Heidegger. La critica francofortese vuol essere una
autocritica dell’illuminismo: Horkheimer e Adorno lo
scrivono in tutta chiarezza a conclusione del capitolo
sull’antisemitismo della Dialektik der Aufklärung:
«L’illuminismo stesso, divenuto padrone di sé e forza
materiale, potrebbe spezzare i limiti dell’illuminismo”.
Ma il punto si chiarisce ancor meglio se si guarda a questa
problematica da un altro angolo visuale: da un lato la
prospettiva di Horkheimer e Adorno critica l’illuminismo perchè non è abbastanza illuminato, e la modernità
perchè non è abbastanza moderna. Ma dall’altro, contro
le moderne mitologie nazionalistiche, neopagane, ecc.,
Horkheimer e Adorno intendono mostrare, anche se
questo aspetto viene di solito meno notato, che “il mito è
già illuminismo». Ciò vuol dire, al di là della formula
lapidaria, che il regresso al mito non è un’alternativa
perchè il mito è già una strategia di dominio razionale, e
dunque non è un totalmente altro rispetto all’illuminismo
e al progresso, ma è coinvolto in essi.
Ciò riconferma dunque quanto la critica francofortese sia
inassimilabile ad altre critiche della modernità di segno
opposto. Ma c’è anche un’altra questione che dev’essere
ricordata per completare il quadro: difensori dell’illuminismo, Horkheimer e Adorno sostengono però che le
promesse dell’illuminismo non si sono realizzate, e che
proprio per questo “la riflessione sull’aspetto distruttivo
del progresso” non può essere “lasciata ai suoi nemici”.
Quindi, sebbene inassimilabili alla critica reazionaria
della modernità, Horkheimer a Adorno invitano però, in
un certo senso, a prenderla sul serio, come per esempio
Adorno, in alcuni suoi scritti, ha preso sul serio Spengler.
All’epoca in cui fu formulato, quest’invito a prendere sul
serio i critici reazionari del progresso aveva certamente
un grande valore di rottura nei confronti delle visioni
ottimistico-storicistico-progressiste. Oggi può apparire
addirittura una banalità, dal momento che le illusioni del
progresso sono talmente scomparse dalla scena che si
potrebbe quasi sentire il bisogno di richiamarle in vita.
E’ probabile che il mio libro abbia
conseguito il risultato di scontentare sia gli apologeti che gli accusatori un po’ moralistici di
Heidegger. Rifiutando di immergere il dibattito filosofico del Novecento in un’aura asettica e remotamente lontana dai rumori del mondo e respingendo al
tempo stesso l’accanimento ad personam ai danni di un
singolo autore, arbitrariamente staccato dal contesto storico e dalla vicenda di un’intera (o quasi) generazione di
intellettuali, ho preso le mosse non dal 1933, bensì dal
1914 e dall’ “ideologia della guerra” che, a partire da quel
momento, contagia larga parte della cultura europea. La
Kriegsideologie (l’espressione è di Thomas Mann del
1928) si manifesta in modo diverso nell’ambito delle
contrapposte coalizioni impegnate nel conflitto. L’Intesa
(che pure nel suo seno conta sulla presenza della Russia
zarista) cerca di giustificare l’immane sacrificio imposto
a milioni e milioni di uomini, proclamando una sorta di
crociata e di guerra santa contro gli Imperi Centrali,
denunciati come il focolaio del dispotismo e del militarismo guerrafondaio. La Germania procede diversamente,
individuando e celebrando nella guerra, e nella concentrazione e nel sacrificio che essa comporta, la “situazione
assoluta” o la “situazione-limite”, grazie alla quale è
possibile recuperare o attingere la dimensione autentica
dell’esistenza. Il pericolo e la vicinanza della morte per
un verso consentono all’individuo di superare la dispersione e massificazione della banalità quotidiana, per un
altro verso lo inseriscono in un rapporto di autentica
comunità e Gemeinschaft con i suoi camerati e col popolo
nel suo compelsso, impeganto in una lotta che richiede
ala tempo stesso consapevolezza e concentrazione individuale e unità corale.
E’ recentemente comparso il volume relativo al 1990
degli ANNALI DELLA FONDAZIONE UGO SPIRITO.
La Fondazione ha iniziato la propria attività nel 1981, due
anni dopo la morte di Ugo Spirito, e già dopo cinque anni
è stata in grado di presentare la bibliografia delle opere
del filosofo. L’idea della pubblicazione degli Annali
risale al 1987 e si concretizza nel 1989, quando compare
il primo volume della serie. La finalità di questa iniziativa
editoriale, a cadenza annuale, è legata non solo alla
necessità, messa in luce da più parti, di tenere aggiornati
i lettori sugli studi e le pubblicazioni riguardanti Ugo
Spirito, ma anche di aprire nuove vie di ricerca, servendosi del ricco patrimonio documentario rappresentato
dall’ Archivio-Spirito, conservato presso la Fondazione.
Per quest’ultimo aspetto appare particolarmente importante la sezione “Inediti” del volume, all’interno della
quale troviamo un inedito di Ugo Spirito dal titolo: L’io
e le sue implicazioni, con una introduzione di Vittorio
Mathieu, e la pubblicazione integrale degli “Atti del
Domenico
Losurdo
PROFILO
PROFILO
Convegno italo-francese di studi corporatici” (1935), a
cura di Giuseppe Parlato. Nella sezione “Saggi” compaiono un articolo di A. Rigobello, Ugo Spirito: dal problema all’affermazione, dedicato al “proble-maticismo”
spiritiano, atteggiamento teoretico che viene applicato
non solo alla filosofia, ma anche ad altri ambiti culturali,
ad esempio le questioni di natura etico-politica, e un
saggio di H. A. Cavallera dal titolo: L’occhio del pensiero: Ugo Spirito tra gli anni ’60 e gli anni ‘70.
Non ha senso isolare Heidegger dalla vicenda di una
generazione di intellettuali affascinata dalla
Kriegsideologie: certo, alcuni riescono a staccarsene, in
momenti diversi e in modo più o meno faticoso e più o
meno radicale, giungendo in casi rari a formulare una
lucida critica dell’ideologia, cui pure in precedenza era
andata la loro adesione (è il caso di Thomas Mann). Altri,
pur continuando ad essere ispirati dalla Kriegsideologie
ben oltre il 1918, non varcano comunque la soglia fatale
dell’adesione al nazismo: è il caso di Jaspers. Non è il
caso di Heidegger, che non solo varca tale soglia, ma
continua a rimanere sostanzialmente legato, sino alla
fine, alla Germania del Terzo Reich, pur nell’ambito di
un rapporto contraddittorio e di una incessante e tormentata reinterpretazione soggettiva di tale rapporto.
Ma, proprio perchè conviene prendere le mosse dal 1914,
risulta inattendibile il tentativo di datare la svolta conservatrice del filosofo qui in questione a partire dalla crisi
economica mondiale, e tedesca in modo particolare, del
1929. Lo stesso Habermas, che formula tale tesi allo
scopo di salvare e mettere all’asciutto sul terreno della
pura teoria il capolavoro di Heidegger, è costretto per un
altro verso a riconoscere le «connotazioni singolari» che
in Essere e Tempo rivestono categorie come Schicksal e
Geschick. In realtà, ci imbattiamo in tutte le parole chiavi
dell’ “ideologia della guerra” propria della Germania:
“comunità”, “fedeltà”, “destino”. Per sottolineare la comunanza del destino, Heidegger fa ricorso ad un termine
specifico, Geschick, nel cui ambito - si badi bene - «i
singoli destini sono anticipatamenti segnati». Siamo così
ricondotti alla “fedeltà incondizionata” e al “legame
incondizionato” di cui, qualche anno dopo Essere e
Tempo, parla, come abbiamo visto, Jaspers.
L’adesione di Heidegger al nazismo, Esposito ritiene di
poterla mettere sul conto di una persistente visione umanistica e universalistica. Si tratta di una tesi avallata anche
da altri prestigiosi interpreti, che tuttavia a me sembra
paradossale. Non ci dovrebbero essere dubbi sulla violenza della polemica anti-universalistica che caratterizza
il nazismo nel suo complesso. La categoria di umanità in
quanto tale risulta priva di senso agli occhi di Hitler che
preferisce invece parlare di “umanità ariana” e si rifiuta
di sussumere sotto il concetto di uomo quei “parassiti”
che sono gli ebrei e, in generale, i sotto-uomini, gli
Untermenschen delle razze considerate inferiori. Dichiarazioni analoghe si possono leggere in Rosenberg,
Baeumler, Heyse, Böhm, i quali anzi individuano nell’universalismo prima romano, e poi cristiano e nell’abbandono del “nominalismo” caro a Nietzsche, la causa o il
filo conduttore della parabola rovinosa dell’Occidente.
In tale contesto è da inserire anche la polemica, ovviamente caratterizzata da uno spessore teorico infinitamen-
te superiore, di Essere e tempo (par.10) contro la categoria di “spirito”, o di “anima”, in ultima analisi contro il
concetto di “uomo” in quanto tale, che poi non sarebbe
altro che la «definizione cristiana deteologizzata» «nel
corso del pensiero moderno». In tale contesto va pure
collocata la contrapposizione della categoria di Dasein e
di storicità a quella di Gattung e di genere umano, nonchè
il disprezzo con cui Heidegger parla della
Allerweltsmenschheit. Per sottolineare il fatto che quest’ultima viene contrapposta, in modo esplicito, all’ “esistenza storica occidentale-germanica”, ho preferito qui
ricorrere ad una traduzione quanto più possibile letterale
e vicina al significato etimologico (che per Heidegger è
quello originario e più autentico). D’altro canto, la polemica contro la Allerweltsmenschheit rinvia a quella contro l’ «inconsistente e disimpegnato affratellamento universale» (Weltverbrüderung). L’universalità, il concetto
di uomo in quanto tale, sono qui come altrove il bersaglio
costante della polemica di Heidegger (così come degli
ideologi del Terzo Reich). E, a tale proposito, vorrei
ricordare ad un autorevole studioso di Hannah Arendt
qual’è Esposito che già l’autrice delle Origini del totalitarismo, nello spiegare la parabola rovinosa che conduce,
attraverso un lungo processo e paurosi salti di qualità, a
Auschwitz, prende le mosse dalla decostruzione del
concetto universale di uomo operata da Burke nel corso
della sua furibonda polemica contro i diritti dell’uomo
proclamati dalla Rivoluzione francese.
Mi lascia invece perplesso una categoria come quella di
“romanticismo dell’Opera”, di cui Esposito si serve per
accostare marxismo e Heidegger del discorso rettorale.
In realtà, le filosofie della prassi (al plurale) possono
avere i significati filosofici più eterogenei, sussumere
contenuti politici diversi e contrapposti e rinviare a
tradizioni culturali e nazionali quanto mai disparate (Laski
ha potuto scrivere che l’ “azione” è l’ “essenza” dello
“spirito americano”). E’ vero che Del Noce ha creduto di
poter accostare o assimilare, sotto la categoria di “primato del divenire”, fascismo e comunismo, Mussolini e
Gramsci. Ma, a parte ogni altra considerazione, tale
visione ha il torto di semplificare arbitrariamente la
contraddittoria realtà del fascismo (e del nazismo), il
quale si è talvolta impegnato esso stesso in una polemica
contro l’attivismo moderno. Si pensi, ad esempio, ad un
autore come Julius Evola, che così motiva la sua Rivolta
contro il mondo moderno: «L’essere, lo stare, al moderno valgono perciò quasi come morte: egli non vive se non
agisce, se non si agita». E, con tale esplicita rivendicazione del primato dell’essere siamo ricondotti nelle vicinanze della denuncia heideggeriana del moderno “oblio
dell’essere”. Ho accennato nel mio libro alle diverse
anime ideologiche del nazismo: la categoria di “primato
del divenire” o di “romanticismo dell’Opera” può risultare feconda per la comprensione della corrente del
modernismo reazionario, non certo di quella caratterizzata dall’ideologia del sangue e del suolo. Il tratto unificante di queste anime diverse e contrastanti del nazismo è
costituito invece dalla polemica contro il concetto universale di uomo.
Nell’insistere sulla presenza della Kriegsideologie in
Heidegger in tutto l’arco della sua evoluzione e nel
PROFILO
respingere la periodizzazione suggerita da Habermas,
non ho inteso negare l’eccedenza dell’elaborazione teorica rispetto alle opzioni politiche del filosofo, eccedenza
non messa in discussione neppure dall’autore della Distruzione della ragione. Ma in che cosa essa consiste?
Sulle orme di Lukács, Cases sembra individuarla nell’analisi critica della società del tempo sia pure condotta a
partire dalle posizioni proprie dell’anticapitalismo romantico. E’ possibile però un approccio diverso o un’ulteriore chiave di lettura. Autori come Heidegger, Schmitt,
Jünger hanno implacabilmente smascherato l’ideologia
della guerra dell’Intesa, nell’ambito della quale l’universalismo è solo la giustificazione ideologica dell’ “interventismo universale” e lo strumento per la criminalizzazione del nemico (Schmitt). Proclamando la crociata in
nome del valore universale della democrazia, i paesi
dell’Intesa sono riusciti a padroneggiare una componente
decisiva della guerra odierna, quella “fideistica”, e in tal
moso hanno operato una “mobilitazioen totale” (anche
delle coscienze) senza precedenti nella storia e comunque superiore a quella messa in atto dalla stessa Germania
guglielmina (Jünger). Sia pure a partire, in ultima analisi,
dalle posizioni proprie di un imperialismo rivale e contrapposto, la grande culturta conservatrice o reazionaria
del Novecento tedesco ha smascherato implacabilmente
l’ideologia della guerra dell’Intesa (e ad aver trionfato ai
nostri giorni - si pensi alla recente guerra del Golfo - è per
l’appunto quest’ultima ideologia che legittima il ricorso
spietato ai più terribili mezzi di distruzione e di morte
della tecnologia moderna in nome dell’ “interventismo
democratico” e del ristabilimento dell’ordine planetario
mediante energiche operazioni di polizia internazionale).
Tale denuncia trova il suo momento più alto di generalizzazione e metafisicizzazione in Heidegger il quale, sia
pure con accenti via via diversi, nel corso della sua
tormentata evoluzione, decostruisce l’ideologia universalistica in quanto strumento di guerra, di dominio e di
sopraffazione a livello planetario e persino nel rapporto
tra uomo e natura.
Bisogna allora abbandonare al suo destino la categoria di
universalità? No, non è questa la conclusione che si deve
trarre. Secondo l’indicazione di Marx, l’ideologia è il
conferimento della forma dell’universalità a contenuti e
interessi empirici determinati che ne risultano in tal modo
trasfigurati. Ma alla categoria di universalità non può non
far riferimento la stessa critica dell’ideologia che consiste infatti nella denuncia della peseudo-universalità, nel
potenziamento arbitrario e surrettizio a universale di un
particolare determinato e spesso vizioso. La condanna
della sopraffazione, esercitata a danno di un individuo o
di un gruppo sociale o etnico, presuppone il riconoscimento della dignità di ogni individuo o uomo in quanto
tale; non è possibile mettere in discussione una determinata ideologia universalistica senza far ricorso ad una
meta-universalità, cioè ad una universalità più ricca e più
vera. Non procede così anche Esposito nel criticare
giustamente Husserl per aver identificato l’ “uomo occidentale” con l’ “uomo tuot-court”, escludendo quindi
indios e zingari? Negare il criterio dell’universalità significa negare in ultima analisi ogni criterium veritatis, ogni
possibilità di sottoporre a controllo e a critica un’afferma-
zione o un comportamento; significa spianare la strada, in
ultima analisi, ad un arbitrio e ad una violenza riluttanti
a qualsiasi regola e a qualsiasi verifica meta-individuale
e intersoggettiva. E’ solo la categoria di universalità a
rendere possibile l’autocritica e autocorrezione di una
civiltà. Se la politica di sterminio e genocidio (e di quello
a danno degli indios prima ancora della “soluzione finale” a danno degli ebrei) è stata condotta all’insegna di un
nominalismo antropologico che rifiuta di sussumere pienamente le sue vittime sotto il concetto universale di
uomo, è proprio in nome di tale concetto che l’Occidente,
nei suoi momenti più alti (a cominciare da Las Casas), ha
saputo sviluppare un bilancio autocritico della sua storia.
Alla fine dell’Ottocento, un teorico del razzismo e del
darwinismo sociale, Gumplowicz, così descrive e giustifica lo sterminio degli Ottentotti: «I boeri cristiani li
consideravano non come “uomini” bensì come “esseri”
(Geschöpfe) che è lecito sterminare alla stregua della
“cacciagione del bosco”». Tocqueville invece osserva
che in America i bianchi si rifiutano o stentano a riconoscere nei negri «i tratti generali dell’umanità»; e in modo
analogo si comportano nei confronti degli Indiani, ormai
sul punto di essere cancellati dalla faccia della terra. Ma
poi è lo stesso autore della Democrazia in America a
celebrare l’incessante espansione dei bianchi che combattono “il deserto e la barbarie” (la categoria di barbarie
finisce di nuovo con l’incrinare il concetto universale di
uomo). Il fatto è che, a parte momenti privilegiati e autori
d’eccezione, l’Occidente non ha saputo procedere ad una
riflessione autocritica radicale e suscettibile di penetrare
in profondità nella sua cultura e nella sua coscienza
comune. Ciò ha poi reso agevole l’emergere e il dispiegarsi di una barbara politica di discriminazione razziale
nel cuore stesso dell’Europa. E’ significativo il fatto che,
nel corso della seconda guerra mondiale, nelle sue conversazioni a tavola, Hitler paragona la sua politica di
sterminio degli “indigeni” dell’Europa orientale alla guerra
«mossa agli Indiani dell’America del Nord».
Pur di portata così ambiziosamente planetaria, il bilancio
dell’Occidente tracciato da Heidegger (o da Schmitt) non
fa cenno alla lunga catena di crimini commessi dal
colonialismo a carico dei popoli esclusi dalla storicità
occidentale, compresi quegli ottentotti sui quali con tanto
disprezzo si esprime l’Introduzione alla metafisica. E
tale atteggiamento è da porre in relazione non solo con le
opzioni politiche del suo autore, ma anche con una
filosofia tutta pervasa dal pathos dell’irriducibile peculiarità occidentale, la quale esclude da sé la banale, se non
barbarica Allerweltsmenscheit dei popoli altri dall’Occidente e dalla Germania. E’ un pathos, peraltro, da cui non
riesce realmente a liberarsi neppure Husserl, che parla
degli indios con il medesimo sovrano disprezzo con cui
Heidegger parla degli ottentotti e dei negri. E’ un pathos
che continua a pesare in modo infausto ancora sulla storia
e sulle vicende belliche dei giorni nostri. In questo senso,
l’ideologia della guerra dell’Intesa, oggi più che mai
vitale, va denunciata non in quanto universalistica, come
fa Schmitt (e Heidegger) ma, al contrario, per il fatto che
riduce l’universale a particolare (l’Occidente, e per di più
l’Occidente in sua determinata configurazione politicostatuale). Non è un caso che, nel corso della prima guerra
RESOCONTO
PROFILO
mondiale, gli ideologi più esagitati dell’Intesa bollano i
tedeschi in quanto “unni” o “vandali” o “goti”.
Esposito prende anche posizione, in modo sobrio, a
favore della democrazia. Ma è possibile separare la
genesi e lo sviluppo di questa forma politica dalla proclamazione dei diritti dell’uomo in quanto tale, inteso cioè
nella sua universalità?. Tali diritti sono peraltro chiamati
a diventare concreti, e non solo nei rapporti sociali e
materiali esistenti all’interno di ogni singolo Stato, ma
anche a livello internazionale, nei rapporti tra nazioni
piccole e grandi, ovvero tra Stati deboli e Stati superpotenti e superarmati. E’ in tale chiave che io leggo la
tradizione che da Marx conduce alla rivoluzione d’Ottobre la quale ultima - qualunque sia il giudizio sul “socialismo reale” - nel chiamare alla lotta e alla rivolta quelli
che definisce gli “schiavi delle colonie”, nel rivendicare
la pari dignità di ottentotti, papuani ecc., e nell’imprimere
un poderoso impulso al processo di decolonizzazione, ha
il merito di aver costituito uno dei momenti più alti di
autocritica dell’Occidente e di aver fornito un contributo
importante alla costruzione del concetto universale di
uomo.
Quella che parte da Marx è una tradizione organicista?
Non era questa l’opinione di Thomas Mann, da cui ho
ripreso la distinzione/contrapposizione (formulata nel
1928) tra Gemeinschaft , forgiata dalla guerra e innalzata
a oggetto di culto e Gesellschaft , marxisticamente intesa
in senso profano. Naturalmente, si tratta di un’opinione
nient’affatto vincolante, ma diamo uno sguardo alla
storia culturale dell’Europa in qualche modo tenuta presente dal grande scrittore. Man mano che si sviluppano le
contraddizioni che poi conducono allo scoppio della
prima guerra mondiale, a sottolineare la necessità di una
corale comunità d’intenti non sono solo i nazionalisti. Per
quanto riguarda l’Italia, ai tempi della guerra libica,
Croce accusa i socialisti e i marxisti di aver distrutto la
“coscienza dell’unità sociale” e aver provocato la «generale decadenza del sentimento di disciplina sociale: gli
individui non si sentono più legati a un gran tutto,
sottomessi a questo, cooperanti in esso, attingenti il loro
valore dal lavoro che compiono nel tutto». Due anni
dopo, il filosofo liberale individua la realizzazione dell’agognato “gran tutto” nel “socialismo di Stato e di
Nazione”, in pratica nel socialismo di guerra e nell’organizzazione e militarizzazione totale della classe operaia e
della popolazione. Sono gli anni in cui, secondo l’osservazione dello storico G. L. Mosse, la guerra e la mobilitazione totale vengono celebrate «come strumento per
abolire la struttura di classe». Né si tratta solo di teorie. A
partire dallo scoppio del conflitto, l’irreggimentazione
della società raggiunge un livello senza precedenti. Sono
lì a dimostrarlo i tribunali militari, i plotoni d’esecuzione,
la prtaica delle decimazioni: allo Stato - osserva Weber
nel 1917 - «viene oggi attribuita a una forza “legittima”
sulla vita, la morte e la libertà»; e ciò non vale solo per la
Germania, ma anche per i Paesi di più antiche tradizioni
liberali. In questo momento, a dar prova di olismo e di
organicismo non sono solo i nazionalisti dichiarati, ma
anche i liberali, tutti accomunati dalla persuasione della
necessità del sacrificio di milioni e milioni di individui
sull’altare della salvezza dello Stato o della patria. A
rifiutare tale gigantesco rito sacrificale e a contestare il
potere di vita e di morte dello Stato è invece il movimento
rivoluzionario richiamantesi a Marx e sfociato nella
rivoluzione d’Ottobre. Anche a voler fare astrazione
dallo svolgimento storico reale, non mi sembra che possa
essere considerata organicista la visione marxiana di una
società senza classi, nell’ambito della quale assieme allo
Stato si è estinta anche la politica e ogni individuo può
svilupparsi senza costrizione alcuna. Si tratta naturalmente di analizzare la concreta efficacia politica dispiegata da questa utopia dell’estinzione dello Stato (che a me
sembra la parte più caduca del discorso di Marx), ma
allora siamo ricondotti sul terreno sella storia reale del
nostro tempo, che non può certo essere ridotta allo
scontro tra ideologie organiciste e anti-organiciste.
Mi accorgo che siamo giustamente andati ben al di là del
volume qui discusso. Il quale peraltro ha cercato di
tracciare un bilancio più equilibrato della storia del
Novecento collocando la barbarie unica del Terzo Reich
in un contesto storico più vasto che, a partire dal 1914,
vede diffondersi in tutta Europa e anche negli USA
ideologie della guerra diverse e contrastanti, ma tutte
torbide ed inquietanti, in un contesto storico che successivamente, a partire dal 1917, vede tutto l’ “Occidente” (e
persino personalità insospettabili come Churchill e Henry
Ford) impegnato nella denuncia del complotto “ebraicobolscevico” e in preda a virulente manifestazioni di
antigiudaismo e antisemitismo. E dunque, non solo la
vicenda di Heidegger va collocata nell’ambito della
vicenda novecentesca della Germania, ma quest’ultima,
pur col suo orrore unico, non può essere staccata, a sua
volta, dalla storia complessiva della Seconda Guerra dei
Trent’anni, la quale ultima chiama in causa pesantemente
anche gli Stati liberali. A confutazione di certi stereotipi
nazionali ancora oggi duri a morire, basti dire che la
tradizione conservatrice e reazionaria tedesca risulta profondamente debitrice - e lo dichiara esplicitamente - nei
confronti del whig inglese Edmund Burke. Ma è un tema
qui appena accennato, anche perchè al suo approfondimento è dedicato un mio lavoro ulteriore.
AUTORI E IDEE
AUTORI E IDEE
Lacan e la filosofia
Lacan avec les philosophes (Albin
Michel, Parigi 1991) è il volume che
raccoglie gli atti del convegno organizzato a Parigi nel maggio del 1990
dal Collège international de philosophie con gli interventi di molti tra i
protagonisti dell’attuale pensiero filosofico francese, e con l’intento dichiarato di operare una “riappropriazione” del lavoro di Lacan da parte della
filosofia.
Per almeno 15 anni - dal 1966, anno di
pubblicazione degli Ecrits, sino al 1981,
anno della morte - Jacques Lacan è stato
probabilmente il maggior interlocutore del
pensiero filosofico in Francia. Istituzionalmente estraneo alla filosofia e al
mondo accademico, Lacan aveva peraltro
assunto una posizione centrale nel dibattito
e nella ricerca di quegli anni. I pensatori più
diversi - Foucault, Deleuze, Derrida,
Lyotard - si trovarono a definire il proprio
lavoro in rapporto a quello di Lacan, costretti ad adottarne concetti e terminologia.
A quasi dieci anni dalla sua morte il convegno organizzato dal Collège international
de philosophie ha inteso fare il punto su tale
lavoro e attuare, secondo le parole di uno
degli organizzatori, Patrick Guyomard, «la
reinscrizione effettiva di Lacan nel campo
della filosofia».
Apre il volume un notevole intervento di
Philippe Lacoue-Labarthe sulle origini
dell’etica nel pensiero di Lacan. Per Lacan
la filosofia si instaura su di una liquidazione della tragedia, del tragico come dimensione dell’irrimediabile, dell’invalicabile;
l’etica del Bene che ne deriva, da Platone al
cristianesimo, comporta una negazione del
rapporto indissolubile tra due termini inconciliabili, il bene e il male, con la conseguente posizione edificante della tradizione filosofica, caratterizzata da una sostanziale assenza di rapporto tra etica ed estetica. Per Lacoue-Labarthe l’etica tragica propugnata da Lacan, in particolare nella sua
lettura dell’Antigone e in rapporto a Hegel,
è essenzialmente un’etica del paradosso,
dove due termini tra loro inconciliabili non
possono sussistere l’uno indipendentemente
dall’altro. In tal senso ogni etica è solo la
“formazione sublimata” di un’estetica. Ma
l’estetica per Lacan è soprattutto questione
di simbolico, di logica del significante. E’
questo il tema affrontato al convegno da
una filosofa russa, Natalia Avtonomova,
attraverso un confronto con l’opera di Kant.
Entrambi procederebbero secondo una
“strategia trascendentale”: l’oggetto, una
volta privato di tutte le sue proprietà empiriche e contingenti, e in modo sistematico,
prima di cessare d’essere anche solo pensabile, rivela nondimeno una proprietà ineliminabile, per Kant la “cosa in sé”, per
Lacan la pura distinzione significante. La
differenza è che Lacan, sulla scorta di
Freud, si è occupato di ciò che Kant ha
ignorato (lapsus, sogni, ecc.), formulando
una tripartizione (reale, simbolico, immaginario) omologa a quella di Kant (logica,
estetica, etica), che aspira però a un maggior grado di generalità.
Alain Badiou, autore che ha fatto molto
parlare di sé in questi ultimi anni in Francia
proprio per l’inserzione di temi lacaniani
nel suo lavoro filosofico, ci propone un
esame del rapporto tra l’opera di Platone e
quella di Lacan riguardo al ruolo delle
matematiche nel campo del sapere filosofico. Secondo Badiou da Nietzsche in poi
la filosofia occidentale è essenzialmente
tesa a liberarsi della “malattia platonica”,
dando luogo alla rimozione di ogni dottrina della verità a favore di una dottrina della
conoscenza strettamente ermeneutica, artistica, poetica. Lacan rappresenterebbe appunto un’inversione di tendenza rispetto a
questa linea per la centralità che egli assegna alla questione del “matema”. JeanLuc Nancy si è assunto invece il compito
di un’analisi del rapporto, poco noto in
Italia, tra Lacan e Heidegger. Nancy, contrariamente a una tendenza prevalente in
Francia, differenzia fortemente Heidegger
da Lacan, proprio riguardo al concetto di
verità. In Lacan la verità come mancanza è
mancanza di nulla: l’oggetto non manca di
alcuna proprietà, ma semplicemente “manca al suo posto”, viene pensato là dove non
è. Il “ritrarsi” heideggeriano, l’essere che
non è l’essere dell’ente, è invece manifestazione della finitezza dell’essere. Una
mancanza simbolica si contrappone dunque in questo caso a una mancanza reale. In
questo la posizione di Lacan si sottrae a
ogni ipotesi di esistenzialismo.
Il rapporto di Lacan con Alexandre Kojève
e la tradizione hegeliana francese è al centro delle analisi di Mikkel BorchJacobsen, mentre Jean-Claude Milner,
in un intervento molto penetrante, si è
occupato del rapporto tra Lacan e il sapere
propriamente scientifico. L’ultimo intervento, quello di Jacques Derrida, ha avuto qualcosa di sorprendente. Derrida è infatti considerato l’alter ego teorico di
Lacan, il suo grande confutatore. Si può
enucleare la controversia ormai storica tra
Derrida e Lacan rispettivamente nelle tematiche contrapposte della “disseminazione” e della “legge” in quanto legge del
linguaggio; la disseminazione, concetto
vitalistico di derivazione fenomenologica,
si sottrae a ogni effetto di “castrazione”
imposto dal linguaggio, mentre la “legge”
di Lacan è un a-priori, per cui ciascun
parlante non può decidere completamente
il senso di ciò che dice. Ora, nel suo intervento al convegno, Derrida ha abbandonato il concetto di disseminazione e, rimangiandosi buona parte delle sue critiche
classiche a Lacan, ha addirittura presentato il loro rapporto di interlocuzione come
l’asse portante degli sviluppi teorici della
filosofia francese degli ultimi anni. F.E.
Del simbolo, dell’uomo
E’ stato presentato a Milano l’ultimo
libro di Carlo Sini, Dal simbolo all’uomo (EGEA, MIlano 1991). Tappa
significativa di un’elaborazione teoretica dedicata allo smascheramento
della logica antropocentrica della
scienza, questo testo è anche una difesa dei “diritti del simbolo” sia contro il suo allontanamento nella sfera
dell’immaginario, sia contro la sua
annessione al campo d’indagine delle
scienze.
Presentando il testo, Rocco Ronchi ha
individuato la “domanda fondamentale”
che sta alla base dell’opera di Carlo Sini
nella questione se si dia, e come, un “al di
là” del pensiero. Vi sono teorie che relegano il simbolo nell’ambito della figurazione
e che, partendo dal punto di vista del concetto, non fanno che interrogarsi sul con-
AUTORI E IDEE
cetto senza pervenire alla verità originaria
del concetto stesso. Nel corso della storia
della riflessione filosofica la verità del simbolo viene progressivamente oscurata dallo sguardo dell’intelletto, per riemergere
come risultato di corto-circuiti teoretici. In
René Alleau, osserva Sini, è evidente la
scissione fra “simbolo” e “realtà”, dati come precostituiti l’uno di fronte all’altro, e
la conseguente assegnazione dell’elemento simbolico alla dimensione dell’immaginario, o dell’onirico. La concezione di
Alleau rende impraticabile l’idea di costituire una “simbolica”, ovvero una scienza
del simbolo, che rimane sospesa fra l’alternativa di adeguare la propria logica d’indagine all’”oggetto” studiato, pervenendo così
non a una scienza del simbolo, ma al simbolismo, o di riproporre, contro i propri
stessi buoni propositi, strumenti di indagine concettuali, riducendo così la simbolica
a semiotica.
Ernst Cassirer ribadisce come la dimensione più originale del linguaggio non risieda nella significatività logico-scientifica,
ma piuttosto in quella simbolico-mitica,
ove vige identità fra il nome e l’essenza
della cosa. Ma pur riconoscendo la specificità dell’esperienza simbolica dell’uomo
“primitivo”, Cassirer non tien fermo all’affermazione della sua autonomia e cede alla
tentazione di considerare questa esperienza dal punto di vista superiore dell’esperienza “oggettiva” dei moderni.
Friedrich Creuzer, il padre del progetto di
una “simbolica generale”, coglie il carattere endeictico, cioè mostrativo, creativo del
simbolo. Il symbolon è, originariamente,
quell’intero che, spezzato in due, consente
il mutuo riconoscimento dell’unità ai possessori di ciascun pezzo; il “simbolo” non
è dunque segno di una realtà data, sensibile
o ideale che sia, non è una funzione, ma un
evento. Eppure lo stesso Creuzer perde
questo punto di vista, quando sovrappone
una filosofia romantica e neoplatonizzante
alle proprie acquisizioni di filologo. Dall’insieme di queste posizioni, osserva Sini,
si può rilevare come l’idea di “definire” il
simbolo, sottesa a ogni “scienza del simbolo”, muova dal presupposto che esiste un
ambito concettuale che non è simbolico e
che, pure, sul simbolico ha diritto di parola
e di giudizio. Il problema, secondo Sini,
consiste nel determinare “a partire da che”
il concetto definisce il “simbolo” come
“funzione simbolica”; vale a dire determinare quale sia la dimensione propria dell’operazione concettuale. Questa dimensione
è quella pragmatica e riguarda il luogo in
cui i soggetti sorgono in quanto comunicanti, essendo il gesto vocale autoggettivante. Tenendo fermo all’universalità oggettiva nel concetto, l’atto linguistico «si
divincola dal grafema corporeo per sollevarsi a puro etere», respingendo nel privato
e nell’insignificante ciò che non è riducibile a concetto. Così definita, la funzione
pragmatica, intersoggettiva e universalizzante del linguaggio si presenta dunque
come il fine della dimensione pubblica
dell’atto linguistico.
Un certo tipo di lettura di Nietzsche e di
Heidegger ha condotto, osserva Sini, alla
“crisi del concetto”, delle ideologie, della
ragione, dell’Occidente e, alla fine, al salto
nell’”Altro”. Da qui il proliferare delle
ricerche sul simbolo, sulla metafora, sulla
conoscenza estetica e così via. A parere di
Sini occorre invece chiedersi, “platonicamente”, cosa sia il simbolo. Quando si dice
“questo è un simbolo”, “questo è un concetto”, in questo momento, nell’atto di compiere questo gesto, ci si muove su un terreno che è precedente alla decisione stessa su
cosa sia “simbolo” e cosa sia “concetto”. E’
un terreno etico, nel senso etimologico del
termine, e indica il radicarsi del soggetto in
una dimensione ontologica che lo precede,
l’ethos. L’impostazione delle “scienze umane”, ma anche quella dell’”uomo comune”, fa proprio il contrario, e cerca di parlare del simbolo a partire dall’uomo.
L’enunciato, che vuole poi essere una definizione, “l’uomo è un animale simbolico”,
dice che c’è un’entità, l’uomo, che si presume di conoscere, che appartiene al genere
“animale” e che si differenzia dagli altri
membri di questo gruppo per il suo caratterizzarsi come “produttore di simboli”. In
questa prospettiva le sole questioni plausibili sono, per esempio, quella sul “come” e
sul “quando” sia nata e si sia evoluta questa
“facoltà simbolica”: questioni da antropologi, da psicologi o da sociologi, appunto.
Il filosofo si deve invece chiedere - e non
soltanto presupporre - cosa sia uomo, cosa
sia simbolo. Per fare ciò deve vedere come
l’ente uomo “abbia luogo”, in senso letterale, fra gli altri enti, a partire dalla relazione che costituisce l’uno e gli altri enti come
tali in un “mondo”. F.C.
Un manifesto dell’edonismo
A dispetto di una casuale quasi omonimia, l’ultimo libro di Michel Onfray
s’intitola: L’Art de jouir, (L’arte di
godere, Grasset, Parigi 1991), proprio
come suonava il titolo di una delle
opere più note del medico-filosofo
Julien Offray de La Mettrie. Il libro
costituisce una nuova tappa del lavoro di ricostruzione antropologica
dell’homo philosophicus, che da qualche anno Onfray va compiendo. Recente è la traduzione italiana di una
sua opera significativa in tal senso: Il
ventre dei filosofi (Rizzoli, Milano 1991).
Dall’esperienza e dai postumi di un esaurimento organico La Mettrie aveva dedotto
la materialità della psiche e del pensiero,
tesi che aveva suscitato scandalo e ostilità,
tali da costringerlo a fuggirsene dalla Francia. L’idea che il pensiero possa essere
prodotto dal corpo fisico urta ancor oggi
tanto la coscienza religiosa, quanto quella
filosofica. Se ancora per i presocratici -
afferma Michel Onfray - «l’esercizio mentale si fa in opposizione ad una energia di
cui il corpo è portatore», da Platone in poi
si afferma il dualismo tra mente e corpo e la
relativa squalifica di quest’ultimo. Al filosofo, disincarnato dai suoi umani appetiti,
spetta soltanto la contemplazione del cielo
delle idee. «Né carne, né muscoli, né pelle,
né sesso, l’angelo è la forma assunta dalla
mente», da cui la condanna non soltanto del
corpo, ma delle sue stesse facoltà. Ai “sensi
interni” del gusto e dell’odorato viene negata qualsiasi vera potenzialità conoscitiva; essi sono gerarchizzati in un ordine che
vede prevalere la facoltà della vista, più
spirituale e asettica. Così Kant disprezza il
naso, ricettore dei più vili effluvi, che per
suo tramite pervengono a disturbare la coscienza. Tuttavia, osserva del resto Onfray,
se «il corpo è il grande assente della tradizione filosofica in generale», nondimeno i
filosofi, in quanto creature terrestri, sono
anch’essi fatti «di carne, di pelle, di sangue
e di desiderio», con un corpo dunque che,
negato, riafferma la sua esistenza attraverso i sintomi e le affezioni. E’ tra i più
convinti denigratori della corporalità che
Onfray va a cercare i segni somatici dei più
evidenti conflitti intellettuali: nella conversione di Agostino, nell’esperienza mistica di Pascal, egli rintraccia i passaggi
cruciali verso una nuova salute, dove alla
carne viene ingiunto di risolvere il conflitto
dello spirito.
E’ una prospettiva da “fisiologia del filosofico”, quella che l’autore riprende dal radicalismo nicciano, nella sua intenzione di
rovesciare il platonismo, e che trova un
altro maestro in Gilles Deleuze, fautore di
una «rematerializzazione e rinascita del
corpo», unità ripristinata di spirito e materia, dove «pensare è ciò che può apprendere
un corpo non pensante, la sua capacità, le
sue attitudini o posture». L’araldica di una
tradizione filosofica più sensibile ai temi
del corpo è tracciata da Onfray lungo una
linea che parte dal materialismo di
Democrito, attraversa un certo settarismo
gnostico (i barbelognostici) e il pensiero
libertino, e arriva a Nietzsche, la cui critica
allo spirito ascetico è preliminare ad una
morale post-metafisica e post-cristiana, ancora da inventare. Su questa linea il libro di
Onfray dà in effetti ragione del suo sottotitolo: «per un materialismo edonistico».
E.N.
L’integrità della ragione umana
Dopo la pubblicazione di The critical theory of Jürgen Habermas
(1978), Thomas McCarthy é stato riconosciuto come il principale commentatore e interprete del lavoro di
Habermas nel mondo anglo-sassone.
Sebbene McCarthy abbia nell’insieme
della sua produzione teorica sviluppato una posizione indipendente dagli
esiti della teoria sociale habermasia-
AUTORI E IDEE
na, egli viene tuttavia ancora per la
maggior parte considerato il fedele
“lettore” americano di Habermas. La
pubblicazione del suo ultimo saggio:
Ideals and illusions: on reconstruction and deconstruction
in contemporary critical theory
(Ideali e illusioni: ricostruzione e decostruzione nella teoria critica contemporanea, MIT Press, Cambridge 1991),
conferma tuttavia la posizione critica
di McCarthy nei confronti della complessa e voluminosa teoria di
Habermas, dando diversa voce, nel
contesto, a pensatori come Derrida,
Foucault e Rorty.
Thomas McCarthy condivide pienamente l’opinione di coloro che vedono oggi in
pericolo il destino della legalità della teoria
sociale e politica, che ci proviene da Kant
e dall’Illuminismo, e di conseguenza in
pericolo l’integrità stessa della ragione umana. Tuttavia la sua ricezione della critica
della ragione universalista esposta da
Foucault è meno allarmista rispetto a quella di Habermas. Inoltre McCarthy critica
anche il tentativo attuato da Habermas per
salvare l’eredità dell’Illuminismo, salvando qualcosa della forza della trascendentalità kantiana, al fine di dedurre l’etica e
l’universalismo cognitivo senza far riferimento ad altro che alle caratteristiche innate nella struttura della comunicazione umana. Cosí, per esempio, gli strenui sforzi di
Habermas per mostrare la possibilità di
raggiungere il consenso razionale riguardo
alla politica sociale all’interno di “un’ideale situazione di discorso”, dove niente conta se non il riconoscimento della razionalità
degli argomenti individuali, non sono, come suppone Habermas, condizione necessaria per il conseguimento di una libertà
ottimale. La minimalizzazione della repressione, aggiunge McCarthy, non é il
risultato di un qualche consenso irraggiungibile su ciò che é giusto universalmente,
ma di un generale consenso sociale circa la
legittimità delle differenze nelle opinioni e
il conseguente accordo sulla desiderabilità
razionale effettiva delle forme istituzionali, attraverso le quali può essere raggiunto
il compromesso.
La tendenza di McCarthy a pragmatizzare
il significato degli argomenti di Habermas,
con lo scopo di salvare le sue conclusioni,
emerge anche in un suo precedente libro:
Democracy and complexity, (Democrazia
e complessità, 1989) dove McCarthy sembra criticare ciò che egli considera una
predilezione sfortunata di Habermas per i
sistemi teorici, che lascia intravedere una
certa sua disposizione alla sistematizzazione in quanto tale. Ideals and illusions,
ponendosi in linea con questa impostazione, raccoglie otto saggi recenti di McCarthy.
I primi quattro, riuniti sotto il titolo di
“Deconstruction and critical theory”, si occupano rispettivamente di Rorty, Foucault,
Derrida e Heidegger, evidenziando la loro
comune tensione verso una prospettiva di
neo-Illuminismo, che McCarthy condivide. La seconda sezione, “Reconstruction
and critical theory”, include tre analisi critiche di McCarthy sul pensiero di Habermas
e un interessante studio sugli aspetti religiosi del problema del trascendente in relazione a Kant, alla scuola di Francoforte e al
teologo politico contemporaneo Helmut
Peukert. V.R.
Breve storia dell’apparenza
Si situano in un territorio intermedio
tra teoria della conoscenza ed estetica
le riflessioni sviluppate da Norbert Bolz
in Eine kurze Geschichte des
Scheins (Una breve storia dell’apparenza, W. Fink Verlag, München 1991).
Di fronte ai mutamenti introdotti dai
moderni media, e in particolare dalle
tecnologie computerizzate, nella nostra percezione della realtà, Bolz ripropone la questione, antica come la
filosofia, del rapporto tra essenza e
apparenza.
Le riflessioni di Norbert Bolz si situano
nell’orizzonte di una crisi del concetto di
realtà e di una corrispondente confusione
dei confini tra essere e apparire, realtà e
immaginario, che dal suo punto di vista è
determinata dalla presenza massiccia nel
nostro mondo della vita dei nuovi media
elettronici e delle tecnologie computerizzate, attraverso le quali si possono ottenere
sofisticati effetti di simulazione della realtà. Partendo dalla constatazione che «oggi
le tecnologie della simulazione mettono in
questione la tradizionale differenza tra reale e immaginario», Bolz mira ad una «rideterminazione filosofica del rapporto fra
essere e apparenza». Nelle correnti filosofiche moderne il problema del rapporto tra
essenza e apparenza diventa di competenza
della teoria della conoscenza e dell’estetica, perdendo progressivamente le sue valenze ontologiche. Secondo Bolz, l’estetica non è più nell’epoca attuale una “teoria
delle (belle) arti”, ma si suddivide in una
“teoria della aisthesis” (come teoria dei
media), e in una “tecnologia della produzione digitale di immagini” (grafica computerizzata).
Bolz intende circoscrivere con le proprie
riflessioni il concetto e l’ambito di una
“estetica dei media” come “nuova scienza
guida”. I riferimenti filosofici, antropologici e sociologici che Bolz richiama, sono
disparati, e vanno da Nietzsche a Benjamin,
da Carl Schmitt a Gehlen, da Hobbes a
Hegel, da Heidegger a Adorno, da Gunter
Anders a Baudrillard, fino ad una serie di
studi socio-psicologici sui nuovi media e
sul concetto di simulazione.
In Nietzsche da un lato la razionalità intende dissolvere, attraverso gli strumenti del
pensiero critico, le immagini della tradizione, dei miti e delle religioni (tendenza iconoclasta dell’Aufklärung); dall’altro que-
sta stessa critica non può fare a meno di
creare nuove immagini e nuove mitologie
(tendenza mitopoietica dell’Aufklärung).
Ciò comporta un mutamento dell’ottica del
filosofare: il “filosofare col martello”, che
è al tempo stesso il risultato e il punto di
partenza della “trasvalutazione dei valori”
e del “crepuscolo degli idoli”, scopre nella
capacità di produrre metafore e immagini
una dimensione originaria dell’esistenza
umana, la dimensione estetica, conducendo ad una giustificazione dell’esistenza in
quanto progetto creativo.
Facendo riferimento ad autori che si collocano su versanti ideologici e culturali diversi - come ad esempio Gehlen e Benjamin
- Bolz delinea ora i contorni di una antropologia filosofica “materialistica”, secondo
cui la caratteristica fondamentale dell’essere umano è il suo bisogno di immagini,
insieme alla sua capacità di produrne. Ma
come valutare il profluvio di immagini
tipico delle società moderne, nelle quali
l’immaginario umano si nutre alla fonte dei
media? A questo proposito Bolz mette a
confronto due posizioni opposte: quella di
Heidegger, da lui definita “auratica”, che
vede nella possibilità di riprodurre tecnicamente le immagini un’espressione dell’oblio dell’essere nell’”epoca dell’immagine
del mondo”; e quella di Benjamin, che con
il suo “materialismo antropologico del film”
tenta di conferire un “indice rivoluzionario” al profluvio di immagini tipico dell’epoca della riproducibilità tecnica delle opere d’arte. In questo l’attenzione di Bolz
cade in particolare sulla distinzione benjaminiana tra “prima” e “seconda” tecnica
(che riecheggia la dialettica marxiana di
“prima” e “seconda” natura): dove dal lato
della “prima” tecnica stanno consumo e
sacrificio dell’individuo, dominio della natura, estraniazione e rimozione delle domande ultime; mentre a favore della “seconda” troviamo il suo carattere sperimentale e creativo e la sua capacità di mantenere un atteggiamento ludico e non violento
nei confronti della natura.
Nel suo studio Bolz ripercorre alcuni momenti della discussione filosofica e teologico-politica sul rapporto realtà/apparenza
e sul concetto di immagine: dalla tragedia
greca, che mostra, come ebbe a dire
Heidegger, «la necessità dell’essere nell’apparenza», a Parmenide e Platone, che
fanno valere la forza del pensiero contro la
minaccia insita nell’aprirsi della differenza
tra realtà e apparenza, fino al monoteismo
ebraico e alle sue propaggini moderne nella
Religion der Vernunft (Religione della ragione) di Hermann Cohen. Comune al pensiero parmenideo e a quello ebraico è la
negazione del valore delle apparenze a
favore dell’essere o di un “mondo vero”, di
cui il mondo apparente non sarebbe che una
manifestazione imperfetta. E tuttavia, afferma Bolz, «in questo rinnegamento parmenideo ed ebraico-monoteistico della realtà, l’apparenza viene pur sempre riconosciuta nella sua potenza storica; sarà solo il
discorso cristiano-platonico a ridurla a me-
AUTORI E IDEE
ra apparenza». Diversamente vanno le cose
in Nietzsche, che nega il valore di un mondo “in sé”, “vero”, al di là del mondo
apparente, individuando in esso nient’altro
che una “favola” metafisica, e nella fenomenologia ermeneutica di Heidegger, per
il quale “fenomeno” è “ciò che si mostra”:
solo sulla base del mostrarsi, l’essente può
anche presentarsi come ciò che non è, dunque come illusione, “apparenza”. La questione fondamentale non è più quella del
rapporto tra essere e apparire, ma tra fenomeno, come mostrarsi dell’ente così come
esso è, e nascondimento. M.M.
Isaiah Berlin:
il conflitto inevitabile
Non esiste alcun dubbio sull’importante e originale contributo fornito da
Isaiah Berlin con la sua analisi della
storia delle idee. I suoi saggi, riuniti e
pubblicati in cinque volumi dal suo
editore ed esecutore letterario, Henry
Hardy del Wolfson College di Oxford,
sviluppano un’interpretazione nuova
e profonda del moderno pensiero europeo. Proprio al fine di sottolineare
l’importanza dell’opera di Berlin nel
quadro della moderna cultura occidentale e del movimento delle idee nel
mondo, é stato recentemente pubblicato un saggio che vuole essere, come
viene dichiarato nel titolo, una celebrazione della figura di questo pensatore: Isaiah Berlin: a celebration (Isaiah Berlin: una celebrazione,
a cura di Edna e Avishai Margalit,
Hogarth, London 1991).
Nell’analisi della storia delle idee che Isaiah
Berlin ci propone colpisce innanzitutto la
grande capacità di penetrare nel pensiero di
pensatori nient’affatto vicini alla sua visione del mondo. Il suo contributo alla filosofia politica e morale inizia con i suoi scritti
sulla libertà, che sovvertono le prevalenti
regole ortodosse, sollevando dubbi sulla
vera origine della tradizione occidentale.
Pur ammettendo che i valori ultimi sono
oggettivi e conoscibili, Berlin afferma che
essi sono molteplici e differenti e proprio a
causa di questa differenziazione e molteplicità entrano in conflitto gli uni con gli
altri. I valori inoltre sono tra loro incommensurabili e le scelte che noi operiamo su
di loro, sono scelte intrinsecamente tragiche e radicali. Per Berlin non esiste nessun
bene sommo, nessuna forma perfetta di
vita umana che si possa aspirare a raggiungere e che non potrà mai essere raggiunta,
né esiste un metro di misura comune, con
cui valutare differenti forme di vita umana,
implicanti beni differenti e inconciliabili.
Questa affermazione della varietà e incommensurabilità dei valori della vita umana
vuole corrisponde alla tesi secondo cui
l’idea di perfezione è in sé stessa incoerente. I conflitti tra i valori non sono per Berlin
provocati dalla contingenza, ma dalla natura dei valori stessi. L’incommensurabilità
di cui parla Berlin è dunque una incommensurabilità costitutiva. Questa caratteristica radicale di pluralismo oggettivo del
pensiero di Berlin è stata facilmente fraintesa e accusata di relativismo. Al contrario
Berlin ha sempre sottolineato che sebbene
i valori si realizzino in differenti modalità
di vita, dipendenti da forme culturali diverse, i valori ultimi sono oggettivi e universali, come lo sono i conflitti tra di essi.
Il pluralismo di Berlin è espressione di un
certo tipo di realismo dei valori, non di
scetticismo o di relativismo, come egli stesso sottolinea in una recente raccolta di
saggi, The crooked timber of humanity:
chapters in the history of ideas (Il carattere
tortuoso dell'umanità: capitoli di storia di
idee,1990). La sua tesi dell’incommensurabilità dei valori possiede in effetti un
significato universale e la sua interpretazione non differenzia la cultura tradizionale europea del razionalismo e del monismo
dalla altre culture del mondo. Le implicazioni di questa tesi nel campo della filosofia politica minano alla base il pensiero
liberale, proponendo invece un liberalismo
agnostico. Per Berlin, cosí come entrano in
conflitto i valori, anche le diverse concezioni di libertà sono incommensurabili e in
opposizione tra loro. In tal senso il progetto
legalista o costituzionalista che trova chiara espressione nel lavoro di Rawls, quale
tentativo di specificare un insieme unico di
diritti o di libertà-base in connessione armonica tra di loro, è per Berlin pura illusione. In Two concepts of liberty (Due concetti
di libertà, 1959) Berlin tenta appunto di
applicare il pluralismo dei valori all’ideale
della libertà stessa. Nel fondare il valore
della libertà sull’incommensurabilità,
Berlin mette in discussione il liberalismo
dottrinale e fondamentalista, cioè il liberalismo di Nozick, Hayek, Rawls e di
Ackerman, che sembrano supporre che l’incommensurabilità della vita morale e politica, e quella della libertà stessa, possano
essere rimosse con l’applicazione di una
teoria che pare possedere il carattere di una
formula talismanica.
Berlin é filosofo della storia tanto quanto
della libertà. Il suo rifiuto della inevitabilità storica è coerente con il suo rifiuto generale del determinismo umano. Nel riaffermare il pensiero di Vico e di Herder egli
cerca infatti di rendere plausibile l’idea
secondo cui nella storia esiste una modalità
di comprensione, che è irriducibile a quella
delle scienze naturali. A questo proposito è
da sottolineare la vicinanza tra il pensiero
di Berlin e quello di Hume. Entrambi infatti
mostrano una propensione per la contingenza della storia, entrambi sono uomini
profondamente civili, difensori dei valori
che hanno animato l’Illuminismo: le loro
concezioni sono alla base delle società moderne, nella cui difesa essi si sono fermamente impegnati. V.R.
Giustificazioni di Dio
La figura biblica di Giobbe ha offerto
spunti di riflessione a due opere, che
pur proveniendo da contesti intellettuali diversi, camminano entrambe sul
crinale tra filosofia e religione: si tratta
del volume di Lev Sestov, Sulla bilancia di Giobbe. Peregrinazioni
attraverso le anime (traduzione di
Alberto Pescetto , con un saggio
Czeslaw Milosz, Adelphi, Milano 1991)
e dello studio di Giovanni Moretto,
Giustificazione e interrogazione. Giobbe nella filosofia
(Guida, Napoli 1991).
Giobbe è il giusto che, provato da Satana
con il permesso di Dio, accetta il tormento
unicamente in forza della fede. Durante le
prove cui è sottoposto rifiuta le giustificazioni razionali che gli amici gli offrono, si
tiene ben saldo nella propria disperazione,
nella convinzione che il proprio stato è
assolutamente assurdo e non giustificabile
dal punto di vista della argomentazioni che
l’uomo può escogitare. Tentare di comprendere ciò che gli sta accadendo sarebbe
già un venir meno alla fede in Dio. C’è però
in questo atteggiamento riflessivo una sorta di ambivalenza: se indubbiamente “umano” è lo strumento razionale, lo è pure il
rifiuto di considerarlo come esaustivo rispetto alla totalità della condizione umana.
L’ambivalenza conduce qui a un paradosso: ancora più profondamente umana delle
giustificazioni razionali è la disperazione
di Giobbe, per cui chi sa essere uomo, chi
sa permanere nella disperazione, entra in
contatto con Dio.
Come filosofo, Lev Sestov rifiuta questo
esito “umanistico”, o anzi, “umanocentrico”. La sua polemica antiumanistica è infatti radicale, come Czeslaw Milosz evidenzia nel suo saggio d’introduzione, “Salvezza dalla disperazione”. Presi di mira da
Sestov sono gli inventori di teodicee, che
tentano di conciliare razionalmente l’esistenza di Dio con quella del male nel mondo, come coloro che dalla ribellione alla
necessità imposta da un ordine razionale
delle cose concludono a un’esaltazione quasi prometeica della libertà dell’uomo.
Ma la condanna di Sestov investe anche chi
alla Rivelazione ha sostituito una “filosofia
della Rivelazione”, e chi al riconoscimento
della disperazione e dell’assurdo, come
tratti distintivi della condizione umana, sostituisce una “filosofia della disperazione”
e una “filosofia dell’assurdo”. Ciò spiega
anzitutto perché, nonostante la figura di
Sestov sia stata rivendicata dall’esistenzialismo parigino degli anni Quaranta e Cinquanta, i punti di contatto fra il movimento
e il pensatore russo siano di fatto solo
superficiali. In secondo luogo spiega l’idem sentire, su cui si fonda forse l’amicizia
personale a dispetto delle divergenze teo-
AUTORI E IDEE
Georges de la Tour, Giobbe e la moglie (Epinal, Musée Départment des Vosges
AUTORI E IDEE
retiche, che accomuna Sestov a Husserl.
Certo, nell’aut-aut tra ragione e fede, tra
Atene e Gerusalemme, tra Platone e gli
stoici da una parte, Pascal, Dostoiewskij,
Nietzsche e Kierkegaard dall’altra, Sestov
aveva scelto la fede, Husserl la ragione; ma
simile era, si potrebbe dire, la risolutezza
con cui era stata fatta la scelta e la determinazione ad accettare le insolubilità e i vicoli
ciechi di fronte ai quali ci si sarebbe potuti
trovare. Il più evidente dei quali è il fatto
che Sestov, proprio come “filosofo”, resta
totalmente all’interno del paradosso relativo all’aspetto “umanistico” del proprio rifiuto dell’esaustività della ragione nei confronti del problema del male nel mondo,
cioè del problema della vita dell’uomo e
non solo del suo pensiero. Il filosofo Sestov
pare non avvedersi del fatto che ponendo il
problema dell’inadeguatezza della ragione
nei confronti delle esperienze che l’uomo
fà del divino e della propria stessa condizione, con ciò stesso tali esperienze si vengono a qualificare come tanto propriamente umane da diventare caratteristiche definitorie dell’uomo. Solo l’uomo di fatto è
colui che è messo alla prova da Dio, e deve
dare di ciò una giustificazione.
