Allegato:
EUROPA
MEDITERRANEO
un giornale
nella prospettiva
dell’apertura dell’area
di libero scambio
GIORNALE SICILIANO DI POLITICA, CULTURA, ECONOMIA, TURISMO, SPETTACOLO
ANNO PRIMO Nº 8 - 23 DICEMBRE 2006 ~ 4 GENNAIO 2007 - a 1,50
DIRETTORE RESPONSABILE SALVO BARBAGALLO
Con il patrocinio
Regione Siciliana
Assessorato Turismo,
Comunicazioni e Trasporti
Dipartimento Turismo, Sport e Spettacolo
L’’ARS può decidere senza referendum. Irreversibile l’iter che percorre maggioranza di governo e opposizione?
Ci stanno fregando
Ecco come riformano lo Statuto Siciliano
di SALVO BARBAGALLO
C
i stanno fregando. I deputati che
noi Siciliani abbiamo eletto al
Parlamento della Regione, ci
stanno fregando. I lettori ci perdoneranno la terminologia (“ci stanno fregando!”) forse un po’ pesante, e non certo
consueta nel nostro modo di esprimerci,
ma il fatto è che non esiste (a nostro
avviso) terminologia diversa per descrivere ciò che sta accadendo a Palermo.
In più circostanze abbiamo denunciato
l’atto (che consideriamo assurdo, quasi
“sacrilego”) che i nostri deputati (tutti
d’accordo, quelli dell’attuale maggioranza di Governo, e quelli che costituiscono la cosiddetta “opposizione”) stanno compiendo a danno della collettività:
il tentativo di riforma dello Statuto Speciale Autonomistico, uno Statuto (come
è a tutti noto) che mai è stato applicato
nelle sue norme, che avrebbe potuto (se
fosse stato utilizzato) portare benessere
e sviluppo alla Sicilia. Con il nostro
giornale ci siamo intestati la battaglia a
difesa dello Statuto che si vuole (a tutti
i costi) cambiare, annacquare e renderlo
inerte. Questo giornale si voluto attribuire anche l’ingrato compito di “censore” nei confronti dei tanti mistificatori di turno che parlano in nome dell’Autonomia Siciliana, ma che mai nulla
hanno fatto (in passato) e fanno (nel
presente) per difenderla nella sua essenza principale, quella, appunto, del
rispetto dello Statuto Speciale. Abbiamo
lanciato, sempre dalle pagine di questo
giornale, un grido di “allarme” ai Siciliani, dicendo che i loro rappresentanti
hanno tradito il mandato ricevuto perché “nascondono” all’intera collettività
isolana ciò che stanno compiendo, privandola della opportuna informazione
in merito, privandola del diritto di esprimere la propria convinzione. Forse
siamo arrivati tardi: ciò che stiamo
facendo “forse” sarà inutile in quanto i
deputati (tutti i deputati, a qualsiasi
colore politico appartengono) hanno
ben tutelato i loro intendimenti, con
normative che rendono insignificante la
delega loro concessa dagli elettori affinché operassero per il bene comune. I
nostri lettori potranno comprendere ciò
che affermiamo leggendo l’articolo
(veramente “tecnico”) che pubblichiamo in seconda pagina, a firma di Giovanni G. A. Dato. .In questo articolo si
spiega il “perché” tecnicamente i Siciliani non avranno modo di esprimere il
loro parere attraverso un possibile referendum: una normativa, approvata
recentemente, consente, infatti, di non
ricorrere al coinvolgimento diretto del
corpo elettorale quando due terzi dei
componenti dell’Assemblea regionale si
trovi concorde nell’applicazione di una
modifica: Non è un “concetto” facilmente assimilabile, ma comprensibile è.
In poche parole: se all’Ars una maggioranza fortemente qualificata decide una
qualsiasi cosa, non c’è bisogno di chiederlo agli elettori, cioè alla gente. Per
spiegarci ancora meglio: se maggioranza di Governo ed opposizione trovano
una inetsa possono decidere come
vogliono. In poche parole, ancora e
come detto all’inizio. Noi Siciliani
siamo fregati, il nostro Statuto può considerarsi già archiviato come reperto
archeologico.
Possiamo ora spiegarci il perché di
tanta fretta nella incomprensibile corsa
alla riforma dello Statuto; possiamo
spiegarci il motivo per cui Micciche ed
Enzo Bianco (maggioranza ed opposizione, cioè) hanno chiesto a Bertinotti
di accelerare l’iter stesso della riforma;
possiamo spiegarci il perché delle continue sollecitazioni nella stessa direzione
a Camera e Senato, unici organi competenti a decidere in materia costituzionale. Possiamo spiegarci tanti “perché”,
ma non certo le cause che stanno determinando questo (a nostro avviso) insano modi di procedere, all’insaputa dell’intera collettività, alla quale viene
negato il diritto all’informazione, il
diritto ad esprimere ciò che realmente
vuole. A propositi di diritti, c’è da dire
che noi Siciliani il diritto di criticare i
nostri 90 deputati non lo abbiamo: al
Parlamento regionale li abbiamo mandati noi, quindi la responsabilità è solo
nostra…Questo è il risultato di una
delega concessa con troppa superficialità, data nella convinzione che i nostri
eletti rappresentassero veramente noi
elettori. Una pia illusione, un alibi per
tanti, una responsabilità per tutti.
Per risvegliare le coscienze
necessario un altro Vespro?
di FRANCESCO DATO
L
’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani:
frase storica che aveva il significato intrinseco
di constatazione delle diversità dei vari popoli
che insistevano sui vari territori dello stivale, ora
finalmente Italia unita. E’ appena il caso di ricordare che fin dal 1860 si aveva la considerazione delle
diverse caratteristiche socio–economiche che esprimevano le popolazioni di quelle terre che sarebbero
diventate le Regioni Italiane. Se mi è concesso il
paragone, oggi si sta cercando di fare la stessa cosa
con l’Unione Europea, e probabilmente oggi capiamo di più le difficoltà che si sono dovute affrontare e
superare per l’obiettivo unitario della nostra Patria,
constatando le innumerevoli problematiche di una
gestione politica ed economica a livello europeo nel
panorama di diversità delle varie Nazioni che coesistono nel progetto di Europa Unita; l’Europa è fatta,
ora bisogna fare gli europei.
Fin da allora il Popolo Siciliano, che in quanto a
cultura e storia non aveva nulla da invidiare agli
altri Popoli del territorio Italia, esprimeva con legittima consapevolezza quelle istanze autonomistiche
che poi gli sono state riconosciute, dimostrando
quella integrazione anche di religione proprio per le
innumerevoli dominazioni storicamente susseguitesi.
Il percorso è stato lungo e accidentato, costellato
anche di episodi cruenti, che hanno ancor più legittimato il conseguimento di una autonomia che, passata attraverso fasi di lotte indipendentistiche (ricordiamoci del M.I.S. e del suo braccio armato E.V.I.S.)
alla fine aveva visto regolare (e mediata) attuazione
con lo Statuto ancor oggi vigente. Vigente e mai del
tutto applicato, anzi, concesso formalmente per poi,
utilizzando i soliti ascari (leggi rappresentanti del
popolo siciliano venduti al potere partitico e politico
centrale) sostanzialmente disatteso nelle prerogative
prettamente autonomistiche.
Il gioco è stato scoperto fin da subito, tanto è vero
che numerose sono state nel corso di questi cinquanta anni le iniziative tendenti all’effettiva applicazione
dei nostri diritti statutari, tentativi peraltro risoltisi
con un nulla di fatto per la miope e servile attività
politica-partitica dei nostri rappresentanti democraticamente eletti.
Si è perpetrato in questo cinquantennio anche un
delitto, fors’anche più grave rispetto alla mancata
applicazione del nostro Statuto, delitto che riguarda
la storia ed insieme la nostra identità culturale e
l’immagine mediatica della nostra terra e del nostro
popolo.
Andiamo con ordine, la nostra storia: chiedete ai
nostri ragazzi se conoscono le fasi storiche siciliane
dalla seconda guerra mondiale in poi, chi era Canepa e perché è stato eliminato, che cos’era il M.I.S.,
chi era Silvio Milazzo e che cosa ha rappresentato il
milazzismo, chiedete dei fatti di Avola e dei motivi di
quell’eccidio, chiedete perché, più recentemente, non
è stato consentito al presidente della Regione Rino
Nicolosi la creazione delle Linee Aeree Siciliane
(L.A.S.); chiedete perché a Taormina c’era un Casinò che è stato cancellato ed in Sicilia non è possibile
aprirne, mentre altre regioni italiane godono dei
benefici di queste strutture che attraggono anche
turismo, e potremmo continuare a snocciolare ancora tanti “perché” se non avessimo la certezza dell’inutilità di queste domande che non avranno risposta.
Soffermiamoci sull’identità culturale, che in questa epoca di estrema globalizzazione, è stata attratta
in un contesto di diffusa omologazione a culture
diverse lasciando via via nel dimenticatoio generalizzato quella cultura prettamente nostrana che, inevitabilmente, andrà colpevolmente perduta nel volgere
di pochi anni.
Il capolavoro distruttivo è stato però raggiunto
mediaticamente, in quanto il cinema, la televisione
ed i giornali sembra facciano di tutto per reiterare
con costanza degna di miglior causa quella che è
diventata l’icona della Sicilia nel mondo: siamo tutti
mafiosi, e nel caso qualcuno non lo sia, quanto meno
ha la rogna, come amaramente mi confessava un mio
vecchio Professore, che questa realtà l’aveva vissuta
personalmente avendo insegnato per anni al nord;
stranamente però quando ci capita di ospitare qualcuno, risentiamo con piacere, ma anche con rabbia,
sempre le stesse parole di positiva incredulità sulla
realtà del luogo e del popolo siciliano rispetto al prevenuto convincimento.
E siccome non vogliamo piangerci addosso, né
abbiamo più voglia di fare dell’inutile vittimismo,
essendo consapevoli che nessuno ha voglia o, meglio,
interesse a darci una mano, dobbiamo capire che l’unica strada percorribile per cambiare le cose sta
nella nostra capacità di intendere la libertà e la
democrazia.
Le lotte dei nostri progenitori ci hanno concesso il
bene più prezioso, la libertà. Ma cosa sappiamo in
pratica di questo valore fondamentale del quale, ogni
tanto, parliamo con la leggerezza e l’ignoranza che
deriva da una eredità per la quale nulla abbiamo
dovuto faticare per avere, e che invece rappresenta la
base di tutte le altre e numerose conquiste sociali
succedutesi, nonché il presupposto per altre da ottenere?
Ed allora impadroniamoci del vero e incommensurabile concetto di libertà, che è il potere di compiere
o di non compiere certi atti secondo la determinazione della nostra volontà; è il diritto di fare tutto ciò
che non è contrario alla legge morale e alla libertà
altrui. La democrazia, altro bene prezioso della
società, ottenuta anch’essa attraverso il sacrificio e
le lotte dei nostri predecessori, e che etimologicamente significa governo a cui prendono parte diretta
o indiretta tutti i cittadini, è vissuta in quest’epoca
priva di valori con il convincimento della inutilità
delle scelte in considerazione dei risultati negativi
ottenuti.
Gran parte della situazione negativa che abbiamo
vissuto e che ancora oggi viviamo sotto l’aspetto
prettamente politico-partitico, è causata da un sistema democratico imperfetto che ci ha fin qui costretto
a fare le scelte del meno peggio, o di non farne alcuna astenendoci dalla partecipazione attiva alla vita
politica e sociale della nostra terra.
Infatti, come si può attivamente intervenire,
ammesso che ci sia qualcuno di buona volontà e di
ottima moralità, nel potere decisionale dei partiti
politici, se essi soli decidono chi, come e dove candidarsi, praticamente utilizzando il bisogno (nelle
segreterie partitiche) e la necessità obiettiva che
comunque dobbiamo essere governati; a questo
punto il potere del popolo di eleggere democraticamente i propri rappresentanti viene sostanzialmente
disatteso, e con esso viene tradito anche il senso di
democrazia rappresentativa.
