Il Molise prossimo futuro: un punto di vista liberista

/ 5 / 2012 / In Molise
Il Molise prossimo futuro: un punto di vista liberista
di Alberto Franco Pozzolo
1. Premessa
Uno dei più curiosi effetti collaterali della crisi economica e finanziaria iniziata nel 2007 è che a una crescente sfiducia dell’opinione pubblica nei
confronti degli economisti si è associata la percezione che quelli economici
siano i principali problemi del mondo moderno. La ricchezza di un convegno
come quello che ha dato origine a questo numero di «Glocale» è invece proprio la capacità di affrontare da più punti di vista il tema del futuro del territorio nel quale lavoriamo.
Io però sono un economista, con una radicata convinzione che i sistemi economici più efficienti sono quelli nei quali funzionano bene i mercati dei beni, dei
servizi e degli strumenti finanziari. Ciò mi porterà ad assumere alcune posizioni
che potrebbero apparire in contraddizione con il mio convincimento che l’economia sia soltanto un aspetto parziale e non totalizzante del vivere civile. Ma
sono stato chiamato a contribuire al dibattito sulle prospettive del Molise in veste di economista, e per questo concentrerò il mio intervento su alcuni meccanismi economici dai quali è a mio modo di vedere difficile prescindere.
Il resto del lavoro procede dall’analisi del quadro macroeconomico globale
a quella dell’andamento dell’economia locale del Molise, segnalando alcune
delle opportunità che potrebbero essere colte per favorire la crescita della
Regione, senza tuttavia pretendere di fornire un quadro esaustivo. Il messaggio principale di questa breve analisi è tuttavia la necessità che gli interventi
di politica economica si concentrino sulle poche iniziative che vengono individuate come centrali, perché la distribuzione delle risorse a pioggia, soprattutto in periodi di carenza di fondi, sono notoriamente inefficaci.
2. Il quadro macroeconomico
Il 23 gennaio 2013 il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato l’ultimo aggiornamento delle previsioni di crescita dell’economia mondiale per
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il 20131, rivedendole ancora una volta al ribasso, soprattutto a causa del peggioramento delle condizioni nell’area dell’euro. La crisi europea del debito
sovrano sta avendo effetti negativi a livello mondiale, perché l’Europa pesa
sull’economia mondiale.
La crisi iniziata negli Stati Uniti nel 2007, con il fallimento dei mutui
subprime, ed estesasi nel 2008 e nel 2009, ha messo prima il sistema finanziario e poi le economie reali in fortissime difficoltà. Come è noto, quella che è
stata definita la “Grande recessione” è stata la più forte crisi economica registrata in tempo di pace dai tempi della recessione del 1929. Moltissimi paesi
hanno così deciso di cercare di uscire dalla crisi con politiche fiscali fortemente
espansive, accrescendo in questo modo il loro debito pubblico. Ciò è vero sia
per paesi che sono oggi in forte difficoltà, come la Grecia, la Spagna, l’Irlanda,
il Portogallo, la stessa Italia, sia per nazioni che non sono attualmente in difficoltà, come ad esempio gli Stati Uniti, che in base alle previsioni più recenti si
ritroveranno ad avere un debito al 110 % del Pil nel giro di pochi anni.
In percentuale del Pil il debito degli Stati Uniti è ovviamente minore di
quello dell’Italia. Ma il loro Pil è assai più grande del nostro. Perché uno
Stato possa collocare i propri titoli del debito pubblico, è necessario che trovi
degli acquirenti, gli investitori. Crescendo il numero dei paesi che desiderano collocare i loro titoli del debito pubblico, quelli emessi dalle nazioni che
sono già fortemente indebitate, come la nostra, ne subiscono la concorrenza.
I nostri titoli di Stato sono oggi uno dei tanti prodotti finanziari tra i quali
possono scegliere gli investitori, che quindi si orientano verso quelli che offrono a loro modo di vedere il migliore rapporto tra rendimento e rischio.
