La mosca nella bottiglia. Filosofia analitica e classici del pensiero

La mosca nella bottiglia.
Filosofia analitica e classici del pensiero
Fabio Minazzi
1. Insegnare a pensare?
Gilbert Ryle, nei suoi ultimi scritti, raccolti da Konstantin Kolenda nel volume
On Thinking, ha dichiarato espressamente come suo obiettivo privilegiato, perlomeno «a lungo termine», fosse quello
«di scoprire come parlare sensatamente del pensiero, in cui è impegnato Le
Penseur [di Rodin], senza commettere (1) l’errore categoriale del behaviorismo o (2) l’errore categoriale del cartesianesimo - cioè, (1) senza cercare
di ridurre il pensiero a quel che non è, per esempio, ad un soliloquio udibile; e (2) senza cercare di interpretarlo con il duplicarlo in alcune porzioni di soliloqui non udibili perché “mentali”»1.
Nel tentativo di evitare sia la deriva riduzionista, sia quella duplicazionista,
Ryle ha tenuto presente anche il rapporto di apprendimento-insegnamento che si
può instaurare tra allievo e maestro, cercando soprattutto di circoscrivere e di ricostruire le “mosse” de Le Penseur alla luce delle differenti tecniche di insegnamento che possono essere effettivamente utilizzate da veri insegnanti con veri allievi2.
Sempre a questo modello si è inoltre riferito per comprendere la riflessione del singolo:
«Pitagora, il mio Socrate o, per generalizzare, Le Penseur [di Rodin] non
fanno altro che sottoporre a prova su se stessi, nella forma di tentativi, di
esperimenti accompagnati da dubbi e scoraggiamenti, tutti quegli espedienti, routines, procedimenti, esercizi, controlli e accorgimenti, che gli
insegnanti adoperano, non sempre con successo, quando vogliono insegnare quel che sanno ai loro allievi. Il pensatore, dunque, prova su se stesso
queste tecniche per vedere se saranno efficaci, nella consapevolezza che
non sono delle guide già stabilite verso la sua meta, ma solo che potrebbero essere candidate a divenirlo, proprio come le domande “come” poste dal
mio Socrate impreparato in geometria al giovane schiavo»
Il suggerimento di Ryle è particolarmente felice, perlomeno nella misura in cui,
prendendo le mosse da un problema estremamente circoscritto come quello posto
in essere entro le concrete prassi dell’insegnamento, ci aiuta a non perdere di vista
l’obiettivo pr ivilegiato dello stesso insegnamento (non solo di quello della filoso-
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fia), che, tra l’altro, dovebbe consistere nella capacità di abituare il discente a ragionare e pensare autonomamente, nel modo più corretto possibile.
L’indicazione di Ryle è inoltre preziosa poiché ci consente di affrontare tra sversalmente (e in modo alquanto fecondo) una questione didattico-educativa tanto
annosa da essere ormai diventata quasi fuorviante. In Italia, infatti, soprattutto nel
corso del nostro secolo (quasi in rapporto, inversamente proporzionale, alla mancata riforma della scuola secondaria superiore), si sono riempiti diversi scaffali con
opere che sostengono la superiorità dell’insegnamento problematico della filosofia,
oppure con interventi, di segno opposto, che affermano, con non minore decisione,
la netta superiorità di un approccio eminentemente storico. Il che costituisce,
appunto, una singolare questione a volte fuorviante, perlomeno nella misura in cui
è affrontata in tutta la sua astratta genericità teorica (sganciata da ogni concreta
prassi didattica), dimenticando sistematicamente che l’insegnamento della filosofia
non può mai prescindere dallo studio e dalla lettura diretta dei testi classici. Solo
nei classici e nei loro testi possiamo infatti rintracciare il pensiero filosofico il
quale, per sua natura intrinseca, abita, appunto, il filosofato e solo questo.
«I discorsi - avvertiva Giulio Preti nel 1960 - hanno dei significati; e questi significati si connettono secondo regole semantiche e sintattiche, le
quali costituiscono ciò che si chiama la “logica” di quei discorsi: regole che
hanno un’ideale obiettività, la quale vige assecondando, ma anche spesso a
dispetto de, i sentimenti e le intenzioni di chi redige il discorso. Tanto più
se questo è un filosofo, un essere che quasi sempre “pensa per concetti” ed
è “logico”. Anche in questo senso hanno un valore notevole le “tecniche”
della filosofia: ché queste sono in gran parte (anche se non esclusivamente) le regole di formazione e trasformazione (implicazione, derivazione,
deduzione) dei significati - cioè, come suol dirsi, dei concetti. (…) La filo sofia consiste propriamente nei significati che hanno i discorsi filosofati.
Di essa, appunto a causa della sua, sia pure ideale obiettività, c’è scienza e
c’è storia. Quando scriviamo o parliamo di Platone, di Aristotele o di Kant,
o di quello che sia, di fatto non parliamo mai del filosofare di questi illustri antenati - bensì di ciò che è scritto nelle loro opere, del loro filosofato,
dei loro discorsi, o meglio dei significati dei loro discorsi. E quando di un
filosofo diciamo che è coerente o incoerente, etc., non lo diciamo di lui e
del suo filosofare, (ché sarebbe temerario azzardare qualcosa in proposito),
bensì soltanto dei suoi discorsi, delle sue opere, di quanto vi è esposto e
significato. E’, al solito, la struttura del discorso, non la psicologia del
discorrente, quella che in fin dei conti ci interessa, e comunque quella che
ci è “data”, che possiamo collocare nel tempo, confrontare con altre, classificare, e, se ciò serve a qualcosa, giudicare»3.
