Relazione di Rosanna Greci e Marina Savi Viaggio della memoria: il confine orientale 21 – 24 ottobre 2015 Scuole aderenti: Liceo Classico “Romagnosi” (scuola di testa, Liceo scientifico“Ulivi”, Istituto tecnico commerciale “Melloni” e Istituto tecnico per geometri “Rondani”) Il progetto ha previsto la visita al memoriale del campo di Gonars nel pomeriggio del 21 ottobre, con l’intervento della storica Alessandra Kersevan. Nel cimitero del paese è presente il monumento commemorativo, fatto costruire dalla Repubblica Jugoslava nel 1973 e comprensivo di due recenti stele separate, slovena e croata, collocate intorno alla metà degli anni Novanta. Questo ha suggerito una riflessione sulla difficoltà di mantenere unita la memoria storica. La presentazione della professoressa Kersevan ha permesso di ricostruire la storia dell’occupazione italiana della Slovenia durante la seconda guerra mondiale, e il culmine della politica di italianizzazione della popolazione slovena, insieme alla repressione degli oppositori politici. Del campo rimane oggi solo un monumento commemorativo alle vittime, esterno al cimitero. Oltre a Gonars, sono sorti altri campi con la stessa funzione in Italia e in Istria, come quello di Rab, nell’isola di Arab nel luglio 1942. I dati degli sloveni internati nei campi italiani riguardano da 4500 a 6/7000 persone; la storiografia jugoslava invece ne riporta 11.000. L’applicazione di sistematici metodi repressivi alimenta il numero degli internati di Gonars fino all’8 settembre, quando gli internati, protetti dai partigiani, vengono accompagnati nei loro paesi di origine. Questo vale anche per altri campi in Italia: di conseguenza molti sloveni e croati hanno dato il loro contributo alla guerra di liberazione perché ,fuggiti dai campi di internamento o dai paesi in cui erano internati liberi, sono rimasti a combattere tra i partigiani. D’altro canto, è bene ricordare che molti soldati italiani sono andati a combattere con l’esercito di liberazione jugoslavo. In merito alla storia del confine orientale , la storica ha sottolineato il lungo periodo di silenzio sui crimini avvenuti, e ricordato che solo nel 1992 si è costituita una Commissione mista di storici italiani e sloveni sul problema del confine orientale. Nel 2001 essa ha prodotto una relazione, che però il governo italiano non ha reso pubblica, a testimonianza della difficoltà di costruire una memoria condivisa. Anche l’istituzione della Giornata del ricordo lo conferma, presentando gli italiani solo come vittime di crimini contro l’umanità. Del campo di Gonars è rimasta una raccolta di disegni, pubblicati col titolo “Inverno d’Italia”. Il viaggio ha proseguito poi per la Slovenia ed ha previsto il pernottamento a Lubiana, da dove nella mattinata del 22 ottobre siamo partiti alla volta del Museo degli ostaggi di Begunje. Qui immediatamente dopo l’occupazione tedesca nel 1941, vengono aperte delle prigioni all’interno di un antico castello tardo-medioevale. Vi sono stati rinchiusi gli arrestati e deportati della resistenza jugoslava, in particolare dopo il settembre 1943, quando le province di Trieste, Goirizia, Udine, Pola, Fiume e Lubiana furono riunite nella speciale zona di operazione definita Adriatisches Küstenland. Gli studenti sono stati molto colpiti dalle scritte incise sui muri o sulle porte delle celle, che testimoniano sia la volontà di reagire al terrore sia il desiderio di lasciare una traccia della propria condizione di vittime della repressione. Molti di questi prigionieri furono poi spediti nei campi di concentramento del Reich. Al Museo nazionale di storia contemporanea di Lubiana siamo stati accolti dalla storica Nevenka Troha, una delle componenti della commissione italo-slovena per gli accordi sul confine orientale. La ricostruzione storica accurata ha permesso di seguire le vicende delle regioni sul confine orientale a partire dal Trattato di Rapallo del 1920 alla fine della seconda Guerra mondiale. Particolarmente interessante è stata l’analisi del processo di costituzione della Resistenza armata slovena dal 1941 e dei modi con cui anche la popolazione civile vi ha partecipato. Mentre si sviluppa il movimento di liberazione, si inaspriscono le misure repressive sa parte dell’esercito italiano, tra cui l’internamento degli oppositori in diversi campi di concentramento, tra cui Gonars e Rab . Dopo la resa dell’esercito italiano nel settembre 1943 e la costituzione dell’ Adriatisches Küstenland, si avvia una stretta collaborazione tra il movimento di liberazione sloveno e gli alleati. La lotta di resistenza alimenta la rinascita dell’identità nazionale e culturale anche con la pubblicazione clandestina degli scritti dei suoi massimi rappresentanti, come il poeta romantico France Preseren, a cui si devono i versi dell’inno nazionale sloveno. In questo contesto Trieste rappresenta per gli sloveni un simbolo di cambiamento, tanto che viene attaccata da Tito prima di Lubiana nel maggio 1945. E’ questo il momento più critico per il movimento di liberazione italiano, diviso tra gli aderenti al disegno di Tito, che mirava ad espandere la Repubblica jugoslava fino al Tagliamento, e gli antifascisti più legati al progetto di liberazione dell’Italia dallo straniero, salvaguardandone i confini definiti col primo conflitto mondiale. In questo quadro si collocano la brigata italo-slovena Garibaldi- Natisone e il drammatico eccidio di Porzûs. La storica ha spiegato il lungo silenzio su queste vicende con la ferma volontà di ricostruire lo stato italiano, dopo il ventennio fascista, sui valori della Resistenza, in un contesto storico già segnato dalla guerra fredda. Il percorso si è concluso a Trieste il giorno 23 ottobre. Una delle tappe è stata la visita alla Risiera di San Sabba. Costruita nel 1898 per la pulitura del riso, venne utilizzata dapprima come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani dopo l’8 settembre ’43. In seguito venne destinata sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei. Fu dotata perciò di un forno crematorio e divenne un campo di sterminio, l’unico in Italia. Prima della seconda guerra mondiale gli ebrei triestini erano circa 5000. Dopo le leggi razziali fasciste del 1938 e l’istituzione anche a Trieste di uno dei famigerati ”Centri per lo studio del problema ebraico” (erano quattro in tutta Italia), molti ebrei decisero di emigrare all’estero. Ciononostante i nazisti riuscirono a deportare nei campi di sterminio più di 700 ebrei triestini. Di questi solo una ventina sopravvissero e fecero ritorno. Nella Risiera, inoltre, accanto agli ebrei triestini furono imprigionati e poi deportati anche moltissimi ebrei catturati in Veneto, in Friuli, a Fiume e in Dalmazia. Gli ebrei sono stati molto importanti per la storia di Trieste: occupavano posizioni di rilievo nei settori dell’economia, della finanza e della cultura: per esempio la storica pasticceria La bomboniera era di proprietà di ebrei ungheresi, Rodolfo Ulman, impresario teatrale, e Giuseppe Morpurgo, un magnate delle assicurazioni che morì alla fine dell’Ottocento. Negli anni Trenta vi era a Trieste un forte movimento sionista, di cui era presidente proprio uno dei discendenti della famiglia Morpurgo, Carlo. Si era anche costituito un comitato che aiutava gli ebrei che provenivano dalla Germania ad imbarcarsi per la Palestina. Gli ebrei triestini vissero serenamente fino 1938, quando vennero applicate le leggi razziali, che furono annunciate da Mussolini proprio in un discorso tenuto a Trieste in piazza Unità d’Italia, e nel contempo gli inglesi alzarono una barriera all’immigrazione in Palestina, . Dall’ottobre 1943 Trieste fa parte del Litorale Adriatico, il cui governo venne affidato da Hitler a Friedrich Rainer, nazista austriaco che odiava l’Italia e che assunse tutti i poteri politici e amministrativi in breve tempo. Sono alle dipendenze delle SS le formazioni della milizia fascista e i vari reparti di polizia, tutti impiegati anche nelle operazioni di rastrellamento. Tra questi l’Ispettorato Speciale di P. S. per la Venezia Giulia, agli ordini dell’ispettore generale Giuseppe Gueli, la cui sede era nella cosiddetta ”Villa Triste” di via Bellosguardo, creato sin dall’aprile 1942 con specifici compiti di repressione della guerra partigiana e di controllo della classe operaia nelle grandi fabbriche. Tale Ispettorato – la cui sezione operativa divenne tristemente nota come ”banda Collotti”, dal nome del suo comandante, il commissario Gaetano Collotti – continuò il suo ”servizio” anche dopo l’8 settembre fornendo ai tedeschi una preziosa e fattiva collaborazione contro gli antifascisti e nella cattura degli ebrei. Nel gennaio – marzo 1944, i nazisti trasformarono l’ essiccatoio del riso in forno crematorio, in grado di incenerire un numero maggiore di cadaveri, secondo il progetto dell’”esperto” Erwin Lambert, che già aveva costruito forni crematori in alcuni campi di sterminio nazisti in Polonia. Questa nuova struttura venne collaudata il 4 aprile 1944, con la cremazione di