Naturalmente, a parità di rendimento (di tasso di interesse), un investitore
che deve scegliere fra un paese che ha pochissimi debiti e una buona prospettiva di crescita e un altro che ha una situazione economica più incerta, si
orienta verso il paese ritenuto più sicuro. Chiunque di noi si comporta in
questo modo. Per riuscire a collocare i titoli di Stato e raccogliere i fondi necessari per rinnovare il debito pubblico in scadenza e finanziare la spesa
pubblica, paesi più rischiosi perché hanno un elevato indebitamento e basse
prospettive di crescita, come l’Italia, sono quindi costretti ad offrire condizioni che gli investitori giudichino sufficientemente attraenti, cioè a pagare
tassi d’interesse più alti. Ciò comporta un aumento del differenziale tra i tassi di interesse sui titoli di Stato italiani e quelli sui titoli di nazioni giudicate
meno rischiose, come ad esempio la Germania, lo spread di cui si sente parlare ormai giornalmente.
L’aumento dei tassi di interesse non è però limitato ai titoli di Stato, perché i
mercati finanziari sono fortemente integrati tra loro e quindi anche le banche
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International Monetary Fund, World Economic Outlook Update, Washington, D.C., January 23, 2013, http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2013/update/01/pdf/0113.pdf.
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sono costrette ad accrescere i tassi di interesse sui prestiti. Infatti, le banche si
finanziano prevalentemente attraverso depositi e obbligazioni. L’aumento dei
tassi di interesse sui titoli di Stato rende tuttavia meno conveniente l’investimento in obbligazioni bancarie, a meno che anche queste non offrano rendimenti più elevati. Ma se le banche sono costrette a pagare tassi di interesse più
elevati sulle loro passività, è ovvio che aumentino anche quelli richiesti sulle
loro attività, cioè sui prestiti alle imprese e alle famiglie.
L’aumento dei tassi di interesse sui prestiti, a sua volta scoraggia gli investimenti. Un imprenditore che desideri effettuare un investimento e si trovi a
dover pagare l’8% di interesse sul prestito bancario necessario per realizzarlo è ovviamente più cauto che se l’interesse fosse del 4%. Analogamente,
una famiglia che deve decidere se contrarre un mutuo o un finanziamento
per l’acquisto di un’abitazione o di un’automobile, sarà più restia a farlo se il
costo del prestito è elevato. Ma se gli imprenditori non investono e le famiglie contraggono i consumi, l’economia entra in recessione: le imprese che
non riescono a vendere i loro prodotti riducono l’occupazione, ciò comporta
un’ulteriore contrazione dei consumi e, a sua volta, questa spinge gli imprenditori a non investire per il futuro. La contrazione della produzione determina una crescita del rapporto tra debito pubblico e Pil, accrescendo ulteriormente i timori degli investitori, facendo aumentare i tassi di interesse necessari per collocare i titoli di Stato e, come abbiamo argomentato sopra, anche i tassi di interesse bancari. La spirale negativa è resa ancora più stringente se la necessità di ridurre il debito pubblico impone un aumento della tassazione, che ovviamente riduce il reddito disponibile per le famiglie e pertanto deprime ulteriormente il livello dei consumi. Deve però essere chiaro
che all’origine di questa situazione è il fatto che già all’inizio della crisi finanziaria, nel 2007, il debito pubblico nel nostro paese era esageratamente
elevato e le prospettive di crescita dell’economia erano troppo basse.
In questo contesto, pensare di poter uscire dalla spirale negativa descritta in
precedenza stimolando l’economia attraverso un aumento della spesa pubblica è però un’illusione, perché nel momento stesso in cui l’Italia non accettasse più di seguire politiche fiscali rigorose per ridurre il livello del debito,
come quelle decise nello scorso anno, nessun investitore sarebbe più disposto ad acquistare i nostri titoli del debito pubblico, oppure saremmo costretti
ad alzare ulteriormente i tassi di interesse sui titoli di Stato, facendo quindi
aumentare i tassi sui prestiti bancari, come già argomentato in precedenza.