Per questo è necessario, anzi vitale, risvegliare le
coscienze di chi, per convenzione ma non per convinzione, ha ritenuto superati e forse pure inutili i concetti di libertà e di democrazia, perché probabilmente a questo risultato hanno mirato coloro i quali ci
hanno (male) governato e si propongono di farlo (
male ) anche in futuro.
In quest’epoca di decadentismo morale è necessario forse un altro vespro che liberi il tempio dai mercanti e ridia al popolo siciliano quella dignità da
troppo tempo calpestata.
LA VOCE DELL’ISOLA
2
23 dicembre 2006
Ecco quali sono i meccanismi che consentono la distruzione dell’ultima conquista della Sicilia
L’intesa dell’A.R.S. nel procedimento
di modifica dello Statuto d’Autonomia
Per la legge non è necessario il coinvolgimento degli elettori nella riforma
di GIOVANNI G. A. DATO
L
’Assemblea regionale siciliana,
nella seduta di martedì 5 dicembre, ha espresso parere favorevole (limitatamente alle norme relative
alla modifica dello Statuto siciliano) a
tre progetti di legge costituzionale (nn.
206, 980 e 1241 – XV legislatura) e
parere contrario ad un quarto progetto
di legge costituzionale (n. 1606 – XV
legislatura), tutti di iniziativa parlamentare, presentati alla Camera dei
Deputati.
Merita di essere precisato che l’art.
41-ter dello Statuto regionale prevede
che per le modificazioni dello Statuto
(l’iniziativa per la modifica può essere
assunta anche dall’Assemblea regionale) si applica il procedimento stabilito
dalla Costituzione per le leggi costituzionali (trattasi del procedimento cd.
aggravato descritto dall’art. 138 Cost.
in base al quale le leggi di revisione
della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna
Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre
mesi, e sono approvate a maggioranza
assoluta dei componenti di ciascuna
Camera nella seconda votazione; merita di essere osservato, tuttavia, che ai
sensi del citato art. 41-ter St., a differenza della previsione ex art. 138 Cost.
le modificazioni allo Statuto approvate
non sono, comunque, sottoposte a referendum nazionale). La parte di maggior interesse, in questa sede, della
disposizione in esame è quella racchiusa nel comma 3 del citato articolo 41ter St. secondo cui i progetti di iniziativa governativa o parlamentare di modificazione dello Statuto sono comunicati dal Governo della Repubblica all’Assemblea regionale, che esprime il suo
parere entro due mesi. Proprio in
applicazione di tale norma l’A.R.S.
Giornale Siciliano
di politica, cultura,
informazione, economia,
turismo, spettacolo
nello scorso 5
dicembre ha espresso il suo parere
sulle proposte di
modifica (i richiamati p.d.l.cost. nn.
206, 980, 1241 e
1606 – XV legislatura). La previsione
in esame, introdotta dalla legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2 che
ha modificato e
semplificato il procedimento di revisione degli Statuti
delle regioni ad
autonomia speciale
è stata oggetto di
vivaci
critiche:
innanzitutto,
la
disposizione non
mette a fuoco in
modo chiaro la
natura giuridica del
parere
espresso
dall’A.R.S.: sembrerebbe trattarsi di
un parere (obbligatorio ma) non vincolante in quanto la
legge si è limitata a
prescriverne la previa acquisizione,
senza aggiungere
altro: ben potrebbero, dunque, le
Assemblee elettive
statali disattendere il parere dell’A.R.S.
senza
violare
alcuna
regola
giuridico–costituzionale (ma solo di
galateo e di fair – play istituzionale);
inoltre, l’espressione di un “semplice”
parere da parte dell’Assemblea rappresentativa del corpo elettorale siciliano
in ordine alla proposta di modifica (di
matrice “nazionale”) dello Statuto
d’Autonomia tradisce il principio di
pari dignità e di equiordinazione costituzionale (sancito dall’art. 114 Cost.) e,
con particolare riguardo alla peculiare
specialità siciliana, il patto autonomistico fra l’ordinamento siciliano e quello statale; il parere esprime, infatti, un
semplice giudizio in funzione meramente ausiliaria della determinazione
finale, nulla più. L’articolo 38 (Approvazione degli Statuti delle Regioni speciali) della legge costituzionale approvata dalla Camera dei deputati e dal
Sala d’Ercole
Senato della Repubblica, e poi sottoposta al referendum del 25 e 26 giugno
2006 (con esito, come è noto, non confermativo del testo), in funzione del
superamento di questo meccanismo
poco rispettoso delle Autonomie speciali prevedeva di aggiungere all’articolo 116, primo comma, della Costituzione la previsione in base alla quale
gli Statuti speciali dovevano essere
adottati con legge costituzionale previa
intesa con la Regione o Provincia autonoma interessata sul testo approvato
dalle due Camere in prima deliberazione. Il diniego alla proposta di intesa
poteva essere manifestato entro tre
mesi dalla trasmissione del testo, con
deliberazione a maggioranza dei due
terzi dei componenti del Consiglio o
Assemblea regionale o del Consiglio
della Provincia autonoma interessata.
Decorso tale termine senza che fosse
stato deliberato il
diniego, le Camere
potevano adottare
la legge costituzionale. I tre progetti
che hanno raccolto
il parere favorevole
dell’A.R.S. lo scorso 5 dicembre prevedono – in piena
continuità con il
richiamato art. 38 di sostituire il citato terzo comma
dell’articolo 41-ter
dello Statuto della
Regione Siciliana
con il seguente: «I
progetti di modificazione del presente Statuto approvati dalle due Camere
in prima deliberazione sono trasmessi all’Assemblea regionale per
l’espressione dell’intesa. Il diniego
alla proposta di
intesa può essere
manifestato entro
tre mesi dalla trasmissione del testo,
con deliberazione
a maggioranza dei
due terzi dei componenti l’Assemblea
regionale.
Decorso tale termine senza che sia stato deliberato il
diniego, le Camere possono approvare
la legge costituzionale» (merita di
essere osservato che non è stato favorevolmente valutato dall’A.R.S. il citato
p.d.l.cost. n. 1606 il quale, al meccanismo descritto negli altri tre progetti di
legge esitati favorevolmente, aggiungeva la seguente previsione: qualora
un progetto di modificazione sia stato
approvato in prima deliberazione da
una delle Camere e il parere dell’Assemblea regionale sia contrario, il Presidente della Regione indice un referendum consultivo prima del compimento del termine previsto per la
seconda deliberazione). Deve salutarsi
con favore la prevista sostituzione dell’istituto del “parere” con quello
dell’”intesa”: l’intesa è ontologicamente diversa dal semplice parere, essendo
una formula organizzatoria che presup-
pone un coordinamento interprocedimentale (e non già endoprocedimentale) tra Enti pariordinati. L’intesa –
quella descritta nei tre progetti di legge
citati – è un vero e proprio “accordo”
tra il Soggetto (lo Stato) cui l’atto può
essere giuridicamente imputato (nel
caso che ci occupa, la legge costituzionale di modifica statutaria, essendo lo
Stato depositario del potere costituente
e di revisione costituzionale) e quello
(la Regione Sicilia) che partecipa alla
determinazione del suo contenuto.
L’intesa, come più volte ha chiarito la
Corte Costituzionale, è una tipica
forma di coordinamento paritario, in
quanto comporta che i soggetti partecipanti siano posti sullo stesso piano in
relazione alla decisione da adottare, nel
senso che quest’ultima deve risultare
come il prodotto di un accordo e, quindi, di una negoziazione diretta. Ove le
proposte di legge costituzionale in
esame venissero approvate, dunque,
l’atto di assenso della Regione Sicilia
dovrebbe considerarsi vera e propria
determinazione volitiva preordinata a
realizzare l’effetto finale che la norma
collega alla fattispecie procedimentale:
la mancanza dell’intesa (la quale, giova
ribadirlo è “paritaria codeterminazione” del contenuto dell’atto da adottare,
senza che sia consentito un “declassamento” in mera consultazione a carattere non vincolante), da parte
dell’A.R.S., infatti, si risolverebbe in
mancanza di una condizione di operatività del procedimento di modificazione
statutaria, stante l’incompletezza della
fattispecie complessa, al cui perfezionamento soltanto è condizionato il conseguimento dell’effetto finale. Mutuando la terminologia propria delle discipline giuspubblicistiche, nella fattispecie in esame l’intesa dell’A.R.S. può
considerarsi del tipo “forte” nel senso
che il mancato raggiungimento di essa
costituisce ostacolo insuperabile alla
conclusione del procedimento. Il mancato coinvolgimento diretto del corpo
elettorale siciliano nel procedimento di
modificazione statutaria (nei p.d.l.cost.
nn. 206, 980 e 1241 – XV legislatura)
si spiega, probabilmente, in ragione
dell’elevato quorum (due terzi dei
componenti l’Assemblea regionale)
richiesto per l’espressione del diniego
alla proposta di modifica: una percentuale così elevata lascia presumere l’idem sentire fra il corpo elettorale siciliano ed i suoi rappresentanti.
Iscritto al n° 15/2006
dell’apposito Registro
presso il Tribunale di Catania
Nella nostra Isola, nonostante tutto, la lezione verghiana non è servita proprio a nulla
Editore
Mare Nostrum Edizioni Srl
I nuovi Mazzarò ed i piani regolatori
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Direttore responsabile
Salvatore Barbagallo
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Anno I, nº 8
23 dicembre 2006 ~ 4 gennaio 2007
Gli articoli rispecchiano
l’esclusivo pensiero
dei loro autori
di ENZO LOMBARDO
G
iovanni Verga, tra la sua meravigliosa produzione letteraria, scrisse una bellissima
novella intitolata “La Roba” che potrebbe
essere benissimo, per chi non vedesse l'operazione
come blasfema, aggiunta alla parabole raccontate
da Gesù. In questa novella si racconta la storia di
Mazzarò, un contadino siciliano che aveva l'ossessione di accumulare terre e ricchezze, e vi erano
casi dove tutto ciò che era visibile all'occhio
umano era di sua proprietà. La “roba” , antico termine siciliano per definire i possedimenti e la ricchezza, e la sua accumulazione erano le uniche
ragioni di vita di Mazzarò. Ma venne il tempo della
vecchiaia e Mazzarò, che nemmeno aveva voluto
sposarsi e avere figli, capì che alla sua morte tutto
sarebbe stato perduto e anche se avesse avuto figli,
la “roba” non sarebbe comunque stata più sua. Egli,
alla prospettiva della morte sempre più vicina ed
incalzante, prendeva a calci i suoi terreni ed i suoi
palazzi, gridando contro di loro la sua terribile
angoscia e rinfacciando ad essi, muti spettatori, il
fallimento di una vita dicendo: “Robba mia, vienitene con me!”.
Nella Sicilia di oggi, la lezione verghiana non è
servita a molto; il sogno di moltissimi di noi è sempre quello: la roba. Ci sono ancora dei Mazzarò, ma
gli assomigliano solo per lo scopo finale, quello di
accaparrare tutto, anche se non serve a rendere più
ricchi. Essi, a differenza di Mazzarò, usano tutti i
mezzi a loro disposizione e soprattutto usano i
mezzi che la legge (che dovrebbe tutelare anche e
soprattutto i più deboli) mette a loro disposizione.
Uno di questi mezzi, il più vergognoso, è costituito
dai Piani regolatori generali. Questi strumenti, di
cui ogni Comune dovrebbe essere dotato, servirebbero, in teoria, a regolare armonicamente l'urbanizzazione del territorio comunale, anche secondo
delle direttive di espansione sociale ed economica.
In realtà essi sono degli strumenti nelle mani dei
novelli Mazzarò che li usano, tramite i consiglieri
comunali e le giunte, per decidere quali terreni possono essere edificabili (e quindi valere un sacco di
soldi) e quali no.
Ma quale norma morale, o giusnaturalistica, può
tollerare che un assemblea politica (e quindi portatrice di interessi diversi) possa decidere se sul mio
pezzo di terra posso costruirmi la mia casa oppure
no? Questo dirigismo travestito da Stato Etico è la
cosa più antisociale che si sia mai vista negli ultimi
tempi.