settanta cadaveri di ostaggi fucilati il giorno prima nel poligono di tiro di Opicina. L’edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Nella Risiera furono deportate circa 20.000 persone, di cui ben 5000 persero la vita, vittima delle pratiche della fucilazione o della gassazione Il professor Franco Ceccotti dell’Istituto Storico per la Resistenza di Trieste ci ha guidato nella visita ai principali luoghi della città, pertinenti al percorso fin qui condotto: in particolare Piazza Unità d’Italia, il cuore economico- finanziario della città, la sinagoga, una delle più sontuose sinagoghe d’Europa fatta costruire nel 1912 e distrutta internamente dai fascisti nel 1942, l’edificio denominato Narodni Dom, sede della casa della cultura slovena incendiato nel 1920 da squadre fasciste, nel contesto di una politica di una aggressiva italianizzazione forzata delle minoranze slovene e croate, il comando delle SS in piazza Oberdan. Il viaggio si è concluso con la visita alla foiba Plutone e al monumento commemorativo delle vittime delle foibe, presso il pozzo di miniera Basovizza nella mattinata del 24 ottobre. L’infoibamento fu una pratica adottata dopo l’8 settembre 1943 in Istria contro gli italiani: rappresentanti dello stato, carabinieri, guardie, con l’intenzione di eliminare tutta l’amministrazione italiana. Una seconda ondata di infoibamenti si verifica nella primavera di due anni dopo con l’occupazione della Venezia Giulia da parte dell’esercito jugoslavo. I partigiani slavi che conquistano Trieste nel maggio 1945 processano e condannano fascisti, militari e forze di polizia dello stato italiano, esponenti della borghesia italiana, molti dei quali vengono infoibati. Fra gli uccisi vi erano anche i responsabili di violenze, protagonisti di rappresaglie e gli aguzzini del famigerato ispettorato di Polizia per la Venezia Giulia. Furono vittime però anche alcuni membri del CLN che non accettavano la subordinazione al progetto titino e civili inermi, talora giustiziati dopo processi sommari, anche in seguito a denunce anonime. Secondo la storiografia più accreditata, le vittime si aggirano intorno alle 5000 unità. Il compimento del viaggio richiede la visita al Campo San Marco di Fossoli, che è stata effettuata in seguito. Il campo di Fossoli, già tristemente noto come campo di transito per molti ebrei e antifascisti che dopo l’8 settembre ’43 furono poi inviati in campi di concentramento o di sterminio tedeschi, divenne dopo la fine della seconda guerra mondiale il campo San Marco, dove trovarono un rifugio molti dei profughi istriani fuggiti, in particolare da Pola e da Fiume, dal 1947 al 1954, con il consolidarsi del governo jugoslavo e l’acquisizione del trattato di Londra. Testimonianze dal viaggio sul confine orientale CLASSE III C Gonars NOME É cominciato tutto con quei rintocchi, il memoriale di Gonars ha aperto il nostro viaggio. Quel suono ripetuto ha scandito i momenti dedicati alla conoscenza di altri momenti, quelli che non sono chiari, che vedono l'Italia come carnefice, i momenti del "confine orientale". Quei rintocchi ci hanno invitato a comprendere, liberi dai legami di una storia che non dobbiamo giustificare; a emozionarci, a crescere imparando. L’intento di un viaggio della memoria in genere è piuttosto chiaro: rendere semplicemente consapevoli di quali mali abbiano sofferto milioni di persone durante la guerra, capendone le cause da un punto di vista storico. Grazie al viaggio che ho compiuto ho capito che non è cosí. Il fatto, appreso al campo di Gonars, che il governo italiano abbia censurato fino al 1989 un documentario della BBC nel quale venivano mostrati tutti i crimini compiuti durante la guerra è stato per me motivo di riflessione, e mi ha spinto a considerare la memoria di ció che di terribile è accaduto in modo meno banale, meno scontato. Grazie a questo viaggio sono diventato certo del fatto che attraverso il ricordo di un evento storico tragico l’essere umano abbia l’occasione di prevenire i mali di simile portata che si presenteranno in un futuro piú o meno prossimo. Sono riuscito a rendermi conto, dunque, probabilmente in ritardo, che la memoria non è un semplice ricordo delle vittime , ma molto di piú: una responsabilitá. Francesco Agrimonti Begunje Ciò che più mi ha fatto riflettere sono le parole dei detenuti incise sui muri delle celle del campo di smistamento di Begunje in gran numero, in particolare le tabelle-calendario utilizzate per contare i giorni e i mesi. I prigionieri costretti nelle loro stanze e lontani dalla realtà perdevano la percezione del tempo ed estraniati inevitabilmente dal mondo erano privati della loro attiva identità nella comunità. Ricordarsi di esistere, pertanto, diventa necessità primaria, l'esigenza di spaziotemporalizzare la propria posizione nel mondo e rendersi conto di vivere ancora, l'ansia spasmodica di sapersi ritrovare. Francesco Azzali Visitando le celle della fortezza di Begunje, ho provato un senso di sconforto incredibile. Fuori, il cielo era terso, l'aria limpida e il sole autunnale illuminava centinaia di colori autunnali sugli alberi e sui prati, mentre dentro il mondo improvvisamente diventa grigio e tetro, la temperatura scende e la luce si ferma fuori dall'edificio, in attesa. Nelle celle si entra attraverso una pesante porta di legno, e non c'è bisogno di aguzzare la vista per notare centinaia e centinaia di disegni incisi sulla superficie, tratti dai quali emergono potenti la rabbia e la disperazione di chi non sa quando attraverserà di nuovo quella porta, ma in senso opposto. Lo spazio è angusto, troppo stretto per accogliere una, due, cinque o sette anime, ma ciò che provoca più strazio è la finestra, quella minuscola breccia sul mondo posta in alto e dotata di sbarre: i prigionieri potevano solo contemplare la luce e uno spicchio di cielo. Il metodo per distruggere la dignità umana è quindi molto semplice: depositare qualcuno in una prigione simile significa privarlo del cielo e della terra, dei colori, della speranza, del continuo flusso di avvenimenti che animano la Terra giorno e notte. Cos'altro gli resta, quindi, se non scalfire le pareti della prigione, in preda ad una convulsa follia, scavare date, nomi, frasi, improperi o semplici scarabocchi? Tentare di aprire un varco di parole, numeri o simboli nel grigio cemento? Mai come a Begunje ho appreso cosa significa davvero MEMENTO MORI. E mai come a Begunje, una volta uscita, sono stata più felice di respirare." Rocio Cortes La Risiera di San Sabba a Trieste Quei colori opachi, sbiaditi delle alte mura e quel freddo umido che penetra nelle ossa e che assale immediatamente, riflettevano lo stato d'animo di chi ottant'anni fa è stato condotto all' interno della Risiera di San Sabba. Tra le pareti delle carceri riecheggiano ancora i pianti di madri, padri, bambini, di giovani uomini e donne che venivano strappati alla loro libertà e dignità. Si sentono ancora le grida severe degli aguzzini che rimproverano e minacciano di uccidere. E poi anche qualche sparo, in lontananza, coperto da una musica altissima: espediente dei tedeschi per occultare le ingiustificabili atrocità. Ricordare nel senso etimologico del termine di "ricondurre al cuore" , è ciò che ho imparato a fare in questo viaggio. Sara Costa Ritengo che questo viaggio mi sia servito per apprezzare la bellezza dell' Europa dei nostri giorni. Europa fatta di condivisione e non di odio reciproco fomentato dalle ideologie per cui un tempo si sono commesse atrocità abominevoli come quelle accadute alla Risiera di San Sabba. Europa che non permette di uccidere e poi gettare uomini, alcuni dei quali non responsabili di colpe, in cavità naturali. Europa sognata da chi lì e in altri luoghi vi è morto. Il nostro compito è difendere questo loro sogno senza farci dominare dall'odio reciproco. Michele Barbarini La risiera di San Sabba è l’unico campo di concentramento italiano dotato di forno crematorio, unica testimonianza sul suolo del nostro paese dello sterminio della Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, nonostante si parli molto dell’importanza della memoria, la risiera non viene mai ricordata, se non in poche parole pronunciate dai giornalisti per una ricorrenza, di sfuggita e velocemente. Ogni popolo deve fare i conti con la propria storia e con la vergogna che talvolta è stata impressa in essa: San Sabba è uno di quei capitoli che si fa fatica a rileggere. Il campo di San Sabba sorse in uno stabilimento per la pilatura del riso e dopo l’armistizio dell’8 settembre fu adibito a campo di prigionia per i militari italiani catturati in quell’occasione. Il mese successivo il suo ruolo si ampliò a campo di smistamento: transitavano di qui coloro che erano destinati a Dachau, Mauthausen ed Aushwitz. In un secondo momento si aggiunse chi era destinato all’eliminazione sul posto, come Sloveni, Croati, partigiani, tenuti separati da quelli che sarebbero poi stati deportati in Germania e Polonia. Un’altra area della risiera era invece riservata ai prigionieri