L’unica via d’uscita è quindi una strada stretta e dolorosa che passa attraverso politiche fiscali rigorose e molti sacrifici per le famiglie e le imprese.
Non si può ovviamente dimenticare che una crisi economica come quella
che stiamo attraversando non ha effetti uniformi su tutta la popolazione. È
quindi necessario prevedere meccanismi di redistribuzione dei redditi che
consentano alle famiglie maggiormente in difficoltà di superare l’attuale dif-
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ficile congiuntura. Ma questo deve avvenire attraverso politiche mirate, rivolte unicamente agli individui in forti difficoltà, e che riducano al minimo
gli effetti negativi tipici dei meccanismi di sussidio sul livello di attività dei
lavoratori e dei cittadini.
3. Gli effetti sul Molise
Per una serie di motivi storici sui quali non voglio dare alcun giudizio di
valore, l’economia molisana è fortemente legata all’andamento della domanda interna, dalle imprese e dalle famiglie italiane, e all’andamento della spesa pubblica. Di fronte alla grave crisi degli ultimi anni, il Molise è pertanto
destinato a subire più di altre regioni l’impatto dei tagli della spesa pubblica
e dell’aumento dell’imposizione fiscale.
La figura precedente mostra che in Molise gli effetti della crisi sono stati
sin dall’inizio più forti che nel resto dell’Italia e del Mezzogiorno. Le politiche di risanamento del debito pubblico attuate negli anni successivi, soprattutto attraverso l’applicazione del patto di stabilità interno, hanno determinato un ulteriore peggioramento delle condizioni economiche in Molise, che
non ha beneficiato della piccola espansione del Pil registrata in Italia nel
2010-2011. Le prospettive di politiche fiscali rigorose che saranno necessarie anche per gli anni a venire non lasciano intravedere per il Molise prospettive di crescita legate alla dinamica della spesa pubblica, come invece è accaduto nel decennio scorso, segnatamente negli anni successivi al terremoto.
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Pozzolo, Il Molise prossimo futuro: un punto di vista liberista
In Molise, gli effetti più evidenti della crisi economica hanno riguardato il
settore delle costruzioni, che ha colpito prima l’edilizia privata, in seguito al
rallentamento del credito di cui si è parlato nel paragrafo precedente, e successivamente quella pubblica, per effetto dei tagli alla spesa. È tuttavia necessario chiedersi se il problema sia costituito dalla contrazione attuale o dagli eccessi precedenti. La crisi finanziaria del 2007-2008, che ha portato alla
successiva crisi economica del 2009, è nata da un eccesso di credito, che ha
generato una bolla speculativa nei mercati immobiliari. I problemi generati
dalla finanza derivata non devono far dimenticare che nel decennio scorso in
molti paesi si sono costruite abitazioni che non servivano a nessuno. In Spagna, dove il sistema bancario ha difficoltà ben maggiori che in Italia, sono
stati costruiti interi quartieri che sono oggi disabitati. Senza inutili giri di parole, sono state decisioni d’investimento sbagliate, che con il supporto del
sistema creditizio hanno permesso tassi di crescita elevati nel breve periodo,
ma al prezzo delle gravissime difficoltà attuali. Venendo alla situazione molisana, pur non avendo analizzato il settore nel dettaglio, non sono certo che
sia opportuno investire nell’edilizia abitativa in una regione con un saldo
demografico negativo.
Un altro settore che negli ultimi anni ha registrato in Molise una forte crisi è
quello tessile. Ma le cause in questo caso sono ben più antiche del recente andamento congiunturale, e hanno radici di natura strutturale. Ha risentito della
crisi anche il settore dei servizi, per effetto della contrazione dei consumi.