Grazie ai Piani regolatori l'offerta di immobili è
limitata e, quindi, come in qualsiasi mercato il
prezzo delle case e dei terreni edificabili è sempre
alle stelle e non fluttua mai verso il basso. Ciò
rende, ormai, il mercato immobiliare, un mercato a
cui nessun consumatore medio può accedere se non
indebitandosi per una vita (creando profitto per le
banche ed il sistema finanza).
La cosa più tragica di tutta questa vicenda è che
primi difensori dei Piani regolatori sono proprio le
sinistre ambientaliste ed “attente” alla povera
gente. Eliminare i Piani regolatori potrebbe essere
possibile in Sicilia che, sull'urbanistica, possiede
competenza legislativa esclusiva. Se si facesse questa coraggiosa riforma, il prezzo delle case scenderebbe in maniera vertiginosa e molte persone
potrebbero comprare casa, rilanciando l'edilizia e
quindi immettendo più denaro nel circuito produttivo piuttosto che su quello finanziario.
D'altro canto, sarebbe così possibile eliminare
tout court il malcostume e la corruzione che ruotano attorno all'approvazione dei Piani regolatori,
che spesso non vedono la luce proprio perché non
si riesce a mettersi d'accordo sulla spartizione.
Eliminati i piani Regolatori, la Regione dovrebbe emanare un Regolamento Edilizio con tutti i
requisiti di legge per potere costruire un edificio su
un terreno; questo regolamento dovrebbe fare in
modo che il prospetto architettonico di un immobile sia, naturalmente, coerente con il contesto in cui
si inserisce, ma una volta rispettata la sicurezza ed
il contesto architettonico nessuno può impedire ad
un libero cittadino di farsi la propria casa.
Una volta il sogno dei nostri nonni era quello di
comprarsi un pezzo di terra per poterci costruire la
propria dimora, la propria roba; oggi l'unico sogno
di due sposi è quello che il direttore della banca gli
conceda la “grazia” di potersi indebitare per tutta la
vita.
La battaglia per l'abolizione dei Piani regolatori è
una battaglia sociale e civile, è una battaglia per noi
e per i nostri figli, è il nostro modo di dire che non
vogliamo morire di fame per una politica lontana
ed asservita ai Mazzarò di turno.
LA VOCE DELL’ISOLA
3
23 dicembre 2006
Anche presso l'Assemblea Regionale Siciliana gli emolumenti dei deputati raggiungono cifre vertiginose
Palazzo d’Orleans batte Palazzo Madama
Un deputato costa oltre 20mila euro al mese
Dovrebbe guadagnare la stessa cifra di un senatore ma ne porta a casa di più
di GUGLIELMO ALTAVILLA
N
el 1947 venne istituita la regola,
a Costituzione Repubblicana
non ancora vigente, che i parlamentari dell’Assemblea Regionale
Siciliana (istituita ancor prima del referendum Monarchia-Repubblica e, precisamente, il 15 maggio del 1946)
avrebbero dovuto avere delle indennità
pari a quelle dei senatori. Da allora
vige questa sorta di adeguamento automatico delle indennità degli onorevoli
dell’ARS con i Senatori della Repubblica. Resta naturalmente scontato che,
comunque, l’ARS ha piena facoltà di
determinare autonomamente sul trattamento economico dei suoi componenti,
come recita l’art.69 del suo regolamento. E questa facoltà i nostri deputati se
la riservano molto seriamente e valga il
ricordo della circostanza che ha visto
l’aumento dell’indennità lorda dei parlamentari siciliani, mentre quella dei
senatori (seppur simbolicamente) diminuiva. Infatti mentre, come spiegato
nel servizio del numero precedente del
nostro giornale, dedicato ai parlamentari nazionali, l’indennità di un senatore è “diminuita” a 11.940,68 euro lordi
al mese, quella di un deputato all’ARS
è aumentata a 12.434 euro lordi al
mese.
Ma la differenza non è soltanto questa, c’è molto di più. Un deputato
all’ARS ha diritto a percepire delle
indennità aggiuntive se occupa delle
posizioni ulteriori nella geografia del
potere istituzionale isolano. Ad esempio se il deputato occupa la funzione di
Presidente dell’ARS gli spetta un
‘indennità ulteriore netta di circa 8.000
Euro.
Meno “fortunati” sono i deputati che
assurgono alla carica di vice Presidente
dell’ARS, ovvero di assessore della
Giunta Regionale, ad essi spettano soltanto 4.000 euro netti in aggiunta alla
loro indennità. Le “cenerentole” sono i
deputati che rivestono la carica di componente del Collegio dei Questori,
componente del Consiglio di Presidenza, presidente di Commissione parlamentare; ad essi spetta una cifra netta
aggiuntiva che oscilla tra i 3.000 ed i
2.000 euro al mese. Le indennità
aggiuntive (diaria di presenza a Palermo, rimborso viaggi, spese telefoniche
ed altro) ammontano a circa 6.000 euro
(su di esse, come per i parlamentari
nazionali, non è possibile applicare
alcuna trattenuta, nemmeno fiscale).
I benefits dei deputati palermitani
ricalcano, grossomodo, quelli degli
inquilini di Palazzo Madama, tranne il
fatto che, quando non coincidono, sono
sempre in meglio. Valga l’esempio del
vitalizio (una sorta di pensione aggiuntiva a quella che il deputato matura per
la sua attività professionale): mentre
quello di deputati e senatori nazionali
non può superare l’80% dell’indennità
mensile lorda (gli 11.940 euro per
intenderci), quello dei deputati siciliani
all’ARS sarà pari al 100% dell’indennità lorda.
Vi è poi un rimborso del tutto particolare riconosciuto ai fini del gruppo
parlamentare. Ad ogni deputato appartenente ad un gruppo parlamentare in
seno all’ARS vengono riconosciuti
6700 euro al mese per il funzionamento delle segreterie all’interno di Palaz-
zo dei Normanni. Questa cifra, però, è
valida solo per i primi due deputati, dal
terzo in poi la cifra si abbassa.
Come è facile dimostrare facendo
soltanto qualche addizione il costo
mensile di ogni deputato supera abbondantemente i 22.000 euro (considerati
gli incarichi speciali e la media dei rimborsi ai gruppi parlamentari).
Di conseguenza, volendo prendere
questa cifra come punto di riferimento,
ogni mese i siciliani devono “sborsare”
circa 1.980.000 euro solo per pagare
stipendio ed indennità varie agli onorevoli.
A questo punto diventa facile stabilire che, in un anno, i novanta nababbi di
Sala d’Ercole costino 23.760.000 euro
(circa 46 miliardi del vecchio conio per
usare un espressione di un noto presentatore televisivo). Si tenga presente che
questa cifra non comprende tutte le
spese per il funzionamento dell’ARS
(personale, manutenzione, affitti, utenze, auto di servizio, cellulari e via
dicendo).
Purtroppo, come molti altri Parlamenti, l’ARS tiene le informazioni sui
suoi costi molto riservate, anche se essi
sono atti pubblici, ed è difficilissimo
per un normale cittadino procurarsi
questi dati.
Ancora una volta bisogna denunciare
pubblicamente questo sconcio e questo
sperpero di pubblico danaro. In una
regione come la nostra dove la disoccupazione è altissima e dove spesso i
Comuni non hanno i soldi per pagare i
servizi sociali, il Parlamento regionale
spende e spande a più non posso come
per una perversa regola secondo la
quale più poveri sono i territori, maggiore deve essere lo sfarzo delle “corti”
che li rappresentano (monarchiche, dit-
tatoriali o democratiche che esse
siano). Come notazione finale possiamo aggiungere che il costo dei parlamentari siciliani è il più alto d’Italia e
non solo rispetto ai rappresentanti nei
Consigli di altre Regioni, ma anche
rispetto al Parlamento nazionale.
Chi pensasse che questo è “qualunquismo” ci farebbe soltanto un complimento: noi siamo uomini qualunque
(anche nel senso politico e giannianiano del termine) e come tutti gli uomini
qualunque vogliamo sapere come vengono spesi i soldi che, d’imperio, ci
vengono tolti; se questo è qualunquismo siamo orgogliosi di esercitarlo e di
credere che esso sia l’essenza della
democrazia.
Chi afferma e pratica il contrario
rischia solo di essere, a nostro modesto
avviso, un oligarca travestito da intellettuale.
Riprendiamo coscienza della nostra memoria e rispolveriamo secoli di storia che abbiamo cancellato
Mettiamo in moto la rivoluzione silenziosa
di SERURIER
I
l primo presidente della Regione Siciliana, Giuseppe Alessi,
in una riunione clandestina del suo partito (la Democrazia
Cristiana) nel 1943 ebbe ad affermare, in opposizione a Silvio Milazzo, che “....il popolo siciliano non esiste !”. Con questa
affermazione l’on. Alessi, ancora vivente ed osannata icona di
non si capisce cosa, ha negato dignità culturale e storica a quello che, invece, è stato uno dei popoli più antichi e riconoscibili
della storia mediterranea. Le aspirazioni all’indipendenza ed, in
subordine, all’autonomia dei Siciliani sono storicamente documentate da oltre nove secoli, nonostante la cultura ufficiale
dello Stato Italiano abbia fatto di tutto per negare questa evidente, quanto macroscopica, verità storica. Noi invece pensiamo che il popolo siciliano esista ma, tuttavia, abbia un grande
problema: non ha coscienza di ciò! Il risultato di circa centottantanove anni di cultura ufficiale anti-siciliana (prima i Borbone di Napoli, poi i Savoia, seguì Mussolini ed hanno completato gli illuminati paladini della Repubblica Italiana) è stato il
totale annientamento della nostra consapevolezza di popolo e
nazione.
Vorremmo chiedere ai docenti siciliani che insegnano nelle
scuole secondarie se si sono mai soffermati, magari come corso
monografico, sulla secolare storia del Regno di Sicilia; se
hanno mai parlato ai ragazzi della guerra del Vespro andando
oltre la saga del “palpeggiamento” del militare francese alla
giovane palermitana ferita nell’onore; se hanno mai pensato di
raccontare veramente, la storia di Ruggero Settimo e dei gloriosi moti del 1848. I giovani siciliani non conoscono la storia della
loro terra, qauantomeno non più di quanto non prevedano i
programmi del Ministero. In questa operazione di pulizia, o
forse sarebbe meglio di polizia, culturale la più grossa fetta di
Giuseppe Alessi
responsabilità appartiene comunque a noi. Non si ritiene opportuno, nè tantomeno dignitoso, gridare sistematicamente allo
scippo quando i ladri siamo noi stessi. Ma cosa pretendiamo,
che i colonizzatori e gli sfruttatori ci diano pure gli strumenti
(culturali e politici) per evitare lo sfruttamento stesso? Suvvia,
non scherziamo. Se non abbiamo più memoria è perché non
siamo stati capaci di difendere la nostra dignità.
Tuttavia, spesso, questi discorsi vengono tacciati come retorici, astratti, passionali e poco pragmatici e invece noi vi diciamo
che è proprio il pragmatismo che ha ucciso le nostre coscienze.
L’idea di Sicilia va coltivata nei nostri giovani con la cultura e
con la conoscenza e non con i finanziamenti a pioggia e l’ele-
mosina di Stato (ed oggi anche di continente). Noi non abbiamo
bisogno di nessun aiuto, ma solo di pari opportunità. proprio
questo è quello che temono i colonizzatori: le pari opportunità.
Fin quando i siciliani saranno un popolo di disoccupati, un
branco di consumatori da rinchiudere negli ipermercati, una
schiatta di indebitati con le finanziarie da tassi astronomici, una
masnada di compilatori di schede elettorali, essi non avranno nè
dignità di popolo nè libertà di uomini.
Non possiamo più nasconderci, occorre una rivoluzione, una
rivoluzione pacifica ma non per questo meno epocale. Per
prima cosa bisogna immediatamente riaffermare la propria
sovranità elettorale e, di conseguenza, riportare l’autonomia
siciliana alla sua vera essenza: quella di patto tra il popolo Siciliano e la Repubblica Italiana. Questo potremmo ottenerlo solo
in un modo: dando una forte spallata alle oligarchie politiche
già dalle prossime amministrative di primavera.