Proprio questo è invece il problema centrale messo a fuoco da Giovanni Moretto
nella raccolta di saggi dal titolo: Giustificazione e interrogazione. Moretto sostiene
che la struttura della teodicea, in quanto
forma di giustificazione, non é propria soltanto di una riflessione inserita nella prospettiva cristiana, ma appartiene anche «ad
un tempo post-cristiano, caratterizzato dalla morte del Dio biblico». L’origine della
teodicea è «universalmente filosofica e
quindi extra biblica». Fin qui anche Sestov
potrebbe essere d’accordo con la riconduzione della prospettiva della giustificazione a quella della speculazione razionale e
antropocentrica, che egli considera contraria alla fede. Ma Moretto insiste sul carattere antropologico della giustificazione, sul
fatto che la teodicea possiede “un’intima
convertibilità” in antropodicea. In questo
modo la vicenda di Giobbe «è il libro
classico della teodicea, proprio perché non
intende facilitarsi le cose, sopprimendo l’uno o l’altro dei protagonisti del dramma,
Dio e l’uomo. Il senso del dramma è che i
due protagonisti hanno bisogno l’uno dell’altro per definirsi».
Alla luce del problema della giustificazione Moretto legge anche il pensiero di Martin
Heidegger, in particolare il suo Satz vom
Grund, il “principio del fondamento”. Nel
passaggio dall’accezione leibniziana del
principium rationis a quella heideggeriana
della “tesi del fondamento” Moretto vede
una peculiare forma di conversione dell’antropodicea in teodicea, stante il presupposto del carattere religioso dell’Essere
heideggeriano. Tale conversione sarebbe
anzi interna alla storia della riflessione
heideggeriana, per via della “svolta” - la
cosiddetta Kehre - operata da Heidegger
rispetto a una figura del pensare che per
Moretto è «jobica, in quanto costruita attra-
verso la pretesa dell’uomo (Dasein) di “giustificare” l’essere...alla figura del pensiero
(Denken)».
Non si tratta, dunque, di rinunciare alla
giustificazione, né di rimuovere l’uomo
con un improbabile abbandono a Dio, ma
di analizzare la specificità dell’interrogazione radicale che ci proviene dalla cultura
greca e di quella che ci proviene dalla
Bibbia, la specificità della dimensione razionale e di quella della preghiera. Secondo Moretto le due vie, che sono consustanziali, possono e debbono intersecarsi, per
rispondere “al più classico” dei problemi
della filosofia, quello della giustificazione
del male. La filosofia, per incontrare la
verità della Bibbia, «deve soltanto iuxta
naturam suam universalizzare quelle verità, rendendole patrimonio di ogni uomo
che venga in questo mondo». La filosofia,
per raggiungere il suo scopo, l’universalizzazione della verità riguardo l’esperienza
umana, «non ha nemmeno bisogno di passare attraverso l’esperienza della teologia
cristiana». Se la grandezza di Giobbe è per
Sestov l’aver abbandonato la conoscenza a
favore della fede, per Moretto, che riprende
Agostino, la pazienza di Giobbe è una virtù
non solo etica ma «dianoetica dell’uomo
che contempla il mondo in una luce crepuscolare, nell’ora del giudizio e della verità
ultima». F.C.
Habermas: pensiero postmetafisico ed etica del discorso
Con gli studi raccolti in Erläuterungen zur Diskursethik (Chiarimenti
sull’etica del discorso, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1991) Jürgen Habermas
prosegue le ricerche presentate nell’opera del 1983 Moralbewusstsein
und kommunikatives Handeln (Coscienza morale e agire comunicativo),
nel tentativo di fondare, dal punto di
vista della teoria dell’agire comunicativo, la possibilità e la specificità del
discorso etico. Alcuni dei tratti che
differenziano la proposta teorica di
Habermas tanto dal relativismo postmoderno quanto da rinnovate tentazioni metafisiche sono ora accessibili
ai lettori italiani nella raccolta di saggi:
Il pensiero post-metafisico (a
cura di Marina Calloni, Laterza, RomaBari 1991).
In Erläuterungen zur Diskursethik Jürgen
Habermas tenta di superare, attraverso la
discussione di alcune questioni riguardanti
lo statuto gnoseologico del discorso etico,
il contrasto tra un astratto universalismo
morale ed una posizione relativistica, delineando così la possibilità di una discussione razionale anche se di una razionalità sui
generis) dei problemi etici. Nel volume
sono raccolti saggi già pubblicati in volumi
collettivi e interventi letti da Habermas in
occasione di incontri organizzati da uni-
versità statunitensi. Unica eccezione, l’ampio studio che dà il titolo al volume e che
deriva da appunti di ricerca degli anni 198790. Scorrendo il volume si ha l’impressione che questi testi, per struttura e modalità
di approccio ai problemi, rappresentino più
momenti di una riflessione in progress (o,
con le parole di Habermas, di un “processo
di apprendimento”) che non risultati definitivi della ricerca. Lo sfondo della discussione è qui dato dalle critiche mosse alle
concezioni universalistiche della morale
da pensatori come Aristotele, Hegel e dal
contestualismo contemporaneo. Questa
prospettiva non porta però Habermas a
negare, come fanno le correnti che si rifanno all’empirismo, la possibilità di una discussione e di una decisione razionale delle
questioni etiche, ma al contrario lo induce
a individuare la specificità del discorso
morale. Questo, che non è una forma di
conoscenza nel senso delle scienze esatte o
della “ragion pura” di Kant, ma si fonda
sulle intuizioni della vita quotidiana, si
presenta con il carattere di una razionalità
che gli è specifica, e che Kant aveva già
individuato quando distingueva tra uso “puro” e “pratico” della ragione.
Partendo da questo tentativo (condiviso,
sia pure con diverse accentuazioni, anche
da Karl-Otto Apel) di riprendere e riformulare la teoria morale kantiana avvalendosi degli strumenti della teoria dell’agire
comunicativo, Habermas discute in questo
volume una serie di problemi e obiezioni
mosse ai suoi studi precedenti. Tra i problemi fondamentali indichiamo qui: il significato dell’etica del discorso; il rapporto tra
i concetti dell’etica del discorso e le intuizioni morali che si trovano alla sua base; il
rapporto tra ragione pratica e teoretica, tra
fondazione teorica della norma e sua applicazione. Nel saggio che dà il titolo al volume, Erläuterungen zur Diskursethik, questi problemi vengono discussi con riferimento alle posizioni di autori che recentemente hanno posto le questioni etiche al
centro della propria riflessione: tra gli altri
J. Rawls, E. Tugendhat, K.-O. Apel, A.
MacIntyre.
L’orizzonte teorico generale di questi studi
più recenti di Habermas è delineato in
maniera sistematica soprattutto nella
Theorie des kommunikativen Handelns del
1981 (trad. it. Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna). Ora, con la recente traduzione italiana di Nachmetaphysisches Denken (Il pensiero post-metafisico), pubblicato originariamente nel
1988, vengono presentati al lettore italiano
alcuni saggi risalenti alla seconda metà
degli anni Ottanta, in cui Habermas prende
posizione da un lato contro gli esiti “disfattistici”, relativisti e post-moderni della critica kantiana delle pretese assolutistiche
della ragione, dall’altro «contro quei tentativi che mirano a ritornare a forme di pensiero metafisico»: pagine polemiche al riguardo sono dedicate in particolare alle
concezioni di Dieter Henrich. I saggi raccolti da Habermas in questo volume riper-
AUTORI E IDEE
corrono diversi temi e momenti della storia
della filosofia dall’antichità ai giorni nostri, giungendo a prendere in considerazione alcune questioni cruciali dell’attuale
filosofia analitica del linguaggio, della psicologia sociale e relative a quello che potremmo chiamare lo “statuto letterario”
della filosofia. A questo proposito si veda
l’ultimo saggio, “Filosofia e scienza come
letteratura”, che prende spunto da un’analisi di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino). L’intenzione comune
ai diversi studi è però quella di individuare
gli elementi di una concezione della razionalità che, pur volendosi “scettica” e consapevole dell’impossibilità di realizzare le
pretese metafisiche avanzate dalla filosofia
nel corso della sua storia, non rinunci a far
valere un’esigenza di validità universale.
Ciò porta Habermas a sostenere una concezione comunicativa e intersoggettiva della
ragione, che sembra avere il suo punto
d’appoggio nella sostituzione del primato
della coscienza con quello del linguaggio.
In questa prospettiva di concretizzazione
del concetto di razionalità e di superamento
dell’astrattezza dell’io trascendentale
kantiano, Habermas integra gli esiti delle
più recenti teorie pragmatistiche del significato e dell’azione con il concetto fenomenologico di “mondo della vita”, nel cui
orizzonte comunicativo si intrecciano dialetticamente le istanze dell’individuo, della cultura e della società.
Da questi studi di Habermas sul Pensiero
post-metafisico prende le mosse lo studio
di Elena Agazzi, Dopo Francoforte. Dopo
la metafisica (Liguori, Napoli 1990), che
mette a confronto le posizioni di Habermas
con quelle di Karl Otto Apel e Hans
Georg Gadamer, individuando rispettivamente nella “teoria dell’agire comunicativo”, nella “ritrascendentalizzazione del soggetto” e nell’”orizzonte della tradizione”
tre diverse proposte teoriche alternative al
“nichilismo” e ad una “rappresentazione
individuale della realtà, priva di sbocchi
emancipativi”. M.M.
Michael Dummett:
alla base della verità
L’influenza che Michael Dummett sta
esercitando sul pensiero contemporaneo, e non solo limitatamente al mondo anglo-americano, si è realizzata attraverso la pubblicazione di una dozzina di saggi, due libri sulla filosofia di
Gottlob Frege e un trattato di logica.
Attraverso di essi Dummett ci ha spinto a ripensare il problema del vero,
della logica, del significato e della loro
relazione con le più profonde questioni metafisiche. Il suo nuovo libro, The
logical basis of metaphysics (Le
basi logiche della metafisica,
Duckworth, London 1991) prende in
considerazione questi temi parallelamente, presentando per la prima volta
in forma sistematica un resoconto delle
sue idee. La pubblicazione di quest’opera rappresenta la principale affermazione delle idee che hanno provocato la maggior parte delle controversie fondamentali della filosofia analitica in quest’ultimo scorcio del ventesimo secolo.
Con quest’ultimo libro Michael Dummett
ci presenta l’odierna sistemazione del suo
pensiero, risultato di un lungo lavoro, iniziato nel 1976, di revisione e di sviluppo
delle sue primitive posizioni. Scopo di
Dummett é cercare qui di porre le basi per
una meaning-theory, che possa spiegare in
che cosa consista la conoscenza del linguaggio per un individuo parlante. Nel
proporre un modello generale per il linguaggio, una meaning-theory deve saper
determinare in particolare la corretta logica
del linguaggio, specificando il significato
delle costanti logiche, e fornendo l’insieme
delle leggi logiche che valgono per esso.
Simultaneamente deve chiarire il concetto
di vero, evidenziando le sue relazioni con il
significato. Secondo Dummett, se si riesce
a dare risposta alle domande poste da questi
problemi, si riescono anche a risolvere insieme i vecchi problemi posti dal realismo
metafisico. Ovunque, nella storia della filosofia, il realismo ha prodotto controversie. In taluni casi si è detto che non esistono
valori oggettivi nel mondo, che è la natura
umana che produce le nostre vedute morali. Analogamente si è affermato che le
verità matematiche non sono indipendenti
da noi, ma sono il prodotto delle nostra
creatività; cosí come si è detto che il mondo
fisico non può essere concepito come esistente indipendentemente dall’esperienza,
ma che anzi la sua relazione con l’esperienza è interna ad esso. Per Dummett il bisogno di un nuovo approccio a questi problemi scaturisce proprio dal fallimento di questi dibattiti tradizionali. Egli pensa che la
chiave dell’inadeguatezza delle soluzioni
proposte dal realismo si trovi nella accettazione, comune a queste soluzioni, del principio di bivalenza, secondo cui ogni affermazione appartenente ad un universo dato
è determinatamente vera o falsa. La connessione tra bivalenza e realismo produce
la credenza che la verità o falsità di un’affermazione non é una funzione della nostra
indagine, ma è determinata da una realtà
che esiste indipendentemente dalla nostra
conoscenza. Ciò vuol dire che impiegare il
principio di bivalenza, cioé impiegare una
logica classica generante una semantica
bivalente, equivale a essere realisti.
In definitiva, per Dummett proporre una
soluzione ai problemi sollevati dal realismo equivale ad evitare la teoria semantica
che ad esso sottende. Proprio questo è lo
sforzo che egli intraprende, ponendo le sue
idee come punto di partenza per la costruzione di un’adeguata teoria del significato
e con ciò una soluzione del problema metafisico ad essa collegato. In The logical
basis of metaphysics si ritrovano di fatto
tutti i principali temi della filosofia analitica: il problema del vero, del significato,
della conoscenza, della comprensione, dell’olismo e della giustificazione delle leggi
logiche. Ripudiando apertamente la semantica classica, Dummett difende una posizione verificazionista-pragmatista per la
sua meaning-theory, affermando che il miglior modello disponibile in tal senso è
quello offerto dall’intuizionismo, dal momento che la logica intuizionista si autogiustifica, non richiedendo l’appoggio di
una teoria semantica.
Sebbene nel libro siano presenti i temi
consueti trattati da Dummett, essi vengono
qui riaffermati con argomenti nuovi. Uno
degli sviluppi più interessanti, mai espresso prima con tale chiarezza, é quello che
afferma le ragioni per cui egli crede che i
problemi metafisici si risolvono conseguentemente alla soluzione di quelli logici. Incominciare da un’indagine metafisica, provando a derivare da essa una descrizione di
ciò che pensiamo del vero e dunque della
logica, significa adottare una strategia topdown, che possiede lo svantaggio di non
darci la possibilità di conoscere come poter
fornire una chiara visione delle controversie metafisiche in questione. Adottando al
contrario un procedimento d’indagine bottom-up, incominciando cioé col fornire un
corretto modello del significato per le affermazioni controverse, è possibile per
Dummett risolvere in un secondo tempo le
controversie metafisiche stesse. Questo perché ciascun modello di significato porta
con sé un modello metafisico, sicchè una
volta determinata una descrizione del significato, non resta che accettare il modello metafisico ad esso relativo. Una strategia questa, che richiama alcune idee caratteristiche del pensiero dummettiano.
Dummett infatti considera come indagine
fondamentale la filosofia del pensiero, e la
sola maniera per approfondirla si attua attraverso il linguaggio, con cui il pensiero si
esprime. Un’indagine sul linguaggio equivale ad analizzare ciò che chiunque deve
implicitamente sapere per essere considerato parlante una determinata lingua. Il
primo passo nel costruire una teoria del
significato è infatti fornire una rappresentazione sistematica della pratica necessaria
per parlare un linguaggio. Dei problemi
sorgono invece a questo proposito se si
accetta il principio di bivalenza che produce una meaning-theory incapace di stabilire un’unione tra la conoscenza del parlante
e la sua pratica, unione che deve essere
stabilita se la nostra teoria del significato
vuole essere adeguata.
E’ proprio questo il nodo centrale che ha
generato negli ultimi venti anni il dibattito
intorno al lavoro di Dummett. La sua posizione appare poggiare su di una inestricabile doppia tensione tra da una parte il problema legato alle leggi logiche, al loro bisogno
di essere giustificate e a come giustificarle,
dall’altra il fatto che la natura dell’inferenza deduttiva ci costringe ad accettare una
distinzione tra la verità delle affermazioni
AUTORI E IDEE
Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir nello studio in Boulevard Raspail 22 (G. Freund 1964, G. Neri)
e il possedere dei motivi per considerarle
vere. Per Dummett tale distinzione deve
essere mantenuta, anche se ci conduce all’accettazione di una teoria realistica del
significato. Nonostante molte affermazioni discutibili, senza dubbio Dummett ci
mette a disposizione con questo libro un
materiale interessante e articolato, capace
di arricchire un dibattito che sta uscendo
dai confini anglo-americani, per essere accolto anche dalla cultura europea. V.R
Su Sartre e Beauvoir
Se come maîtres à penser sembrano
piuttosto dimenticati, come personaggi Jean-Paul Sartre e Simone de
Beauvoir non smettono di suscitare
interesse in Francia. Nella ricezione
del pubblico il loro ruolo di protagonisti della cultura degli anni Sessanta
sembra di fatto essersi depositato in
un interesse biografico che, nella sostanza, è indifferente ai contenuti filosofici del loro pensiero. Parliamo di
due studi biografici recentemente ap-
parsi nelle librerie francesi: Simone de
Beauvoir, di Deirdre Bair (traduzione dall’inglese di Marie France de
Palomera, Fayard, Parigi 1991) e Une
si douce Occupation... Simone
de Beauvoir e Jean-Paul Sartre
1940-1944, di Gilbert Joseph (Una
Occupazione tanto dolce... , Albin
Michel, Parigi 1991).
A queste biografie fa riscontro un testo inedito di Sarte, che raccoglie i
quaderni composti durante un viaggio in Italia nel giugno 1952, pubblicato a cura di Arlette Elkaim-Sartre col
titolo: La reine Abermarle (La
regina Abermarle, Gallimard, Parigi
1991). Si tratta di note sparse, dove
emerge un’immagine dell’Italia tutto
sommato da cartolina e che ricordano, per molti versi, la sensibilità spaesata di Antoine Roquentin, il famoso
personaggio della Nausea.
Il libro di Gilbert Joseph è una ricostruzione storica, dati alla mano e veleno nell’inchiostro, che costituisce un pesante atto
d’accusa del dégagement della coppia negli anni dell’Occupazione tedesca. E’ noto
come il primo successo teatrale di Sartre,
Les Mouches (Le mosche), sia stato rappresentato nel teatro collaborazionista “Sarah
Bernhard”, previo visto della censura “ariana”; come pure è risaputo che Simone de
Beauvoir collaborava in quel periodo alle
trasmissioni della Radio-diffusion
Nationale. Da qui le accuse di opportunismo dell’autore di questa biografiapamphlet, che ha il vizio evidente di detestare i suoi protagonisti, di far intervenire il
giudizio estetico sull’opera e la riprovazione morale quali inutili commentari alle
imprese di Sartre e della Beauvoir. Calcolo, ambizione letteraria, sete di celebrità a
tutti i costi e persino dissolutezza erotica i
capi d’accusa accumulati da Joseph, che è
andato a spulciare tra gli archivi di polizia
e tra gli statini professionali dei due brillanti professori di liceo col solo intento di
dimostrare come fosse usurpato il titolo di
“resistenti”, di cui essi si sono fregiati nel
Dopoguerra.
C’è da dire che la ricostruzione di Joseph
non pecca certo per mancanza di dati storici. Riscontri che possiamo augurarci vengano utili per un lavoro biografico più
complessivo e meno partigiano, dove so-
AUTORI E IDEE
prattutto il giudizio sul personaggio non
venga automaticamente e ingiustificatamente portato sull’opera.
Di parte sembra anche l’analisi che la studiosa americana Deirdre Bair dedica a
Simone de Beauvoir - un monumento di
800 pagine - che fin dalla prefazione denuncia l’intenzione di proporsi come una
«biografia femminista». Non si può certo
negare l’importanza dell’opera della
Beauvoir come autrice di Le Deuxième
Sexe (Il secondo sesso) nella storia del
pensiero femminista. Ma se la biografia
della Bair non diventa agiografica è perché
mantiene una precisione e mobilita una
messe di dati da renderla preziosa, pur
conservando una distanza critica che è tuttavia, nello stesso tempo, ideologica. Ciò è
evidente nella valutazione del presunto ruolo subalterno che viene attribuito alla
Beauvoir nei confronti di Sartre; in fondo ci
troviamo di fronte a una donna sottomessa
che scrive: «io ero intelligente, certo, ma
Sartre era un genio». Può essere vera l’annotazione secondo cui Simone de Beauvoir
era stata «educata, come tutte le donne del
suo tempo, a sentirsi inferiore agli uomini», ma non c’è bisogno di rilevare quanto
Sartre fosse un uomo «minuscolo, un metro e cinquanta al massimo», per farne
risaltare la grande statura intellettuale.
E.N.
L’inumano dell’uomo: la morale
di André Glucksmann
«Fai in modo che niente di ciò che è
inumano ti sia estraneo». Non è una
citazione da Dostoievskij, ma l’imperativo di L’XI Commandément (L’XI
Comandamento, Flammarion, Parigi
1991) di André Glucksmann.
E’ un libro di “morale”, avverte subito
l’autore, che si propone di demolire
l’intero edificio della morale corrente,
costruita sulle buone intenzioni e sui
pii desideri di un sognante umanesimo.
All’origine della gioconda concezione che
vede l’uomo abitato dalla virtù e il Bene
quale destino del mondo vi è, per André
Glucksmann, l’ottimismo razionalista
dell’Illuminismo. E’ la storia del nostro
secolo a fornire la tragica smentita di tali
visioni, ma è proprio questa tragedia che
impone di ripensare le categorie della morale e di vedere «il luogo dell’inumano»
nell’uomo stesso. Assumere la componente di Male intrinseca all’uomo significa
arginarla e combatterla senza avere la pretesa di abolirla. I veri nichilisti, sostiene
Glucksmann, sono coloro che rifiutano la
realtà, che sognano la palingenesi morale
degli uomini e costruiscono sistemi per
reinventare il mondo. La legittimazione
delle tendenze integraliste che vediamo
affermarsi oggi risiederebbe in questo integralismo filosofico, nella sua essenza tota-
litario.
L’analisi dell’integralismo moderno è una
delle parti più argomentate e convincenti
del libro, che si chiede come esso sia potuto
prosperare in un secolo che ha glorificato i
valori universali e l’idea di uguaglianza.
L’instabilità che caratterizza la modernità,
osserva Glucksmann, l’anonimia dello spazio tecnologico, la neutralizzazione del senso operata dalla logica dell’informazione
totale, producono un effetto di angoscia e
una tentazione di ripiego sui valori minimi,
ma assoluti, dell’integralismo. Questo può
di volta in volta assumere connotati e finalità diversi, ma sempre partecipa di una
medesima logica di esclusione che deriva
dalla necessità di definirsi polemicamente
contro un nemico. Un soggettivismo assoluto ne è alla base: «esso dà conto di sé solo
a se stesso, si fa giudice, pentito, vittima,
carnefice e ricompensa ultima di una propria azione che riprende su di sé la schiuma
della propria infinità.» Se gli integralismi
esprimono del resto la versione caricaturale ed esacerbata della disillusione umanista
di un mondo improntato al Bene, conviene,
conclude Glucksmann, portare a compimento il processo di autocritica dei valori
della cultura occidentale per riaprire il campo di possibilità ad una nuova morale.
E.N.
Ricoeur e lo spazio pubblico
della lettura
Interpretare significa in primo luogo
per Paul Ricoeur imparare a leggere, e
questo per due motivi: perchè per criticare, analizzare, comprendere bisogna frequentare i testi, ascoltarli, provarsi nella spiegazione; poi perchè il
mondo circostante si offre come un
universo di alfabeti, libri, interpretazioni già avvenute. Con Lectures 1
(Letture 1, Seuil, Parigi 1991) prende
avvio la presentazione degli articoli
pubblicati da Ricoeur nel corso degli
anni spesso in merito ad altri libri e
autori, a confronti diretti con le problematiche più attuali. Il primo volume raccoglie gli interventi “Autour du
politique”: il prossimo comprenderà i
saggi di ordine estetico, il terzo quelli
inerenti al problema della religione e
del male.
I tre campi secondo cui sono raccolti gli
articoli ricoeriani esprimono in modo molto perspicuo gli interessi teroretici di questa mente enciclopedica: Lectures ci fa
entrare nella biblioteca ideale di Paul
Ricoeur, ci indica gli autori più sottolineati, più interrogati, ci fa toccare con mano le
conversazioni solitarie e ideali con i testi
più incisivi della personale riflessione dell’autore. Questo volume è dedicato al “politico “, o per meglio dire, come suggerisce
lo stesso Ricoeur: «Avrei amato chiamare
questo libro Lo spazio pubblico, nel senso
arendtiano, cioè la manifestazione del rapporto con altri in un ambito istituzionale,
che si tratti di istituzioni linguistiche o
politiche». L’interesse per la scena pubblica e etica dell’esperienza umana fu sollevato in Ricoeur dall’incontro con Jaspers, con
Weil, con Patocka, con Arendt e con i
problemi relativi alla filosofia della azione,
alla deliberazione pubblica, alla salvaguardia di ciò che è umano di fronte al nichilismo imperante. Osserva ancora Ricoeur a
proposito di questo testo: «Dobbiamo tener
conto di un certo numero di fragilità fondamentali dell’esistenza. Non dobbiamo creare ex nihilo il senso, ma rispondere a interrogativi ineluttabili». Lectures, “Autour du
politique”, connette molto strettamente fragilità e responsabilità. Sono questi i due
poli, i due luoghi che definiscono la scena
pubblica: da un lato la fragilità della vita in
società, i conflitti di interpretazione, i differenti dissidi e punti di vista, dall’altro la
responsabilità a cui tutti sono chiamati per
non scivolare nella rassegnazione, nell’anarchismo.
Il problema per Ricoeur non è essere o non
essere nichilisti, ma come pensare e agire
di fronte al nichilismo. Frequentare la propria biblioteca ideale significa porsi con
altri, contro altri, i medesimi problemi,
ingaggiare un dialogo a più voci, seguire le
tracce di una propria, condivisibile tradizione. Lectures raccoglie testi che esprimono i temi cari alla riflessione ricoeuriana, come quello dell’impossibilità di una
scienza della praxis: l’azione è sottoponibile solo, secondo la linea aristotelica, a
una saggezza probabile, per accenni, schizzi, mai per certezze. In questo senso la
retorica per il suo carattere argomentativo,
pubblico, fra dimostrabile e aleatorio, è il
linguaggio proprio dello spazio pubblico.
Ma in questa raccolta si trova anche espresso uno dei temi centrali dell’ultimo Ricoeur,
ossia la “saggezza pratica”, la prudenza,
quale corretivo della possibile rigidità della morale dei costumi, delle istituzioni di
una comunità data. Centrale è anche il tema
della giustizia. Estremamente interessanti
infine gli interventi a caldo, “circostanziali”, sulla rivoluzione cinese, su Israele,
sulla situazione universitaria del ’68.
F.M.Z.
AUTORI E IDEE
Sils Maria (Engandina), Das trunkene Lied dallo Zarathustra di Nietzsche.
TENDENZE E DIBATTITI
TENDENZE E DIBATTITI
Ecce Nietzsche: un filosofo
per tutti e per nessuno
In Francia è noto come negli anni ‘6O
Friedrich Nietzsche sia stato adottato
dal milieu intellettuale come filosofo
del sospetto, della riabilitazione delle
gioie del corpo, della sensibilità come
profusione infinita: enfant terrible del
pensiero, Nietzsche mette a soqquadro tutte le categorie della tradizione
metafisica. Una serie di recenti pubblicazioni segnala un nuovo interesse in
Francia per questo autore “polimorfo”, ma la discussione oggi non si gioca più tanto sul piano metafisico-estetico quanto su quello politico-storico.
E’ il caso di una serie di testi di autori
vari, testimonianza di una recente discussione sulla ricezione del filosofo
da parte degli intellettuali ebrei: De
Sils Marie à Jerusalem. Nietzsche
et le judaisme; les intellectuelles juifs et Nietzsche (Da
Sils Maria a Geru-salemme. Nietzsche
e l’ebraismo; gli intellettuali ebrei e
Nietzsche, Cerf, Paris 1991). A ciò si
affianca la traduzione francese dell’ormai classico studio di Karl Löwith:
Nietzsche: philosophe de l’éternel retour du même (Nietzsche:
filosofo dell’eterno ritorno, CalmannLévy, Paris 1991) e dell’altrettanto classico Introdution 9 Nietzsche (Introduzione a Nieztsche, Ed Univ/ De
Boeck Université 1991) di Gianni
Vattimo. Completa la panoramica un
volume collettivo, Pourquoi nous ne
sommes pas nietzschéens?” (Perchè
non siamo nietzscheani, Grasset, Paris
1991), che si presenta come il manifesto di una generazione intellettuale
che prende posizione rispetto agli anni e ai maestri (“padri”) della loro formazione, ossia coloro che avevano dato vita alla “Nietzsche-Renaissance”
degli anni ‘6O.
Lo stacco avviene sul piano politico in base
all’”esigenza ancestrale di razionalità”, rispetto alla quale la filosofia incendiaria di
Nietzsche comporterebbe nefaste e mortifere conseguenze nel dominio dell’azione
pubblica e della società democratica. Scontro generazionale? Eredità edipica? Gusto
polemico? Sia quel che sia, per gli autori in
questione: A. Boyer, A. CompteSponville, V. Descombes, L. Ferry, R.
Legros, P. Raynaud, A. Renaut, P.-A.
Taguieff, Nietzsche è un punto di non
ritorno della filosofia e soprattutto della
critica alla tradizione metafisica occidentale. La posta in gioco non è tanto una
visione dell’essere, quanto la possibile “presa”, da parte della riflessione filosofica,
sulla realtà politico-pubblica.
La questione è: fino a che punto è possibile
seguire la critica nietzscheana della tradizione razionalista? Cosa comporta questa
posizione sul piano dell’azione libera e
responsabile degli individui? Detto altrimenti: lo stile decostruzionista, critico, caro alla “Nietzsche-Renaissance”, non mina alla base la “passione democratica”? L.
Ferry e A. Renaut pongono questa alternativa: di fronte all’erosione della tradizione da parte della critica, da un lato, e
l’intrinseca debolezza della democrazia dall’altro, la fondazione e la legittimità dei
valori pubblici, comunicabili, condivisibili (e cioè: le norme, le istituzioni, i criteri)
diventano estremamente complesse. Due
sono allora i possibili atteggiamenti: il primo, a cui si richiamano gli stessi Ferry e
Renaut e filosofi come Rawls, Apel, si
propone di «approfondire i presupposti teorici e le modalità pratiche del modello della
deliberazione argomentativa». Il secondo,
a cui parteciperebbe Mac Intyre, per esempio, denuncia insormontabile il vuoto di
punti di riferimento reali e attacca la fragilità della democrazia per «interrogarsi sulle possibilità di far sorgere, attraverso una
critica della moderna democrazia, l’analogo contemporaneo di un universo tradizionale». L’aut-aut è chiaro: argomentazione
contro tradizione, democrazia contro neo
conservatorismo, deliberazione pubblica
contro autorità. Nietzsche a questo proposito costituisce l’espressione più raffinata
della prospettiva neo-conservatrice, che
mira a trovare un analogo della tradizione,
e il confronto diretto con la sua acutezza
d’analisi permetterebbe di misurarsi con
gli effetti “perversi” di tale opzione. D’altra parte il rapporto con Nietzsche non puo’
che essere contraddittorio. La critica nietzscheana della scienza, della modernità,
della razionalità è certo convincente, se
non seducente. Ma Nietzsche non è un
bieco e ingenuo conservatore: il processo
della modernità è irriversibile. Nietzsche
ricerca allora il “grande stile “, perseguendo l’ideale di un’integrazione delle forze
vitali, di una intensificazione della vita
creativa, estetica “sovraumana”: una «gerarchizzazione armoniosa delle forze vitali
che corrisponderebbe all’analogo dell’universo della tradizione».
Da qui sorgono due questioni. Da un lato:
può l’eterno ritorno avere un carattere dialettico? Dall’altro: come conciliare nello
stesso Nietzsche quello strano misto fra
autonomia (super/oltre uomo ) e gerarchia
(cosmologia, eterno ritorno dell’identico)?
Questo “misto” sarebbe possibile, affermano Ferry e Renaut, «se l’integrazione di
cio’ che la modernità ha conquistato non
costringesse a rompere, per sempre, con
l’eventuale eredità degli Antichi». Su questa linea si situa anche l’intervento di P.
Raynaud, che propone di rilanciare una
certa strategia nietzscheana: come il filosofo tedesco ha saputo fare dell’Aufklarung
uno strumento per criticare dall’interno la
ragione, così il suo “irrazionalismo” puo’
divenire un mezzo per perseguire e non
rinunciare all’emancipazione delle
Lumières. Secondo Raynaud «il compito
della filosofia politica sarebbe allora di
prendere il pensiero nietzscheano come
antidoto dello spirito moderno, o meglio
come un mezzo privilegiato per l’autocritica della modernità». A questo proposito
l’autore dà luogo a un confronto molto
stringente fra Nietzsche e Weber, al quale
viene attribuita una critica di stile nietzscheano della modernità, il cui esito sarebbe una discussione della medesima e
non un suo oltrepassamento.
Sebbene questa raccolta non apporti nessun particolare contributo innovativo all’interpretazione del pensiero nietzscheano, è pur vero che il lettore francese, di
questi tempi, ha la possibilità di mettere a
confronto punti di vista differenti sul pensiero di Nietzsche. Chi accostasse le traduzione francesi delle monografie di Karl
Löwith, da un lato, e di Gianni Vattimo,
dall’altro, avrebbe molti elementi per rivisitare il problema dell’essere o non essere
“nietzscheani”. La lettura di Löwith può
essere considerata un “antidoto” al manifesto generazionale degli intellettuali francesi in rapporto a Nietzsche: l’interpreta-
TENDENZE E DIBATTITI
zione dell’eterno ritorno proposta da Löwith
porta più sulla cosmologia nietzscheana
che non sul suo naturalismo metafisico.
D’altra parte l’interpretazione di Vattimo
può essere letta come correttivo della visione riduttiva dell’alternativa argomentazione-tradizione, nel momento in cui la tradizione metafisica viene rivisitata come destino dell’essere e l’ermeneutica dal canto
suo ha di mira la semplice opposizione
autorità-conformità-passato e argomentazione-deliberazione-presente.
Un ‘altra iniziativa considerevole è la pubblicazione degli atti del recente colloquio
dedicato ai rapporti fra Nietzsche e gli
intellettuali ebrei, raccolti con il titolo: De
Sils Marie a Jerusalem, da D. Bourel e di
J. Le Rider. A partire dagli anni 1874/5 la
ricezione del filosofo nel mondo ebraico è
stata complessa: per certi sionisti Nietzsche
offriva l’esempio di un rovesciamento fecondo dei valori borghesi della vecchia
Europa; per altri proponeva una filosofia
d’élite che andava semplicemente liberata
dalla sua tonalità troppo tedesca. In epoca
più recente l’influenza nietzscheana ha giocato un ruolo importante nel divenire-ebreo di autori come Rosenzweig, Scholem,
Buber. Fermo restando l’ambiguità di
Nietzsche nei confronti degli ebrei, la tesi
più interessante che questa raccolta suggerisce è che l’antisemitismo nietzscheano
dipenda più da un filoellenismo, che da un
odio reale per gli ebrei. Inoltre bisogna
considerare la reale ignoranza degli ebrei
da parte del filosofo tedesco, e non solo di
quelli del suo tempo, ma anche di quelli
dell’Antico Testamento, tant’è che per
Nietzsche gli ebrei più ebrei sono Gesù e
Paolo.
Segnaliamo qui infine un’iniziativa delle
edizioni La Pléiade, che a partire dal ’94
avvieranno la pubblicazione delle opere
complete di Nietzsche sulla base della edition grise di Gallimard. F.M.Z.
Chi è Nietzsche?
Tra i vari studi critici recentemente
pubblicati in Italia sulla figura e l’opera
di Friedrich Nietzsche, alcuni sembrano orientarsi in particolare verso una
tendenza interpretativa che vede il filosofo tedesco più come moralista e
“profeta”, che come filosofo sistematico. Segnaliamo in tal senso la pubblicazione di una conferenza di HansGeorg Gadamer, Il dramma di
Zarathustra (a cura di Carlo Angelino,
Il Melangolo, Genova 1991) e il saggio
di uno dei maggiori interpreti dell’opera di Nietzsche, Sossio Giametta,
Nietzsche, il poeta, il moralista, il filosofo. Saggio su
Così parlò Zarathustra (prefazione di Claudio Magris, Garzanti, Milano
1991). Notevole contributo a questa
tendenza interpretativa viene peraltro dall’edizione critica delle opere di
Nietzsche, curata da Giorgio Colli e
Mazzino Montanari, di cui è recente la
pubblicazione di La gaia scienza.
Idilli di Messina e frammenti
postumi 1881-1882 (Adelphi, Milano 1991);
Raccolta di aforismi composti tra il 1881 e
il 1882, La gaia scienza appartiene al cosiddetto “periodo illuminista” di Friedrich
Nietzsche. E’ il periodo che segna il distacco dalla metafisica di Schopenhauer e dall’arte di Wagner, che aveva preso coloriture fin troppo misticheggianti per i gusti di
Nietzsche: il reciproco dono di una copia
del Parsifal e di una di Umano - troppo
umano fu tra i due un «incrociarsi di spade», come ebbe a dire il filosofo. In questo
contesto prende forma la “filosofia del mattino”: religione greca, metafisica schopenhaueriana e arte wagneriana decadono ora
a “illusioni”, ad apparenze che devono essere smascherate, e tale smascheramento è
delegato alla “scienza”. In Umano - troppo
umano la scienza che smaschera è la psicologia; essa però non è ancora “gaia”, poiché
il livore con cui metafisica, religione e arte
appaiono “maschere” degli umani impulsi
non permettono ancora quella “leggerezza” che è condizione imprescindibile dello
spirito liberato, e che si concretizza in una
presa di distanza dalla scienza stessa. E’
questo il punto di vista che viene raggiunto
con la Gaia scienza, che è tale proprio
perché essa non è né la forma esistenziale,
né la verità ontologica dello spirito libero,
ma solo lo strumento per la sua liberazione.
Qui la forma aforistica prepara già il “pensare poetico” di Così parlò Zarathustra,
ideato e composto fra il 1881 e il 1885.
Questo non è casuale, spiega Sossio
Giametta nel suo recente studio critico,
dato che Nietzsche è “filosofo per necessità”: prima di tutto scettico, poi moralista e
infine, di conseguenza, poeta, quando deve
comunicare un pensiero che è “per tutti e
per nessuno”. Pensiero che è in verità incomunicabile, sicchè per Nietzsche la filosofia, strumento per la vita, deve assumere
necessariamente di volta in volta i caratteri
dell’invettiva rapsodica e asistematica degli aforismi, piuttosto che la forma sapienziale del poema oracolare. Non si tratta
però di una opportuna commistione fra un
pensiero non sufficientemente “fine”, o
troppo “freddo”, e la poesia, che gli fornisce le nuances, o anche solo le immagini
necessarie a esprimere la “vita”. Si tratta
invece, suggerisce Giametta nelle trecento
pagine del suo saggio, di un diverso interesse, che si esprime anche con lo strumento della filosofia.
E’ dunque una forzatura ricondurre le riflessioni in forma aforistica della Gaia
scienza, e ancor più quelle in forma poetica
dello Zarathustra, a un impianto concettuale sistematico; tesi questa che accomuna Giametta a Mazzino Montanari - di cui
Giametta fu collaboratore - e che figura
come presupposto filologico all’edizione
critica dell’opera completa di Nietzsche.
“Superuomo”, “morte di Dio”, “eterno ritorno” non valgono dunque come concetti,
ma come “idee limite”: la posizione di
Nietzsche nei confronti della “funzione
logica della filosofia” è negativa; la filosofia “serve” per la vita dell’uomo non per
interpretare la realtà dell’essere, ma per
viverla, e a questo scopo devono essere
orientati i suoi concetti. Nietzsche stesso,
quando si autocomprende come filosofo,
cade nell’errore che egli stesso rimprovera
ai filosofi: ipostatizzando posizioni quali il
rifiuto vitalistico della teoria e della religione, egli dimentica la leggerezza del canto e della danza e va avanti a parlare, cioè
a filosofare. Eppure, proprio perché dietro
alla posizione dello scettico c’è quella del
moralista, e dietro quella del moralista quella di un credente in un sistema di valori,
occorre chiedersi fino a che punto non
fosse necessario il fraintendimento, o l’autofraintendimento, della “battaglia filosofica” nietzscheana. Sorge addirittura il sospetto che, perfino sul piano storiografico,
potesse avere ragione Heidegger, quando
collocava Nietzsche sulla vetta più alta del
cammino della filosofia occidentale - e
comunque al di qua del crinale - come
l’ultima figura del soggettivismo della metafisica.
Con l’interpretazione heideggeriana della
tensione tra vita e saggezza in Nietzsche fa
i conti anche Hans-Georg Gadamer nel
suo libretto: Il dramma di Zarathustra, che
presenta il testo di una conferenza tenuta in
occasione del centenario della pubblicazione dell’opera nietzscheana. Nietzsche,
prima che filosofo, è anzitutto un “inguaribile moralista”, uno “sperimentatore straordinario”; per questo Gadamer nega che la
forma letteraria scelta per lo Zarathustra
possa essere poi ripudiata a favore di una
presunta maggior sistematicità teoretica.
Singolare caso di incompatibilità profonda, quella delle filosofie di Nietzsche e
Gadamer. Se, come ricorda Carlo Angelino
nella sua Prefazione al testo gadameriano,
la coscienza della finitezza umana rappresenta il presupposto dell’ermeneutica filosofica di Gadamer, proprio questo presupposto è l’obiettivo polemico di Nietzsche.
Quella di Gadamer è una filosofia fondata
su una coscienza che è anzitutto autocoscienza della propria storicità, cioè del proprio essenziale pro-venire. Il gioco cosmico nietzscheano si pone invece nella dimensione sovratemporale dell’eterno ritorno, in quell’implosione dell’attimo nella quale si avvita e precipita la relazione
causale, fondata sulla temporalità del rapporto di successione.
Nonostante però la lontananza delle prospettive e il fatto che Gadamer dichiaratamente non ami lo Zarathustra, penetrante è
la sua analisi del testo, da lui ritenuto anzitutto «un’opera d’arte letteraria», dalla quale
non è affatto facile, e forse neppure legittimo, estrapolare «un universo di concetti
unitario». Se non si tiene in adeguato conto
questo fatto si va incontro a un duplice,
possibile fraintendimento. Il primo riguar-
TENDENZE E DIBATTITI
Friedrich Nietzsche
da il rischio di irrigidire concettualmente
alcune intuizioni di Nietzsche, incagliando
il suo pensiero in contraddizioni apparentemente insanabili, come quella a cui giunge ad esempio Karl Löwith, rendendo inconciliabile l’idea dell’”eterno ritorno” con
quella di “volontà di potenza”. Merito precipuo di Heidegger, dice Gadamer, è stato
proprio quello di aver composto questo
apparente contrasto, mostrando come l’anello dell’eterno ritorno e la volontà di
potenza siano facce di una stessa medaglia,
la dissoluzione del problema del senso e
della causalità finalizzata. Il secondo rischio di fraintendimento consiste nell’identificazione della figura di Zarathustra
con Nietzsche stesso. Bisogna invece tener
conto del fatto, osserva Gadamer, che lo
Zarathustra di Nietzsche è composto non
solo dai discorsi, ma anche dalla vicenda di
Zarathustra. Quello che ne esce, e che costituisce il frutto teoretico dell’opera, è la
tensione fra vita e sapere: cercare la saggezza preclude la vita, ma preclude anche
la saggezza stessa, perché essa è accettazione della vita, amor fati. F.C.
Nietzsche alla ribalta
nel mondo anglosassone
L’interesse che il pensiero nietzscheano sta riscuotendo nei paesi anglosassoni sorprende non solo gli studiosi europei, ma lo stesso mondo intellettuale di quei paesi. Colpisce innanzitutto la quantità degli studi sul pensiero di Nietzsche apparsi tra il 1990
ed il 1991 presso le maggiori case
editrici inglesi e americane. Dare una
spiegazione esauriente di questo fenomeno é cosa complessa; certamente si può dire che con queste pubblicazioni gli studi su Nietzsche nella cultura anglo-americana hanno raggiunto
una maturità in grado di riconoscere
in questo filosofo un pensatore di eccezionale importanza, sottraendolo all’abbraccio soffocante del “nuovo
Nietzsche decostruzionista”, sia al severo giudizio della filosofia analitica.
Lo studio di Robert John Ackerman,
Nietzsche: a frenzied look (Nietzsche: uno
sguardo amichevole, University of Massachusetts Press, Amherst 1990), è il frutto di
anni di riflessioni e di insegnamento. La
sua discussione poco sistematica del filosofo non ha come scopo di descrivere ciò
che Nietzsche è stato o ha detto, ma di
fornire delle risposte alle problematiche
nietzschiane, mettendo in evidenza il proprio punto di vista. I limiti di una tale lettura
vengono d’altra parte sollevati dallo stesso
Ackerman nell’introduzione.
Al Nietzsche degli anni de La nascita della
tragedia (1872) è dedicato il libro di John
Sallis, Crossings: Nietzsche and the space
of tragedy (Passaggi: Nietzsche e lo spazio
della tragedia, University of Chicago Press,
Chicago 1991). Utilizzando spesso un gergo heideggeriano-derridiano - in genere
mal sopportato dai lettori anglo-americani
- Sallis critica l’idea semplicistica e comunemente accettata secondo cui la prima
filosofia nietzscheana è quasi interamente
debitrice del pensiero di Schopenhauer.
Mettendo in evidenza i testi greci su cui
presumibilmente Nietzsche studiò, in particolare Euripide, Sallis riesce a fornire una
interpretazione alternativa.
In Nietzsche and the question of interpretation: between hermeneutics and decon-
TENDENZE E DIBATTITI
struction (Nietzsche e il problema dell’interpretazione: tra ermeneutica e decostruzione, Routledge, London 1990) Alan D.
Schrift cerca di trovare un punto di unione
tra l’interpretazione di Nietzsche avanzata
da Heidegger e quella fornita da differenti
pensatori contemporanei francesi, fra cui
Derrida. Pur restringendo la sua attenzione
solo a una parte dei pensatori implicati,
Schrift affronta questo difficile compito in
maniera lodevole, mentre la lettura che egli
propone di Nietzsche, improntata a un pluralismo interpretativo, in cui l’attenzione
filologica è congiunta a uno sviluppo della
nostra capacità di interpretazione creativa,
appare meno incisiva e non sufficentemente articolata. Un’alternativa più radicale al
Nietzsche decostruzionista per quanto riguarda il problema della verità, della conoscenza e della filosofia sembra essere quella offerta da Maudemarie Clark in
Nietzsche on truth and philosophy
(Nietzsche, sulla verità e sulla filosofia,
Cambridge University Press, Cambridge
1991). Secondo l’autrice, la negazione della possibilità della conoscenza e il rifiuto
del vero, che caratterizzano il primo pensiero di Nietzsche, sono dovuti in particolare all’idea dell’esistenza della cosa in sé
e al modello rappresentazionale della percezione ad essa associato, di cui egli inizialmente era prigioniero. Una volta liberatosi da questi legami, Nietzsche riesce però
a ripensare in maniera significante il vero e
la conoscenza. Clark interpreta questo passaggio non come una ricaduta in una posizione pre-nichilistica, ma come un superamento del nichilismo, che permette a
Nietzsche di sviluppare una posizione che
si potrebbe dire “neo-kantiana”. Pertanto
l’esito del pensiero nietzscheano non condurrebbe verso la dissoluzione del concetto
di vero e di conoscenza, ma al contrario ad
una nuova vita di questi due concetti. Ciò
tuttavia non è sufficiente, fa notare Clark,
per affermare una rinascita della metafisica
sotto gli auspici nietzscheani.
Alistair Moles, nel suo Nietzsche’s
philosophy of nature and cosmology (La
filosofia della natura e la cosmologia di
Nietzsche, Lang, New York 1989), cerca di
chiarire l’interpretazione della vita e del
mondo, quale emerge sia negli scritti pubblicati, che in quelli non pubblicati di
Nietzsche. Ne scaturisce una sorta di filosofia della natura e di cosmologia caratterizzata da un intento che oltrepassa quello
scientifico. Con essa Nietzsche non solo
critica l’interpretazione tradizionale della
vita e del mondo, ma esprime anche una sua
propria opinione su questi concetti, tanto
che il libro di Moles può essere considerato
uno dei più profondi tentativi apparsi fino
ad oggi di chiarire che cosa Nietzsche abbia
voluto affermare su questi argomenti, demolendo in maniera pressoché definitiva
quell’interpretazione semplicistica che attribuiva a Nietzsche la caratterizzazione
della vita e del mondo esclusivamente in
termini di volontà di potenza. Un approccio completamente diverso é invece quello
adottato da Henry Staten nel suo
Nietzsche’s voice (La voce di Nietzsche,
Cornell University Press, Ithaca/NY 1990),
in cui si tenta di dare un’interpretazione
psicoanaliticamente orientata dei testi nietzschiani. Un’operazione questa giustificata in parte dal fatto che Nietzsche stesso
utilizzò frequentemente “letture psicologiche” di altri filosofi.
Within Nietzsche’s labyrinth (Nel labirinti
di Nietzsche, Ruotledge, London 1990) di
Alan White 6 uno dei libri più complessi.
White appare come il lettore e l’interlocutore ideale di Nietzsche, soprattutto se lo si
considera come un sostenitore dell’elemento dionisiaco della filosofia nietzscheana.
Le teorie di Nietzsche sulla tragedia e la sua
concezione genealogica sono seguite da
un’estesa riflessione sulla resurrezione dell’anima di Zarathustra; una sezione finale
del libro considera questa interpretazione
in rapporto alla comprensione della concezione nietzscheana della vita umana. In
connessione con l’impostazione interpratativa di White si può collocare lo studio di
Leslie Paul Thiele, Friedrich Nietzsche
and the politics of the soul: a study of
heroic individualism (F. Nietzsche e la
politica dell’anima: uno studio di individualismo eroico, Princeton University
Press, 1990), che aggiunge alle considerazioni sulla rivalutazione del genere umano
un’analisi dei vari tipi umani, su cui
Nietzsche ha posto la sua attenzione: il
filosofo, l’artista, il santo, l’eremita, il super-uomo. Tutta questa interpretazione soggiace però alla semplicistica assunzione
come idea guida dell’individualismo eroico. Infine la discussione sul valore, sull’etica, sulla politica e sulla loro reciproca
connessione, sviluppata da Lester H. Hunt
nel suo Nietzsche and the origin of virtue
(Nietzsche e l’origine della virtù, Routledge,
London 1991), è un tentativo di considerare che cosa abbia prodotto in Nietzsche
l’immoralismo e la rivalutazione dei valori, con cui il filosofo non ha voluto semplicemente criticare i luoghi comuni circa la
morte e i valori, ma mostrare la strada per
una riorientazione della teoria morale e
politica secondo una concezione del valore
e della virtù, svincolata da un pensiero antinaturalistico. V.R.
Il dibattito sul libero arbitrio
Nel mondo anglo-sassone il dibattito
sul libero arbitrio ha sempre suscitato
grande interesse, forse anche a causa
della sua associazione con ciò che può
essere definito come la “speranza della nostra vita”, cioé la nostra propensione a considerarci come unici responsabili del nostro carattere e delle
nostre scelte, piuttosto che vittime
della natura, del destino o di altro che
sia, incluso Dio. A partire circa dal
1980 si può constatare un’ulteriore
rinascita di questo dibattito, che vede
la recente pubblicazione di una serie
di studi sul tema: Free will and the
christian faith (Il libero volere e
la fede cristiana, Clarendon, Oxford
1991), di W. S. Anglin; The dilemma
of freedom and foreknowledge (Il
dilemma della libertà e della preconoscenza, Oxford University Press,
Oxford 1991), di Linda Trinkaus
Zagzebski; The non-reality of free
will (La non-realtà del libero volere,
Oxford University Press, Oxford 1990),
di Richard Double; Freedom within
reason (La libertà nella ragione,
Oxford University Press, Oxford 1990),
di Susan Wolf. Altri saggi affrontano
invece le radici del problema, analizzando per esempio il concetto di libertà in filosofi come Kant, quasi per operare una sorta di legittimazione del
dibattito. E’ il caso dell’opera di Henry
E. Allison, Kant’s theory of freedom (La teoria della libertà di Kant,
Cambridge
University
Press,
Cambridge 1990).
In Free will and the Christian faith, W. S.
Anglin afferma che la speranza dell’uomo
di sentirsi padrone della propria vita, può
essere raggiunta solo se si possiede un
libero arbitrio, una capacità di scegliere i
valori e i propri scopi indipendentemente
da ogni determinismo. Una tale concezione
della libertà umana può conciliarsi con
l’ortodossa dottrina cristiana dell’onnipotenza, onniscienza e bontà di Dio, apportando un contributo interessante al dibattito sul problema cristiano del male, dell’immortalità e della rivelazione. A differenza
di molti altri filosofi, Anglin non elimina
gli argomenti più deboli a favore del libero
arbitrio, proponendo una completa ed informata visione delle recenti controversie
su questo tema. Linda Trinkaus Zagzebski
mostra invece diffidenza nell’appellarsi all’argomento della causazione e una certa
ritrosia nel risolvere l’apparente conflitto
tra la pre-conoscenza divina e la libertà
umana. Zagzebski analizza criticamente le
tre soluzioni tradizionali di questo dilemma, quella dovuta a Boezio, a Ockham, e
alla scolastica spagnola del sedicesimo secolo, in particolare a Luis de Molina. A
queste soluzioni, Zagzebski oppone tre argomentazioni alternative, che tuttavia non
convincono pienamente, dato che ciascuna
si appoggia ad assunzioni discutibili, non
potendo ammettere, come soluzione del
problema, un’impostazione che limiti la
pre-conoscenza divina. In definitiva, sia
Anglin, che Zagzebski affermano che l’idea di un libero volere, non deterministico
e non causale, é necessaria per dare significato alla speranza della vita umana e al
credo teistico. Ma essi pongono poca attenzione al problema centrale se il libero arbitrio, che in senso tradizionale é il fautore,
sia attaccabile o intelligibile.
In The non-reality of free will Richard
Double affronta ogni teoria corrente con
argomenti provocatori, spesso originali.
TENDENZE E DIBATTITI
Egli afferma che le nostre idee di libero
volere e di responsabilità morale sono un
misto di fattori pragmatici, ideologici, convenzionali e psicologici, che non si basano
su fatti oggettivi. Prendendo a prestito una
terminologia propria della psicologia cognitiva, Double pensa che il concetto di
libero arbitrio sia un concetto “esemplare”,
il cui significato 6 determinato dai paradigmi applicati; inoltre esso possiede molteplici modelli contradittori, che non potendo essere conciliati tra loro inducono Double
ad affermare la non realtà del libero volere.
Come Double, anche Susan Wolf, in
Freedom within reason, rifiuta l’interpretazione tradizionale dell’agire, criticando
la teoria compatibilista, che cerca di armonizzare il libero volere con il determinismo. Difendendo essenzialmente un pluralismo normativo, Wolf afferma che un individuo 6 responsabile unicamente se 6 in
grado di formare le proprie azioni sulla
base di ciò che è vero e buono; il che
dovrebbe significare, non senza una certa
ambiguità, che le persone sono moralmente responsabili solo se possiedono la capacità di agire giustamente per buoni motivi.
«L’idea della libertà non potrà mai ammettere una piena comprensione» - sosteneva
Kant - intendendo con ciò il fatto che la
libertà, poiché richiede assenza di determinazione causale, non potrà mai essere spiegata. La nostra conoscenza è confinata agli
oggetti dell’esperienza possibile, in quanto
sottoposta al principio di causalità. Inoltre
non possiamo nemmeno comprendere pienamente perché il concetto di causalità sia
una categoria fondamentalmente implicita
nei nostri giudizi, nella nostra rappresentazione delle cose. Cosí Henry Allison cerca
di chiarire e difendere l’affermazione di
Kant, secondo cui l’assenza della causalità
è una condizione per l’esistenza dell’azione razionale e per la responsabilità morale.
Per Kant l’individuo che agisce secondo
ragione non agisce semplicemente per soddisfare i propri desideri, ma in quanto egli
valuta se questi desideri siano degni o non
degni di essere perseguiti. Tuttavia questo
atto di valutazione, osserva Allison, non
deve essere pensato come una conseguenza causale dei desideri dell’individuo. Questa nozione di valutazione non-causale é il
cuore di molti argomenti kantiani sul rapporto tra libertà, razionalità e morale.
Anche all’interno della teoria dell’idealismo trascendentale Allison tenta di salvare
la concezione della libertà di Kant, ma
travalica il pensiero kantiano, non rimanendogli fedele. L’idealismo trascendentale, sostiene Allison, può essere interpretato in due differenti maniere: la prima
concepisce il mondo delle cose in sé e
quello delle apparenze come due mondi
separati; la seconda considera l’esistenza
di un solo mondo, giudicato in due maniere
differenti, o come concepito da noi, soggetto dunque a una connessione spaziotemporale o causale, o come indipendente
da queste condizioni implicite nell’esperienza umana. Per Allison, la prima inter-
pretazione toglie valore alla libertà, rendendola inaccessibile e senza rilevanza rispetto al mondo in cui noi viviamo, mentre
la seconda implica la possibilità dell’esistenza di un duplice problema della libertà.
V.R.
Ritorno alla Grecia
Che significato ha per i moderni il
culto degli antichi dei greci? E’ questo
il tema comune sotto il quale possono
essere riassunte tendenze di pensiero
per molti aspetti diverse, come quelle
sviluppate da Friedrich Otto, James
Hillmann e Hans Blumenberg. Per tutti questi autori, in ogni caso, quello
greco è un “paesaggio dell’anima”,
condizione ontologico-esistenziale ineludibile. Walter Otto sta recentemente conoscendo in Italia, dopo le
prime traduzioni degli anni Quaranta,
una notevole attenzione editoriale: alla traduzione italiana, cinquantasette
anni dopo la sua comparsa in Germania, di Dioniso. Mito e culto
(traduzione di Albina Ferretti Calenda
Il Melangolo, Genova 1990), fa seguito
quella de Il poeta e gli antichi
dei (traduzione di Monica Ferrando,
introduzione di Gianni Carchia, Guida,
Napoli 1991). Di James Hillmann, invece, è da segnalare Vana fuga dagli Dei (traduzione di Adrian a Bottini Adelphi, Milano 1991), mentre di
Hans Blumenberg, la sua voluminosa
Elaborazione del mito (a cura di
Bruno Argenton, introduzione di
Gianni Carchia, Il Mulino, Bologna
1991).
