RIVISTA DI STUDI ITALIANI 318 LETTERATURA COMPARATA LA

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RIVISTA DI STUDI ITALIANI
LETTERATURA COMPARATA
LA PERSONALITÀ POLIEDRICA DI RABINDRANATH TAGORE
FRANCA BACCHIEGA
Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
L’
India con tutta la sua cultura immensa e immersa non nei secoli ma
nei millenni, è sempre sembrata lontanissima dal pensiero e
dall’arte occidentale. L’impatto fra l’Occidente e l’India, con la sua
arte, il suo pensiero, anche religioso, ma pure il suo quotidiano è sempre stato
traumatico.
Pensiamo al rapporto – emotivo, intellettuale, spirituale – degli esseri umani
fra di loro (tralasciamo gli animali), fra lo spirito dell’uomo e lo Spirito
Assoluto. Per noi sono differenze insuperabili. Forse qualcuno o qualcosa di
occidentale può aiutarci a capire. Forse. L’intimo fervore religioso di San
Francesco può portarci molto vicino a certi versetti delle Upanishad, dove
profonda è l’ammirazione per la bellezza della terra, dell’universo, per il
fervore vitale che la natura ci dona, la meraviglia che ci trasmette e che ha
trasmesso con pienezza e lungo tutta la vita al poeta di cui vorremmo parlare
oggi: Rabindranath Tagore.
E allontanandomi per un attimo dai ‘massimi sistemi’, dirò in breve che
Tagore è (i poeti sono sempre vivi) un poeta bengali nato a Calcutta nel 1861
e lì spentosi nel 1941, dopo lunghi viaggi e soggiorni in tutto il mondo, dalla
Cina all’America.
Poeta, filosofo, riformatore sociale, autore oltre che di poesia, per cui gli fu
conferito il Premio Nobel nel 1913, di testi teatrali, di romanzi, di saggi. La
famiglia è brahmina, di grande cultura, importante nella città, benestante, di
idee molto aperte da cui forse Tagore ereditò quel tocco simpaticamente
autonomo e anticonformista che lo spinse a lasciare la scuola a 13 anni,
perché non la sopportava più.
C’è, in proposito, una sua dichiarazione: “Me ne sono fortunatamente
districato prima che l’insensibilità diventasse cronica”. Inutile aggiungere che
le sue letture sono state innumerevoli e la sua cultura fu somma. E questa
esperienza, forse, fu la ragione, quando lui già era un poeta di fama
indiscussa, che indusse il suo spirito riformatore a fondare, nel 1901, una
scuola a Shantiniketan (non lontano da Calcutta), che gode ancora di grande
reputazione dopo 110 anni dalla fondazione.
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Una scuola all’aperto, in contrapposizione alle regole rigide delle scuole
indiane ma anche a quelle durissime delle scuole britanniche. Il ‘curriculum’
era rivoluzionario: danza, canto, teatro, poesia, tessitura, giardinaggio.
Ma soprattutto; in una lettere scritta dall’America agli insegnanti indiani, si
legge:
Siamo venuti in questo mondo non solo per conoscerlo ma per accettarlo.
Possiamo diventare potenti mediante il sapere, ma realizziamo la pienezza
mediante la simpatia. La formazione più alta non è quella che ci dà
informazioni, ma quella che fa crescere la nostra vita in armonia con
l’esistenza. Sviluppate nei bambini la freschezza del sentimento nella
relazione con l’ambiente: usate la poesia, le festività religiose come uso
del mito, il gioco.
E aggiungeva:
Non impartite insegnamenti religiosi mediante l’uso delle preghiere, ma
coltivate nei bambini il senso dell’infinito, trasmettete che siamo parte di
un universo vastissimo e splendido e che davanti a quest’immensità
dobbiamo solo incantarci!
***
Tutto quanto ci è arrivato di Tagore è avvenuto attraverso e malgrado il filtro
della traduzione, che non è ostacolo da poco. Eppure anche se l’incontro fra la
sua poesia e il mondo europeo è stato possibile, e vi ha portato una
dimensione nuova, tuttavia rimane il problema che il bengali, come lingua,
anche se è una delle undici lingue nazionali – scelte da Indira Gandhi – non è
una lingua “del mondo”. Ma Tagore è un Poeta del mondo. Qui dentro, in
questo concetto, ci sono tutti i problemi nella loro completezza. Perché il
bengali, la lingua di Tagore, difficilmente evoca nella lingua d’arrivo il suo
contenuto culturale, difficilmente è veicolo della cultura che le sta intorno e
che l’ha nutrita.