Di una filosofia sganciata dai testi e totalmente indipendente da questi è dunque ben
difficile trovare alcuna traccia storica significativa, anche all’interno di quella pur
singolare camera oscura cartesiana rappresentata da Le Penseur di Rodin. Inoltre,
anche solo per ritornare su un terreno più direttamente e peculiarmente didattico -
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ripetendo, peraltro, quanto già osservava, all’inizio del secolo (nel lontano 1923),
un Maestro della scuola italiana come Augusto Monti - occorre appunto ribadire
che «i classici sono la realtà della scuola di cultura». Così decisivi e insostituibili
che lo stesso Monti proponeva, addirittura, ma in modo certamente conseguente e
coerente, di definire la stessa scuola secondaria come «il luogo dove si leggono i
classici»4. Definizione che oggi a taluno può forse apparire eccessiva, ma che tut tavia ci richiama, con indubbia forza, ad un insegnamento nel quale la centralità del
testo rinvia, a sua volta, al rapporto diretto tra il giovane lettore e il testo classico
(incontro che deve essere opportunamente agevolato e incoraggiato dal docente non
tanto per mettere un bel paio di mutande - più o meno colorate - al classico, bensì
per far nascere un rapporto, libero ed autonomo, entro il cui orizzonte si situa il
senso stesso della più autentica ricerca culturale). Nel perimetro di questo orizzonte è così possibile recuperare la centralità della filosofia la quale se rischia, inevitabilmente, di essere spesso “sbriciolata” e “frantumata” sul terreno della sua eteronomia storica,tuttavia, proprio attraverso la disamina dei significati circolanti e presenti entro i testi filosofici può invece essere recuperata nella sua più piena autono mia ( relativa ma specifica).
2. La filosofia “abita” il filosofato.
In ogni caso la lettura del testo taglia trasversalmente la pseudo-questione dell’insegnamento storico e di quello problematico, poiché costringe immediatamente
a scendere dal campo delle morte astrazioni nel vivo della concreta prassi didattica
(ma anche nel vivo della stessa ricerca filosofica!) incentrata nella comprensione
storico-critica di un testo e di un pensiero, facendo appunto “toccare con mano” al
discente come non esista mai né un astratto problema speculativo (in grado di vivere in un ipotetico, quanto mitico, mondo iperuraneo, del tutto sganciato dalla contingenza storica), né un altrettanto irreale (e retorica) dimensione storica in grado di
fagocitare, senza residui, i veri problemi teorici.
Semmai è vero esattamente l’inverso, poiché i problemi - proprio nella misura
in cui si radicano nel “mondo tre” di Popper (e degli stoici), vale a dire nell’ambito dell’oggettività del pensiero e dei discorsi significanti - rinviano costantemente
ad un preciso contesto storico-culturale entro il quale assumono quella specifica
configurazione che li rende capaci di attraversare epoche storiche differenti (e anche
remote) pur mantenendo un “significato” e una “logica” coerente e specifica. In
questa prospettiva la lettura e la comprensione di un testo aiutano il discente (e il
docente), a intendere criticamente l’autonomia (relativa ma specifica) degli stessi
problemi filosofici calandoli, al tempo stesso, entro la concretezza storica delle differenti tradizioni di pensiero che hanno formulato quel determinato problema in
relazione con una determinata società e con uno specifico momento della storia dell’umanità. In questo spirito di costante adesione storico-critico ai testi dei classici
si può allora comprendere come l’approccio di tipo storico-genetico costituisca
effettivamente:
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«l’unico che rende possibile un’autentica comprensione filosofica. Solo,
infatti, se si conosce come e perché una determinata filosofia è sorta, cioè
se si è in grado di ricostruire il suo rapporto con le filosofie precedenti o ad
essa contemporanee, con la situazione culturale, politica e sociale in cui
essa si è sviluppata, con la biografia e la psicologia del suo autore (…) solo
in questo modo si è in grado di giudicare se tale filosofia è o non è adeguata
a risolvere determinati problemi. La capacità che una filosofia dimostra di
risolvere i problemi del proprio tempo è la condizione necessaria, anche se
non sufficiente, perché essa sia giudicata eventualmente capace di risolvere i problemi di altri tempi, o del nostro tempo, e dunque possa essere considerata veramente “classica”» 5.
mento trasformando, ab imis fundamentis, il tradizionale insegnamento delle stesse
discipline scientifiche.
3. La filosofia analitica e la “presenza” dei classici.
Tuttavia, per una curiosa ma sottile ironia della storia della cultura, questo prezioso rilievo, che Kant riteneva di dover limitare alla sola filosofia, oggi vale invece per
qualunque forma di sapere, sì che attualmente il suo monito dovrebbe essere dilatato (anche sul piano della viva prassi didattica quotidiana) ad ogni altro insegna-
Un movimento di pensiero del Novecento nel quale può essere agevolmente
individuato uno stretto, costante e fecondo intreccio tra la riflessione teorica e un
parallelo, anche se sotterraneo, dialogo con i testi dei classici è rappresentata dalla
filosofia analitica inglese, con riferimento esplicito a quel complesso ed articolato
orientamento di pensiero nato, grosso modo, dalla lezione dell’ultimo Wittgenstein,
autore delle Ricerche logiche (1953). La lezione del secondo Wittgenstein si è ben
presto intrecciata con altre riflessioni (per esempio con quella di Austin, Ryle,
Strawson, Wisdom, etc.), interagendo in vario modo e dando comunque vita,in ultima analisi, ad uno stile caratteristico della filosofia britannica,spesso indicato come
«filosofia del linguaggio comune», «filosofia analitica», «filosofia linguistica» o
anche come «filosofia di Oxford e Cambridge» (e forse quest’ultima qualificazione
è probabilmente la meno imprecisa e fuorviante). Naturalmente entro questo stile di
riflessione non è difficile riscontrare significative divergenze di fondo tra i vari
esponenti i quali sembrano tuttavia convergere perlomeno nel prestare un’attenzione privilegiata all’analisi critica del linguaggio comune o ordinario, non scientifico
e non formalizzato, anche se poi le singole proposte avanzate dai differenti pensatori appaiono essere molto diverse quando non apertamente contrastanti o divergenti7. Naturalmente, per ben comprendere valore, significato e limiti di questa critica del linguaggio ordinario occorre anche tener presente come il paradigma tendenzialmente egemone nella filosofia del linguaggio della prima metà del nostro
secolo (fortemente influenzata dalla lezione di Frege, Russell e del primo
Wittgenstein8) si caratterizzasse perlomeno per le seguenti tre tesi:
a) l’affermazione che ogni enunciato dichiarativo possiede un significato che si
identifica con le sue condizioni di verità;
b) la convinzione che un’espressione complessa possiede un significato specifico
dipendente, funzionalmente, dai valori semantici dei suoi stessi costituenti (principio della cosiddetta composizionalità del significato);
c) la persuasione che la dimensione psicologica (vale a dire l’elaborazione mentale
delle espressioni linguistiche) sia del tutto irrilevante per la determinazione del
significato delle espressioni prese in considerazione.