politici. Questi ultimi, dopo essere stati imprigionati per mesi, sottoposti ad interrogatori interminabili e talvolta a torture, in alcuni casi sono stati liberati. Il motivo di questa scelta è tuttora inspiegabile. Qualcuno di loro ha potuto raccontare i giorni della detenzione. Le loro celle si trovavano in una stanza adiacente all’enorme cortile interno della risiera; da lì erano in grado di sentire i movimenti dei soldati tedeschi e, al processo che si tenne anni dopo a Trieste, raccontarono delle notti in cui, dopo aver udito passi confusi di quello che sembrava essere un gran numero di gente, i tedeschi accendevano la musica ad altissimo volume e così il motore dei camion nel cortile. Per un tempo piuttosto lungo la musica restava accesa, i motori in funzione. Quando tornava la calma, si potevano sentire i passi frettolosi dei tedeschi intenti alle proprie occupazioni, ma della folla di gente udita in precedenza non vi era traccia. Alcuni prigionieri cominciarono a pensare che forse quelle persone venissero uccise in quelle ore notturne e che i motori accessi e la musica assordante celassero rumori sospetti, ma l’ipotesi rimase sospesa e quando alcuni di questi prigionieri politici furono liberati, non parlarono di questi strani eventi, per paura, sfiducia nella propria intuizione, senso d’impotenza, spesso forse solo per il desiderio dimenticare la prigionia il prima possibile. Anni dopo, a guerra conclusa, presso la risiera furono ritrovate ossa e ceneri umane tra i detriti del forno crematorio e della ciminiera distrutti dai nazisti nel ’45 durante la loro fuga precipitosa, nel tentativo di cancellare la prova dei crimini commessi. Ciò che è oltremodo traumatico riguardo alla risiera è il fatto che sorgesse a pochi chilometri dal centro di Trieste. Lo sterminio avveniva vicino alla città, in mezzo alla quotidianità triestina, vicino al porto, nella frenesia delle sue attività. Entrando nella risiera, si viene immediatamente isolati dal mondo esterno dalle altissime pareti di cemento che accompagnano il cammino verso la porta d’ingresso, ma in alcuni momenti si possono comunque udire i rumori della vita che scorre giusto lì a qualche metro ed è proprio questo ciò che mi ha impressionato maggiormente durante la mia visita a San Sabba: udendo le macchine che sfrecciavano veloci appena lì fuori e alcune voci distratte, ciò che appariva irreale e lontano non era lo sterminio, ma la vita di tutti i giorni, così tranquilla e certa per tutti noi. Uscendo qualche ora dopo dalla risiera e riprendendo contatto con il mondo esterno, mi sono resa conto come quella realtà parallela mi avesse estraniato, anche solo per poco, dalla mia realtà quotidiana e solo in quel momento mi ha attraversato la sensazione, vera più che mai, che la vita che ho la possibilità di vivere forse abbia qualcosa di miracoloso. Giulia Affanni Ciò che più mi ha colpito del viaggio è stata la visita alla Risiera di San Sabba. Fin dallo stretto corridoio d'ingresso la struttura alimenta un senso di inquietudine e di impotenza, in cui il visitatore si riconosce minuscolo rispetto alle monumentali pareti di cemento. All'interno, racchiusi in una struttura anch'essa chiusa, rimangono gli ultimi segni dell’utilizzo di questo luogo da parte dei nazisti. Particolarmente intensa è stata la visione delle celle dove venivano rinchiusi i prigionieri da sottoporre a interrogatorio: è impressionante vedere in quale angustia fossero costrette a vivere quelle persone, segregate al punto da poter attingere alla luce attraverso un piccolo spiraglio nella porta. Ancora più incredibile è il confronto tra la Risiera e il centro storico di Trieste, due luoghi così vicini nello spazio, ma al contempo così diametralmente opposti, uno simbolo di ricchezza e di splendore, l'altro tristemente passato alla storia come luogo di sofferenza e di morte. La sensazione emotivamente più forte è scaturita dal contrasto tra il centro storico di Trieste e la Risiera di San Sabba, due luoghi così vicini nello spazio, ma al contempo così diametralmente opposti: l’uno simbolo di ricchezza e di splendore, l’altro tristemente passato alla storia come luogo di sofferenza e di morte. In questo si può riscontrare il senso del viaggio della memoria: noi visitatori di oggi non dobbiamo dimenticare il senso di inquietudine e impotenza che abbiamo provato alla Risiera, per migliorare il nostro futuro. Matteo Carabelli Riflessioni generali Per quattro giorni abbiamo camminato nella storia. Ci siamo entrati dentro, nel profondo. Siamo riusciti a penetrarla, superando il limite della memorizzazione di dati fine a sé stessa, dell’ inevitabile distacco che si crea tra noi ed una realtà che ci sembra forse troppo lontana. Abbiamo frantumato questa barriera di tempo e ripercorso un breve tratto di storia, in un contenuto spazio geografico, arrivando ad avere un saggio concreto di quelli che sono i più vasti meccanismi della storia. Abbiamo visto per la prima volta quelle masse indistinte, marginali sulle pagine dei libri di storia, come folle di individui. Abbiamo sentito la loro anima che ancora impregna luoghi come la prigione di Begunje, e ci siamo commossi di fronte al loro disperato tentativo di mantenersi umani, tanto da portare qualcuno di loro a rinunciare alla sua giornaliera razione di pane per realizzare pedine per giocare a scacchi. Questo qualcuno mi ha insegnato quanto sia più importante mantenersi vivi che sopravvivere. In questo continuo contatto con una dimensione storica lontana e diversa, abbiamo avuto l’importante stimolo di porci domande, e la fortuna di poterci rispondere a vicenda o rivolgerci agli storici che ci hanno accompagnato. La condivisione di questa esperienza con i miei compagni è stata per me fondamentale proprio per questo motivo: vedere da varie angolazioni e punti di vista diversi uno stesso avvenimento, una stessa causa, una stessa idea. Eleonora Maggiorelli Bisogna sentire questo viaggio come qualcosa al di fuori del tempo; partendo da un determinato contesto storico, ci ha permesso di guardare alla storia e al passato con occhi più lucidi, onesti, distaccati dal tipico desiderio di fare primeggiare i propri famigliari e connazionali, pur ammettendo la sensibilità, le emozioni, il desiderio di conoscere a fondo quello che era realmente successo. Ci ha permesso di appassionarci e di vedere tutto quello che abbiamo visto attraverso occhi capaci di spaziare: ecco come la storia diventa utile, diventa degna di tale nome!E' lo studio dell' uomo, delle brutalità di cui si è reso schiavo e della sua capacità di rialzarsi. La storia siamo noi che gettiamo uno sguardo a ieri, per evitare di sbagliare di nuovo oggi, senza escludere la spontaneità di ciascuno. Che brutto rendersi conto di come queste cose accadute non vengano realmente ricordate e studiate come meritano.. Ma che bello avere la possibilità di dire: io finalmente incomincio a capire! Francesca Nonnis Dal viaggio sul confine orientale ho potuto ricavare molte informazioni riguardo alla storia di questo territorio e dei popoli che vi abitano, ma soprattutto ho avuto l'occasione di riflettere sulla relatività dei punti di vista: ciò che da noi Italiani viene considerato motivo di vittoria, viene invece ricordato con grande dispiacere dal popolo sloveno, o viceversa. Un esempio è la battaglia di Caporetto del 1917: per noi è una delle più grandi disfatte nella storia dell'esercito italiano, tanto che ancora oggi tale termine viene usato come sinonimo per indicare un evento disastroso, mentre dal popolo Sloveno è ricordato come la Meraviglia del '17. Non ci sono vinti o vincitori assoluti. L'unica vittima è il popolo che abitava in queste zone, caratterizzate da una varietà e molteplicità etnica: italiani, slavi, croati, istriani e tanti altri. Questi civili, in molti casi, sono stati costretti a rinunciare alla loro identità. Gli Italiani hanno messo in atto una feroce politica di italianizzazione di tali territori: hanno distribuito gli sloveni in tante piccole comunità della penisola, privandoli del loro nome e dei loro cari, nel tentativo di eliminare la loro cultura. Anche se questo fatto qui da noi non viene ricordato spesso, in Slovenia è ancora oggi percepito con grande tristezza. Sono quindi contenta di aver avuto modo di entrare in contatto con realtà differenti e di aver potuto raccogliere tante testimonianze di diverse personalità riguardo a quel periodo storico. Arianna Bertolucci Ciò che porto a casa da questo viaggio della memoria è il contrasto tra le immagini così suggestive, i colori così intensi e i paesaggi così sereni e tranquilli di quei luoghi e la storia così dura e carica di sofferenza di cui quegli stessi luoghi sono stati teatro. Come se l’uomo avesse trasmesso alla natura la sua volontà di dimenticare quello che noi siamo andati faticosamente a cercare. Faticosamente sì, perché solo conoscendo e indagando siamo riusciti a ricostruire, almeno in parte, la complessità della storia taciuta dai libri su cui studiamo, scoprendo