L’India, con le sue 11 lingue nazionali – per non parlare delle altre, oltre
duecento, parlate nel continente indiano – credo sia ancora fuori dal ‘gioco’ di
trasmissione della sua cultura tramite la traduzione. A parte gli immensi spazi
presi dalla lingua inglese, anche nel campo della poesia, che con risultati
migliori permetteva di rompere la struttura della frase e di riassemblare gli
elementi in nuove strutture. Molti poeti occidentali hanno potuto godere di
questo vantaggio: Goethe, Shakespeare, Coleridge, Pound, Dickinson, sono
diventati fari irradiandosi oltre le rispettive culture.
Poi, può capitare che se un traduttore sceglie un’opera nel momento in cui
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l’opera ha scelto lui – è una magia, ma avviene – si attiva un filo
incandescente, un sentire vivo, la “quaestio” gli diventa familiare. E tradurrà
splendidamente.
Tagore, ancor meglio, ha tradotto lui stesso, in inglese, parte delle sue
poesie. Ne tradusse 178, di cui ne rimasero 103. Formarono il suo libro: I
Gitanjali.
***
Malgrado l’immensa statura della sua qualità creativa, Rabindranath Tagore
era profondamente figlio del suo tempo, ben radicato al suo Zeitgeist, lo
spirito dell’epoca. Uso volentieri questo termine per ricordare la sua grande
familiarità con il tedesco, dovuta ad una tata tedesca, che gli aveva dato l’uso
facile e diffuso di termini germanici. Lo spirito dell’epoca lo portava verso la
scienza. Aveva conosciuto Einstein. Era attratto dalla fisica quantistica. Per
sua natura viveva nel cuore delle novità, in un mondo che poteva anche
intendere il nuovo come una ricusazione della normale logica. Vogliamo
ricordare Aristotele? La logica dell’identità? La nuova scienza introduce la
doppia ‘identità’ di “particella” e di “onda”. Il “singolare” scompare? Il
“plurale” la fa da padrone? L’antica e poi la nuova percezione della realtà
sono un salto quantico? Tagore incontrò più volte Einstein, il quale, da parte
sua, non aveva mai accettato i dettami delle implicazioni filosofiche sulla
fisica. Tagore, al contrario, sostenitore dell’Universalità, dell’Unità e del
Tuttocomprensivo, non denuncia traumi nell’impatto con la fisica quantistica.
In tutte le sue opere sostiene, non come auspicio ma come realtà, l’Unità fra
gli uomini e l’Universalità delle anime, il “plurale” dentro il “singolare”.
Sostiene anche quelle grandi verità che stanno alla base dei valori fondanti
della vita, includendo il grande ruolo di quella forza che in Occidente viene
chiamata Inconscio e Subconscio. Aperto ai cambiamenti, anche radicali,
della vita, osservava come una rivoluzione la capacità nuova di percepire il
mondo e il suo futuro. E notava come a cambiare non fosse la mentalità, la
consapevolezza – le catene della ragione – ma la coscienza delle persone.
***
Tagore, a circa quarant’anni, fu strettamente coinvolto nel Movimento
Nazionale, fu Presidente della Conferenza provinciale del Bengala (un ramo
del Congresso Nazionale Indiano), pronunciò importanti discorsi, discussi a
livello nazionale; la sua passione patriottica si riversò in molti Canti
elettrizzanti, ma non appena cominciò a manifestarsi la violenza tramite il
Movimento Terrorista, che nel Bengala si manifestò per prima, Tagore,
disilluso, si ritirò dal campo politico e non fu d’accordo né con Aurobindo –
che non fu terrorista ma fu imprigionato dagli inglesi perché fondatore del
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foglio rivoluzionario Bandè Mataram– né con Mohandas Gandhi con la sua
campagna del Charkha con i telai a mano. In una lettera a Gandhi scrive:
“Non posso sacrificare la suprema Verità, che trascende tutti gli altri valori,
per qualche temporaneo ideale. Non posso seguire il Dharma (la regola) per
porre il paese al di sopra di Dio. Ho abbracciato tutta l’Umanità, l’intera
Universalità”.