Per Walter Friedrich Otto, filologo classico e storico delle religioni, la comprensione della breve stagione storica della
religiosità degli antichi Greci è la chiave
indispensabile per quella della modernità.
Non si tratta solo di trovare - come in fondo
è per Hillmann - in questa o quella figura
della costellazione religiosa o mitologica
greca, un archetipo mentale o psichico sovrastorico; né, tantomeno, “scientificamente”, cioè razionalisticamente e positivisticamente, di ridurre quella greca e, in genere, tutte le forme di religiosità, a produzione storica legata a uno stadio “infantile”
dell’umanità. A parere di Otto è la forma di
religiosità greca nel suo complesso, la sua
peculiare concezione del sacro, a costituirsi per noi come problema, tanto nella sua
presenza, quanto nella rimozione, vera o
apparente, subita da questa concezione ad
opera del cristianesimo e della scienza moderna. Quando Otto prende in considerazione una figura particolare dell’universo
mitologico greco, lo fa perché ritiene che in
essa emergano i caratteri salienti di questo
universo nel suo complesso. E’ il caso dello
studio su Dioniso, in cui Otto tematizza la
questione della dimensione greca del sa-
cro. Un testo ormai “classico”, rappresentativo di una prospettiva di ricerca nel campo dell’antichistica che si impose in Germania negli anni Venti e Trenta; si ricordi
almeno, a questo proposito, Karl
Reinhardt, del quale è stato recentemente
tradotto lo studio su Sofocle (Il Melangolo,
Genova 1990).
Gli approcci etnologici, antropologici al
problema del sacro, per il solo fatto appunto di essere “logici”, cioè “scientifici”, non
colgono il segno del problema e si rendono
perciò responsabili dell’”oblio del sacro”.
Il libro di Otto vuole essere dunque innanzitutto una difesa della “specificità del sacro” contro ogni impostazione positivistica, ma anche, difesa della specificità del
sacro in Grecia: lo “spirito greco”, radice
della cultura occidentale, è un prodotto
unico, irripetibile. Il mito e il rito sono ciò
da cui traluce la “profondità” del divino
greco, che nel culto di Dioniso manifesta le
sue caratteristiche essenziali.
Ne Il poeta e gli antichi dei, Otto mette più
direttamente a fuoco il problema, impostosi soprattutto a partire dal neoclassicismo,
del valore della grecità per l’uomo moderno. Goethe e Hölderlin sono le due figure
che mettono fine all’illusione, già propria
dell’età romana, di quella rinascimentale e
di gran parte del neoclassicismo, della possibilità di un recupero storico delle forme
della grecità. Con Goethe e con Hölderlin,
a parere di Otto, prende forma la dimensione tragica dell’esistenza: la “scoperta” dello scarto irriducibile che, con l’avvento del
Cristianesimo, separa i moderni dai Greci.
Dopo il Cristianesimo, solo attraverso la
mediazione della religiosità greca l’uomo
moderno può rapportarsi alla grecità. Per
Goethe e Hölderlin è anzitutto il poeta che
è chiamato a questa mediazione: l’attività
che si esplica nel poiein accomuna, infatti,
questa figura alla dimensione della religiosità mitologica greca.
Per James Hillmann, psicologo di formazione junghiana, quello della religiosità
mitologica dell’antica Grecia è, invece,
“paesaggio dell’anima”, nel senso che i
suoi elementi sono “archetipi dell’inconscio collettivo”. Per questo ogni fuga dagli
dei è “vana”; essi abitano da sempre in noi
e proprio nella malattia la loro presenza
diviene evidente. La Grecia è allora la
regione della nostra “storia immaginale”:
un’espressione questa con cui Hillmann
sottolinea l’aspetto di “datità” delle figure
psichiche, degli archetipi, rispetto all’aspetto attivo del soggetto immaginante.
Quasi paradossalmente, per Hillmann la
malattia mentale ha un carattere “divino”:
basterebbe rovesciare il senso di questa
affermazione, per riconoscere alla follia
un’origine non esogena, ma radicalmente,
profondamente umana, e perciò terapizzabile.
Vana fuga dagli dei raccoglie due conferenze; esaminando tre casi clinici di paranoia, la follia paranoide, la credenza religiosa e, addirittura, la ricerca filologica,
qualora questa pretenda positivisticamente
TENDENZE E DIBATTITI
Trittico Ludovisi: Nascita di Afrodite, 470-450 circa (Roma, Museo Nazionale)
di esaurire il senso del mito, Hillmann ne
rintraccia la radice comune nella fede per la
“lettera” della manifestazione divina e nel
rifiuto della dimensione misterica. Alla “fanìa” del divino si richiede che diventi “illuminazione”, cioè che si dia con i caratteri
della totalità, univoca e universale. Il ricorso a Ermes, dio dell’interpretazione e dell’ironia, come riconoscimento della distanza fra la “lettera” della manifestazione del
divino e il suo senso, è il rimedio che
Hillmann propone, sul piano individuale,
per la follia paranoide e per le sue forme;
sul piano sociale ciò corrisponde al riconoscimento del carattere ambiguo della rivelazione, e di quello ermeneutico, non univoco, della sua comprensione.
Ciò che accomuna l’impostazione di Hans
Blumenberg a quelle di Otto e Hillmann è
il rifiuto di considerare il mito come un
comodo strumento per rivestire conoscenze razionali, una sorta di “banca iconografica”, da affiancare alle indagini dell’inteletto, o da utilizzare come decorazione di
esperienze estetiche. “Elaborazione del mito” è anzitutto, in un senso del tutto particolare, il nisus conoscitivo del mito stesso,
che per questo aspetto viene avvicinato allo
sguardo teoretico, come tentativo d’interpretazione del reale attraverso una sua “elaborazione”. Di qui la continuità e la convivenza di mythos e logos, che non significa affatto un dissolversi del primo nel secondo. Al di fuori di qualsiasi impostazione ingenuamente illuminista, come ribadisce Gianni Carchia nell’Introduzione all’opera di Blumenberg, il mito non è qui un
“accecamento della coscienza”, che precede il rischiaramento della ragione, ma un’esperienza affatto peculiare del reale, che
si pone al di là della scissione tra soggetto,
spazio e tempo, all’interno dei quali il mito
si muove, incontra gli oggetti costituiti
come tali, li conosce, li utilizza; il debito di
Blumenberg nei confronti di Heidegger è
in tal senso evidente.
Estranea all’esperienza mitica è dunque la
nozione stessa di “processo”: se la riflessione filosofica, e la sua storia, si svolgono
come un succedersi di figure, il “ragionare”
mitico “procede” per sovrapposizioni e continui “riempimenti di senso” delle situazioni che esperisce. L’impostazione teorica
blumenbergiana è stata per questo interpretata come una sorta di “metaforologia”.
Non c’è in questo, nota Carchia, alcun culto
dell’arcaico: il paradigma conoscitivo blumenberghiano è quello ermeneutico e la
produttività storica del mito passa attraverso una continua opera di risemantizzazione. Ciò d’altra parte non significa che il
mito proponga una costellazione di archetipi, con la contrapposizione tra processualità del divenire temporale e immodificabilità del divenire mitico. Blumenberg stesso, come ricorda Carchia, prende le distanze da un possibile accostamento a Otto,
chiarendo che la propria nozione di
Zeitindifferenz è tutt’altra cosa dalla
Zeitlosigkeit, con cui si vuole caratterizzare ciò che è “sovratemporale”, eterno.
Dal punto di vista dell’indagine teorica, in
effetti, il tentativo di lettura del reale condotto dal mito si qualifica come uno scacco, come logica dell’inspiegabilità; anche
qui è evidente l’influenza di Heidegger. La
“spiegazione” mitica è tanto poco una spiegazione, frutto di una “ricerca”, di un’indagine, che all’ideale conoscitivo di rendere
trasparente il proprio oggetto con l’illuminazione della ragione, il mito oppone l’oscura alterità di ciò che è originario. Per
l’indagine storica i “fatti” narrati dai miti
non possono che sprofondare nell’oblio.
TENDENZE E DIBATTITI
F. C.
Trasformazione
delle scienze dello spirito
In due libri recentemente pubblicati in
Germania viene discusso il problema
del significato filosofico, gnoseologico ed epistemologico delle ‘Geisteswissenschaften’ (scienze dello spirito). Si tratta del volume collettivo
Geisteswissenschaften heute
(Scienze dello spirito oggi, Suhrkamp,
Frankfurt a.M. 1991) e dell’opera di G.
Scholtz, Zwischen Wissenschaftsanspruch
und
Orientierungsbedürfnis. Zu
Grundlage und Wandel der
Geisteswissens-chaften (Tra esigenza di scientificità e bisogno di orientamento. Sul fondamento e sulla
trasformazione delle scienze dello spirito”, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991).
La raccolta di studi: Geisteswissenschaften
heute - che ha come sottotitolo “un memoriale” - è una sorta di bilancio conclusivo di
un progetto di ricerca sull’attuale situazione delle scienze dello spirito, realizzato
presso l’università di Costanza con lo scopo di fare il punto sulle prospettive di
ricerca nell’ambito delle scienze dello spirito dal punto di vista della storia della
scienza, dell’epistemologia e della teoria
della conoscenza. Nel suo contributo
Jürgen Mittelstrass affronta la questione
della possibilità di un sistema unitario delle
scienze, in cui anche le scienze dello spirito
troverebbero una loro collocazione. Nelle
condizioni della scienza moderna, che riconosce una pluralità di livelli di realtà e di
modelli epistemologici, il concetto di un
sistema delle scienze va inteso come un
concetto regolativo, da utilizzarsi criticamente e costruttivamente contro le tendenze delle diverse discipline alla particolarizzazione. Per definire l’ambito delle scienze
dello spirito Mittelstrass utilizza l’espressione - già neo-kantiana - di scienze della
cultura (Kulturwissenschaften): queste avrebbero per oggetto la cultura come «insieme del lavoro umano e delle forme di
vita», ”la forma culturale del mondo”, e
con ciò avrebbero la possibilità di annoverare tra i loro oggetti anche le scienze della
natura, in quanto espressione di una determinata forma culturale. Hans Robert Jauss
affronta invece il problema del ruolo delle
scienze dello spirito in rapporto al dialogo
tra le diverse discipline e allo sviluppo di
una cultura scientifica, individuando una
loro triplice funzione: interdisciplinare, integrativa e dialogica.
Wolfgang Frühwald individua la base storica di alcuni sviluppi errati dell’università
moderna nella contrapposizione, che ha
origine nel secolo XIX, tra formazione
culturale linguistico-umanistica e politecnica. A questo riguardo egli considera le
scienze dello spirito come «scienze formatrici, produttrici di illuminismo (aufklärende), che agiscono come una barriera contro
le tendenze del nostro tempo alla rimitizzazione e come elemento integrale
della riflessione della scienza su se stessa».
Per quanto riguarda l’antico problema del
rapporto tra scienze della natura e dello
spirito, Reinhart Koselleck prende spunto dal fatto che nella prassi della ricerca i
confini tra questi due gruppi di scienze
vengono costantemente trasgrediti. Da un
lato vengono messe in luce le specializzazioni metodiche delle scienze, che rinviano a comunanze teoretiche di fondo, senza
le quali non sarebbero possibili i progressi
negli ambiti particolari della ricerca; dall’altro vengono delineate le trasformazioni
del concetto di “spirito” (Geist) dall’epoca
dell’idealismo tedesco fino all’attuale epoca scientifica. Le scienze dello spirito riducono il concetto di Geist, tramite un processo iniziato con la filosofia neo-kantiana,
ad un ambito di operazioni soggettive della
conoscenza; tuttavia in questo processo
non si perdono le esigenze di unità sistematica che nel concetto di Geist erano implicite, in quanto ad esso subentrano altri
concetti, come ad esempio quelli di “vita”
e di “cultura”.
Infine Burkhart Steinwachs si chiede fino a che punto le trasformazioni del mondo
della comunicazione attraverso i mass-media coinvolgano le scienze dello spirito,
individuando al proposito tre punti centrali: i media diventano mezzi di comunicazione e di trasmissione del sapere delle
scienze dello spirito; trasformano il ruolo
dei mezzi tradizionali di trasmissione del
sapere e con ciò modificano il rapporto
delle scienze umane con la dimensione
pubblica; offrono alla ricerca di queste
scienze nuovi ambiti oggettuali.
Alcune delle tematiche discusse in
Geisteswissenschaften heute ritornano nell’opera di Gunter Scholtz, come ad esempio il rapporto delle scienze dello spirito
con la tradizione della filosofia classica
tedesca (in particolare con la riflessione
estetica dell’idealismo e con pensatori come Herder e Schopenhauer) ed il problema
di una definizione delle Geisteswissenschaften in relazione alle scienze della
natura, da una parte, alle Kultur- e
Sozialwissenschaften (scienze sociali e della cultura), dall’altra. Il punto di partenza
degli studi raccolti da Scholtz in questo
volume è la discussione riapertasi recentemente - sia nell’ambito dell’ermeneutica e
del pensiero post-moderno, sia in quello
delle filosofie di matrice analitica - sulla
funzione e sul ruolo delle scienze dello
spirito nell’ambito del sapere umano. Il
tentativo di Scholtz è di sottrarsi agli esiti
negativi dello scetticismo per quanto riguarda sia le possibilità conoscitive delle
scienze della natura, sia il carattere di scientificità delle scienze dello spirito.
Particolare attenzione è dedicata da Scholtz
alla determinazione del concetto di
Geisteswissenschaften, che coincide qui
con la determinazione dell’ambito e del
compito di quelle che egli chiama anche
Nichtnaturwissenschaften (non-scienze
della natura): un problema questo che conduce alla discussione del rapporto di queste
scienze con l’ambito della prassi sociale.
Già Wilhelm Dilthey, che fu il primo a
conferire al termine Geisteswissenschaften
un significato sistematico (anche se l’espressione compare per la prima volta nella
traduzione tedesca del System of logic di
John Stuart Mill, per designare le “scienze
morali”), sottolineava, nella sua Introduzione alle scienze dello spirito del 1883, il
significato delle scienze dell’uomo e della
storia per la prassi sociale. A questo riguardo Scholtz individua due tradizioni opposte: la prima pone l’accento sul significato
etico e pratico di queste scienze
(Schleiermacher, Gervinus, Troeltsch, J. S.
Mill, Comte); la seconda le considera come
scienze empiriche, strutturali o nomologiche della natura umana e della società. In
entrambe le concezioni si ha per Scholtz
una considerazione unilaterale dell’ambito
e della funzione delle scienze dello spirito.
E’ solo nel riconoscimento e nell’accettazione della tensione tra esigenza di scientificità e bisogno di un orientamento nella
prassi vitale che risiede la natura più specifica di queste scienze. Attraverso questo
riconoscimento si potranno evitare, secondo Scholtz, due opposti errori: quello per
cui le scienze dello spirito diventano semplici “dottrine morali”, produttrici di “visioni del mondo” e di “ideologia”, e quello
che le riduce ad un “positivismo privo di
spirito”. M.M.
TENDENZE E DIBATTITI
Pieter Bruegel, La Torre di Babele (1564)
PROSPETTIVE DI RICERCA
PROSPETTIVE DI RICERCA
Diverse lingue
Prima traduzione italiana di un testo a
cui la cultura occidentale degli ultimi
centocinquanta anni ha ampiamento
attinto, l’opera di Wilhelm vom
Humboldt, La diversità delle lingue (a cura di Donatella Di Cesare,
premessa di Tullio De Mauro, Laterza,
Roma-Bari 1991), che segna l’inizio della moderna filosofia del linguaggio.
L’opera di Maurice Olender, Le lingue del paradiso (Il Mulino, Bologna 1991) è invece una ricostruzione
critica della storia della linguistica “antropologica”, di quella, cioè, che partendo dalla diversità delle lingue muove a cercarne la radice nelle diversità
religiose e culturali prima, razziali poi.
Filosofo, non meno che linguista, Wilhelm
von Humboldt ne La diversità delle lingue, uscita postuma nel 1836, indaga le
radici antropologiche della varietà linguistica, considerata nella sua dimensione storica. Linguista, non meno che filosofo, come ricorda Tullio De Mauro, Humboldt
compone il suo quadro d’insieme elaborando il patrimonio tecnico di nozioni linguistiche, accumulate da lui stesso e dai suoi
contemporanei. Se l’analisi dei concreti
fatti linguistici, soprattutto nei loro aspetti
fonetici, occupa buona parte di questo lavoro, emerge però di continuo il vero obiettivo di Humboldt, che è anzitutto filosofico:
dar conto della formazione del pensiero, o
meglio, della differenza fra i modi di pensare e di vivere. Come sottolinea Donatella
Di Cesare nell’Introduzione al testo, proprio al tentativo di essere sintesi di filosofia
e ricerca linguistica empirica va ricondotta
l’”inattualità” della prospettiva humboldtiana: accantonata dalla linguistica comparata, che sul modello delle scienze esatte
tende a porsi come scienza del linguaggio,
l’indagine di Humboldt si configura piuttosto come un’ermeneutica del linguaggio.
Humboldt individua due possibili livelli di
analisi del fenomeno linguistico, corrispondenti ai suoi due principi costitutivi: «la
forma fonica e l’uso che ne viene fatto per
designare gli oggetti e per connettere i
pensieri». Il principio designativo riguarda
le leggi generali che il pensiero impone al
linguaggio; la forma fonica, invece, «è il
vero principio costitutivo e direttivo della
diversità delle lingue». Il divaricarsi storico e geografico delle varie culture non ha
dunque una radice esclusivamente linguistica, ma più propriamente mentale; in
secondo luogo la lingua ha un’influenza
diretta sul pensiero, non unicamente il contrario. La dimensione storica della ricerca
humboldtiana consegue dalla definizione
del linguaggio che in essa viene data: la
lingua non è un’opera (ergon), ma un’attività (enérgheia). Nella prospettiva di
Humboldt il carattere cinetico del divenire
delle lingue si salda con il divenire dello
spirito in un senso tanto specificatamente
intellettuale - il pensiero si forma nel e con
il linguaggio - quanto, in senso più lato,
antropologico: l’essere del linguaggio è il
divenire dello spirito, che si particolarizza
e si individualizza nelle singole culture
storiche. Humboldt ha esplicitamente rifiutato, a questo proposito, una gerarchia
fra le culture e fra i popoli in funzione di
una gerarchia fra le lingue, ma ha ipotizzato una distinzione fra le lingue stesse in
base al loro maggiore o minore grado di
avvicinamento alla “forma legale”, ovvero
in base alla loro maggiore o minore capacità di raggiungere il proprio “scopo ultimo”, lo sviluppo dello spirito.
Da una medesima identificazione tra spirito e linguaggio la linguistica ottocentesca
muoveva di fatto i passi necessari verso
l’individuazione di una contrapposizione
non linguistica, ma spirituale e antropologica, tra Ariano ed Ebreo: questa la “coppia
provvidenziale” che Maurice Olender affronta nella sua opera: Le lingue del paradiso. L’opposizione tra le due figure non
rimanda, come nota Jean-Pierre Vernant
nell’Introduzione al testo, a un equilibrio
per cui l’Ebreo avrebbe dalla sua il monoteismo, ma sarebbe una figura statica, puramente autoconservativa, chiusa al progresso spirituale e ai valori della cristianità, mentre l’Ariano, al contrario, sarebbe
una figura storica, dinamica, creativa, e
proprio perciò progressiva.
Muovendo dalla questione di quali fossero
le “lingue del Paradiso” - così suonava il
titolo di un’opera secentesca di Andreas
Kempe - Olender ricostruisce una storia e
una preistoria della linguistica prima del
suo attuale statuto, quando essa, ancora
prima di Humboldt, si collocava tra
“mythos” e “logos”, tra filologia e mitologia. La dimensione dinamica, ovvero storica, costituisce il momento di continuità
fra l’impostazione humboldtiana e le ricerche prese in esame da Olender, e si sviluppa attraverso due riferimenti, il “mito delle
origini” e l’idea di una teodicea, cioè di una
Provvidenza operante nella storia, che giustifica l’idea di progresso. Il “mito delle
origini” determina l’indirizzo delle ricerche in due momenti successivi: la questione della “lingua del Paradiso” prima, e
quella dell’origine delle lingue indoeuropee poi. Elemento di continuità fra i due
momenti è d’altronde la dimensione antropologica, in cui la ricerca filologica viene
collocata dal “mito delle origini”, dimensione ancora più evidente laddove più marcato, nel secondo momento, è l’incrocio
con le tematiche religiose. Quando infatti
si incomincia a pensare a una lingua diversa dall’ebraico come “lingua dell’origine”, quando si costituisce la “coppia provvidenziale” di ebraico e sanscrito - quella
lingua che pure Humboldt considerava come la più vicina alla sua forma legale,
ovvero la più adeguata al suo scopo ultimo,
la manifestazione e il progresso dello spirito -, di cultura semita e cultura ariana, ciò
avviene in considerazione dell’uno e dell’altro termine della coppia nel loro ruolo
di matrici, l’una religiosa, l’altra culturale,
del cristianesimo. E’ a questo punto che si
fa luce l’idea di un progresso che rimanda
alla teodicea e si costituisce come dualità
ideologica il già ricordato dualismo fra una
presunta caratterizzazione statica della cultura giudaica - che troverebbe riscontro
nella lingua - e una caratterizzazione creativa di quella ariana. Gottfried Herder è
una figura esemplare di questo momento
di trapasso: l’idea di progresso si fonda in
lui su quella di Provvidenza e si coniuga
con quella dell’unità del genere umano,
che si realizza nella storia come affermazione progressiva degli ideali della cristianità. Anche in lui si ritrova l’ambivalenza
fondamentale riscontrata in Humboldt: se
«capire l’umanità diventa l’arte di scoprire
l’ordine divino inscritto nella Bibbia» afferma Olender - allora «al limitare del
suo cristianesimo il pluralismo culturale di
Herder si trasforma in una storia delle
religioni che non fa mistero delle sue priorità».
PROSPETTIVE DI RICERCA
Come in molte delle figure prese in considerazione da Olender il rifiuto di un uso
“razzista” della nozione di “razza” e di
antisemitismo va di pari passo con valutazioni negative, seppur limitatamente a talune razze “in quanto tali” e alla “cultura
giudaica”. L’ultima parola, quella più importante e più coerente dal punto di vista
teoretico, finisce per essere non l’opposizione, pure apertamente professata, a ogni
forma di classificazione e discriminazione
razziale, ma la gerarchia dei valori che
nella filosofia della storia si accompagna e
fonda le scelte lato sensu ideologiche.
Humboldt ed Herder sono per questo problema cruciale figure paradigmatiche. L’atto valutativo connesso a una qualunque
filosofia della storia si scontra con la necessità di considerare anzitutto iuxta propria
principia le singole culture storiche, e poi
di considerarle effettivamente in quanto
tali, cioè nella loro determinazione storica,
in modo il più possibile scevro da ipoteche
ideologiche. Come osserva Jacques Le
Goff, in un’ampia recensione del testo di
Olender, si potrebbe pensare alla storia
come antidoto a questa filologia culturale
a-storica e ideologica, infiltrata dal razzismo. A prescindere però dal fatto che,
come ammette Le Goff stesso, la storia
stessa non è certo stata esente da manipola-
zioni, e il dibattito sul suo statuto epistemologico è quantomai aperto, occorre chiedersi fino a che punto, fatta la scelta di
elaborare non una ricostruzione di tipo
etnologico, ma una filosofia della storia
che si fonda necessariamente su un’assiologia, non sia una scelta altrettanto “ideologica” quella di considerare iuxta propria
principia ciascuna cultura storica, piuttosto che inserirla in un processo in cui essa
è solo “momento”. F.C.
Maimonide e la cabala
L’opera di Mosheh ben Maimôn, più
noto con il nome di Mosè Maimonide,
è al centro delle interessanti analisi di
due studiosi francesi: Moshe Idel, autore di Maimonide et la mystique
juive (Maimonide e la mistica ebraica, Cerf, Parigi 1991), e Jean Robelin
con il suo Maimonide et le langage
religieux (Maimonide e il linguaggio religioso, PUF, Parigi 1991).
Mosè Maimonide è senz’altro una delle
figure di primo piano nella storia della
cultura ebraica. La sua opera di rinnovamento della tradizione filosofica cabalisti-
ca trova la sua espressione più significativa
nella Guida dei perplessi (1170), testo complesso e di ricchissima erudizione, dove
sono sintetizzate le diverse matrici culturali della filosofia maimonidea: la tradizione
ebraica, quella araba e quella di ascendenza
aristotelica. Proprio nel solco dell’aristotelismo procede il discorso del filosofo di
Cordoba che intende interpretare la rivelazione religiosa attraverso una rigorosa dimostrazione filosofica.
Il programma dottrinale di Maimonide, proprio per il suo carattere razionale, era stato
violentemente osteggiato da alcuni autorevoli rappresentanti della tradizione mistica
e condannato come estraneo allo spirito
autentico dell’ebraismo. Nella concezione
di questi cabalisti, per i quali l’intuizione
mistica rimaneva la sorgente unica ed autentica di tutto il pensiero religioso ebraico,
il concetto e lo stesso procedimento razionale venivano stimati quali pallide rappresentazioni metaforiche delle verità contenute negli arcani della cabala. In questo
quadro, come rivela Moshe Idel, c’è chi,
attraverso un complicato lavoro esegetico,
tenta invece di inscrivere l’opera di
Maimonide all’interno della tradizione esoterica ebraica. Ciò che veniva messo in
evidenza da certi cabalisti meno legati all’ortodossia, era un certo esoterismo della
formulazione del discorso filosofico di
Maimonide, che rimane tuttavia di natura
razionalista. Idel segue lo svolgersi di questa disputa dottrinaria attorno all’opera di
Maimonide, che verrà tradotta in latino col
titolo di Ductor perplexorum (Guida dei
perplessi) e mette in evidenza come, grazie
al confronto su questo testo fondamentale,
il pensiero ebraico si apre al colloquio con
la cultura araba e con la filosofia scolastica.
Lo studio di Jean Robelin prende invece in
esame il progetto filosofico che sottende
l’opera di Maimonide. Il primo passo di
questa analisi è costituito dalla definizione
di uno specifico linguaggio religioso.
Robelin mostra poi come la razionalità
religiosa costituisca il terreno di crescita
del razionalismo maimonideo. Il saggio si
conclude con una limpida analisi che prende in esame le apparenti contrazioni in seno
al corpo dottrinario della religione ebraica,
evidenziando come, per Maimonide, la
Legge oscilli tra Storia ed Eternità. E.N.
Una storia dello Strutturalismo
La biografia critica di quello che è stato il riferimento metodologico e culturale di un decennio, i contestati anni
Sessanta, viene pubblicata in Francia
a cura di François Dosse col titolo:
Histoire du Structuralisme, (Storia dello Strutturalismo, tomo I,
Editions de la Découverte, Parigi 1991).
Marc Chagall, I cancelli del cimitero, (1917)
Le matrici del metodo strutturalista sono da
ricercarsi nella linguistica di Ferdinand
de Saussure. Nel suo Corso di linguistica
PROSPETTIVE DI RICERCA
generale (1913) lo studioso svizzero aveva
osservato come il linguaggio funzioni secondo proprie ed autonome regole, mettendo in rilievo che il significato delle parole
non viene soddisfatto dalla pura funzione
definitoria delle stesse. Soltanto attraverso
uno studio di carattere scientifico, che stabilisca le strutture del linguaggio, si può
raggiungere quello che nel linguaggio è
solamente evocato. «Non esiste struttura
che non sia linguaggio, sia pure un linguaggio esoterico o non verbale» - scriverà
Gilles Deleuze nel 1972.
Questa struttura linguistica fondamentale
sarà cercata da Claude Lévi-Strauss nell’ambito del mito, Jacques Lacan cercherà di definirla per quanto riguarda la psicoanalisi, Louis Althusser proverà a rinnovare il pensiero marxista attraverso il
ricorso al concetto di struttura. Roland
Barthes infine ne farà l’utensile critico
fondamentale della sua analisi della letteratura. Sono questi - nel libro di François
Dosse - i “quattro moschettieri” che, a metà
degli anni Sessanta, irradiano a colpi di
polemiche, ma soprattutto di scritti, il discorso strutturalista.
D’impronta tipicamente francese, tanto da
essere registrato come “French Criticism”
nel mondo anglo-sassone, lo Strutturalismo si presenta come un programma di
rinnovamento delle scienze umane, un metodo per sua natura indifferente agli ambiti
di applicazione. La definizione più sintetica e aperta ci viene da Michel Serres:
«Una struttura è un insieme operazionale a
significazione indefinita, che raggruppa un
numero qualsiasi di elementi di cui non
viene specificato il contenuto, e di relazioni, in numero finito, senza specificarne la
natura, ma di cui si definisce la funzione».
Anche Dosse mette in rilievo la dimensione epistemologica del metodo strutturalista, rimarcando tuttavia il carattere ideologico che esso è venuto col tempo ad assumere. Forti del riconoscimento di un metodo che si voleva scientifico e che aveva
scalzato la tradizione filosofica a vantaggio delle scienze umane, non pochi strutturalisti si sono lanciati nel progetto di una
«scienza unitaria» che rendesse conto dell’intero universo umano. Sarebbe questo,
secondo Dosse, il programma comune di
una generazione di intellettuali: un progetto epistemologico globale che nascondeva
un’ideologia antiumanistica di fondo, di
cui è interprete conseguente Michel
Foucault che, in Le parole e le cose, scrive:
«non si può più pensare se non nel vuoto
dell’uomo scomparso».
Il primo volume della storia dello strutturalismo di Dosse si presenta così come un
atto critico, che denuncia a sua volta un
proprio progetto culturale: «Mettere in evidenza gli empasses dello Strutturalismo
non deve significare una regressione all’età d’oro dei Lumi, ma al contrario un superamento verso un avvenire, quello della
costituzione di un umanesimo storico». Non
resta che attendere il secondo volume, annunciato per la primavera del’ 92. E.N.
Husserl
Edmund Husserl é stato un filosofo
estremamente prolifico e versatile, e
proprio per la vastità dei temi trattati
chiunque cerchi di proporre una valutazione comprensiva del suo lavoro si
trova di fronte ad un compito assai
arduo. Questo non sembra però spaventare David Bell, che nella sua monografia: Husserl (Routledge, London
1990), muove da una brillante esposizione di uno dei primi lavori di Husserl,
ormai quasi dimenticato, Filosofia
dell’aritmetica (1891), procedendo poi, in modo illuminante, attraverso le difficili e frammentarie Ricerche logiche (1901). Ma quando si
tratta di prendere in esame la riduzione fenomenologica introdotta da
Husserl in Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia
fenomenologica (1913), sembra che
Bell non riesca a cogliere il potere e la
coerenza della matura posizione husserliana, né a capire la sua vulnerabilità rispetto alla critica elaborata da
Heidegger.
David Bell mette in evidenza come, dopo
aver studiato filosofia a Vienna con
Brentano, Edmund Husserl ne accetti il
progetto di base, consistente nel fondare
l’apparente certezza e universalità delle
teorie astratte nella particolarità e incertezza dell’esperienza quotidiana. E’ quanto
emerge dal tentativo husserliano di applicare l’approccio genetico-psicologico di
Brentano alla fondazione della matematica
in Filosofia dell’aritmetica. Nonostante
Husserl non si ritenesse soddisfatto di questo suo lavoro, Bell fornisce una brillante
difesa del proposito fondamentale del filosofo di considerare i concetti matematici
come derivati da esperienze quotidiane. In
questo Bell riconosce in Husserl l’atteggiamento proprio di un solipsista metodologico, secondo il quale la costituzione effettiva del mondo non implica alcuna differenza per gli stati mentali. D’altra parte un
metodo di indagine che non si richiami ad
altro che alla vita mentale individuale del
soggetto, non costringe a negare, osserva
Bell, che esistano delle entità oggettive.
Un’altra concezione fondamentale che
Husserl trae da Brentano è l’idea di “intenzionalità”, secondo cui la mente è essenzialmente caratterizzata dal suo “dirigersi”
verso qualcosa. Questa spiegazione relazionale della mente fa tuttavia sorgere il
problema della caratterizzazione di un oggetto non esistente (è noto l’esempio dell’unicorno), che rientra però nell’insieme
di oggetti verso cui il pensiero può diriger-
Edmund Husserl
PROSPETTIVE DI RICERCA
si. Nelle Ricerche logiche Husserl avanza a
questo proposito una soluzione a questo
problema; egli infatti pur continuando a
considerare l’intenzionalità come distintivo mentale, corregge la confusa nozione di
oggetto intenzionale con la nozione di contenuto intenzionale, inteso come ciò che
dirige la mente verso un oggetto più o meno
esistente. A questo proposito Bell propone
tuttavia un’interpretazione prettamente psicologica delle Ricerche, che mette in pericolo la sua stessa difesa degli argomenti
husserliani contro quelli sollevati da Frege.
Anche l’interpretazione di Bell del rapporto che lega le Ricerche alle Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia
fenomenologica è completamente differente
da quella tradizionale e sembra effettivamente conseguenza di una posizione erronea. In effetti Bell non vede, nelle problematiche affrontate dai due testi, una continuità capace di dar conto dello sviluppo
fenomenologico di Husserl verso un’analisi universale della coscienza. Ciò conduce
Bell a confondere la riduzione trascendentale con ciò che Husserl chiama la “neutralizzazione”, o la limitazione della riflessione che coglie la nostra esperienza del mondo, quando non prendiamo una decisione
sulla sua attualità o inattualità. Da questo
fraintendimento segue anche l’incapacità
di Bell di considerare adeguatamente la
critica heideggeriana alle posizioni di
Husserl, che dal punto di vista dell’agire
quotidiano metteva in discussione che la
mente fosse separabile dal mondo e diretta
verso di esso esclusivamente attraverso il
suo contenuto intenzionale. Una serie di
fraintendimenti questi che, complice molto
probabilmente il pragmatismo proprio della cultura anglo-americana, si ripercuotono
nel giudizio conclusivo di Bell sull’opera
di Husserl, la cui importanza risiederebbe
nel fatto che la fenomenologia induce il
filosofo ad abbandonare la filosofia trascendentale a favore della priorità della
pratica quotidiana. V.R.
La ripetizione di Kierkegaard
Il 16 ottobre 1843 usciva nelle librerie
di Copenhagen, ad opera di un certo
Constantin Constantius, un singolare
racconto a sfondo psicologico dal titolo: Gjentagelsen (La ripetizione).
Quello stesso giorno veniva pubblicata un’altra opera del medesimo autore, Frygt og Baeven ,(Timore e
tremore). La notorietà di quest’ultima
svela il nome dell’autore che si nasconde sotto lo pseudonimo: si tratta
di Sören Kierkegaard. Con il titolo: La
ripetizione. Un esperimento psicologico (a cura di Dario Borso,
Guerini e Associati, Milano 1991) è
oggi disponibile in traduzione italiana
la prima edizione critica di questo scritto pseudonimo di Kierkegaard.
“Libro bizzarro”, come lo definì lo stesso
Sören Kierkegaard, La ripetizione tocca
in verità alcuni nodi fondamentali della
riflessione del pensatore danese, paludati
sotto le spoglie del resoconto di un innamoramento di un fidanzamento e del definitivo abbandono da parte della ragazza. Il
manoscritto kierkegaardiano, con le parti
espunte, lascia intravedere, in modo ancora
più esplicito di quanto non faccia il testo
pubblicato, la presenza della vicenda personale di Kierkegaard, il fidanzamento e la
rottura con Regine Olsen. Non questo però
è l’interesse di questo conte philosophique,
che nella sua forma letteraria dichiara il
proprio intento, quello di rovesciare la metafisica. “Rovesciamento” in senso letterale, perché nello scontro dialettico fra particolare (l’”eccezione”) e universale, è il
primo che viene privilegiato dal punto di
vista teoretico da Kierkegaard. Quella di
Kierkegaard vuole essere qui una confutazione “non filosofica” della metafisica, attuata cioè senza seguire i modi argomentativi ad essa propri, e soprattutto senza seguire quelli dell’aborrita dialettica hegeliana in voga nella Danimarca dell’epoca. Il
metodo “psicologico”, prospettiva cui fa
riferimento il sottotitolo dell’opera, è dunque lo strumento con cui Kierkegaard vuole smascherare l’apparente sicurezza della
metafisica e la fiducia che essa ripone nell’argomentazione razionale.
Per confortare le proprie confutazioni della
metafisica, Kierkegaard chiama in causa
Diogene, quel Diogene che con la semplice
azione del camminare confutò le argomentazioni degli Eleati contro il movimento.
Aneddoto scelto non casualmente, nota
Dario Borso, in quanto ripreso a bella
posta da Hegel, che aveva irriso alla “confutazione” di Diogene, misconoscendone
il carattere peculiare rispetto a quello di una
qualsiasi argomentazione di stampo metafisico. Si badi bene però: proprio per la sua
irriducibilità a un’argomentazione prettamente filosofica, la nozione kierkegaardiana
di ripetizione non vuole affatto porsi come
una soluzione della diatriba fra Parmenide
ed Eraclito. Se l’idea di repetere è incompatibile con la fissità e l’immutabilità dell’Essere, lo è in misura ancor maggiore con
l’idea di divenire.
Eppure la nozione di ripetizione vuole proprio essere una soluzione, anche se non
esclusivamente teorica, del rapporto ontologico fra l’eternità dell’Essere e la caducità del divenire, vuol fondare un atteggiamento che tenga conto dell’irrompere della
dimensione dell’eterno in quella della temporalità della storia. La ripetizione si rivela
in tal senso una categoria esistenziale che
Kierkegaard utilizza per richiamare anche
in questo scritto la propria celebre tripartizione tra vita estetica, vita morale e vita
religiosa, anche se con un certo spostamento di accenti. Il giovane al quale Constantin
Costantius si rivolge è un poeta, ma questi
non è affatto una pura e semplice esemplificazione di “vita estetica”, quella che si
esaurisce nel godimento dell’attimo, sem-
pre fuggente e, per definizione, irripetibile.
Nel suo farsi disponibile alla ripetizione, al
matrimonio, nel suo rinunciare all’eccezionalità fine a se stessa, il poeta arriva
quasi a essere figura della vita morale.
Questo perché egli ha in sé, pur senza
impadronirsene nella piena consapevolezza, un fondo religioso che è «come un
segreto che non sa spiegare, mentre questo
segreto lo aiuta a spiegare poeticamente la
realtà». Se di questo animo religioso il
giovane fosse stato consapevole, non avrebbe certo potuto evitare la sofferenza
procuratagli dalla vicenda; anzi essa sarebbe stata ancora più acuta, Ma egli avrebbe
saputo con “logica ferrea” andare incontro
allo scandalo e al grottesco che le sue
azioni, comandate da un’autorità sovrumana, gli avrebbero procurato: «avrebbe esaurito religiosamente tutti gli errori deducibili da quella vicenda», comprendendo
però se stesso dal principio alla fine, «con
religioso timore e tremore, ma pure con
fede e fiducia». F.C.
Ripensando Kant e altri filosofi
Nell’ambito dell’interesse della filosofia anglosassone per i problemi inerenti alla teorizzazione di un modello
per la mente nel contesto di una teoria
della conoscenza, si può notare la tendenza ad un riesame del pensiero di
grandi filosofi appartenenti a quella
che é stata definita la moderna filosofia continentale, con l’intento di porre
in relazione le soluzioni da loro proposte con quelle perseguite oggigiorno.
Le reinterpretazioni del pensiero
kantiano proposte da Patricia Kitcher
in K a n t ’ s
trascendental
psychology (La psicologia trascendentale di Kant, Oxford University
Press, Oxford 1990) e da Wayne
Waxman in Kant’s model of the
mind a new interpretation of
trascendental idealism (Il modello della mente di Kant: una nuova
interpretazione dell’idealismo trascendentale, Oxford University Press,
Oxford 1991) hanno senso se inserite
all’interno di questa tendenza interpretativa. Lo stesso accade con lo studio di David Pears, Hume’s system:
an examination of the First
Book of his ‘Treatise’ (Il sistema
di Hume: un esame del primo libro del
suo ‘Trattato’, Oxford University Press,
Oxford 1991), in cui viene riproposta
una rilettura di Hume e della sua teoria
della conoscenza.
Come è noto Kant non ha rispettato la
distinzione tra filosofia e psicologia. Egli
infatti ha affermato sia che l’esperienza
dell’auto-coscienza per essere possibile deve possedere il carattere proprio dell’esperienza di oggetti, sia che è l’immaginazione, guidata dai concetti degli oggetti, che
PROSPETTIVE DI RICERCA
possiede la capacità di unificare il dato
sensibile e cosí di produrre rappresentazioni. Quest’ultimo aspetto della filosofia di
Kant viene considerato da molti come un
futile tentativo per determinare questioni
empiriche tramite la riflessione filosofica.
Di questo avviso non è Patricia Kitcher,
che cerca di riabilitare proprio ciò che é
stato definito “il soggetto immaginario della psicologia trascendentale”. La psicologia trascendentale in tal senso analizzerebbe i compiti della conoscenza per determinare una specificazione globale di una mente
capace di adempiere a questi compiti. A
questo proposito Kitcher arriva a definire
l’immaginazione come ciò che possiede le
regole per sintetizzare gli stati cognitivi,
facendo sorgere però il sospetto che la
psicologia trascendentale non possa subire
tale metamorfosi, senza cadere in una semplice psicologia empirica. Ciò che Kant ha
messo in chiaro non è come si formano le
rappresentazioni di oggetti, ma che cosa si
deve intendere per percezione per ottenere
un comportamento oggettivo, quale è necessario per l’autocoscienza. Questo forse
é il suo maggior contributo alla psicologia
trascendentale. Un contributo che Kant stesso ha considerato più importante della sua
analisi delle facoltà cognitive, e che tuttavia non fa parte della versione della psicologia trascendentale, a cui hanno mosso
obiezioni i commentatori della tradizione
analitica.
Come Kitcher, anche Wayne Waxman
dichiara che per Kant il concetto di immaginazione è un ingrediente necessario della
percezione; ma egli mette in relazione questa affermazione con l’idealismo trascendentale kantiano: il pensare lo spazio e il
tempo come cose in sé. Anche se si può
sostenere che la rappresentazione di oggetti si ottiene con l’immaginazione senza
l’implicazione dei grezzi dati sensibili, è
naturale supporre che le stesse impressioni
sensibili si presentano in un determinato
ordine temporale, indipendentemente dall’attività dell’immaginazione. Secondo
Waxman, considerare le relazioni temporali a livello di dati non sintetizzati dai sensi
come realtà sopra(meta)-immaginazionali
non è consonante con l’idealismo trascendentale. Per Kant i dati attuali dei sensi, che
giacciono oltre la soglia della coscienza,
sono materia primaria assolutamente informe. Tutte le relazioni temporali, anche
quelle esistenti tra sensazioni di cui noi
siamo consci, sono prodotte dall’immaginazione. Il che tuttavia implicherebbe, in
modo difficilmente plausibile, l’idea di una
immaginazione che impone forme temporali a dati intrinsecamente atemporali.
Nella sua interpretazione del pensiero humiano David Pears si pone in linea con la
tendenza, già perseguita da John Wright in
Sceptical realism (1983) e da Galen
Strawson in The secret connexion (1989), a
fornire un’interpretazione del concetto di
causalità di Hume in contrasto con quella
tradizionale, considerata riduzionistica, secondo cui la causazione non é nient’altro
che una regolare sequenza di eventi congiunti, e ogni altra nozione di “potere” o
“forza” causale, unita all’idea di un’unione
necessaria tra causa ed effetto, non sono
altro che chimere. Questa spiegazione riduzionistica non coglie per Pears lo spirito
centrale della filosofia scettica di Hume,
che afferma l’esistenza di una forza reale
propria della natura, la quale non risulta
direttamente accessibile ai nostri sensi.
Pears inoltre afferma che Hume non può
essere considerato un mero riduzionista,
perché altrimenti risulterebbe difficile spiegare la sua continua insistenza sulla nostra
ignoranza dei principi ultimi, che per essere ignorati, devono evidentemente esistere.
Il radicale riduzionismo applicato a Hume,
osserva Pears, non tien conto del grande
balzo che egli compie nel passare dalla sua
teoria del significato alla teoria della credenza. A questo proposito Pears presenta
Hume come un proto-wittgensteiniano.
Come Wittgenstein neutralizza la domanda sulla legittimità delle nostre inferenze
logiche e matematiche, appellandosi alla
struttura della pratica naturalmente adottata dagli individui, cosí Hume nella sua
analisi dell’ambiguità della causalità insiste sulla futilità della continua ricerca di
giustificazioni oggettive e razionali per le
nostre credenze. L’interpretazione che Pears
propone di Hume ha molto da dire a coloro
che sono impegnati in quello che oggi è
forse il problema centrale della teoria della
conoscenza, il problema della frattura tra
ciò che noi siamo naturalmente disposti a
credere e ciò che possiamo legittimamente
credere. Se l’interpretazione di Pears è giusta, Hume può rappresentare per noi una
via intermedia tra il pallido scetticismo e il
riduzionismo dogmatico. V.R.
l granaio di Montesquieu
L’edizione critica delle Pensées di
Montesquieu, a cura di Louis
Desgraves, è oggi disponibile nelle librerie francesi: Pensées suivies du
Spicilège (Pensieri, seguiti dallo
spicilegio, Laffont, Parigi 1991). Le note, gli umori, le considerazioni a margine della sua attività di saggista, come pure aforismi, note di viaggio e di
spesa, sono scrupolosamente raccolti
nei quaderni, che costituiscono una
sorta di archivio di materiali, utilizzato
da Montesquieu per la redazione delle
Lettres Persanes e dell’Esprit
des Lois.
«Pensieri sparsi che non ho inserito nelle
mie opere, idee che non ho approfondito e
che conservo per ripensarvi all’occasione»
- così commentava l’autore - tutto questo
costituisce lo “spicilegio” (letteralmente:
antologia scelta di scritti o, in una più
suggestiva accezione, raccolta di messi prima della spigolatura) di Charles-Louis de
Montesquieu. Originariamente non desti-
nati alla pubblicazione, i tre volumi delle
Pensées e lo spicilegio furono redatti a
intervalli irregolari tra il 1720 e il 1755,
anno della morte del filosofo. Per lo specialista essi rappresentano il vasto cantiere
intellettuale che porterà all’edificio complesso dell’Esprit des Lois (Spirito delle
leggi, 1748); storia, economia, geografia,
religione e antropologia, tutti i temi maggiori di Montesquieu sono abbozzati con
decisione, e spesso si condensano in aforismi dalla forma definitiva. Nelle tante considerazioni sui costumi umani, si rende
evidente una vena moralistica che apparenta Montesquieu ai grandi, La Rochefoucauld
e Vauvenargues, ma il tono rimane sereno,
divertito, ironico, anche quando può sembrare feroce, come si può rilevare da questa
considerazione: «Senza la sifilide le signore per bene sarebbero perdute: tutti andrebbero con le cortigiane. E’ dunque la sifilide
a produrre la galanteria». O ancora: «Ciò
che manca agli oratori in profondità, essi ve
lo restituiscono in lungaggine». Lo studioso dei costumi e il moralista si incontrano
in queste brevi note, ne uscirà quel capolavoro di leggerezza e di ironia rappresentato
dalle Lettres Persanes (Lettere persiane,
1721). E.N.
Wittgenstein: una biografia
e un romanzo
E’ solo da un paio di anni che l’opera e
il pensiero di Ludwig Wittgenstein sono stati introdotti in Francia, principalmente attraverso il magistero di
Jacques Bouveresse. L’interesse per
la figura intellettuale ed umana di uno
dei più originali ed eclettici pensatori
della Vienna finis Austriae si specchia
nel successo che sta riscuotendo la
recente traduzione francese di due opere appartenenti alla cultura anglosassone: la biografia di Wittgenstein
curata da Brian Mac Guinness,
Wittgenstein. Les années de
jeunesse, (Wittgenstein. Gli anni
della giovinezza, trad. franc. di W.
Tennenbaum, Tomo I, Seuil, Parigi
1991) e il romanzo dell’americano
Bruce Duffy, (Le monde tel que je
l’ai trouvé), Il mondo come l’ho
trovato, trad. franc., di Christophe
Marchande - Kiss, Flammarion, Parigi
1991), liberamente ispirato al personaggio di Wittgenstein.
La ricostruzione biografica di Brian Mac
Guinness è accurata e precisa nel presentare la vicenda esistenziale del filosofo viennese, dagli anni dell’infanzia fino alla stesura del Tractatus logico-philosophicus
(1913-1918). Uno dei meriti dell’autore è
quello di aver potuto lavorare su materiali
finora inediti (i diari e le corrispondenze di
Wittgenstein), che gli hanno permesso di
aprire nuove prospettive d’interpretazione
non solo per quanto riguarda la complessa
PROSPETTIVE DI RICERCA
personalità del filosofo, ma anche la sua
formazione intellettuale.
L’infanzia di Ludwig Wittgenstein, nato
in una famiglia della ricca borghesia viennese, è dominata dalla figura del padre
Karl, uomo di ricca cultura e dalla personalità intransigente. Come ai fratelli, anche a
Ludwig viene imposta una carriera di ingegnere e di uomo d’affari, una costrizione
che porterà tre dei suoi fratelli al suicidio e
che verrà dolorosamente accettata da
Ludwig al prezzo di un rinnegamento della
propria personalità. Nei diari intimi, riflettendo sui propri anni di infanzia,
Wittgenstein li vedrà segnati da un profondo senso di colpa e dal sentimento di una
mancanza. La lettura di Schopenhauer, conosciuto negli anni dell’adolescenza, e l’amicizia con Otto Weininger, il giovane
autore di Sesso e Carattere, che si toglierà
la vita a 28 anni, segnano profondamente il
carattere e la sensibilità di Wittgenstein e lo
convincono che il suicidio, il «peccato elementare», resti la sola vera soluzione per
chi abbia smesso di essere all’altezza delle
proprie esigenze morali. E’ con questa predisposizione che egli si iscrive alla facoltà
di ingegneria dell’Università di Manchester,
dove si impegna in uno studio approfondito
dei fondamenti della logica matematica.
Nei diari di questo periodo troviamo annodate le preoccupazioni di carattere morale
con i problemi logici: «Come posso essere
un logico - si chiede Wittgenstein - se non
sono ancora un essere umano?». A
Cambridge - dove ha modo di conoscere
Russell, subito colpito dal genio del giovane austriaco, e dove entra in amicizia con
George Moore, autore dei Principia Ethica
- Wittgenstein riceve la notizia della morte
del padre. Gli avvenimenti precipitano:
Wittgenstein litiga con Russell e decide di
tornare in Austria per arruolarsi nell’esercito. Il Tractatus logico-philosophicus trova la sua prima stesura nelle trincee. Non è
più lo stesso uomo quello che torna dal
fronte e che si chiede se prendere i voti o se
fare il maestro elementare; accompagnano
questa metamorfosi le letture di Kierkegaard
e di Angelus Silesius. Nel 1922, data in cui
viene infine pubblicato il Tractatus,
Wittgenstein ha già simbolicamente chiuso i conti con la sua vita precedente: la ricca
eredità paterna è stata devolta a vari scrittori e artisti (ne beneficiano tra gli altri Rilke,
Kokoschka, Loos), nonché alla rivista Der
Brenner, il cui spirito si avvicinava alle
idee di riforma morale e intellettuale di
Wittgenstein.
Il saggio biografico di Mac Guinness ripropone dunque una immagine sdoppiata di
Wittgenstein, dove il punto di frattura starebbe appunto negli anni successivi alla
guerra. Il mistero di questa affascinante
personalità resta racchiuso nella definizione che Wittgenstein stesso ha dato del suo
lavoro e della filosofia in generale, secondo cui essa «non è un corpo di dottrine, ma
un’attività». Attività che, secondo Mac
Guinness, è comparabile ad una ricerca
mistica; in questo senso il cambiamento di
Ludwig Wittgenstein
posizione di Wittgenstein viene “letto” nei
termini di una «conversione religiosa».
Il nucleo narrativo del romanzo di Bruce
Duffy, Le monde tel que je l’ai trouvé, si
sviluppa attorno al rapporto umano e intellettuale tra Wittgenstein, Russell e il già
citato George Moore. Uno dei vantaggi
della fiction rispetto alla biografia, sostiene
Duffy, è quello di poter stabilire delle connessioni ipotetiche, ma significative, laddove il puro dato biografico rimane muto.
La correlazione tra ciò che Wittgenstein
vede, quello che sente e quello che pensa
viene dunque ripristinata in via immaginaria ed è sottoposta unicamente al criterio
della credibilità romanzesca: «Il romanzie-
re - afferma Duffy nella sua Introduzione è in grado di mostrare ai lettori una sorta di
continuità, di comprensione dell’esistenza
quale il biografo non ha il diritto di supporre. Per questo motivo ho deliberatamente
scelto di scrivere un romanzo, perché la
finzione è irresponsabile». E.N.
Felice Tocco e la tradizione
filosofica italiana
C’è una specificità della tradizione filosofica italiana? Ci fu, e in che misura,
una dittatura del così detto idealismo
PROSPETTIVE DI RICERCA
italiano? E in questo quadro, chi furono e che funzione svolsero i “minori”?
Queste le domande che negli anni ’80
animavano un vivace dibattito. Alle
prime due domande si rispose, come è
ovvio, sia in senso affermativo, sia
negativo. Quanto ai “minori”, si trattò
di cogliere, illuminare e capire i contesti nei quali a attraverso i quali i singoli
studiosi avevano lavorato. Nel frattempo si è diventati consapevoli che il
problema della specificità o della crisi
di identità della filosofia italiana è un
problema che deve essere affrontato
volta per volta, autore per autore, contesto per contesto, facendo anche un
po’ di storia a proposito di ciò che gli
altri presentano e ripresentano come
problema e teoria della storia. Da questo punto di vista è il caso di menzionare la monografia che Massimo
Ferrari ha recentemente dedicato al
neokantismo italiano e a Felice Tocco
(1845-1911): I dati dell’esperienza. Il neokantismo di Felice Tocco nella filosofia italiana tra Ottocento e Novecento
(L. S. Olschki, Firenze 1990).
Stroncato da Gentile e trattato come studioso domenicale, Felice Tocco esce dallo
studio di Massimo Ferrari come quel “protagonista” che oggettivamente era, in dialogo con il meglio della filosofia europea.
Dice bene Ferrari, avviandosi a concludere: «Tra gli allievi di Tocco ve ne sono
alcuni [...] che meritano di essere ricordati:
[...] Faggi, Vidari, Lamanna, Levi,
Mandolfo, Lombardo Radice, lo stesso
Gentile si laurearono e si perfezionarono a
Firenze con Tocco [...] ed è nell’Istituto di
Studi Superiori che, sotto il segno della
filosofia positiva di Villari e dell’intreccio
tra storia e filologia, venne costituendosi
anche per gli studi filosofici una tradizione
feconda, improntata a una severa disciplina
mentale che non era né morta erudizione,
né stanca ripetizione dei valori perenni,
bensì impegno costante per la comprensione della filosofia come giustificazione della conoscenza e legittimazione delle idee
che guidano l’uomo nella storia.» A questo
si aggiunga che Arturo Massolo, che aveva
iniziato i suoi studi alla fine degli anni
Trenta dedicandosi in particolare a Kant, ci
raccomandava, ancora negli anni Cinquanta, di leggere il Kant e il Platone di Tocco.
La monografia di Ferrari, già noto per i suoi
studi su Varisco, si articola in tre capitoli
assai omogenei nel tono, nell’oggetto e
nell’ampiezza: Da Spaventa al neokantismo; Il neokantismo degli anni Ottanta; il
Kant di Tocco tra la “crisi del positivismo”
e la “rinascita idealistica”. A questo materiale di studio fa riscontro la pubblicazione,
risalente al 1988, delle lezioni di Tocco su
Kant, divise in due quaderni: 1900-1902,
brevemente commentate da Giulio Raio:
Lezioni su Kant di Felice Tocco. Studio ed
edizione.
Kant risulta tra i pensatori più meditati
anche da Annibale Pastore (1868-1956),
altra figura che meriterebbe un’attenzione
meno corriva. E’ ciò che ha fatto Fabio
Bazzani, che ha schedato e datato le carte,
i manoscritti e le lettere di Pastore, ora
raccolti in Le carte di Annibale Pastore.
Fondo dell’Accademia “La Colombaria”
(L. S. Olschki, Firenze 1990). Un’edizione
che giunge a proposito in attesa di leggere
gli atti del convegno su Pastore che si è
svolto a Siena nel maggio 1990 e che saranno pubblicati dall’Istituto L. Geymonat.
Per dare un’idea del filosofo, che fu spirito
libero ed eccentrico, studioso di problemi
logici e scientifici in un momento non
propriamente favorevole, mette conto riportare qualche riga del curatore che ne
illumina anche l’attualità: «Mi sembra che
nella ipotesi di una metafisica critica, conciliativa di opposte tendenze, pure nel caso
della filosofia pratica Pastore si muova in
una prospettiva di conciliazione e, in primo
luogo, nella prospettiva di conciliare l’etica di Marx e di Hegel con la morale di Kant.
