Ungaretti, «Con fuoco»

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L’occhio del lupo
di MATTEO TAUFER
Con fuoco d’occhi un nostalgico lupo
Scorre la quiete nuda.
Non trova che ombre di cielo sul ghiaccio,
Fondono serpi fatue e brevi viole.
(Giuseppe Ungaretti, Con fuoco, 1925)
Il poeta concentra, nel «fuoco d’occhi», la memoria dell’essenziale. Fuoco
e occhi: una diade che brilla di segrete intersezioni. L’occhio è infatti scintilla dell’anima: unico punto di frontiera, nel corpo umano, tra il dominio
dei sensi e i moti interiori. Inoltre, l’occhio serba in sé un nucleo adamantino, che sfida il tempo e sovente contrasta col progressivo logorarsi degli
altri organi e arti – quasi che il varco all’anima non possa realmente offuscarsi né occludersi.
Parlare d’occhi quali specchi dell’anima è incamminarsi lungo un sentiero
pericoloso, giacché il discernimento degli spiriti si gioca tutto nelle luci. Il
varco all’anima, l’occhio appunto, è ambiguo in quanto veicolo di luce: luci di cui fidarsi o luci che confondono e poi devìano. Ognuna di esse, invero, riflette nature interiori elevate, ambigue o bacate. Tuttavia, v’è un tipo di lampo oculare, indescrivibile, che non può intridersi nel falso: l’émpito nostalgico che dà fuoco alle pupille.
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Nostalgia è parola nobile. Vi riconosciamo un etimo parlante: álgos, ‘dolore’, legato al nóstos, ‘ritorno’. Malessere per non poter più tornare nel proprio luogo d’origine. Donde l’infiammarsi delle pupille, che tradiscono la
memoria non sopita della patria perduta. Più intensa – più «nuda», scrive
il poeta – è la quiete, più rifulge di nostalgia l’occhio del lupo.
Come sottrarsi alla tentazione di rileggere in chiave esoterica i versi ungarettiani? La breve lirica è tutta intessuta di segnali forti: gli occhi infocati,
il lupo, la quiete, le ombre, il cielo, il ghiaccio, e infine serpenti in mezzo a
viole. Se non v’è afflato gnostico, quanto meno spira il rimpianto del giardino perduto. Così parrebbe, salvo suggestioni. Il lupo è fiera boreale dei
primordi, teste dell’Origine per eccellenza. Nel lupo arde la fiamma della
memoria atavica, sebbene ora regni «la quiete nuda», il ghiaccio del tempo
attuale. Solo il lupo, dallo sguardo penetrante, può veder distese sul manto ghiacciato «ombre di cielo», ricordi oscurati dell’Eden non più attingibile. Memoria pneumatica per gli gnostici, struggimento per la «pienezza»
perduta, resasi introvabile. Il Giardino fu sintonia assoluta dei centri, ancorché annidasse in sé il serpente tentatore, causa della storia qual discesa
inesorabile al peggio. Si consumò colà, prima della caduta nel tempo, una
tensione tremenda, a confronto della quale tutto il resto scade nel risibile.
Fatue le serpi che si scorgono qua e là nell’erba, ed effimere son ormai le
viole. Parimenti, di fuoco fatuo rilucono gli occhi di chi non è lupo.
L’occhio del lupo è fuoco nel buio. Il lupo infatti, ab origine, ha uno stretto
misterioso rapporto con la luce – se è vero che lýkos, leukós e lux paiono
espressione d’una medesima radice. Le pupille dei lupi s’illuminano al ricordo del senso originario, ma al contempo bruciano di vendetta. Non vi
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è smarrimento in loro, né turbinìo di passioni, bensì memoria di diamante
ignara del Lete. La tragedia dell’oblìo non li ha scalfiti: nostalgia, per il lupo, equivale perciò al dovere dell’insonnia, com’è richiesto ai custodi delle
selve. A questi ultimi genii del luogo, che recano ancor impresse negli occhi immagini del Giardino, guardi chi cerca un senso a ritroso. Con fuoco
d’occhi i lupi leggono il cielo, sia pur riflesso nel ghiaccio.
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