Anche se non c’è genere di conoscenza – o di scienza – da cui non sia stato
attratto e nelle quali non si sia cimentato con successo, Tagore è ricordato
soprattutto come poeta e compositore di Canti. Dopo il suo primo libro di
liriche Evening Songs , considerata come la poesia di un’anima adolescente,
Morning Songs è il risultato di una esperienza mistica. Così scrisse in
Reminiscenses nel 1931:
Provavo la certezza che un certo Essere, che comprendeva me e il mio
mondo, stesse cercando la sua espressione in tutte le mie esperienze,
unendole in quella ‘individualità’ di cui consiste un’opera d’arte. Provavo
responsabilità verso questo Essere perché la creazione in me è tanto Sua
quanto mia […]. Mi diede una grande gioia sentire nella mia vita il
mistero di un incontro tra due in forma di amicizia creativa.
Tagore chiamò, nel suo volume The Religion of Man (1931), questa suprema
Personalità ‘il Signore della sua Vita’, gli attribuì un ruolo essenziale nella sua
poesia come si legge in questi versi del Morning Songs:
Tu sei l’intimo spirito del mio essere./ Poiché a te diedi la mia
coppa/ Ricolma d’ogni dolore e d’ogni gioia/ Che l’uva pigiata
del mio cuore ha donato;/ Riempisti tu i miei giorni e le notti/
I sogni e le azioni con l’alchimia della tua arte/ Una corda
nelle sequenze della tua musica/ E cogliesti tu dai miei
momenti i fiori/ Per la tua corona?/ Perché molti furono
i giorni in cui non ti ho servito/ E molte le notti di dimenticanza;/
Inutili furono i fiori che ti vennero offerti./
Tagore riconobbe questa suprema Personalità nelle creazioni artistiche, ma
anche nelle attività di tutti i giorni. Dapprima l’idea di questa Personalità fu
vaga e indistinta, ma attraverso l’esperienza religiosa e artistica prese forma e
diede unità alla sua vita e alla sua opera.
La storia di questa crescita interiore è descritta nelle “Hibbert Lectures”,
conferenze tenute a Oxford nel 1930, poi pubblicate nel 1931 con il titolo The
Religion of Man.
E qui non mi pare giusto non ricordare almeno alcuni versi di un altro
grandissimo poeta bengali, di Calcutta, brahmino, Aurobindo Goshe.
Mira Alfassa, un’ebrea parigina, nota nel mondo degli studiosi dell’India col
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nome di ‘Mère’, collaboratrice e poi massima guida dell’Ashram, in cui visse
e scrisse Aurobindo, ma dove visse e scrisse anche lei, lasciò di Aurobindo
questa definizione: “Ciò che Aurobindo rappresenta nella storia del mondo
non è un insegnamento, neppure una rivoluzione; è un’azione decisiva
mandatagli dal Supremo”.
Vediamo questi versi tratti dal lunghissimo poema Savitri, dove, in 24mila
versi, straordinari per la ricchezza immaginativa e l’immensità degli orizzonti,
narra la nascita e la crescita dell’anima dell’universo:
Quasi torcia tenuta da un potere di Dio,/ Il mondo raggiante della Verità
perenne/ Baluginò come fievole stella al limitare della notte/ Sul
luccicante crinale dell’aria immortale/ Era la calma indulgente, il seno
materno/ Della Saggezza che allatta la risata infantile del Caso./ La dea
ispiratrice entrò in un petto mortale/ Là, concepì il sacrario della sua
parola profetica/ cercando l’ampio bagliore eterno che torna/ aspettando
l’avvento di una Parola ancora nascosta nei cantieri dell’insondabile buio/
E la salvezza delle perdute mandrie del Sole.
***
L’influenza delle Upanishad fu prevalente sulla educazione, sullo sviluppo
spirituale di Tagore. Dal giorno in cui suo padre gli insegnò, ancora ragazzo,
durante i loro vagabondaggi sull’Himalaya, a cantare i sacri versi delle
Upanishad, furono posti i fondamenti della sua educazione religiosa. Lo
seguirono per tutta la vita e le sue idee ne furono permeate fino alla fine. Ebbe
la certezza che la mente umana non potrà mai comprendere del tutto Dio,
Brahma, l’Assoluto. Tagore ricorda spesso, nei suoi scritti, un verso
importante delle Upanishad: “Non penso di conoscerlo né di non conoscerlo”.
Ne ricorda un altro: “Il devoto che ha sperimentato Ananda, la divina
beatitudine, vince ogni paura – il Brahma che nessuna parola può descrivere,
da cui tutte le parole tornano eluse”. E un terzo:
Da Dio, che è Beatitudine, tutti gli essere sono nati,
Attraverso Dio, che è Beatitudine, muovono tutti i viventi
Fino a Dio, che è Beatitudine, dopo la morte avanzano e in Lui penetrano.