Confrontandosi liberamente con la costellazione di idee variamente connesse
con questo paradigma della filosofia del linguaggio novecentesca della prima metà
del secolo la «filosofia di Oxford e Cambrige» non può tuttavia essere identificata,
automaticamente, né con una corrente che si è limitata a svolgere una critica di tale
paradigma egemone, né con un indirizzo di pensiero il quale, per essere adeguatamente compreso nella sua peculiarità, debba sempre essere ricondotto (o confrontato) con questo precedente paradigma della filosofia del linguaggio. Da questo
punto di vista occorre anzi riconoscere che se il secondo Wittgenstein ha indubbia-
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Ma, si badi, su questo terreno della lettura dei testi, l’approccio storico-critico
fa tutt’uno con quello problematico poiché le questioni teoriche affrontate dalla
riflessione filosofica non esistono mai in astratto, ma si radicano sempre all’interno
di una precisa tradizione, di una peculiare problematica storica e di un determinato
autore, altrettanto specifico, che ha formulato discorsi dotati di significati che si
intrecciano secondo specifiche regole sintattiche e semantiche. La centralità dello
studio del testo filosofico scioglie così come nebbia al sole una astratta e retorica
contrapposizione tra due differenti metodi didattici i quali, in realtà, costituiscono
semmai due facce della medesima medaglia, perlomeno nella misura in cui questi
due aspetti complementari della riflessione si intrecciano nei discorsi filosofati, per
la comprensione dei quali il momento ermeneutico (critico-interpretativo) si intreccia necessariamente con la comprensione e con la formulazione di un problema
specifico. Non per nulla Kant stesso, in una celebre pagina finale della Critica della
ragion pura, insisteva nel sottolineare come si possa solo insegnare (ed imparare) a
filosofare (prendendo le mosse dal filosofato), giacché la filosofia coincide unicamente con il «sistema di ogni conoscenza filosofica»:
«la filosofia è una semplice idea di una scienza possibile, mai data in con creto, alla quale tuttavia cerchiamo di avvicinarci per molte strade, sintanto che non venga scoperto l’unico sentiero, quasi cancellato dalla sensibilità, e sintanto che non ci riesca, per quanto è concesso agli uomini, di rendere la copia - sinora difettosa - uguale al modello. Sino a quel momento,
non potremo imparare alcuna filosofia: in effetti, dov’è essa, chi mai la possiede, e da che cosa si può riconoscere? Si può soltanto imparare a filosofare, ossia si può soltanto esercitare il talento della ragione, applicando i
suoi principi universali a certi esperimenti dati, ma sempre con la riserva
del diritto della ragione di indagare quei principi seguendoli sino alle loro
fonti, e di confermarli o rifiutarli» 6.
mente esercitato una vasta e profonda influenza, estesasi perlomeno dagli anni
Trenta fino al dibattito contemporaneo, analogamente anche gli esponenti della
«filosofia di Oxford e Cambridge» hanno dato vita, per loro conto, ad una ricca ed
articolata riflessione che non è affatto riconducibile, in modo immediato e riduttivo, ad un unico (ed univoco) filone interpretativo.
Semmai è nell’indubbia complessità di questo mobile quadro teorico che,
soprattutto entro la tradizione della filosofia analitica sviluppatasi a Oxford, è agevole rintracciare una significativa presenza del pensiero di un classico come
Aristotele, giacché lo Stagirita fu spesso considerato da questi filosofi come uno dei
primi pensatori ad aver avuto il merito di aver avviato una seria analisi del linguaggio ordinario 9. Il fatto che Aristotele non sia sempre ed espressamente citato nelle
pagine di questi autori, non diminuisce la sua reale influenza su questa corrente di
pensiero giacché, come per esempio ebbe ad osservare lo stesso Gilbert Ryle nel
suo capolavoro The Concept of Mind, un «ragionatore intelligente (…) non cita le
formule di Aristotele a se stesso o alla corte, ma applica in pratica ciò che Aristotele
teorizzò da pratiche siffatte»10.
Se si tiene presente questo rilievo metodologico appare allora opportuno prendere in più diretta considerazione le concrete analisi filosofiche sviluppate dagli
analisti britannici, onde poter individuare l’eventuale presenza di Aristotele all’interno del loro stesso pensiero e delle movenze specifiche che la loro analisi assume
nelle loro pagine. Questa indagine mostrerà così, in concreto, l’esistenza di un’autentica spiralità di pensiero entro la quale questi autori hanno avuto anche la capacità di delineare un fecondo e costruttivo dialogo tra la loro posizione e quella di
alcuni classici, in modo che la loro riflessione teorica si è potuta avvalere di un
recupero critico e consapevole degli apporti specifici della stessa tradizione.
In particolare, sul piano più propriamente didattico-educativo, occorrerà sottolineare come lo studio della filosofia analitica britannica offra anche una preziosa
opportunità per favorire una stimolante riflessione critica più generale sullo stesso
linguaggio ordinario (nonché su quello più specialistico delle singole discipline).
Questa riflessione critica sul linguaggio ordinario potrà naturalmente assumere (a
seconda dei diversi “percorsi” didattico-educativi che si vorranno individuare, eventualmente in stretta collaborazione con altre discipline) interessanti valenze transdisciplinari, perlomeno nella misura in cui si sarà in grado di porre in evidenza il
“dialogo”,11 vivo ed attuale, che questi autori del Novecento sono effettivamente
riusciti ad intrecciare con i classici del pensiero, creando in questo singolare contesto di ricerca alcune tra le premesse più feconde per una loro autonoma ed originale ricerca filosofica.