quanto una memoria fatta di vuoti monumenti sia inefficace. Margherita Donelli La sensazione più emozionante del viaggio al confine orientale è stata condividere il silenzio, la riflessione, lo stupore e il rammarico che quei luoghi hanno suscitato con i miei compagni. È stato terribilmente toccante aver visto i nostri volti, un attimo prima sereni e spensierati, impietrirsi di fronte alle atrocità evocate dalla prigione di Begunje e dalla Risiera di San Sabba. Il boato profondo del monumento commemorativo del campo di Gonars ci ha letteralmente ammutoliti, ci ha parlato di uomini, donne e bambini straziati e sradicati dalle loro case, ci ha resi consapevoli e partecipi della loro grande sofferenza. Francesca Federici Questo percorso fra Gonars, Lubiana e infine Trieste, ci ha permesso di venire a contatto diretto con una pagina nera della storia contemporanea che, purtroppo, non sempre è tenuta in grande considerazione. Con confine orientale si intende Trieste e Gorizia, Istria, Slovenia dell’entroterra e Dalmazia settentrionale soprattutto negli anni che vanno dal 1943 sino al 1954, portando, però, ancora oggi testimonianze di questa divisione. Però questa zona non è stata solo motivo di divisione, ma anche luogo di incontro: proprio su questo confine si sono incontrate le più diverse culture. Il viaggio mi ha portato soprattutto a riflettere sul concetto di umanità e su come gli esseri umani possano arrivare a tanto. L’uomo uccide chi non la pensa come lui, chi è diverso, ma ancora più agghiacciante è il fatto che abbia cercato di eliminare un intero popolo, non solo uccidendo, ma massacrandolo e privandolo della sua cultura. La storia insegna molto e insegna ancora meglio quando ci permette di venire a contatto con testimonianze che devono colpirci con il solo scopo di ricordare cosa è un essere umano e che ognuno di noi ha una dignità umana che va rispettata. E soprattutto la storia del passato deve farci capire anche la storia del presente. Francesca Romana Ferrari Il viaggio sul confine orientale è servito, secondo me, a fare chiarezza su eventi storici che vengono solitamente ignorati dai mass media italiani, in quanto noi italiani non possiamo apparire come carnefici quali invece siamo stati, prima solo con azioni di repressione della cultura delle comunità slovene, serbe, croate oltre che ebree che vivevano in territorio italiano e successivamente anche con l'impiego di campi di concentramento disseminati su tutto il confine. Giuseppe Chiari La nostra classe quest’ anno ha deciso di intraprendere un viaggio sul confine orientale per conoscere e capire tutte le vicende ad esso legate. Il progetto comprendeva, tra le altre cose, anche un viaggio di 4 giorni nelle zone direttamente interessate. Dal 21 al 24 Ottobre siamo dunque andati in prima persona a visitare Ljubjana e Trieste con tappe anche a Gonars, Begunje, alla Risiera di San Sabba e alla foiba di Basovizza. I luoghi da noi visitati ci hanno permesso di approfondire argomenti e tematiche che spesso vengono accantonati, permettendoci così di tenere ancora vive memorie che rischiano di essere dimenticate. Jacopo Attolini Viene molto difficile esprimere le emozioni provate in questo viaggio, perché i giorni trascorsi sono stati molto densi: abbiamo visitato numerosi e bellissimi posti, molti purtroppo tristemente legati ad avvenimenti terribili. Di tutto questo forse non porto a casa elenchi di date, avvenimenti o nomi anche se questo viaggio mi ha aperto gli occhi su una pagina molto vicina della nostra storia che spesso viene taciuta; grazie al contatto diretto con i luoghi della memoria l'ho potuta conoscere, e grazie a ciò posso continuare questo percorso di conoscenza storica anche qui a Parma, in modo da dare più dignità a questo segmento di storia. Però porto, e porterò per sempre con me, forti emozioni che più volte si sono impresse nella mia mente e nel mio corpo che spesso ha rabbrividito ai racconti delle guide e dei professori, sia per tristezza sia per compassione. Questo per dire che il lascito più grande che credo di aver ricevuto da questa esperienza è la consapevolezza che la storia è fatta di persone, alle quali non posso dare un volto ma a cui mi sono sentita vicina perché l'uomo, con la sua vita e dignità, è la cosa più importante da preservare. Laura Delfonte Il viaggio della memoria relativo al confine orientale al quale abbiamo partecipato ritengo sia stato particolarmente utile non solo perché ci ha fatto conoscere, seppur, come è inevitabile, in modo sintetico e ridotto, la storia di questa particolare zona prima dell'avvento del fascismo in Italia, ma anche perché, e questo è il suo grande merito, ha saputo far chiarezza su vicende, come per esempio gli episodi di infoibamenti, che sono state trattate pochissimo, e quando si sono discusse, spesso lo si è fatto strumentalizzandole, vicende che però sarebbe bene che venissero da ora in poi trattate molto più approfonditamente. Martino Zanardi Il viaggio della memoria che abbiamo compiuto alcune settimana fa è stato, a mio avviso, particolarmente interessante in quanto ci ha consentito non solo di visitare due città magnifiche come Lubiana e Trieste, ma anche di maturare una consapevolezza più profonda e sincera su una parte di storia che ignoravamo. Anche se il viaggio è durato solo pochi giorni, si è dimostrato un’esperienza straordinaria, che ha suscitato in ognuno di noi emozioni fortissime e che sicuramente ci porteremo dietro per sempre. Matilde Rossi Questo viaggio al confine orientale ha svelato realtà di cui solitamente si parla poco.Ho potuto vedere luoghi in cui sono state fatte azioni terribili. In questi pochi giorni sono riuscito a comprendere più a fondo i motivi che hanno portato a tali eventi e i limiti fino a cui è in grado di spingersi la natura umana. Il luogo che più mi ha colpito è stato il castello di Begunje dove proprio dalle scritte presenti sui muri traspare ancora tutta la disperazione e l’angoscia delle persone rinchiusevi. Ritengo che questo viaggio sia stato molto utile poiché ha permesso di diffondere la conoscenza di fatti che non possono essere dimenticati affinché azioni simili non vengano ripetute mai più in futuro. Silvio Incalza Il valore dei luoghi e delle testimonianze locali per entrare nella dimensione storica «VSE NAJBOLIŠE». “Spengo la luce, buonanotte”. “Buonanotte”. Alle due del mattino del 23 ottobre 2015, in una stanza dell’Hotel Park a pochi minuti dal centro di Lubiana, sono diventata responsabile, sono un’adulta. Per addormentarmi, inizio a pensare, a proiettare sul soffitto nero della stanza i momenti delle giornate precedenti, riesco quasi a sentirne i suoni. L’appello, il motore del pullman, la cartina che ci mostra invitante i luoghi del viaggio, le aspettative… Partiti. Con l’apertura delle porte del pullman in un paesino vicino ad Udine è cominciata la nostra esperienza: “viaggio al confine orientale”. Siamo a Gonars. Nel cimitero civile per iniziativa delle autorità jugoslave nel 1973 sono stati realizzati un memoriale ed una cripta per i cittadini sloveni e croati che, dopo essere stati rastrellati dall’esercito italiano nell’allora Jugoslavia, sono stati internati nel campo fascista e lì sono morti. Mentre la studiosa Alessandra Kersevan ci illustra la storia del campo (il suo utilizzo, in un primo momento, come strumento di repressione degli oppositori, poi di “bonifica etnica” e infine la sua chiusura), i petali in lamiera d’acciaio del memoriale, colpiti dal sole autunnale, riflettono, illuminano, suonano rintocchi che creano un’atmosfera irreale. Li sento ancora così chiaramente che mi scosto le coperte e mi sollevo leggermente per assicurarmi che siano solo pensieri, sogni e che non abbiano svegliato Margherita. Dorme, o forse i suoi pensieri mi hanno preceduta e stanno già rivivendo il giorno seguente. 