State attenti, fra pochi giorni comincerà il can can delle
riunioni con le conseguenti tarantelle nelle segreterie politiche
e persino nei ballatoi dei condomini. Vedrete come organizzeranno la cosa in maniera scientifica, metteranno un candidato
per appartamento, faranno in modo di intercettare tutti i voti
possibili ed immaginabili promettendo presidenze, posti di vigile urbano, lavoro, case popolari, conversione di terreni agricoli
in terreni edificabili e, se necessario, persino un dog-sitter per il
vostro cane.
Questa volta abbiate il coraggio di dire no! Vi garantiamo che
non avete niente da perdere ma tutto da guadagnare. Come dire
questo no sceglietelo voi: scheda bianca, scheda nulla, astensione, voto disperso; diciamolo come vogliamo ma diciamoglielo
forte: non ci rappresentate più. Fatto questo verrà il momento
che qualcuno dovrà prendere atto che la Sicilia si è svegliata.
Alziamoci, la rivoluzione è iniziata.
LA VOCE DELL’ISOLA
4
23 dicembre 2006
Intervista al segretario generale della Cisl di Catania, Salvatore Leotta, sui pesanti problemi siciliani
L’imprenditoria ricerca la sua strada
Inespresse le grandi potenzialità esistenti
Oggi il Sud non è in grado di colmare il pesante gap con il Nord
di GIOVANNI PELLIZZERI
T
ante parole si sono dette, e molte altre si
sono scritte sulle decisioni del Governo
Prodi in merito alla realizzazione di importanti infrastrutture che potrebbero favorire lo sviluppo economico e sociale della Sicilia. La Cgil si
è espressa in maniera chiara, invitando a Catania
il ministro Bianchi, che ha detto (anzi, ripetuto)
chiaramente che il Ponte sullo Stretto di Messina
non si farà. Noi, francamente, non abbiamo mai
nutrito questa convinzione, e abbiamo espresso in
tante circostanze la nostra opinione: la Sicilia è
un’isola che non deve (materialmente e “ideologicamente”) essere unita al Continente Italia, al
Continente Europa. La Sicilia deve essere, oggi
più che ieri, una regione che deve “consumare” e
non “produrre”. Consumare (cioè, comperare)
tutto ciò che al nord si produce, la Sicilia deve
essere vincolata alla disoccupazione, la Sicilia
deve essere quella dello sfruttamento umano nelle
antiche zolfare, dove generazioni di adolescenti
venivano sfruttati per l’arricchimento di pochi.
La Sicilia non può essere il punto di confluenza
tra Europa e Mediterraneo, e quindi deve essere
“tagliata” fuori anche dai processi di avanzamento economico e culturale che l’apertura dell’area di libero scambio porterà ovunque in Italia, da Gioia Tauro sino alla cosiddetta Padania,
e oltre. Queste sono le problematiche di oggi e di
domani, e su queste problematiche abbiamo voluto ascoltare il parere del segretario generale
della Cisl di Catania, Salvatore Leotta. Ecco le
domande che abbiamo posto e le risposte che ci
sono state date:
Salvatore Leotta
La provincia di Catania, come il resto della
Sicilia, stenta a decollare sul piano dello sviluppo economico e occupazionale; quali sono a suo
avviso le cause e i rimedi?
La provincia di Catania ha tante potenzialità
attraverso le quali svilupparsi: quella turistica,
quella agroalimentare, quella industriale dell’hitech. Sono tutti settori, però, che l’intervento
degli enti e delle istituzioni pubbliche dovrebbero
governare o dove dovrebbero determinare condizioni favorevoli all’imprenditoria. Tutto ciò però
non succede, o succede molto raramente. Le condizioni in cui versa l’Area di sviluppo industriale,
la lunga querelle sulla società di gestione dell’aeroporto, la pesante presenza nel mercato di
Comune e Provincia con le multiservizi, la scarsa
Ma perché Totò Cuffaro affida la Sicilia alla Madonna?
Gioca coi fanti e lascia stare i Santi
di FRANCO LOMBARDO
O
rmai sono circa otto anni
che il nostro Governatore
si reca in pellegrinaggio al
Santuario della Madonna di Siracusa per devozione e preghiera;
meraviglioso gesto, esempio
vivente di come sia possibile abbinare la fede alla gestione della
cosa pubblica. Infatti, quando si
diventa per scelta, per caso, o per
mille altri motivi, dirigenti politici, è quasi fisiologico che la fede
religiosa che si interseca e si
incrocia con le fede politica (sono
esclusi i casi di ateismo poiché chi
lo professa e lo applica ha una sola
fede) porta l’uomo all’invocazione di aiuto in caso necessità personale, familiare e (perché no?) politica.
Nel caso che citiamo, nulla
togliendo alla buona fede del
nostro Presidente Regionale, ci
sembra esagerato che da anni l’invocazione di aiuto sia sempre la
stessa: affidiamo la Sicilia al
Cuore Sacro e Immacolato della
Madonna affinché ELLA possa
proteggere i poveri, i bisognosi, i
giovani ecc. ecc. Pensiamo infatti,
né da miscredenti, né da atei, ma
da onesti cittadini di estrazione e
cultura cristiana e cattolica, che la
preghiera non basti!
Caro Presidente, nulla togliendo
al Suo impegno, sicuramente
pieno di ostacoli e compromessi
come avviene normalmente in
politica, Lei pensa veramente che
la Madonna possa fare tanto da
miracolare la Sicilia e con un
gesto di benedizione far diventare
questa meravigliosa terra il vero
centro del mediterraneo, incrocio
commerciale, culturale e politico?
Lei pensa veramente che per mettere in moto una economia inesistente, costruire il Ponte, fare le
vere infrastrutture, rilanciare il
turismo, fare dell’agricoltura vera
impresa, rivisitare la faraonica ed
onerosissima
organizzazione
burocratica regionale (effetto solo
di clientelismo), utilizzare le
nostre risorse prima di tutto per
noi stessi, incentivare la produzione e l’acquisto almeno di generi
alimentari provenienti dalle nostre
terre (anzicchè acquistare tutto dal
centro o nord Italia), insomma
applicare in pieno la Vera Autonomia lasciataci in eredità da chi si è
sacrificato per noi Siciliani dandoci la più moderna Carta Costituzionale esistente al mondo, cioè
“lo Statuto autonomistico speciale”, Lei crede che basti una Pre-
Chiunque dei vostri colleghi tenti,
come si fa da decenni, di utilizzare la Sicilia come campo prova per
ogni tipo di elezione (Casini e Follini ripartono da Palermo, mentre
la Finocchiaro e Bianco in Catania
dibattono sul Partito democratico)
deve capire che sono finiti tempi
del fatalismo e della passività.
I cittadini siciliani sembrano
Totò Cuffaro
ghiera? No caro Presidente, occorre ben altro!
Non inneggiamo né all’indipendentismo, né al separatismo, ma
crediamo, perché ormai si è toccato il fondo, che tutti voi Signori
politici siciliani riprendiate la
vostra dignità di rappresentare un
popolo degno di tale nome; chiediamo di essere ascoltati, chiediamo di incontrarvi, offriamo la
nostra collaborazione con l’unico
vero interesse che è il riscatto di
questa terra fin troppo sfruttata.
assuefatti a questo stato di cose,
ma non è così! La storia ci insegna
tante cose, e non a caso è Maestra
di vita, quindi non permettiamo
più a nessuno di ricattarci, non
abbiamo nulla da chiedere se non
quello che ci spetta di diritto “la
nostra totale autonomia (cosa che
ci viene invidiata anche da Bossi).
Ma sia lui che tutti voi avete veramente capito che il nostro Statuto
è parte integrante della Costituzione Italiana?
Vede, caro Presidente, è signifi-
cativo che mentre Lei va a pregare per la Sicilia (si dice: aiutati che
Dio ti aiuta) il Presidente della
Repubblica Napolitano si reca
nello stesso giorno nella sua città
natale Napoli (città che noi amiamo come tutto il resto d’Italia) e
dà la sua Benedizione alla Tav che
dovrebbe collegare Salerno con
Bari (effetto governo centrosinistra
in
altri
termini:
Bassolino–D’Alema?).
Non facciamo commenti, ma il
Presidente della Repubblica non è
il Presidente di tutti gli Italiani?
E allora, caro Presidente, dove
sono tutte le promesse fatte ai
Siciliani? Chi è il garante della
Costituzione? Il popolo giudica e
quando sarà stanco di promesse e
di chimere, avrà sempre, almeno
speriamo, il più importante potere
democratico esistente: il voto!
Per concludere, che fa il signor
Presidente del Consiglio?
Esegue dettagliatamente le
disposizioni avute nel suo mandato, dal quale, se pur con tanta confusione, non può derogare e quindi approva che Napolitano benedica la Tav napoletana e Cuffaro
preghi in Siracusa mentre lui da
Parigi chiude gli accordi di massima con Chirac per la Tav che collegherà l’Italia alla Francia, nonostante la Val di Susa! Tutto è perfetto, o forse ancora perfezionabile.
Aspettiamo fiduciosi che qualcuno ci ascolti, ma nel frattempo,
Caro Governatore, visto che c’è
ancora qualcuno che vuole investire in Sicilia, sicuramente per
fare utili, ma portando probabilmente lavoro, turismo ed altro,
perché non vede di dare una mano
a Sir Rocco Forte che vorrebbe
realizzare i campi da Golf nei dintorni di Sciacca? Pare che ci siano
dei contratti firmati mentre il suo
assessorato all’Ambiente pare
abbia bloccato i lavori. Chi avrà
ragione? Risolva il problema in
maniera da non perdere gli investimenti, senza deturpare l’ambiente!
Quante vecchie norme andrebbero riscritte e quanta burocrazia
andrebbe semplificata!
attenzione ai problemi di un colosso come la StM
sono condizioni che non favoriscono né l’imprenditoria privata né lo sviluppo. I settori dove certa
politica ha messo le mani affondando nel caos e a
nulla vale il tradizionale fermento che ha sempre
caratterizzato la nostra provincia.
Gli enti locali possono concorrere a un processo di sviluppo? E come?
Gli enti locali si stanno allontanando sempre
più dal loro tradizionale ruolo. La produzione
legislativa comunitaria, e quella nazionale, li stanno delineando come soggetti di indirizzo politicoprogrammatico e di controllo che scelgono di
lasciare, dove possibile, ai soggetti privati meglio
attrezzati la fornitura di servizi pubblici, all’insegna dell’efficienza e dell’economicità. La pianificazione del territorio operata, ad esempio, attraverso i Prg o con i piani del trasporto, può certamente contribuire, come ho già detto, a determinare condizioni favorevoli di sviluppo. La concertazione con la società organizzata, però, non può
essere abbandonata, come purtroppo è successo e
sta succedendo.
La voglia dei palazzi della politica di far da sé,
di restringere il ruolo dei corpi sociali e del sindacalismo confederale sta ottenendo risultati deleteri, rivolti più a perseguire interessi personali che
collettivi. Ma gli enti locali possono a devono
intervenire anche nella lotta contro l’illegalità,
grande e piccola, che frena lo sviluppo sano. E lo
possono fare favorendo nel cittadino atteggiamenti di rispetto civico delle istituzioni, che devono però offrire esempi virtuosi da far seguire.
Il Ponte sullo Stretto è un fattore di sviluppo
e occupazione per l’Isola? Se sì, perché tanto
ostracismo? Ci sono interessi alternativi?
La Cisl è sempre stata favorevole alla realizzazione del Ponte, perché vi ha visto non solo un
volano di sviluppo e occupazione, ma anche la
possibilità concreta di superare quella “insularità
psicologica” che spesso fa rinchiudere il siciliano
in sé stesso e non lo fa aprire al mondo. La decisione del goberdo di non fare più il Ponte, dunque, ci amareggia. È possibile che prioritarie
appaiono altre opere, come la Tav.
È necessario, però, che le risorse a esso destinate siano utilizzate per ricostruire un sistema infrastrutturale serio nella nostra regione, fatto di autostrade, porti e interporti. Risorse che dovrebbero
essere destinate anche al resto del Mezzogiorno,
per colmare il gap che lo separa dal Nord del
Paese.