Wittgenstein, autore del Tractatus logico-philosophicus) di poter veramente catturare l’«essenza» del linguaggio (degli enunciati, delle regole, delle espressioni linguistiche, ecc.). Nel mostrare - in sintonia con il secondo Wittgenstein - come le
stesse definizioni ostensive debbano e possano essere interpretate prendendo
costantemente le mosse dalle funzioni che queste stesse espressioni svolgono entro
la pratica linguistica di un determinato linguaggio, bisognerà essere in grado di
recuperare tutta la plasticità del linguaggio, mostrando come gli strumenti concettuali possano anche essere assimilati agli stessi utensili materiali, secondo il noto
rilievo delle Ricerche filosofiche:
«pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la
colla, la colla, chiodi e viti. - Quanto differenti sono le funzioni di questi
oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là).
Naturalmente, quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte e stampate.
Infatti il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente.
Specialmente, non quando facciamo filosofia!»12.
In questa prospettiva più dilatata non andrà nemmeno trascurata l’importanza
decisiva - ad un tempo didattico-educativa e culturale - che può associarsi all’illustrazione della critica wittgensteiniana alla pretesa (tipica anche del primo
Su questo terreno è possibile smascherare l’apparente uniformità delle parole nel
loro stesso presentarsi immediato ed acritico, aprendo, al tempo stesso, un varco
alla comprensione analitica più meditata delle varietà delle funzioni cui le parole analogamente agli utensili (o alle impugnature dei comandi di una locomotiva13) possono effettivamente rispondere all’interno delle differenti prassi linguistiche,
evitando, altresì, di cadere nella tradizionale trappola (filosofica) che induce ad
assimilare le parole ai nomi, in modo che le funzioni semantiche si dovrebbero sempre ridurre a rapporti di mera denominazione. Naturalmente nell’illustrare questa
critica del secondo Wittgenstein bisognerà mostrare come non sia coinvolta unicamente la pur classica nozione freghiana di denominazione, poiché è contemporaneamente aggredito criticamente anche tutto l’impianto concettuale del primo
Wittgenstein, consegnato alle pagine del Tractatus, unitamente al sogno essenzialista in virtù del quale il primo Wittgenstein riteneva, appunto, che il pensero potesse costituire «l’immagine logica dei fatti»14, giacché l’insieme dei nomi avrebbero
rappresentato unicamente un quadro plastico dello stato di cose15. Mostrando l’importanza euristica di questa nuova critica del secondo Wittgenstein all’atteggiamento essenzialista e al suo sogno di poter “catturare” filosoficamente l’essenza
delle proposizioni (e dello stesso linguaggio) si può così aprire il varco per una considerazione più plastica e meno restrittiva delle differenti pratiche linguistiche,
favorendo l’avvicinamento problematico del discente ad una concezione radicalmente pluralistica del linguaggio.
Su questa base si potrà inoltre giungere ad introdurre la stessa nozione centrale di gioco linguistico, insistendo, in particolare, nel mostrare come in questa prospettiva il compito della filosofia si avvicini sempre più ad uno studio quasi-fenomenologico del linguaggio, poiché il filosofo deve appunto descrivere le regole per
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4. Importanza e fecondità (anche didattico-educativa) della lezione del secondo
Wittgenstein.
l’uso delle espressioni linguistiche che figurano nelle differenti circostanze. Sempre
su questa base, senza peraltro inseguire le differenti ambiguità o le varie oscillazioni che pur contraddistinguono le molteplici ricerche del secondo Wittgenstein, si
potrà tuttavia mostrare come per questo orientamento di pensiero la conoscenza di
un linguaggio coincida, in ultima analisi, nel saper padroneggiare una tecnica lin guistica specifica giacché ora la filosofia appare come una sorta di «amministratrice della grammatica»16.
Anche John Langshaw Austin, muovendo da una insoddisfazione complessiva
per il modo con il quale si è tradizionalmente filosofato, ha posto al centro delle sue
indagini - consegnate peraltro ad un assai ristretto numero di articoli - l’esigenza di
sviluppare un’analisi puntuale del linguaggio ordinario. A suo avviso tale analisi
deve configurare una vera e propria «fenomenologia linguistica», in grado di andare al di là dei termini denotativi e degli stessi ‘significati’, per concentrare invece la
propria attenzione sulla consapevolezza che sempre dovrebbe accompagnare l’uso
delle differenti parole.
In questa prospettiva secondo Austin l’inventariazione delle differenti ricorren ze linguistiche, l’identificazione delle varie circostanze, nonché la registrazione
delle molteplici e contrastanti intenzioni con le quali possiamo effettivamente usare
le parole nell’ambito delle lingue costituisce una premessa indispensabile (anche se
non sufficiente) per sviluppare una seria indagine filosofica. Quest’ultima non deve
quindi più vertere sui concetti, idee, essenze o altre similari realtà “metafisico-ontologiche”, poiché il suo asse privilegiato di riflessione deve invece essere individuato nelle parole e nel loro uso. Non che Austin si illuda eccessivamente sull’uso ordinario del linguaggio comune e sulle sue potenzialità euristiche poiché è ben avvertito che il linguaggio comune non è affatto esente da contraddizioni, ambiguità e
altri analoghi imbarazzanti e non lievi equivoci. Del resto Austin sa che il linguaggio ordinario assume questa specifica e ambivalente configurazione non solo perché è fortemente influenzato da interessi pragmatici, ma anche perché costituisce
una dimensione tendenzialmente pre-scientifica la quale, frequentemente, veicola
molteplici errori e svariati pregiudizi. Tuttavia, Austin è anche un deciso assertore
della necessità di operare nei confronti della filosofia un sostanziale e innovativo
spostamento di accento, in modo che il linguaggio comune diventi, suo malgrado,
l’ambito privilegiato dal quale prendere le mosse per sviluppare una nuova e rigorosa analisi filosofica. In altri termini, nella sua prospettiva il linguaggio ordinario
non costituisce il punto d’arrivo della disamina filosofica, bensì l’autentico punto di
partenza per inaugurare una nuova riflessione in grado di cogliere non tanto una
mitica verità assoluta, definitiva ed irrelata, bensì quella verità, più delimitata e circoscritta, che si configura entro un determinato e specifico problema che si vuole,
appunto, esaminare. Non per nulla Austin è anche convinto che il lavoro filosofico
- coincidente con l’analisi del linguaggio ordinario - possa e debba essere svolto in
stretto collegamento tra i vari studiosi, onde dar vita ad un autentico lavoro di équipe,
analogo a quello che in genere è posto in essere nei gruppi di lavoro degli scienziati.