22 ottobre 2015. Camminando, studiamo tutta la città di Lubiana con gli occhi attenti di chi è entrato a far parte di una situazione o condizione nuova ed interessante. Assistiamo alla conferenza della storica NevenkaTroha, visitiamo il castello-prigione di Begunje, quel posto è bellissimo; un grande giardino verde, un tappeto di foglie, una vista mozzafiato. C’è, al centro di quel giardino così vivo, un cuore che non pulsa, di pietra. Un cuore formato da celle molto piccole dove partigiani e antifascisti attendevano di essere fucilati. Il freddo cemento delle pareti o la pesante porta di legno sembravano essere le sole a poter restituire una vita a quelle anime, o almeno, a trasmetterci il loro messaggio. Lì erano, infatti, incise le più umane emozioni attraverso brevi frasi, conti, preghiere. Esse tengono, dunque, saldamente ancorati alla terra i pensieri di chi ha conosciuto la consapevolezza di cosa significhi vivere. “Mancano cinque minuti, sei pronta?” Non sono nemmeno riuscita a rispondere, che già era spenta la candelina dei miei diciotto anni. Ma ero pronta? Una bottiglia di cioccolata, un regalo, ‹‹VSE NAJBOLJŠE››. Lasciamo dietro le nostre spalle la bella Lubiana notturna, i suoi ponti, il suo drago. Torniamo in hotel, Margherita spegne la luce, “buonanotte” le rispondo. La sveglia suona, chiudiamo le valigie, partiamo per Trieste. La mattina alla risiera di San Sabba è dominata da un senso di forte contrasto. Le mura, le celle, le travi, la stanza della morte, i segni lasciati dal forno crematorio distrutto e gli appunti di Diego de Henriquez sono immersi nel silenzio, ma allo stesso tempo portano con loro parole davvero importanti. C’era penombra e forte luce insieme, desiderio di parlare, di confrontarsi e allo stesso tempo sentivamo di dover rimanere in silenzio, forse per ascoltare di più, forse per rispettare. Era evidente lo scontro tra sconcerto, triste coinvolgimento e la volontà di rimanere lucidamente attenti. “Trieste ha una scontrosa grazia” (Trieste, Umberto Saba), meravigliosa nella sua timida dolcezza, nella serenità del mare, ma, appunto, con una corazza ruvida, forte. È una città impregnata di storia, lotte, e quel pomeriggio, con l’aiuto di Franco Ceccotti abbiamo capito la forza della città nei suoi diversi aspetti, nei luoghi del fascismo, della guerra. Quella sera a Grado, nonostante durante la cena o prima di andare a dormire ci scambiassimo chiacchiere ed impressioni, nello sguardo di ognuno si poteva intuire che qualcosa stava nascendo; qualcuno, una storia, aveva provocato l’inizio di un cambiamento; sintomi del quale erano i nostri pensieri che sempre più consapevolmente si riordinavano. Ultima notte, ultima possibilità di riorganizzare le idee in questa perentesi dedicata a quella storia che non tutti conoscono o raccontano. La mattina seguente, consapevole che ormai il nostro viaggio volgeva a termine, un’altra volta i pensieri, i sentimenti o più semplicemente gli occhi sono stati strumento di un nuovo sconvolgimento: davanti a noi le foibe di Basovizza. Al termine della visita saliamo sul pullman, per l’ultima volta, si torna a casa. Durante il viaggio, di nuovo, riflessioni e parole emergono prepotenti, ma ora in modo diverso: sappiamo di non aver solamente visto o sentito una storia, in quella storia ci siamo entrati e l’abbiamo vissuta. Arrivati a Parma, dunque, la valigia non è l’unica cosa che porto a casa. “Ciao papà” “Ehi, allora? Com’è avere diciotto anni?”. Come spiegare che ho visto centinaia di volti, strategie militari, morti, sopravvissuti, bandiere, confini, mura, celle, lapidi, come dire che ho avuto paura, ho sentito di essere investita di responsabilità dopo quel viaggio? “diverso, papà, sicuramente diverso”. Con l’ultima tappa del viaggio, la visita al campo di Fossoli, è diventato ancora più nitido il cambiamento provocato da quest’esperienza. È stato un viaggio di responsabilità, di conoscenza e coinvolgimento, che siamo riusciti ad affrontare grazie a nozioni apprese da conferenze precedenti, ma che si sono concretizzate grazie alle testimonianze, alle città, alle persone. Tutto questo ha potuto lasciare un segno così importante anche perché abbiamo voluto che fosse così. “La maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno. Con la maggior età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un’età diversa” (Legge n. 39, 8 Marzo 1975). Ho compiuto diciotto anni in Slovenia, sono stata in grado di ascoltare, confrontare, capire e rielaborare; ora so di avere la responsabilità di raccontare o anche solo riflettere e continuare a conoscere, approfondire la storia del confine mobile. Aveva ragione la bottiglia di cioccolato, è stato davvero un ‹‹BUON COMPLEANNO››. Monica Castellari “Il campo di Gonars mi ha lasciata indifferente perché non c’era nulla da vedere..” ha detto una ragazza, quasi ridendo, durante il confronto a cui siamo stati invitati in una delle sere a Lubiana. Quella frase è impressa nella mia mente dal momento in cui ho cercato di risponderle fino ad ora, a distanza di tanti mesi, e credo non se ne andrà, perché mi aveva posto immediatamente di fronte a troppi interrogativi. Sapevamo tutti di cosa stavamo parlando, eravamo preparati sotto l’aspetto storico e politico e una esperta ci aveva dato una chiara spiegazione sul campo. Possibile che la pensasse in una maniera così diversa dalla mia? Non doveva lasciare tutt’altro che indifferenti il fatto che un campo di prigionia fascista sia ricordato con un piccolo monumento sulla statale, in mezzo ai campi, senza un percorso che lo renda facilmente visitabile a piedi, senza una indicazione? Non credo che nessuno di noi si immaginasse una fedele ricostruzione, ma quella mancanza era il segno evidente della grande questione sottesa alla visita di un campo di concentramento italiano. Innanzi tutto, nessuno di noi ne conosceva l’esistenza, tanto che non eravamo certi che fosse in territorio italiano. Questo perché non c’è questo capitolo sui libri di storia italiani, perché non c’è una storia “contemporanea” slegata dalla politica, anche se per la mia generazione sono quasi cento anni di distanza. Quando abbiamo visitato la Risiera di San Sabba e, il giorno seguente, la Foiba di Basovizza, tutto questo si è complicato. Sono due luoghi di memoria, anche questi italiani, ma maggiormente istituzionali, facilmente rintracciabili e visitabili. Per entrambe le visite abbiamo ricevuto delle spiegazioni, approfondite, appassionate, che ci hanno permesso di non rimanere in superficie. Perché è questo il rischio che si corre trovandosi davanti a luoghi di dolore ben ricostruiti o ricostruibili, davanti a monumenti più o meno patriottici, se non si viene accompagnati. Rischiano di rimanere nudo cemento o vuoti scheletri di edifici, senza alcun significato, senza alcun messaggio da trasmetterci. Ma allora che senso fare tanti chilometri per andare a vederli, se possono essere per noi muti o addirittura forieri di interpretazioni sbagliate? A questa domanda sono riuscita a rispondere non nell’immediato del viaggio, ma solo tornando a Parma. A Lubiana abbiamo ascoltato la versione della storiografia Slovena, di coloro che durante la guerra sono stati i vinti. Oggi, per fortuna, le posizioni sono comuni alle nostre, ma sicuramente più capillarmente diffuse nella società. Questo aspetto è fisicamente rappresentato dal Museo di Storia Contemporanea, genere museale che per esempio a Parma non esiste, e che rende in maniera molto chiara e viva le vicende storiche della città e della Slovenia, oserei dire anche senza la stretta necessità di una guida. Ha senso quello che nel museo è conservato, rappresentato, raccontato, solo se si dedica tempo a uscire fuori, respirare l’aria di Lubiana per almeno un giorno e una notte, scoprire le sue mille forme, di città imperiale, titina e oggi europea. E andando ancora più lontano, ai piedi delle montagne a Begunje na Gorenjskem, si avverte in maniera più intensa il fastidioso contrasto tra la bellezza del castello e del parco in una giornata autunnale e il dolore ancora percepibile sulle pareti delle celle per gli internati. E’ possibile che affrontando il dolore risalti la bellezza della natura. E’ possibile che il senso di questi luoghi, all’interno di una viaggio, e non di una visita turistica, sia imparare a vivere senza essere schiacciati dal peso doloroso della storia, ma con consapevolezza e profondità. Visitare, nel mio caso per la seconda volta, il campo di Fossoli, ha confermato le risposte, ha lascito aperti degli interrogativi e ne ha generati dei nuovi. Innanzi tutto ha avvicinato nello spazio il problema dei luoghi della memoria da conservare in un periodo di crisi economica e culturale. Ma soprattutto la sua storia, da campo di concentramento italiano, poi tedesco, a campo per i profughi giuliano dalmati, ci avvicina nel tempo e nello spazio al problema del confine orientale italiano e alla questione –sempre tristemente attuale- della difficile accoglienza e integrazione di chi cerca pace. Margherita Donelli La visita al campo di Fossoli è stata fondamentale per comprendere più a fondo il fenomeno dell’esodo giuliano dalmata e le sue conseguenze. Il campo, tuttavia, non fu solo legato all’accoglienza dei profughi giuliano dalmati, ma è il risultato di una serie di stratificazioni d’uso, succedutesi dal 1942 al 1970. Il recente terremoto ha, sfortunatamente, distrutto le poche baracche rimaste dopo la chiusura del villaggio di San Marco nel marzo 1970, rendendoci in questo modo più difficile la ricostruzione di come effettivamente la zona si presentava in passato. Grazie alle spiegazioni della guida, abbiamo appreso le diverse destinazioni del campo: esso apre nel luglio del 1942 e viene inizialmente utilizzato come campo per prigionieri di guerra alleati, fino all’armistizio. Dal 5 dicembre 1943 diventa campo di concentramento degli ebrei e, fino all’agosto del 1944, il campo viene controllato dalla questura di Modena, facente parte della Repubblica Sociale Italiana. In seguito, viene destinato alla raccolta di uomini per la manodopera in Germania. Finita la guerra, diventa un centro di raccolta di profughi stranieri e, tra 1947 e 1952, il controllo