Pavia, 28 settembre 2012 Giampaolo Azzoni Corpo arbitrario e corpo glorioso L’espressione ‘biologia sintetica’ nella sua forma di apparente ossimoro risulta provocante per una riflessione teorica e indica subito la presenza di elementi concettuali in tensione. Essa infatti unisce due termini che tradizionalmente appartengono a ambiti categoriali e pratici radicalmente distinti: da un lato, lo studio della vita che all’uomo si dà nelle forme immediate della natura e, dall’altro, l’elaborazione di nuove sostanze non presenti nell’immediatezza della natura, ma create artificialmente dall’uomo. Se poi ‘biologia sintetica’ è riferita all’uomo non solo come soggetto che ne fa una conoscenza operativa, ma anche come oggetto su cui quella conoscenza operativa insiste, si aprono questioni radicali sulla stessa esistenza dell’uomo, su ciò che lo caratterizza come tale, sui possibili rischi e sugli eventuali limiti di interventi che, anche se animati da finalità migliorative (soprattutto se di terapia preventiva), in realtà riconfigurino l’idea stessa di umanità e il contenuto dell’esperienza che gli uomini fanno di sé stessi. In particolare, emerge la questione della corporeità e in che misura il corpo umano possa continuare ad essere tale, cioè il corpo caratterizzante quell’essere vivente e culturale che ha chiamato sė stesso ‘uomo’, quando investito da tecniche bio-mediche sempre più radicali, profonde, innovative. Si tratta di questioni che sono state anticipate nella filosofia e nella teologia. Ad esempio, classica è la riflessione sull’adeguatezza del corpo umano, sulla sua perfezione o meno, in rapporto a quello degli altri animali, oppure frequente nella mitologia e nella religione è l’immagine di corpi migliori, più forti, sani e belli. Se, sotto questo profilo, si guarda la storia delle idee in Occidente, si assiste ad un interessante chiasmo. Quando il corpo era un dato sottratto all’azione dell’uomo, comune era l’idea che esso fosse imperfetto, segnato dalla malattia e da innumerevoli carenze: un corpo non adeguato all’autentica natura umana e che, come tale, in certe concezioni (si pensi a quella cristiana) era visto in statu viae, destinato a emendare i suoi difetti nella visione di Dio (corpo glorioso). Ora che il corpo è sempre più disponibile, potenziabile, modificabile fino ad essere corpo arbitrario (si pensi a parte della chirurgia estetica e alle provocatorie sue conseguenze denunciate dalla body art), si diffonde l’idea che l’eventuale miglioramento del corpo umano possa mettere a rischio la stessa natura umana. Quando non v’erano le tecniche bio-mediche, il corpo emergeva nella sua imperfezione; nel contesto attuale in cui le tecniche si potranno spingere fino alla biologia sintetica, il corpo viene frequentemente indicato come un vincolo da rispettare. Si ha appunto un chiasmo che conduce a prospettive etiche e indicazioni normative di carattere opposto (“il corpo deve essere migliorato” vs. “il corpo non deve essere migliorato”), ma che presuppongono una medesima concezione dell’uomo: un netto dualismo di materia e forma, di corpo e anima (o spirito, mente, o termini analoghi). Nella prima prospettiva etica, il dualismo vede il corpo in funzione dell’anima: l’anima avrà la sua sede adeguata solo in un corpo rinnovato; in questo senso è sorprendente come la moderna chirurgia estetica, quando meramente correttiva, sembri inverare le concezioni gnostiche sulla necessità di liberarsi dai vincoli del corpo. Nella seconda prospettiva etica, il dualismo porta a caratterizzare il corpo in termini di una costante non modificabile: sotto le apparenze di un rispetto di valori morali superiori, molti richiami alla sacralità del corpo umano celano in realtà un materialismo estremo e alquanto semplificato. Il dualismo di corpo e di anima porta ad una visione assai riduttiva dello stesso uomo: la prima prospettiva (in cui l’anima è funzione del corpo) considera gli uomini alla