Se l’intento è quello di costruire una società
retta da principi solidaristici, allora ci si
deve rivolgere a Marx, forse a Hegel, ma
non a Kant, poichè Marx, e Hegel, elaborano un’etica della collettività, mentre Kant
si colloca in un’ottica eminentemente individualistica. Se, al contrario, l’intento è
quello di garantire la libertà personale, la
priorità del soggetto sull’oggetto, allora è
necessario rivolgersi a Kant, poichè Hegel
e Marx, in quanto incentrano tutta l’attenzione sulla socialità dell’etica, non sanno
conferire spazio adeguato alle libertà singole. Ma l’intento è duplice: armonizzare
libertà del singolo ed esigenza del mantenimento sociale. E proprio sul piano pratico,
tramite la duplicità dell’intento che indica,
Pastore riesce a correggere l’interpretazione forse troppo schematica e riduttiva che
fornisce tanto di Marx e di Hegel quanto di
Kant». Per quanto ci sia dello schematismo
in queste carte, come nota Bazzani, e talora
anche qualche ingenuità, viene spontaneo
chiedersi se non siano proprio questi i problemi che troviamo al fondo del dibattito
filosofico contemporaneo o meglio: che
dovremmo trovarvi - almeno per coloro
che credono che la filosofia abbia a che fare
con gli uomini e non con gli dei o gli angeli,
con gli esseri (umani), piuttosto che con
l’Essere. L.S.
William Whewell
A una considerazione della scienza
non semplicemente come invenzione,
rivoluzione e intuizione, ma anche come tentativo di ordinare e sistematizzare le teorie e le tecniche scientifiche
per creare una struttura d’insieme capace di garantire un normale funzionamento della scienza, risponde la recente pubblicazione in Inghilterra di
due monografie sull’opera di un pensatore per lo più dimenticato del seco-
lo scorso, William Whewell (17941866). Si tratta del saggio di Menachem
Fisch, William Whewell: philosopher of science (William Whewell:
filosofo della scienza, Clarendon Press,
Oxford 1991) che figura anche come
curatore, insieme a Simon Schaffer,
del volume: William Whewell: a
composite portrait (William
Whewell: un ritratto composito,
Clarendon Press, Oxford 1991). In entrambi i casi abbiamo di fronte un’interessante analisi dello sviluppo intellettuale di Whewell in relazione allo
sviluppo scientifico della sua epoca.
William Whewell fu storico della scienza
e filosofo. Visse e insegnò a Cambridge. Fu
autore di opere scientifiche, per la maggior
parte espositive, di scritti di filosofia morale e soprattutto di due importanti lavori di
storia e filosofia della scienza: The history
of inductive sciences (3 voll., 1837) e The
philosophy of the inductive sciences (1840).
Dalla morte di Whewell poco del suo lavoro è stato ristampato, data anche una certa
obsolescenza che in breve tempo colse
gran parte dei suoi testi. Nonostante questo, Whewell ha svolto un ruolo importante
nel mondo scientifico inglese della prima
metà del XVIII secolo. I suoi due lavori più
importanti, anche se risultano superati, sono molto interessanti se considerati come
l’espressione di un certo periodo scientifico, così come viene riportato e analizzato
attraverso gli occhi di un osservatore interno ai problemi stessi. A questo proposito si
può menzionare la posizione che Whewell
assunse nei confronti di J. S. Mill, sostenendo che l’induzione può essere definita
solo come metodo effettivamente usato
nella costruzione delle scienze cosidette
induttive, e non astrattamente e indipendentemente da esse. L’idea dell’esistenza
di una logica induttiva è del tutto futile per
Whewell, dato che il procedimento di formazione di un’ipotesi non risulta mai logicamente corretto.
Lo studio di Menachem Fisch analizza
dettagliatamente parecchi degli scritti filosofici di Whewell, anche quelli mai pubblicati, dimostrando che il sistema filosofico
di Whewell fu originariamente pensato secondo un ordine esattamente opposto a
quello usato poi dal filosofo nella sua
Philosophy of the inductive sciences: ciò
risulterebbe confermato dal fatto che l’epistemologia quasi-kantiana con cui quest’opera inizia è una delle ultime teorie formulate dall’autore.
Ulteriori considerazioni su aspetti del lavoro e della vita di Whewell le si può trovare
nella raccolta di saggi: William Whewell: a
composite portrait. Tra le analisi più interessanti contenute in questo volume si segnalano i saggi di John Hedley Brooke e
di Michael Ruse. Brooke fornisce una descrizione illuminante del credo religioso di
Whewell e della sua tendenza verso la
teologia naturale, che nonostante l’impegno religioso di Whewell non emerge chiaramente dai suoi scritti. Ruse esamina invece il personale lavoro scientifico di
PROSPETTIVE DI RICERCA
Mathias Grünewald, Altare di Issenheim (1505-1516) particolare della Crocefissione (Colmar, Musée
d'Unterlinden)
CONVEGNI E SEMINARI
CONVEGNI E SEMINARI
Il dolore, la sofferenza
Organizzato dalla Società Filosofica
Italiana, si è tenuto a Matera, dal 3 al 5
ottobre 1991, un convegno nazionale
dal titolo: Il dolore; modi e interpretazioni della sofferenza.
Relazioni di Armando Rigobello, Giorgio Penzo, Aldo Zenardo, Salvatore
Veca, Piero Di Giovanni, Andrea Milano, alle quali sono seguite vivaci comunicazioni e discussioni. A concludere il convegno è stata una tavola
rotonda, dedicata alla specificità dell’insegnamento della filosofia nelle
scuole secondarie.
Diversi e numerosi i contributi per un convegno che ha evidenziato le difficoltà di
lettura di un problema così complesso quale si è rivelato quello della sofferenza. Armando Rigobello ha definito il dolore un
enigma di cui non si può semplicemente
cogliere il senso. Per cercare di comprenderlo e delinearne un orizzonte di senso, è
necessario un approccio fenomenologico
al quale deve seguire il momento interpretativo. Rigobello ha fatto un richiamo a
Husserl, che pone il dolore e il piacere
all’interno di una esperienza corporea. Passando dalla fenomenologia all’interpretazione, Rigobello ha delineato due proposte
di senso, che vedono rispettivamente il
dolore connesso alla creatività e come occasione di rinnovamento morale. Giorgio
Penzo ha guardato alla possibilità di considerare una radice metafisica della sofferenza e una radice che metta in discussione la
componente metafisica. Egli ha così parlato di scandalo della sofferenza che trova il
suo senso nel Dio assente. L’uomo, in tal
modo, non può mai spiegarsi il perchè della
presenza della sofferenza il cui senso è,
appunto, il non aver senso. Emerge così, di
fronte a tale impossibilità, la finitezza dell’uomo: il senso del non senso del dolore sta
nel non cercare di definirlo dogmaticamente, nell’accettarlo (Nietzsche) e nell’intendere l’uomo come essere per la sofferenza.
Anche Andrea Milano, nell’intenzione di
fornire dei materiali per un’interpretazione
del dolore, ne ha proposto un approccio
all’interno di un orizzonte teologico metafisico. Egli ha sostenuto che la teologia si è
sempre lasciata orientare in quanto costruita su presupposti pensati come razionali,
ma che in realtà sono precristiani. I teologi
hanno, così, interpretato il dolore come
afflizione di un male percepito come male
(S. Tommaso), come malattia storica, di
cui è responsabile l’uomo che soffre perchè ha peccato (Genesi), come possibilità
di ammaestramento. Tuttavia la sofferenza
rimane, per la fede, un mistero che sussiste
nel mistero di Dio, il quale attraverso di
essa manifesta le sue opere.
Per Aldo Zanardo la sofferenza ha vari
esiti fra cui esiti di saggezza. Egli si è
soffermato sul senso del limite e sul ricollocamento nella vita di una più adeguata
comprensione di sé e del mondo, entrambe
forme di saggezza di cui la sofferenza può
essere occasione. In questo senso il dolore
è da intendere come un’esperienza che, nel
farci sentire deboli come soggetti, inadatti
rispetto al mondo circostante, ci insegna la
finitezza, imponendoci una rettifica della
nostra comprensione di noi stessi, degli
altri e del mondo naturale. Questa ricostruzione del nostro essere nella vita rappresenta una svolta che ci conduce alla saggezza. Per il mondo antico si può parlare di
una saggezza accettativa, derivante dalla
constatazione dell’inestirpabilità della sofferenza dalla vita umana, diversa dalla
saggezza di consolazione del mondo cristiano, che guarda invece a un mondo futuro senza sofferenza. Il mondo moderno
non ha una saggezza del limite, perchè non
ha consapevolezza del per sé del mondo
naturale e del cosmo. Dalla sofferenza l’uomo ha ancora da imparare il senso del
limite, l’avere misura nel rapporto con il
mondo naturale e con gli altri. Salvatore
Veca ha centrato invece l’attenzione sulle
sofferenze sociali. Egli ha esordito illustrando una tesi dell’utilitarismo negativo
che, connettendo la nozione di sofferenza
con quella di utilità o disutilità, prescrive
una minimizzazione della disutilità collettiva e quindi della sofferenza evitabile, e
una massimizzazione della utilità e quindi
della felicità o del benessere collettivo. Ciò
che connette la sofferenza con la dignità è
il linguaggio in quanto forma di vita, rinvio
ad una comunità di parlanti che in esso
riconoscono il senso della sofferenza collettivamente interpretata. Se non viene riconosciuta la pari dignità fra parlanti aven-
ti un patrimonio linguistico comune, si ha
esclusione dalla comunità, il che ha come
conseguenza l’umiliazione, la degradazione, l’erosione dell’autonomia e della dignità di agenti. Questa è la sofferenza
sociale più saliente, generata da un certo
assetto delle istituzioni fondamentali; essa
è la rottura del presupposto di un tale
assetto, ovvero la necessità dell’identità
stabile nel tempo, fra individuo e collettività.
Il contributo infine di Piero Di Giovanni
ha avuto come presupposto la lettura in
termini filosofici dell’opera di Freud, che
pone in relazione il dolore con i temi dell’angoscia, del lutto e della nevrosi. La
psicanalisi deve considerare il soggetto
affetto da nevrosi nella sua specificità di
individuo che vive in una dimensione storica, dove la presenza del dolore è causata
dall’uomo stesso, ma anche dalla caducità
della vita. L’uomo soffre anche perchè
comprende tale caducità, ed è per questo
motivo che per Freud la psicanalisi, nel
tentativo di liberare l’uomo dal dolore,
deve assumere una connotazione filosofica. L.L.
I problemi del tradurre
L’argomento dell’ultimo simposio della Humboldt-Stifung: Geisteswissenschaftliches und literarisches Übersetzen im internationalen Kulturaustausch (La
traduzione nel campo della letteratura e delle scienze dello spirito dal punto di vista di uno scambio culturale tra
nazioni, Sonthofen 7-11.X.1991), ha
preso in considerazione i problemi
della traduzione di testi filosofici, giuridici, storici, sociologici e, naturalmente, letterari. L’argomento non è
nuovo; ciò che è nuovo, ovvero ciò che
è divenuto evidente dopo la riunificazione del 3 ottobre 1990, è il ruolo
sempre più cospicuo svolto dalla nazione culturale tedesca, oggi come in
passato, nel mettere in moto gli sforzi
della comunità dei ricercatori, promuovendo ricerche, sperimentazioni,
addirittura nuovi modi di pensare in
tutte le nazioni del mondo.
CONVEGNI E SEMINARI
Che significato hanno le traduzioni nel
contesto delle singole culture? Quali sono
le condizioni meteriali e di mercato, di cui
deve tener conto chi si dedica alla traduzione? Queste le domande principali discusse
al simposio. Chi si reca a Parigi, al Ministère
de la francophonie, trova tutte le informazioni necessarie a proposito del ruolo svolto in tal senso dalla lingua e dalla cultura
francese. Ma un ministero siffatto non lo si
trova né a Bonn, né a Berlino: al più si
trovano, a Monaco e in tutto il mondo, le
sedi del Goethe Institut (il corrispondente
della nostra Società Dante Alighieri) e, a
Bonn, l’istituto Inter Nationes, che mette a
disposizione fondi per tradurre sal tedesco
in altre lingue. Di fatto sono proprio i
ricercatori che hanno avuto esperienza dei
risultati più avanzati della ricerca prodotta
in Germania a fornire oggi, con il loro
impegno in quanto traduttori, un’efficace
risposta a questo bisogno di comunicazione.
Il motto lanciato dal segretario della
Humboldt-Stiftung, Heinrich Pfeiffer si
riassume nella formula: «tradurre significa
gettare ponti»; la traduzione aiuta alla comprensione tra culture diverse e dunque non
solo al progresso della ricerca, ma anche
alla pace. Squisitamente letterario, e di
portata tanto più universale, è stato l’intervento di Karl Dedecius, direttore del
Deutsches Polen-Institut di Darmstadt. Se
Benedetto Croce negava la possibilità di
una traduzione, perchè il testo scritto può
dare espressione al pensiero solo nelle stesse parole attraverso le quali il pensiero ha
preso forma, ciò non toglie, ha osservato
Dedecius, che il lettore di una traduzione
possa mettersi lui stesso a pensare, dando
nuova forma al pensiero espresso dal testo
originale. Considerazioni sistematiche sui
problemi metodologici della traduzione sono venute invece da Marco Buzzoni, che
ha insistito sull’esistenza di tre antinomie
fondamentali: 1) in linea di principio si può
dire che ogni testo sia, in quanto tale, traducibile, ma in verità ogni traduzione dipende
dal contesto storico e sociale che l’ha prodotta; 2) la traduzione è una fonte, perchè
riproduce un originale, ma è anche il risultato di un’attività ermeneutica, perchè dà
un giudizio sulla natura dell’originale; 3) la
traduzione, infine, può essere o letterale o
libera.
Molto vivace il lavoro delle sezioni. La
prima, diretta da due linguisti, Wolfram
Wills e Mario Wandruszka, si è occupata
degli aspetti concettuali di lingua, interpretazione e traduzione, fermandosi in particolare sul fatto che tradurre serve a mettere
in discussione le grammatiche delle singole lingue, e serve anche a verificare la
legittimità di nuove forme idiomatiche. Il
punto che più ha agitato gli animi è stato,
ovviamente, l’accettabilità o meno di “universali linguistici”, come è avvenuto, ad
esempio, nella relazione di Paolo Ramat.
La terza sezione, diretta da Christian
Tomuschat e Kurt Lipstein ha considera-
to le traduzioni di testi giuridici, sociologici ed economici; la quarta, diretta da Rudolf
Vierhaus e Rudolf Makkreel, è stata dedicata alle scienze storiche. Degli aspetti
artistici della traduzione di testi letterari
hanno discusso i relatori della quinta sezione, diretta da Wilhelm Voßkamp e Ludo
Verbeeck; mentre si sono occupati di “storia e tipologia della traduzione” i relatori
della sesta, diretta da Armin Paul Frank e
Marion Adams. L’”estraneità culturale” è
stata l’argomento della settima sezione,
diretta da Horst Turk e Anil Bhatti, e il
contesto culturale dell’attività del traduttore lo è stato per l’ottava, diretta da Fritz
Nies, Fritz Paul e Yushu Zhang. Con
particolare attenzione si è discusso sia del
traduttore, in quanto libero soggetto culturale, sia della comunità dei lettori, il cui
interesse obiettivo per un testo proveniente
da un’altra cultura è sempre condizionato
dalle proprie componenti culturali.
Dedicata ai problemi specifici della traduzione filosofica è stata invece la seconda
sezione, diretta da Rüdiger Bubner e
Istvan M. Feher. Dal punto di vista pratico, sono stati gli scritti di Hegel e Heidegger
(senz’altro i più citati) a esemplificare le
difficoltà incontrate nella traduzione. Delle loro esperienze in quanto traduttori di
Hegel hanno parlato Marina Bykova, per
il russo, e Georgia Apostolopoulou, per il
greco; di Heidegger hanno parlato Jorge
Rivera, per lo spagnolo, e Istvan M.
Fehrer, per l’ungherese. Discutendo su
questi due grandi filosofi è divenuto chiaro
che, se è vero che ogni lingua ha un suo
proprio spirito, è anche vero che ogni lingua contiene termini presi a prestito dal
greco e dal latino. A ragione Ryosuke
Osashi (traduttore di Heidegger in giapponese) ha però fatto notare che nelle lingue
dell’Estremo Oriente, pur a fronte di importanti prestiti dalla terminologia filosofica di origine greco-latina (risalenti al Seicento), la morfologia e la sintassi sono
talmente diverse da costringere il traduttore a percorrere una delle seguenti alternative: o un creativo fraintendimento o un’analogia con la tradizione confuciana o una
consapevole decisione sul modo in cui ciò
che viene dall’Occidente possa entrare a
formare una cultura dell’Estremo Oriente.
Detto questo, è evidente che la nota questione teorica dello “spirito di una lingua”
deve essere fatta oggetto di un’analisi fenomenologica. Se Dariusz Aleksandrowicz
ha parlato di gradi di “trasparenza”, Tom
Rocmore ha insistito sul fatto che, da una
parte, la traduzione presuppone una comprensione, ma, d’altra parte, la comprensione presuppone ben più che solo una
traduzione; per comprendere un determinato testo noi dobbiamo fare uso di una
traduzione, ma il resto, la ricerca di altre
formulazioni, la sostituzione di certe parole con altre, la trasposizione di un’idea in
un’altra prospettiva, ecc. spetta a noi.
Una tavola rotonda, a cui hanno partecipato Dieter W. Benecke, Manfred Egelhard,
Claus Sprick, Fritz Nies, José Lambert,
Markku Mannila, sotto la moderazione di
Kurt-Jürgen Maaß, è servita a mettere in
chiaro possibilità e limiti di un approccio
teorico e pratico ai problemi della traduzione. R.P.
Il ritorno dei neokantiani
In una recente rassegna di alcuni studi
sul neokantismo, Dominique Bourel
parla di un vero e proprio “retour des
néo-kantiens” (“Archives de philosophie”, LIV, 1991, pp. 518-522).
L’espresione è quanto mai appropriata e l’ormai diffuso interesse per la
complessa parabola del neokantismo
tedesco (ma in realtà non solo tedesco) ha trovato una conferma ulteriore, se non addirittura un riconoscimento “istituzionale”, in occasione del
convegno internazionale organizzato
da Ernst Wofgang Orth e Helmut
Holzhey, dal 9 al 13 settembre 1991
presso l’Università di Trier, sul tema:
Neukantianismus. Perspektiven
und Probleme (Neokantianismo. Prospettive e problemi).
Le relazioni e le comunicazioni di numerosi e qualificati studiosi (cospicua, peraltro,
la partecipazione italiana) hanno messo a
fuoco sia lo stato attuale della ricerca sulle
diverse ‘scuole’ neokantiane o su singoli
rappresentanti del neokantismo tedesco a
cavallo tra Otto e Novecento (da Cohen a
Windelband, da Rickert a Cassirer), sia
l’importanza delle filosofie neocriticiste
nel panorama della filosofia europea di
questo secolo, nonostante una sorta di ‘rimozione’ che ha per lungo tempo declassato il “ritorno a Kant” ad una sterile filosofia
professorale, tramontata senza clamori dopo la prima guerra mondiale.
Tra gli interventi si segnala in primo luogo
(Friedrich Tenbruck, Wolfgang Schulz,
Mario Signore, Harald Homann,
Ferdinand Fellmann) quelli che hanno
affrontato l’importanza del neokantismo
per l’elaborazione di una teoria della cultura moderna, tanto nella direzione della problematica dei “valori”, tipica della scuola
del Baden, quanto nell’accezione dinamica
e vitalistica di Simmel, centrando al contempo l’attenzione sull’analisi del mondo
sociale nel punto di incrocio - o di “concorrenza” - tra etica e sociologia (Klaus
Christian Köhnke), così come sui fondamenti dell’analisi sociale in Tönnies e
Weber o nel confronto Weber-Rickert
(Peter-Ulrich Merz, Milos Havelka,
Franco Bianco). Un rilievo non inferiore è
stato attribuito al contributo che le filosofie
neokantiane hanno offerto in ambito epistemologico, nel tentativo di determinare
le condizioni di possibilità dell’esperienza
fisica (su questo tema si è intrattenuto Jules
Vuillemin nella relazione che ha aperto il
convegno) e, più in generale, di delineare
una teoria della scienza (Werner Flach), la
CONVEGNI E SEMINARI
cui importanza può essere ancora oggi criticamente rivendicata (Jean Petitot), specie se si tien conto dei fraintendimenti in
cui è incorso il neopositivismo nella sua
‘demolizione’ del kantismo (Massimo
Ferrari).
Nelle altre sessioni del convegno sono stati
analizzati alcuni pensatori della generazione neokantiana più giovane - come Max
Adler, Emil Lask e Bruno Bauch - che
ancora non hanno ricevuto adeguata attenzione (Wilfried Lehre, Stephan
Nachtsheim, Walter Zeidler); ma particolarmente stimolante è stata soprattutto la
messe dei contributi su Cohen - sia il Cohen
della ‘logica della conoscenza pura’, sia il
Cohen della filosofia della religione -, su
Cassirer e la Lebensphilosophie, e infine su
Natorp, nel suo duplice rapporto con
Heidegger e con Dilthey (Jean Seidengart,
Geert Edel, Andrea Poma, Pierfrancesco
Fiorato, Thomas Knoppe, Karl-Heinz
Lembeck, Christoph von Wolzogen).
Parallelamente altri studiosi hanno invece
tentato sia un quadro generale delle interpretazioni di Kant e della ‘filologia kantiana’
che hanno avuto origine dal neokantismo
di fine Ottocento (Rudolf Malter, Nobert
Hinske), sia un bilancio del contributo che
la scuola di Marburgo o le correnti
neokantiane nel loro complesso hanno lasciato in eredità al dibattito attuale nell’ambito dell’etica, della filosofia del diritto e
della filosofia della religione (Helmut
Holzhey, Hans Ludwig Ollig).
Il convegno di Trier ha fornito uno sguardo
d’insieme sulle ricerche dedicate al
neokantismo, oggi in pieno svolgimento,
per quanto tutt’altro che riconducibili a un
denominatore comune sia per l’impostazione storico-teorica che le guida, sia per le
valutazioni a cui esse approdano. Su un
punto, tuttavia, gli studiosi convenuti a
Trier sembrano concordare unanimamente: il neokantismo - giuste le parole introduttive di Ernst Wolfgang Orth - ha rappresentato un’epoca filosofica che, proprio
per la sua brusca interruzione dopo il 1933,
deve essere sondata in profondità se si
vuole comprendere veramente il senso della filosofia contemporanea. Dopo Kant - ha
aggiunto Orth - non si può non essere in
qualche misura ‘neokantiani’: da questo
punto di vista, come ha osservato Gerhard
Funke, intervenendo alla tavola rotonda
che ha concluso il convegno, il neokantismo
rappresenta ancora oggi un irrinunciabile
“fermento della vita filosofica” M.F.
Michael Walzer
sui nuovi comunitarismi
Quello che più colpisce dell’attuale
scena internazionale è il “nuovo disordine” che la regola, che scuote antichi
equilibri, ricomponendo comunità nazionali e ristretti gruppi di appartenenza culturale. La crisi dello Stato
nazionale classico, così come la disso-
luzione dell’impero russo hanno travolto tanto l’idea dello Stato centrale,
limitato da confini nazionali, quanto la
prospettiva del centralismo comunista. Ciò impone altresì la necessità di
ripensare da una parte la costituzione
di organismi soprannazionali, mentre
dall’altra di riconsiderare anche i limiti
stessi di una forma di Stato sociale
che si dimostra tanto più debole, quanto più eterogenee sono le sue componenti culturali ed etniche. Di questi
problemi, articolati secondo un linguaggio trasversale che coinvolgeva
filosofia, sociologia e politica, si è discusso con Michael Walzer nell’ambito del Festival Nazionale de “l’Unità”
il 6 settembre 1991 a Bologna.
Giancarlo Bosetti ha posto l’accento sulla
progressiva divaricazione che si è venuta a
creare fra la concezione universalistica della
politica mondiale e quella realistica dell’ordine sociale, ovvero fra la versione cosmopolitica kantiana e quella particolaristica della fattualità storica, che mette in
crisi la stessa prospettiva degli ideali soprannazionali. In tal senso, si è chiesto
Bosetti, può ancora esistere un qualche
rapporto normativo fra giustizia internazionale e governo mondiale? Su questa
domanda iniziale si è venuta ad articolare
l’intera relazione di Michael Walzer, docente a Princeton e noto in Italia oltre che
per i suoi saggi (si veda il n. 5 di
“MicroMega”), soprattutto per le sue opere: Sfere di giustizia (Feltrinelli), Guerre
giuste e ingiuste (Liguori), Esodo e rivoluzione (Feltrinelli) e Interpretazione e critica sociale (Lavoro), mentre sono di prossima pubblicazione La compagnia dei critici
e una raccolta di saggi presso l’editore
Marsilio.
Walzer viene comunemente considerato
come uno dei maggiori teorici dei cosiddetti comunitari, una corrente di pensiero che
si è sviluppata negli Stati Uniti fra gli anni
’70 e ’80, a seguito della pubblicazione
dell’opera di John Rawls, Una teoria della
giustizia, che riproponeva una concezione
universalistica e astratta del soggetto, secondo un’impostazione liberal-kantiana. Di
contro i comunitari, a partire da Michael
Sandel, sostengono una concezione contestualistica e culturalmente relativistica dell’etica e della giustizia, in rapporto alle
diverse sfere di appartenenza culturale.
Nella sua analisi Walzer è partito da una
constatazione fenomenologico-descrittiva,
secondo cui attualmente la scena mondiale
è caratterizzata dal riemergere di forme di
“tribalismo” e di “parrocchialismo”, sulla
base dell’appartenenza etnica, religiosa e
culturale e della condivisione di certe pratiche sociali, su cui si baserebbe anche la
solidarietà reciproca. Partendo da questa
struttura molecolare della convivenza civile, Walzer ha poi affrontato quello che da
sempre è stato uno dei presupposti cardinali del liberalismo, è cioè la necessità di far
coesistere il “pluralismo culturale” con for-
me di vita eterogenee, nella pace e nel
rispetto reciproco. Ma nel corso di questo
secolo la storia dell’integrazione multiculturale in Europa e negli Stati Uniti è stata
indubbiamente molto diversa, proprio perché il continente europeo è stato per lo più
caratterizzato dalla presenza di Stati nazionali e da forme di Stato sociale con una
popolazione pressoché omogenea. Con
l’occhio puntato verso la futura identità
della Comunità Europea, Walzer ritiene
che l’esperienza politica e culturale delle
nuove immigrazioni sia un esperimento
fondamentale che potrebbe contribuire anche al superamento del dislivello fra Nord
e Sud, ma soprattutto al superamento del
tradizionale concetto liberale di cittadinanza o di solidarietà internazionalistica, tramite una nuova figura di cittadino, in grado
di vivere in pace con la propria comunità di
appartenenza e con la più ampia società che
lo circonda.
Numerose sono state le obiezioni sollevate
contro questa impostazione comunitaristica. In particolare, Gianfranco Pasquino
ha fatto rilevare la sottovalutazione della
problematica dei conflitti che verrebbe operata da questa concezione dell’appartenenza etnica. Michelangelo Bovero ha invece riproposto la visione cosmopolitica
kantiana, sottolineando il deficit normativo che caratterizzerebbe la teoria dei comunitari. Salvatore Veca ha d’altra parte
sottolineato la difficoltà che si incontrerebbe nel comunicare fra comunità diverse,
soprattutto nel dover stabilire quale tipo di
linguaggio possa essere reciprocamente usato e perché questo debba essere prioritario rispetto agli altri. Walzer ha ribattuto
affermando che lui stesso non si ritiene
cittadino del mondo e che è illusorio parlare di cittadinanza in termini universalistici.
Le varie forme di conflittualità e i pericoli
del fanatismo possono essere viceversa risolti attraverso un processo di negoziazione.
Questi stessi temi sono stati poi ripresi
dallo stesso Walzer nel corso di una conferenza pubblica, a cui hanno partecipato
Claudia Mancina, Maurizio Viroli, Salvatore Veca e Giancarlo Bosetti. Walzer
ha nuovamente ripreso la differenza che
distingue l’Europa dagli Stati Uniti in termini di politica immigratoria, mettendo in
luce quali dovrebbero essere a suo parere i
fattori indispensabili e scalari per una politica d’integrazione, tale da permettere una
società multiculturale: a) articolazione delle differenze, in cui ogni gruppo possa dare
voce alle proprie aspirazioni, senza tendere
ad una forzata omogeneizzazione con altri
raggruppamenti sociali; b) negoziabilità
delle differenze; c) incorporazione delle
differenze - non trascendibili - entro lo
Stato che non le emargini, ma che sappia
anzi far loro da supporto strutturale. E’
questo il principale pericolo a cui vanno
incontro le società e le democrazie multiculturali e polietniche. Le obiezioni hanno
di nuovo ribadito che se da una parte l’attuale cultura democratica tende a superare
CONVEGNI E SEMINARI
l’antica dicotomia fra particolarismo e universalismo, dall’altra essa ripropone invece la necessità di ridefinire il livello normativo dell’interazione collettiva. Forse la
visione un po’ “rappacificata” all’interno
dell’identità di gruppo che Walzer sostiene
con una certa enfasi comunitaristica, sottovaluta in effetti i molti pericoli insiti in
certe forme di “tribalismo”, così come non
prende esaustivamente in considerazione
l’identità complessa del soggetto attuale,
ma soprattutto minimizza la necessità di
ritrovare nuove forme di solidarietà, al di là
del gruppo di appartenenza. La solidarietà
verso i non-partecipanti alla comunità non
può infatti essere di tipo culturale, bensì
normativo, dal momento che essa deve
poter comprendere ex-negativo e in modo
contro-fattuale le forme di “ingiustizia”
ancora presenti nelle diverse sfere sociali.
L’universalismo si ripresenta così sotto
mutate spoglie, proprio grazie alla critica
radicale mossa ad esso dai comunitari. M.C.
La ‘pace perpetua’:
storia di un dibattito
Organizzato dall’Istituto Italiano per
gli Studi Filosofici, si è svolto a Napoli
dal 23 al 27 settembre 1991 un seminario condotto da Domenico Losurdo,
che ha avuto come tema il concetto di
“pace perpetua”, dalle sue prime formulazioni fino alle trasformazioni prodotte in questo concetto dalla storia
contemporanea.
Per Domenico Losurdo il concetto di “pace perpetua” non può essere disgiunto da
quella concezione universalistica dell’umanità che si afferma solamente con la
Rivoluzione francese. Infatti in Erasmo da
Rotterdam la “pace perpetua” è un invito
alle sole nazioni cristiane allo scopo di
meglio condurre le operazioni militari contro gli “infedeli”. L’abate di Saint-Pierre
opera poi un duplice invito alla pace perpetua innanzitutto tra gli stati e poi tra i
sovrani cristiani: si tratta essenzialmente di
un patto di mutuo soccorso, grazie al quale
ogni sovrano si impegnerà a sedare con il
massacro di ribelli ogni sedizione sfuggita
al controllo di un altro sovrano. Di contro
già in Voltaire gli ideali pacifisti cominciano a collegarsi a concezioni universalistiche e di trasformazione politica e sociale
dell’esistente e Rousseau, nel curare le
opere dell’abate di Saint-Pierre, vi premette un “giudizio” nel quale afferma che solo
una rivoluzione a carattere democratico
potrà estirpare la guerra. Con la rivoluzione del 1789 la “pace perpetua” diviene una
parola d’ordine politica. A differenza della
Rivoluzione Americana, la Rivoluzione del
1789 dichiara il carattere universale della
concezione dell’uomo e dei suoi diritti,
abrogando colonie e schiavitù.
Kant ritorna a riaffermare il rapporto tra
pace e democrazia: rifiuta l’idea di un esercito permanente e esalta l’immagine di un
cittadino-soldato pronto alle armi per l’autodifesa della patria, propugna il principio
del non intervento, l’interruzione della vergognosa tratta degli schiavi e, infine, auspica una federazione di liberi stati. Ma quest’ultima concezione giustifica di fatto operazioni militari contro gli stati assolutistici e diverrà l’ideologia espansionistica
della Francia. L’ideale della “pace perpetua” comincia paradossalmente a trasformarsi, attraverso l’idea di creare una “grande e universale nazione degli uomini”, in
una ideologia della guerra.
Hegel individua il paradosso: la violenza
come strumento di realizzazione della “pace perpetua”. In base a questa assunzione
egli critica i meccanismi ideologici della
richiesta di pace perpetua che la trasformano in un’ideologia della guerra. Inoltre se
Kant e Rousseau credevano che la forma
repubblicano-democratica dello Stato ga-
Diego Velazquez, La resa di Breda, (Las Lauzas, 1634-35)
CONVEGNI E SEMINARI
rantisse automaticamente la pace tra i popoli, Hegel osserva che il cessare del dispotismo non è affatto garanzia di pace, poiché
la passione bellica può infiammare le masse altrettanto quanto i sovrani, come peraltro dimostra l’esempio rivoluzionario francese. D’altro canto, l’esempio inglese mostra invece come Stati costituzionali possano intraprendere guerre non solo per il
capriccio dei regnanti, ma per precisi e
pressanti interessi economici e commerciali. A differenza questa volta di Kant,
osserva Losurdo, Hegel cade vittima dell’ideologia guerrafondaia della pace perpetua
quando invoca una pace degli Stati europei
allo scopo di mantenere un saldo controllo
sulle colonie.
La posizione di Marx ed Engels sul tema
della pace perpetua tende a radicalizzare i
temi della riflessione illuministica: è possibile la pace perpetua solo a patto di rivoluzioni politiche e sociali ben più radicali di
quelle prospettate dagli illuministi. Lenin
riprenderà il progetto della pace perpetua
proponendo l’abolizione della diplomazia
segreta e il controllo dal basso della politica
internazionale. A differenza però della tradizione di pensiero illuministica, il
marxismo non ha mai nascosto il fatto che
le invocate rivoluzioni sono, a tutti gli
effetti, delle guerre.
Da ultimo Losurdo ha analizzato l’ideologia della guerra nata nell’Intesa durante il
primo conflitto mondiale. L’ “interventista
democratico” Salvemini parla di “guerra
per la pace”, per abbattere il militarismo
tedesco e con esso i motivi di turbamento
della pace in Europa. Le posizioni di
Salvemini trovano una eco imponenete nelle
idee wilsoniane della “guerra contro la
guerra”, della guerra contro Austria e Germania per insegnar loro le “buone maniere” pacifiste e democratiche. D’altro canto
la socialdemocrazia tedesca all’inizio del
conflitto utilizzava concezioni assai simili:
occorreva combattere la guerra contro l’impero autocratico e militarista dello Czar in
nome di un duraturo periodo di pace. Ma se
questa ideologia della guerra in Germania
è una eccezione, nell’intesa è la norma: è
ancora Salvemini a parlare di una “civile
guerra internazionale” che faccia in Austria-Ungheria e in Germania la democratizzazione voluta dalle socialdemocrazie
di quei paesi; Mussolini gli fa eco e Boutroux
parla di una “crociata filosofica” antitedesca: nasce così la posizione che dipinge la
cultura tedesca tout court come reazionaria
e militarista.
L’ideologia dell’Intesa è uno sviluppo delle idee nate nella lotta coloniale, per cui
occorreva portare la “civiltà” ai “barbari” dove qui civiltà sono diventate le istituzioni liberali e i barbari i popoli militaristi di
lingua tedesca. Wilson parlerà a tal proposito di una “guerra santa” che non si interromperà mai fin quando ogni ingiustizia
sarà debellata. E’ tipico notare che le operazioni belliche compiute dopo il 1918
contro il territorio sovietico non siano mai
state accompagnate da una formale dichia-
razione di guerra: si trattava evidentemente
nella mente dei leaders occidentali solo di
“operazioni di ristabilimento dell’equilibrio internazionale turbato”. E.V.
Wilhelm von Humboldt
Organizzato dal Dipartimento di Filosofia e dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli, si è svolto
ad Anacapri dal 12 al 14 settembre
1991 un Convegno internazionale sulla figura e l’opera di Wilhelm von
Humboldt, che ha messo in luce la
personalità così ricca di interessi per i
vari aspetti del mondo umano, per
l’uomo come singolo e nella totalità
della storia, per il linguaggio come
forma spirituale, che è sempre concretezza delle diverse lingue, per il problema del comprendere e per la promozione di una migliore costituzione
civile
In quella che si è soliti denominare l’età di
Goethe, al compiersi dell’epoca dei lumi e
nei primi decenni del XIX secolo, la filosofia classica tedesca fu un vero crogiuolo di
idee, rappresentato da singolari figure di
pensatori. Tra queste, un posto di particolare rilievo spetta a Wilhelm von Humboldt.
Ne è una conferma, ha osservato Fulvio
Tessitore in apertura del convegno, la crescente fioritura di studi humdoltiani degli
ultimi decenni, segno di quella svolta antropologica della filosofia che, operata da
Humboldt nell’epoca dei sistemi metafisici dell’idealismo classico tedesco, sempre
più oggi appare una feconda via di ricerca,
dopo gli ontologismi, gli strutturalismi, il
decostruzionismo.
Humboldt visse profondamente i travagli
della storia del suo tempo, mentre ne analizzava i problemi anche sul piano teorico:
i problemi del diritto, della conoscenza del
passato. Fu comunque essenziale per la sua
attività di intellettuale-politico, funzionario dello stato, linguista e sociologo, il
passaggio attraverso l’antichità classica,
come ha riccamente documentato Umberto
Carpi (Università di Pisa). Riferendosi in
particolare agli studi humboldtiani di archeologia, in cui la Bildung greca viene
delineata come il modello più alto di umanità, Carpi individua un punto cruciale nel
rapporto tra il discorso estetico-antropologico e la problematica del lavoro, che i
greci delegavano agli schiavi, laddove per
i moderni la specializzazione delle facoltà
è fonte di progresso. Agli studi di antropologia di Humboldt si è rivolto invece Jean
Quillien, autore di un recente volume su
L’anthropologie philosophique de G. von
Humboldt (Presses Universitaires de Lille),
che nella sua relazione ha preso in considerazione le motivazioni teoriche essenziali
della distanza che separa Humboldt da Kant.
Pur muovendosi entro la tradizione,
Humboldt maturò un’idea del filosofare
che avrebbe costituito una sorta di fondazione delle scienze umane, abbandonando
la dimensione ontologica, ancora presente
in Kant, nella direzione di una antropologia
filosofica, che a partire dal linguaggio gli
consentì di riproporre in maniera costruttiva la domanda su “che cos’è l’uomo?”,
senza trascurare la tensione di individuale
e universale che caratterizza la storia della
filosofia dalle sue origini.
Prendendo spunto dalla rilettura delle considerazioni hegeliane sul linguaggio e sull’assoluto, Josef Simon (Università di
Bonn) ha indicato un punto di convergenza
tra Humboldt e Hegel. Per quest’ultimo il
vero non fu Sostanza, ma Soggetto, come si
apprende dalla Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, e l’assoluto può dirsi
che “non è”, ma “si mostra” (Zeigen) attraverso il linguaggio, che è il Dasein (l’esistenza) dell’assoluto. Allo stesso modo
Humboldt, che certo non teorizzò lo spirito
assoluto, intese però il linguaggio come il
Dasein dello spirito nella lingua determinata di ognuno e sempre in un contesto
particolare: un mostrare oltre il segno.
Antonio Carrano (Università di Napoli)
ha analizzato invece il ruolo delle idee nella
concezione di filosofia della storia di
Humboldt. La filosofia del comprendere di
Humboldt ha il suo centro nell’universale
non astratto, nella funzione orientativa delle idee, che esprimono un bisogno di totalità mai separabile dai momenti concreti
della sua attuazione nel processo della storia. Riprendendo in particolare le importanti considerazioni di Humboldt sul compito dello storico, e collocandole all’interno del più ampio raggio dei suoi interessi
estetici e linguistici, Tilman Borsche (Università di Heildesheim) ha illustrato l’analogia posta da Humboldt tra lo storico e
l’artista. Come il poeta, lo storico è creativo
nell’atto di comprendere i fatti come elementi di un contesto significante, nel quale
una verità interiore viene alla luce, non
senza rapporto indissolubile con il documento accertato.
Donatella Di Cesare (Università di Roma)
attenta conoscitrice dei testi di Humboldt
(è recente la sua traduzione di La diversità
delle lingue, per l’editore Laterza), ha parlato della fondazione dell’ermeneutica filosofica in Humboldt dal punto di vista di
un abbandono della filosofia come sistema
in direzione di un filosofare come interpretazione dei modi di essere e di comprendersi dell’uomo nel mondo. In tal senso, nota
la Di Cesare, la concezione humboldtiana
del linguaggio si può dire rappresenti un
traguardo insuperato nella consapevolezza
delle difficoltà della comprensione.
Il progetto di una antropologia comparata
fu interesse precipuo di Humboldt in evidente sintonia con gli studi di anatomia
comparata di Goethe. L’analogia fra i due
piani di ricerca, ha fatto notare Paola
Giacomoni (Università di Trieste), si spiega sulla base dell’unità dell’ “oggetto-uomo”, anche se in definitiva assai diversi
furono i modi di approccio al mondo viven-
CONVEGNI E SEMINARI
te: Goethe fu attirato dalle forme e dalle
superfici, Humboldt dalle forze misteriose
e magmatiche della natura e dell’interiorità
umana. Del “lavoro dello spirito”, secondo
una nota espressione di Humboldt, nelle
sue articolazioni linguistiche ha specificamente trattato Jurgen Trabant (Università di Berlino). Accentuando la rottura con
la tradizione leibniziano-kantiana, Trabant
ha individuato nella concezione humboldtiana del linguaggio come suono che articola il pensiero una profonda unità di segno
ed espressione. Il tema dell’articolazione si
muove sul doppio referente dei moti dell’animo, razionali e passionali, e della convenzione segnica: labirinti per i quali
Humboldt è in grado di fornire un filo
d’Arianna.
Tra le relazioni conclusive del convegno
quella di Giovanni Moretto (Università di
Genova) ha affrontato il rapporto tra
Schleiermacher e Humboldt, un rapporto
che, altre volte indagato per lo più sul piano
del metodo della ricerca storica, viene qui
posto dal punto di vista della dimensione
religiosa. Il “cristiano” Schleiermacher e il
“pagano” Humboldt si incontrano sul significato di un’esperienza umana che è
ricerca dell’infinito nel finito, come accade
nella poesia e nell’arte in generale. Giuseppe Cacciatore (Università di Napoli)
ha infine presentato un documentato studio
su Humboldt e la tradizione storicistica
tedesca. E’ stato proprio Dilthey infatti a
indicare nella riflessione di Humboldt sulla
storia quei motivi essenziali che sono all’origine della prospettiva storicistica: l’individualità, il nesso di universale e singolare,
la polemica contro la filosofia della storia,
il tema del comprendere che colloca l’uomo al centro del processo della storia universale.
A conclusione dei lavori del convegno
Giuseppe Cantillo ha tracciato un limpido
bilancio dell’incontro scientifico di
Anacapri, che ha rappresentato un momento di chiarificazione e di approfondimento
del più ampio contesto in cui nacque e
maturò l’idealismo classico tedesco.
R.V.C.
La filosofia di
Michael Dummett
Si è svolto a Mussomeli (Caltanisetta)
un convegno internazionale dal titolo:
La filosofia di Michael Dummett.
Uno tra i principali punti di riferimento
della discussione filosofica contemporanea, Michael Dummett è conosciuto in Italia sia per la traduzione di
diversi suoi lavori, sia per aver contribuito alla formazione di diversi filosofi
italiani, che si sono recati a Oxford per
approfondire con lui i loro studi.
Di Michael Dummett sono noti in Italia:
Filosofia del linguaggio. Saggio su Frege
(a cura di C. Penco, Marietti, Genova 1983);
La verità e altri enigmi (raccolta di scritti a
cura di M. Santambrogio, Il Saggiatore,
Milano 1986); Alle origini della filosofia
analitica (serie di lezioni tenute a Bologna
a cura di E. Picardi, Il Mulino, Bologna
1991). Recentemente sono stati pubblicati
in Inghilterra altri lavori di Dummett d’importanza fondamentale per la discussione
dei prossimi decenni; oltre a un’altra raccolta di suoi articoli dal titolo: Frege and
other philosophers, è finalmente uscito il
tanto atteso Frege, Philosophy of mathematics. Da segnalare infine la pubblicazione di un testo che raccoglie ed elabora le
idee filosofiche fondamentali del filosofo
oxoniense, il cui titolo richiama la grande
tradizione della filosofia occidentale: The
logical Basis of Metaphysics.
Il filo conduttore della filosofia di Michael
Dummett passa attraverso una ridefinizione delle dicotomie filosofiche tradizionali,
in particolare il contrasto tra il realismo e le
diverse filosofie che vi si oppongono, da lui
raccolte sotto l’etichetta di anti-realismo,
come l’idealismo, la fenomenologia, il verificazionismo, il comportamentismo in psicologia e il costruttivismo in matematica.
L’originalità di Dummett è stata prima di
tutto quella di definire una nuova forma di
anti-realismo, che sfugga agli aspetti riduzionistici delle diverse posizioni del genere, succedutesi nella storia della filosofia.
In secondo luogo la sua caratterizzazione
del dibattito realismo-antirealismo ha messo in evidenza come esso abbia due facce:
una metafisico-ontologica, riguardante cioè
la sussistenza degli oggetti di cui si parla, e
una semantica, riguardante cioè la validità
di certe classi di asserzioni. In questo secondo caso il problema diventa: possiamo
ammettere che ogni nostra asserzione sia
vera o falsa indipendentemente dai mezzi
che abbiamo per controllarne la verità? Per
un realista esisteranno sempre asserzioni,
la cui verità dipende da una realtà esterna a
noi e che per principio ci saranno sempre
inconoscibili; un antirealista dubita della
validità di questa nozione di verità e cerca
delle alternative ad essa.
Il convegno di Mussomeli è stato organizzato e introdotto da B. Mc Guinness (Università di Siena). Tra gli intervenuti, Donald
Davidson (Università di Berkeley), la cui
posizione realista in teoria del significato si
contrappone all’antirealismo di Dummett,
ha presentato una relazione sull’aspetto
sociale del linguaggio, tesa polemicamente
a ridimensionare l’importanza degli aspetti
normativi e istitiuzionali del linguaggio
rispetto alla comunicazione. Su posizioni
realiste è stata anche la relazione di Akeel
Bilgrami (Columbia University), che ha
discusso il classico problema delle altre
menti e della attribuzione di stati mentali ad
altri e a sé.
Seguendo i due principali filoni della filosofia di Dummett, alcune relazioni sono
state dedicate alla filosofia della matematica e altre alla teoria del significato: tra le
prime Crispin Wright (Università di S.
Andrews, Scozia), autore di un fondamen-
tale libro sulla filosofia della matematica di
Wittgenstein, ha discusso la posizione di
Dummett sull’importanza filosofica del teorema di Gödel; C. Penco (Università di
Genova) ha discusso l’interpretazione di
Dummett della filosofia della matematica
di Wittgenstein; G. Luigi Olivieri (Oxford),
uno degli organizzatori del convegno, ha
presentato una discussione critica dell’anti-realismo in filosofia della matematica.
Sulla teoria del significato sono intervenuti
E. Picardi (Università di Bologna); sul
tema dei rapporti tra asserzione e convenzione, Dag Prawitz (Università di
Stoccolma) ha dato una discussione generale sulla posizione anti-realista in teoria
del significato e Bob Hale (Università di S.
Andrews) ha presentato una ricostruzione
della discussione fatta da Dummett nel
capitolo sui nomi propri del suo libro su
Frege. G. Sundholm (Università di Leida)
ha discusso connessioni tra le idee di
Dummett e teorie di Martin Löf.
Le restanti discussioni hanno toccato altri
grossi temi della filosofia di Dummett; B.
F. Mc Guinnes ha discusso alcune posizioni di Dummett anche in connessione al
suo ultimo libro, The logical basis of
metaphysics. Un confronto tra la posizione
di Dummett e quella di Wittgenstein sul
modo di intendere la filosofia, e in particolare sul problema della sistematicità dell’impresa filosofica, è stato sviluppato da
David Pears (Università di Oxford), mentre Joachim Schulte, che ha recentemente
curato l’edizione tedesca del testo di
Dummett: Alle origini della filosofia analitica, ha discusso il tema delle asserzioni
sul passato, con riferimento a un lavoro di
Dummett presente nell’antologia Verità e
altri enigmi. C.P.
Una nuova immagine
di Platone
«Le dottrine non scritte non sono altre
da quelle scritte, ma sono ciò a cui lo
scritto rinvia oltre sé»: con queste parole Vittorio Mathieu ha commentato
il convegno internazionale di studi dal
titolo: Verso una nuova immagine
di Platone, svoltosi dal 7 al 9
ottobre 1991 all'Istituto Suor Orsola
Benincasa di Napoli. Nell’occasione
sono state presentate la nuova edizione degli scritti di Platone, Tutti gli
scritti (Rusconi, Milano 1991), diretta da Giovanni Reale e la raccolta
delle relazioni tenutesi al convegno,
pubblicata con lo stesso titolo del convegno: Verso una nuova immagine
di Platone (Istituto Suor Orsola
Benincasa, Napoli 1991, distrib.
Rusconi).
Nella prima delle sue relazioni, Giovanni
Reale ha trattato dei tre paradigmi storici
nell’interpretazione di Platone e dei fondamenti del nuovo paradigma. Il paradigma
CONVEGNI E SEMINARI
“neoplatonico” era basato su di una rilettura di Platone in chiave allegorica. Il paradigma moderno, inaugurato dagli studi platonici di Schleiermacher, era fondato sull’ipotesi dell’azzeramento della tradizione
del platonismo e sull’autarchia dei dialoghi
platonici. Le difficoltà principali di questo
paradigma, stavano nella ricerca di quella
“sistematicità” del pensiero di Platone, che
pur postulata non era ricavabile dai soli
dialoghi scritti. Dal superamento di questo
paradigma scaturisce il nuovo: i dialoghi
scritti di Platone trovano completamento e
organicità nelle dottrine non scritte, esoteriche, legate all’insegnamento interno alla
scuola di Platone e che ci vengono tramandate da varie fonti della tradizione platonica. Un ulteriore approfondimento di questo
progetto ermeneutico è stato svolto nella
relazione di Thomas Szlezàk, dedicata al
rapporto fra oralità e scrittura nella filosofia di Platone. Szlezàk sottolinea la distinzione fra esoterismo o segretezza nell’insegnamento orale platonico: l’esoterismo ha
fondamento nella qualità pedagogica e dottrinale specifica del dialogo vivo tra mestro
e discepoli, non certo in una aristocratica
segretezza del sapere filosofico. Platone,
collocato al confine fra tradizione orale e
scritturale, riservava alle lezioni non scritte
il compito di dare risposta sintetica e definitiva alle discussioni “aperte”, contenute
nei testi scritti, togliendo fissità e approssimazione ai concetti morti della parola scritta con il vivo intervento del pensiero.
La tradizione della filosofia orale di Platone rimonta innanzitutto ad Aristotele ed è
dal confronto fra essa e gli scritti platonici
che può trovare soluzione il problema ermeneutico. Il piano dei lavori del Convegno prevedeva di fatto un approfondimento dell’immagine neoplatonica di Platone e
una analisi del paradigma romantico.
Werner Beierwaltes si è posto il problema
della continuità-discontinuità del neoplatonismo rispetto alla tradizione propriamente platonica. Se Zeller è per la continuità dei fondamenti platonici, Hegel ha visto
nel neo-platonismo uno sviluppo speculativo del platonismo originario. Il “medioplatonismo” ha poi cercato di ricostruire il
tessuto storico del graduale trapasso dottrinale da Platone a Plotino e a Proclo.
Beierwaltes si è quindi soffermato sul ruolo originale svolto dai neoplatonici nel disporre la sintesi tra teologia ebraicocristiana e razionalismo greco.
Hans Kramer ha vagliato invece il paradigma romantico dell’ermeneutica platonica: estromissione della tradizione “indiretta”, ricerca del “sistema” nella molteplicità dei dialoghi, apprezzamento della forma-dialogo come espressione artistica del
pensiero. Il rapporto di Schleiermacher con
Schelling, da un lato, e con Schlegel, dall’altro, è il riferimento per la ricostruzione
dell’immagine romantica di Platone, caratterizzata dalla tendenza a ricercare il pensiero di Platone nella sola sede dei dialoghi
scritti. E qui risulta evidente come il “nuovo paradigma” proposto dalla scuola di
Tubinga non sia solo un paradigma storiografico, ma ponga le premesse per una
diversa ipotesi teoretica ed ermeneutica. Il
tema teoretico, dopo quello storico-ermeneutico, è emerso nelle relazioni che hanno
riguardato le dottrine non scritte di Platone
nelle loro connessioni con i concetti esposti
nei dialoghi scritti. Enrico Berti ha affrontato il tema de “Le dottrine non scritte
intorno al Bene nelle testimonianze di
Aristotele”. Le dottrine orali, secondo Berti, sono solo il “succo” filosofico di quanto,
nei dialoghi scritti, Platone si limitava ad
esporre in contesti dialettici diversi e in
forma indiretta, ironica, allusiva, incompleta ecc. In effetti le dottrine platoniche
non scritte vertono tutte intorno alla concezione morale e all’idea del Bene come
l’Uno. La questione ermeneutica è in tal
senso complessa, ha osservato Berti, in
quanto le dottrine orali imputate da
Aristotele (per confutarle, fra l’altro) a Platone mostrano una concezione sistematica,
ontologica e apodittica dei Principi (il Bene,
l’Uno, la Diade ecc.) e dell’etica piuttosto
che una concezione dialettica, quale appare
invece dai Dialoghi scritti.
Michel Erler ha preso ad oggetto del suo
intervento in particolare i cosidetti Dialoghi “aporetici”, quei dialoghi cioè che si
concludono con un nulla di fatto, con un
vicolo cieco della dialettica. Per Erler l’unica ipotesi convincente è considerare tale
aporeticità come propedeutica ad un superiore livello di pensiero, che Platone riteneva di non poter affidare ai testi scritti.
Secondo Platone i dialettici che incappino
nelle aporie si muovono ad un livello di
“fondazione” del pensiero non sufficientemente “alto” e ugualmente si ingannano
coloro che affidano la loro ansia di conoscenza esclusivamente al commercio con
la parola scritta. Inserendosi in un medesimo contesto problematico Maurizio Migliori ha esaminato il rapporto scritturaoralità nel Parmenide, giungendo alla conclusione che, per Platone, l’autentica “dialettica” del pensiero e della conoscenza
non può mai esser riprodotta dalla parola
scritta. Ma allora, quale sarebbe il significato di dialoghi complessi come il
Parmenide? Il fatto è che il passaggio dal V
al IV secolo segna la crisi della cultura
orale a vantaggio di quella scritta, di cui la
trattatistica aristotelica è un esempio supremo. Il dialogo scritto di Platone è il
tentativo, poco convinto, di cercare una
mediazione fra la dialettica orale e la scrittura, fra l’ordine originario del pensare e le
forme di espressione e di conoscenza dei
nuovi tempi. Sviluppando ulteriormente il
confronto, Giancarlo Movia ha affrontato
questa tematica attraverso un’analisi del
Sofista. Come il Parmenide anche il Sofista
si rivela debitore nei confronti di un pensiero maturato e discusso nella riflessione e
nella discussione orale. Il tema stesso del
dialogo, il metodo della filosofia contrapposto a quello della sofistica, conduce proprio al nodo del rapporto fra pensiero e
linguaggio, fra lògos e dialettica: siamo di
fronte a un pensiero che opera con il linguaggio, rendendosi autonomo dagli errori
del linguaggio naturale evidenziati dall’analisi filosofica. La tematica perì toù agathoù è il fulcro dell’insegnamento orale di
Platone, ad essa è stata dedicata la seconda
relazione al convegno di Giovanni Reale.
Platone si guardava dal mettere per iscritto
la sua dottrina intorno al Bene per evitare
fraintendimenti e derisioni. I concetti fondamentali del pensiero e della filosofia
intrattengono con il linguaggio comune un
rapporto difficoltoso e stratificato, né d’altra parte possono essere tradotti in modo
articolato e preciso, nella scrittura. Nella
scrittura, come nel linguaggio ordinario, si
perde per Platone il rapporto profondo e
fondante fra pensiero e parola, pensiero e
linguaggio tipico della filosofia. Da questo
punto di vista il nuovo paradigma storiografico si presenta come propedeutico per
una corretta interpretazione del pensiero di
Platone: le idee fondanti del platonismo
tornano ad essere il presupposto teoretico
di quanto Platone volle consegnare alla
scrittura. Si comprende in tal senso il commento che Emanuele Severino ha fatto del
convegno: Platone è il filosofo che ha allontanato definitivamente il pensiero occidentale da quello orientale aprendolo alla
comprensione della molteplicità. E’ questo
il vero valore delle sue dottrine e lo sforzo
di collocarle correttamente nel loro tempo
rende più completa ogni interpretazione
del pensiero fondativo della cultura europea. G.d.M.
Nietzsche tra filologia
e attualizzazione
A Sils Maria, in Engadina, si è svolto
nell’estate 1991 l’annuale convegno
nietzscheano, organizzato dal germanista svizzero Peter André Bloch, in
cui alcuni temi dell’opera del filosofo
sono stati letti, in una prospettiva attualizzante, anche alla luce degli attuali mutamenti politici nell’Europa
dell’Est. Vengono intanto pubblicati
dal filologo Wolfram Groddeck i testi
che documentano la genesi dei
Ditirambi di Dioniso, l’opera in
versi scritta da Nietzsche sulla soglia
della follia.