Nel tentativo di approfondire questo suo approccio “fenomenologico” (e
“descrittivo”) allo studio del linguaggio ordinario, Austin ha poi dedicato un’attenzione specifica a quegli enunciati che ha chiamato performativi giacché queste
espressioni, a differenza delle asserzioni costative (coincidenti con gli enunciati
dichiarativi mediante i quali si esprime la proprietà del vero o del falso), posseggono la funzione specifica di favorire l’effettuazione di una determinata azione.
Meglio ancora, come scrive Austin stesso, «formulare un tale enunciato [performativo] è effettuare l’azione, azione che, forse, non si potrebbe compiere, almeno con
una tale precisione, in nessun altro modo»17. Gli enunciati performativi sono dunque vere e proprie azioni, che aiutano a compiere una determinata operazione
(come scusarsi, battezzare una nave, formulare un consiglio, dare il benvenuto,
ecc.). Pur non avendo a che fare con la dimensione della verità e della falsità (poiché non descrive e non constata alcunché), tuttavia anche un enunciato performativo può essere «nullo e senza effetto», oppure può risultare «infelice» per abuso
(mancanza di sincerità) o per rottura di un impegno (prometto qualcosa che poi non
manterrò). D’altro canto il performativo si può invece realizzare se esistono specifiche condizioni di felicità all’interno di determinate procedure accettate e codificate da una comunità di parlanti. Proprio il tentativo di sviluppare una coerente teoria dei performativi e le difficoltà incontrate nel perseguire questo scopo indussero
ben presto Austin a delineare un punto di vista molto più generale, una vera e propria teoria degli atti linguistici, in base alla quale giunse ad affermare che ogni
espressione linguistica possiede sempre un aspetto performativo.
Su questa base Austin ha così cercato di costruire un’interessante e più sistematica teoria degli atti linguistici per mezzo della quale è riuscito infine ad individuare vari tipi di usi del linguaggio. Sempre convinto che l’atto linguistico costituisca,per sua natura intrinseca,il solo fenomeno reale del linguaggio (nonché l’oggetto privilegiato della teoria del linguaggio), Austin distingue tre fondamentali e
differenti atti linguistici: la locuzione [locutionary] (cioè l’atto locutorio mediante il
quale si pronunciano determinate espressioni), l’atto illocutorio [illocutionary] (vale
a dire l’atto compiuto nell’affermare una determinata espressione) e l’atto perlocuto rio [perlocutionary] (idest l’azione specifica che viene esercitata sull’interlocutore).
Non solo: in relazione all’atto locutorio Asutin distingue poi l’aspetto fonetico (la
produzione dei suoni), quello fatico (relativo alle frasi e alle parole che appartengono
ad una determinata lingua storica) e quello retico (l’uso delle frasi e delle parole con
un senso e un riferimento specifico). All’interno di questa teoria degli atti linguistici
Austin pensava inoltre che sarebbe stato possibile considerare le asserzioni denotative come una classe specifica di atti linguistici accanto agli altri atti espressivi18 e riteneva anche che la teoria semantica del senso e del riferimento potesse essere riformulata, più agevolmente, ricorrendo alla distinzione tra atti locutori e atti illocutori.
Ebbene, come in genere è ammesso dai vari interpreti19, questa distinzione tra i
differenti usi del linguaggio delineata da Austin trova una sua singolare ispirazione in
alcune puntuali considerazioni sviluppate da Aristotele. Per esempio nel De interpre -
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5 Austin, la teoria degli atti linguistici, l’influenza di Aristotele e l’esigenza di una
“fenomenologia linguistica»
tatione nel quale si afferma espressamente che
«ogni discorso [logos] è poi significante [semantikos], non già alla maniera di uno strumento naturale, bensì, secondo quanto si è detto, per convenzione. Enunciativi [apophantikos] sono, però, non già tutti i discorsi, ma
quelli in cui sussiste un’enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione
non sussiste certo in tutti: la preghiera, ad esempio, è un discorso, ma non
risulta né vera né falsa. Prescindiamo dunque dagli altri discorsi, dal
momento che l’indagine al riguardo è più pertinente alla retorica o alla poetica»20.
Oltre a instaurare un confronto analitico tra la distinzione introdotta dallo
Stagirita e quanto teorizzato da Austin occorre naturalmente tener ben presente
come nel De intepretatione Aristotele abbia sviluppato non solo una trattazione
alquanto esauriente e rigorosa delle categorie sintattiche del discorso, ma abbia
anche definito i molteplici componenti elementari del discorso (i nomi, i nomi individuali e collettivi, le flessioni dei nomi, le negazioni dei nomi, i verbi con connessa flessione e negazione) unitamente ai componenti composti del discorso (proposizioni affermative e negative, singolari, universali, proposizioni composte, ecc.),
mettendo capo ad una catalogazione che sostanzialmente è rimasta definitiva fino ai
tempi della logica simbolica21. Né può essere dimenticato come nell’opera logica di
Aristotele sia introdotta una sottile ma decisiva distinzione tra il logo semantico
(attinente un discorso che si limita a “significare”) e il logo apofantico (il quale
invece, come si è visto, costituisce un discorso “che afferma e che nega”), mediante la quale lo Stagirita è chiaramente avvertito del fatto che la codificazione del
significato dei termini attuata dal logo semantico (che può utilizzare anche enunciati dichiarativi o descrittivi) si svolge tuttavia su un piano dell’affermazione
discorsiva che non coinvolge ancora la questione del vero e del falso giacché non
implica un affermare o un negare in senso proprio. Senza coinvolgere la questione
del vero e del falso - tipica espressione del logo apofantico - il logo semantico utilizza comunque enunciati effettivi, mediante i quali instaura precisi significati. Di
contro solo entro il logo apofantico si istituisce, attraverso la nozione centrale del
riferimento, la nozione della verità.