La Legge finanziaria, così come si è delineata, quali aspetti positivi o negativi avrà sulla
nostra regione e sulla nostra provincia?
Nella Finanziaria, purtroppo, per il Sud e per la
Sicilia ci sono solo interventi simbolici. Ciò che
cittadini, lavoratori e imprenditori si aspettano,
invece, è che il governo ridia al Mezzogiorno la
priorità che gli spetta per lo sviluppo organico,
complessivo e armonico di tutto il Paese. Occorrono investimenti in infrastrutture, ma anche
interventi di politica finanziaria a favore delle
imprese, come fiscalità di vantaggio e incentivi
per la ricerca. C’è un grande appuntamento che
aspetta il Mediterraneo nel 2010, l’area di libero
scambio.
Il Mezzogiorno, e la Sicilia soprattutto, devono
essere messi in condizione di arrivarci con il massimo delle potenzialità espresse. La concorrenza è
aggressiva; paesi come Malta o le regioni meridionali spagnole sono già in corsa per assumere
leadership in svariati settori.
L’Italia deve fare in modo che la Sicilia si
imponga come centro di interesse economico e
politico. Ne verranno benefici per tutti, anche per
i fragili equilibri geo-politici dell’area.
LA VOCE DELL’ISOLA
5
23 dicembre 2006
Annullata la gara d’appalto dopo l’infruttuosa Conferenza dei sindaci della provincia
Ragusa: resta ancora non sciolto il nodo
della privatizzazione della società idrica
Si sta attendendo l’orientamento del Governo in materia di ATO
di ERNESTO GIRLANDO
D
opo mesi di rinvii, incertezze e
sospetti, la Conferenza dei sindaci, riunita al cospetto del
Presidente della Provincia, ha deciso
di annullare la gara d’appalto per l’individuazione del partner privato della
società che dovrebbe gestire le risorse
idriche per i prossimi trent’anni in provincia di Ragusa. In precedenza una
sospensione aveva consentito la composizione di un tavolo tecnico con il
compito di verificare la possibilità
della gestione in house del prezioso
liquido, conoscere gli orientamenti che
il Governo nazionale vorrà assumere
in materia di Ambiti Territoriali Ottimali e verificare i termini entro i quali
giungere a una determinazione certa in
ordine alla gestione per poter accedere
ai fondi comunitari. Non avendo conseguito alcun risultato né nell’uno, né
nell’altro senso e nemmeno nell’altro
ancora, la palla torna alla conferenza
dei sindaci e al presidente della Provincia che dovrebbero, a breve, deliberare in merito e porre fine a una pratica dilatoria che dura da troppo tempo.
La decisione di sospendere la gara
era giunta al termine di una lunga e
sofferta disputa nel corso della quale
Il presidente della Provincia, Antoci
se n’erano sentite e viste di tutti i colori. Dai sindaci del centrodestra che
hanno sempre sostenuto l’ineluttabilità
della privatizzazione del servizio additando, con estremo candore, - udite,
udite – la conduzione pubblica quale
sinonimo di spreco, inefficienza,
gestione clientelare, a quelli del centrosinistra con la loro condotta ondivaga, spavaldi nelle dichiarazioni di principio e in piazza, esitanti nelle sedi
che contano.
Dalle dimissioni di un componente
del seggio di gara per l’esclusione
sospetta di una delle tre società partecipanti, alle accuse di infiltrazioni
mafiose, denunciate tra l’altro anche
attraverso un’interrogazione parlamentare e alle mobilitazioni della
società civile e di parte del clero, attraverso movimenti, comitati e associazioni che hanno, in qualche modo, rallentato il processo di privatizzazione.
Poca invece la chiarezza sui reali
termini della questione e su tutto ciò
che è sotteso alla determinazione di
privatizzare e mercificare un bene
comune come l’acqua. La qual cosa
travalica, naturalmente, i termini della
contesa locale e pone problemi di ordine generale.
I processi di privatizzazione che
negli ultimi quindici anni hanno investito la vita italiana sembrano inarrestabili. Nessuno però ha avuto l’ardire
di pensare, fino a poco tempo fa, che
essi avrebbero riguardato anche i beni
comuni. Il progetto di privatizzazione
delle risorse idriche riguarda l’intero
Paese e interessa trasversalmente gli
schieramenti politici, ma è parte di una
strategia globale di investimenti privati.
In Italia il quadro normativo sulle
acque è dato dalla legge Galli del 1994
che ha normato il settore introducendo
il concetto di ciclo idrico integrato e
quello degli ATO, trasformando ogni
impresa municipale o consortile di
gestione pubblica dei servizi di acqua
in S.p.A., con l’obbligo di apertura al
capitale privato (minimo 40% con
unico partner privato), e facendo dell’Italia, dopo l’Inghilterra della That-
cher, il Paese dove è legalmente vietata la gestione in diretta dei servizi pubblici da parte degli organi pubblici.
Nel dicembre del 2001 il Parlamento italiano ha approvato la legge delle
cosiddette grandi opere, conferendo al
Governo Berlusconi, insediatosi da
poco, il mandato di individuare le
infrastrutture e gli insediamenti produttivi di interesse primario per favorire l’ammodernamento del Paese. Tra
gli obiettivi prioritari gli “interventi
per l’emergenza idrica nel Mezzogiorno”. Gli importi ammontano a 4.641
milioni di euro: il più grande affare
garantito alle imprese del settore
costruzione dopo quello per il ponte
sullo stretto di Messina. Le aspettative
del mondo imprenditoriale sono enormi: il business dell’acqua è avviato.
Il caso Ragusa è per molti versi
emblematico: una grande massa di
finanziamenti pubblici (63,8 milioni di
euro, di cui 44,6 a fondo perduto) con
i quali si dovrà ristrutturare e gestire la
rete idrica provinciale. Ed è altrettanto emblematico sul piano dei rapporti
tra politica ed economia. “Affrontare il
problema non sotto il profilo ideologico, ma sotto quello economico considerando l’aspetto utilitaristico prima di
ogni altra cosa”, dichiara il presidente
della Provincia, Antoci, denunciando
quella crisi della politica sostenuta da
più parti e inserita in un quadro di
declino dovuto non tanto all’estinguersi di una funzione, bensì al suo essere
esercitata sempre più secondo modalità “tecniche”.
La crisi della politica, che è crisi del
suo senso per il venir meno del legame
con “potenze etiche”, si esplicita con
il suo subordinarsi a finalità proprie di
altre dimensioni della vita sociale, in
primis alla logica dell’economia. E la
crisi diventa palese quando l’Europa
del presidente Prodi, nell’ambito dei
negoziati per la liberalizzazione del
mercato dei servizi, portata avanti dal
WTO, l’Organizzazione mondiale del
Commercio, ha intimato a moltissimi
paesi dell’Africa e dell’America latina
di privatizzare i servizi idrici per sostenere le grandi multinazionali dell’ac-
Alex Zanotelli
qua, per la maggior parte europee.
Oppure quando l’azienda municipalizzata Acea (maggioranza 51% del
Comune di Roma del sindaco Veltroni), quotata in borsa, si accaparra la
gestione di diversi servizi idrici nei
paesi del Terzo Mondo, negando di
fatto l’accesso all’acqua ai più poveri.
Interessante vedere poi ciò che succede in India. La corporation ‘Suez’, che
ha partecipazioni in Acea, ha avviato
un progetto di una megaconduttura per
portare l’acqua del Gange fino a
Nuova Delhi: 635 milioni di litri di
acqua che ogni giorno ‘Suez’ vende
all’Ente idrico statale, prelevandola
gratuitamente. Tutti ci rimettono: i
contadini, il settore pubblico dei servizi, i consumatori.
Solo la ‘Suez’ ci guadagna senza
dover investire nulla.
“Oggi è il grande comitato degli
affari che decide le sorti del pianeta.
Tutto è sottomesso all’economia e alla
finanza, anche la politica”, tuona Alex
Zanotelli, il missionario comboniano
fondatore della Rete Lilliput, vera
anima dell’opposizione al processo di
privatizzazione delle risorse idriche.
“Noi diciamo un no irremovibile alla
privatizzazione degli acquedotti, perché se ci prendono aria e acqua è la
fine. La mercificazione dell’acqua è un
fatto scandaloso, purtroppo portato
avanti anche da amministratori di sinistra. Non aspettiamo in silenzio che
privati ci rubino le nostri fonti per poi
rivenderci l’acqua”.
Alex Zanotelli è atteso a breve a
Ragusa. Speriamo non venga accolto
dalle preclare figure del centrosinistra
ragusano come quel prefetto del Ventennio che, durante il periodo delle
grandi opere di bonifica delle paludi,
in visita in un paesino del litorale
laziale, venne accolto, oltre che dalle
autorità locali, da una nuvola di
mosche. Rimproverò il podestà: “Ma
la guerra alle mosche non l’avete
fatta?”. “Come no, eccellenza”, rispose quello, “solo che a vincerla sono
state le mosche”.
Lo stile dei quotidiani sportivi invade le pagine politiche e svuota di concretezza la discussione
Al Calciomercato della nuova Finanziaria
Come i mass media hanno seguito il dibattito sulla manovra economica
O
ra che la polvere dello scontro si è depositata sul terreno della battaglia, ora che
anche le adunate oceaniche dell’opposizione si sono svolte, è forse possibile fare una
riflessione serena sull’ultima finanziaria appena
licenziata dalle Camere. Non vogliamo preoccupare i nostri lettori, l’intenzione non é quella
di fare una dotta dissertazioni piena di numeri e
astrusi termini economici. Ci interessa approfondire invece come è stata affrontata dai mezzi
di comunicazione di massa la questione. La
nostra impressione è che tutti, chi più chi meno,
si siano lanciati in una sorta di calciomercato
della finanziaria, abbiano trattato cioè questioni
di grande importanza per lo sviluppo del paese
come i giornali sportivi parlano degli scambi
estivi tra le squadre di calcio. Peggio, si è trasformata il racconto della discussione in un
nuovo assurdo reality show, dove le parti in
campo svolgevano i ruoli preassegnati e nessuno si è impegnato più di tanto a spiegare i contenuti della manovra. Se ci fate attenzione, il
susseguirsi di scoop, veri o presunti, con contorno di tabelle e conteggi al volo che sarebbero
dovuti servire a spiegare ai lettori le conseguenze sulle tasche dei cittadini delle scelte del
governo e della maggioranza si sono risolte in
realtà nello strumento ideale per aumentare la
confusione e il mal di testa per i lettori. E non
hanno contribuito a migliorare la situazione la
replica ciclica di dichiarazioni stereotipate da
parte dei contendenti. Un esempio su tutti ci
serve da rappresentazione ideale.
Un’edizione qualsiasi di un telegiornale
nazionale qualsiasi di un giorno qualsiasi degli
ultimi due mesi: a un certo punto della sua scaletta, viene toccato l’argomento della finanzia-
ria. La/lo speaker dice “Continua lo scontro
sulla manovra finanziaria. Per l’opposizione di
centrodestra (e qui si cita un nome qualsiasi
appartenete allo schieramento) la finanziaria
porterà nuove tasse etc. etc.”. Parte un servizio
che, sulla base delle famose tabelle pubblicate
al mattino dai giornali (tutte uguali, anche nell’impostazione grafica), da per assodati cambiamenti che in realtà alla fine non ci saranno.
Quindi su questa ipotesi si innesca un dibattito
preregistrato pieno di dichiarazioni precotte e lì
si chiude l’attenzione del media sull’argomento.
I tre-cinque minuti concessi all’interno del telegiornale finiscono e in questo modo si può dire
conclusa la giornata di lavoro per il giornalista.
Ma cosa è rimasto dal punto di vista del contenuto del dibattito in corso? Poco o niente, anche
perché poco o niente hanno voluto (o saputo)
comunicare sia i giornalisti che i protagonisti
politici della questione.
E questo non vale solo per la tv, ma anche, e
con maggiore responsabilità visto il tipo di strumento e le possibilità di approfondimento concesse allo stesso, con i giornali. Un fiorire di
titoloni, tabellone, interviste all’uomo qualunque per carpirne le paure sulla manovra prossima ventura ed ecco belle e confezionate le cinque-sei pagine di articoli dedicati alla politica.