Il rallentamento congiunturale ovviamente ha effetti anche sull’occupazione. Nel 2012 il tasso medio di disoccupazione è stato del 12%, il più elevato dal 1999. Poiché il mercato del lavoro della regione è caratterizzato da
un forte dualismo, i lavoratori a tempo indeterminato nel settore pubblico
hanno risentito in misura più contenuta della crisi, che ha avuto invece effetti
assai rilevanti sui lavoratori in cerca di prima occupazione. Il tasso di disoccupazione medio per la fascia di età tra i 25 e i 34 anni era nel 2012 del 34%.
Le prospettive occupazionali dei giovani non sono buone, e a questo contribuisce anche la scarsa propensione alla mobilità. I giovani che non riescono
a trovare un lavoro dovrebbero trasferirsi altrove, con l’obiettivo di ritornare
dopo aver accumulato le esperienze necessarie per contribuire allo sviluppo
della loro regione.
L’andamento del credito ovviamente riflette quello dell’economia: i prestiti
hanno registrato una progressiva contrazione, in particolare quelli alle imprese. Non è però facile capire se sia stata la scarsità di credito a rallentare la
crescita o se la bassa crescita abbia determinato una stagnazione del credito.
In condizioni normali, i prestiti bancari seguono l’andamento del Pil nominale. Ma anche nei periodi durante i quali, il Pil nominale cresceva del 3%
all’anno e il credito aumentava del 10%, come nel 2006, ricordo che gli imprenditori si lamentavano della difficoltà di ottenere prestiti. Oggi le difficol-
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tà sono evidenti, ma attribuire alle banche tutte le colpe della bassa crescita è
secondo me semplicistico. Anche l’accusa che il costo del credito è troppo
elevato non trova piena conferma nei dati se si considera la crescita delle
sofferenze, cioè dei prestiti che non vengono restituiti. Ovviamente quando
un imprenditore non ripaga un prestito è perché è in difficoltà, e spesso sta
lottando in tutti i modi per salvare la sua impresa. Ma le banche non possono
dimenticare che è un loro obbligo avere la capacità di restituire i depositi alle
famiglie e il capitale agli azionisti: una banca che non tiene adeguatamente
conto della rischiosità di un finanziamento sta prestando male i soldi delle
famiglie, non i propri.
Gli effetti sul Molise della crisi finanziaria del 2007-2008 e della più recente crisi del debito sovrano cominciano a essere evidenti. Purtroppo, le caratteristiche strutturali dell’economia locale non lasciano intravedere la possibilità di una rapida ripresa. Come nel caso dell’Italia nel suo complesso, l’unica via d’uscita pare essere quella che passa attraverso politiche fiscali rigorose e molti sacrifici per le famiglie e le imprese. È però nei momenti di crisi
che vengono gettate le basi della crescita futura.
4. Le opportunità per il Molise prossimo futuro
Il Molise è una regione a cavallo tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno: la
maggior parte delle statistiche economiche evidenzia andamenti migliori rispetto alla media del Mezzogiorno, ma peggiori rispetto alla media italiana. I
processi di sviluppo economico sono molto lenti, e probabilmente il Molise
riuscirà nel tempo ad agganciare il treno della crescita, come è già avvenuto
ad esempio in alcune aree dell’Abruzzo. In un’ottica di medio periodo, alcuni
decenni, è lecito attendersi che la peformance economica del Molise possa
essere migliore di quella media. Perché questo avvenga è però necessario che
il Molise sappia colmare le lacune, per poter valorizzare i propri punti di forza. Facendo un passo ardito rispetto alla mia formazione di economista finanziario, proverò nel seguito a elencare alcuni possibili settori di intervento.
Un primo elemento di debolezza del Molise è quello delle infrastrutture, sia
nei trasporti sia nel settore informatico. In questi ambiti appaiono necessari investimenti cospicui, anche ricercando forme di finanziamento come il venture
capital e il project financing, che hanno un impatto limitato sulla spesa pubblica.