del campo, viene affidato all’Opera Piccoli Apostoli e, in particolare, a Don Zeno Saltini, il quale attua alcuni cambiamenti, quali la remozione del filo spinato, la costruzione di una chiesa e di una sala cinema, rendendo in questo modo il campo più accogliente e vivibile. La professoressa Molinari ci ha poi esposto la storia del villaggio di San Marco, una storia locale, che riguarda la cittadina di Carpi, una storia nazionale (l’arrivo dei profughi è una conseguenza di una scelta del governo) e infine una storia internazionale, dal momento che, parzialmente, la decisione di cedere l’Istria e la Dalmazia, fu imposta all’Italia dai grandi paesi del dopoguerra. È inoltre una storia di vita collettiva, di persone che, da sconosciuti che erano, divennero un’unica grande famiglia. Questa storia inizia il 7 giugno 1954, grazie alla formazione dell’ente morale dell’Opera per l’assistenza di profughi giuliano dalmati, che operò non solo a Fossoli, ma anche in altri campi riadattati a centri di accoglienza, quali i campi di Ferramonti, Altamura, Laterina e Trieste (quest’ultimo adiacente alla Risiera di San Sabba). L’arrivo dei profughi nei campi, ci è restituito grazie ad alcune testimonianze, come quella di Marino Piuca, profugo che, nel libro I gatti di Pirano, racconta che cosa è significato arrivare in un luogo, in cui la sua mente si perdeva in un labirinto di domande, in cui cercava di orientarsi nel buio. Egli, in particolare, descrive il grande dolore causato dall’assenza del mare, caro ricordo di casa, e lo spaesamento derivante dalla vista di un paesaggio in cui la terra era nascosta dalla grigia nebbia invernale, così lontano dal mondo in cui era cresciuto. L’immagine di questo ragazzino (al tempo Piuca aveva tredici anni), ci permette di capire la grande difficoltà dei profughi, sepolti in un luogo che, apparentemente, appariva senza orizzonti e senza futuro. Tuttavia, con il tempo, le condizioni migliorarono, grazie alla collaborazione all’impegno degli esuli. Essi provenivano, soprattutto, dal nord della penisola istriana (oggi Slovenia e Croazia) e appartenevano al ceto medio basso della popolazione: erano artigiani, operai, casalinghe e semplici famiglie con tanti figli da sfamare. Giunti nel villaggio, cominciarono ad abitare nelle baracche, le quali erano suddivise in tre appartamenti da 70 m2 ciascuna. Nonostante le varie difficoltà derivanti dalla lontananza del campo rispetto al paese, i profughi, grazie al loro impegno, diedero vita ad una vera e propria comunità, un microcosmo autogestito: aprirono bar, negozi alimentari, barbieri e una falegnameria. Istituirono poi, una scuola materna, gestita dagli stessi profughi e la scuola elementare di San Giovanni Bosco, dove vi erano 79 alunni. I bambini parlavano, tuttavia, dialetti diversi: alcuni l’istrio-veneto, altri il fossolese e altri ancora, dialetti meridionali (molti erano i figli degli immigrati del Sud). Vi era dunque una realtà di melting-pot dialettale, in un’Italia in cui doveva ancora concludersi il processo di italianizzazione linguistica, processo nel quale la televisione giocherà un ruolo fondamentale. In un registro di classe del 1959, per esempio, un insegnante riporta la difficoltà di integrazione fra bimbi di ambienti, costumi e usanze così eterogenee. A tal riguardo, è inevitabile affermare che, se i problemi legati al sostentamento vengono superati dopo i primi anni, permangono a lungo i problemi legati all’integrazione. Innanzi tutto, il campo è monito costante di odio, morte, fascismo e guerra, ed i profughi che vi abitano, vengono visti come dei fascisti. Essi divengono, infatti, vittime di un processo semplicistico: dal momento che sono scappati dalle terre italiane passate alla Jugoslavia di Tito, visto come l’eroe che ha condotto la resistenza più forte dell’Europa ed eroe del comunismo, vengono visti dagli emiliani, i quali erano per la maggior parte comunisti, come dei traditori. Le vignette di Guareschi, pubblicate sul Candido, mostrano, con grande realismo, l’atteggiamento di chiusura degli italiani verso i profughi. Il principale ostacolo all’integrazione fu la disinformazione. In pochi erano a conoscenza dell’esodo dei 250 000 giuliano dalmati. Alcuni di essi ricordano perfino di aver sentito domande, come “Che cos’è l’Istria?” o ancora, “Ma davvero l’Istria è italiana?”. Ciò che mi è rimasto dalla storia dell’esodo giuliano dalmata,è il fatto che i profughi siano stato in grado di trasformare un campo di odio e di morte, in un nuovo inizio e in una nuova vita. La storia di questo villaggio, che si chiude nel 1970, dopo sedici anni, è anche una storia del presente, che ci deve portare a riflettere su temi di attualità, come l’integrazione degli immigrati. Spesso anche noi, come in passato è spesso accaduto, siamo vittime della disinformazione e siamo portati a formulare giudizi avventati sulla base di falsità. La storia dell’esodo giuliano dalmata deve quindi essere un monito, un esempio da tener ben presente. Arianna Bertolucci Per quattro giorni abbiamo camminato nella storia. Ci siamo entrati dentro, nel profondo. Siamo riusciti a penetrarla, superando il limite della memorizzazione di dati fine a sé stessa, dello spesso inevitabile distacco che si crea tra noi ed una realtà che ci sembra forse troppo lontana. Abbiamo frantumato questa barriera di tempo e ripercorso un breve tratto di storia, in un contenuto spazio geografico, arrivando ad avere un saggio concreto di quelli che sono i più vasti meccanismi della storia. Abbiamo visto per la prima volta quelle masse indistinte, marginali sulle pagine dei libri di storia, come folle di individui. Abbiamo sentito la loro anima che ancora impregna luoghi come la prigione di Begunje, e ci siamo commossi di fronte al loro disperato tentativo di mantenersi umani, tanto da portare qualcuno di loro a rinunciare alla sua giornaliera razione di pane per realizzare pedine per giocare a scacchi. Questo qualcuno mi ha insegnato quanto sia più importante mantenersi vivi che sopravvivere. Ci siamo sentiti vicini agli uomini e alle donne che fino ad allora erano stati per noi soltanto numeri, ma abbiamo cercato, allo stesso tempo, di mantenere vivo lo sguardo critico che solo il passare del tempo consente di assumere. E’ grazie ad esso che ci siamo avvicinati alla comprensione delle vicende sanguinose che hanno macchiato indelebilmente quei territori e contemporaneamente anche il resto d’Europa. Il confine orientale Italiano può infatti essere preso a modello esemplificativo delle tragedie consumatesi in Europa nel ‘900. Le grandi sfide che il continente affrontava in quel tempo, si riproponevano identiche anche su quel brandello di terra che veniva continuamente ferito dai tagli profondi ma invisibili che prendono il nome di ‘confini’. Prima fra tutte, la frattura tra due modelli di stato, quello imperiale ed il nuovo stato Nazionale, che andava fondandosi sulle ceneri degli imperi crollati. Le ripercussioni della crisi ad essa connessa furono costitutive delle vicende che ebbero come teatro i luoghi su cui ci siamo recati in prima persona. Con lo stato, cambiava infatti anche il concetto stesso di ‘confine’, non più legato ai possedimenti della famiglia regnante, ma ‘naturalizzato’, strettamente connesso all’idea di nazionalità ed ai meccanismi di adesione ideologica di un popolo. Questo forte sentimento di identità nazionale diede origine, quasi inconsapevolmente, agli stati totalitari, in opposizione al vecchio modello di stato tradizionale. Furono tutte le dinamiche ad essi connesse che degenerarono nei drammi che sconvolsero il Ventesimo secolo e di cui la complessa vicenda del confine orientale è stata per noi la chiave interpretativa. Basti pensare anche solo all’atto dell’infoibare, che si inserisce perfettamente nel panorama 900esco, nel quale la guerra non doveva limitarsi a portare alla sconfitta del nemico ma al suo annientamento definitivo. Si possono accostare, con le dovute differenze, le ceneri uscenti dai camini dei forni crematori, alle ossa disperse nei solchi del terreno che precipitano fino al cuore della terra. Ecco che allora le vicende della micro-storia che stavamo affrontando si proiettavano nel panorama più ampio della macro-storia europea. In questo continuo contatto con un passato lontano e diverso, abbiamo avuto l’importante stimolo di porci domande, e la fortuna di poterci rispondere a vicenda o rivolgerci agli storici che ci hanno accompagnato. La condivisione di questa esperienza con i miei compagni è stata per me fondamentale proprio per questo motivo: vedere da varie angolazioni e punti di vista diversi uno stesso avvenimento, una stessa causa, una stessa idea. Eleonora Maggiorelli Testimonianze dal viaggio sul confine orientale CLASSE III G Riflessioni "In questo momento vorrei dire qualcosa ai miei compagni, ma ho la sensazione che tutto ciò che riuscirei a dire sarebbe insincero. Io sono vivo, perciò anche i miei sentimenti più schietti sono in una certa misura impuri", scrive Boris