Anche qui nessuna riflessione sulle motivazioni
alla base di scelte politiche, nessun tentativo di
capire. Meglio lo spazio concesso all’intervista
gridata, nel quale un esponente del governo da
addosso ai suoi stessi sodali (sempre più o meno
le stesse cose “vorrei di più ma non me lo
danno”), ad un retroscena su di una riunione in
cui, ancora una volta, si preferisce approfondire
l’aspetto personale del dibattito (litigi, riappaci-
ficazioni e quant’altro) che non quello politico
vero e proprio, meglio un commento di una
Grande Firma che parla di cose che un giorno
dopo, spariscono dal dibattito. I giornali si trasformano da filtro in imbuto e così riversano a
valle, sui lettori, cose che probabilmente, non
hanno capito neanche loro. Il risultato finale é
un assordante rumore di fondo con il risultato
paradossale che, a Finanziaria definitivamente
approvata, nessuno sa davvero cosa ci sia dentro, anche perché dal giorno dopo l’approvazione l’attenzione si sposta rapidamente su altro.
Va bene l’informazione spettacolo, ma qui
dov’è l’informazione?
Mds
6
LA VOCE DELL’ISOLA
23 dicembre 2006
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PERIODICO DI INFORMAZIONE - ECONOMIA - CULTURA - TURISMO E SPETTACOLO • ANNO SECONDO Nº 1 - OTTOBRE/DICEMBRE 2006
Il 2010 è alle porte, ancora fin troppo da fare
Area di libero scambio
già conto alla rovescia
Per i Paesi rivieraschi
il futuro è il Mediterraneo
i stringono i tempi e il conto alla rovescia verso il 2010, anno dell’apertura
dell’area di libero scambio del Mediterraneo, si fa sempre più frenetico. Tante
le cose che restano da fare e molti i ritardi
accumulati negli ultimi anni dall’Unione
Europea e dai suoi partners della sponda
sud del Mediterraneo. Indubbiamente a
frenare gli entusiasmi e i lavori legati all’apertura di questa importante area commerciale sono stati gli stravolgimenti di inizio
secolo, conflitti territoriali compresi, ma se
c’è un pregio indiscusso del percorso iniziato a Barcellona nell’oramai lontano 1995
(un’antica era geologica dal punto di vista
politico, se si pensa a quello che è successo dal 2001 in poi) è proprio che il dialogo
euromediterraneo è stato l’unico punto di
incontro tra civiltà che molti, non del tutto
disinteressatamente, vorrebbero vedere
costantemente in conflitto. Ora che però è
passato anche un lustro dal momento in
cui George W. Bush ha iniziato quella che
potremmo definire la sua “Gulf War” è giusto tirare le somme dei due approcci, sicuramente contrapposti nel metodo e nelle
filosofie. E se si può partire da un aspetto
non di poco conto possiamo notare come,
tutti i paesi di matrice araba che partecipano all’area di integrazione euromediterranea siano quelli in cui l’integralismo terroristico ha avuto minor presa e questo anche
grazie allo sviluppo dei rapporti con la
comunità Europea. Compiendo un’analisi
di tipo politico, si può notare che nei paesi
membri del Processo di Barcellona la religione musulmana viene praticata in senso
moderato e tollerante, con rifiuto netto dell’integralismo.
Compiendo un monitoraggio completo
della sponda meridionale del Mediterraneo, muovendosi da occidente verso oriente, si nota bene che Marocco e Tunisia
sono gli esempi più evidenti di evoluzione
in senso di tolleranza, avendo perfino
approvato una legislazione del codice di
famiglia in senso liberale, rifiutando concetti estremisti di tipo wahabita. La Tunisia ha
abolito la poligamia, mentre il Marocco l’ha
sottoposta a severe restrizioni. Altri due
Stati decisamente impegnati contro il fanatismo religioso sono l’Algeria, che ha combattuto una lunga guerra contro il Fronte
Islamico di salvezza (Fis), e la Libia, che ha
mutato in modo netto la sua politica e ora
guarda all’occidente. Proseguendo verso
S
oriente, si rileva che l’Egitto è un punto di
riferimento affidabile per l’intero mondo
occidentale, nonostante i limiti relativi alle
libertà personali. Stesso discorso vale per
la Giordania, spesso accusata di eccessiva
acquiescenza nei confronti di americani ed
europei. Per la Turchia il discorso è ancora
più semplice, in quanto siamo di fronte a un
paese che ha posto la lotta al radicalismo
religioso come priorità fin dalla nascita
della repubblica. L’unico Stato della sponda meridionale che presenta ancora problemi seri, sia in tema di sviluppo economico sia perché sospettato di appoggiare
gruppi terroristi, è la Siria. Tale constatazione può essere spiegata con il mancato
adeguamento di Damasco al processo di
integrazione, avendo la Siria definito solo
nell’autunno del 2004 l’accordo di associazione con l’UE, che ancora non è divenuto
effettivo.
L’integrazione Euromediterranea ha
avuto profondo impatto, sia sotto il profilo
economico sia dal punto di vista geopolitico, determinando un ampliamento dei confini del Medio Oriente. Qualche dato esemplificherà l’effetto di questi rapporti privilegiati. A partire dal 1995, l’attenzione dei
Paesi arabi e delle potenze straniere, per
tanti anni concentrata sul Golfo Persico, si
è di nuovo spostata sul Mediterraneo. La
prospettiva di beneficiare di importanti aiuti
dall’Europa ha indotto gli arabi a creare
una base per sviluppare un mercato comune. Nel 1998 è stato raggiunto un accordo
per creare una “Area di Libero Scambio
Panaraba” (Pafta). Tale progetto era, tuttavia, troppo ambizioso, volendo creare un’unione doganale fra 14 stati. È stato allora
scelta una soluzione più limitata, che si è
concretizzata nella “Dichiarazione di Agadir” del 2001. Tale intesa è divenuta un trattato internazionale il 25 febbraio 2004,
quando quattro stati arabi (Egitto, Giordania, Tunisia e Marocco) hanno firmato l’accordo di Agadir. Il risultato è di grande rilievo poiché è una conseguenza diretta del
processo Euromed, essendo tutti i quattro
Paesi membri del progetto concepito nella
città catalana del 1995. Il contributo dell’Ue
ha consentito di realizzare importanti interventi nei paesi mediorientali che hanno
aderito all’iniziativa. Marocco, Tunisia e
Giordania hanno utilizzato i fondi per realizzare interventi di tipo strutturale. L’Egitto
ha impiegato i contributi europei per costi-
tuire un fondo finalizzato a creare posti di
lavoro. Il Libano ha sfruttato i fondi per
riformare la pubblica amministrazione.
L’Autorità Nazionale Palestinese ha impiegato i contributi nel delicato settore delle
risorse idriche. L’Algeria li ha destinati a
misure per ridurre l’inquinamento e all’acquisto di apparecchiature speciali per gli
aeroporti. La Turchia li ha investiti nella
pubblica istruzione e nelle infrastrutture.
Attraverso il programma Meda, lo strumento finanziario creato dall’Ue per sostenere
la partnership Euromed, sono stati destinati alla sponda meridionale del Mare
Nostrum quote importanti: 3,345 miliardi di
euro nel periodo 1995-1999 e altri 5,35
miliardi di euro sono stati stanziati per il
programma 2000-2006.
A tali somme, già considerevoli, si deve
aggiungere la partecipazione della Banca
Europea degli Investimenti (BEI), che dal
1974 a oggi ha erogato finanziamenti per
circa 14 miliardi di euro per incentivare lo
nei paesi della sponda meridionale.
Tutto bene quindi? Niente affatto, perché
questo processo ha vissuto negli ultimi
anni un sensibile rallentamento tanto da far
prospettare a più d’uno osservatore che sia
vicino un rinvio dell’apertura dell’area di
libero scambio dal 2010 a data da destinarsi. Motivi di questo rallentamento si possono legare alle pastoie burocratiche di cui
l’Unione Europea è da sempre maestra e
con le quali ingabbia ogni possibilità di vero
sviluppo che non sia firmato e controbbollato da un qualsiasi funzionario dell’organizzazione, ma anche per le caratteristiche
che, con il passare degli anni hanno trasformato l’Unione nella sua natura stessa.
Oggi la Ue è sempre meno legata al Mare
Nostrum rispetto al passato.
Nel 1957, anno di fondazione, l’allora
Comunità Economica Europea (Cee) presentava una marcata impronta mediterranea. Su sei membri fondatori ve ne erano
due che si affacciano sul Mare Nostrum,
Francia e Italia, per di più di notevole peso
politico ed economico.
La Cee ha accentuato il suo carattere
mediterraneo durante gli anni 80, quando
entrarono nel club europeo Grecia, Spagna e Portogallo.
Dopo quell’allargamento, la Cee (e poi la
Ue) sono progressivamente divenute sempre meno mediterranee. Il grande allargamento del 2004 ha visto l’ingresso contemporaneo di dieci nuovi stati, quasi tutti
facenti parte dell’Europa Orientale e Settentrionale a parte Malta e Cipro, realtà
troppo piccole per bilanciare il peso dei più
importanti stati ex sovietici.
E questo ha provocato non pochi blocchi,
basti pensare alle ultime vicende legato al
percorso di ingresso della Turchia per rendersene conto. Il processo iniziato a Barcellona nel 1995 ha conosciuto il suo apice
nel 2003, autentico anno d’oro del Mediterraneo giacché il turno di presidenza è stato
appannaggio prima della Grecia e poi dell’Italia.
Dopo la presidenza italiana la struttura
Euromed ha rallentato il suo ritmo di sviluppo per ragioni fisiologiche. Presidenze
quali Irlanda, Olanda, Lussemburgo,
Regno Unito, Austria non hanno avuto interesse a rilanciare il Processo di Barcellona,
che adesso vive una fase di impasse. Ma
nonostante questo, il suo bilancio è nettamente positivo, soprattutto se raffrontato
con il fallimento della visione bushiana che
si sta rivelando sempre più agli occhi di
tutti.
Ma il rischio che le timidezze europee (o
gli interessi dei paesi del nord Europa che
perderebbe centralità a favore di quelli dell’area mediterranea) contribuiscano al fallimento del dialogo tra le due sponde del
Mediterraneo è sempre dietro l’angolo. E il
conto alla rovescia continua, implacabile.
Marco Di Salvo
Negli ultimi anni i tempi della politica e della diplomazia hanno avuto una forte accelerazione
Turchia: il Papa apre, l’Europa frena e poi si scusa
tempi della politica e della diplomazia sembrano aver
preso un'accelerazione inattesa negli ultimi anni e le posizioni non sono più granitiche come quelle di una volta. Per
cui si possono ritrovare nel giro di pochi mesi i protagonisti
della politica internazionale a difendere posizione che prima
erano appartenute ai propri avversari.
È quello che è successo, ad esempio, nella vicenda della
visita del Pontefice in Turchia. Una visita che si è svolta, a
differenza di quanto temuto, nella più assoluta calma (quasi
indifferenza) da parte della popolazione e che ha visto Benedetto XVI difendere e promuovere, seppure con toni pacati,
il dialogo tra UE e il paese guidato dal premier Erdogan. I
conflitti sorti dopo la lectio di Ratisbona sono d’un tratto svaniti e il premier ed il papa hanno posato insieme sorridenti.
Sorrisi che si sono quasi subito gelati, quando si è appreso
che la commissione europea guidata dal portoghese Barroso si preparava a consegnare un giudizio largamente negativo nei confronti del percorso riformistico che dovrebbe consentire al paese di entrare nell’Ue e che sembrano aver rallentato il loro percorso negli ultimi dodici mesi. Alle vibrate
I
proteste da parte del primo ministro e del responsabile degli
esteri Gul nei confronti della proposta di congelamento da
parte della commissione l’Unione Europea ha risposto imbarazzata e quasi facendo marcia indietro.