In ogni caso la sistematicità dell’impianto della riflessione logica di Aristotele
si completa poi con il rinvio - già emerso nella parte finale della precedente citazione - alla Retorica e alla Poetica, opere nelle quali lo Stagirita precisa quali siano,
entro i discorsi, i mezzi più adatti per ottenere la persuasione dell’ascoltatore proprio perché definisce «la retorica come la facoltà di scoprire in ogni argomento ciò
che è in grado di persuadere»22. Sempre nella Retorica, studiando più direttamente
le argomentazioni tecniche, Aristotele afferma quanto segue:
«delle argomentazioni procurate col discorso tre sono le specie: le une
risiedono nel carattere dell’oratore, le altre nel disporre l’ascoltatore in una
data maniera, le altre infine nello stesso discorso, attravero la dimostrrazione o l’apparenza di dimostrazione».
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Anche in questo caso ci si trova dunque di fronte ad una classificazione di differenti atti linguistici i quali, se non possono essere immediatamente ricondotti alla
distinzione di Austin tra atti locutori, illocutori e perlocutori, tuttavia attestano una
singolare sintonia di fondo tra le due analisi. Del resto come dimenticare che
l’Organon aristotelico dedica anche un’attenzione specifica, nei Topici e nelle
Confutazioni sofistiche, allo studio e alla raccolta delle regole pratiche, degli schemi di dimostrazione e delle analisi delle pseudo-sottigliezze dei ragionamenti?
6. Considerazioni conclusive
Questi singolari parallelismi e questi interessanti esempi - che mostrano dunque un singolare intreccio tra la riflessione di alcuni filosofi analisti e alcuni testi di
Aristotele - potrebbero essere agevolmente sviluppati e moltiplicati. Per esempio, si
potrebbe ricordare l’indubbia relazione che sussiste anche tra la distinzione, introdotta da Ryle, tra la riduzione all’assurdo “debole” e quella “forte” (illustrata nella
disamina della struttura degli argomenti filosofici consegnata alle pagine del volume di Ryle Philosophical Arguments 23), con la classica distinzione introdotta da
Aristotele, negli Analitici primi, tra la «dimostrazione per assurdo» [apodeixis eis
to adynaton] e la «confutazione» [elenchos]. Infatti se la prima viene definita dallo
Stagirita come una dimostrazione che distrugge una determinata tesi «riducendola
a ciò che è stato ammesso essere falso» 24, d’altro canto la seconda è invece qualificata dall’autore della Metafisica come una sorta di «deduzione della contraddizione» in cui una situazione è dedotta prendendo le mosse da una premessa che risulta essere in contrasto con la conclusione25. Analogamente Ryle sostiene che la
reductio ad absurdum debole è quella che si trova illustrata in alcune dimostrazioni di Euclide nelle quali l’autore degli Elementi «dimostra la verità di un teorema
deducendo da un teorema che lo contraddice conseguenze contrastanti con gli
assiomi del primo sistema o con conseguenze tratte da questi». Di contro - osserva
ancora Ryle - «la riduzione forte consiste nel dedurre da una proposizione o da un
complesso di proposizioni, conseguenze incoerenti fra loro oppure rispetto alla proposizione originale». Nei termini utilizzati da Ryle la «dimostrazione per assurdo»
descritta da Aristotele appare quindi “debole”, poiché dimostra unicamente che una
conclusione risulta essere in contrasto con un assunto ammesso come vero, mentre
la confutazione non può invece non risultare “forte” nella misura in cui dimostra
una conclusione che appare essere in contrasto evidente con la stessa premessa dalla
quale è ricavata per via deduttiva, generando, in tal modo, una palese contraddizione (che rende l’intero sistema inconsistente da un punto di vista logico).
Tuttavia, in questa sede, invece di insistere su una più ampia analisi di questi
pur interessanti e stimolanti parallelismi26, occorre invece indicare alcune considerazioni che aiutino a meglio focalizzare sia l’aspetto didattico-educativo del rapporto che può essere instaurato tra la filosofia analitica e lo studio dei classici del
pensiero, sia il suo preciso ed autonomo valore culturale (e filosofico).
Per quanto concerne il primo aspetto alla luce di quanto si è ricordato dovrebbe risultare abbastanza evidente che il percoso didattico-educativo che in questo
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caso può essere realizzato si configura, di volta in volta, come autenticamente plurale e molteplice. Si può infatti partire da alcune analisi svolte dai filosofi del linguaggio ordinario per poi risalire alle classiche disamine aristoteliche, oppure si
può procedere in modo esattamente inverso. In entrambi i casi quel che conta non
è mai un estrinseco ed astratto ordine cronologico (dal Novecento al IV secolo a.
C., oppure, con percorso inverso, dall’antichità ad oggi27). Semmai, in entrambi i
casi, occorre impostare le lezioni partendo sempre dalla centralità dei testi, onde
recuperare, nella lettura delle singole argomentazioni filosofiche, l’analisi della
struttura dei discorsi, delle connessioni sintattiche e di quelle semantiche. Solo su
questa base analitica e critico-intepretativa può infatti essere posto in debita evidenza tutto lo spessore storico-culturale dei testi studiati. Solo ancorandosi puntualmente al testo è possibile recuperare sia l’autentico spessore storico-critico della
pagina che si vuole leggere ed intendere, sia cogliere il suo specifico ed autonomo
contributo al dibattito teorico che pure si incarna entro una determinata tradizione di
pensiero (o all’interno di un singolare intreccio tra differenti tradizioni di pensiero).