Pahor. Ed è così che ci sentiamo al nostro ritorno. Siamo vivi, e non c'è niente che possa farci avvicinare a ciò che le vittime slovene ed italiane hanno patito. Quello che rimane è solo l'amarezza di vedere la gente che ancora nega e si rimpalla delle colpe vecchie di settant'anni. Riccardo Ghioni Le vicende del confine orientale sono entrate più nella polemica che nella storia: rimangono isolate nella coscienza locale giuliana, quasi fossero una tragedia di serie B. François Furet ha scritto a proposito della Rivoluzione Francese: "Il modo migliore per non capire il passato è esaltarlo o demonizzarlo". Nonostante l'irrazionalità degli scontri, quello che più conta è capirne le dinamiche, o almeno fare un tentativo. Sia che si tratti dell'italianizzazione forzata degli slavi, sia che si parli di pulizia etnica degli italiani o epurazione politica antifascista, è centrale che persista il ricordo e che la memoria resti unita. Benedetta Rinaldi Credo che viaggi di questo tipo possano essere utili per interessarsi maggiormente alla storia del nostro paese, non più solamente in modo ideologico e talvolta approssimativo, ma con interesse storico e un approccio critico al fine di conoscerne luci e ombre. Infatti, si ha spesso la tendenza a "demonizzare" il nemico mentre, per quanto riguarda i fatti compiuti dai propri connazionali, si tende ad omettere e cancellare determinati avvenimenti, cosa che comporta una disinformazione generale. Marianna Vescovi Il viaggio al confine orientale non ha rappresentato solo un viaggio nella memoria storica, con l’intento di ripercorrere le principali vicende svoltesi in questi luoghi fra il 1918 e il 1956. È stato, infatti, anche un viaggio nella disperazione, nell’indignazione, nel dolore e nella sofferenza che queste hanno causato a coloro che abitavano in queste zone. Non solo. Un percorso che testimonia fino a che punto possa spingersi la spietatezza e la follia umana. Anna Ruzzarin Si parla sempre di coinvolgimento emotivo, come se questo fosse obbligatorio, imprescindibile, naturale. Invece non è sempre facile capire come si siano svolti determinati fatti storici, realizzare che si è talora trattato di stragi. Ma leggendo le frasi incise sui muri, sia nella prigione di Berunje, sia nella Risiera di San Sabba, le parole di chi ha vissuto le vicende che si sono svolte in questi luoghi entrano profondamente dentro di noi e lasciano un segno indelebile di consapevolezza. Letizia Roscelli Gonars, Begunje, la Risiera di S.Sabba, la foiba di Basovizza sono luoghi che, una volta visitati, lasciano un segno indelebile. Penso che, solo trovandosi laddove e morte, sofferenza e violenza sono stati una caratteristica dominante, ci si possa realmente rendere conto di quanto quello sul confine orientale sia stato un conflitto che ha mostrato la scelleratezza e la crudeltà del genere umano. Solo passando attraverso un coinvolgimento emotivo si può infatti interiorizzare ciò che è successo in passato, cercando di cogliere da tali avvenimenti un insegnamento valido per sempre Francesca Serventi Paura, sgomento, terrore. La paura di parlare la propria lingua, lo sgomento delle esecuzioni sommarie, il terrore dell' internamento, della perdita della propria identità ed umanità. Questi solo alcuni temi toccati nel corso del nostro viaggio, trattati con la consapevolezza di non poter dimenticare. Giorgio Magnani Considerazioni sulla memoria storica Il 21 ottobre 2015 siamo stati catapultati nella complessità della Storia. Il viaggio doveva tentare di scavare un po' in profondità nella questione italo-slovena, provando a separarne oggettivamente i due fronti. Infatti, se i luoghi, le date, i personaggi più importanti sono noti, è ancora difficile spiegare e capire i retroscena e le responsabilità delle torture e massacri che la storia ci tramanda. E l'unica responsabile di questa situazione è la retorica. Guerra e resistenza partigiana sono anche ora, in Italia come in Slovenia, oggetto di grandi discussioni e contese, in cui non può non inserirsi anche la politica. Una politica che vuole piegare la verità storica, omettendo le parti più scomode di cui non vuole rendere conto. I simpatizzanti della sinistra hanno sempre assunto un atteggiamento accondiscendente verso la dittatura di Tito, soprattutto in virtù della sua scissione dallo stalinismo. Un atteggiamento che ha portato alcuni a minimizzare eventi imbarazzanti come le foibe. Quelli della destra invece non perdono occasione per criticare i comunisti, riducendo così le responsabilità del governo italiano nei confronti degli istriani (si pensi solo all'italianizzazione forzata o a torture e fucilazioni). Prendiamo l'esempio della foto dei cinque contadini fucilati da un gruppo di soldati a Dane (Slovenia) il 31 luglio del '42. Per anni si è creduto che quei contadini fossero italiani e quei soldati partigiani titini. Si sono quindi stampati manifesti sulla giornata del ricordo, commemorazioni di "condannati a morte perché italiani", e tutti i volantini e gli striscioni avevano questa foto come simbolo. Salvo poi scoprire che la foto era stata scattata dal nostro esercito. Ritrovata nell'archivio di un generale in fuga dopo l'armistizio e pubblicata dai partigiani sloveni a Lubiana nel '46, la foto era parte di una raccolta che doveva mostrare l'operato dell'esercito italiano sul suolo jugoslavo. Quindi i soldati erano italiani, ed i contadini fucilati erano sloveni. Nel contesto politico attuale non mancano anche quelli che strumentalizzano il giorno del ricordo, associando immediatamente le foibe alla repressione jugoslava e parlando quindi solamente di "vittime italiane". Ancora una volta è la realtà a smentirli. Umberto De Giorgi, ispettore della Polizia Civile del Governo Militare Alleato durante l'occupazione di Trieste, fu uno dei primi ad indagare sulle foibe. Fu lui a rivelare che i primi ad infoibare i cadaveri dei prigionieri morti durante le torture furono in realtà gli agenti della squadra politica fascista, la Banda Collotti. La Banda che, guidata dal commissario Gaetano Collotti, fu responsabile dal ’42 della repressione della resistenza durante l’occupazione, condotta con interrogatori e torture nel comando chiamato “Villa Triste”. Ma se consideriamo le posizioni ideologiche, il comportamento non cambia. C'è chi dice che i profughi istriani erano solo spie fasciste in fuga. Qualcun altro si prende delle libertà con il numero di morti nelle foibe o con l'esatto numero di profughi. Altri, e purtroppo tra di loro ci sono anche molti storici di fama, sostengono che commemorare i morti delle foibe significhi commemorare soldataglia fascista o collaborazionisti. Per rispondere a questi, e a coloro che ancora negano l’esistenza delle foibe, si potrebbe citare il lavoro della Commissione. Nell’ottobre del ’93 sulla spinta dei due ministri degli esteri sloveno e italiano, venne istituita la Commissione mista storico-culturale italo-slovena. Questa, formata da professori e storici del confine orientale, ha prodotto un documento che doveva proporre una versione condivisa delle relazioni italo-slovene tra il 1880 ed il 1956. Per alcuni il documento ha avuto solo un significato politico di riconciliazione tra i due Stati, per altri è un punto di partenza, che formula delle posizioni condivise importanti per una interpretazione storico-politica più oggettiva possibile. Eccone uno stralcio che si riferisce agli infoibamenti: “Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani.” Comunque lo si voglia vedere, quello della Commissione è stato uno dei pochi tentativi condivisi di fare chiarezza sulla questione italo-slovena. Un tentativo che ha messo però in luce uno dei problemi più importanti: è pressoché impossibile per noi studenti, senza l'accesso alle fonti da molti arbitrariamente citate, distinguere tra la realtà storica e l'opportunismo di chi ancora si accapiglia per cieca fedeltà ad un’ideologia. Riccardo Ghioni Le testimonianze degli ostaggi nel castello di Begunje e dei prigionieri della Risiera di San Sabba Il centro dell'abitato di Begunje, in Slovenia, è dominato dal castello Katzenstein, costruito nei secoli XVI e XVII. Durante la seconda guerra mondiale all’interno dell’edificio furono sistemate le carceri della Gestapo, nelle quali vennero rinchiuse complessivamente oltre 10 mila persone. Nell'ala laterale, a un solo piano, con una dozzina di celle originali, è stato allestito il museo commemorativo del periodo di dittatura nazista. Il museo è piuttosto piccolo ma decisamente toccante. Appena entrati, ci si trova davanti all’elenco di tutti i detenuti, una lunga lista di nomi e di date. Sfogliandola si viene pervasi da un senso di forte tristezza e di inadeguatezza davanti all’impossibilita di restituire un’identità, almeno dentro di noi, a quest’infinità di persone dimenticate, di cui non resta più niente. Proseguendo, si entra in un corridoio dal quale è possibile accedere a tutte le dodici cellette. Queste, all’interno, sono piccole e piuttosto spoglie, vi è solo