Ha voluto ad esempio essere molto rassicurante il premier
finlandese Matti Vanhanen, presidente di turno dell'Ue, nella
sua visita lampo ad Ankara, solo due giorni dopo la pubblicazione della raccomandazione di Bruxelles, motivata con il
persistente rifiuto turco di aprire i propri porti alle navi grecocipriote, in violazione del Trattato sull'unione doganale Turchia-Ue. “Si tratta solo di un incidente di percorso” ha minimizzato. Ma la contemporaneità del giudizio negativo con le
aperture della Santa Sede hanno fanno sobbalzare più di un
osservatore. Anche perché in un primo momento sembrava
che fossero le frenate di natura religiosa a rallentare il percorso di dialogo tra Turchia ed Ue mentre a questo punto
qualcos’altro dev’esserci sotto. Magari la manona di una
Germania che guarda sempre più ad est e sempre meno al
Mediterraneo per ampliare la cornice dell’Unione mantenendo la propria centralità.
In fase avanzata i progetti avviati dalla III Conferenza di Catania tenutasi all’inizio dell’anno
Già operativa la cooperazione universitaria
tra l’Europa e i Paesi del sud Mediterraneo
Rete di otto Centri di Eccellenza scaturita dagli accordi firmati a partire dal 2003
i rivedranno di nuovo nel 2008, sempre sotto il vulcano e per allora i progetti messi in moto alla terza Conferenza di Catania tenutasi all’inizio di quest’anno dovrebbero essere in piena attività. A meno di tre anni di distanza dal lancio
del progetto di un'area di cooperazione
universitaria che unisse l'Europa ai Paesi
della sponda sud del Mediterraneo, avviato nel corso del Semestre italiano di Presidenza dell'Ue, diventa operativo lo Spazio
euromediterraneo di Istruzione, Alta formazione e Ricerca. Con la dichiarazione
congiunta firmata a Catania da 12 ministri
dell'Istruzione e della Ricerca, su proposta
dell’allora ministro Letizia Moratti, i Governi di Algeria, Egitto, Francia, Giordania,
Grecia, Italia, Malta, Marocco, Slovenia,
Spagna, Tunisia, Turchia si sono impegnati a promuovere la convergenza dell'architettura dei sistemi d'istruzione superiore
dell'area euromediterranea, pur preser-
S
vando le specificità di ogni Paese, e a stabilire dei percorsi educativi e formativi
comuni, basati su un sistema di crediti
compatibili e trasferibili, e su qualifiche
facilmente leggibili, riconoscibili e spendibili nel mondo del lavoro, condividendo per
tali percorsi criteri e metodi di valutazione
e di garanzia di qualità, in modo da facilitare la mobilità di studenti, ricercatori e
docenti. Tali percorsi saranno implementati anche attraverso l'uso di nuove tecnologie e di metodi di e-learning.
Hanno partecipato alla Conferenza di
Catania anche i rappresentanti della Commissione europea e di altri Paesi dell'area
euromediterranea e dell'Unione europea.
Il percorso ha avuto inizio nel novembre
2003, quando a Catania furono presenti 5
ministri, 80 delegati e 20 università. A fine
gennaio 2006 hanno partecipato a questa
conferenza 12 ministri, 40 università e 200
delegati appartenenti a 16 Paesi, e, nel
frattempo, è nata una rete di otto centri di
eccellenza proprio dagli accordi firmati a
partire dal 2003.
In occasione dell’incontro di quest’anno
sono stati anche firmati due accordi tecnici, che riguardano la nascita di un Centro
di Alta formazione e ricerca sui Diritti
umani, da istituire in Giordania presso la
University of Jordan, e un Centro di Alta
formazione e Ricerca sulla Circolazione
giuridica nell'area mediterranea, da attivare a Istanbul. Questi centri si affiancano a
quelli già attivati nel corso delle due precedenti Conferenze di Catania attraverso
delle partnership tra Università e centri di
ricerca italiani e i migliori atenei dei Paesi
del Mediterraneo.
Queste iniziative hanno ricevuto un
sostegno finanziario da parte del Miur, nell'ambito delle proprie attività di internazionalizzazione (per le quali sono state stanziati 10 milioni di euro) o attraverso i fondi
per la ricerca Firb e cominciano a produrre i primi risultati, con l'avvio di master e
dottorati di ricerca congiunti e l'apertura di
joint-laboratories su progetti d'interesse
comune per i Paesi partner.
In particolare, si tratta dei Centri in
Scienza e Tecnologia dei Media, a Tunisi;
E-Business, in Marocco; Cooperazione
allo Sviluppo, nei Territori Palestinesi;
Agroalimentare in Zone Aride, in Egitto;
Ingegneria sismica-sismologia-sismotettonica-management dei disastri, in Turchia,
Nanotecnologie, a Creta (Grecia).
Nel 2008 si farà, sempre nella città siciliana, il punto della situazione dello sviluppo di questa che si presenta come una
rete di cultura e conoscenza che dovrebbe
rendere sempre più saldi i rapporti tra i
Paesi delle due sponde del Mediterraneo.
Mds
Necessario creare una “zona franca integrale”
per lo sviluppo degli interscambi commerciali
Sollecitare interventi dell’UE per accelerare il processo di integrazione
l 15 maggio 2006 si è compiuto il 60°
anniversario dello Statuto Siciliano.
Nato dall’impegno delle personalità
politiche e culturali dell’epoca, è il frutto
della mediazione tra chi spingeva verso
l’autonomia completa e chi invece voleva
una Regione integrata nello Stato Italiano. Lo Statuto concepito dal Parlamento
Italiano, tra le fonti legislative italiane, ha
lo stesso rango della Costituzione Italiana essendo stato sottoposto all’approvazione del Parlamento Nazionale che ha
emanato la Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2 “Conversione in legge
costituzionale dello Statuto della regione
siciliana”, approvato con R.D.Lgs. 15
maggio 1946, n. 455. Con esso è stata
pensata una Regione con competenze
proprie in alcune materie Istituzionali
(Sanità, Ordinamento degli Enti Territoriali, Commercio, etc.).
La Regione Sicilia, in forza degli articoli 36 e 38 del proprio Statuto, possiede
autonomia finanziaria riguardo l'istituzione di nuovi tributi o la emanazione di
agevolazioni contributive per i tributi, ad
esempio le imposte dirette, il cui gettito è
destinato alla Regione stessa.
A tal proposito, da ultimo, il dibattito
politico per lo sviluppo economico isolano, si è spostato sulla “fiscalità di vantaggio”, la creazione della “zona franca integrale”e sulla creazione di nuove infrastrutture e istituti di credito.
In quest’articolo affronteremo la questione relativa alla creazione di una
“Zona franca”, ricomprensibile tra la
fiscalità di vantaggio dedicata alle regioni
del sud.
Da tanto tempo si ritiene che la creazione di una “zona franca”(proposta fatta
già dal Consiglio Provinciale di Caltanissetta ben 85 anni fa) di abbattere cioè le
barriere doganali per la Sicilia porterebbe
notevoli vantaggi all’economia isolana.
L’istituzione, facendo fruttare le esperienze in essere, non potrà che essere
ben regolamentata, programmata ed
eco-compatibile. Fortemente e responsabilmente rispettosa di tutte le altre vocazioni del territorio, specialmente turisticaculturale, e che dovrà escludere ogni
presenza di mafia e di speculatori di ogni
tipo.
E pertanto, a 60 anni dall’emanazione
dello Statuto Siciliano ritorna di attualità
la creazione di una “zona franca integrale”.
La zona franca porterebbe notevoli
benefici all’import-export siciliano, ma
anche alle attività trainanti dell’economia,
prima fra tutte il turismo. Oltre tutto, la
I
2
creazione di un sistema fiscale agevolato
andrebbe in linea con l’orientamento statale che vuole che ogni territorio regionale si gestisca prevalentemente con le
risorse finanziarie ricavate dalla produzione del reddito prodotto a livello locale.
La zona franca doganale e fiscale porterebbe, in primis, ad una esclusiva competenza regionale sul fronte dell'Entrata,
tranne poche imposte residuali allo Stato
Italiano, in secondo luogo, sul fronte
della Spesa, la Sicilia garantirebbe direttamente ai propri cittadini la quasi totalità
dei servizi pubblici, ancora una volta
direttamente o per mezzo degli enti locali, senza chiedere nulla allo Stato.
La Sicilia avrebbe già le risorse per
fare da sé, creando autonomamente,
anche una fiscalità di vantaggio per cittadini e imprese, e nel breve termine, con
quest'ordinamento,
recupererebbe
anche il divario rispetto al resto d'Italia
non dovendo, così, dover chiedere più
aiuti o sussidi.
Certamente, il progetto non è difficile
da realizzare ma ha bisogno di un parlamento siciliano forte e coraggioso che,
partendo dallo Statuto Regionale, riesca
a organizzare e gestire un progetto serio
di sviluppo socio-economico e sociale
qual è la zona franca. Certamente, come
ogni progetto innovativo per il territorio
che dovrebbe accetarlo, esso avrebbe
bisogno di una sperimentazione che
potrebbe partire dalle città a forte economia turistica che avrebbero dal “no
tax”un potenziamento dell’appetibilità del
loro prodotto turistico.
La Zona Franca, istituto riconosciuto
anche dalle leggi fiscali europee che, in
aree ben delimitate, consente abbattimenti tributari, previdenziali e normativi a
favore delle imprese che vi vanno ad
operare diventerebbe uno strumento
innovativo perché introdurrebbe incentivi
alla creazione di industrie che potrebbero, conseguentemente, incrementare il
livello occupazionale della nostra regione
e dell’Italia tutta.
La Sicilia, pertanto, per potersi concretamente risollevare, così da contribuire
paritariamente alle altre regioni italiane
allo sviluppo nazionale, necessita di condizioni “speciali”: queste condizioni le
possono essere offerte, così come è
stato per le Fiandre, l’Irlanda, la Scozia, il
Galles, la Corsica e, per ultime le Baleari, dal riconoscimento da parte della
Comunità Europea del beneficio della
Zona Franca.
Con lo sviluppo economico dell’area
del Mediterraneo. dovremo spostare più
al Sud l’asse dello sviluppo comunitario
per consentire lo scambio fra le due fondamentali aree di risorse: mercato e produzione.
Il ruolo della Sicilia, così, assumerebbe
una importanza strategica negli scambi
tra le due realtà, passando da periferia a
soggetto protagonista di una economia
mediterranea.
Sull’Isola sarebbero così orientati
importanti investimenti sia nazionali sia
stranieri che migliorando le condizioni
economiche porterebbero maggiore sicurezza sull’avvenire dei nostri figli ed una
migliore condizione di vita ai Siciliani.
Giuseppe Spartà
Un programma dell’Unione Europea con la partecipazione di 400 partner di trentacinque Paesi
L’attuale obiettivo è il dialogo tra le culture
Interessi comuni per trovare punti d’unione
Una rete di università, enti governativi e privati per superare gli estremismi
l dialogo tra le culture, una delle maggiori sfide del momento, passa anche
per il patrimonio comune del Mediterraneo. Per promuoverlo e difenderlo l’Unione Europea all’interno del piano di
progetti legati all’area Euromediterranea
ha sviluppato il programma Euromed
Heritage, che ha unito 400 partners dei
25 Paesi dell’Unione Europea e i dieci
Paesi MEDA (Algeria, Egitto, Giordania,
Israele, Libano, Marocco, Siria, Autorità
Palestinese, Tunisia e Turchia).
E’ una rete unica di università, musei,
enti pubblici, associazioni culturali, organizzazioni non governative che lavorano
insieme, superano gli estremismi e le
roccaforti culturali e si scambiano esperienze e informazioni. Sono coinvolte 87
città da Aix en Provence, Albacete, Alessandria d’Egitto, Algeri, Amman, per finire con Valdemossa, la Valletta e Venezia. Euromed Heritage il programma
europeo del valore totale di 57 milioni di
Euro (di cui 17 milioni nella fase precedente, 1998-2002) mira a rafforzare la
capacità dei Paesi mediterranei a gestire e sviluppare il proprio patrimonio culturale, è oggi coordinato da Roma presso l’Istituto per il Catalogo e la Documentazione del Ministero dei Beni e le
Attività Culturali, che conferma così la
sua vocazione euro-mediterranea, attraverso un’Unità di gestione e di supporto
del programma (RMSU). L’affidamento
dalla Commissione Europea è un riconoscimento alla politica di dialogo che
l’Italia ha sempre sostenuto, appoggiando la Conferenza di Barcellona del 1995,
dove al patrimonio culturale venne riconosciuta la caratteristica di essere un
concreto campo d’azione per il rafforzamento della dimensione sociale, culturale e umana del Partenariato Euro-Mediterraneo.