Riconoscendo la centralità del testo filosofico è possibile recuperare anche una
lettura, aperta e plurale, del discorso filosofico, favorendo, al contempo, una comprensione criticamente articolata del discorso il quale può sempre essere analizzato
da differenti prospettive “ermeneutiche”. Del resto è sempre all’interno di questa
scelta critico-interpretativa, costantemente ancorata ai testi, che può essere focalizzata, in tutta la sua reale e complessa configurazione stori c a ,a n che la presenza di dif ferenti tradizioni storiografiche le quali hanno variamente interagito con il pensiero
dei classici, esercitando, in tal modo, un’influenza davvero non secondaria anche nel
dibattito contemporaneo, perlomeno nella misura in cui hanno contribuito a consegnarci questa o quella determinata immagine di un filosofo e di una filosofia.
Inoltre, in terzo luogo, il privilegiamento dei testi consente anche di far meglio
intendere, nella loro autonomia (relativa ma specifica), i problemi teorici oggettivi
che nascono entro le pagine dei filosofi, restituendo loro tutto il loro autonomo
spessore storico-culturale. E’ anche nel testo che si può sconfiggere l’immagine di
una filosofia che si sviluppa de claritate in claritatem, ma è sempre nell’ambito dell’analisi testuale che si può anche recuperare tutta la validità teoretica della riflessione filosofica.
Per quanto concerne, inoltre, le interconnessioni trans-disciplinari, mi pare evidente come pressoché tutti gli autori della filosofia linguistica, più di altri pensatori legati ad altre tradizioni di pensiero, offrano anche un’opportunità didattica
aggiuntiva, poiché consentono di individuare differenti percorsi di riflessione sul
linguaggio delle varie discipline. Sono proprio questi percorsi di riflessione che
possono poi aiutare concretamente il discente (e lo stesso docente), in modo davvero non secondario, a recuperare la problematicità e la plasticità semantica delle
singole discipline, consentendo loro di porre in discussione critica costante ogni
dogmatica gerarchia pregiudiziale del sapere.
Infine, sul piano più strettamente teoretico e culturale, occorre invece osservare
che se la filosofia analitica del linguaggio comune inclina spesso a ritenere – ripetendo un celebre rilievo del secondo Wittgenstein28 – che lo scopo della filosofia
consisterebbe unicamente nell’«indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola»,
ebbene, allora i classici del pensiero, con il loro stesso magistero filosofico, costituiscono anche un fecondo e attuale modello critico per ricordarci, costantemente,
che la filosofia non è una bottiglia e che l’uomo non è una mosca.
1 - Cfr. G. RYLE, On Thinking, ed. by K. Kolenda, Basil Blackwell, Oxford 1979, ed.
it. Pensare pensieri, a cura di G. Melilli Ramoino,Armando Editore, Roma 1990, p. 39, corsivi nel testo. La cit. che segue immediatamente nel testo è invece tratta da p. 99.
2 - Cfr., in particolare, il capitolo Pensare e dire, alle pp. 103-17 dell’ed. it. cit.
3 - G. P RETI, Saggi filosofici, La Nuova Italia, Firenze 1976, 2 voll., vol. II, pp. 283284, il primo corsivo è mio, il secondo è nel testo. La cit. è tratta dal saggio Filosofia e sto ria della filosofia (originariamente apparso nel 1960 sul «Giornale Critico della Filosofia
Italiana», 39, pp. 94-103) consacrato alla discussione dell’articolo di Eugenio Garin,
Osservazioni preliminari a una storia della filosofia apparso nello stesso periodico (1959,
38,pp. 1-55) e successivamente ripubblicato nel volume di E. GARIN, La filosofia come sape re storico. Con un saggio autobiografico, Laterza, Roma-Bari 1990, alle pp. 33-86.
4 - A. MONTI, Scuola classica e vita moderna, intr. di F. Antonicelli, Einaudi, Torino
1968, p. 25. Il volume di Monti uscì tuttavia in prima edizione nel marzo del 1923 presso le
«Edizioni de la Rivoluzione Liberale scelte e pubblicate per cura di Piero Gobetti».
5 - E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 29-30. Per un
ulteriore approfondimento di questi temi sia lecito rinviare al mio volume Socrate bevve la
maieutica e morì. Quale futuro per la scuola italiana?, Colonna Edizioni, Milano 1997, in
particolare alle pp. 134-158.
6 - I. KANT, Critica della ragione pura, intr., tr. e note di G. Colli, Adelphi, Milano
1976, pp. 810-811, corsivo nel testo.
7 - In questa sede, per un profilo introduttivo a questa corrente di pensiero, basti rinviare al capitolo di D. M ARCONI, Filosofia del linguaggio pubblicato nel primo volume, Le
filosofie speciali (alle pp. 365-460), dell’opera collettiva La filosofia diretta da Paolo Rossi,
(Utet, Torino 1995,4 voll.),unitamente al capitolo di A. PAGNINI, Filosofia analitica che figura invece nel quarto volume, Stili e modelli teorici del Novecento (alle pp. 147-187) della
medesima opera, nonché al libro collettivo Introduzione alla filosofia analitica del lingua g gio, a cura di M. Santambrogio, Laterza, Roma-Bari 1992.
8 - Naturalmente anche in questo caso questa lezione è ben lungi dall’essere del tutto
omogenea e riducibile ad unico standard rigido e monolitico.
9 - Per una disamina di questi influssi non resta che rinvare al terzo capitolo dell’ope ra già citata di E. B ERTI, Aristotele nel Novecento (cfr. le pp. 112-185).
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NOTE
10 - G. RYLE, The Concept of Mind, apparso originariamente a Londra nel 1949 e tradotto con il titolo Lo spirito come comportamento da F. Rossi-Landi in un’edizione edita inizialmente a Torino da Einaudi e successivamente ripubblicato da Laterza (Roma-Bari 1982,
p. 38) da cui si trae la cit. riportata nel testo.
11 - «Ma con un uomo del passato storico non c’è dialogo. (…) Platone appartiene ad
un altro presente, non al mio presente. Posso “dialogare” con Platone se, e solo se, fermandoni a mere analogie esterne, formali, traduco (ma la traduzione è sempre pericolosa e illusoria!) il suo discorso nel mio universo di discorso, lo tr avaluto nei significati e categorie
della mia cultura» (G. PRETI, Saggi filosofici, cit., vol. II, p. 288, i corsivi sono nel testo).