qualche oggetto esposto. Ma, a colpire profondamente sono invece le incisioni che ricoprono muri e porte di tutte le celle, messe maggiormente in risalto attraverso vetri e luci che rendono leggibili anche le scritte più vecchie e consumate. La maggior parte sono in lingua slovena o croata e questo rende difficile la comprensione, ma, osservando bene, ce ne sono diverse che, invece risultano, incredibilmente chiare. Qualcuno ha lasciato un disegno, qualcun altro semplicemente il proprio nome o una data, qualcuno una frase che appare come unico e inevitabile grido tra quelle umide mura, qualcuno una preghiera o i versi di qualche canzone popolare, un paio, ogni giorno, hanno annotato quel poco che è stato dato loro da mangiare e quando vennero lasciati a digiuno segnarono un trattino. Alla destra del castello, dopo la seconda guerra mondiale, è stato sistemato il cimitero degli ostaggi. Fermandosi un attimo ad osservare le lapidi si nota che tantissimi giovani e bambini riposano li. Non troppo lontano, non troppo diverse sono altre testimonianze che restano profondamente impresse: quelle appese all’interno dell’alto edificio, dove venivano rinchiusi ebrei e prigionieri, della Risiera di San Sabba, ex-lager nazista a Trieste, ora tetro e drammatico monumento nazionale. Anche qui i deportati incidevano sui muri delle celle, ma questi graffiti sono andati purtroppo perduti. Restano, fortunatamente, a testimonianza i diari dello studioso e collezionista Diego de Henriquez, (attualmente appartenenti alle Collezioni de Henriquez), che ne fece un'accurata trascrizione. Alcune fotocopie della raccolta dello studioso sono, quindi, ora esposte all’interno dell’edificio, appese intorno alle colonne portanti. Leggere le parole di chi stava vivendo ciò che noi ora cerchiamo di comprendere, permette di fare un passo in più: riusciamo a pensare l’accaduto non più solo come un avvenimento storico da studiate, ma come un tragico periodo della storia dell’uomo, da ricordare e interiorizzare profondamente, perché il male non vinca ancora. Leggendo queste testimonianze riusciamo ad avvicinarci un poco agli eventi, a vederli sotto tanti aspetti diversi e a dare una voce alle tantissime vittime, lasciate, altrimenti, in silenzio. Letizia Roscelli Lubiana-Museo di storia contemporanea Dopo la discesa da Begunje abbiamo potuto apprezzare la temperatura più mite della giovane e dinamica capitale slovena. La sua fama di città verde e capitale fra le più vivibili in Europa appare quanto mai giustificata. Nel pomeriggio troviamo ad accoglierci presso il Museo di Storia Contemporanea la prof.ssa Nevenka Troha, storica, ricercatrice e membro della Commissione storico-culturale italoslovena, istituita nel 1993 su richiesta congiunta dei ministeri degli affari esteri dei due stati e che, nel 2000, ha presentato la relazione "Relazioni italo slovene 1880-1956" attinente al tema del confine orientale, oggetto del nostro viaggio. La storica riassume gli eventi che hanno segnato la popolazione slovena fra primo e secondo conflitto mondiale, con particolare riferimento alle differenti visioni della guerra da parte di Sloveni e Italiani. La dodicesima Battaglia dell' Isonzo, nota a noi Italiani come "Disfatta di Caporetto" e ricordata dagli Sloveni come "Meraviglia di Caporetto". Ci si presenta poi Kaja Širok, direttrice del museo, che sarà la nostra guida d’eccezione. Nel corso della visita ci soffermiamo sull' occupazione nazista della Slovenia, comprendendo ora le dinamiche che hanno portato alla realizzazione della prigione a Begunje. Stanchi per la lunga giornata, ci dirigiamo in albergo con la consapevolezza che la storia non possa essere studiata e vissuta in maniera univoca. Il confronto di visioni diverse é condizione necessaria e fondamentale per il raggiungimento di una comprensione storicamente fondata. Giorgio Magnani Trieste e Risiera “Ci sono città che si trovano sul confine e altre che hanno i confini dentro di sé e sono costituite da essi. Sono città cui le vicende politiche tolgono parte della loro realtà, come il retroterra, il forte legame con il resto del territorio nazionale; la storia le slabbra come una ferita e fa di esse un teatro del mondo, vale a dire un teatro dell’assurdo. È in queste città che si esperimenta in modo particolarmente intenso la duplicità della frontiera, i suoi aspetti positivi e negativi; i confini aperti e chiusi, rigidi e flessibili, anacronistici e travolti, protettivi e distruttivi” (Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino 1987) Molti dicono che Trieste sia multiculturale, affettuosa nella sua innocenza. Ha un porto, è aperta all’altro. Ma Trieste sa anche escludere, Trieste a volte non tollera. E se la città lo tace, la Risiera di San Sabba lo ricorda per lei. Prima adibita alla pilatura del riso, poi caserma: divenne il primo e l’ultimo campo di sterminio italiano. Delle 4/ 5mila vittime, meno di un centinaio furono gli ebrei uccisi sul posto: la Risiera fu per loro soprattutto campo di raccolta, in attesa della deportazione in Polonia o in Germania. Questo non attenua la contraddizione: Trieste, cresciuta nei secoli anche grazie agli ebrei, da sempre integrati, li sorprende e li tradisce. Può? E’ il Settembre 1938 e in un discorso pronunciato proprio a Trieste, in piazza Unità, Mussolini annuncia la promulgazione delle leggi razziali: in città ha inizio una sequela interminabile di atti antisemiti e di danneggiamenti alle sedi ebraiche. Violenta fu la campagna di stampa, i volantini, i graffiti, minacce scritte che spesso si traducevano in percosse e bastonate e in poco tempo la persecuzione dei diritti si fece persecuzione delle vite. A Trieste, le catture venivano eseguite direttamente dalle SS, con l’aiuto di spie e delatori, non dai fascisti. L’apparato della RSI era ridotto al minimo, quasi senza autonomia d’ azione. A questa fascia attiva di collaborazionisti, si accompagna un’ampia zona grigia, fatta di indifferenti, di persone attente oltre che a sopravvivere anche ad arricchirsi. Merita di essere ricordato il caso Mauro Grini: classe 1910, il "Grande Traditore", l’ebreo triestino che rivelò ai nazisti nomi , informazioni, nascondigli dei correligionari, poi deportati e uccisi. Ne fece prendere varie centinaia , 300 solo a Trieste. Per ciascun ebreo denunciato, Grini incassava 7.000 lire e poi continuava nel suo intento, costringendo le vittime a consegnare (a lui e ai suoi mandati) denaro, oro e gioielli. Su che fine abbia fatto Mauro Grini le voci sono contraddittorie. Ucciso dai tedeschi al momento della ritirata dalla Risiera perché «sapeva troppo». Ammazzato dai partigiani, come riferì il fratello. Qualcuno giurò di aver visto la moglie vestita a lutto. Altri di averlo scorto a Milano con i capelli tinti. Trieste, intanto, copre e rimuove, lasciandosi avviluppare da corresponsabilità, vigliaccherie, reticenze e silenzi. Viene allora da chiedersi se sia davvero la città multiculturale che è stata nei secoli e che ancora ambisce ad essere. Benedetta Rinaldi Il valzer dei numeri In tempo di guerra, si sa, la dignità umana scompare. I soldati sono, troppo spesso, carne da macello, orgoglio della nazione finché sono utili alla causa, diventando vittime sacrificali di qualcosa di più grande di loro. Ed è così che da persone diventano numeri, vuote cifre in un immenso oceano. Nel corso del nostro viaggio abbiamo potuto toccare con mano tante vite spezzate, non solo di soldati, ma di uomini e donne come noi, non numeri. Chi credeva in un ideale, chi nella propria patria, chi semplicemente fuggiva da guerra e persecuzione. Eppure tutto sembra sprofondare in un inquietante nichilismo. Troppi, troppi corpi non hanno un nome, una sepoltura, un luogo dove possano essere ricordati dai propri cari. Sono numeri, vuoti numeri. Eppure, strano a sentirsi, nemmeno sui numeri vi è certezza. Gli internati slavi morti in Italia passano dai minimo duemila ai massimo settemila, secondo le ricerche storiche di Alessandra Kersevan, agli undicimila secondo il governo sloveno. A Basovizza, Trieste, le salme di infoibati si misurano in metri cubi, metri cubi che, secondo il ricercatore dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia Franco Ceccotti, sono passati da trecento a cinquecento in una sola notte, giusto il tempo necessario per cambiare una piccola cifra. Ad una precisa domanda sul numero di internati nel grande campo di concentramento italiano sull' isola di Arbe, in Istria, Kaja Širok, direttrice del Museo Nazionale di Storia Contemporanea di Lubiana, non risponde. Non può, mi spiega, prendersi la responsabilità di asserire una cifra. Il confine orientale è scenario di un periodo oscuro, pieno di contraddizioni. Tante storie che si intrecciano, agli storici il compito di ricostruirle in modo attendibile. Tanti luoghi da visitare, per non dimenticare. Tanti individui, persone con una propria dignità, a noi il compito di restituirgliela, con una grande consapevolezza: non siamo numeri e neanche loro li sono. Giorgio Magnani