La gestione del territorio, in particolare dell’acqua e dei rifiuti, richiede interventi radicali ma può offrire al contempo opportunità rilevanti. I dati del
Molise sulla quota di acqua erogata rispetto a quella immessa in rete e sulla
raccolta differenziata dei rifiuti sono tra i peggiori d’Italia. Il rispetto del
proprio territorio e delle sue risorse è parte del capitale sociale che rende una
regione più ricca di altre. È un valore che deve essere insegnato ai bambini e
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che favorisce, con un adeguato marketing territoriale, lo sviluppo di un certo
tipo di turismo e di produzione agroindustriale.
Un elemento di forza invece il grado di scolarizzazione e il livello di preparazione degli studenti, come è segnalato sia sai dati Invalsi sia da quelli dei
confronti internazionali condotti dall’Ocse. Come hanno dimostrato numerosissime analisi nazionali e internazionali, il capitale umano è una delle leve
principali su cui si basa una crescita equilibrata e sostenibile.
Un ulteriore elemento di forza dell’economia molisana è rappresentato dalle esportazioni di prodotti agroalimentari, in cui la regione ha da sempre una
forte vocazione, che stanno registrando un andamento crescente già da alcuni
anni. Il buon andamento delle esportazioni agroalimentari anche a livello nazionale dovrebbe garantire un effetto di traino, capace di favorire l’ingresso
in nuovi mercati.
Anche il settore turistico ha potenzialità inespresse. Particolarmente interessante è il progressivo spostamento dell’offerta turistica verso le strutture
di agriturismo e bed and breakfast, con un’offerta diversa e più flessibile
rispetto a quella tradizionale degli alberghi, dove adeguati incentivi anche
di carattere normativo possono favorire l’espansione di strutture di offerta
che più di altre sono in grado di valorizzare le ricchezze e le peculiarità del
territorio molisano. Ovviamente, più di altri, il settore turistico beneficerebbe di un miglioramento delle infrastrutture dei trasporti e, parallelamente,
dello sviluppo di un sistema informativo, basato ovviamente su internet,
chiaro e trasparente.
I mercati non sono sempre in grado di funzionare in modo autonomo, per
questo è necessario che le autorità di politica economica individuino le opportunità e contribuiscano affinché possano essere realizzate. Ma gli interventi devono essere mirati e selettivi, perché la distribuzione di risorse a
pioggia aumenta il Pil nel breve periodo ma non crea le condizioni per un
aumento duraturo del tasso di crescita. Sono preferibili interventi di lungo
periodo che permettano di migliorare le condizioni dell’offerta invece di
quelle della domanda. In altre parole, per rendere un uomo ricco è meglio
regalargli la canna da pesca e insegnargli a pescare, che fargli dono del risultato di una battuta di pesca.
Gli interventi di politica economica devono inoltre essere sostenibili, sia
dal punto di vista economico, nel senso che gli investitori devono essere
convinti che il costo dell’investimento potrà essere ripagato in futuro, sia dal
punto di vista ambientale. Il rapporto curato da Joseph Stiglitz nel 20092 sulle misure di benessere alternative al Pil sottolinea come la sostenibilità am2
Joseph E. Stiglitz, (chair), Amarthya Sen, (Chair Adviser), Jean-Paul Fitoussi (coordinator of
the Commission), Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance
and Social Progress, 2009, http://www.stiglitz-sen-fitoussi.fr/documents/rapport_anglais.pdf.
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bientale è importante anche nell’obiettivo di una più elevata crescita del Pil:
chi distrugge l’ambiente oggi si troverà tra qualche decennio a dover iniziare
a pagarne le conseguenze, anche in termini di mancata crescita economica, e
a rischiare di doverle pagare per moltissimi anni a venire.
Infine, per realizzare quanto descritto sopra occorre in primo luogo studiare
con attenzione le caratteristiche del territorio, le diverse opzioni, i vincoli e
le opportunità, ben più e ben oltre di quanto ho cercato di fare in queste poche righe. L’investimento in conoscenza è il punto di partenza imprescindibile di ogni intervento di successo.
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