stregua di angeli che, almeno nella classica analisi tomista, sono forme priva di materia; la seconda prospettiva (in cui il 1 corpo è essenzialmente fissità e vincolo), trasforma gli uomini in zombie, corpi in qualche modo viventi, ma inanimati. Il dualismo di anima e corpo ha dunque come presupposto e come destinatari angeli senza corpo o zombie senza anima. Tale dualismo ha avuto il massimo sviluppo nella modernità; si pensi a Cartesio che affermava in modo radicale l’autonomia dell’anima che era vista come solo fattualmente unita al corpo attraverso la ghiandola pineale, fino all’occasionalismo di Malebranche per cui era Dio che assicurava la sintonia tra anima e corpo. Credo che una riflessione antropologica sulla biologia sintetica debba adottare un approccio in cui anima e corpo non si contrappongano ma si integrino in quella realtà peculiare che è l’uomo. La tradizione filosofica dell’Occidente vede in Aristotele colui che per primo ha saputo presentare una concezione non dualistica, ma altresì non riduzionistica, in cui l’anima è forma del corpo e il corpo è materia, sostrato dotato di potenza recettiva: l’anima è nel corpo, ma altresì il corpo è nell’anima. Altri capitoli importanti sono la teoria delle inclinazioni naturali di Tommaso d’Aquino e la teologia dei sensi spirituali di Origene, Bonaventura e Ignazio, ripresa nel XX secolo da Karl Rahner e Hans Urs von Balthasar. Ma è soprattutto con la fenomenologia di Edmund Husserl e della sua scuola che la riflessione sul corpo acquisisce i suoi concetti e termini fondamentali. Mi riferisco, in particolare, alla celebre distinzione tra Körper e Leib, il corpo come realtà materiale ed il corpo come esperienza del soggetto: una riflessione etico-giuridica sulle applicazioni della biologia sintetica all’uomo ha come suo oggetto non il Körper, ma il Leib: si tratta infatti di analizzare criticamente come la biologia sintetica possa riconfigurare il vissuto del corpo, quello che Antonio Rosmini chiamava”sentimento fondamentale corporeo”. Ritengo poi che vada considerata non solo la dimensione soggettiva del Leib (quella che gli è costitutivamente propria), ma anche quella intersoggettiva: il vissuto sociale e culturale del corpo entro cui si dà l’esperienza specifica del singolo individuo. A questo proposito è illuminante l’osservazione di Bruno Snell secondo cui “i Greci dei primi secoli non concepiscono il corpo come unità; né nella lingua né nelle arti plastiche” (La cultura greca e le origini del pensiero europeo, 1963, tr. it. p. 27), il corpo era concepito “come insieme di membra” (p. 28). Cioè il vissuto culturale del corpo era significativamente diverso da quello che sarebbe stato nei secoli successivi nella stessa Grecia. Una interrogazione etica sulle possibili applicazioni della biologia sintetica all’uomo richiede il superamento del doppio semplicismo di ridurre il corpo umano alla volontà contingente e immotivata del soggetto (corpo arbitrario) e alla vincolatività della sua materialità astratta come se nella sua esperienza mondana all’uomo fosse già dato un corpo glorioso: ci è richiesto di andare oltre il doppio semplicismo dell’autodeterminazione individuale e del feticismo di un corpo separato dall’anima, di un corpo che è mero Körper e non complesso Leib. Né angeli, né zombie, ma uomini. Questo duplice rifiuto di facili semplicismi a favore di una considerazione integrale dell’uomo può trovare un suo riferimento normativo, rilevante non solo sul piano etico, ma anche su quello giuridico, in un concetto di ascendenza religiosa e filosofica che ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico internazionale. Mi riferisco ovviamente al concetto di dignità umana che rappresenta, almeno a livello europeo, l’unico valore non negoziabile in quanto, secondo la Carta di Nizza, la “dignità della persona umana non è soltanto un diritto fondamentale in sé, ma costituisce la base stessa dei diritti fondamentali”. 2