E allora, come non ricordare T. S. Eliot in quell’immagine di umanità che
avanza come in processione nella sua Terra Desolata:
Che è quel suono alto nell’aria/ mùrmure di materna lamentazione/ Chi
sono quelle orde incappucciate che sciamano/ per pianure infinite
incespicando nella screpolata terra/ cerchiata dal piatto orizzonte./ Che
città è sulla montagna/ che si spacca e si riforma e scoppia nell’aria
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violetta. Torri crollanti/ Gerusalemme, Atene, Alessandria/ Vienna,
Londra/ Irreale.
Ma anche alcuni splendidi versi di Emily Dickinson:
Attraverso l’angusto passo della sofferenza/ I martiri – calmi – andavano./
I piedi – sulla tentazione/ I volti – sul loro Dio/.
E per sottolineare come questa esperienza del divino, la piena immersione in
quello, dopo la morte, sia frequente in molti poeti anche occidentali, anche
non credenti, vorrei ricordare, qui, Robinson Jeffers, uno straordinario poeta
americano morto nel 1962, uno studioso soprattutto di scienze per la sua
preparazione universitaria (medicina), che definiva, la Bellezza (sempre
maiuscola) dell’Ovest americano in cui viveva – le Sierre, i tramonti sul
Pacifico, i canyon, – gli “eccessi di Dio”. In un suo lungo ‘narrative’ di 3mila
versi intitolato Cawdor– una storia drammatica ambientata in un canyon di
fronte al Pacifico – narra la morte di un’aquila, il volo della sua anima:
Riversandosi tutta nel compimento, la passione dell’aquila
Lasciò indietro la vita e volò nel sole, suo padre.
I grandi artigli irreali ebbero pace per pregare
Con esultanza, la loro morte al di là delle morti; piegò verso l’alto e si
immerse
Nella pace come un biondo daino in una valle di fuoco.
È questa Bellezza – come Grandezza –, suprema espressione di Ananda, la
suprema beatitudine che illumina e prende forma in questo mondo? Non è,
questa Bellezza, il naturale ‘campo da gioco’ di tutti i grandi poeti?
Ne ricordiamo ancora alcuni in Occidente?:
La bellezza delle cose finite sorge dal loro essere parte degli archetipi
eterni. (Platone)
La bellezza è lo splendore dell’Idea attraverso la materia. (Coleridge)
Dio dispone di pochi di noi a cui sussurrare nell’orecchio. (Browning)
Quello che di filosofia è diventato permanente è soltanto poesia.
(W.B.Yeats)
Ecco perché, nelle “Conferenze di Oxford”, Tagore dice: “La mia religione
è la religione del poeta. Lo intuisco da una visione interna non da una
conoscenza. Bevo da una sorgente che è immanente nei cieli stellati e
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nell’intimo del cuore dell’uomo”.
In un suo canto, che si trova nel suo volume di versi intitolato Wings of
Death”, scrive:
La calma riempie la gioia nascosta nel cuore della Luce
È un’unica cosa con la mia anima
E mi consacra con le acque della conoscenza
che fluendo dalla fonte di Luce
mi rende parte dell’Immortalità.
Nei Gitanjali, scritto nel 1921, libro che gli procurò il Nobel, i suoi versi
sono un duetto eterno tra il Tu e l’Io, tra Dio e l’Anima dell’uomo dove, per
Tagore, non c’è pietismo né ritiro dal mondo.
Tagore disdegnava l’ascetico che cerca Dio nella fuga dalla vita. Si legge
altrove, sempre nei Gitanjali:
Liberazione non è rinuncia. Mi tiene l’abbraccio della
libertà in mille vincoli di delizia.
E altrove:
Dimentica di salmodiare e contare i grani del rosario.
Egli è anche là dove l’aratore sta arando il duro terreno…
E più sotto:
Se in un qualche modo sono giunto a comprendere Dio, se la visione di
Dio mi è stata concessa, devo averla ricevuta da questo mondo, dall’uomo,
gli alberi, gli uccelli, la polvere, la terra.