12 - L. WITTGENSTEIN, Philosophische Untersuchungen. Philosophical Investigations,
herausgegeben von G. E. M. Anscombe und R. Rhees, Blackwell, Oxford 1953, tr. it. di M.
Trinchero e R. Piovesan, Ricerche logiche, ed. italiana a cura di Mario Trinchero, Einaudi,
Torino 1983, § 11, p. 15.
13 - Cfr. op. cit., § 12, ibidem.
14 - Cfr. L. WITTGENSTEIN, Tractatus Logico-Philosophicus, Routledge & Kegan Paul
Ltd, London 1922, 19556, p. 42 («Das logische Bild der Tatsachen ist der Gedanke», 3) e p.
43 («The lo gical picture of the facts is the thought», 3) unitamente alla tr. it. del Tractatus,
con testo originale a fronte, curata da A. G. Conte, Einaudi, Torino 1989, pp. 20-21.
15 - Cfr. la prop. 4.0311 del Tractatus: «un nome sta per una cosa, un altro per un’altra
cosa e sono connessi tra loro: Così il tutto presente - come un quadro plastico - lo stato di
cose» (tr. it. cit., p. 49).
16 - Cfr. L. WITTGENSTEIN, Philosophische Bemerkungen, herausgegeben von R. Rhees,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1964, intr. e tr. it. di M. Rosso, Osservazioni filosofiche ,
Einaudi, Torino 1976, § 54, pur tenendo presente che in Wittgenstein il significato della
“grammatica”non è univoco poiché può indicare tanto l’insieme delle regole per l’uso di una
determinata espressione, quanto la descrizione di quest’uso (cfr. Philosophische Grammatik,
Blackwell, Oxford 1969, ed. it. a cura di M. Trinchero, Grammatica filosofica, La Nuo va
Italia, Firenze 1990, § 23, pp. 25-26: «definirò: il luogo di una parola nella grammatica è il
suo significato. Ma posso anche dire: il significato di una parola è ciò che è spiegato dalla
spiegazione del significato. (…) La spiegazione del significato spiega l’uso della parola.
L’uso della parola nel linguaggio è il suo significato. La grammatica descrive l’uso delle
parole nel linguaggio. Dunque sta al linguaggio come la descrizione di un giuoco, come le
regole del giuoco stanno al giuoco»).
17 - AUSTIN, Performativo-costativo, tr. it. di F. Barone apparsa nel capitolo
Neopositivismo e filosofia analitica pubblicato nella Grande antologia filosofica, diretta da
M. F. Sciacca, coordinata da M. A. Raschini e P. P. Ottonello, nel vol. XXVIII, Il pensiero
contemporaneo (Marzorati, Milano 1977; il capitolo di Barone si trova alle pp. 1-449, mentre il testo di Austin è alle pp. 338-348).
18 - Per la precisione, per Austin le asserzioni denotative sono da considerarsi un caso
specifico di un sottocaso di un atto liguistico, poiché sono interpretabili come espressioni
espositive le quali, a loro volta, costituiscono un atto linguistico connesso con una modalità
particolare dell’uso della forza illocutoria connessa con l’affermazione di un determinato
enunciato.
19 - Per le indicazioni specifiche cfr. E. B ERTI, Aristotele nel Novecento, cit., in particolare le pp. 120-126, unitamente ai connessi rimandi bibliografici che si sono puntualmen te tenuti presenti anche nel testo.
20 - ARISTOTELE, De interpretatione 4, 16b 33-17a 7, tr. it. di G. Colli in Aristotele,
Opere, Laterza, Roma-Bari 1973, 11 voll., vol. I, p. 55 (la traduzione utilizzata nel testo è
stata lievemente modificata).
21 Come ha osservato Evandro Agazzi la logica simbolica moderna «ha introdotto in
fondo una sola novità: quella di applicare ad un linguaggio artificiale tali distinzioni che lo
Stagirita, e dopo di lui tutta la tradizione logica, avevano inteso invece solo come un modo
per analizzare la struttura del linguaggio comune» (E. AGAZZI, La logica simbolica, La
Scuola, Brescia 1974 3, p. 77).
22 - ARISTOTELE, Retorica, I, 2, 1355b 25-26, tr. it. di A. Plebe in Aristotele, Opere, cit.,
vol. X, p. 7. La cit. che segue immediatamente nel testo è invece tratta da I,2,1356a 1-4 (ibi dem).
23 - G. RYLE, Philosophical Arguments, Oxford University Press,Oxford 1945, tr. it. del
saggio La struttura degli argomenti filosofici nel volume Il neoempirismo, a cura di A.
Pasquinelli,Utet, Torino 1969,pp. 780-802,in particolare cfr. le pp. 783-784 da cui sono tratte le cit. che seguono immediatamente nel testo.
24 - ARISTOTELE, Analitici primi, II 14, 62b 30-32,tr. it. di G. Colli, in Aristotele, Opere,
cit., vol. I, p. 225 (la tr. cit. nel testo è stata modificata).
25 - Cfr. ARISTOTELE, Analitici primi, II, 20, 66b 9-11, tr. it. in Aristotele, Opere, cit.,
vol. I, p. 239.
26 - Per una loro puntuale illustrazione non resta del resto che rinviare nuovamene al
testo di E. BERTI, Aristotele nel Novecento, cit., pp. 112 ss, che insiste, giustamente, nel mettere in evidenza anche l’influenza esercitata sui pensatori britannici sia dall’«Aristotelian
Society», sia dallo studio filologico delle opere dello Stagirita promossa ad Oxford da studiosi come W. D. ROSS, autore di una famosa monografia su Aristotele (pubblicata nel 1923),
nonché direttore, con J. A. S MITH, della classica traduzione oxoniense di tutto il corpus ari stotelicum (apparso tra il 1908 e il 1951).
27 - Già MONTI osservava che «gli antichi sono i più moderni, i novissimi sono i più
antichi» (A. Monti, Scuola classica e vita moderna, cit., p. 25).
28 - L. WITTGENSTEIN: «Qual è il tuo scopo in filosofia? - Indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola» (cfr. L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, tr. it. cit., p. 137).
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