Con riferimento alla critica nietzscheana di
alcuni aspetti della cultura illuministica e
razionalistica europea, alcuni dei partecipanti hanno interpretato le recenti trasformazioni politiche nei paesi dell’Europa
dell’Est come la fine di presupposti fondamentali della cultura dell’Aufklärung. Ralf
Eichberg (Halle) ha ad esempio individuato nel crollo dei sistemi sociali e politici dei
paesi dell’Europa orientale la fine del sogno dell’Aufklärung di liberare l’essere
umano dal male attraverso l’educazione e
la ragione, di considerare la storia come
processo di realizzazione della felicità uni-
CONVEGNI E SEMINARI
versale. Su tutto ciò già Nietzsche aveva
gettato l’ombra del dubbio attraverso una
critica - a sua volta “illuministica”, in quanto demistificante - del culto della ragione e
della metafisica illuministica dell’immanenza. Ciò non toglie, osserva Eichberg,
che dopo l’opera nietzscheana di demitizzazione resti pur sempre lo spazio per prospettive etiche individuali. Dal problema
del significato di una prospettiva individualistica nei paesi “post-socialisti” ha preso
le mosse lo studioso jugoslavo di Nietzsche
Mihailo Djuric, che ha indicato nel concetto nietzscheano di “individuo sovrano”
l’espressione di una nuova dimensione della ragione. Le sue riflessioni sul concetto di
individuo e di prospettivismo della razionalità appaiono però ambigue, se si tien
conto del fatto che Djuric - dopo essere
stato incarcerato per vent’anni sotto il regime di Tito - sembra oggi essersi lasciato
sedurre dalle ambizioni di grandezza del
nazionalismo serbo, le cui tragiche conseguenze sono oggi sotto gli occhi di tutti.
Ancora nell’ambito del rapporto tra
Nietzsche e la cultura di matrice socialista
e marxista, il germanista italiano Aldo
Venturelli ha dedicato il proprio intervento al tema: “Lenin lettore di Nietzsche”. In
particolare negli anni di Ginevra, tra 1905
e 1908, Nietzsche era, accanto a Marx, uno
degli autori più letti da Lenin, come testimonia il rinvenimento nella biblioteca di
Lenin al Cremlino di un un esemplare della
Nascita della tragedia. Più interessante di
questi elementi già noti è però la considerazione che, per caratterizzare gli obiettivi
politici da raggiungere dopo la sconfitta
della rivoluzione del 1905, Lenin impiegò
la formula nietzscheana della “trasvalutazione dei valori”, ad indicare che il
marxismo non è un dogma morto ed irrigidito, ma una guida teorica per l’azione.
D’altra parte, dal punto di vista delle democrazie liberali, c’e da dire che Nietzsche fu
tra i più accesi critici della democrazia, e
nei tratti aristocratici della sua critica, che
vede nei sistemi politici democraticoliberali il dominio della maggioranza ed il
predominio dell’interesse materiale sui valori spirituali, egli si dimostrò figlio del suo
tempo. Il timore di Nietzsche, come ha
rilevato Urs Marti (Berna/Berlino), era
che le società democratiche e di massa si
sviluppassero nella direzione di uno sradicamento della cultura e della mancanza di
un’autorità, che potesse integrare le diverse spinte centrifughe. Compito del filosofo
doveva essere quello di una riflessione
critica spregiudicata e dell’invenzione di
nuove possibilità di vita. Ma se le società
democratiche si basano sul conflitto e sull’equilibrio tra diversi individui - nel linguaggio nietzscheano diverse “volontà di
potenza” - c’è da chiedersi allora su cosa
possa basarsi una nuova connessione tra le
diverse soggettività? Il filosofo della religione Jörg Salaquarda (Vienna) ha indicato nella dimensione del “sacro” la possibilità di stabilire una nuova coesione tra gli
individui. Di diverso tenore l’intervento di
Iso Camartin, dedicato al tema della “solitudine” di Nietzsche come “forma di vita”. Nell’intento di presentare una sorta di
“fenomenologia della solitudine” Camartin
ha paragonato l’esperienza di Nietzsche a
Sils Maria, con il distacco dall’amato-odiato Wagner, a quella della solitudine dei
mistici. Dal punto di vista storico-culturale,
invece, il significato della solitudine consisterebbe nel fatto che, quanto più importante diventa l’individuo nella società, tanto più intensa diventa l’esperienza della
solitudine.
All’ultimo, drammatico periodo dell’esistenza di Nietzsche rinvia il testo poetico
dei Ditirambi di Dioniso, che il filosofo
intendeva inviare nel gennaio 1889, poco
prima del manifestarsi della follia, al poeta
francese Catulle Mendès. Gli interpreti di
Nietzsche hanno lungamente discusso il
problema del significato da attribuire a
questi testi, ed in particolare se essi siano
l’espressione di una poesia “dionisiaca” in
cui si trasfigura e supera il livello della
razionalità filosofica, o se non siano invece
da intendersi come le prime avvisaglie della malattia di Nietzsche. A favore della
prima tesi si schiera ora il filologo Wolfram
Groddeck, con una monumentale opera in
due volumi pubblicata dall’editore De
Gruyter (Berlino/New York 1991). Nel primo volume, Die Dionysos-Dithyramben.
Textgenetische Edition der Vorstufen und
Reinschriften (I ditirambi di Dioniso. Edizione, dal punto di vista della genesi del
testo, delle prime stesure e delle trascrizioni in bella copia) Groddeck dà alle stampe,
oltre all’ultima versione del testo, tutti i
lavori preparatori che la precedono, solo in
parte accolti nell’edizione critica di Colli e
Montinari. Nel secondo volume, Die
Dionysos-Dithyramben”. Bedeutung und
Entstehung von Nietzsches letztem Werk)
lo studioso presenta un accurato commentario in cui viene discusso il significato
della stesura definitiva dei Ditirambi. M.M.
Cielo fisico e cielo morale
Nelle sue lezioni sul tema Rivoluzione del cielo fisico e riforma del cielo morale. Scienza e
vita civile da Giordano Bruno
ai Lincei, tenute dal 4 all’8 novembre 1991 presso l’Istituto Italiano per
gli Studi Filosofici di Napoli, Saverio
Ricci ha posto in relazione due ambiti
storiografici finora tenuti distinti dalla
letteratura sull’argomento: da un lato
la storia della fortuna di Giordano Bruno nella cultura moderna, dall’altro la
storia dell’Accademia dei Lincei e la
biografia intellettuale del suo fondatore, il principe romano Federico Cesi.
Tra i motivi della distanza tra i due ambiti
storiografici prevale sicuramente il configurarsi nella coscienza europea dell’immagine di Giordano Bruno come martire
della scienza moderna, fortemente in contrasto con quella, peraltro meno nota, di
Federico Cesi come diplomatico della scienza, impegnato in un’opera di cauta mediazione tra i rappresentanti della nuova scienza, che egli andava accogliendo nella nuova Accademia, e la Chiesa cattolica. In
realtà, dopo la sua morte, il pensiero di
Giordano Bruno ha esercitato, anche se in
modo non dichiarato e sotterraneo, una
profonda influenza sull’ambiente intellettuale linceo, che sotto l’accorta direzione
di Cesi riprenderà alcuni motivi cosmologici del programma bruniano, lasciando
però cadere le radicali istanze di riforma
etica e civile in esso contenute, pur insistendo sull’utilità del sapere per il buon
reggimento degli ordini civili.
L’Accademia dei Lincei venne fondata il
17 agosto 1603, quando solo da pochi giorni era stato promulgato l’editto con il quale
la Chiesa proibiva le opere di Bruno. E in
effetti il nome di Bruno non ricorre mai nel
carteggio dei Lincei. Neppure nelle opere
di Nicola Antonio Stigliola, l’unico linceo
che conobbe direttamente Bruno, si trova
menzione diretta del suo pensiero. In realtà, il silenzio su Bruno in ambiente linceo
mostra con quale efficacia il monito di
Campo dei Fiori abbia agito come un limite
oggettivo su tutti coloro, che dopo il 1600
ebbero in animo di procurare un progresso
della scienza. Anche se gli elementi del
programma unitariamente filosofico, religioso e politico di Bruno ritorneranno in
qualche modo in tutta la storia dell’Accademia dei Lincei.
Il programma bruniano era consistito nella
finale rivendicazione alla filosofia della
dignità di legge, ovvero di un sapere che come scrive Bruno nel De la causa - si
faccia concreto promotore di giustizia e
civiltà «ordinando leggi e riformando costumi». Già nella Cena delle ceneri Bruno
aveva conferito alla scoperta copernicana
un preciso significato etico-religioso: essa
non è che l’aurora, che prelude alla rinascita del sole dell’antica vera filosofia, quella
degli antichi pitagorici, una filosofia che
ispiri una radicale riforma degli ordinamenti morali, civili e politici, eliminando le
cause che su questo piano ostacolano e
bloccano la rivoluzione del cielo fisico, la
rifondazione del sapere come cosmo. Ora,
questa rinascente antica filosofia sarà la
filosofia nolana: Bruno è colui il quale ha
varcato i cieli, svelando l’inconsistenza
dell’ordine cosmologico tradizionale. Nell’infinità dell’universo risplende, secondo
Bruno, la stessa infinità di Dio che è presente in ogni parte della creazione, e in noi
stessi non meno che negli astri.
La base di un possibile accordo, costantemente ricercato, con la Chiesa, è in Bruno
la distinzione tra il piano della verità e
quello della fede: le sacre scritture non
hanno come scopo quello di comunicare il
vero circa le cose naturali, ma quello di
prescrivere leggi circa i comportamenti
morali; hanno quindi validità sul piano
morale, non su quello della verità scientifi-
CONVEGNI E SEMINARI
ca. Tuttavia, nell’acuirsi dello scontro con
i puritani inglesi, si fa chiara agli occhi di
Bruno la consapevolezza che non è possibile una rifondazione del sapere senza una
riforma radicale sul piano etico: così la
rivendicazione del valore etico-religioso
del copernicanesimo assume alla fine i
tratti drammatici di una critica radicale di
tutto il cristianesimo sul piano dell’efficacia sociale e civile dei suoi insegnamenti.
Nello Spaccio della bestia trionfante, alle
costellazioni dell’astrologia tradizionale
Bruno fa corrispondere i vizi ed i crimini
dell’uomo in terra. Su tutto predomina quella che Bruno chiama la grande avarizia che
va lavorando sotto il pretesto di voler mantenere la religione. La grande avarizia è
innanzitutto il protestantesimo che mortifica la scienza e infiamma guerre fratricide;
ma poi è anche il cattolicesimo che pur non
disprezzando le buone opere, ne tollera un
uso falso e corrotto; grande avarizia è in
generale la fede nel cui nome vengono
compiuti massacri e spoliazioni nel nuovo
mondo.
Condannando Bruno, la Chiesa cattolica di
fatto non condannò soltanto il sostenitore
dell’infinità dell’universo e l’eretico dubbioso circa i dogmi fondamentali della divinità di Cristo e della Trinità, ma anche il
sostenitore di una precisa politica dei dotti
e di una precisa politica tout court. Si
trattava del programma massimo della filosofia europea: rivoluzione dell’immagine
dell’universo e attacco frontale all’aristotelismo nello sviluppo del copernicanesimo; rivendicazione dell’autonomia dei sapienti dall’autorità della Chiesa nel riordinamento delle leggi e nella riforma dei
costumi; critica della morale cristiana e
soprattutto della sua degenerazione protestante, con i suoi effetti deleteri sul piano
civile; opposizione all’alleanza tra politica
spagnola e Controriforma cattolica; rifondazione della vita civile sui valori della
giustizia, del merito e della fatica, e sua
riconsacrazione come tramite efficace della giustizia divina.
Il programma di Federico Cesi, invece,
sarà alla fine sensibilmente diverso: egli
reclama la libertà di filosofare in naturalibus, ma non pretende di riformare la vita
civile. Tuttavia, l’accorta opera di mediazione che Cesi svolse per quasi un trentennio tra i nuovi filosofi e le autorità ecclesiastiche, rappresenta anche lo sforzo di trovare forme nuove in cui esprimere un’ansia
antica, quella che Bruno aveva manifestato
in toni radicali e scandalosi: l’ansia cioè di
ricomporre l’unità tra il cielo fisico e il
cielo morale, tra una nuova immagine dell’universo e i valori e le istituzioni della
civiltà. Nei suoi scritti inediti, Cesi delinea
una critica assai severa dei costumi del suo
tempo in cui ricorrono motivi analoghi a
quelli della polemica civile di Giordano
Bruno. Alla società del suo tempo Cesi,
come Bruno, contrappone l’epoca classica
con le sue lotte per il bene comune, per la
pubblica utilità. Deplora inoltre la decadenza del sapere nelle Università di cui
Presunto ritratto di federico Cesi (Palazzo Cesi)
Giordano Bruno (incisione di C. Mayer, pubblicata nel 1824)
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sono responsabili gli aristotelici, a causa
dei quali l’insegnamento della filosofia è
ormai generalmente stimato inutile rispetto all’assoluto prevalere delle arti pratiche.
In toni meno accesi il principe dei Lincei
riprende questi temi nel suo Discorso sul
naturale desiderio di sapere, pronunciato
nel 1616. Qui Cesi, richiamandosi alla grande tradizione delle Accademie d’Italia, afferma l’urgenza di rinnovare la funzione
civile della cultura e la collaborazione dei
dotti per l’avanzamento del sapere, cui è
connesso il bene della società e dello Stato.
Alla Chiesa e ai prìncipi Cesi propone il
compito di un attivo sostegno al progresso
della scienza in vista del pubblico utile. Il
che implica però una precisa delimitazione
di campi: i Lincei non si occuperanno né di
questioni teologiche, né di questioni politiche, ma d’altra parte la Chiesa e i prìncipi
dovranno lasciare ai ricercatori la libertas
philosophandi in naturalibus, vale a dire
quell’autonomia che già Bruno aveva vigorosamente rivendicato al prezzo della
vita. G.D.R.
Heidegger e i Greci
Nell’ambito del ciclo di seminari su
momenti e problemi della storia del
pensiero, organizzato dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Manfred
Riedel ha tenuto nei giorni 20-22 maggio 1991 una serie di lezioni sul tema:
Martin Heidegger e i Greci, in cui
è stato posto il problema della necessità per Heidegger di un ritorno agli
inizi per ricercare il “senso dell’essere” originariamente esperito e successivamente consegnato all’oblio e al
nascondimento.
Per Heidegger, ha sottolineato Manfred
Riedel, si tratta di recuperare ciò che della
verità dell’essere è stato anticipato e poi
consumato nel corso della storia della filosofia: questo il compito che la filosofia
deve assumere e che può assolvere percorrendo i sentieri del “domandare”. Porre il
problema della Verità significa infatti per
Heidegger ripercorrere la storia del pensiero occidentale attraverso una vera e propria
decostruzione fonomenologica dell’ontologia, con cui egli tenta di ricostruire il
senso della concezione greca. Circoscrivere i limiti della tradizione ontologica, in
una appropriazione positiva del passato è il
fondamentale compito critico della filosofia, un compito che per Heidegger si esplica nel rendere trasparente la comprensione
dell’essere. Seguendo Aristotele, Heidegger
riconosce come la storia della filosofia
antica sia la storia della scoperta della distinzione dell’essere dall’ente. La metafisica si è sempre mossa nell’ambito della
differenza ontologica ed è in quest’ambito
che Heidegger intraprende la sua ricerca
sul senso della verità come non essere
nascosto.
Riedel ha poi sottolineato come la questione dell’essere in Heidegger sia scaturita a
partire dalla domanda, propria della filosofia neokantiana del valore, «se la verità sia
un valore atemporale che deve essere, e se
l’essere vada inteso a partire dal dover
essere». L’essere per Heidegger non è un
“ente atemporale”, bensì si tratta per esso
del senso dell’essere del suo esserci. Esso
dunque può essere compreso solamente a
partire dalla sua situazionalità. Viene qui
chiamata in causa l’esperienza del tempo,
attraverso la quale Heidegger restituisce
alla vita la cosa del pensiero. D’altra parte
però quella stessa esperienza diviene ciò
che permette a Heidegger, nel passaggio
dall’esserci all’essere, di non considerare
più la storia come possibilità di una critica
del presente e quindi come una possibilità
per l’esistenza umana; il problema dell’esperienza del tempo si fa allora storia dell’essere stesso «nei suoi momenti sublimi,
che si temporalizzano come “destino” nelle epoche della metafisica».
In un primo tempo si è trattato per Heidegger
di ripercorrere la storia della scoperta dell’essere come distinto dall’ente. Ma per
poter meglio distinguere la domanda dell’essere in generale, osserva Riedel,
Heidegger ha dovuto isolare il problema
del modo in cui il tempo fa parte del senso
dell’essere, il che implicava un allontanamento da quella metafisica della libertà e
della volontà di potenza che precludeva la
possibilità di comprendere l’esperienza originariamente greca.
Da un lato si trattava dunque di decostruire
la via fondamental-ontologica, ma dall’altro di acquisire la capacità dell’ascolto di
ciò che viene da lontano ed è teso verso il
lontano. Sono questi i termini della svolta
heideggeriana, con cui viene compiuto il
primo passo verso la storia dell’essere,
lasciandosi alle spalle la comprensione dell’essere propria dell’esserci e la temporalizzazione. Il tempo infatti diviene “tempo
dell’apertura”, “luogo”: il luogo in cui ha
inizio contemporaneamente il denascondimento dell’ente, la domanda rivolta all’ente in quanto tale e la storia
dell’Occidente.
Riedel ha fatto notare come nei corsi del
1932 su Anassimandro e Parmenide, non
ancora pubblicati, la storicità del domandare sia centrale e mostri come nella conoscenza storica vi sia per Heidegger la necessità di elevare ciò che è stato all’altezza
di una storia che è storia dell’essere stesso
nei suoi momenti sublimi. Riedel ha inoltre
sottolineato come nelle intenzioni di
Heidegger vi fosse - almeno in una fase
iniziale - l’interesse a rilevare che per i
Greci porre il problema dell’essere e della
verità vuol dire occuparsi di qualcosa che è
nel mondo, fa parte della vita e del suo
movimento. La custodia dell’essere ha la
sua dimora in un luogo preciso: la polis. In
tal modo la funzione del logos non è solo
quella di rendere accessibile l’ente, ma
anche di custodirlo.
A differenza di Heidegger che a partire
dalla critica nietzscheana, assume un atteggiamento fondamentalmente antiplatonico
- considerando anzi la filosofia platonica il
luogo del cominciamento del nascondimento - Hans Georg Gadamer si attiene
fermamente al pensiero platonico. Dopo la
svolta infatti per Heidegger l’inizio della
metafisica non è più individuato con l’avvio della domanda dell’essere, quanto con
il destino del suo nascondimento. La metafisica viene interpretata come abbandono,
che ha inizio con la filosofia greca, quella
platonica, e si estende fino a caratterizzare
l’atteggiamento mondano del pensiero calcolatore e tecnico. Riedel ha voluto in effetti rilevare come la differenza di posizione nei confronti dei Greci da parte di
Heidegger e Gadamer, si manifesti in fondo a partire dal problema dell’ethos: domandare se non sia necessario mantenere il
livello etico, come aver cura del mondo,
all’interno dello statuto filosofico. E’ questo il motivo per il quale, secondo Riedel,
vale la pena affrontare il problema stesso
della storia e segnalare come, contrapponendosi a Heidegger, alla sua via in alto
della storia, Gadamer voglia piuttosto valutare la storia a partire dai suoi effetti sul
mondo, dalla sua via in basso. Egli osserva
come nonostante la necessità per Heidegger
di non sostenere un evolversi progressivo
della storia, la stessa modalità con cui questi ricostruisce il percorso storico attraverso l’oblio comporti in fondo un qualcosa di
quella logica che regge l’astratta costruzione hegeliana, là in vista della fine, qui
dell’inizio.
In ogni caso, ha sottolineato Riedel, aldilà
della chiusura che la stessa riflessione gadameriana ad un certo punto rivela, vale
soffermarsi su ciò che il diverso orientamento di Gadamer e Heidegger nei confronti dell’inizio della filosofia in Grecia
apre per la nostra riflessione. V.L.
Filosofia e liberazione
Si è svolto presso la Facoltà di Lettere
e Filosofia dell’Università di Napoli,
nei giorni 15-16 aprile 1991, un convegno internazionale sul tema: Filosofia e liberazione, organizzato dal
Dipartimento di Filosofia, dal Dipartimento di Filosofia e Politica dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli e
dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Accanto agli ospiti stranieri e ai
relatori hanno partecipato al convegno Fulvio Tessitore, Giuseppe
Cantillo, Mario Agrimi, Giuseppe Lissa,
Aldo Masullo, e numerosi altri studiosi. L’intervento di Paul Ricoeur, particolarmente atteso, ha chiuso le due
giornate di studio, in cui si è dibattuto
intorno a un concetto come quello di
“liberazione”, oggi come non mai il
più problematico nel confronto tra l’Europa e gli altri mondi storici.
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La filosofia della liberazione non intende
esprimere semplicemente una tendenza “naturale” dell’uomo all’intersoggettività, ma
si presenta come un vero e proprio movimento di lotta, calato nella situazione sociale ed esistenziale dei paesi latino-americani e in polemica con la connotazione
eurocentrica del pensiero occidentale, di
cui non ha però mancato, nell’ultimo ventennio, di approfondire il dibattito eticoteoretico, scoprendo in particolare Marx
dopo il comunismo, e in certo senso liberandolo dalla storia del cosiddetto socialismo reale.
Alfredo Gomez Müller, dell’Institut
Catholique di Parigi, ha illustrato le tappe
di una filosofia della liberazione, che si
radica fortemente nella questione sociale
dei paesi dell’America latina, e che, pur
nella interna diversità di accenti, rappresenta una sorta di uscita dalla minorità dei
filosofi ispano-americani rispetto alla tradizione occidentale.
Gwendoline Jarczyk del Collège de
France, ha sostenuto la tesi assai impegnativa di una sostanziale indifferenza delle
grandi filosofie, dai greci ai giorni nostri,
nei confronti delle condizioni storiche immediate in cui si attua il concetto di libertà.
Da ciò consegue l’esclusione dal dibattito
filosofico delle tematiche libertarie dei popoli assolutamente poveri, ai limiti della
sussistenza economico-politica, che si richiamano a un’idea di libertà come autonomia delle decisioni e libero accesso a tutte
le risorse della terra e dell’intelligenza. E’
chiaro in tal senso che il referente polemico
obbligato della filosofia della liberazione è
ogni analisi dei problemi condotta dal punto di vista esclusivamente europeo.
Pierre-Jean Labarrière ha ben distinto
tra “europeismo”, che mira a costituire
l’unità politica dei paesi europei, e “eurocentrismo”, al cui interno ancora si deve
chiarire la differenza tra una posizione che
mira a confrontarne i valori con quelli
extra-europei e quella che invece vuole
affermare il dominio di una piccola parte
del mondo sul resto del pianeta. La conquista-scoperta del nuovo mondo nel secolo
XV e il colonialismo sono stati espressione
di una volontà di potere che ancora oggi
riscontriamo nell’opposizione Est-Ovest,
Nord-Sud. L’insieme di queste considerazioni ha trovato riscontro immediato nell’intervento di Giulio Girardi, dell’Università di Sassari, che si è fatto carico di una
presa di posizione politica, schierandosi
dalla parte del Sud e delle correnti culturali,
teologiche e filosofiche che esprimono il
punto di vista dei popoli oppressi, emergenti alla dignità di soggetti storici.
Restando del tutto all’interno del pensiero
occidentale contemporaneo, Domenico
Iervolino, dell’Università di Napoli, ha
tracciato un profilo penetrante del pensiero
di Ricoeur, nel suo svolgersi tra ermeneutica e storia come racconto, filosofia della
pratica ed etica della comunicazione con
l’altro. Il pensiero di Ricoeur potrebbe dirsi
umanistico, non però antropocentrico: egli
pone l’identità personale sempre al plurale
e sempre nella serietà dell’agire tra i molteplici giochi dell’essere e della coscienza
riflessiva. In discussione polemica con
Ricoeur si è posto Enrique Dussel, dell’Università di Città del Messico, esponente di primo piano della filosofia della liberazione, di cui è stato uno degli iniziatori.
Questi ha messo in evidenza la specificità
della filosofia della liberazione rispetto alla stessa teologia della liberazione e alle
filosofie dell’occidente: quelle di Gadamer,
Habermas, Apel, Lévinas. La rilettura dei
testi di Marx operata dalla filosofia della
liberazione muove dal presupposto che il
tema del Capitale non sia il capitale, bensì
la miseria, il povero, il non-uomo.
Conseguentemente Dussel pone l’esigenza che la filosofia diventi “economia”, rivolgendosi alla relazione interumana di
base, che a suo dire non è mera produzione
di materiali-merci, ma è al tempo stesso
relazione etica, spirituale, linguistica, politica.
Paul Ricoeur ha infine preso la parola per
sottolineare la presenza del rapporto filosofia-liberazione nel pensiero della nostra
tradizione, le cui tappe essenziali da Spinoza
all’evento della Rivoluzione francese, alla
nascita del contrattualismo sino ad oggi,
hanno rappresentato un cammino di lenta,
ma decisa affermazione dell’idea di democrazia contro ogni sacralità del dominio
sull’uomo. Certamente Ricoeur ha più a
cuore la dimensione etica dell’ermeneutica, che non la sua riduzione ad un’economia, alla quale egli guarda con esplicito
sospetto. R.V.C.
Nuove vie della filosofia
Nella sede dell’Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici, André Jacob, dell’Università di Nanterre, ha tenuto dal 21 al
25 ottobre 1991 una serie di lezioni sul
tema: Nuove vie della filosofia
all’alba del III millennio. Dalla
considerazione delle dieci diverse vie
filosofiche che si sono dispiegate nel
corso della storia, Jacob ha tratto le
indicazioni per un nuovo percorso praticabile che, come via alla verità, eredita la funzione mediatrice del metodo,
e permette all’uomo contemporaneo
di superare l’ostacolo che si staglia sul
suo cammino: il nihilismo, inteso da
Jacob nella sua complessità di fenomeno culturale e sociale.
Lo sforzo teoretico messo in atto da André
Jacob consiste in un’assunzione di responsabilità rispetto all’opposizione tra la negazione nihilista e la tradizione da essa messa
in crisi che individui una “terza posizione”
in cui l’opposizione può essere superata.
Questa via dell’esistenza alla ricerca di
senso si dispiega come antropo-logica (etimologicamente: come logica dell’esistenza umana), come teoria generale dell’uma-
no (del linguaggio, del comportamento,
delle istituzioni). Fornendo indicazioni sulla
forma d’esistenza a maggior contenuto di
senso, essa permette anche di fondare l’etica; o meglio, permette d’individuare la
forma d’esistenza in cui si potrà fondare
un’umanità più compiuta.
Come approccio all’umano nella sua generalità, la via antropo-logica supera la frammentarietà delle scienze umane. Il suo campo si origina a partire dall’opposizione
lamarckiana individuo-ambiente. Come logica, essa è com-prensione del processo
dell’umano a partire dall’individuazione
che apre a uno spazio-tempo-materia che
diviene senso. La logica dell’esistenza umana s’induce per omologia dalla logica
del linguaggio, derivante da quella che
Jacob chiama la “linguistica operativa” di
Guillaume. Infatti, per via del carattere
trascendentale del linguaggio, mediatore
universale dell’esperienza umana, l’operatività linguistica offre il modello di un
individuo che ha la possibilità di sollevarsi
da un livello di particolarità ad uno di
universalità. Inoltre, l’istanza di discorso
che unifica sul piano della sincronia il
processo discorsivo funge da modello dell’
“istante fondatore” del soggetto (su-jet);
istante che permane nella “temporalizzazione” in cui il soggetto stesso si costituisce. L’operatività linguistica comporta però sempre, nella sua diacronicità, la possibilità di un’eccedenza rispetto alla lingua
intesa come sistema sincronicamente definito; pertanto essa offre anche il modello di
un individuo che preserva la propria singolarità dall’ “assoggettamento” ad un sistema impersonale.
Sono quindi distinguibili tre campi in cui
può articolarsi lo spazio-tempo-senso. Dall’individualità si può svolgere un processo
verso l’assoggettamento alla legge da parte
di un “ego” che resta al sicuro, chiuso nella
staticità (la sfera ne è rappresentazione
efficace). Diviene anche com-prensibile il
rischio di una dissoluzione e-motiva dell’individuo nel cosmo, anticipazione della
morte, che è riduzione al piano puramente
biologico. Infine si può comprendere la
possibilità di un processo umanizzante: la
“personalizzazione” di un soggetto (su-jet)
sempre “da fare”, caratterizzato dall’essere
in relazione di co-operazione e dia-logo
con l’Altro. Questo soggetto teoretizzante
si libera da ogni condizionamento immediato dell’ambiente, elevandosi ad un universale interculturale, a un “modello antimodello”. Il cono capovolto, come immagine della relazione fra individuale e universale, rappresenta efficacemente un soggetto in tal modo costituito il cui carattere
“dia-tropico” ha la proprietà del superamento dinamico delle dualità, evitandone
però l’empasse del logocentrismo eurocentrico, incapace di restituire la ricchezza
e la flessibilità del “tropos” (figura, gesto,
giro) con le e-voluzioni, ma anche con la
sov-versività e la con-versità che ne possono derivare.
L’etica, come ritrovamento della dimora
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(ethos) dell’umano, ricava dall’antropologica i principi dell’autonomia e dell’interrelazione. Superando la chiusura coscienzialistica della morale, l’etica, come ricerca di uno spazio-tempo pienamente umano, ha di mira non il Bene, ma la riconfigurazione dei rapporti intersoggettivi, in cui
siano salvaguardate le esigenze dell’aristos e del demos. Il superamento dell’interiorismo della morale comporta anche un’indispensabile riferimento all’agire politico.
Alla luce di queste indicazioni antropologiche Jacob ha suggerito una lettura dell’attuale situazione internazionale. La cattura del soggetto nell’etero-nomia, realizzatasi con i totalitarismi di questo secolo, si
ripresenta oggi con la chiusura che accompagna l’affacciarsi dei particolarismi (razzismi, nazionalismi, localismi). Ma Jacob
ha voluto anche mettere in guardia dalla
cattura economica che costringe l’individuo della società dei consumi entro l’arco
ferreo dello stimolo-risposta. La spersonalizzazione conseguente alla perdita della
distinzione tra fine e mezzo comporta una
privazione di senso, un’involuzione dello
spazio-tempo-senso a spazio-tempomateria. G.L.
Da Vienna a Napoli:
il viaggio di Lessing in Italia
Il 30 ottobre 1991, nel Teatro di corte di
Palazzo Reale in Napoli, Mario De
Cunzo, Gerardo Marotta, Paul Raabe,
Lea Ritter Santini e Nicola Spinosa
hanno inaugurato la mostra: Da
Vienna a Napoli in carrozza. Il
viaggio di Lessing in Italia.
Era presente S. E. Friedrich Ruth, Ambasciatore della Repubblica di Germania in Italia. La ricca esposizione è
stata completata da un Convegno Internazionale di Studi, tenutosi dal 31
ottobre al 1 novembre 1991 a Palazzo
Serra di Cassano, sul tema: Lessing e
i suoi contemporanei in Italia,
organizzato dall’Istituto Italiano per
gli Studi Filosofici e dal Goethe Institut
di Napoli.
Nel suo intervento d’apertura Gonrad
Wiedemann, uno degli studiosi più attenti
di Lessing, ha messo in rilievo una sostanziale disomogeneità degli interessi di
Lessing rispetto a quelli dei suoi più noti
contemporanei. Il viaggio di Lessing appare radicalmente differente da quelli che
successivamente intraprenderanno, per esempio, Goethe e Humboldt. Lessing non
pare condividere il cliché, per altro molto
diffuso nella seconda metà del XVIII sec.,
dell’Italia come Paese politicamente e culturalmente decaduto. Al contrario, riallacciandosi in qualche modo alla tradizione
umanistica, Lessing si reca in Italia con
l’intenzione di visitare una provincia della
“Repubblica dei letterati”. Nonostante l’o-
riginalità dell’approccio, il “diario” di viaggio non appare uno scritto particolarmente
significativo: è sintomatico che l’attenzione di Lessing non sia stata richiamata, per
esempio, da personaggi come Vico, Muratori o Beccaria.
Paolo Chiarini ha riportato il dibattito su
un piano più strettamente “germanistico”,
mettendo in luce il carattere di opera sistematica aperta della Hamburgische
Dramatugie, che segna un momento fondamentale dell’estetica tedesca, sottraendo
la rappresentazione tragica alla tradizione
dei canoni aristotelici.
Ampio spazio è stato dedicato alle esperienze e ai colloqui “torinesi” di Lessing. A
questo scopo Giancarlo Romagnani ha
ricostruito il panorama della Torino intellettuale negli anni 1775-76, rilevando la
presenza di tutta una letteratura che potremmo definire “sotterranea”, propria dei
circoli segreti della massoneria. Carlo
Ossola ha evidenziato l’influsso su Lessing
della Bibliopea, pubblicata nel 1776 da
Carlo Denina con l’intento di fornire un’esposizione dell’arte di comporre libri. Resta comunque certo che il confronto fra
Lessing e la cultura torinese di quel periodo
fu estremamente fecondo: a tal fine Lucetta
Levi Momigliano si è soffermata sull’incontro tra Lessing e Giuseppe Vernazza,
uno degli intellettuali italiani più prestigiosi del tempo.
Un’analisi della letteratura critica più recente su Lessing, in particolare degli interventi di Wiedmann, Raabe e Grimm, pubblicati a metà degli anni 80, ha caratterizzato l’intervento di Gert Mattenklott.
Wiedemann aveva espresso un giudizio
sostanzialmente negativo del “diario” lessingiano, rimproverandogli un eccessivo
interesse per l’erudizione libresca a discapito «delle impressioni esteriori, della loro
varietà cromatica e della loro intensità sensoriale”. Raabe invece, basandosi principalmente su fonti epistorali, aveva proposto l’immagine di un Lessing fervidamente
interessato alla realtà quotidiana, letteraria
e scientifica del paese che visita, ma impossibilitato dalla prematura morte a comporre un’opera che rendesse conto di questo
interesse. Mattenklott cerca di superare il
contrasto tra i due studiosi, sostenendo
l’impossibilità per Lessing di descrivere le
proprie inmpressioni attraverso il genere
del “diario”. Quello che appare come limite principale del “diario” di viaggio in
Italia, in quanto miscellanea di scritti eruditi, diventa, semmai, il limite della concezione stessa che ha Lessing della dignità
letteraria. Marta Cavazza ha invece evidenziato la curiosità scientifica e la passione bibliofila di Lessing. Tra i disparati testi
acquistati in Italia per la biblioteca di
Wolfenbüttel, la Cavazza ha menzionato la
Philocentria, operetta di un ex-gesuita sul
fenomeno di gravità, ed un lavoro sui fuochi di Pietramala, dovuto all’astronomo
Francesco Bianchini. Stefan Mattuschek
ha tracciato infine un interessante quadro
del rapporto tra Vico e Lessing, che si
sviluppa nel momento in cui lo scrittore
tedesco si interessa al problema dell’educazione del genere umano e della filosofia
del linguaggio. Per Vico come per Lessing
è necessario immaginare la Provvidenza
divina come l’istanza predominante per
arrivare al concetto del genere umano: una
Scienza Nuova della Bibbia. R.I.
Pluralismo delle religioni
Si è svolto a Torino nei giorni 18 e 19
Ottobre un convegno internazionale
sul tema: Cristianesimo e Religioni. Filosofia e teologia di
fronte alla sfida del pluralismo. Organizzato dall’Università di Torino, di Macerata e di Roma (Tor Vergata) e dalla redazione della rivista
“Filosofia e teologia”, l’incontro ha
tematizzato il problema del pluralismo religioso, sia come realtà sociologicamente rilevabile, sia come valore,
di fronte alla pretesa di assolutezza e
verità che le singole religioni, ma anche la filosofia e la teologia, portano
inevitabilmente con sé.
L’apertura dei lavori è stata affidata a M.
Pagano (Torino), che ha delineato l’itinerario del convegno e la natura della posta in
gioco. Individuando nella prospettiva dei
lavori di J. Hick e di W. Pannenberg i due
modelli più caratteristici di risposta filosofico-teologica al problema del pluralismo,
Pagano ha richiamato il rilevante apporto
della prospettiva teoretica di L. Pareyson,
che riportando alla luce il carattere costitutivamente ermeneutico della filosofia e il
suo radicamento nella verità, può offrire un
modello di risposta ai problemi del pluralismo.
J. Hick (Claremont, California), ha portato
la discussione sul piano teologico, all’interno della prospettiva cristiana del rapporto tra cristianesimo e religioni mondiali
(ebreismo, islam, induismo e buddhismo),
individuando due ordini di problemi, inerenti cioè le istanze salvifiche e le istanze
veritative delle religioni. Sotto il primo
profilo, dopo aver definito in termini generali la nozione di salvezza come riscatto/
liberazione dal carattere insoddisfacente e
imperfetto della vita umana, Hick ha mostrato l’impossibilità di un raffronto delle
fedi sulla base della loro efficacia salvifica
proponendo di pensare la salvezza come
una realtà, non esclusivamente cristiana,
che muovendo dall’Unica realtà trascendente influisce sulla vita umana attraverso
differenti totalità religiose. Sotto il profilo
veritativo i conflitti tra le religioni si situano a livello di credenze storiche, metafisiche e teo-logiche.
Al primo livello le differenze interreligiose, componibili solo attraverso prove storiche, sembrano rimanere permanenti. Anche a livello metafisico le credenze in gioco
non paiono componibili tra loro, perchè
CONVEGNI E SEMINARI
funzioni di un sistema più ampio centrato
sulla concezione della Realtà Ultima, che,
ed è il terzo livello, concepita personalmente o impersonalmente permane difficilmente accessibile nella sua relazionalità
interreligiosa. Semmai si dovrà pensare la
Realtà Ultima come realtà mai adeguatamente esprimibile in termini umani, realmente trascendente, capace tuttavia di una
salvezza che passa proprio nelle forme
storiche della risposta umana alla volontà
salvifica. Pur ribadendo l’imprescindibile
necessità del dialogo. Dal punto di vista
della riflessione teologica cristiana W.
Pannenberg (Monaco di Baviera) ha mostrato di considerare i conflitti di ordine
veritativo presenti nelle varie religioni, in
modo pregnante. Le domande poste in tal
senso da Pannenberg si sono incentrate
sulla realtà divina della fede cristiana, sul
contenuto di salvazione delle altre religioni
e sull’insegnamento per la religione cristiana proveniente dalla realtà divina di
quest’ultime. Nelle risposte si è fatto riferimento sia alla polemica profetica che neotestamentaria circa le rappresentazioni antropomorfiche di Dio, ma anche all’idea
paolina della confusione tra Creatore e
creature, presente nelle religioni ellenistiche. Nell’accezione cristiana la salvezza
non può non mantenere Cristo come unico
criterio di salvezza che non esclude però
coloro che, pur non partecipando della comunità storica della Chiesa, vivono secondo il messaggio di Cristo.
W. Waldenfels (Bonn) ha ripercorso le
tappe della biografia e della riflessione di
Keiji Nishitani, uno dei più autorevoli rappresentanti della scuola di Kyoto, aperta a
molteplici influssi culturali dell’occidente.
Nishitani, definitosi “buddhista e cristiano
in divenire”, approfondendo la nozione di
vuoto, tipica di autori come Nagarjuna e
anche dello Zen, ha incontrato il locus
classicus cristologico della ekkenosis (farsi-vuoto) di Cristo nella kenosis essenziale
di Dio, presentando così una suggestiva
realizzazione dell’incontro tra cristianesimo e buddhismo. Parallelamente a questa
apertura verso espressioni culturali e religiose dell’estremo oriente, Kh. Fouad
Allam (Trieste) ha aperto una finestra sulle
dinamiche, anche contradditorie, presenti
nell’Islam contemporaneo e concernenti il
riconoscimento del pluralismo religioso e
la difesa dell’identità islamica.
V. Melchiorre (Milano) e C. Geffrè (Parigi) hanno affrontato la questione delle condizioni teoriche ed ermeneutiche del dialogo dal punto di vista filosofico, il primo,
teologico il secondo. Melchiorre ha preso
le mosse dall’insanabile aporia della coscienza religiosa, la quale afferma i nomi
molteplici del divino, da una parte, e insieme, dall’altra, anche «l’impossibilità di
dire l’Ultimo Nome». Rileggendo alcune
tappe cruciali della storia del pensiero da
Anselmo a Gassendi, a Descartes, a Kant e
a Hegel, Melchiorre ha inteso mostrare
come ogni processo conoscitivo, che sempre parte dal finito, porti in sé la necessità
della postulazione dell’Infinito o dell’Assoluto fondante. E’ nel simbolo e nel linguaggio metaforico del Sacro che si ritrova
la composizione dell’ambivalenza di silenzio e parola, tipica dell’esperienza religiosa, capace di fondare la legittimità e l’esigenza di un pluralismo espressivo intorno
alla Causa di tutte le cose. Riprendendo in
prospettiva teologica la distinzione già introdotta da E. Schillebeeckx tra “pluralismo di fatto” e “pluralismo di diritto”, C.
Geffrè ha posto la fondazione del pluralismo di diritto nella ricomprensione del
rapporto tra Chiesa e Israele. La morte di
Cristo, rompendo il diaframma tra Israele e
“le Genti”, pone la Chiesa di fronte ad una
salvezza, il cui compimento è nel Regno di
Dio ed è capace di valorizzare pienamente
le ricchezze autentiche presenti nelle altre
tradizioni religiose.
Infine G. Filoramo (L’Aquila) ha centrato
l’attenzione sull’apporto offerto dalle Scienze Umane allo studio del rapporto religione/religioni. Dopo aver ripreso la questione epistemologica, egli ha evidenziato come la configurazione di una disciplina definibile come “Scienza delle Religioni”
possa contemporaneamente salvare il dato
molteplice delle religioni storiche e il pluralismo metodologico di approccio a un
oggetto non riducibile ad unità. Filoramo
ha poi ripreso la polemica, avviatasi negli
anni ’60 tra un’accezione di Scienza della
Religione erede del verstehen di
Schleiermacher, Otto, Van del Leeuw, che
considera la religione come realizzazione
Villard de Honnecourt (XIII sec.)
Il grande Architetto dell'Universo. (Bibliothèque nationale de Paris)
del suo proprio Geist, e una prospettiva
CALENDARIO
CALENDARIO
Nel quadro della propria attività, la
Fondazione San Carlo di Modena ha
organizzato, a partire dall’ottobre
1991, un ciclo di lezioni sul tema:
Religioni in dialogo. Storia e
attualità, che si protrarrà fino al
marzo 1992. Il calendario delle relazioni è il seguente: 3 ottobre, A. Rizzi: “Il dialogo tra le religioni”; 17
ottobre, L. Caro: “Israele e i popoli
della Bibbia”; 14 novembre, P.
Sequeri: “Extra ecclesiam nulla salus? Dalla teologia medievale a Pico
ed Erasmo”; 12 dicembre, G.
Imbruglia: “Il cristianesimo nelle
Americhe”; 16 gennaio, E. Mazza:
“La liturgia dopo il Concilio di Trento.
Dai riti-spettacolo alla pastorale liturgica”; 6 febbraio, G. Sorani: “La
‘Nostra Aetate’ e il dialogo cristianoebraico”; 27 febbraio, M. Introvigne:
“Nuove sette, nuovi sincretismi e ritorno al sacro”; 5 marzo, K. Fouad
Allam: “L’Islam e l’Occidente”. Il 12
marzo le lezioni si chiuderanno con
una tavola rotonda su “Il dialogo ecumenico in Italia verso il terzo
Millenio” a cui partecipano M.
Vingiani, S. Ribet e T. Valdam.
Aperture al futuro. Le forme e la
storia è il titolo di un ciclo di lezioni,
che ha preso il via nell’ottobre 1991 e
si protrarrà fino all’aprile 1992 con il
seguente calendario: 25 ottobre, P. P.
Portinaro: “Signum prognosticum.
Meditazioni postkantiane sulla filosofia della storia”; 8 novembre, M.
Cometa: “Soglie dell’abbandono. La
secolarizzazione della pazienza nella
letteratura tedesca contemporanea”;
22 novembre, S. Vegetti Finzi: “Il
doppio tempo dell’attesa. Tempo biografico e tempo biologico nel ‘mettere al mondo”; 6 dicembre, G.
Bompiani: “In attesa dell’occasione.
Due forme della temporalità”; 14 febbraio, A. M. Iacono: “Futuro, ciclo,
evoluzione, apocalisse”; 14 febbraio,
C. Grottanelli: “La prognosi tra divinazione e profezia. Grecia natica e
mondo biblico”; 23 marzo, A.
Placanica: “Futuro temuto-futuro sperato. Coerenze e mutazioni nel paradigma della fine”; 10 aprile, A. Prosperi: “Fine del mondo-conquista del
mondo. Ascesa e crisi del profetismo
apocalittico nell’età delle scoper
te”.Venerdì 11 ottobre 1991, Albano
Biondi e Massimo Cacciari hanno
presentato il De Vita di Marsilio
Ficino (a cura di A. Biondi e G. Pisani,
Ed. Biblioteca dell’immagine).Sabato
30 novembre 1991 è stato presentato
il libro di Pier Cesare Bori, Per un
consenso etico tra culture
(Marietti, Genova 1991): al dibattito
con l’autore sono intervenuti Guglielo
Forni e Mohamed Kerrou. Un seminario di studio su: Alfred Schutz.
Le strutture del mondo della
vita, è annunciato per gennaio-marzo
1992. Questo il calendario degli interventi: 15 gennaio, E. Melandri:
“Alfred Schutz e i rapporti tra sociologia e fenomenologia”; 3 febbraio,
R. Bodei: “Transiti: i confini del mondo della vita”; L. Muzzetto: “La ‘werelation’ come fondamento dell’intersoggettività”; 4 marzo, L. Sciolla:
“Strutture di rilevanza e mondo della
vita”. Sempre per gennaio-marzo
1992 è annunciato un seminario di
studio sul tema: Non violenza e
jihad nella cultura e nella storia
islamica, a cui parteciperanno
Khaled Fouad Allam e Bianca Maria
Amoretti Scarcia.
● Informazioni: Fondazione Collegio San Carlo, via S. Carlo, 5, 41100
Modena, tel. 059/222315
Si è tenuto l’8 e 9 ottobre 1991 presso
l’Università di Essen un convegno
sul tema: Est-Ovest oggi: contro
la coazione al metodo nelle
scienze dello spirito, organizzato
dall’editore “Die Blaue Eule”. Sono
intervenuti: N. Thon, R. Maiwald, J.
Klein, K. R. Wagner, K. Bering, A.
Steffens, A. Rooch, J. Fellsche, E.
Lehmann, G. Zimmermann, E.
Reckwitz e R. Heinz.
● Informazioni: Verlag Die Blaue
Eule, Aktienstr. 8, D-4300 Essen 11.
Si è svolto dal 16 al 18 ottobre 1991 a
Weilburg un convegno sul tema:
Princìpi cognitivi per l’ordinamento e la rappresentazione del
sapere.
● Informazioni: P. Jaenecke, SEL
Alcatel, Ostendstr. 3, D-7530
Pforzheim.
Il 24 e 25 ottobre 1991 si è tenuto a
Greifswald un convegno sul tema:
Linguaggio e atto del parlare: strutture e funzioni, norme, valori e azione.
● Informazioni: D. Bastian, Institut
für Deutsche Philologie, ErnstMoritz-Arndt-Universität, Bahnhofstr. 46-47, D-2200 Greifswald.
Si è tenuto a Monte Livata (Subiaco/
RM), nei giorni 28-30 ottobre 1991,
un convegno su: Il problema del
fondamento e la filosofia italiana del Novecento, organizzato dal
Centro per la Filosofia Italiana. Questo il programma degli interventi: V.
Mathieu: “L’atto come fondamento”;
A. Masullo: “Il fondamento e il tempo”; F. Bosio: “La razionalità discorsiva e il problema del fondamento nel
pensiero italiano contemporaneo”; A.
Capizzi: “La scelta come fondamento”; E. Severino: “Elenchos”; E.
Baccarini: “Il fondamento nel pensiero di E. Severino”; F. Prini: “Fondamento e finalità”; F. Rivetti Barbò:
“Un dibattito sui fondamenti conoscitivi in Italia”; P. Miccoli: “Il fondamento: tirannia o seduzione del filosofare?”; G. Vattimo: “Il fondamento secolarizzato”; G. Carcaterra:
“Il problema del fondamento nella
filosofia morale del ‘900 in Italia”; S.
Moravia: “Esperienza vissuta e morale”; B. Lauretano: “Il problema dello sfondamento”; I. Mancini: “Filosofia della religione: il fondamento”;
F. Barone: “Il problema del fondamento e la filosofia della scienza”; A.
Pieretti: “Fondamento e linguaggio:
un problema aperto”; R.D. Brienza:
“L’uomo e la sua formazione: il fondamento tra troppo e il troppo poco di
semanticità”.
● Informazioni: Centro per la Filosofia Italiana, viale Piave 79, 00040 Tor
San Lorenzo (RM), tel. 06/9103741
I giorni 18 e 19 ottobre 1991, presso
il Centro Culturale San Fedele di
Milano, è stato organizzato dall’Associazione Hans Urs von Balthasar,
in collaborazione con l’Editoriale Jaca
Book e l’Editrice Morcelliana, un convegno di studi sul tema: Solo l’amore è credidibile. Hans Urs von
Balthasar, una teologia dagli spazi
illimitati. Hanno preso la parola: P.
Henrici: “La formazione culturale e
teologica di H. Urs von Balthasar; R.
Vignolo: “Gloria, una rilettura dell’estetica teologica; G. Dalmasso: “Teologica: la verità ‘di’ Dio”; G.
Sommavilla: “Balthasar in Italia: la
testimonianza di un traduttore”; E.
Guerriero: “L’estremo amore di Dio
nella gloria del suo morire:
Teodrammatica”; J. Servais: “L’Istituto S. Giovanni e la Casa Balthasar”;
A. Sicari: “Maria, Pietro e Giovanni,
figure della Chiesa. L’ecclesiologia
di H. Urs von Balthasar”.
● Informazioni: Associazione Hans
Urs von Balthasar, Via S. Simpliciano
7, 20121 Milano
Organizzato dalla rivista “Nuova Secondaria”, il 28 e 29 ottobre 1991,
presso la Camera di Commercio di
Brescia, si è tenuto il corso nazionale
di aggiornamento: “Filosofia” e
“Filosofia di”. Ruolo e funzioni
della filosofia nella nuova scuola secondaria. Relazioni di E.
Agazzi, D. Antiseri, G. Giorello, M.
Perniola, N. Matteucci, F.
D’Agostino, A. Rigobello, I. Mancini, G. Acone, E. Berti, C. Sini.
● Informazioni: Editrice La Scuola,
Ufficio corsi e convegni, Via Cadorna
11, Brescia
I giorni 1 e 2 novembre 1991, il Centro Internazionale di Studi di Estetica
ha tenuto a Palermo un seminario dal
titolo: Laocoonte 2000, in occasione della pubblicazione del Laocoonte
di Lessing, promossa dallo stesso
Centro. Si segnalano le relazioni di B.
Andreae: “Perchè il prete Laocoonte
è così grande in confronto ai suoi figli
e per quale motivo ha i capelli scomposti e irsuti?”; Giorgio Cusatelli:
“Laokoon: un gesto; e Vittorio
Fagone: “Laocoonte: un «errore necessario»?”.
● Informazioni:Centro Interna-zione
Studi di Estetica, Viale delle Scienze,
90128 Palermo, tel. 091/6560274
Si è svolto dall’1 al 3 novembre 1991
a Bad Boll un convegno su: Simone
Weil pensatrice politica.
CALENDARIO
● Informazioni: Evangelische
Akademie, Akademieweg 11, D-7325
Bad Boll.
E’ iniziato il 5 novembre 1991 ad
Amburgo un ciclo di seminari sul
tema: Caos e sistema.
● Informazioni: Evangelische Akademie Nordelbien, Esplanade 15, D2000 Hamburg 36.
Si è tenuto il 6 e 7 novembre 1991
presso l’Università di Osnabruck un
convegno sul tema: Redenzione attraverso la rivelazione o la conoscenza? Sul risveglio della
gnosi.
● Informazioni: Prof. Dr. Georg
Untergassmair, Universität Osnabrück, Fachbereich Katholische
Theologie, Driverstr. 26, D-2848
Vechta.
La Casa della Cultura di Milano, nel
quadro della sua attività seminariale,
organizza a partire dal novembre 1991
una serie di incontri sul Pensiero
inventivo. La fabbrica della cultura, a cura di Psòmega, che si articoleranno secondo il seguente calendario: 6 novembre, M. Bonfantini: “Il
Pragmatismo è un umanesimo?”; 6
dicembre, M. Bertoldini, C. Talamo:
“L’atto progettuale”; 24 gennaio, M.
Bonfantini, M. Ferraresi, L. Marconi:
“Le semiotiche speciali”; 14 febbraio,
M. Bonfantini, A. Ponzio: “Dialogo
della menzogna”; 16 aprile, M.
Macciò: “Freud e il comunismo”; 30
aprile, R. Satolli, F. Terragni:
“Bioetica ed ecopolitica”; 14 maggio, G. Neri, R. Valtorta, M. Ferraresi,
M. Finazzi: “Futuro e immagine”; 28
maggio, G. Liguori, G. Stocchi: “Da
sogni e da città”.
Martedì 10 dicembre ha inoltre avuto
luogo una tavola rotonda con la partecipazione di M. Cacciari, M. Ferraris,
C. Formenti, R. Madera, M. Spinella,
sul tema: Miti e misteri del mondo laico. La discussione ha preso
spunto dalla pubblicazione del libro
di Carlo Formenti: Piccole apocalissi. Tracce della divinità nell’ateismo
contemporaneo (Cortina editore,
1991).
● Informazioni: Casa della Cultura,
Via Borgogna 3, 20122 Milano, tel.
02/795567
Il Club dei Club e il Laboratorio
Riformista, insieme alla rivista “Il
Bianco e il Rosso” e con la collaborazione scientifica del Centro studi
Politeia di Milano, hanno organizzato un convegno sul tema: Etica laica
ed etica cattolica a confronto.
Valori, Cultura e Politica, che si è
svolto al Palazzo delle Stelline di
Milano nei giorni 8 e 9 novembre
1991. Il primo giorno, il tema “Laicità
e religiosità nel mondo secolarizzato” è stato discusso da H. T. Engelhardt
Jr., M. Mori, A. Bausola; è seguita
una serie di interventi di studiosi,
mentre le conclusioni sono state tratte
da S. Veca e F. Forte. Il secondo
giorno del convegno, alla tavola rotonda sul tema: “Dopo i comunismi:
politica e valori in Italia e in Europa”,
hanno pertecipato P. Carniti, C. Martelli, M. Martinazzoli, G. Napolitano;
le conclusioni sono state di G.
Spadolini.
● Informazioni: Politeia, Via Brera
18, Milano, tel. 02/877873
Il giorno 11 novembre 1991, presso
l’Aula Absidale di Santa Lucia in
Bologna, il Ministero dell’Università
e della Ricerca Scientifica e l’Università di Bologna hanno organizzato
una giornata di studio e dibattito per
presentare la ricerca: Come finanziare l’istruzione universitaria,
realizzata dal Centro Politeia di Milano. L’analisi della situazione del diritto allo studio e le nuove proposte di
intervento, quali i prestiti di studio,
sono stati dibattuti in una serie di
interventi di docenti, sindacalisti e
uomini politici. Relazioni di: A.
Visalberghi: “Uno sguardo al panorama internazionale”; A. Martinelli,
V. Capecchi e A. Zuliani: “Gli aspetti
sociologici: gli effetti sulla composizione sociale degli studenti, gli sbocchi professionali dei laureati”; G.
Mazzocchi e F. Cavazzutti: “Gli aspetti economici: effetti sulla finanza
pubblica, problemi di equità e di efficienza”.
● Informazioni: Politeia, Via Brera
18, 20100 Milano, tel. 02/877873
Il giorno 14 novembre 1991, l’Università degli Studi di Milano, in occasione del centenario della nascita di
Antonio Banfi ha inaugurato un ciclo
di letture intitolate al nome del filosofo, che verranno tenute annualmente
da illustri studiosi italiani e stranieri.
Per l’anno accademico 1990-91,
Norberto Bobbio ha parlato sul tema:
La filosofia della storia oggi.
● Informazioni: Dipartimento di Filosofia, Università degli Studi di Milano, Via Festa del Perdono 7, 20122
Milano, tel. 02/58352733
Si è svolto il 14 novembre 1991 a
Norimberga un convegno su: La conoscenza di sé e la notte della
colpa. Giovanni della Croce e la
mistica della liberazione.
●Informazioni: C. Pirckheimer Haus,
Königstr. 64, D-8500 Nürnberg 1.
Il 16 novembre 1991 si è tenuto a
Karlsruhe un convegno su: L’uomo,
centro della creazione. Sulla visione della vita e del mondo di
Albert Schweitzer. Interventi di
Claus Günzler (Karlsruhe), Hans H.
Jenssen (Berlin) e Hans-Joachim
Werner (Karlsruhe).
● Informazioni: Katholische
Akademie der Erzdiözese Freiburg,
Postfach 947, D-7800 Freiburg, tel.
0761/19180.
Si è svolto a Heidelberg, il 16 e 17
novembre 1991, un convegno dedicato al tema: Fenomenologia e
filosofia della natura, cui hanno
partecipato Eberhard Avé-Lallement
(Monaco), Heribert Nobis (Monaco)
e Bernhard Rang (Friburgo in
Brisgovia).
● Informazioni: Katholische
Akademie der Erzdiözese Freiburg,
Postfach 947, D-7800 Freiburg, tel.
0761/19180
L’Accademia Cattolica di Treviri ha
organizzato, dal 21 al 23 novembre
1991, un convegno su: Libertà e
giustizia: due principi contrastanti nell’attività economica?