***
In uno dei libri più maturi di Tagore, A Flight of Swans, c’è una poesia,
“Urwashi” – il nome è di una divinità femminile hindu – ma dovrei piuttosto
dire che Urwashi, qui, è un estratto da un più lungo poema:
Al principio della Creazione,/ Dall’agitarsi dell’Oceano/
Emersero due donne–/ L’una Urwashi, l’impareggiabile
Bellezza,/ La linfa del cielo,/ Regina nel regno del Desiderio,/
L’altra Lakshmi, la Bontà,/ La Madre del mondo,/ La Dea
incoronata nel Cielo./ Urwashi, riempiendo la coppa/ Col
vino dell’impetuosa primavera,/ Ruba i cuori degli uomini,/
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Interrompendo la loro meditazione,/ E li sparge selvaggiamente/
Tra i fiori che sbocciano/ E i canti di insonne giovinezza.
Urwashi è pura bellezza, puro incanto, puro fascino, ma si trova oltre ogni
possibilità di raggiungimento.
Tagore nutre un atteggiamento idealistico e raffinato verso l’Amore e la
condizione femminile e si trova spesso a sublimare in amore spirituale ogni
passione terrena. Per Tagore l’amore è una cosa che dà forza piuttosto che
saziante dolcezza. La donna non è una fragile creatura, un giocattolo per
l’uomo, è un essere pieno di vigore, di forza. E quella che al suo compagno
dice, nella poesia “Herald of Spring”, tolta da Poesie del Prodigio:
Io non sono la tua catena!/ Posso offrirti compagnia,/ Perché stanca non lo
sono mai./ Nel mio cuore c’è coraggio, c’è la corrente che dà vita,/ Che
può assistere e sanare./ Sono l’albero che trae acqua dalla roccia arida/ E la
riversa nell’inesauribile corrente di servizio./
Più oltre, in quel suo linguaggio ricco, fiorito, si legge una frase quasi
ermetica: “Nella mano destra essa tiene nettare, nella sinistra veleno… Non è
né madre, né sorella, né sposa…”. Ma nemmeno l’Occidente è estraneo a
questo aspetto della poesia, che nel corso dei secoli affiora e scompare e
ritorna più volte e dove la poesia, caduta nel cuore dell’intuizione, è a quei
livelli di profondità, o di altezza, da diventare ermetica, da sfuggire quindi ad
ogni canone di lettura mentale. Scegliendo fra alcuni esempi non posso non
riportarne una; è un’iscrizione, forse un sigillo ermetico, che si trova – la
prima testimonianza risale al 1567 – sul muro esterno della villa di Marco
Antonio Della Volta, alla prima pietra miliare fuori la Porta Mascharella di
Bologna, sul muro che unisce la villa alla chiesta. Vi sta scritto:
Aelia Laelia Crispis, né/ donna né virago né/ fanciulla,
né giovane né vecchia,/ né vergine, né meretrice, ma/ tutto
questo./ Portata via non dalla fame, né dalla spada,/
né dal veleno, ma da tutto questo. Né/ in cielo né in acqua,
né in terra, ma/ giace ovunque./ (Questo è un sepolcro,/
che non ha dentro un corpo./ Questo è un corpo,/ che non
ha fuori un sepolcro./ Ma lo stesso corpo è anche sepolcro
a se stesso).
Questo tipo di poesia ci porta molto lontano dalla logica della ragione. Ma lo
stesso Tagore, che dava molto spazio sia alla logica che alla ragione, dava
altrettanta importanza alla forza interiore, al sé, all’intuito, al profondo. Una
volta ha detto: “Una mente completamente e solamente logica è come un
coltello fatto di sola lama. Fa sanguinare la mano che lo utilizza”.
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Per tutta la vita Tagore fece spazio ai sentimenti e ai pensieri sull’infinito;
ogni giorno si dedicò alla riflessione sull’illuminato e sul sacro, ovunque si
trovi, anche nel lavoro più servile, nei luoghi più umili, si dedicò alla
consuetudine all’aspirazione, che lo portava a purificare azioni e pensieri, fino
ad estrarne la quintessenza. Ecco, per Tagore, la quintessenza del lavoro di
purificazione è la Verità. Merce rara di cui tutti abbiamo estremo bisogno e
solo leggendo le poesie – dei poeti più alti, non solo Aurobindo o Dickinson o
Tagore – ma è di quest’ultimo che ci stiamo occupando – ci si accorge di
quanto sia confortevole poter confidare nella sublimità e nell’umanità della
loro poesia, nell’integrità delle loro menti e dei loro cuori. “Travolgenti come
i grandi fiumi, straripanti di spirito divino”, scrisse Jawaharlal Nehru, loro
grande ammiratore.
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