●Informazioni:
Katholische
Akademie Trier, Postfach 2330, D5500Trier
Nel novembre 1991 ha preso il via, a
cura degli Editori Laterza e della
Fodazione Sigma Tau, un ciclo di
conferenze dal titolo: Lezioni italiane, che studiosi di fama internazionale terranno in diverse Università italiane. Il programma per il 199192 è il seguente: 21-22 novembre,
Università ‘La Sapienza’ di Roma Wolf Lepenies: “Ascesa e caduta dell’intellettuale in Europa”; 11-13 dicembre, Università degli Studi Milano - John Barrow: “Perchè il mondo è
matematico?”; 16-18 dicembre, Università degli Studi di Bologna Francisco Varela: “Un know-how per
l’etica”; 17-18 gennaio, Università
‘La Sapienza’ di Roma - Francesco
Corrao: “Modelli psicoanalitici”; 1214 febbraio, Università degli Studi di
Milano - Ilya Prigogine: “Le leggi del
caos”; 24-26 marzo, Università ‘La
Sapienza’ di Roma - Hilary Putnam:
“Il Pragmatismo, una questione aperta”; 7-9 aprile, Università degli Studi
di Milano - Aldo Giogio Gargani: “Il
testo del tempo”; s.g. novembre 1992,
Università ‘La Sapienza’ di Roma Jean Starobinski: “Aspetti del dono”.
● Informazioni: Fondazione SigmaTau, P.zza S. Ignazio 170, 00186
Roma, tel. 06/6783458.
La Heimvolkshochschule St.
Jakobushaus di Goslar ha organizzato dal 25 al 29 novembre 1991 un
seminario di introduzione alla filosofia dedicato al tema: Verità e realtà.
●
Informazioni:
Heimvolkshochschule St. Jakobushaus,
Reusstr. 4, D-3380 Goslar.
Il 27 novembre 1991, presso la Sala
del Guariento dell’Accademia
Patavina di Scienze, Lettere e Arti, è
stata organizzata dall’Università degli Studi di Padova una giornata di
studio: Luigi Stefanini (18911956). Nel centenario della nascita. Dell’opera e del pensiero del
filosofo hanno parlato: G. M. Pozzo:
“Stefanini maestro”; P. Prini: “Il pensiero di Luigi Stefanini”; G. Flores
d’Arcais: “L’estetica e la pedagogia
di L. Stefanini”. Nell’occasione sono
stati presentati l’edizione di due opere: L. Stefanini, Platone (2 voll.,
CEDAM, Padova 1991) e Dialettica
dell’immagine. Studi su l’
“Imaginismo” di L. Stefanini (A cura
dell’Associazione
Filosofica
Trevigiana, Marietti, Genova 1991).
● Informazioni: Accademia Patavina
di Scienze Lettere e Arti, Via Accademia 7, Padova, 049/655249
Si è svolto il 29 e 30 novembre 1991
presso l’Accademia cattolica ‘Die
Wolfsburg’ a Gelsenkirchen un corso
filosofico di base sul tema: Simone
Weil: mistica e filosofia del quotidiano.
● Informazioni: Katholische Akademie Die Wolfsburg, Virchowstr. 120,
D-4650 Gelsenkirchen.
Il giorno 30 novembre 1991, a cura
delle Università ‘La Sapienza’ e ‘Tor
Vergata’ di Roma, si è tenuto presso
il Dipartimento di Filosofia e di Teoria delle Scienze Umane un colloquio
sul tema: Prospettive del Realismo. Hanno preso la parola: A. Stroll:
“Reflection on Surfaces”; P. Bozzi:
“E’ la percezione una facoltà ‘psichica’?”; H. Hochberg: “Russell’s
Hypothetical Realism”; F. Restaino:
“Realismo senza fondamenti”; B. Mac
Guinness, “Truth, Time and Deity”;
G. Frongia, “Può lo scetticismo essere confutato?”
● Informazioni: Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze Umane, Via Magenta 5, 00100 Roma
L’Istituto Suor Orsola Benincasa di
Napoli, in collaborazione con il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Napoli, ha organizzato, nei
giorni 2 e 3 dicembre 1991, un convegno dal titolo: Ricordo di Pietro
Piovani (1922-1980). Sono intervenuti G. Galasso: “Presentazione del
volume di autori vari: L’opera di Pietro Piovani (Napoli 1991); E.
Opocher: “La filosofia del diritto di
P. Piovani e il pensiero di Capograssi”;
V. Mathieu: “P. Piovani e il diritto
naturale”; M. A. Cattaneo: “Alcune
considerazioni su giusnaturalismo,
giustizia e sentimento del diritto naturale”; P. Rescigno: “Le ‘situazioni’
del diritto”; A. Giuliani: “Attualità
del vichismo di P. Piovani”; A. Tarantino: “Dalla natura delle cose sto-
CALENDARIO
riche al principio di effettività”; G.
Marino: “Filosofia della legge e il
positivismo della scienza”; G.
Martano: “L’ars poetica oraziana
nella germinazione del pensiero vichiano”; A. Masullo: “La difettività
del fondamento”; G. Calabrò: “Incontro con Montaigne”; M. Agrimi:
“Ancora sul Vico di Piovani”; D.
Corradini: “La norma e le norme: il
problema dell’intersoggettività e del
riconoscimento; A. Agnelli: “Filosofia politica e filosofia monastica: la
scelta vichiana di P. Piovani”.
Dal 12 al 14 dicembre 1991 l’Istituto
Suor Orsola Benincasa ha organizzato
un convegno sul pensiero di Augusto
del Noce. Il convegno è stato articolato per aree tematiche e ha visto la
partecipazione di circa trenta studiosi,
impegnati in sei tavole rotonde. Per la
sezione: “Il problema dell’ateismo”,
hanno preso la parola M. Cacciari: “Il
‘problema dell’ateismo’”; S. Natoli:
“Salvare il tempo e dominare l’evento? Ateismo e modernità nel pensiero
di A. Del Noce”; A. Rigobello: “Male
e giustizia in A. Del Noce”; M. M.
Olivetti: “Status naturae lapsae e ateismo nel costituirsi della filosofia moderna”; R. Buttiglione: “Il rapporto tra
Filosofia e Teologia e la questione
del cristianesimocome problema fondamentale della filosofia moderna nel
pensiero di A. Del Noce”. Per la sezione: “Del Noce e il Marxismo”, hanno
parlato E. Berti: “la dialettica nel pensiero di A. Del Noce”; S. Azzaro:
“Marx, Gramsci, Gentile”; R. De
Mattei: “A. Del Noce e il suicidio della
rivoluzione”; G. Cotroneo: “Il ‘cattolicesimo comunista’”; V. Strada: “Il
marxismo nell’interpretazione di Del
Noce”. Per la sezione:”Gnosticismo e
utopia”, hanno parlato L. Pellicani:
“Del Noce e lo gnosticismo rivoluzionario”; A. Andreatta: “Su alcune riflessioni delnociane in tema di utopia”; T. Perlini: “L’influenza del pen-
siero russo sulla riflessione delnociana”; G. Riconda: “Del Noce e il pensiero esostenziale russo”; M. Quaranta: “A. Del Noce o della Ragion divisa”. Per la sezione: “Del Noce e la
critica dell’idea di modernità”, hanno
preso la parola L. Colletti: “Del Noce
e la critica della civiltà moderna; S.
Maffettone: “Scienza moderna e riflessione critica nel pensiero di A. Del
Noce”; A. Zanfarino: “Politica e critica della modernità”; A. Agnelli: “Il
giudizio sul Risorgimento come misura dei filosofi italiani del Novecento
per A. Del Noce”; G. Calabrò:
“Cartesio e la crisi libertina nell’interpretazione di A. Del Noce”. Per la
sezione: “Del Noce e l’interpretazione
di Gentile”, hanno preso la parola A.
Negri: “Del Noce, Gentile e l’interpretazione transpolitica della storia contemporanea”; V. Possenti: “Il Gentile
di Del Noce”; B. De Giovanni: “L’interpretazione del pensiero di Gentile”;
R. De Felice: “La storia contemporanea nella visione di A. Del Noce alla
luce delle ultime vicende del comunismo”; P. Prini: “Rosmini, Gioberti,
Gentile e il senso della filosofia del
Risorgimento secondo Del Noce”. Infine per la sezione: “Del Noce filosofo
della politica italiana”, hanno parlato
C. Vasale: “Il problema di Del Noce
come ‘problema Del Noce’. Appunti e
spunti per una interpretazione politica
del suo pensiero politico”; L. Russi:
“Del Noce storico delle dottrine storiche. (1970-75)”; D. Castellano: “A.
Del Noce e il problema della definizione di ‘destra’”; G. Galasso: “La
lettura gramsciana di Del Noce”.
Prosegue intanto il corso di aggiornamento e perfezionamento in discipline storico-filosofiche per l’anno accademico 1991-92, dal titolo: Dal
criticismo allo storicismo. Storia della Storiografia Filosofica,
che l’Istituto Suor Orsola Benincasa
organizza dal novembre 1991 all’a-
prile 1992. Ecco il calendario delle
lezioni: 25 novembre - V. Mathieu:
“Il criticismo kantiano (I)”; 26 novembre - V. Mathieu: “Ilcriticismo
kantiano (II)”; 5 dicembre - C. Cesa:
“Fichte: la dottrina della scienza”; 9
dicembre - G. Moretto: “Schleiermacher e i nuovi orizzonti della filosofia della religione”; 17 dicembre F. Moiso: “Schelling: dalla filosofia
della natura all’idealismo trascendentale”; 9 gennaio - B. Forte: “Teologia
e filosofia della storia: un dibattito
‘moderno’”; 13 gennaio - V. Verra:
“Hegel: dalla Fenomenologia all’Enciclopedia”; 21 gennaio - C. Cesa:
“Le vie dell’hegelismo”; 28 gennaio
- C. Fabro: “Kierkegaard oggi”; 4
febbraio - G. Riconda: “Schopenhauer: volontà e rappresentazione”;
11 febbraio - L. Colletti: “Marx e la
concezione materialistica della storia”; 18 febbraio - E. Rambaldi:
“Feuerbach: umanesimo e critica della religione”; 25 febbraio - G. Vattimo:
“Nietzsche: morte di Dio e rovesciamento dei valori”; 5 marzo - A. Negri:
“La scienza della società: Comte e
Spencer”; 10 marzo - V. Cappelletti:
“Darwin: tra storia della vita e storia
dell’uomo”; 17 marzo - G. Oldrini:
“La cultura napoletana dell’Ottocento e l’Europa (I)”; 18 marzo - G.
Oldrini: “La cultura napoletana dell’Ottocento e l’Europa (II)”; 24 marzo - F. Barone: “La crisi delle scienze
empiriche”; 1 aprile - S. Mastellone:
“Il pensiero politico dell’Ottocento
tra liberalismo e democrazia”; 7 aprile - A. Trione: “L’estetica di Francesco De Sanctis”; 29 aprile - F. Tessitore: “Il sapere storico: filologia e
metodologia delle scienze storiche”.
● Informazioni: Istituto Suor Orsola
Benincasa, C.so Vittorio Emanuele
292, Napoli
Il 7 e 8 dicembre 1991, presso il
Centro Culturale Polivalente di Cat-
tolica, ha avuto luogo un convegno
dal titolo: Elogio della Politica,
organizzato dalla Biblioteca Comunale in collaborazione con l’Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici. Alla
discussione, cui faceva da moderatore Beniamino Placido, sono intervenuti: R. Bodei, A. Bolaffi, G.
Carandini, G. Carbone, U. Galimberti,
A. Giolitti, D. Losurdo, A. Manzella,
G. Marramao, S. Vertone.
● Informazioni: Centro Culturale Polivalente, Piazza della Repubblica 2,
47033 Cattolica (FO), tel. 0541/
967802.
Dal 9 al 12 dicembre 1991, l’Università degli Studi della Repubblica di San
Marino, in collaborazione con il Centro Internationale di Studi Semiotici e
Cognitivi, ha organizzato nella sede
della Biblioteca di Stato un seminario
sul tema: Semantic Theory. Relazioni di C. Fillmore: “Integrating
Lexical Semantics and the Semantics
of Grammar”; M. Bierwisch:
“Semantic Form as an Interface
between Grammatical and Conceptual
Structure”; G. Nunberg: “Deixis and
Property Transfer: The Varieties of
Deference”; B. Shanon: “The Place of
Semantic Repre-sentation in Cognitive
Theory”; A. Caramazza: “The
Dissolution of Meaning in Brain
Damage”.
● Informazioni: Università di San Marino, Contrada Omerelli 77, 47031 San
Marino, tel. 0549/882516
Martedì 10 dicembre 1991, presso l’aula magna dell’Università degli Studi di
Pavia, in occasione della presentazione della traduzione italiana del libro di
Michel Mayer, Problematologia. Filosofia, scienza e linguaggio (Pratiche
Editrice, Parma 1991), l’autore, presentato da Livio Rossetti, ha tenuto
una conferenza sul tema: Passioni e
identità personale.
ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
Palazzo Serra di Cassano - Via Monte di Dio, 14 - 80132 Napoli
9-12 dicembre
Giancarlo Rota (M.I.T. Boston)
Phenomenology
and the foundations
of mathematics
The axiomatic method and the hermeneutic circle in mathematics - The
problem of existence of mathematical constructs - Invention and
discovery in mathematics Mathematization as the ideal of the
science.
16-20 dicembre
F. Jarauta, E. Trias, F. Savater A.
Gonzales, J. I. Linazasoro
Pensamiento español
contemporaneo
España, o la historia de una incertidumbre - Exilio occidental y viaje a
Oriente - Amor proprio y libertad.
Los paradojas de la ética - «La noche
española». España como metaforta
del exceso en el arte del siglo XX - El
espacio interiorizado. Un analisis y
una propuesta.
7-10 gennaio
Gianfranco Poggi (Uni. Virginia)
La Filosofia del denaro di Simmel
La Filosofia del denaro: contesti della genesi dell’opera - Azione sociale,
agire economico, spirito oggettivo La natura del denaro - La società
moderna nel prisma del denaro.
7-11 gennaio
Adriaan Peperzak (Amsterdam)
Il superamento
delle tradizioni antiche e moderne
nella filosofia pratica di Hegel
La filosofia del diritto di Hegel come
trasformazione della Repubblica di
Platone - Elementi aristotelici nella
filosofia hegelianan della prassi Hegel contra Hobbes e Rousseau - La
recezione hegeliana dell’etica trascendentale kantiana - La prassi secondo
Hegel e Heidegger.
13-16 gennaio
Aldo Masullo (Napoli)
Il sogno
tra Medioevo e Rinascimento
Il sogno nella tarda antichità - Le
visioni: sogno e sognatori nelle fonti
letterarie e nell’iconografia medievale - La «natura» nel sogno: l’incubo e
le metamorfosi - Il sogno del sogno: i
labirinti di Poliphilo -Il sogno e i
sogni: dal testo all’immagine.
Fenomeno-patia del tempoed etica
della salvezza
27-30 gennaio
Girolamo Cotroneo (Messina)
Il tempo fenomeno-logico e il paradosso della fattualità - L’ermeneutica
della fattualità e il paradosso del tempo - La fenomeno-patia del tempo - Il
tempo fenomeno-patico e l’etica della salvezza.
Benedetto Croce
dalla politica all’etica
20-24 gennaio
Patrizia Caselli (Pisa)
3-7 febbraio
Carlo Sini (Milano)
La riscoperta della politica - Un liberalismo anomalo - Liberalismo, socialismo, democrazia - Il primato dell’etica.
CALENDARIO
● Informazioni: Dipartimento di Filosofia, Università degli Studi, B.go
Carissimi 10, Parma
Il 10 dicembre 1991 ha avuto luogo
ad Amburgo, presso l’Accademia evangelica, un convegno, con la partecipazione della teologa Dorothee
Sölle, sul tema: Il valore di mercato dell’etica.
● Informazioni: Evangelische Akademie Nordelbien, Esplanade 15, D2000 Hamburg 36, tel. 040/341264.
Nei giorni 13 e 14 dicembre 1991 si
sono tenute a Roma due giornate di
studio su: La teoria generale dell’interpretazione di Emilio Betti.
Al convegno, organizzato dall’Istituto di Teoria dell’Interpretazione e di
Informatica Giuridica dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma e dal C.N.R.,
hanno partecipato: G. Benedetti: “Interpretazione dell’atto di autonomia
privata tra teoria generale e dommatica. Un paradosso”; F. Bianco: “La
‘Teoria generale dell’interpretazione’ nel dibattito ermeneutico contemporaneo”; F. P. Casavola: “Emilio Betti tra storiografia ed ermeneutica”; G. Crifò: “La genesi della teoria dell’interpretazione di Emilio
Betti”; J. Grondin: “L’universalité del
l’herméneutique selon Emilio Betti”.
● Informazioni: Brunella Talarico,
tel. 06/49910222
Si è tenuto il 13 e 14 dicembre 1991
presso l’Accademia cattolica ‘Die
Wolfsburg’ a Gelsenkirchen un corso
filosofico di base sul tema: Edith
Stein: essere finito ed essere eterno nell’attimo.
● Informazioni: Katholische Akademie Die Wolfsburg, Virchowstr.
120, D-4650 Gelsenkirchen, tel. 0209/
202499.
Dal 29 dicembre 1991 al 4 gennaio
1992 si è svolto a Gerusalemme e Tel
Aviv un convegno sul tema: Leibniz
e Adamo.
● Informazioni: Prof. Dr. Marcelo
Dascal, P.O. Box 296, 5500 Kiron,
Israele.
Mercoledì, 8 gennaio 1992 ha avuto
inizio, nella sede della Fondazione
Rosselli di Torino, un ciclo d’incontri,
con riunioni mensili riservate a studiosi e ricercatori, su: Globalizzazione
e la Triade: conflitto e cooperazione nell’attuale sistema internazionale. Agli incontri, coordinati
da Miriam Campanella, sono stati invitati tra gli altri Susan Strange, Stuart
Holland (Istituto Universitario Europeo di Firenze) e Pierre Allan (Università di Ginevra). La relazione introduttiva all’incontro inaugurale del ciclo è
stata tenuta da James N. Rosenau
(University of Southern California),
che ha parlato sul tema: “La turbolenza nella politica mondiale”.
● Informazioni: Fondazione Rosselli,
Via S. Quintino 18/c, 10121 Torino,
tel. 011/541113
Il centro culturale ‘La Casa Zoiosa’
organizza per il 1992 nella propria
sede di Milano una serie di corsi: Alle
origini del cristianesimo: la cultura ellenica nei suoi rapporti
tra giudaismo e cristianesimo,
quattro incontri con Rizzardi (ogni
martedì alle ore 20.30, a partire dal 14
gennaio); Scrittura letteraria, cinque incontri con A. Nociti (ogni giovedì, alle ore 20.30, a partire dal 16
gennaio); La cinematografia di
Luis Buñuel, quattro incontri co R.
Escobar (ogni lunedì, alle ore 20.30,
a partire dal 20 gennaio); per la serie:
Storia di luce tra ‘500 e ‘600:
funzione e significati della luce
nella pittura da Leonardo a
Rembrandt: “Da Leonardo a
Caravaggio”, quattro incontri con
E. Cerchiari (ogni mercoledì, alle ore
20.30, a partire dal 5 febbraio), e “Il
grand siécle in Francia, Spagna
e Olanda”, quattro incontri con E.
Cerchiari (ogni mercoledì, alle ore
20.30, a partire dal 4 marzo); La perfezione della distanza: quattro
variazioni sul tema, quattro incontri con R. Ronchi (esercizi di lettura di poesia contemporanea, ogni
martedì, alle ore 20.30, a partire
dall’11 febbraio); Etica oggi. Tre
generazioni di filosofi a confronto, incontro con L. Sichirollo, G.
Bonacina, A. Burgio (lunedì 17 febbraio, alle ore 20.30); L’eredità che
il pensiero filosofico del nostro
secolo lascia al duemila, lezioni
di P. Rossi, E. Severino, J. Petitot, I.
Toth, H. G. Gadamer (ogni lunedì,
alle ore 20.30, a partire dal 9 marzo).
Per la partecipazione ai corsi è necessaria l’iscrizione.
● Informazioni: ‘La Casa Zoiosa’,
C.so di Porta Nuova 34, 20121 Milano, tel. 02/6551813
A partire dal 15 gennaio 1992, la Fondazione Corrente organizza per l’anno
1992 un seminario permanente di filosofia dal titolo: Oggetti e forme del
pensiero. Muovendo da ambiti di
riflessione molto differenziati, la proposta è quella di “riprovare a fare
filosofia”, ridar voce a questioni magari “vecchie”, comunque “fondamentali”, cercando di individuare percorsi
dimenticati, indicare nuove strade, coniugare tradizione e invenzione. Il calendario degli incontri è il seguente: 15
e 22 gennaio, L. Magnani: “Conoscenza e matematica”; 29 gennaio e 5
febbraio, M. Prandi: “Volontà di comprendere”; 12 e 19 febbraio, G. Scibilia:
“Decostruzione e costruzione”; 11 e
18 marzo, L. Bonesio: “L’apertura del-
lo spazio estetico”. Gli atti degli incontri verranno pubblicati presso l’editore
Guerini e Associati di Milano.
● Informazioni: Fondazione Corrente, via Carlo Porta 5, 20121 Milano,
tel.02/6572627
Si è svolto dal 17 al 19 gennaio 1992,
presso l’Accademia evangelica di
Tutzing, un convegno su: Pensare
nella costellazione. L’attualità
di Walter Benjamin nel centenario della nascita.
● Informazioni: Evangelische
Akademie Tutzing, Schlossstr. 2-4,
D-8132 Tutzing, tel. 08158/2510.
Dal 17 al 19 gennaio 1992, presso
l’Accademia Evangelica del
Palatinato, si è tenuto un convegno
sul tema: Diritto e morale. Qualcosa di vecchio e di nuovo su un
difficile rapporto. Scopo del convegno è di chiarire il complesso rappporto tra diritto e morale in una prospettiva filosofica, giuridica, politologica e teologica.
● Informazioni: Evangelische
Akademie der Pfalz, Domplatz 5, 6720
Speyer, tel. 06232 109191.
Viene spostato dal 3-6 ottobre 1991 al
13-16 febbraio 1992 il convegno di
Ginevra sul tema: Giustizia sociale: pro e contro.
● Informazioni: Christine Tappolet,
Département de Philosophie,
Université de Genève, CH-1211
Genève 4.
Si svolgerà a Urbino dal 2 al 4 marzo
1992 un convegno sul tema: Il giovane Nietzsche. Aspetti del suo
pensiero e della sua opera con
particolare attenzione al primo
periodo di Basilea.
● Informazioni: Segreteria Convegno Nietzsche, Istituto di Lingue, Piazza Rinascimento 7, I-60129 Urbino.
ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
Palazzo Serra di Cassano - Via Monte di Dio, 14 - 80132 Napoli
Filosofia e scrittura
La pratica del discorso tra oralità e
scrittura - L’alfabeto e la nascita della
logica - La tradizione della filosofia
— La fine della metafisica e il futuro
del pensiero - L’etica della scrittura e
la pratica del foglio-mondo.
10-13 febbraio
Alfonso Ingegno (Firenze)
Malebranche.
Dalla ‘Recherche de la vérité’
al ‘Traité de la natureet de la grâce’
Nasita e metamorfosi della Recherche
de la vérité - La polemica con Foucher:
una revisione decisiva - Traité de la
nature et de la grâce - Da Malebranche
a Vico.
10-14 febbraio
Ettore Lojacono (Bruxelles)
Descartes: la logica e il metodo.
Problemi e ipotesi interpretative
I manuali di logica della fine del XVI
e dei primi decenni del XVII secolo Dalla logica al metodo - Le diverse
proposte teoretiche cartesiane e il metodo in atto: dalle Regulae agli Essais
(I e II) - Metodo e metafisica alla luce
deu recenti contibuti di J. L. Marion.
9-13 marzo
Bernard Besnier (Saint-Cloud)
Conjectanea
ad Timaeum pertinentia
Le sens de la figure du démiurge - La
psychologie (l’essence mixte de
l’âme, ses deux facultés cognitives) L’astronomie: les mouvements de
Venus et de Mercure - La formation
des corps simples: a) signification
des triangles élémentaires - La for-
mation des corps simples: b) l’unification des corps simples dans un
même: surmonter le désordre de la
doxa.
Nascita e decadenza del metodo scientifico - Dal metodo della scienza alla
retorica degli scienziati - retorica e
logica - Retorica e conoscenza.
23-27 marzo
Reiner Wielh (Heidelberg)
30 marzo-3 aprile
Giuseppe Orsi (Ist.It.St.Fil.)
Caso e libertà
Momenti
di una filosofia
dello spirito
La negazione teologica del caso nell’etica di Spinoza - La revisione antropologica di caso e libertà nell’etica
di Spinoza - Dei diversi significati di
caso e necessità nella filosofia di Kant
- Teologia e Libertà in Kant - Sguardi
sull’attuale discussione circa il rapporto tra caso e necessità.
23-27 marzo
Marcello Pera (Catania)
Dal metodo della scienza
alla retorica degli scienziati
Poesia, filosofia, cristologia in
Petrarca - Storia, verità, certezza in
Vico - Spirito, logica, tempo in Hegel
- «Natura», «natura umana», «alto
sentire» in Leopardi - Spirito, espressione, memoria in Croce.
DIDATTICA
DIDATTICA
a cura di Riccardo Lazzari
L’insegnamento della filosofia
attraverso i testi
E’ possibile costruire un itinerario di
attraversamento della filosofia che sappia congiungere l’attenzione per la riflessione specifica dei filosofi con il
rinvio ai contesti culturali e alle correnti di pensiero, l’esposizione storicocronologica e il primato della lettura
diretta dei testi? Il nuovo corso di filosofia: Il testo filosofico. Storia
della filosofia: autori, opere,
problemi (Edizioni Scolastiche Bruno Mondandori, Milano 1991), nato da
un progetto collettivo elaborato da
Fabio Cioffi, Giorgio Luppi, Amedeo
Vigorelli ed Emilio Zanette, cerca di
impostare l’insegnamento della filosofia secondo una pluralità di modelli
e di prospettive, tutte convergenti però nel riconoscimento della centralità
dei testi e nel tentativo di costruire le
necessarie mediazioni per la loro interpretazione.
Con l’apparizione del primo volume de Il
testo filosofico, che riporta come titolo:
L’età antica e medievale, prende avvio la
pubblicazione di un nuovo corso per l’insegnamento della filosofia, destinato ad articolarsi attraverso altri due volumi, di cui il
terzo, dedicato alla filosofia contemporanea, si articolerà a sua volta in due tomi. Le
notevoli dimensioni dell’opera non devono
indurre a pensare che gli autori si siano
proposti l’obbiettivo di un’irraggiungibile
esaustività sul piano dell’informazione. Si
è cercato invece di costruire uno strumento
che, pur compiendo alcune precise scelte,
nel senso di privilegiare nella trattazione i
“classici” del pensiero e le correnti fondamentali della filosofia antica, presenti tuttavia una notevole flessibilità di utilizzo e
lasci ampio spazio alla costruzione di percorsi individuali nell’insegnamento. L’ampiezza del lavoro dipende inoltre dalla ricerca di conciliare il mantenimento di una
struttura espositiva dei percorsi della filosofia con la lettura di un’ampia selezione di
testi, integrata da un adeguato apparato
esplicativo. Convinzione degli autori è che,
se il testo filosofico costituisce il luogo
privilegiato attraverso cui lavorare per raggiungere gli obbiettivi formativi e cognitivi dell’insegnamento della filosofia, «occorre tuttavia costruire le condizioni di
accesso al testo stesso» e cioè «mettere a
fuoco... gli elementi di contesto, storicoculturale e teoretico, necessari a collocare
e a leggere ogni singolo testo; gli strumenti
fondamentali di lettura e di interpretazione; le strategie argomentative e comunicative seguite dall’autore; il repertorio lessicale utilizzato dall’autore stesso». In questa prospettiva il testo dell’autore non è
introdotto come supporto antologico dell’esposizione manualistica, non costituisce una semplice esemplificazione dei contenuti di una narrazione che si sviluppa del
tutto indipendentemente da esso, ma rappresenta una parte integrante ed essenziale
di ciascuna delle unità didattiche attraverso cui si articola il corso d’insegnamento.
Le singole unità, a loro volta, non sono
costruite secondo un modello unico di organizzazione della materia: accanto a unità
organizzate per autori (che presentano cioè
il pensiero di un filosofo nella sua organicità), abbiamo unità costruite per temi e
problemi; a queste si aggiungono unitàbiografie (che illustrano “casi” di itinerario
biografico-filosofico) e unità costruite per
intersezioni. Del primo tipo sono gli ampi
capitoli riservati a Platone, ad Aristotele, a
Plotino, a Tommaso d’Aquino e a Ockham.
Socrate, Agostino e Abelardo sono invece
presentati seguendo il filo conduttore della
loro vicenda biografica e intellettuale. Sotto il titolo “temi e problemi” vengono ricostruiti alcuni dei principali nodi problematici del pensiero antico-medievale, intorno
a cui si sono intrecciate più strategie intellettuali (per es.: uno e molteplice, linguaggio e verità, felicità, scepsi). Le “intersezioni”, a loro volta, analizzano particolari
interrelazioni fra pensiero filosofico e scienze (per es.: “Da Ippocrate a Galeno: filosofia e medicina in Grecia”). Ciascuna unità,
poi, si articola attraverso un ampio apparato didattico: oltre alle introduzioni ai vari
autori e correnti, scritte con linguaggio
chiaro ed accessibile agli studenti, compaiono le introduzioni ai brani tratti dalle
opere, che a loro volta sono ampiamente
commentati attraverso note esplicative. I
testi di più ardua comprensione sono poi
accompagnati da schede di lettura. La pre-
senza per ciascun capitolo di un dizionario
filosofico cerca di facilitare l’acquisizione, da parte dello studente, del lessico
specifico della disciplina. Particolari temi
e percorsi di approfondimento sono sviluppati attraverso delle schede che si affiancano al percorso principale, senza gravare sulla sua struttura espositiva. Va segnalato il fatto che ogni unità presenta
delle schede di lavoro che suggeriscono
possibili percorsi operativi di riflessione e
di rielaborazione, oltre che di verifica dell’apprendimento.
Ma l’aspetto forse più originale del nuovo
corso di filosofia è la presentazione di
alcune “unità-opere”, nelle quali non si
presentano soltanto ampie sezioni di un
testo, ma si forniscono strumenti specifici
per l’avviamento alla lettura di un’opera
filosofica (e, nella fattispecie, per il Gorgia
di Platone e per il De Anima di Aristotele).
Si intende in questo modo mettere in luce
il rapporto che intercorre tra le strutture
teoriche e le strutture comunicative, e tracciare una sorta di mappa dei generi filosofici.
Il Testo filosofico mette dunque in gioco
una pluralità di metodi e di possibili approcci all’insegnamento della disciplina,
venendo incontro alle esigenze di una didattica complessa e non riducibile ad un
unico “stile”. Questa complessa organizzazione del manuale non dà peraltro luogo
ad una frammentazione e dispersione dei
contenuti, poiché la struttura del corso
rimane trasparente e chiara nelle sue articolazioni di fondo, anche grazie alla veste
editoriale dell’opera. Hanno collaborato
alla stesura di singoli capitoli Paolo Concetti, Marco Fossati, Guido Piazza, Giuseppe Pirola, Paola Pirzio, Anna Sordini
e Paolo Ferri.
Interventi, proposte, ricerche
Nell’ambito di una discussione avviata sulla rivista “Paradigmi” da un primo intervento di Franco Bianco sulla
didattica della filosofia (“Insegnamento della filosofia: metodo ‘storico’ o
metodo ‘zetetico’?”, n. 23, 1990), vengono pubblicati sulla medesima rivista (n. 26, maggio-agosto 1991) due
DIDATTICA
contributi di Bruno Coppola: “Normalità e rivoluzione in filosofia”, e di Fulvio
Papi: “Sull’identità culturale dell’insegnante di filosofia nelle scuole medie
superiori”.
Nell’insegnamento della filosofia, è noto,
si sono concentrate tutte le contraddizioni
della cosiddetta “Riforma-Gentile”, che faceva della filosofia, ben più di una disciplina, un criterio regolatore di fondo: di una
interpretazione del significato della filosofia si fece una funzione trascendentale come mette in luce Bruno Coppola. L’esigenza attuale di rinnovamento rischia peraltro di stemperarsi spesso nella ricerca di
una soluzione solo tecnico-operativa, ossia
di un orientamento didattico valutato soltanto per i suoi caratteri di efficacia e di
efficienza. Occorre invece restituire alla
didattica della filosofia uno spessore teorico, ossia la «possibilità di proporsi come
“pensiero della filosofia”», partendo da
un’autentica passione per la teoria che deve
animare il docente. Suo compito, infatti, è
di reimpossessarsi del ruolo “pensante” di
ricercatore, di non limitarsi a «trasmettere
il sapere surgelato di una, comunque intesa, storia della filosofia», ma di entrare nel
merito di quel sapere, di collocarsi in esso
e di prendere posizione. A partire poi da
alcune precisazioni circa i rapporti fra quelli
che, per ricorrere ad una metafora kuhniana,
si possono definire i momenti di “normalità” e i momenti di ricerca “straordinaria o
rivoluzionaria” nel lavoro dei filosofi, l’autore affronta la questione inerente al ritmo
e alla scansione dello sviluppo della filosofia, mostrando le complesse problematiche
che si celano nella diffusa immagine della
filosofia come incessante ricerca della verità.
Che al problema della difficoltà dell’insegnamento nelle scuole superiori della filosofia - come disciplina che non dovrebbe
essere insegnata attraverso un processo di
“miniaturizzazione” - non sia possibile porre semplicemente rimedio attraverso il ricorso ad una qualche forma di “tecnologia
didattica” - che pretenda di offrire la garanzia di «controllare, verificare, quantificare
i risultati dell’insegnamento in una dimensione capace di una sua istituzionale obbiettività» -, è anche il punto di avvio della
complessa riflessione di Fulvio Papi. Nel
suo ampio intervento Papi muove da una
individuazione della «difficoltà» come «isola emergente della figura culturale dell’insegnante di filosofia», per allargare la
considerazione alla totalità di questioni che
mettono oggi in forse l’identità culturale
dell’insegnante, in generale, delle scuole
superiori. «L’insegnante di filosofia non è,
se non per una elevata finzione come, ad
esempio, era quella della pedagogia di
Gentile, un personaggio che si identifica
idealmente in alcuni testi della tradizione
filosofica, e che fa da tramite, evocativo,
orale, vivente e teatrale assieme, tra lo
spirito, ma anche la razionalità, il senso o il
nulla, e coloro che, a loro volta, devono
essere identificati in questo modo. L’identità culturale non si ritrova mai in un processo così semplice, quasi una deduzione
della forma dell’esistenza da un cielo simbolico». Vanno diversamente esaminati
quelli che di volta in volta sono «i significati pubblici che vengono attribuiti alle
azioni di un insegnante di filosofia», «gli
immaginari che sono prossimi al suo lavoro, quelli dunque degli allievi», i livelli di
interazione sociale e comunicativa, l’immaginario che è proprio dell’insegnante e
le sue forme di razionalizzazione, infine lo
stato generale del sapere filosofico che
costituisce la linea di continuità rispetto
alla scelta originaria insegnante. Si tratta di
una pluralità di variabili che non si situano
«su una linea di composizione armonica»,
ma che costituiscono elementi per lo più
conflittuali. Da qui discende la prima indicazione per chi voglia assumere la complessa funzione dell’insegnante: «la prima
azione educativa che deve compiere un
insegnante è sostanzialmente su se stesso,
per dare un ordine accettabile a questo
sistema di tensioni e per ostacolare, nei
limiti del possibile, lo spontaneo trasferimento metaforizzato di queste tensioni nello stesso esercizio didattico».
A partire da qui la riflessione di Papi si
snoda nel duplice tentativo di mettere a
fuoco l’insegnamento come pratica materiale e come senso, nonché la relazione che
intercorre tra il senso dell’insegnamento ed
il compito più generale del pensare filosofico. Meta orientativa delle argomentazioni dell’autore è la convinzione che «si
possa insegnare meglio filosofia se si pensa
che essa non sia una infinita autoriflessione
su se stessa che si frammenta nel nulla, ma
un particolare conoscere del mondo che
nasce da una passione vitale di sapere, così
come passioni di sapere sono le teorie scientifiche, le poesie, le pitture.»
Convegni
Alla Casa della Cultura di Milano ha
preso avvio nel novembre 1991 un
Corso di aggiornamento per insegnanti di filosofia delle
scuole medie superiori, diretto da
Fulvio Papi, che si protrarrà fino al
febbraio 1992.
Il calendario del Corso ha visto le seguenti
relazioni: 7 novembre, G. Marchianò:
“L’unificazione degli studi di estetica: convergenze, prospettive e progetti novecenteschi”; 14 novembre, G. Scaramuzza: “Per
una fenomenologia dell’arte”; 28 novembre, A. Trione: “Arte, natura, simbolo”; 5
dicembre, F. Papi: “Sulla poesia”; 12 dicembre, F. Fanizza: “La genealogia della
coscienza artistica moderna”; 23 gennaio,
P. Montani: “Il soggetto e gli intrecci”; 30
gennaio, S. Givone: “Poesia e filosofia”; 6
febbraio, S. Zecchi: “Grande stile”. L’entrata è libera. Il corso è gratuito. Le lezioni
saranno disponibili, registrate su audiocassette, al costo di L. 15.000.
Informazioni: Casa della Cultura, Via
Borgogna 3, 20122 Milano, tel. 02/795567
Un convegno dal titolo: Radici storiche e problemi teorici della
filosofia politica contemporanea, è previsto a Pisa nei giorni 10-12
aprile 1992. Promotori dell’inizianita
per l’aggiornamento degli insegnanti
di filosofia sono il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa, la sezione lucchese della Società filosofica Italiana e il Liceo Classico “G. Galilei” di
Pisa, insieme con gli Assessorati comunale e provinciale alla cultura.
Il lavori del convegno inizieranno il giorno
10 aprile alle ore 15.00, continueranno il
giorno 11 mattina e pomeriggio, per concludersi nella mattinata del giorno 12. Queste le relazioni previste: V. Sainati: “Presentazione del corso”; Baccelli: “Temi e
problemi della filosofia politica contemporanea”; S. Veca: “Contrattualismo e neocontrattualismo”; D. Zolo: “Teorie classiche, moderne e contemporanee della democrazia”; N. Badaloni: “Filosofie contemporanee ed epocali: il caso del
marxismo”. In chiusura dei lavori (prevista
per le ore 12.30 del giorno 12 aprile) si terrà
una tavola rotonda con la partecipazione di
tutti i relatori.
Informazioni: Liceo Classico “G. Galilei”,
via B. Croce 32, Pisa, tel. 050/23240 (dal
lunedì al venerdì, ore d’ufficio); 050/47310
e 0584/791279 (ore 19-20). Per la partecipazione al convegno occorre inviare domanda e versare L. 20.000 su cc. postale n.
12848560, intestato a Liceo Classico “G.
Galilei”, Pisa, specificando la causale del
versamento.
Il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano e
l’I.R.R.S.A.E. Lombardia hanno promosso una tavola rotonda, tenutasi il
24 ottobre 1991 presso l’Università
degli Studi di Milano, sul tema: Nuovi
linguaggi per la professionalità docente. Rapporto tra arti, scienze e filosofia. Vi
hanno partecipato: C. Scurati, G. Gori,
F. Botturi, P. D’Alessandro, M. A. Del
Torre, E. Franzini, G. Micheli, S. Pizzetti,
S. Restelli, S. Sidoni.
Cesare Scurati (Presidente dell’I.R.R.S.A.E. Lombardia) ha introdotto la
tavola rotonda mettendo in luce come l’iniziativa di aggiornamento copra un’area formativa che è rimasta finora poco valorizzata rispetto ad altre discipline nell’ambito
del rinnovamento degli insegnamenti e delle
metodologie. Un primo traguardo del gruppo di ricerca, che vede la collaborazione di
insegnanti di liceo di discipline umanistiche e filosofiche e di docenti e ricercatori
DIDATTICA
del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, è quello di preparare i “formatori”, come specifica figura
professionale operante nella scuola nell’ambito
dell’aggiornamento.
Giambattistia Gori, Direttore del Dipartimento di Filosofia, ha invece sottolineato
come fra insegnamento universitario e insegnamento filosofico liceale esista una
continuità maggiore di quanto appaia dall’assetto istituzionale: una continuità, rappresentata anzitutto dagli studenti. Occorre
pertanto lavorare su un’idea comune di
insegnamento filosofico, confrontandosi
con quelle che sono le stesse attese degli
studenti quando intraprendono lo studio
della filosofia. E’ evidente ormai l’insufficienza di un modello d’insegnamento che
privilegia esclusivamente l’asse storicocronologico; è evidente anche l’insoddisfazione odierna degli studenti nei riguardi
degli sfondi storico-culturali, davanti ai
quali si poteva in passato rappresentare
qualsiasi dramma filosofico. D’altronde, la
necessità di superare un insegnamento manualistico, spesso identificato dallo studente che proviene dalle scuole superiori
con lo studio della filosofia come tale, non
deve far perdere di vista l’esigenza di commisurarsi con il piano della “generalità” in
senso storico-culturale. In positivo, si tratta
di promuovere una maggiore attenzione
per la dimensione argomentativa del discorso filosofico, spesso finora trascurata a
vantaggio di scelte ideologiche, di favorire
un’indagine storico-filosofica che non rinunzi a prese di posizione concettuale e a
valutazioni, per abbandonarsi semplicemente al flusso storico, di fare i conti con il
carattere composito del linguaggio filosofico (in cui confluiscono più elementi del
linguaggio scientifico, letterario, giuridico), ricuperando la stessa dimensione interdisciplinare della filosofia intesa come
“genere misto”.
La valorizzazione di questa dimensione
interdisciplinare del discorso filosofico è
quanto si propongono di conseguire i vari
gruppi di ricerca che operano già da tempo
nell’ambito della collaborazione fra
I.R.R.S.A.E. e Dipartimento di Filosofia.
Sono state quindi presentate, dai rispettivi
coordinatori, alcune relazioni sulle seguenti
attività di gruppo: “Filosofia e scienza” (G.
Micheli), “Filosofia e cinema” (E.
Franzini), “Letteratura e filosofia”
(D’Alessandro), “Filosofia e storia” (F.
Botturi, S. Pizzetti), “Filosofia e musica”
(M. Fabbri), “Filosofia, educazione e scienze umane” (Zanelli).
La Bibbia è uno dei grandi “codici” che
sono alla base della cultura occidentale. Lo studio e la conoscenza di essa,
anche sul piano meramente storicoculturale ed indipendentemente dal
valore “sacro” attribuito ad essa dalle
varie tradizioni religiose, sono ineludibili per chi voglia ricostruire le radici
storiche dell’Occidente. E’ inevitabile
quindi il confronto con il testo biblico
nell’ambito della scuola a fianco dello
studio della filosofia greca. Questi in
particolare i temi emersi al convegno:
Il libro assente: Bibbia, cultura e scuola in Italia, tenutosi
a Bologna il 20 ottobre 1991.
Organizzatrice del convegno è stata un’associazione laica di cultura biblica, Biblia,
nata nel 1984 con sede nei pressi di Firenze,
a cui aderiscono studiosi italiani di differente provenienza culturale, con la collaborazione di altre associazioni e riviste interessate all’argomento. I lavori erano articolati in tre relazioni fondamentali durante il
mattino e in una tavola rotonda al pomeriggio.
L. A. Schokel, del Pontificio Istituto
Biblico, ha affrontato il tema: «Ricezione e
produzione di cultura nella Bibbia», da un
punto di vista più analitico che teorico, con
esemplificazione di testi biblici. La Bibbia
è infatti anche un testo culturale che ha
prodotto figure tipologiche, moduli e forme poetiche, trame di simboli che hanno
alimentato le culture occidentali successive e che non sono per nulla inferiori, per
originalità, ai prodotti della cultura greca.
Collocandosi su di un versante più filosofico, S. Natoli, dell’Università di Milano, ha
sviluppato il tema: «Ermeneutica “laica”
del testo sacro», mettendo in evidenza l’esperienza del sacro, rivissuta attraverso il
rito, che si deposita nella Bibbia. Di fronte
a questo testo, un atteggiamento “razionalista” sarebbe sempre riduzionistico; è necessario piuttosto un approccio di tipo ermeneutico, che stabilisca una fusione di
orizzonti. Ogni atto ermeneutico, che è
sempre esperienza dell’altro, implica sia
l’inesauribilità dell’altro sia la finitezza
dell’uomo interpretante. Nel testo sacro è
in questione la verità come vita vissuta e
non come teoria: termini e simboli religiosi
sono trasposti dall’orizzonte originario a
quello “secolare” e il testo”sacro” diventa
“genere letterario”. La Bibbia si costituisce
così come ermeneutica dell’Occidente o
documentazione delle sue radici. La Bibbia
come testo generativo di cultura è stato
appunto il tema affrontato da S. Quinzio,
noto studioso di ebraismo e in generale di
questioni religiose. Senza il riferimento
alla Bibbia - questa la considerazione introduttiva - non si possono capire grandi masse di fenomeni culturali dell’Occidente,
come la pittura la poesia o l’ethos. Nonostante il processo di “ellenizzazione”, il
messaggio biblico ha saputo conservare la
sua specificità di fattore costitutivo della
stessa modernità, la cui essenza può essere
individuata nel passaggio dalla metafisica
alla storia. La religiosità biblica sottrae alla
natura la dimensione sacrale, in forza della
trascendenza dell’unico Dio, consegnando
il mondo alla sua autonomia. Su questa
base, infatti, è potuta nascere l’idea di storia, che è più una creazione dei profeti
ebraici che degli storici greci: Agostino e
Gioacchino da Fiore sono i lontani precur-
sori di Hegel.
D’impostazione dichiaratamente didattica
è stato l’intervento di M. Laeng, pedagogista dell’Università di Roma, che ha parlato
su «La collocazionde di un insegnamento
aconfessionale della Bibbia nella scuola».
A partire dalla “canonizzazione” della Bibbia come un testo scritto, si è sviluppata la
gamma complessa e tormentata dei vari tipi
di lettura del testo sacro. Dalle letture originarie pneumatiche, mistiche ed anche
visionarie, si è passati ad una considerazione di tipo prevalentemente filologico, in
cui sono esaltate le dimensioni letterare,
storiche, giuridiche e filosofiche. Ma come
studiare oggi il testo biblico? Laeng ha
proposto un itinerario “scolastico” così
strutturato: nella scuola elementare dovrebbe valere un metodo di acculturazione a
episodi (come le parabole); nella scuola
media si dovrebbe lasciare spazio all’inquadramento storico dei testi biblici; nella
scuola secondaria si dovrebbe procedere
all’analisi del linguaggio biblico e dei concetti-chiave del testo. Ancora in ambito
didattico si è sviluppato l’intervento di C.
Bucciarelli, ricercatore del Censis, che ha
presentato una ricerca sull’insegnamento
della Bibbia nelle scuole dei vari Stati
europei. Secondo Bucciarelli sembra che
con la caduta delle ideologie totalizzanti si
assista all’eclisse del fenomeno della “secolarizzazione”. D’altro canto, la generalizzazione del modello funzionalistico del
mercato costringe la scuola a sintonizzarsi
con questa realtà dominante. Una futura
collocazione dello studio della Bibbia dovrà dunque puntare sulla dimensione umana del testo religioso, al di fuori di ogni
ipoteca di tipo confessionale.
Infine P. Stefani, biblista oltre che operatore scolastico, ha presentato una ricerca su
«La Bibbia nei libri di testo della scuola
secondaria». Nei manuali di storia e di
filosofia, la presenza di sezioni dedicate
alla Bibbia appare del tutto opzionale. Laddove compare la Bibbia è considerata sempre e solo Bibbia cristiana e mai anche
ebraica; non si dà mai una “storia degli
effetti” profondissimi di questo testo nella
civiltà occidentale; non si conosce affatto
la storia della genesi di questo “grande
codice” (N. Frye) della nostra cultura. La
proposta è allora quella di un’insegnamento aconfessionale della Bibbia, da svolgersi
sul piano storico-culturale. A.C.
NOTIZIARIO
NOTIZIARIO
Si sapeva dalle biografie che il primo
e più importante filosofo russo,
VLADIMIR SOLOV’EV (1853-1900)
fu sospeso dall’insegnamento dopo
l’uccisione di Alessandro II, per aver
ricordato al successore che un principe cristiano non poteva autorizzare,
senza cadere in contraddizione, delle
esecuzioni capitali. Fra i 39 documenti della vita e dell’opera di
Solov’ev, recentemente pubblicati da
Ju. N. Sucharev nei “Vosprosy filosofii” (n. 2, 1991, pp. 136 e sgg.), nel
quadro delle iniziative suggerite dall’attuale ripresa d’interesse per gli
aspetti della cultura russa prerivoluzionaria, finora trascurati, sono ora
accessibili: 1) la lettera con cui il
Ministro degli interni, conte Michail
T.Loris-Melikov, comunicò al collega dell’istruzione, barone Aleksandr
P. Nikolai, l’ordine dello zar di sospendere Solov’ev dall’insegnamento; 2) l’accompagnamento di una ulteriore trasmissione della stessa lettera al ministro dell’istruzione, in relazione all’incarico, che Solov’ev anche deteneva, di membro del Comitato scientifico.
E’ stata presentata il 14 novembre a
Milano una nuova “iniziativa editoriale”, la EGEA (Edizioni giuridiche
economiche aziendali) promossa dall’Università Bocconi e dall’editore
Giuffré, che si affaccia sulla scena
editoriale con tre proposte: una raccolta di testi di Samuel Beckett,
Disiecta, a cura di Aldo Tagliaferri, la
traduzione di una parte delle Enneadi
di Plotino con il titolo: L’eternità e il
tempo, a cura di Mario Vegetti, e
l’opera di Carlo Sini, Dal simbolo
all’uomo. Oltre agli autori dei suddetti volumi, hanno partecipato alla
presentazione di questa collana Rocco
Ronchi e Gino Zaccaria, direttori della collana insieme a Sini. La scelta di
pubblicare opere così eterogenee come quelle di Beckett e di Plotino, ha
osservato Sini, non vuole essere una
“controtendenza”; un progetto di questo genere, prima ancora che velleitario, sarebbe ingenuo, perché non coglierebbe il nocciolo del problema,
che consiste nella “ricerca di senso”
di ciò che si fa. Per porsi una domanda
di questo genere occorre muovere da
una convinzione che è l’esatto contrario del presupposto su cui si fonda
l’”industria culturale”: la filosofia non
è un “aspetto” della cultura, è essa
sola “cultura” in senso proprio, se con
ciò si intende la riflessione su ciò su
cui la chiacchiera non riflette. Volendo concretizzare questo rapporto con
un’immagine, è la cultura che è “a
rimorchio” della filosofia, e non viceversa. Il proliferare di traduzioni, la
diffusione dei libri, la circolazione
delle informazioni, la cosiddetta
“sprovincializzazione” della cultura
italiana sarà certo un aspetto positivo;
chi vuole però realmente occuparsi di
filosofia, ha concluso Sini, deve cercare non libri “culturali”, ma libri
“che fanno cultura”.
Per iniziativa di Mirella Mauro Bove,
Maria Rosaria Alfani e Maurizio
Zanardi sono nate a Napoli le EDIZIO-
NI CRONOPIO, un’impresa culturale
che si propone di percorrere sentieri
nuovi o comunque scarsamente battuti dalla grande editoria. Classici della
letteratura e del pensiero, ma anche
saggi che interrogano le forme di vita,
le etiche e le politiche del nostro tempo, costituiranno i titoli delle varie
collane. La casa editrice farà il suo
ingresso nelle librerie con due testi di
carattere filosofico: Dopo il comunismo di Biagio de Giovanni, e Dell’io
come principio della filosofia, ovvero
sull’incondizionato nel sapere umano (a cura di Antonella Moscati), di F.
W. J. Schelling. Il volume di De Giovanni, dialogando con grandi pensatori come Machiavelli, Tocqueville,
Marx, Gramsci, tenta di delineare una
teoria politica nuova, dimostrando come oggi essa sia resa possibile proprio dalla catastrofe dei regimi politici dell’Est europeo. Nel definitivo
congedo dal comunismo, De Giovanni invita a riprendere il filo di un
discorso politico incentrato sull’idea
di libertà, antidoto ai totalitarismi ideologici e storici che hanno percorso la vicenda del secolo. Il secondo
testo che queste Edizioni propongono è la prima traduzione integrale di
uno scritto che Schelling compose
all’età di vent’anni. Discutendo con
grande vigore critico le posizioni filosofiche di Cartesio, Spinoza, Kant e
Fichte, Schelling muove con decisione verso la sua originale concezione
della libertà, attualmente al centro - in
particolar modo nei lavori di Cacciari
e di Pareyson - di una grande attenzione da parte degli studiosi. Nel programma della casa editrice figura, tra
gli altri titoli, la traduzione della
Prototeodicea, prima stesura della
Teodicea di G. W. Leibniz, testo importante ed inedito anche in lingua
tedesca.
Del filosofo rinascimentale PIETRO
POMPONAZZI è stata pubblicata la
prima traduzione in lingua tedesca
del Trattato sull’immortalità dell’anima (Abhandlung über die
Unsterblichkeit der Seele, traduzione
e introduzione di Burkhard Mojsisch,
Felix Meiner, Amburgo 1990). Pubblicato nel 1516 a Bologna in lingua
latina, il Trattato è il risultato di un
confronto con Aristotele e con le posizioni aristotelico-scolastiche a proposito della questione tradizionale dell’immortalità dell’anima. Facendo ricorso all’esperienza, Pomponazzi mostra come nei limiti della ragione filosofica l’anima appaia sempre in connessione con il corpo e non possa
darsi al di fuori di esso. Duecento
anni separano questa traduzione dalla
prima edizione tedesca del testo latino dell’opera, curata nel 1791 dall’erudito Chr. G. Bardili, cugino di
Schelling.
In collaborazione con L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli
e in relazione al programma filosofico che ha portato, presso l’editore
Meiner di Amburgo, alla recente pubblicazione della Europaïschen
Enzyklopädie zu Philosophie und
Wissenschaften, é nata nel 1991, presso il medesimo editore, la rivista quadrimestrale DIALEKTIK. In ogni numero della nuova rivista vengono af-
frontati alcuni nodi cruciali della riflessione filosofica contemporanea in
campo teoretico-epistemologico, etico-politico e nel settore delle scienze
sociali. Tenendo costantemente presenti l’attualità delle problematiche
affrontate e la loro reale incisività nel
dibattito filosofico odierno (la questione della filosofia di Marx e del
marxismo è oggetto, ad esempio, del
secondo numero), lo scopo che la
rivista si propone è quello di fornire
un esame razionale e comparato delle
forme di conoscenza filosofica e scientifica nella prospettiva non solo dell’attualità della conoscenza, ma anche della totalità della comprensione.
E’ stato pubblicato nella serie di atlanti del Deutscher Taschenbuch
Verlag, dedicati a diversi ambiti del
sapere, l’ ATLANTE DI FILOSOFIA
(DTV, München 1991). L’atlante ripercorre la storia della filosofia dall’oriente all’antichità, dal medioevo
al rinascimento, dall’idealismo tedesco alla filosofia contemporanea, presentando cronologicamente il pensiero dei diversi filosofi. L’intento è
quello di rendere familiare il lettore
con problemi, metodi e concetti fondamentali della filosofia, senza sacrificare alle esigenze didattiche la ricchezza informativa e la complessità
dei problemi in questione. A questo
scopo l’atlante si avvale - e qui risiede
la sua originalità - di un ampio apparato di immagini che intendono visualizzare concetti e impostazioni problematiche dei diversi filosofi.
Domenica 22 dicembre 1991 si è spento a Monaco di Baviera ERNESTO
GRASSI. Nato a Milano nel 1902, fu
allievo di Martinetti in Italia e di
Blondel in Francia, seguendo poi per
molti anni Heidegger a Marburgo e
poi a Friburgo. Dopo aver insegnato
nelle Università di Berlino e Monaco,
era presidente del Centro Internazionale di Studi Umanistici di Roma e
direttore dell’Istituto di Studi Filosofici e Umanistici di Monaco. Tra i
suoi lavori recenti ricordiamo: Macht
des Bildes. Ohnmacht der Rationalen
Sprache (2 ed., 1972), Humanismus
und Marxismus (1973), Die Macht
der Phantasie: zur Geschichte abendländischen Denkens (1979),
Rhetoric as Philosofy. The humanist
tradition (1980), Heidegger and the
Question of Renaissance Humanism
(1983), Humanism and Rhetoric. The
Problem of Folly (1985).
Dopo una lunga malattia, si è spento
a Poitiers il 9 ottobre 1991 GUY
PLANTY-BONJOUR. Docente di Storia della Filosofia all’Università di
Poitiers, era direttore del Centre de
Rechèrche sur Hegel e Marx. Tra le
sue opere ricordiamo in particolare:
Les Catégories du matérialisme dialectique, l’ontologie soviétique contemporaine (1965) e Hegel et la pensée philosophique en Russie: 18301917 (1974); le importanti traduzioni
di Hegel, La première philosophie de
l’esprit (Jena 1803-04) (1969) e La
Philosophie de l’esprit de la
Realphilosophie de 1805 (1982); la
cura, insieme a H. C. Lucas della
raccolta di saggi Logik und Geschichte
in Hgels System (1989).
Martedì 19 novembre, nella sede del
Parlamento Europeo a Strasburgo, sono state presentate la mostra delle
pubblicazioni dell’Istituto Italiano per
gli Studi Filosofici di Napoli e le
traduzioni spagnola e tedesca della
Scienza Nuova di G. B. Vico, promosse dall’istituto stesso. Alla presentazione, introdotta dall’On. Biagio
de Giovanni alla presenza dell’On.
Enrique Baron Crespo, Presidente del
Parlamento Europeo, hanno partecipato: José M. Bermudo (Madrid),
Jacques D’Hondt (Poitiers) Vittorio
Hösle (Trondheim), Vittorio Mathieu
(Torino), Otto Pöggeler (Bochum),
Giovanni Pugliese Carratelli (Pisa),
March Roche (Ohio), Imre Toth
(Regensburg); Jürgen Traband (Berlino).
Il gennaio 1992 è morto a Milano
MARIO DAL PRA. Nato a Montecchio
Maggiore (Vicenza) nel 1914, Dal
Pra è stato uno dei maestri della rinnovata storiografia filosofica italiana
del Novecento e anche uno dei nostri
maggiori storici della filosofia. Laureatosi in Filosofia a Padova (’36),
dopo aver insegnato per circa tre lustri filosofia nei licei (Rovigo, Vicenza
e Milano), dal ’51 all’86 ha insegnato
Storia della filosofia all’Università di
Milano, succedendo ad Antonio
Banfi. Ha svolto un ruolo di primo
piano durante la guerra di Liberazione in Lombardia nelle formazioni
azioniste. Dopo la Liberazione ha
fondato nel ’46 la “Rivista di storia
della filosofia”, che ha diretto fino
alla morte, dalle cui pagine ha promosso un profondo rinnovamento
della filosofia, dando contemporaneamente vita ad importanti iniziative
editoriali e di ricerca, nonché ad una
vera e propria “scuola” milanese di
storici della filosofia. Nel 1990 l’Accademia dei Lincei gli ha assegnato il
Premio Nazionale di filosofia. E’ autore di moltissime pubblicazioni tra
le quali ci si limita a ricordare:
Condillac (Bocca ’42); Il pensiero di
S. Maturi (ivi ’43); Hume (ivi ’49,
nuova ed. Hume e la scienza della
natura umana presso Laterza ’73);
La storiografia filosofica antica (Bocca ’50); Lo scetticismo greco (ivi ’50,
poi Laterza ’75); Amalrico di Béne
(Bocca ’51); Giovanni di Salisbury
(Bocca ’51); Nicola d’Autrecourt (ivi
’51); Scoto Eriugena (ivi ’51); La
dialettica in Marx (Laterza ’65, ’77);
Logica e realtà (ivi ’74); Logica, esperienza e prassi (Morano ’76); Studi
sul pragmatismo italiano (Bibliopolis
’84); Studi sull’empirismo critico di
G. Preti (ivi ’88); Filosofi del Novecento (Angeli ’89) oltre alla
monumentale Storia della filosofia (I
ed. Vallardi 1975-78 in 10 voll; II ed.
Piccin 1991-92 in 11 voll.). L’ultimo
suo libro, Ragione e storia. Mezzo
secolo di filosofia italiana (con F.
Minazzi, Rusconi 1992) è in corso di
pubblicazione.
RASSEGNA DELLE RIVISTE
RASSEGNA DELLE RIVISTE
a cura di Silvia Cecchi
AUT-AUT
n. 243-244, maggio/agosto 1991
La Nuova Italia, Firenze
Leopardi e il mito, di A. Prete.
Il mito e l’immagine. Da Hölderlin a
Hillman, di M. Pezzella.
Questo fascicolo speciale della rivista, dal
titolo: Il mito in questione ha per oggetto il
dibattito filosofico sul mito, che ha animato la filosofia tedesca dalle interpretazioni
romantiche alle letture in chiave politica
proposte negli anni ’20-’30, fino alla più
recente discussione sulla “nuova mitologia”. Anche nel panorama filosofico italiano la questione del mito é ben radicata e
soggetta a periodiche rivisitazioni. Ne è un
esempio questo fascicolo, che si propone
non tanto di esaminare la presenza del mito
nella filosofia, quanto di interrogare il mito, in un’ ottica più problematica, come
chiave di lettura del lavoro filosofico stesso, in base al presupposto secondo cui
«reincontrando e interrogando il mito, la
filosofia non fa che tematizzare la propria
scena».
“Sepulkralhermeneutik”. Considerazioni
sul “mito” a partire da Bachofen, di G.
Moretti.
Mito. Esperienza del presente e critica
della demitizzazione, di G. Carchia.
Nel prossimo fascicolo della rivista comparirà un inedito di Husserl dal titolo: Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente visione del
mondo.
Poesia, favola, verità, di S. Givone: il rapporto mito-verità dalla tradizione romantica alla lettura di Nietzsche e Heidegger; la
favola come approdo del “mondo vero”.
Filosofia dell’immemoriale e lavoro del
mito, di G. Gabetta: la figura dell’”immemoriale” nella filosofia dell’ultimo
Schelling.
Soggetto e mito. Per una rilettura della
Dialettica dell’Illuminismo, di R. Genovese.
La risonanza mitica, di G. Comolli.
Mitologia della ragione o supplemento d’anima. Sugli sviluppi recenti della “MythosDebatte”, di F. Cuniberto: a partire da una
proposta di M. Frank: Der kommende Gott.
Vorlesungen über die neue Mythologie
(Frankfurt, 1983) l’articolo fa il punto sulla
riflessione sul mito quale emerge da una
determinata interpretazione della
Frühromantik: dagli sviluppi tardo-ottocenteschi alle proposte più recenti.
Diotima. Il mito platonico dell’Eros e il
“Matriarcato” di Bachofen, di E Pulcini.
Il sogno di Endimione. Capitoli sull’arte
delle immagini, di F. Donfrancesco: il mito
di Endimione nella pittura; la figura e l’opera di Carlo Mattioli (Modena, 1911).
Postilla su Rilke e Orfeo, di F. Rella.
Sulla certezza mitica, di J. Hillman: questo
testo di James Hillman viene pubblicato in
versione riveduta rispetto ad un’edizione
francese del 1982, apparsa sulla rivista
ginevrina “Cadmos”.
Motivazioni del tramonto delle “grandi
narrazioni” moderne. Confutazione della
post-moderna “irriducibilità dell’incertezza”, di F. Rivetti Barbò.
Il post-moderno, gli intellettuali e la cosiddetta “crisi dei valori”, di D. Cofrancesco:
il disagio degli intellettuali nei confronti
della modernità; questo disagio si concretizza in tre direzioni: la crisi dell’idea moderna di Stato, la crisi della contrapposizione destra/sinistra, la crisi di un modello di
cultura “omologante”.
Oltre il moderno. Verso un nuovo paradigma, di B. Lauretano: le argomentazioni di
Lyotard sulla condizione post-moderna e
la ricostruzione di Habermas del discorso
filosofico della modernità a partire dal
XVIII sec. come “principio della soggettività”. Per superare questo paradigma moderno é necessario adottare un nuovo paradigma, quello della ragione decentrata e
dell’azione comunicativa.
Il superamento delle categorie storiche
nella ripresa in atto delle filosofie dell’esistenza, di G. Invitto.
Il post-moderno come metafora dell’angoscia contemporanea, di A. Rizzacasa.
IL CONTRIBUTO
Vol. 15, n.3, luglio/settembre 1991
Editoriale B. M. Italiana, Roma
Il post-moderno, di L. Geymonat: brevissima sintesi delle concezioni che stanno alla
base della differenza tra moderno e postmoderno.
“Pensiero debole” e ragione critica, di A.
Sabetti: la caduta delle illusioni “moderne”, dal sogno illuministico del primato
della ragione al sogno marxista, di ascendenza illuministica, della realizzazione di
un mondo costruito in base alla ragione ed
alla giustizia, costituisce l’atto di nascita
del “pensiero debole”; accanto ad esso é
forse altrettanto importante, secondo l’autore, richiamarsi alla fede nella ragione
critica come punto di partenza per una
filosofia realmente ancorata allo spirito del
tempo.
Un evento paradigmatico del post-moderno: la manipolazione genetica, di M.
Alcaro.
“Lasciateci passare...” e se il logos fosse
soltanto un artificio linguistico?, di P.
Ciaravolo: proposta di un’istanza criticistica sul valore del logos come atteggiamento
proprio dell’odierna cultura post-moderna.
FILOSOFIA
Anno XLII, n.2, maggio/agosto 1991
Mursia, Milano
La possibilità della possibilità, di V.
Mathieu: a partire dalle proposte di riflessione di Kant (Opus Postumum) e di
Abbagnano, l’articolo affronta il problema
della “possibilità della possibilità”, svilup-
RASSEGNA DELLE RIVISTE
pandone le implicazioni.
Bergson e Einstein. Le idee di durata e di
tempo dell’universo materiale. I. Dal “tempo” della coscienza ai livelli paralleli della
durata, di A. Genovesi: l’opera di Bergson
del 1922, Durée et simultanéité. A propos
de la théorie d’Einstein (Durata e simultaneità. A proposito della teoria di E.) affronta specificatamente la questione della relatività di Einstein nella sua formulazione
ristretta. L’opera del 1922 si colloca nella
prospettiva di sviluppo di una filospfia che
va dalla matematica e dalla fisica alle scienze della vita; essa muove da due esigenze:
una, personale e particolare, di delineare
affinità e divergenze tra la propria dottrina
della durata e la concezione del tempo di
Einstein; l’altra, più generale, di indagare il
rapporto tra scienza e filosofia.
sce le tracce del corpuscolarismo empedocleo nei frammenti e nella testimonianze a
disposizione.
Parola e passione: Levinas e il problema
del linguaggio nella letteratura critica più
recente, di A. Fabris.
Sokrates: Tugend ist Wissen, di R. Ferber.
La dimensione ermeneutica della teologia
francese contemporanea, di C. Semplici:
Segue una bibliografia su: “Ermeneutica e
teologia: vent’anni di dibattito in Francia”.
Movimenti ed attività. L’interpretazione di
Aristotele, Metaph Th 6, di C. Natali: la
distinzione aristotelica tra movimenti e attività, questione rilevante anche da un punto di vista etico per il legame che é possibile
instaurare tra la distinzione movimenti/
attività e quella produzione/prassi.
Why Pericles’ slave fell into the fourth
mode, di E. De Olaso.
Modernità e metafisica, di V. Possenti: a
breve distanza dalla morte, l’articolo si
propone di analizzare l’opera di Augusto
Del Noce, filosofo “politico”, alla luce di
due termini guida: modernità e matafisica.
Le avventure del platonismo (a proposito
di pubblicazioni recenti sul Platone di
Tubinga e sul rapporto platonismo- neoplatonismo), di L.M. Napolitani Valditara:
confronto tra alcuni testi usciti in Italia nel
1990, tra cui D. Pesce: Il Platone di Tubinga
(Brescia 1990) e P. Merlan: Dal platonismo al neoplatonismo (Milano, 1990)
Storicità e situazione epistemologica della
psicoanalisi: filiazione ed ortoprassi, di
M. Francioni.
TEORIA
L’aporetica leibniziana della sostanza tra
metafisica e dinamica. Esiti, implicazioni e
corollari del Discorso di Metafisica, di A.
Delcò.
La sovrana intolleranza. Nuova androginia e modelli normativi, di V. Vitale: il
mito dell’androgino, emblematicamente delineato nel Simposio platonico, ha sempre
rappresentato per la cultura occidentale
una dimensione non soltanto ambigua e
inquietante, ma anche affascinante. L’epoca contemporanea non si sottrae a questa
situazione, ma la vive in maniera nuova,
come “progetto operativo”.
La svolta ermeneutica, di L. Bottani: le
considerazioni di Gerd Gemünden sulla
svolta ermeneutica, esposte in Die hermeneutische Wende. Disziplin und
Sprachlosigkeit nach 1800 (La svolta ermeneutica. Disciplina e mancanza di linguaggio dopo il 1800, Lang, New York,
Bern, Frankfurt a/M, Paris, 1990), come
tentativo di nascondere l’incomprensibile.
ELENCHOS
Anno XII, n. 1, 1991
Bibliopolis, Napoli
L’”atomismo” e il corpuscolarismo empedocleo: frammenti di interpretazioni nel
mondo antico, di M. L. Gemelli Marciano:
riprendendo alcune osservazioni di
Aristotele e di Teofrasto a proposito della
presenza dei presupposti dell’atomismo nella teoria di Empedocle, l’articolo ricostrui-
Il rischio dell’interpretazione, di C. Geffré:
intervista di E. Clemente a Claude Geffré,
esponente francese dell’ermeneutica teologica contemporanea.
Vol. XI, n. 1, 1991
ETS, Pisa
Tema della rivista: “Filosofia della religione: questioni aperte”.
La decomposizione dell’”interiorità” come categoria filosofica, di V. Sainati: prendendo spunto da un dibattito sviluppatosi
tra il 1931 ed il 1933 tra la filosofia neotomista di Francesco Olgiati e lo spiritualismo cristiano di Armando Carlini, l’articolo mette in evidenza i limiti dell’assunzione dell’”interiorità” come categoria filosofica.
Storia e giustificazione in Ernst Troeltsch,
di G. Moretto.
Teologia ed ermeneutica in Claude Geffré,
di E. Clemente: la riflessione teologica di
Geffré, nato nel 1926 e docente di teologia,
come esempio del rinnovamento e del ripensamento della teologia cattolica alla
luce degli esiti del Concilio Vaticano II
circa la prospettiva ecumenica, l’atteggiamento di dialogo con il mondo, la necessità
di un’autointerrogazione della teologia stessa sulle proprie possibilità e sui propri
fondamenti.
Ricordo di Alberto Caracciolo (19181990), di X. Tilliette.
L’inconsistenza ontologica della persona,
di A. Negri: una rilettura “moderna” delle
Confessioni di S. Agostino tesa a mettere in
evidenza “l’inconsistenza personale” dell’uomo di fronte alla “consistenza” di Dio.
RIVISTA
DI STORIA DELLA FILOSOFIA
Vol. XLVI, n. 3, 1991
Franco Angeli, Milano
Platone e il discorso scritto, di M. Isnardi
Parente: la posizione di Platone in relazione al dibattito sulla superiorità dell’orale
sullo scritto nell’Atene del IV sec. Nel
Fedro e nella VII Epistola, Platone affronta
questa tematica e sostiene l’importanza del
discorso scritto, purchè esso rimanga sempre “aperto” a nuove interrogazioni e correzioni e rimanga comunque ancorato alla
verità. E’ per questo che il mezzo di comunicazione adottato da Platone é il “discorso
socratico”.
Una via a Dio nel pensiero mistico di alGhazali, di M. Campanini: l’esperienza
mistica di al- Ghazali alla luce della questione, posta dalla critica, dell’autenticità o
meno di essa. L’articolo mette in luce il
legame strettissimo nella filosofia di alGhazali tra mistica, ambito teoretico e ambito pratico.
Prudenza, utilità e giustizia nel Seicento:
Pierre Gassendi, di G. Paganini: il problema del diritto in Gassendi, oscillante tra il
positivismo epicureo, influenze giusnaturalistiche e hobbesiane.
Oggettività scientifica e ontologismo critico, di F. Minazzi.
Ancora su filosofia e storia della filosofia,
di P. Parrini.
Lettere di Robin George Collingwood a
Benedetto Croce (1912-1939), a cura di A.
Vigorelli.
Cassirer, Husserl e l’ermeneutica, di L.
Landi: prendendo spunto da alcune critiche
mosse a Cassirer sull’assenza di un esame
approfondito della questione epistemologica e di un inquadramento storico della
sua filosofia nel panorama filosofico del
tempo, l’articolo esamina il libro di G. Raio
(Cassirer e Husserl in Id Ermeneutica e
teoria del simbolo, Napoli, Liguori, 1988)
che analizza il ruolo della fenomenologia
RASSEGNA DELLE RIVISTE
nella riflessione di Cassirer, in contrasto
con l’attuale tendenza ad evidenziare solo
le componenti ermeneutiche della sua filosofia, che rischia di ridurre alla sola sfera
linguistica la ricchezza dell’esperienza umana.
Il primo convegno del gruppo italiano di
storia delle scienze biologiche, di M. T.
Monti: nota sul convegno: Le rivoluzioni
scientifiche nelle scienze della vita (Pisa,
26-27 novembre 1990).
RIVISTA DI FILOSOFIA
Vol. LXXXII, n.2, agosto 1991
Il Mulino, Bologna
Heidegger, la scienza, e il linguaggio, di H.
Albert.
Struttura del tempo e formazione delle categorie nelle Meditationes di Descartes, di
L. Neri: benchè il problema del tempo
rimanga scarsamente esplicitato nella riflessione di Cartesio, é possibile tuttavia
individuare all’interno dell’argomentazione cartesiana alcuni concetti riconducibili
alla tematica temporale. L’articolo si rivolge soprattutto alle Meditationes de prima
philosophia (1641)
Bolzano e le dimostrazioni matematiche, di
F. Paoli: il contributo di Bolzano alla chiarificazione di inferenza e dimostrazione
matematica.
Cassirer, Schlick e l’interpretazione
“kantiana” della teoria della relatività, di
M. Ferrari.
accademico; questo progetto é animato dalla
consapevolezza della specificità dello statuto della filosofia, attraverso la quale s’intende “leggere” tematiche e problemi anche extrafilosofici.
Filosofia sbilenca. Attraverso Tracce e
Spirito dell’utopia di Ernst Bloch, di E.
Fagiuoli.
Il superamento della prospettiva antropologica nelle opere e nelle lezioni di
Heidegger su Kant, di F. Cassinari: le lezioni heideggeriane, recentemente pubblicate, mostrano come Kant rappresenti un
interlocutore privilegiato di Heidegger nel
suo tentativo di superare la prospettiva
antropologica. Kant sarebbe giunto alle
soglie di tale superamento, pur ritraendosi
successivamente dalle posizioni teoretiche
raggiunte. In ciò pare configurarsi una sorta di paradosso: da un lato Heidegger proietta su Kant difficoltà intrinseche alla propria
posizione, dall’altro alcuni testi kantiani
sembrano quasi proporre una risposta “heideggeriana” a tali difficoltà.
L’orizzonte filosofico della psicologia comprensiva di Karl Jaspers, Wilhelm Dilthey
e Georg Simmel, di F. Paracchini: prendendo le mosse dal rinnovamento in senso
antiempiristico che percorre la filosofia
tedesca tra Ottocento e Novecento, vengono considerati gli effetti di questo processo
nelle sezioni psicologiche della
Psicopatologia generale di Jaspers in cui,
ricorrendo ai contributi antipsicologistici
di Dilthey e Simmel, il filosofo ripensa i
presupposti gnoseologici della sua scienza.
Intervista a Carlo Sini.
“Bis bina quatror”, di M. Spallanzani: la
teoria cartesiana della creazione delle verità eterne ed il dibattito da essa suscitato
nella cultura coeva.
RIVISTA INTERNAZIONALE
DI FILOSOFIA DEL DIRITTO
ITINERARI FILOSOFICI
Vol I, n. 1, settembre/dicembre 1991
Soc. It. Ricerca Filosofica, Milano
Inizia con questo numero la pubblicazione
di una rivista di filosofia, nata dall’iniziativa di alcuni giovani studiosi dell’Università degli Studi di Milano, che si propone di
rilevare ed esporre prospettive di ricerca
filosofica maturatesi all’interno del mondo
La teoria, l’ordine e il diritto; di F. Sciacca:
nota al libro di Bruno Montanari: Profili e
letture di teoria generale del diritto (Torino, Giappichelli, 1990).
Umanizzazione e giustizia nella fenomenologia del diritto di Kojève, di A. Costanzo:
recensione dell’opera di A. Kojève: Linee
di una fenomenologia del diritto (Jaca Book,
Milano, 1989).
L’Europa e il diritto, di L. Franzese.
Il pensiero filosofico di Augusto Del Noce:
brevissimo resoconto redazionale del convegno: Il pensiero filosofico di Augusto
Del Noce (12-13 novembre 1990, Università di Udine).
Lévi Strauss e l’antropologia strutturale:
materiali per una possibile riflessione in
sede filosofico-giuridica, di L. Scillitani.
Notas sobre la existencia de un posible
derecho general a la desobediencia, di M.
Gascon Abellan.
Oltre la definizione. A proposito di L’altra
storia di Aldo G. Gargani, di M. Fortunato.
Il regionalismo epistemologico: una tendenza della filosofia contemporanea delle
scienze in Francia, di P. Jacob.
Il problema della giustificazione di una
teoria della conoscenza, di L. Floridi: il
dibattito epistemologico sul problema della natura della giustificazione e sulla legittimità di una teoria della giustificazione.
La questione della crisi del diritto e dello
Stato come messa in questione dell’obbligazione giuridica e dell’obbligazione politica, di E. Ripepe: le riflessioni sulla crisi
del diritto e dello Stato proposte da Ripepe
in occasione della lezione inaugurale dell’anno accademico 1990/91: dalla perdita
di efficienza e di efficacia del sistema giuridico italiano, alla distanza tra cittadini ed
istituzioni, ai rischi dell’individualismo deresponsabilizzato.
REVUE DE METAPHYSIQUE
ET DE MORALE
Vol. 96, n. 2, aprile/giugno 1991
A. Colin, Paris
Vol. LXVIII, gennaio/marzo 1991
Giuffrè editore, Milano
L’esplicitazione dei principi della legge
naturale e le sue difficoltà, di D. Farias: gli
elementi caratteristici della dottrina dei principi del diritto naturale e le difficoltà nell’esplicitazione di tali principi.
Indolenza e politica in Fichte. La libertà, il
male, l’azione, di J. C. Merle: l’evoluzione
del pensiero politico di Fichte, con particolare attenzione alle vicende della Rivoluzione francese; l’ideale della libertà e l’aporia del diritto sul piano religioso come
viene trattata nella Staatslehre (1813).
The Greeks and democratic theory: Moses
I. Finley’s Democracy Ancient and Modern
revisited, di A. Moulakis.
Tema della rivista: “Logica e filosofia della
conoscenza”.
Logique et métaphysique, di F. Poublanc:
l’articolo considera come alcuni aspetti
della dialettica hegeliana, che si propone di
rivelare la contraddizione di fondo di tutte
le cose, si pongono in una prospettiva demistificatrice.
Eléments pour une “philosophie de la
psychologie” à partir de la Grammaire
Philosophique de Wittgenstein, di J. L. Petit:
vengono prese in considerazione alcune
conseguenze dell’analisi grammaticale di
Wittgenstein per la psicologia. Il rinvio ad
una fenomenologia della nostra esperienza
intenzionale e ai meccanismi mentali e
celebrali, a cui essa si richiama.
L’assertion dans les contextes épistémiques; garants objectaux et bases d’évalua-
RASSEGNA DELLE RIVISTE
tion, di N. Mouloud.
Die Wissenschaft denkt nicht, Di J. M.
Salanskis: analisi di questa celebre affermazione di Heidegger da due punti di vista:
quello delle opposizioni heideggeriane ontologia fondamentale/ontologia regionale
e metafisica/pensiero, da un lato, e quello
dell’ermeneutica di Essere e Tempo e dei
testi posteriori, dall’altro.
L’identitité personnelle et la source des
concepts, di A. Shalom.
Science et déterminisme, di L. Bouquiaux e
P. Gochet: recensione di P. Amselek:
Science et déterminisme, éthique et liberté
(Scienza e determinismo, etica e libertà,
Paris, PUF, 1988).
REVUE DE METAPHYSIQUE
ET DE MORALE
Vol. 96, n.3, luglio/settembre 1991
A. Colin, Paris
Le judaïsme et les mythes politiques modernes, di E. Cassirer: l’articolo qui tradotto é tratto dalla rivista: “Contemporary
Jewish Record, Review of events and Digest
of opinion” (n.7, giugno 1944, pp. 115126), rivista le cui pubblicazioni si collocano tra il 1938 ed il 1945.
Liberté et ordre des découvertes chez
Descartes, di G. J. D. Moyal: dall’ipotesi
del genio maligno della prima Meditazione
prende spunto la questione del rapporto tra
cogito e libertà esaminata nell’articolo.
Substance et infini chez Spinoza, di J. M.
Lespade.
La relation du fini et de l’infini dans la
genèse de l’être conscient, di J. L. Chédin:
nella storia della filosofia moderna, da
Cartesio all’idealismo tedesco, si é sviluppata una riflessione sistematica sulle condizioni di possibilità e la genesi dell’essere
cosciente, che si scontra con l’impossibilità di determinare una relazione soddisfacente tra finito ed infinito nella prospettiva
dell’”esplicazione della coscienza”. La filosofia contemporanea, in particolare la
fenomenologia husserliana, hanno ereditato e sviluppato una tale aporia.
L’origine et la fonction de la Metaphysica
naturalis chez Kant, di L Freuler: secondo
Mendelssohn, Kant sarebbe l’affossatore
(Alleszermalmer) della metafisica. I suoi
testi mostrano tuttavia come non solo un
tale atteggiamento fosse estraneo a Kant,
ma come addirittura egli progettasse una
riforma ed una rinascita della metafisica.
Substantialisation et substantivation: la
syntaxe de l’objectivation religeuse chez
Feuerbach, di C. Berner: prendendo le
mosse dal principio di oggettivazione religiosa, criticato da Feuerbach, l’articolo si
propone di cogliere il senso autentico della
riflessione feuerbachiana, che non risiederebbe tanto nella dimostrazione della nonesistenza di Dio, quanto nel desiderio di
sradicare i dogmatismi dalla filosofia ed
offrire l’uomo concreto.
Natural right and the end of history. Leo
Strauss and Alexandre Kojève, di M. Roth.
REVUE INTERNATIONALE
DE PHILOSOPHIE
Vol. 177, n. 2, 1991
Universa, Wetteren
tifiche esaminate, la loro possibile datazione, ed un commento anche dell’importante
racconto dei sogni, trascurato da Leiniz.
Métaphysique radicale, di J. Margolis: la
storia della metafisica può essere letta alla
luce di un dualismo fondamentale: da un
lato la tradizione classica, risalente a
Parmenide, Platone e Aristotele, secondo
la quale il reale é immutabile, si identifica
con il pensabile e dipende da un’interpretazione metafisica del principio di noncontraddizione e del terzo escluso. Dall’altro lato la tradizione che rifiuta questa
impostazione. A questa tradizione, risalente a Anassimandro e Protagora, si richiamano le teorie di tre filosofi americani:
Peirce, Quine e Goodman.
Tema della rivista: “Bergson”, di cui ricorre il cinquantenario della morte. Gli articoli
esaminano la produzione del filosofo francese relativamente al problema del rapporto immanenza-trascendenza nel saggio:
Evoluzione creatrice del 1907 (Bergson et
l’indien sioux, di A. Robinet); in riferimento al Saggio sui dati immediati della coscienza del 1889 viene invece affrontata la
questione relativa ad un confronto della
filosofia di Bergson con quella di Husserl
(La phénoménologie de l’intensité, di D. J.
Herman). Viene inoltre esaminato il legame tra libertà e vita a partire da un’analisi
della coscienza in chiave antiassociazionistica (La liberté et la vie chez Bergson, di
G. Lafrance); secondo Bergson, infatti, l’associazionismo rappresenterebbe una teoria
che riduce la coscienza ad un aggregato di
stati senza una vera unità interna e condurrebbe ad una falsa idea di libertà.
Idéalisme ou réalisme?, di J. Largeault: se
i Greci hanno privilegiato l’immutabilità e
la permanenza dell’Essere, rendendo possibile la nascita e lo sviluppo delle scienza
razionale, gli Orientali hanno sottolineato
piuttosto la molteplicità degli aspetti dell’Essere come manifestazione di unità. Per
questo, secondo l’autore, essi sono idealisti.
Compaiono inoltre i seguenti articoli:
Des sensibles communs dans le De Anima
d’Aristote, di D. Lories: gli studiosi, pur
essendo d’accordo che nel De Anima (425
a 14- a 30) Aristotele non individua un
organo sensoriale specifico preposto al coglimento dei sensibili comuni, sono in disaccordo a proposito delle interpretazioni
da dare a questo fatto. Ciò che é essenziale
in Aristotele é tuttavia l’unità delle facoltà
sensitive e la corrispondenza alla cosa percepita.
Bergson and non-linear non-equilibrium
thermodynamics: an application of method, di P.A.Y. Gunter.
Physique et métaphysique du rythme comme mimésis, di A. Kremer-Marietti: analisi
della nozione bergsonniana di ritmo in chiave estetica, fisica e metafisica.
Henry Bergson. Kritik der Quantität als
allgemeine Entfremdungstheorie der
Gegenwart, di K. P. Romanos.
ARCHIVES DE PHILOSOPHIE
Tomo 54, n.3, luglio-settembre 1991
Beauchesne, Paris
Le premier registre de Descartes, di G.
Rodis-Lewis: indagine sulle riflessioni cartesiane contenute nel Manuscrit des pensées de Descartes (Manoscritto dei pensieri di Descartes), copiato in parte da Leibniz
e pubblicato da Foucher de Careil, con
particolare attenzione alle questioni scien-
Segue il Bulletin de littérature hégélienne
VIII, a cura di P. J. Labarrière, G. Jarczyk,
J. F. Kervegan.
REVUE PHILOSOPHIQUE
DE LOUVAIN
Vol. 89, agosto 1991
Ed. Institut Supérieur de Philosophie
Louvain La Neuve
L’athéisme de Diderot, di B. Baertschi:
Diderot é il primo a mettere in luce che gli
sviluppi della scienze dell’epoca mettono
in pericolo le prove dell’esistenza di Dio
proposte da Cartesio in poi. Da ciò deriva
anche la sua elaborazione di una concezione della natura ancora valida ai giorni nostri.
Loi et éthique chez Kant et Lacan, di R.
Bernet: le sorprendenti analogie tra il rigorismo della morale kantiana e l’etica del
desiderio di Lacan.
Rationalisation sociale et rationalité juridique, di H. Pourtois: a partire dalle lezioni
RASSEGNA DELLE RIVISTE
tenute da Habermas alla Harvard University
nel 1986 dal titolo Law and Morality (in
The Tanner Lectures on Human Values,
Cambridge University Press, Cambridge
1986, pp. 217-279), viene esaminato il ruolo del diritto nella ricostruzione habermasiana della logica dell’evoluzione sociale
come Medium di regolazione sistemica dell’azione nella società moderna e come istituzione.
Philosophie et christianisme, di F. Van
Steenberghen: replica ad un articolo di J.
Garcia Lopez, “La cuestion de la filosofia
cristiana” (Scripta theologica, XXII, 1990).
A propos de la biographie de Simplicius, di
S. Van Riet.
ZEITSCHRIFT FÜR PHILOSOPHISCHE
FORSCHUNG
Vol. 45, n. 1, gennaio/marzo 1991
Klostermann, Frankfurt a/M
Der Harmonie-Gedanke im frühen Mittelalter, di W. Beierwaltes: analisi di alcuni
tratti fondamentali del pensiero filosofico
dell’armonia nel Medioevo, con particolare attenzione al pensiero di Eriugena e agli
apetti di questo dibattito che si aprono alla
dimensione di una teoria della musica. Particolare attenzione viene dedicata ai concetti di Uno e di Unità, in quanto l’armonia
é una forma determinata dell’unità.
Die Folgen vorherrschender Moralkonzeptionen, di T. Pogge.
Der Begriff der Bewegung bei Kant, di T. S.
Hoffmann.
“Natur” als Massstab menschlichen
Handelns, di D. Birnbacher: la natura come
concetto etico e come criterio etico; il naturalismo etico.
Kants Schemata als Anwendungsbedingungen von Kategorien auf Anschauungen, di D. Lohmar: il concetto di affinità
nello schematismo della Critica della ragion pura.
Etwas ist in mir da, di U. Wolf: recensione
di U. Pothasts, Philosophische Buch
(Suhrkamp, Frankfurt a/M. 1988).
Bibliographie der Schriften von Theodor
Lipps, di N. W. Bokhove e K. Schuhmann.
Philosophie der Subjektivität? Zur
Bestimmung des neuzeitlichen Philosophierens, di H. Korten: resoconto dell’omonimo convegno tenutosi a Leonberg il
14 ottobre 1989 a cura della SchellingGesellschaft.
ZEITSCHRIFT FÜR PHILOSOPHISCHE
rapporto simpatia-giustizia.
FORSCHUNG
Vol. 45, n. 2, aprile/giugno 1991
Klostermann, Frankfurt a/M
Nihilismus und Revolte:
Nietzschekritik, di A. Pieper.
Camus’
Georg Simmel. Eine Religion der
Immanenz, di C. F. Geyer: lo scritto di
Simmel, La religione (1906, 1912, 1922)
non é soltanto un primo, sistematico bilancio dei primi lavori filosofici e sociologici
del filosofo, ma la lunga elaborazione di
questo scritto offre anche uno spaccato
della vita filosofica dell’autore e testimonia la costanza dei suoi interessi filosofici
per la religione.
Zur Wiederkehr des Historismus in der
Gegenwartsphilosophie, di V. Steenblock:
lo status attuale della discussione sullo
storicismo alla luce degli odierni orientamenti: Habermas, Apel, Hösle.
Ernst Cassirer über Geschichte und
Geschichtswissenschaft, di T. Göller.
Weshalb sind die Philosophischen
Untersuchungen Wittgensteins nur ein Album?, di J. P. Schobinger.
Die Bergson-Rezeption in Deutschland, di
G. Pflug.
Kant’s Amphiboly, di D. Pereboom: la componente antirazionalistica della riflessione
kantiana, giudicata poco significativa dalla
maggior parte degli interpreti, é l’oggetto
di quest’articolo, impostato sull’argomento dell’anfibolia dei concetti della riflessione; il rapporto con Leibniz.
Die Naturphilosophie im 18 Jahrhundert
und der naturwissenschaftliche Unterricht
in Tübingen, di M. Durner: le origini della
riflessione schellinghiana sulla natura a
Tubinga tra Rivoluzione francese e filosofia kantiana.
Zur Kants Theorie der physikalischen
Gesetze, di S. Marcucci: recensione di V.
Murdroch: Kants Theorie der
physikalischen Gesetze (La teoria kantiana
delle leggi fisiche, de Gruyter, Berlin 1987).
ARCHIV FÜR GESCHICHTE
DER PHILOSOPHIE
Vol. 73, n. 2, 1991
de Gruyter, Berlin, New York
“Esti Triton” Aristoteles De Interpretatione
10,19, b 21-22, di C. Rapp.
Neuere ausländische Arbeiten zu Kants
Kritik der Urteilskraft, di G. Zöller.
Platonism and Descartes’ view of immutable Essences, di T. M. Schmaltz: la questione, densa di difficoltà per il sistema cartesiano, del Dio creatore di verità eterne.
Selbstschöpferische Ironiker und erschöpfte
Liberale. Richard Rorty Utopie einer argumentationsfreien Zone, di H. Busche.
Freiheit, Gleichheit, Brüderlichkeit bei
Kant, di B. Kienzle.
“Deutsche Zeitschrift für Philosophie”:
Rückbesinnung auf ihre Ursprünge, di K.
Gloy.
Wittgenstein und Spengler, di R. Ferber.
Bericht über den XV Kongress der
Allgemeine Gesellschaft für Philosophie in
Deutschland, “Philosophie der GegenwartGegenwart der Philosophie”, vom 24-28
September 1990 in Hamburg, di M. Wetzel.
MAN AND WORLD
ARCHIV FÜR GESCHICHTE
DER PHILOSOPHIE
Foucault: making a difference, di R. Lilly:
il principio dell’esteriorità come guida del
pensiero filosofico di Foucault; l’archeologia come analisi della produzione di differenze ed essa stessa differenza critica.
Vol. 73, n. 1, 1991
de Gruyter, Berlin, New York
Politik und Philosophie bei Aristoteles und
im frühen Peripatos, di C. MuellerGoldingen.
Property as an institutional Convention in
Hume’s Account of Justice, di S. Freeman:
l’interpretazione di Hume della natura e
delle condizioni dei sistemi di proprietà
come base primaria dei sistemi politici ed
economici; le analogie e le differenze rispetto a Hobbes e Locke, la questione del
Vol. 24, n. 3, luglio 1991
Kluwer, Dordrecht
The life of order and the order of life: Eric
Voegelin on modernity and the problem of
philosophical anthropology, di D. J. Levy.
A little daylight: a reading of Derrida’s
“White Mythology”, di L. Lawlor: rilettura
di La Mythologie blanche (La mitologia
bianca, 1972) di Derrida.
Willing and acting in Husserl’s lectures on
ethics and value theory, di T. Nenon: la
recente pubblicazione di scritti di Husserl
sull’etica, Vorlesungen über Ethik und
Wertlehre 1908-1914 (Lezioni sull’etica e
RASSEGNA DELLE RIVISTE
la dottrina dei valoroi 1908-1914, Kluwer,
Dordrecht 1988) offre nuovi spunti di riflessione sulla sua concezione della volontà.
The de-con-struction of reason, di S. Glynn:
qual’é la natura della razionalità della ragione, da dove deriva e come é giustificata?
Le possibili soluzioni, anche alla luce del
dibattito epistemologico più recente.
Intersubjectivity without subjectivism, di
B. J. Singer: la filosofia di Mead e Buchler.
JOURNAL OF THE HISTORY
OF PHILOSOPHY
The role of perceptual relativity in
Berkeley’s philosophy, di R. Muehlmann.
Fichte on skepticism, di D. Breazeale: i
riferimenti allo scetticismo nell’opera fichtiana oscillano tra un atteggiamento di
ferma ostilità e uno di apprezzamento. L’articolo tenta di spiegare come e perchè Fichte
potesse, senza cadere in contraddizione,
elogiare lo scetticismo per il suo indispensabile contributo alla crescita della filosofia e al tempo stesso rifiutarlo come autocontraddizione, denunciandolo per i suoi
effetti negativi.
A unique Way of existing: Merleau- Ponty
and the subject, di J. Siegel.
Vol. XXIX, n. 2, aprile 1991
Washington University, St. Louis
Plato and the senses of words, di T. A.
Blackson: la questione dell’omonimia nei
dialoghi platonici. Prendendo le mosse dalla tesi di G. Vlastos (Reason and causes in
the Phaedro, 1969) l’autore, difendendo il
ruolo di Aristotele nella storia della filosofia, nega che Platone teorizzi un’omonimia, filosoficamente insidiosa, delle parole.
Malebranche versus Arnauld, di M. Cook.
Locke on personal identity, di K. P. Winkler:
le difficoltà che emergono all’interno della
dottrina lockeana dell’identità personale.
Kant, Mendelssohn, Lambert and the
subjectivity of time, di L. Falkenstein.
Hegel, Marx and the concept of immanent
critique, di A. Buchwalter: contrariamente
alla affermazioni di Marx, i principi della
logica speculativa hegeliana non sono estranei al concetto di immanenza critica
che Marx ritiene implicito nella dialettica
ragione-realtà.
INTERNATIONAL PHILOSOPHICAL
QUARTERLY
Vol. XXXI, n. 3, settembre 1991
Fordham University, New York
Time in Hegel’s Phenomenology of Spirit,
di J. C. Flay.
The insufficiency of Descartes’ provisional morality, di F. P. Coolidge: la morale
provvisoria di Cartesio e il suo rapporto
con la dottrina del metodo esposta nel Discorso.
Religion, Nothingness and the challenge of
post- modern thought: an introduction to
the philosophy of Keiji Nishitani , di G. A.
James: le opere ed il pensiero di Keiji
Nishitani, nato nel 1900 e considerato come il più importante rappresentante della
scuola di filosofia giapponese di Kyoto.
The Many-Gods objection and Pascal’s
wager , di J. Jordan.
Condemned to time: the limits of MerleauPonty’s quest for being, di A. C. Lowry.
JOURNAL OF THE HISTORY
OF PHILOSOPHY
Vol. XXIX, n. 3, luglio 1991
Washington University, St. Louis
Socratic reason and socratic revelation, di
M. L. Mcpherran: l’immagine tradizionale
che la storia della filosofia ha dato di Socrate
esclude che questi potesse rivolgersi a qualsiasi esperienza religiosa extrarazio-nale.
L’articolo intende invece recuperare quest’ultimo aspetto della riflessione socratica, attraverso l’evidenziazione della portata del daimonion per il pensiero del filosofo.
The Dating of Rule IV-B in Descartes’s
Regulae ad directionem ingenii, di F. P.
Van De Pitte.
Radical hermeneutics, critical theory, and
the political, di J. A. Doody: la teoria della
prassi comunicativa di Habermas e l’utilità
del suo pensiero per l’ermeneutica radicale.
(aprile/giugno 1991, PUF, Paris) propone un
articolo su Schopenhauer di R. Malter (Le
transcendentalisme de Schopenhauer) ed
una interessante rilettura del libro di M.
Henry, L’essence de la manifestation (PUF,
Paris 1963) centrato sul problema dell’alterità e sul concetto di immanenza che
emergono dal testo (Une autre lecture de
l’Essence de la manifestation: immanence,
présent vivant et altérité, di Y. Yamagata).
LES ETUDES PHILOSOPHIQUES
AESTHETICA
(n. 31, aprile 1991), rivista del Centro Internazionale di Studi di Estetica di Palermo, pubblica, per la prima volta in Italia, la
Prefazione a L’Ordonnance des Cinq
Espèces de Colonnes selon la Méthode Des
Anciens, di Claude Perrault, testo chiave
per una corretta ricostruzione e interpretazione del dibattito teorico in campo architettonico nella Francia del tardo Seicento.
La figura di Perrault é peraltro rilevante
anche in relazione all’intera cultura del
Seicentoin: come menbro della prestigiosa
Académie des Sciences egli è in contatto
con i maggiori nomi della cultura coeva,
Leibniz, Arnauld e Nicole (numerosi cono
i legami delle idee di Perrault con il giansenismo). Al testo fa seguito un’appendice
bibliografica a cura di M. S. Scalvini e S.
Villari, curatori anche dell’introduzione al
testo.
THEOLOGIE UND PHILOSOPHIE
(Vol.
66, n. 2, 1991, Herder, Freiburg, Basel,
Wien) propone un articolo di C. Hörl
(Semantik und Handlungskausalität) sulla
discussione circa l’intelligenza artistica nella filosofia analitica; in Die Wahrheit und
das Gute, di J. Splett si esamina la figura di
Socrate in rapporto alla nascita della metafisica. Nel numero successivo (Vol. 66, n.
3. 1991) appare un articolo di H. L. Ollig
(Philosophische Zeitdiagnose im Zeichen
des Postmodernismus) che esamina sinteticamente lo status del dibattito sul postmoderno in Germania, analizzando più precisamemte la posizione di Sloterdijk, Welsch
e Koslowski.
II BOLLETTINO DELLA SOCIETA’ FILOSOFICA ITALIANA (n. 143, maggio-ago-
sto 1991) presenta un articolo di M. Zani
dal titolo L’identità personale secondo
Simone Weil che si propone di costruire su
un piano logico la questione posta dalla
Weil sul piano metafisico della “prospettiva impersonale riferita ad un io semza
prospettiva”.
Compaiono inoltre un articolo di G. Patella
su Vico e la retorica e la proposta di un
itinerario didattico di O. Frizzera dal titolo:
Dal Mythos al logos nel pensiero antico.
(Vol. XI, n. 2, agosto
1991) presenta un articolo di A. Meschiari
dal titolo: Contributi allo studio dei fondamenti dello storicismo. La filosofia della
lingua di Heymann Steinthal, che ricostruisce, parallelamente alla riflessione di
Steinthal, lo status della filosofia del linguaggio nella metà del XIX sec.
INTERSEZIONI
NOVITA' IN LIBRERIA
NOVITA' IN LIBRERIA
AA.VV
Razionalità fenomenologica
e destino della filosofia
Marietti, Genova ott./dic. 1991
pp.263, L. 40.000
Il punto sugli studi dedicati a Husserl,
in una raccolta di saggi che affronta i
temi fondamentali del più acuto indagatore nel campo della fenomenologia.
AA.VV.
Preghiera e filosofia
Morcelliana, Brescia ottobre 1991
pp.438, L. 40.000
I saggi di questo volume tentano di
rispondere a queste domande: è possibile una interrogazione filosofica della
preghiera? Nel tempo del compiuto nichilismo, la crisi culturale della preghiera, del suo invocare, non tocca la
stessa filosofia nel suo essere sguardo
stupefatto dell’esistente?
Aarnes, Asbjoern
Cartesianische Perspektiven.
Von Montaigne bis Paul Ricoeur
Bouvier, Bonn sett./ott. 1991
pp.222, DM 58
Il libro apre una nuova strada nella vita
spirituale della Francia: i discorsi del
poeta e del filosofo si separano, condizionati dalla stretta vicinanza di letteratura e filosofia.
Adinolfi, Isabella
Poeta o testimone?
Il problema della comunicazione
del cristianesimo
in Søren Kierkegaard
Marietti, Genova ott./dic. 1991
pp.77, L. 25.000
Uno studio che si inserisce in una corrente diversa da ogni interpretazione
riduttiva di Kierkegaard in chiave fideistica. Il tema della giustificazione della
fede vi appare come un momento centrale nella riflessione del filosofo.
Agazzi, E. - Cordero, A. (a cura di)
Philosophy and the origin
and evolution of the Universe
Kluwer, Dordrecht sett./ott. 1991
pp.480, Dfl 190
Il libro fornisce elementi essenziali del
retroterra scientifico necessario per
comprendere le principali questioni della cosmologia moderna, offrendo allo
stesso tempo un dibattito sui problemi
che vi sorgono, che non sono di carattere puramente scientifico, né filosofico.
Allen, R.E. (a cura di)
Platone
The dialogues of Plato:
vol.II. The Symposium
Yale UP, Yale ottobre 1991
pp.184, £ 16,95
Questa nuova traduzione del Simposio
cerca di far rivivere questo classico per
il lettore moderno. La traduzione è accompagnata da un commento che mira
a facilitare la comprensione del pensiero platonico e a fornire riferimenti in
relazione alla filosofia contemporanea.
Alvarez, Fabio Ch.
Die brennende Vernunft. Studien
zur Semantik der “rationalitas”
bei Hildegard von Bingen
Frommann-Holzboog
Stuttgart sett./ott. 1991
pp.288, DM 68
Amtmann, Rolf
Die Ganzheit
in der europäischen Philosophie
Grabert, Tübingen sett./ott. 1991
pp.444, DM 68
Opposizioni come quella di corpo e
anima, materia e spirito, materialismo e
idealismo spesso conducono a vicoli
ciechi. L’autore spiega che la soluzione
andrebbe cercata nella moderna teoria
della totalità.
Annerl, Charlotte
Das neuzeitliche Geschlechterverhältnis. Eine philosophische Analyse
Campus, Frankfurt/M. sett./ott. 1991
pp.180, DM 38
La Sala, Federico
La mente accogliente.
Tracce per una svolta antropologica
Pellicani, Roma ott./dic. 1991
pp.210, L. 35.000
Saggio su Nietzsche “e i suoi dintorni”
(parmenide, Platone, Marx, Freud,
Benjamin) tenta di andare “oltre”
l’Edipo e la metafisica. Spesso con tono
nietzscheano, chiarisce - attravesro
Parmenide e d Eraclito - il fondamento
della concezione tragica della realtà,
verso il nuovo concetto di “mente accogliente”.
Arens - John - Rottländer
Erinnerung, Befreiung, Solidarität.
Benjamin, Marcuse, Habermas
und die politische Theologie
Patmos, Düsseldorf sett./ott. 1991
pp.200, DM 29,80
Armon-Jones, Claire
Varietes of affect
Harvester Wheatsheaf, settembre 1991
pp.208, £ 30
Questo studio intende dimostrare che
abbiamo bisogno di collocare le nostre
emozioni in una più ampia visione dei
nostri affetti. Si può confidare nel fatto
che un tale approccio ci permetterà di
spiegare la continuità delle emozioni
con altri tipi di stati affettivi e special-
mente con quello stato denominato “umore”.
Audi, Robert
Practical reasoning
Routledge, London settembre 1991
pp.240, £ 9,99
Questa monografia propone un’originale teoria sul ragionamento pratico,
che combina il realismo psicologico
con l’adeguatezza filosofica, e mira ad
integrare la struttura del ragionamento
pratico in una plausibile psicologia cognitiva.
Auroux, Sylvain - Weil, Yvonne
Dictionnaire des auteurs
et des themes de la philosophie
Hachette, Paris sett./ott. 1991
pp.526, FF 75
Questo dizionario ha un repertorio di
circa cento autori, una guida bibliografica e raccoglie piu’ di cento temi. E’
una fonte sulla quale verificare i riferimenti.
Baccelli, Luca
Praxis e Poiesis
nella filosofia politica moderna
Franco Angeli, Milano ottobre 1991
pp.272, L. 35.000
Bal,. K. - Wollgast, S. Schellenberger, P. (a cura di)
Frühaufklärung
in Deutschland und Polen
Akademie, Berlin sett./ott. 1991
pp.374, DM 48
Baldini, Massimo
Contro il filosofese
Laterza, Bari settembre 1991
pp.190
Di fronte all’ “imperativo storico” di
parlar chiaro come si sono comportati
nel passato e come ancor oggi si comportano i filosofi? Una carrellata spesso
polemica e sempre vivace su quanto è
stato detto dai vari filosofi sul loro
stesso linguaggio.
Barret, Cyril
Wittgenstein on ethics
and religious belief
Blackwell, London ottobre 1991
pp.256, £ 45
Espone le prospettive etiche religiose
di Wittgenstein. L’opera sottolinea la
suprema convinzione di Wittgenstein
sull’importanza dei valori etici e religiosi; egli credeva che tale importanza
non potesse tuttavia essere espressa adeguatamente.
Bäumer, A. - Benedikt, M. (a cura di)
Dialogdenken - Gesellschaftsethik.
Wider die allgegenwärtige Gewalt
gesellschaftlicher Vereinnahmung
Passagen-Vlg., Wien sett./ott. 1991
pp.432, ÖS 598 - DM 85
Bäumer, A. - Benedikt, M. (a cura di)
Gelehrtenrepublik - Lebenswelt.
Edmund Husserl und Alfred Schütz
in der Krisis
der phänomenologischen Bewegung
Passagen-Vlg., Wien sett./ott. 1991
pp.400, DM 80 - ÖS 560
Bechler, Zev
Newton’s physics
and the conceptual structure
of the scientific revolution
Kluwer, Dordrecht sett./ott. 1991
pp.624, Dfl. 300
Le due ontologie arrivano ineluttabilmente allo stesso posto: da una parte il
rettilineo e ordinato verbalismo dell’aristotelico, dall’altra il platonico costretto a una circolarità della scienza
che non può eludere, se non rinunciando agli ideali di certezza che condivide
con l’aristotelico.
Beierwaltes, Werner
Selbsterkenntnis und Erfahrung
der Einheit. Plotins Enneade V 3.
Text, Übersetzung, Interpretation,
Erläuterungen
Klostermann, Frankfurt a.M.
sett./ott. 1991
pp.260, DM 88
Bergson, Henri
Materie und Gedächtnis.
Aine Abhandlung über die Beziehung
zwischen Körper und Geist
Intr. di E. Oger
trad. di J. Frankenberger
Meiner, Hamburg sett./ott. 1991
pp.256, DM 36
Beschin, Giuseppe (a cura di)
Filosofia e ascesi
nel pensiero di Antonio Rosmini
Morcelliana, Brescia 1991
pp.397, L. 50.000
Una prima parte dedicata a un “sondaggio teoretico” fra platonismo, neoplatonismo e aristotelismo, una seconda
specificamente dedicata a Rosmini sul
possibile connubio tra filosofia e ascesi.
Bhaskar, Roy
Philosophy and the idea of freedom
Blackwell, London ottobre 1991
pp.256, £ 35
La prima parte è una citica del lavoro di
Richard Rorty sulla problematica epistemologica. La seconda parte consta
di tre testi complementari a questa critica: il primo esamina la natura del
realismo critico, il secondo indaga i
NOVITA' IN LIBRERIA
legami tra realtà e valore e il terzo è una
visione sinottica del pensiero marxista.
Bianco, Franco Di Bernardo, Giuliano (a cura di)
Episteme e azione
Franco Angeli, Milano settembre 1991
pp.248, L. 32.000
I diversi saggi che compongono questo
volume analizzano l’attuale pluralizzazione dei criteri euristico-interpretativi
dell’impresa cognitiva, il rifiuto delle
prospettive di tipo riduzionistico sostenute dalle epistemologie analitiche standard, la valorizzazione delle dimensioni linguistiche, pragmatiche e intenzionali presenti nell’indagine eticofilosofica. Vengono così studiate concezioni e teorie che sono alla base non
soltanto dell’odierna prospettiva “postanalitica”, ma anche di movimenti come lo storicismo, l’ermeneutica, il pragmatismo, “la nuova filosofia della scienza”, l’epistemologia evoluzionistica e
il neoutilitarismo.
Blumenthal, Henry Robinson, Howard (a cura di)
Aristotle and the later tradition
Clarendon, London settembre 1991
pp.288, £ 35
Il tema centrale di quest’opera è la
filosofia di Aristotele e la sua influenza
sul pensiero della tarda classicità, in
particolare sul neoplatonismo. Include
articoli sulla fisica, la metafisica, la
teologia, l’etica, la logica e la filosofia
della mente, scritti da alcuni studiosi
americani ed europei.
Bortolotti, Arrigo
La religione nel pensiero di Platone
Olschki, Firenze ott./dic. 1991
pp.300, L. 52.000
Lo studio contenuto in questo volume è
la continuazione e il completamento
del discorso iniziato in La religione nel
pensiero di Platone. Dai primi dialoghi
al Fedro, pubblicato dall’autore nel
1986.
Bos, P. Adam
Teologia Cosmica e Metacosmica
Vita e Pensiero, Milano ottobre 1991
pp.404, L. 45.000
Una nuova interpretazione delle opere
“perdute” di Aristotele che comportano
una nuova considerazione globale della
sua filosofia.
Braitling, Petra
Hegels Subjektivitätsbegriff.
Aine Analyse mit Berücksichtigung
intersubjektiver Aspekte
Königshausen & Neumann
Würzburg sett./ott. 1991
pp.234, DM 46
Brandl, J. (a cura di)
Metamind, knowledge, and coherence.
Essays on the philosophy
of Keith Lehrer
Ed. Rodopi, Amsterdam sett./ott. 1991
pp.200, Dfl 65
Braude, Stephen E.
First person plural:
multiple personality
and the philosophy of the mind
Routledge, London ottobre 1991
pp.288, £ 35
Un’analisi filosofica del fenomeno dello sdoppiamento della personalità.
Braude sostiene che l’avvicendarsi delle personalità è una profonda ed autentica divisione dell’io.
Braun, Johann
Freiheit, Gleichheit, Eigentum.
Grundfragen des Rechts
im Lichte der Philosophie
J.G. Fichtes Mohr
Tübingen sett./ott. 1991
pp.189, DM 64
Bruno, Giordano
Über di Monas, die Zahl und die Figur
als Elemente einer sehr gemeinen
Physik, Mathematik und Metaphysik
A cura di E. von Samsonow
Meiner, Hamburg sett./ott. 1991
pp.294, DM 88
In questa prima traduzione tedesca della sua fondamentale trilogia, Bruno individua nel numero la chiave dell’allontanamento del pensiero dai principi
semplici verso l’idea della totalità.
Calasso, Roberto
I quarantanove gradini
Adelphi, Milano ottobre 1991
pp.500, L. 32.000
Nietzsche, Kraus, Robert Walser. Adorno, Benjamin, Heidegger, Marx, sono
alcuni dei nomi che appaiono in questo
libro. Sono incontri che hanno lasciato
traccia in saggi, indagini, articoli composti nel corso di più di vent’anni e qui
presentati nell’ordine in cui sono stati
scritti.
Camastra, Francesco (a cura di)
Libido dominandi. La teoria politica
da Gregorio Magno a Gregorio VII
Unicopli, Milano ott./dic. 1991
pp.173, L. 26.000
Attraverso una scelta di testi con ampia
introduzione, il volume offre uno sguardo sulla filosofia politica di importanti
esponenti medievali del potere politico
e di quello religioso: da Gregorio magno a Aluino, da Carlo Magno a
Gregorio VII.
Cambiano, Giuseppe
Platone e le Tecniche
Laterza, Bari settembre 1991
pp. 270
A vent’anni dalla prima edizione, questo saggio rimane ancora oggi l’unico
lavoro complessivo che tratti organicamente la riflessione platonica sul mondo concreto della “operatività” umana.
Campbell, T.D. (a cura di)
Biotechnologie, Ethik und Recht
im wissenschaftlichen Zeitalter
Steiner, Stuttgart sett./ott. 1991
pp.200, DM 70
Raccolta di saggi tedeschi, inglesi e
francesi.
Canto, Monique (a cura di)
Les paradoxes de la connaissance:
essais sur le Menon de Platon
O. Jacob, Paris ottobre 1991
pp.280, FF 180
Uno studio sul Menone, che presenta
nella forma piu’condensata e piu’ drammatica i punti principali del pensiero
platonico.
Cardoff, Peter
Martin Heidegger
Campus, Frankfurt a.M. sett./ott. 1991
pp.140, DM 17,80
Questo scritto introduttivo cerca di rompere il campo del pensiero, comunicando con la filosofia di Heidegger in modo dialogico ed esaminando l’opera al
di là dei pro e dei contro in cui è arenata.
Carré, Patrick
D’Elis a Taxila: eloge de la vacuité
Criterion, Paris ottobre 1991
pp.110, FF 75
Al centro di questo viaggio iniziatico ai
confini tra saggistica e narrativa, è
Pirrone, filosofo greco dell’antichita’,
fondatore dello scetticismo e compagno di Alessandro, che scortera’ durante le sue conquiste.
Casati, R. (a cura di)
Europena Yearbook of Philosophy.
Vol.1/1991: Philosophy of mind
Neske, Pfullingen sett./ott. 1991
pp.160, DM 38
Questo periodico è la piattaforma di
lancio delle nuove generazioni accademiche del pensiero filosofico e viene
pubblicato una volta all’anno da giovani universitari europei in lingua inglese. Gli otto articoli del numero 1 trattano problemi specifici della filosofia dello spirito.
Cassirer, Ernst
Rousseau, Kant, Goethe
A cura di Rainer A. Bast
Meiner, Hamburg sett./ott. 1991
pp.204, DM 32
Il presente volume comprende quattro
importanti testi di Rousseau, Kant e
Goethe, due dei quali appaiono per la
prima volta in lingua tedesca. L’accurata edizione filologica comprende anche le note del curatore, con documentazione delle citazioni e utili spiegazioni.
Cioran, E. M.
L’inconveniente di essere nati
Adelphi, Milano novembre 1991
pp.187, L. 25.000
Cioran vaga in questo libro non già
intorno ai problemi come fanno spesso
i filosofi, ma intorno alle “cose” come
fanno i pochi che pensano veramente e
fra le tante cose il puro fatto di essere
nati. In questo libro, più che mai prima,
Cioran si avvicina a certi temi, a certi
modi dei buddhisti più radicali.
Conche, Marcel (a cura di)
Anassimandre.
Fragmentes et temoignages
PUF, Paris settembre 1991
pp.256, FF 245
Il problema iniziale della filosofia, quello del senso dell’uomo, ha preso sin
dalle origini, con Anassimandro, la sua
forma essenziale: cosa significa la morte? La “Parola di Anassimandro” è una
giustificazione della morte.
Corbin, Henry
Storia della filosofia islamica
Adelphi, Milano ottobre 1991
pp.285, L. 16.000
La vicenda del pensiero islamico non
solo attraverso le figure che ebbero
immensa influenza in Occidente, come
Avicenna e Averroè, ma in tutte le sue
molteplici, affascinanti ramificazioni,
molte delle quali pressochè ignote fra
noi prima di questo libro.
Cusano, Nicola
La dotta ignoranza
a cura di G. Federici Vescovini
Città Nuova, Roma settembre 1991
pp. 229, £. 23.000
Il problema che interessa Cusano, nella
Dotta ignoranza è quello del rapporto
tra verità di fede e verità di ragione,
rivelazione cristiana e filosofia. Moderna la soluzione, che sfocia in una
«mondanizzazione» del messaggio re-
ligioso, nella pacificazione terrena della fede fondata sulla universalità del
suo messaggio, il Verbo come Logos
rivelato.
Damascius, Westerink Leendert
Gerrit (a cura di)
Traité des premiers principes
Belles Lettres, Paris 1986-1991
3 vol.
Deleuze, Gilles - Guattari, Felix
Qu’est-ce que la philosophie?
Minuit, Paris ottobre 1991
pp.208, FF 85
La filosofia, in quanto attivita’ che crea
concetti, si differenzia dalla scienza e
dalla logica, le quali operano attraverso
funzioni, su un piano di riferimento e
con osservatori parziali.
Derrida, Jacques
Oggi l’Europa
Garzanti, Milano ottobre 1991
pp.126, L. 18.000
“A quale concetto, a quale individuo
reale, a quale entità determinata si può,
al giorno d’oggi, assegnare in nome di
Europa?” E’ questo lo spunto da cui
parte la riflessione di Jacques Derrida
che affronta in questo saggio uno dei
temi più profondi e centrali dell’attualità culturale e politica: qual’è e quale
sarà il ruolo del Vecchio Continente?
Quale potrà essere il suo destino, ora
che la situazione mondiale sta cercando
nuovi equilibri?
Derrida, Jacques
La mano di Heidegger
Laterza, Bari novembre 1991
pp.210
Un confronto di altissimo livello tra
uno dei maggiori filosofi francesi contemporanei e il grande filosofo tedesco.
Di Francesco, Michele
Il Realismo analitico
Guerini e Ass., Milano sett. 1991
pp.280, L. 40.000
Il volume fornisce un’ampia panoramica della filosofia del linguaggio in
Russel mettendo a fuoco uno dei principali punti teoretici da cui si è originata
la filosofia analitica.
Druwe-Mikusin, Ulrich
Moralische Pluralität. Grundlegung
einer Analytischen Ethik der Politik
Königshausen & Neumann
Würzburg sett./ott. 1991
pp.216, DM 44
Il saggio contrappone (a livello analitico) il problema del fondamento normativo e di quello morale. Sulla base della
filosofia della scienza di Quine viene
elaborata una metaetica concezione di
fondamento di nuovo genere, che costituisce il punto di partenza per una teoria
dell’etica politica.
Duhamel, Roland
Nietzsches Zarathustra - Mystiker
des Nihilismus. Eine Interpretation
von F. Nietzsches
Also sprach Zarathustra.
Königshausen & Neumann
Würzburg sett./ott. 1991
pp.128, DM 29,80
Dumont, Louis
Homo aequalis.
2: L’ideologie allemande
Gallimard, Paris ottobre 1991
pp.324, FF 145
Dopo aver posto in rilievo l’individua-
NOVITA' IN LIBRERIA
lismo del nostro mondo contemporaneo in “Homo hierarchicus” (1966),
Dumont questa volta confronta l’aspetto francese e l’aspetto tedesco dell’individualismo moderno.
mento. Prendendo spunto dall’episodio
relativo alle nozze di Giacobbe, viene
individuata una struttura fondamentale
per l’analisi della società, il “matrimonio tra cugini”.
Edmond, Michel-René
Platon le philosophe roi
Payot, Paris ottobre 1991
FF 140
L’impresa platonica si regge sulla necessita’per la politica di essere sorretta
dalla filosofia. Questo saggio sviluppa
tre punti: la critica dell’interpretazione
cristiana, l’analisi della concezione platonica della giustizia e infine l’ordine
politico giusto come oggetto di un sapere stabilito.
Freadman, Richard Reinhardt, Lloyd
On literary theory and philosophy.
A cross-disciplinary encounter
Macmillan, London sett./ott. 1991
pp.246, £ 35
Il saggio esplora i rapporti tra teoria
letteraria contemporanea e filosofia analitica. Fra gli argomenti centrali del
volume: l’io, l’etica, l’interpretazione,
il linguaggio e la caratterizzazione della filosofia “analitica” e “continentale”.
Emanuele, Pietro - Plebe, Armando
L’Euristica. Come nasce una filosofia
Laterza, Bari ottobre 1991
pp.200
Espagnat, Bernard d’
A la recherche du reel
Presses Pocket, Paris sett./ott. 1991
FF 48
Una questione classica della filosofia
viene riproposta da questo autore che
rilegge le risposte tradizionali utilizzando un occhio scientifico.
Un’iniziazione ai problemi della fisica
dei nostri giorni.
Fadini, Ubaldo
Configurazioni antropologiche
Liguori, Napoli 1991
pp. 274, L. 25.000
Raccolta di saggi, frutto delle ricerche
di Fadini tra il 1985 e il 1990, che
intende ribadire l’importanza di una
costellazione filosofica - caratterizzata
da un particolare “materialismo antropologico” - che sottolinea il significato
“critico-affermativo” di un insediamento materiale/sensibile nel contesto sempre più artificiale della vita umana.
Fellmann, Ferdinand
Symbolischer Pragmatismus.
Hermeneutik nach Dilthey
Rowohlt, Reinbek sett./ott. 1991
DM 18,80
Il “pragmatismo simbolico” è il tentativo di una nuova ermeneutica filosofica
che tenga conto nel processo di comprensione dell’esperienza emotiva.
Formenti, Carlo
Piccole apocalissi
Tracce della divinità
nell’ateismo contemporaneo
Cortina, Milano settembre 1991
pp.196, L. 23.000
Il risveglio delle grandi religioni
d’Oriente e Occidente suscita diffidenza nella società secolarizzata del XX
secolo. Il crollo dell’utopia comunista
ha appena riconsegnato la sinistra al
mondo laico e ai suoi valori. L’ateismo
è una religione. Una religione senza
Dio, una religione dell’uomo che ignora i suoi stessi presupposti teologici.
Questo libro ne analizza i miti, le rivelazioni e i messaggi di salvezza.
Frazer, James G.
Matrimonio e parentela
a cura di Giulio Guidorizzi
Il Saggiatore, Milano 1991
pp. 269, L. 50.000
E’ il sesto capitolo della seconda parte
del II volume della monumentale opera
di Frazer, Il Folklore nell’Antico Testa-
Freund, Julien - Blanchet, Charles
L’aventure du politique
Criterion, Paris ottobre 1991
Frigerio, Maurilio
Invito al pensiero di Bruno
Mursia Editore, Milano settembre 1991
pp.216, L. 13.000
Fuller, Michael
Truth, value and justification
Avebury, ottobre 1991
pp.200, £ 32
Una ricerca sui fondamenti dell’ epistemologia e dell’etica, che traccia legami
tra valore e realtà, vero e valore, realtà
e teoria. L’autore conclude affermando
che la filosofia non è mai esistita oltre il
“paradigma kantiano”.
Gander, H.-H. (a cura di)
Von Heidegger her. Wirkungen
in Philosophie - Kunst - Medizin
Klostermann, Frankfurt a.M.
sett./ott. 1991
pp.160, DM 48
Gane, Michael
Baudrillard’s bestiary:
Baudrillard and culture
Routledge, London ottobre 1991
pp.192, £ 35
Attingendo da numerosi importanti
scritti di Baudrillard, che sono tuttora
disponibili solo in lingua francese, Gane
fornisce un’introduzione alla teoria culturale di questo pensatore, in particolare soffermandosi sulla concezione della modernità e sul complesso processo
di simulazione.
Gannon, Timothy
Shaping psychology:
how we got where we’re going
UP of America, settembre 1991
pp.322, $ 33,95
Questo testo tratta le origini delle idee
psicologiche in filosofia e le origini
della psicologia scientifica. L’autore
mostra le implicazioni della psicologia
con la semiotica.
Gehlhaar, Sabine S.
Die frühpositivistische (Helmholtz)
und phänomenologische (Husserl)
Revision der Kantischen
Erkennt-nislehre
Junghans, Cuxhaven sett./ott. 1991
pp.278, DM 58
Geist, Werner
Vom Wert des Menschen.
Aus der Evolution zur Provolution.
Versuch
einer
analytischen
Hominologie
Radius-Vlg., Stuttgart sett./ott. 1991
pp.332, DM 36
Gembillo, Giuseppe
Croce e il problema del metodo
Flavio Pagano Ed., Napoli 1991
pp.139, L. 15.000
Tappe del confronto di Croce con autorevoli metodologi quali Galileo,
Droysen, Vailati, Mach; l’interesse di
Croce comprende tanto le teorie dei
epistemologi quanto quelle degli studiosi di storiografia etico-politica.
Gerri, Giovanni
Platone
sociologo della comunicazione
Pref. di Bruno Gentili
Il Saggiatore, Milano 1991
L. 38.000
Platone comprese perfettamente vantaggi e svantaggi della parola scritta nei
confronti dell’agonismo orale e della
comunicazione diretta in voga fino al
periodo precedente al proprio. La forma letteraria del dialogo vuole congiungere la possibilità di articolazione
concettuale con il dinamismo della parola parlata.
Gilman, Sander (a cura di)
Conversation with Nietzsche
Oxford UP, ottobre 1991
pp.304, £ 10,95
Questo album di ricordi, aneddoti e
memorie private, provenienti da svariate fonti, riflette la realtà e i miti che
circondavano Nietzsche. Il libro ricopre l’intero arco della sua vita e narra la
sua visione delle figure storiche che
hanno influenzato il suo pensiero, come Goethe e Napoleone.
Gilson, Bernard
L’essor de la dialectique moderne
et la philosophie du droit
Vrin, Paris ottobre 1991
pp.703, FF 390
Dal contenuto delle opere di Kant, Fichte
ed Hegel, Gilson si è sforzato di determinare il significato del movimento del
loro pensiero filosofico e giuridico.
Gilson, Etienne - Maritain, Jacques Prouvost, Gery (a cura di)
Correspondances 1923-1971:
deux approches de l’etre
Vrin, Paris ottobre 1991
Giorello, Giulio Strata, Piergiorgio (a cura di)
L’automa spirituale.
Menti cervelli computers
Laterza, Bari 1991
pp.240, L. 33.000
Quattordici saggi elaborati dai partecipanti ai seminari organizzati dal Premio Europeo Cortina Ulisse sul tema
“Corpo e mente nella storia e nella
filosofia della scienza”. Interventi, fra
gli altri di Daniel Deumet; Michele Di
Francesco, John Eccles, Giulio Giorello,
Thomas Nagel, Karl R. Popper, Roger
Sperry sul problema del rapporto fra
mente e cervello e sulla struttura e il
funzionamento cerebrale.
Glucksmann, André
Le XIe commandement
Flammarion, Paris ottobre 1991
pp.348, FF 120
A partire dalla sanguinosa storia del
ventesimo secolo, una riflessione morale che porta a questo “undicesimo
comandamento”: niente di cio’ che è
inumano ci deve essere estraneo.
Gomez-Muller, Alfred
Chemins d’Aristote
Felin, Paris sett./ott. 1991
pp.163, FF 110
Un’introduzione ad Aristotele attraverso tre percorsi. Il primo ripercorre la sua
vita nella societa’ greca del quarto sec.
a.C.; il secondo sviluppa la sua teoria
della conoscenza; il terzo segue le tracce che la sua riflessione etico-politica
ha lasciato nella storia del pensiero occidentale.
Guillemin, Henri
Regards sur Nietzsche
Seuil, Paris ottobre 1991
pp.309, FF 130
Tentativo di indovinare o intravvedere
il personaggio e le sue differenti maschere.
Habermas, Jürgen
Il pensiero post-metafisico
Laterza, Bari settembre 1991
pp.300
Il volume è arricchito dall’introduzione
di Marina Calloni e da un glossario, una
sorta di dizionario filosofico del pensiero di Habermas nei termini in cui è
stato tradotto in Italia.
Handjaras, Luciano
Problemi e progetti del costruzionismo
Saggio sulla filosofia
di Nelson Goodman
Franco Angeli, Milano novembre 1991
pp.184, L. 25.000
Goodman si interroga essenzialmente
su un unico problema: come costruiamo i nostri mondi della filosofia, dell’arte, della scienza e come ne valutiamo la giustezza. Ridifinendo i rapporti
tra conoscenza, comprensione e operazioni costruttive, amplia e ridetermina
l’idea di conoscenza e delinea una trama di somiglianze e differenze cognitive ed estetiche tra “opere” di solito
considerate inconfrontabili.
Hannay, Alastair
Kierkegaard
Routledge, London ottobre 1991
pp.390, £ 14,99
Un esauriente studio critico di Soren
Kierkegaard. Nonostante il rifiuto di
Kierkegaard di costruire un edificio teoretico alla maniera di Hegel, Alastair
Hannay mostra come in realtà egli usi
sistematicamente la filosofia per chiarire gli esiti della fede religiosa, della
moralità e dell’etica.
Harding, Sandra
Whose science? Whose knowledge?:
thinking from women’s lives
Open UP, Milton Keynes
settembre 1991
pp.320, £ 30
Esamina la possibilità di un modo femminista di conoscere e di una scienza
femminista, considerando le conseguenze pratiche che un metodo femminista
potrebbe avere per le relazioni politiche, sociali e sessuali. L’autrice esplora
la natura e le implicazioni dell’epistemologia femminista e del postmodernismo femminista.
Hare, R. M.
Moralisches Denken.
Seine Ebenen, seine Methode, sein Witz
Bouvier, Frankfurt a.M. sett./ott. 1991
pp.280, DM 48
“Moralisches Denken” è nello stesso
tempo l’esposizione più concisa e più
avanzata del progetto che R.M. Hare ha
iniziato con “Die Sprache der Moral” e
NOVITA' IN LIBRERIA
“Freiheit und Vernunft” e che ogg, con
il nome di “prescrittivismo universale”
è fra le teorie di filosofia morale più
discusse.
Hare, R. M. - Barnes, Jonathan Chadwick, Henry
Founders of thought
Oxford UP, Oxford ottobre 1991
pp.304, £ 7,99
Quest’opera fornisce un’introduzione
a tre influenti pensatori della classicità:
Platone, i cui dialoghi costituiscono la
base degli sudi logici, metafisici, morali e politici; Aristotele e S.Agostino.
Harris, Errol E.
Salvezza dalla disperazione.
Rivalutazione della filosofia
di Spinoza
Guerini e Ass., Milano settembre 1991
pp.335, L. 48.000
Una ricostruzione filosofica e interpretativa della dottrina di Spinoza che offre una risposta ai problemi teoretici
che essa pone. Il saggio offre originali
prospettive concernenti le relazioni tra
due dei massimi esponenti del razionalismo moderno, Spinoza appunto e
Hegel.
Hegel, Georg Wilhelm F.
Fenomenologia della natura
a cura di Pier Giuseppe Milanesi
Unicopli, Milano 1991
pp.189, L. 26.000
Prima traduzione delle pagine delle
Lezioni jenesi nelle quali Hegel espone
la propria analisi del mondo fisico come puro mondo di rapporti qualitativi.
Con testi, su questi stessi temi, di
Goethe,
Schelling,
Kant
e
Schopenhauer.
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich
Phenoménologie de l’esprit
a cura di Jean-Pierre Lefebvre
Aubier, Paris ottobre 1991
pp.576, FF 180
Uno dei più importanti scritti della storia della filosofia, ora in nuova traduzione francese.
Heidegger, Martin
Saggi e discorsi
a cura di Gianni Vattimo
Mursia, Milano settembre 1991
pp.198, L. 12.000
I saggi e i discorsi riuniti in questo
volume, uscito in edizione originale nel
1954, sono stati tutti composti intorno
al 1950, nel momento in cui si andava
diffondendo nella filosofia europea la
discussione intorno al significato della
cosiddetta “svolta” del pensiero heideggeriano annunciata dalla Lettera sull’umanismo nel 1946. Più di altri scritti
heideggeriani, i Saggi e discorsi offrono un punto di vista privilegiato per
cogliere l’immagine dell’uomo e del
compito del pensiero.
Konstellationen. Probleme
und Debatten am Ursprung der
idealistischen Philosophie (1789-1795)
Klett-Cotta, Stuttgart sett./ott. 1991
pp.176, DM 68
La nascita dell’idealismo speculativo
nelle lettere e nei discorsi.
Heipke, K. (a cura di)
Die Frankfurter Schriften Brunos
und ihre Voraussetzungen
VCH, Weinheim sett./ott. 1991
pp.309, DM 128
Raccolta degli interventi al convegno
in una seduta del Gruppo di Lavoro
Interdisciplinare di Filosofia dell’Università di Cassel sulle opere tarde latine
di Giordano Bruno.
Hermann, Friedrich-W. von
Heideggers Grundprobleme
der Phänomenologie. Zur
“zweiten Hälfte” von Sein und Zeit
Klostermann, Frankfurt a.M.
sett./ott. 1991
pp.64, DM 19,80
Hoogendijk, A.
Phlilosophy for managers
Veen, 1991
Visto che i managers devono programmare il futuro, devono avere una chiara
visione dei propri obbiettivi; la riflessione “filosofica” su fini e mezzi può
essere loro utile.
Horster, Detlef
Richard Rorty zur Einführung
Junius, Hamburg sett./ott. 1991
pp.160, DM 17,80
Hübner, Benno
Der de-projizierte Mensch.
Metaphysik der Langeweile
Passagen-Vlg., Wien sett./ott. 1991
pp.176, DM 37,80
Hude, Henri
Prolegomenes
Ed. Universitaires
Paris sett./ott. 1991
pp.219, FF 165
Come cominciare? La messa in moto
della riflessione filosofica è al tempo
stesso semplice ed assai complessa.
Hume, David
Enquete sur les principes de la morale
a cura di Saltel Philippe
Flammarion, Paris ottobre 1991
pp.352, FF 38
Un’introduzione alla filosofia della quale l’autore vorrebbe fare un piacere e
non gia’ un lavoro.
Hume, David
Les passions
a cura di Jean-Pierre Clero
Flammarion, 1991
pp.352, F 38
Raccoglie il Trattato sulla natura
umana e le Dissertazioni sulle passioni
Heidegger, Martin
Prolegomena alla storia
del concetto di tempo
Il Melangolo, Genova settembre 1991
pp.384, L. 50.000
Questo scritto si colloca sullo sfondo
della filosofia dell’essere con una notevole potenza innovativa che mette in
risalto i caposaldi del pensiero heideggeriano. E’ il corso di lezioni che
Heidegger tenne a Marburgo nel 1924/
25.
Hyppolite, Jean
Figures de la pensée philosophique
PUF, Paris ottobre 1991
2 vol. pp.544, FF 149
Il pensiero filosofico della nostra epoca
si caratterizza attraverso due movimenti antitetici, quello che cerca di svelare
l’esistenza, che si è spesso opposto alle
scienze, e quello che invece si è innalzato a considerare le strutture immanenti le scienze stesse.
Henrich, Dieter
Ingegno, Adolfo (a cura di)
Da Democrito a Collingwood
Leo S. Olschki, Firenze
pp.208, L. 40.000
Jankélévitch, Vladimir
L’avventura, la noia, la serietà
Marietti, Genova ott./dic. 1991
pp.298, L. 35.000
Tre momenti dell’esistenza di ogni uomo interpretati come elementi fondamentali del vivere.
Jaspers, Karl
Il medico nell’età della tecnica
Cortina Editore, Milano ottobre 1991
pp.158, L. 18.000
Non vi è stato alcun altro importante
filosofo del nostro secolo che abbia
conosciuto i problemi della condizione
medica nell’età della tecnica come
Jaspers, sia per l’esperienza diretta, sia
per una riflessione su questa esperienza. I suoi scritti sulla condizione medica, raccolti qui per la prima volta in un
unico volume, assumono pertanto un
valore particolare.
Jonas, Hans
Lo gnosticismo
a cura di Raffaele Farina
Sei, Torino 1991
pp.437, L. 45.000
In questo studio, considerato ormai un
classico, Jonas mette in luce i fondamenti dottrinari dello gnosticismo esaminando caratteristiche e teorie delle
varie sette.
Joukovsky, Francoise
Le Feu et le fleuve:
Heraclite et la Renaissance francaise
Droz, Paris ottobre 1991
pp.152, FF 240
Mostra l’influenza di questo filosofo
greco che postulava che il mondo racchiude una sola forza viva ed unica il
cui simbolo è il fuoco.
Kopper, Margit
Die Systemfrage in der transzendentalen Methodenlehre der Kritik der reinen Vernunft und ihre Bedeutung für
die Reflexion des Wissens in sich bei
Hegel
Königshausen & Neumann
Würzburg sett./ott. 1991
pp.304, DM 68
Krüger, H.-P. (a cura di)
Objekt- und Selbsterkenntnis.
Zum Wandel im Verständnis
moderner Wissenschaften
Akademie-Vlg., Berlin sett./ott. 1991
pp.200, DM 51
Kühlewind, Georg
Der sprechende Mensch.
Ein Menschenbild aufgrund
des Sprachphänomens
Klostermann, Frankfurt a.M.
sett./ott. 1991
pp.224, DM 48
L’autrice colloca le differenze sessuali
nel movimento di passaggio storico dal
precedente modello di pensiero e di
comportamento improntato a uno stile
di vita a un tipo di ragione maschile del
moderno soggetto. I suoi fondamenti
tuttavia non vengono individuati in una
natura maschile, ma nella struttura del
comportamento razionale.
Lacarriere, Jacques
Les gnostiques
A.M. Metaillé, Paris sett./ott. 1991
pp.192, FF 78
Un saggio originale, una sorta di meditazione poetica sugli gnostici estinti
d’Egitto; il loro radicale rifiuto di credere nel mondo disegnato dai teologi
del cristianesimo, li ha condotti alla
distruzione.
Lacoue-Labarthe, Philippe Nancy, Jean-Luc
Le mythe nazi
Ed. de l’aube, Paris ottobre 1991
pp.70, FF 45
Primo di una serie di brevi testi filosofici attraverso i quali importanti pensatori dei nostri giorni interverranno nel
dibattito in corso. Quest’opera cerca di
definire una peculiarita’ fondamentale
del nazismo, nella misura in cui esso
viene pensato come mito moderno.
Lalande, André
Vocabulaire technique
et critique de la philosophie
PUF, Paris ottobre 1991
2 vol.
pp.704, FF 160
Fornisce delle definizioni semantiche,
che non vanno considerate come dei
principi formali, ma come delle spiegazioni. Non si tratta di costituire un’assiomatica, ma di conoscere delle realta’
linguistiche e di prevenire dei malintesi.
Lash, Scott - Friedman, Jonathan
Modernity and identity
Blackwell, London settembre 1991
pp.448, £ 45
Un contributo al dibattito contemporaneo su modernismo e postmodernismo.
Questo libro prefigura la possibilità di
una “terza via”, rifiutando l’opposizione tra il razionalismo impersonale dell’alto modernismo e l’irrazionalismo
antietico del postmodernismo.
Lavelle, Louis
Traité des valeurs:
1. Theorie generale de la valeur
PUF, Paris sett./ott. 1991
pp.768, FF 350
Un quadro di tutte le direzioni nelle
quali la riflessione umana si è impegnata, nel corso della sua storia, al fine di
definire il valore assoluto e i valori
particolari.
Leach, Edmund
Lévi-Strauss zur Einführung
prefazione di K.-H. Kohl
Junius, Hamburg sett./ott. 1991
pp.184, DM 17,80
Leibniz, Gottfried Wilhelm
De l’horizon de la doctrine humaine
(1693); La restitution universelle (1715)
a cura di Fichant Michel
Vrin, Paris ottobre 1991
pp.218, FF 120
Il testo è stato riprodotto in base al
manoscritto originale. Nell’appendice
Fichant propone un commento filosofico.
Lemaire, Jacques (a cura di)
La pensee et l’homme n. 18;
le rationalisme est-il en crise?
Ed. de l’Université de Bruxelles
Bruxelles ottobre 1991
pp.165, FF 83
Si sono espressi a riguardo dei razionalisti convinti, degli scettici, degli specialisti nelle scienze umane, dei ricercatori in scienze esatte e degli storici.
Lenk, Hans
NOVITA' IN LIBRERIA
Prometheisches Philosophieren. Von
Paradoxien und pragmatischen
Problemen
heutigen verantwortlichen Denkens
Radius-Vlg, Stuttgart sett./ott. 1991
pp.160, DM 24
Leser, N. (a cura di)
Die Gedankenwelt Sir Karl Poppers.
Kritischer Rationalismus in Dialog.
Winter, Heidelberg sett./ott. 1991
pp.422, DM 148
Atti del simposio tenutosi a Lochau,
presso Bregenz, nell’ottobre 1989, organizzato dall’ Instituts für Neuere
Österreichische Geistesgeschichte della Ludwig-Boltzmann-Gesellschaft e
dalla Internationale Akademie für
Philosophie del Principato del
Liechtenstein
Lisciani-Petrini, Enrica
L’apparenza e le forme.
Filosofia e musica in Jànkélévitch
Nuove ediz.Tempi Moderni, 1991
L. 20.000
Al regime discontinuo, inquietamente
metamorfico della musica moderna si
accosta la riflessione di Jankélévitch, al
fine di mostrare un diverso modo di
intendere la realtà. Attraverso il filosofo francese e altri - Adorno e Benjamin
- il saggio affronta il cambiamento radicale impresso dalla modernità al rapporto uomo-mondo.
Litt, Theodore
L’individu et la communauté
Age d’homme, Losanna settembre/ottobre 1991
pp.347, FF 160
Litt arricchisce il metodo dialettico tanto caro ad Hegel, grazie al suo confronto con la fenomenologia descrittiva di
Husserl. E’ l’autore di “Introduction a
la philosophie” e di “Hegel: essai d’un
renouvellement critique”
Lutz-Bachmann, M. Schmid Noerr, G. (a cura di)
Die Unnatürlichkeit des Sozialen
Nexus-Vlg., Frankfurt a.M.
sett./ott. 1991
pp.154, DM 29
Makdisi, George
Religion, law and learning
in classical Islam
Variorum, ottobre 1991
pp.336, £ 43,50
Questa seconda raccolta di articoli di
George Makdisi riguarda le scuole di
pensiero religioso e di sapere giuridico
nel mondo islamico medievale e la loro
difesa dell’ortodossia. L’autore cerca
di rivalutare le implicazioni del conflitto tra i teologi “razionalisti” e quelli
“tradizionalisti”, gli uni accettando l’influenza della filosofia greca, gli altri
rifiutandola; in particolare viene esaminato il conflitto tra una di queste
scuole tradizionaliste, la scuola di diritto Hanbali, ed il misticismo Sufi. La
sezione finale del libro analizza le strutture della cultura ufficiale, le sue istituzioni, l’organizzazione e i principi che
la ispirano in rapporto all’evoluzione
delle Università nell’occidente medievale e ai Collegi degli Avvocati in Inghilterra, discutendo il contributo islamico ed arabo al concetto di libertà
accademica ed intellettuale e allo sviluppo della scolastica e dell’umanesimo.
Malebranche, Nicolas de -
Minazzoli, Agnes (a cura di)
De l’imagination
A. Minazzoli Ed., Paris settembre 1991
FF 50
Un classico della filosofia, un’introduzione all’opera di Malebranche. Questa
edizione comprende un’importante sezione che propone altri punti di vista sul
tema, come quelli di Descartes, Pascal
o S.Agostino.
Mangiagalli, Maurizio
La “Rivista di filosofia
neoscolastica” (1909-1959)
Vol. I.: Il movimento neoscolastico
e la fondazione della rivista
Vita e Pensiero, Milano ottobre 1991
pp.374, L. 60.000
Sullo sfondo della Milano tardoromantica e scapigliata dei primi del nostro
secolo, viene presa in esame la fondazione della “Rivista di Filosofia neoscolastica”, dalla quale nascerà l’Università Cattolica.
Marcel, A.J. - Bisiach, E. (a cura di)
Consciousness
in contemporary science
Clarendon, London settembre 1991
pp.416, £ 17,50
Il peso della coscienza nella scienza
moderna è discusso in questo volume,
da alcune eminenti autorità nei campi
della psicologia, della neurologia e della filosofia. Tra i temi trattati vi sono i
disturbi della coscienza, le funzioni della
coscienza e i fondamenti della coscienza nell’apprendimento.
Margolis, Joseph
The truth about relativism
Blackwell, London ottobre 1991
pp.240, £ 35
Un’esauriente difesa del relativismo filosofico. Riunisce le principali linee
d’attacco del mondo antico (soprattutto
contro Protagora) e le varie critiche che
sono state sviluppate dalla filosofia contemporanea angloamericana ed europea continentale.
Margreiter, R. - Leidlmair, K.
(a cura di)
Heidegger. Technik - Ethik - Politik
Königshausen & Neumann
Würzburg sett./ott. 1991
pp.281, DM 58
Marx, W. (a cura di)
Die Struktur lebendiger Systeme.
Zu ihrer wissenschaftlichen
und philosophischen Bestimmung
Klostermann, Frankfurt a.M.
sett./ott. 1991
pp.140, DM 48
Il volume raccoglie i risultati del gruppo di studio “Philosophisce Grundlagen
der Wissenschaften”.
pp.196, £ 4,99
Questo libro, oltre ad occuparsi delle
pubblicazioni di Foucault, offre numerosi contributi riguardanti la sua storia
filosofica, i suoi debiti verso altri pensatori e i suoi complessi rapporti con lo
strutturalismo francese. L’autore s’interroga inoltre sul valore della retorica
filosofica di Foucault.
Meyer, Michel
Problematologia.
Filosofia, scienza e linguaggio
Pratiche Ed., Parma 1991
pp. 431, £. 43.000
Evidenziando la differenza problematologica tra domanda e risposta, Meyer
chiarisce il ruolo delle filosofia come
capo in cui rispondere equivale alla
formulazione stessa della domanda. Ne
risulta una tipologia di razionalità radicata nell’interrogatività, che si differenzia tanto dal modello scientifico che
dalla tradizionale impostazione logicoontologica.
Meyer, Michel
Problematologia. Filosofia, scienza e
linguaggio
Trad. it. di Mario Porro
Guerini e Ass., Milano ottobre 1991
pp.410, L. 40.000
Con il termine problematologia l’autore intende un pensiero filosofico che si
fonda sul “domandare”, su una dialettica di domande e risposte che, in sintonia con la tradizione filosofica classica,
sia interrogazione radicale, ricerca del
fondamentale. Mayer prende le mosse
dalla situazione attuale degli studi filosofici, che giudica debole ed arbitraria:
sia il relativismo filosofico attuale che
la storicizzazione a tutti i costi di ogni
pensiero filosofico sono, in quanto frammentazioni del pensiero, anti-filosofia,
perchè la filosofia è sempre, intrinsecamente, sistematizzante.
Michel Foucault, philosopher
Harvester Wheatsheaf, ottobre 1991
pp.368, £ 35
Questa raccolta di saggi sulla filosofia
di Foucault valuta le sue varie opere
sotto diverse prospettive: il suo posto
nella storia della filosofia, il suo stile e
il suo metodo di espressione filosofica,
le sue nozioni di potere politico, il suo
pensiero etico e la sua attitudine alla
psicoanalisi.
Milani, Raffaele
Le categorie estetiche
Pratiche Ed., Parma 1991
pp.371, L. 40.000
Sistemazione, in forma di “elenco”, delle principali categorie estetiche cui studiosi e autori hanno fatto riferimento
nel corso degli ultimi tre secoli: bello,
brutto, sublime e così via.
Melchiorre, Virgilio
Analogia e analisi trascendentale
Mursia, Milano settembre 1991
pp.176, L. 28.000
Una nuova, originale e organica lettura
del progetto metafisico kantiano. L’analisi condotta in questo volume mira a
leggere nel “non detto” o nei presupposti che reggono sia l’interpretazione
kantiana del mondo fisico, sia quella
del processo storico, e infine la stessa
ricerca trascendentale de la grande Critica.
Mittelstraß, Jürgen (a cura di)
Einheit der Wissenschaften.
De Gruyter, Berlino sett./ott. 1991
pp.538, DM 138
Atti del colloquio internazionale della
AdW di Berlino (Bonn, giugno 1990).
Gruppo di lavoro: “Unità delle scienze”. Temi trattati: “Teoria della scienza. Interdisciplinarietà nella teoria e
nella prassi”; “Il compito delle scienze
dello spirito nel sistema delle scienze”;
“Scienza e mondo della vita”.
Merquior, J. G.
Foucault
Fontana, London settembre 1991
Montesquieu, Charles de
Pensées; Le spicilege
a cura di Louis Desgraves
Laffont, Paris ottobre 1991
pp.1220, FF 150
I Pensieri e Lo spicilegio sono presentati qui nell’integralita’ del manoscritto
di Bordeaux. Vi si trova un Montesquieu
polemista, ritrattista impietoso e moralista.
Moyal, Georges J.D. (a cura di)
René Descartes: Critical assessments
Routledge, London ottobre 1991
4 volumi, £ 300
Una raccolta dei più importanti contributi sulla dottrina cartesiana. Sono qui
proposti circa 120 articoli concernenti
il metodo cartesiano, l’epistemologia,
la metafisica e gli apporti alla matematica e alle scienze.
Negele, Manfred
Grade der Freiheit.
Versuch einer Interpretation von Hegels
Phänomenologie des Geistes
Königshausen & Neumann
Würzburg sett./ott. 1991
pp.241, DM 56
Nietzsche, Friedrich
David Strauss.
L’uomo di fede e lo scrittore
Adelphi, Milano ottobre 1991
pp.120, L. 10.000
David Strauss, studioso del cristianesimo e saggista, sarebbe oggi generalmente dimenticato se Nietzsche non lo
avesse scelto come bersaglio di questa
“considerazione inattuale” per delineare il ritratto del “filisteo della cultura”,
puro prodotto della Germania del suo
tempo, in cui intravedeva un penoso
modello per le età future.
Nietzsche, Friedrich
Ecce Homo
a cura di Roberto Calasso
Adelphi, Milano ottobre 1991
pp.250, L. 16.000
Nell’autunno del 1888, nelle febbrili
settimane che precedettero la “follia di
Torino” e il successivo, definitivo silenzio, vennero scritte queste pagine
che rimangono una delle vette stilistiche di Nietzsche e insieme un tentativo
senza precedenti di capire se stessi.
Nietzsche, Friedrich
La filosofia nell’epoca tragica
dei Greci e Scritti 1870-1873
Adelphi, Milano novembre 1991
pp.294, L. 18.000
Questo libro è il primo esempio di quell’approccio del tutto personale ad altri
pensatori, che poi resterà caratteristico
di Nietzsche.
Nietzsche, Friedrich
Le livre du philosophe
a cura di Angele Kremer-Marietti
Flammarion, Paris ottobre 1991
pp.192, FF 30
Alcuni testi scritti, a volte in forma
frammentaria, tra il 1872 e il 1875.
Niquet, Marcel
Transendentale Argumente. Kant,
Strawson und die sinnkritische Aporetik
der Detranszendentalisierung
Suhrkamp, Frankfurt a.M. sett./ott. 1991
pp.580, DM 78
Al centro di questa analisi c’è il concetto di argomentazione trascendentale.
Alla fine l’autore, partendo dalla critica
categoriale del senso, riesce a sbarazzare l’argomentazione della detrascendentalizzazione dal fuorviante frainten-
NOVITA' IN LIBRERIA
dimento di sé e quindi a mettere a nudo
il nocciolo razionale di questo tipo di
necessaria autochiarificazione della “ragione” filosofica.
Noonan, Harold
Personal identity
Routledge, London ottobre 1991
pp.272, £ 10,99
In quest’opera l’autore fornisce un’introduzione sulle maggiori teorie storiche e sul dibattito corrente, includendo
la sua interpretazione del problema dell’identità personale.
Nothelle-Wildfeuer, Ursula
“Duplex ordo cognitionis”.
Zur systemathischen Grundlegung
einer katholischen Soziallehre im
Anspruch von Philosophie und
Theologie
Schöningh, Paderborn sett./ott. 1991
pp.855, DM 98
Orth, E. W.
Perspektiven und Probleme
der Husserlschen Phänomenologie.
Beiträge zur neueren HusserlForschung
K. Alber, Freiburg i.Br. sett./ott. 1991
pp.360, DM 98
Perissinotto, Luigi
Logica e immagine del mondo. Studio
su Über Gewissheit di Wittgenstein
Guerini e Ass., Milano ottobre 1991
pp.256, L. 34.000
Spunto per la stesura del lavoro, che
risale agli anni 1950-51, è il viaggio che
Wittgenstein compì nell’anno immediatamente precedente negli Stati Uniti, viaggio nutrito di discussioni e polemiche con i filosofi americani. Il lavoro
di Perissinotto costituisce una piena
valorizzazione dell’immensa ricchezza teoretica di quest’ultima opera
wittgesteiniana, collocandola in modo
equilibrato e coerente all’interno di una
lettura globale del percorso filosofico
di Wittgestein.
Philippe, Marie-Dominique
Introduction
a la philosophie d’Aristote
Ed. Universitaires
Paris settembre 1991
pp.302, FF 198
Fino a che punto la ricerca di Aristotele
ha penetrato la conoscenza dell’uomo,
dell’universo e dell’essere primo?
L’opera è completata da un breve studio degli scritti aristotelici, per facilitarne la lettura.
Philosophie, n. 31: Marx
Minuit, Paris settembre 1991
pp.92, FF 52
Contiene un frammento inedito dei manoscritti del 1844 concernente il sapere
assoluto secondo Hegel. Il legame tra
Marx ed Aristotele secondo alcuni appunti di Marx stesso.La lingua di Marx:
le sue invenzioni concettuali e le sue
invenzioni linguistiche. I rapporti di
marx col giudaismo e con la religione.
Il pensiero di Marx e quello di Max
Weber
Picht, Georg
Glaube und Wissen.
Einleitung von Christian Link
Klett-Cotta, Stuttgart sett./ott. 1991
pp.300, DM 60
Plebe, Armando - Emanuele, Piero
L’euristica. Come nasce una filosofia
Laterza, Bari 1991
pp.193, L. 27.000
L’euristica, l’arte di trovare argomenti
e di inventare concetti, è tornata di
recente al centro del dibattito filosofico, scientifico ed estetico, contrapponendosi all’ermeneutica per l’accento
posto sul valore dell’originalità. Dalla
sua prospettiva emerge una concezione
nuova della maniera in cui nasce una
filosofia.
pp.132, L. 18.000
“La filosofia moderna” afferma Putnam
“è stata ipnotizzata dall’idea che gli
eventi scientifici siano i soli eventi possibili “ Nelle quattro lezioni che compongono La sfida del realismo, Putnam
si fa portavoce di un “realismo pragmatico” teso ad eliminare quel dualismo, e
a restituire al pensiero la possibilità di
pensare tutta la realtà (l’io più il mondo) secondo uno schema unitario, non
frammentato.
Pleines, J.E. (a cura di)
Zum teleologischen Argument in der
Philosophie. Aristoteles - Kant - Hegel
Königshausen & Neumann,
Würzburg sett./ott. 1991
pp.224, DM 48
Poiché anche le indagini storiche e i
tentativi di ricostruzione nei confronti
di Aristotele, Leibniz e Kant o Schelling
e Hegel sono caratterizzati dalla preoccupazione, dovremmo verificare la solidità dell’argomento teleologico nelle
attuali condizioni, se non vogliamo
sconsideratamente buttarlo via in nome
della scienza o dell’illuminismo.
Quillien, Jean
L’antropologie philosophique de G.de
Humboldt
Presses Universitaires de Lille
Lille ottobre 1991
pp.644, FF 150
Per meglio comprendere la teoria humboldiana del linguaggio e dei linguaggi.
Un’analisi approfondita di cio’che ne
costituisce il fondamento antropologico.
Pöggeler, Otto
Neue Wege mit Heidegger
Alber, Freiburg i.Br. sett./ott. 1991
pp.500, DM 98
Popper, Karl R.
Die beiden Grundprobleme
der Erkenntnistheorie. Aufgrund von
Manuskripten aus den Jahren 1930-33
hrsg. von Hansen Troels Eggers
J.C.B. Mohr, Tübingen sett./ott. 1991
pp.450, DM 90
Porphyrios, Demetri
Classical architecture
Academy, London ottobre 1991
pp.200, £ 35
Questo libro consta di una serie di lezioni tenute dall’autore alla University
of Virginia. Sono discussi il concetto
aristotelico di “techne”, il significato
fondamentale del Classicismo e dello
stile, le implicazioni dell’odierno pluralismo e il reale valore della tradizione.
Price, B. B.
Medieval thought: an introduction
Blackwell, Oxford ottobre 1991
pp.240, £ 35
Ripercorre i modi nei quali il pensiero
astratto medievale ha espresso le interazioni tra i corsi di studio e la lettura
dei classici, il latino e la lingua volgare,
la filosofia e la teologia. Il libro presenta inoltre i profili dei principali intellettuali dell’epoca.
Raio, Giulio
Introduzione a Cassirer
Laterza, Bari novembre 1991
pp.260
Il primo studio generale e approfondito
che ripercorre l’intera opera di Ernst
Cassirier, completato da una breve storia della critica e da un’ampia bibliografia.
Reale, Mario (a cura di)
Verso una nuova immagine di Platone
Ist. Suor Orsola Benincasa/Rusconi
Napoli novembre 1991
Le lezioni di studiosi italiani e stranieri
in occasione del convegno: “Verso una
nuova immagine di Platone”, tenutosi a
Napoli il 7-9 ottobre 1991.
Ricoeur, Paul
Filosofia della volontà 1
Marietti, Genova ott./dic. 1991
pp.482, L. 70.000
Il primo volume dell’opera-chiave di
uno dei più importanti filosofi francesi
del Novecento.
Ricoeur, Paul
Dell’interpretazione.
Saggio su Freud
Il Melangolo, Genova settembre 1991
pp.600, L. 60.000
Ricoeur in questa suo opera capitale,
precisa e feconda di nuovi spunti critici
tutti i testi di Freud, dal Progetto del
1895 all’Interpretazione dei sogni, alle
ultime opere sul disagio nella civiltà e
sul significato della cultura e di Eros.
Pufendorf, Samuel
a cura di Tully James
On the duty of man and citizen
according to natural law
Cambridge University Press,
ottobre 1991
pp.232, £ 27,50
Un compendio della teoria politica del
diritto naturale di Pufendorf, la piu’
influente teoria del diritto naturale dei
secoli diciassettesimo e diciottesimo.
L’autore offre una classica giustificazione del primo stato illuminato moderno e delle sue appropriate relazioni di
soggezione politica e morale.
Ritter, Jaochim
Paesaggio. Sulla funzione
dell’estetico nella società moderna
Guerini e Ass., Milano ottobre 1991
pp.88, L. 14.000
All’interno delle riflessioni sul paesaggio si propone per la prima volta in
italiano un saggio di Ritter scritto in
occasione dell’accettazione del
Rettorato di Münster nel 1963, in cui il
senso estetico del paesaggio è analizzato prendendo spunto dalla celebre scalata del Monte Ventoso (26 aprile 1335)
da parte di Francesco Petrarca. Da qui
l’autore prende lo spunto per analizzare
il rapporto tra natura e speculazione
filosofica come caratteristica del mondo moderno.
Putnam, Hilary
La sfida del realismo
Garzanti, Milano settembre 1991
Röbig, Klaus
Sind Soldaten potentielle Mörder?
Zum Problem der moralisch-ethischen
Rechtfertigung des Tötens im Krieg
Prolog-Verlag, Kassel sett./ott. 1991
pp.100, DM 18
Roellecke, G. (a cura di)
Öffentliche Moral. Gut und Böse
in der Beobachtung durch Geschichte,
Religion, Wirtschaft, Verteidigung
und Recht
Müller, Heidelberg sett./ott. 1991
pp.182, DM 88
Rosset, Clément
La philosophie tragique
PUF, Parigi sett./ott. 1991
pp. 176, FF 44
Il tradico come paradigma e termine di
confronto per l’etica e la morale.
Ryle, Gilbert
Per una lettura di Platone
Guerini e Ass., Milano ottobre 1991
pp.236, L. 34.000
Una difesa di Platone, accusato di aver
attaccato importanti politici del suo tempo. Accuse in seguito alle quali Platone
abbandona il dialogo dialettico socratico, proibisce l’insegnamento della dialettica ai giovani, e fonda l’Accademia,
dove non insegna ma dove è attivo
Aristotele proprio con l’insegnamento
della retorica e della dialettica. Ryle ci
offre una storia diversa, che sfrutta testimonianze diverse e che cerca di riflettere su argomenti che sono stati trascurati.
Sahel, Claude
La Tolérance.
Pour un humanisme hérétique
Autrement, Parigi sett./ott. 1991
pp. 221, FF 98
L’analisi della tolleranza mette in campo le dissimetrie fondamentali della
relazione umana e la loro apprensione
etica.
Sandkühler, H. J. - Holz, H. H.
(a cura di)
Geschechtliche Erkenntnis.
Zum Theorietypus “Marx”
Meiner, Hamburg sett./ott. 1991
pp.150, DM 30
Schällibaum, Urs
Geschlechterdifferenz und Ambivalenz.
Ein Vergleich zwischen Luce Irigaray
und Jacques Derrida
Passagen-Vlg., Wien sett./ott. 1991
pp.256, DM 55
Scheler, Claus-A.
Wittgensteins Kristall.
Ein Satzkommentar zur Logischphilosophischen Abhandlung
Alber, Freiburg sett./ott. 1991
pp.220, DM 48
Schlette, Heinz Robert
Konkrete Humanität.
Studien zur praktischen Philosophie
und Religionsphilosophie.
Aus Anlaß des 60. Geburtstages
a cura di J. Brosseder
Knecht, Frankfurt a.M. sett./ott. 1991
pp.480, DM 95
Schmidt, S. J. (a cura di)
Kognition und Gesellschaft.
Der Diskurs des radikalen
Konstruktivismus 2
Suhrkamp, Frankfurt sett./ott. 1991
pp.280, DM 18
Questa antologia presenta le posizioni
di discussione interdisciplinare in Germania all’inizio degli anni ’90. Filoso-
NOVITA' IN LIBRERIA
fi, studiosi della natura, dello spirito e
di scienze sociali fanno il punto sulle
ricerche attuali nei rispettivi campi.
Schopenhauer, Arthur
L’arte di ottenere ragione
trad. it. di N. Curcio e F. Volpi
Adelphi, Milano ottobre 1991
pp.124, L. 12.500.
In questo piccolo trattato Schopenhauer
fornisce trentotto stratagemmi, leciti ed
illeciti, a cui ricorrere per “ottenere”
ragione: con freddezza classificatoria
Schopenhauer ci indica le “vie traverse
e i trucchi di cui si serve l’ordinaria
natura umana per celare i suoi difetti”.
Nello stesso tempo questo testo si colloca in un crocevia memorabile del
pensiero moderno: negli stessi anni in
cui Hegel indicava nella dialettica la
via per giungere al culmine dello Spirito, Schopenhauer la raccomandava come fioretto da impugnare in quella
“scherma spirituale” che è il discutere,
senza badare alla verità.
Severino Emanuele
La filosofia moderna
Rizzoli, Milano novembre 1991
pp.256, L. 12.000
Anche questo libro, come il precedente
dedicato alla filosofia antica, si rivolge
ad un pubblico non specializzato che
non vuole avvalersi di un manuale, ma
di una chiave che gli consenta di orientarsi verso le forme del pensiero moderno.
Sfrisio, Maurizio
Per una filosofia cristiana della storia
Galleria, Padova 1991
pp.108
Lo studio si propone di enucleare la
problematica concernente legittimità,
campo di indagine, strumenti e limiti di
una filosofia cristiana della storia.
Silvermann, Hugh J. (a cura di)
Gadamer and Hermeneutics
Routledge, London ottobre 1991
pp.288, £ 35
Una raccolta di saggi, tra i quali uno di
Gadamer stesso, sulla vita e l’opera di
questo pensatore. In alcune sezioni speciali Gadamer è collocato in rapporto al
lavoro di altri grandi filosofi come
Heidegger, Ricouer, Barthes, Derrida e
Habermas. Sono anche inclusi tre dialoghi concernenti le questioni della metafora, della scienza e del testo.
Sloterdijk, P. - Macho, Th. H.
(a cura di)
Die Weltrevolution der Seele.
Ein Gnosis-Lesebuch von der
Spätantike bis zum New Age. II Vol.
Artemis & Winkler
Zürich sett./ott. 1991
pp.400 DM 68
Peter Sloterdijk e Thomas H. Macho in
questa imponente opera aprono la storia di una rivoluzionaria tradizione di
pensiero che si è difesa caparbiamente,
accanto e sotto l’insegnamento filosofico religioso, dall’antichità fino ai giorni nostri.
Speck, J. (a cura di)
Grundprobleme
der
großen
Philosophen. Philosophie der Neuzeit
VI. Tarski, Reichenbach, Kraft, Gödel,
Neurath, Schlick
Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen sett./ott. 1991
pp.250, DM 27,80
Spies, Marcus
Unsicheres Wissen
Spektrum, Heidelberg sett./ott. 1991
pp.350, DM 44
Il sapere incerto, come le previsioni del
tempo, le diagnosi mediche e il mutevole confine fra opposti come grande e
piccolo vengono trattati in questo libro
avvalendosi della logica Fuzzy-Set e
del connettivismo.
Stehr, Nico
Praktische Erkenntnis
Suhrkamp, Frankfurt a.M. sett./ott. 1991
pp.240, DM 36
Il libro si propone di analizzare il sapere
delle scienze sociali, le sue conseguenze pratiche e i risultati, ma anche i
motivi della sua irrilevanza e si batte in
favore di una scienza sociale orientata
in senso pragmatico, indagandone le
condizioni di possibilità.
Stevens, Annick
Posterité de l’etre:
Simplicius interpreté de Parmenide
Ousia, Bruxelles settembre 1991
pp.146, FF 75
Annick Stevens esamina il destino che
la teoria parmenidea dell’essere subisce, quando Simplicio, nel suo commento alla “Fisica” e al “Trattato sul
cielo” di Aristotele, interpreta il “Poema” come compatibile col platonismo e
con l’aristotelismo.
Strauss, Leo
Socrate e Aristofane
Il Melangolo, Genova ottobre 1991
pp.416, L. 36.000
Leo Strauss ha dedicato a Socrate più di
un’opera; in questo libro esamina il
rapporto tra Socrate e Aristofane nelle
commedie di quest’ultimo. Grazie allo
studio dei lavori teatrali che ci sono
rimasti, Strauss mostra come in realtà
nel confronto emerga il dissidio tra filosofia e poesia. In questo contesto
Aristofane attribuisce alla poesia il ruolo di unico sapere autonomo in grado di
confrontarsi con la filosofia.
Sulami, Roger Deladrière
La lucidité implacable
Ed. Arléa, Arles settembre 1991
pp. 109, FF 95
Mistico, maesto spirituale e storico del
sufismo, Sulami tratta in questo testo
fondamentale della lucidità che l’uomo, per definirsi tale, deve esercitare su
se stesso.
Tessitore, Fulvio
Introduzione allo storicismo
Laterza, Bari ottobre 1991
pp.300
Thomas, H. (a cura di)
Naturherrschaft. Wie Mensch und Welt
sich in der Wissenschaft begegnen.
Colloquium, Köln 1990
Busse Seewald, Herford sett./ott. 1991
pp.336, DM 28
Raccolta di contributi interdisciplinari
con un denominatore comune per un
convegno del Lindenthal- Institut di
Colonia sulla filosofia delle scienze naturali (dall’11 al 13 maggio 1990).
Thompson, M. P. (a cura di)
John Locke und Immanuel Kant.
Historische Rezeption
und gegenwärtige Relevanz
Duncker & Humblot, Berlin sett./ott.
1991
pp.413, DM 98
Tresmontant, Claude
Problèmes de notre temps
OEIL, Paris settembre 1991
pp. 578, FF 195
Rassegna e cronaca dei grandi problemi filosofici della fine del XX secolo.
Tymieniecka, A.-T. (a cura di)
The turning points
of the new phenomenological era.
Husserl’s research drawing upon
the full extent of his development
Kluwer, Dordrecht sett./ott. 1991
pp. 584, Dfl 265
Uebel, Th. E. (a cura di)
Rediscovering
the forgotten Vienna Circle.
Austrian Studies on Otto Neurath
and the Vienna Circle
Kluwer, Dordrecht sett./ott. 1991
pp.340, Dfl 175
Università di Firenze
Annali del Dipartimento di Filosofia
Olschki, Firenze ott./dic. 1991
pp. 352, L. 70.000
Viale, Riccardo
Metodo e scienza nella società.
Fattori metodologici, sociali e
cognitivi delle decisioni scientifiche
Franco Angeli, Milano ottobre 1991
pp.336, L. 48.000
Von Kutschera, Franz
Fondamenti dell’Etica
Franco Angeli, Milano ottobre 1991
pp.398, L. 48.000
Questo volume si contraddistingue dalla vasta produzione contemporanea nel
settore etico per il taglio logico-epistemologico. Vengono presentati i concetti essenziali della logica deontica e
della preferenza e discussi dal punto di
vista logico la legge di Hume e il postulato di generalizzabilità.
Walker, J. (a cura di)
Thought and faith
in the philosophy of Hegel
Kluwer, Dordrecht sett./ott. 1991
pp.204, Dfl 150
Raccolta internazionale dei saggi emersi
dalla conferenza di Oxford del 1987, il
cui oggetto è la dimensione rleigiosa
del pensiero di Hegel, nel senso più
vasto del termine.
Wallace, William A.
Galileo, the jesuits
and the medieval Aristotle
Variorum, ottobre 1991
pp.350, £ 45
La convenzionale opposizione dell’aristotelismo scolastico alla scienza umanistica è stata trattata sempre più negli
ultimi anni. Questi articoli mirano a
dimostrare che un progressivo aristotelismo ha in effetti fornito le basi necessarie alle scoperte scientifiche di
Galileo.
Weier, Winfried
Brennpunkte der Gegenwartsphilosophie.
Zentralthemen und Tendenzen
im Zeitalter des Nihilismus
Wissenschaftlich. Buchges.,
Darmstadt sett./ott. 1991
pp.248, DM 49
In opposizione alle visioni che liquidano la filosofia del presente come un
ammasso di parole e di incerti tentativi,
qui si intraprende il tentativo di riunire
in una visione unitaria ciò che lega
insieme gli approcci più disparati, vale
a dire di scindere la concezione intellettuale di base dalla molteplicità delle sue
posizioni.
Weischedel, Wilhelm
Il Dio dei filosofi (Vol. II)
Il Melangolo, Genova ottobre 1991
pp.320, L. 40.000
Il secondo volume di quest’opera comprende la storia della teologia filosofica, dai primi segni della crisi del pensiero post-kantiano, fino al declino nei
pensatori contemporanei. La ricerca affronta quindi l’analisi del rapporto tra
speculazione filosofica e speculazione
intorno a Dio così come si è presentato
problematicamente nei diversi autori e
nelle diverse correnti di pensiero.
Weizsäcker, Carl Fr. von
Der Mensch in seiner Gechichte
Hanser, München sett./ott. 1991
pp.250, DM 39,80
Chi siamo? Da dove veniamo? Le risposte che l’autore dà a queste domande provengono da una conoscenza ampia e approfondita della moderna scienza naturale, della storia culturale, della
politica, della teologia e dell’etica.
Wiesing, Lambert
Stil statt Wahrheit. Kurt Schwitters
und Ludwig Wittgenstein über ästhetische Lebensformen
Wilhelm Fink, München sett./ott. 1991
pp.148, DM 48
La sconfitta sulla verità viene ripensata
attraverso lo stile, quando la verità non
è considerata corrispondenza con l’idea della cosa, ma come una manifestazione della forma. Si schiudono così
nuove possibilità alla filosofia estetica.
Wolff, Michael
Das Körper-Seele-Problem.
Kommentar zu Hegel, Enzyklopädie
(1830)
Klostermann, Frankfurt a.M.
sett./ott. 1991
pp.240, DM 68
Wood, Allen W. (a cura di)
Hegel:
Elements of the philosophy of right
Cambridge UP, Cambridge ottobre
1991
pp.300, £ 25
Un tentativo di sistematizzare teoria
etica, diritto naturale, filosofia del diritto, teoria politica e sociologia dello
stato moderno, nel contesto della filosofia della storia di Hegel. L’opera di
Hegel è fondamentale per la tradizione
comunitaria nel moderno pensiero etico, sociale e politico.