Il ministero dei Beni e delle attività culturali partecipa così agli obiettivi più
ampi del Processo di Barcellona per
un’accresciuta cooperazione regionale,
e per il rafforzamento della dimensione
regionale dei programmi finanziati da
MEDA. Delta, Prodecom, Filières Innovantes, Navigation du Savoir, Mediterranean Voices, Medimuses, Temper, Patrimoines Partagés, Ikonos, Unimed Cultural Heritage, Defence Systems, Discover
Islamic Art, Defence Systems on the
Mediterranean Coasts, Rehabimed,
Byzantium Early Islam e Qantara sono i
16 progetti che fanno parte della seconda e della terza fase de programma e
affrontano tutti i campi della cultura
mediterranea, dall’architettura alla musica, dall’uso degli arsenali all’artigianato,
dai prodotti tipici alla preistoria, dai
mosaici alle fortezze, dall’arte islamica
al recupero dei palazzi del XIX secolo.
Uno dei progetti principali è “Adotta il
patrimonio mediterraneo”nato per favorire i contatti tra i promotori culturali del
patrimonio mediterraneo a rischio e gli
investitori internazionali interessati a
finanziarne, per esempio, il restauro, la
conservazione o la valorizzazione. Non
si tratta dunque di un finanziamento
europeo diretto ma di una iniziativa che
promuove il partenariato tra il pubblico e
il privato, consapevole del contributo
strategico che il patrimonio culturale può
offrire allo sviluppo economico e sociale
di un Paese.
Gli elementi del patrimonio culturale
oggetto dell’adozione devono essere
situati in uno dei Paesi mediterranei
partner (Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Autorità Palestinese, Siria, Tunisia e Turchia). Inoltre, per
questa prima edizione, potrà essere
ammesso a candidatura solo il patrimonio tangibile: monumenti, edifici e città
storiche, siti archeologici, paesaggi culturali, ma anche sculture, dipinti, oggetti
d’arte, manoscritti o strumenti di musica
antica. L’iniziativa è gestita dall’Unità
regionale di gestione e supporto
(RMSU) del programma Euromed Heritage.
I
Mds
3
Un saldo improntato al segno “meno” nonostante il lungo percorso di integrazione
Nell’import/export con le nazioni rivierasche
negativa per la Sicilia la prospettiva del 2010
Struttura imprenditoriale debole per affrontare le sfide nell’area di libero scambio
dati relativi all’import-export con i Paesi
dell’area euromediterranea della nostra
regione non fanno ben sperare nella
prospettiva 2010. Infatti, nonostante il percorso di integrazione sia in atto oramai da
più di un decennio, il saldo del nostro territorio risulta sempre improntato al segno
meno. Colpa sicuramente dell’importazione dei prodotti minerari/petroliferi (che servono a tutto il territorio, ma nelle statistiche
sono rubricati a carico della provincia di
Trapani) ma anche a causa di una struttura imprenditoriale ancora troppo debole
per poter essere certa di affrontare le sfide
I
prossime venture senza finirne schiacciata. Da questo punto sono esemplificative
le tabelle che pubblichiamo in questa pagina e che sono state elaborate dalla Camera di Commercio di Milano.
In sostanza, la Sicilia esporta poco perché produce poco in generale e ancor
meno per il mercato mediterraneo e non
dispone di una rete commerciale adeguata alle nuove esigenze della distribuzione
su vasta scala.
Dalle statistiche presentate e dal confronto fra regioni, si evidenzia la marginalità dell’Isola nelle esportazioni verso il mer-
cato mediterraneo. Può sembrare un paradosso, ma Milano è la prima provincia per
grado di mediterraneità (un mix d’indicatori che vanno dai valori dell’export al numero d’imprese interessate) seguita da Bologna, Pavia, Vicenza, Treviso. Palermo,
che ogni tanto qualcuno candida a “capitale del Mediterraneo”, si trova al 78° posto,
dopo Catania al 54° e Messina al 60°.
Fra le province siciliane quelle che più si
avvicinano alla vetta della classifica troviamo Siracusa (9° posto) e Trapani (29°).
D’altra parte, basta dare uno sguardo ai
flussi dell’interscambio globale siciliano
con l’estero per accorgersi come il peso
della nostra Regione sia davvero aleatorio
e distorto, nel senso che la Sicilia continua
ad essere caricata di un'importazione
esorbitante di idrocarburi, senza averne
vantaggio sul terreno dell’export.
Il rischio è sotto gli occhi di tutti e si
materializza nell’ennesimo treno che l’Isola rischia di perdere. Anche perché di questi tempi, non è difficile scavalcare un’isola, seppur al centro del Mediterraneo, per
arrivare sull’altra sponda e commerciare.
Mds
Così gli scambi con i Paesi del Mediterraneo
EUROPA
MEDITERRANEO
Iscritto al n° 27/2004 dell’apposito Registro presso il Tribunale di Catania
Editore: Mare Nostrum Edizioni Srl
Amministratore delegato: Francesco Dato
Direttore responsabile: Salvatore Barbagallo
Redazione: Catania - Via Distefano n° 25 - Tel/fax 095 533835 E-mail: [email protected]
Stampa: Litocon Srl - Z.I. Catania - Tel. 095 291862
Anno II, nº 1 - Ottobre/Dicembre 2006
4
LA VOCE DELL’ISOLA
23 dicembre 2006
7
LA VOCE DELL’ISOLA
8
23 dicembre 2006
La malavita organizzata ha saputo cogliere l’opportunità della globalizzazione dei mercati
Ormai siamo finiti nell’occhio del drago
Sotterranea, ma visibile, l’invasione dei cinesi
In Sicilia sono già perfettamente inseriti nel tessuto commerciale
I
primi cittadini cinesi arrivarono in
Italia durante la II guerra mondiale:
oggi, dopo le ultime sanatorie ne
risultano residenti circa 50mila. Che
ruolo ha nella loro comunità la malavita organizzata? Come viene gestito il
forte flusso di clandestini verso il
nostro Paese?
Dalla ricerca “Nuove mafie ed economia”, realizzata dalla Polizia di
Stato con la collaborazione dell’Università Bocconi di Milano, emerge
l’importanza che la cooperazione tra le
autorità di polizia e gli esperti di analisi economica per il raggiungimento di
un fine comune: analizzare per poter
prevenire e reprimere la criminalità a
livello nazionale ed internazionale.
“La spinta della malavita organizzata” ha saputo cogliere con prontezza le
opportunità offerte dell’internazionalizzazione dei mercati commerciali e
finanziari, dall’abbattimento dei confini, dai progressi scientifici e tecnologici e dai nuovi scenari geopolitici mondiali ampliando lo spettro delle attività
illecite e proiettando la propria
influenza su aree territoriali sempre
più vaste. Partendo dalla criminalità
organizzata cinese, che comprende il
narcotraffico, il commercio degli esseri umani, il “lavaggio” dei capitali. Le
prime presenze di cittadini cinesi nel
nostro Paese risalgono alla seconda
guerra mondiale, quando un certo
numero di operai si trasferì nel centronord della Penisola, per la costruzione
della cosiddetta “Linea Maginot”.
Questi operai sarebbero dovuti rientrare nella loro patria, ma rimasero
invece in Italia e furono rinchiusi in
campi di concentramento fino alla fine
della guerra. Negli anni successivi la
comunità cinese è rimasta isolata dalla
nazione di origine, anche a causa della
chiusura della Cina all’Occidente, così
i cittadini di origine cinese si sono
sistemati a Roma e a Milano dove
Aggravata la dimensione internazionale dei traffici illeciti in materia di ambiente
L’ecomafia va oltre le frontiere
di PEPPE RUGGIERO
N
ell’era della mondializzazione si aggrava la dimensione internazionale
dei traffici illeciti in materia d’ambiente, da quello dei rifiuti a quello
della specie animali protette, passando attraverso il traffico di legnami
pregiati: lo denuncia l’ultimo “Rapporto Ecomafia” di Legambiente, presentato a Roma lo scorso giugno.
Tecno-spazzatura. La Cina è diventata il nuovo “Eldorado” dei traffici
internazionali di rifiuti. Erano diretti proprio nel Paese asiatico i container
sequestrati in diversi porti italiani, carichi di rifiuti speciali “camuffati” da
materiale da avviare formalmente ad attività di recicleggio. Lo stesso trucco è
stato utilizzato da società inglesi che trafficavano rifiuti verso la Cina attraverso il porto di Rotterdam (oltre mille tonnellate sequestrate in una sola operazione). Commentando l’inchiesta, un portavoce del Governo olandese non ha
usato mezzi termini: ”Crediamo che questa sia soltanto la punta dell’iceberg
di uno scandalo a livello europeo, che vede diverse società operare in rete per
abbattere i costi di smaltimento dei rifiuti”.
E sempre la Cina si conferma come una sorta di “discarica globale” dei
rifiuti elettronici. Un giro d’affari impressionante: le ultime stime dell’Unione
Europea si attestano su 11 milioni di tonnellate annue di tecno-spazzatura da
smaltire. Nei porti cinesi in particolare quello di Hong Kong, arrivano container da tutto il mondo; Stati Uniti e Giappone in testa. Le indagini eseguite dall’Agenzia delle Dogane rilevano anche l’esistenza di rotte di traffici di rifiuti
ritenute abbandonate, come per esempio quello verso l’Africa. I servizi antifrode hanno sequestrato in soli sei mesi (ottobre 2005-marzo 2006) ben 270
container in partenza da cinque porti italiani (Gioia Tauro, Venezia, Taranto,
Salerno e Civitavecchia). La maggior parte era diretta verso la Cina, ma tra i
Paesi di destinazione sono emersi anche India, Senegal e Ghana.
Contrabbando di foreste. Rifiuti dall’Italia verso l’Africa e, lungo la rotta
inversa, centinaia di tonnellate di legname, contaminato da diossina, sequestrate alle nostre frontiere. Il mercato illegale del legno è un fenomeno in forte
espansione; il suo giro d’affari è stimato circa 150 miliardi di dollari l’anno.
Almeno il 50% dei prelievi nel bacino amazzonico, in Africa centrale e nel
Sud-est asiatico, è illegale. Spariscono foreste tropicali e, contemporaneamente, crescono i traffici di specie protette, animali e vegetali. Anche in questo
caso i numeri aiutano a capire meglio: il commercio illegale di flora e fauna è
stimato ogni anno a circa 7 miliardi di euro e contemporaneamente è la causa
diretta dell’estinzione di circa 100 specie animali. In Colombia, secondo l’inchiesta condotta dall’associazione Ecofondo, sono stati sequestrati dal 1992 al
1998 oltre 100 mila esemplari, per il 46% volatili (in maggioranza pappagalli), specie quasi tutte iscritte nella “lista rossa” a rischio estinzione. Animali
destinati in prevalenza al ricco mercato statunitense.
Anche l’Italia fa la sua parte: il Corpo Forestale dello Stato sequestra ogni
anno circa 10 mila animali vivi nel corso di controlli doganali sul commercio
di specie esotiche. Settori diversi, ma unica matrice: l’esistenza di vere e proprie holding a servizio di ogni forma di economia criminale.
hanno aperto alcuni ristoranti. In
seguito alle sanatorie applicate negli
anni, volute dai governi succedutesi
negli anni e a una maggiore”apertura”
della Cina verso l’Occidente, il numero ei cittadini cinesi è cresciuto di anno
in anno e il loro ingresso in Italia è
stato favorito dalle organizzazioni criminali cinesi dedide all’immigrazione
clandestina.
La comunità cinese è diventata quindi sempre più grande e ha occupato
ampi territori, tanto che oggi vi sono
interi quartieri cinesi.
Nel settore produttivo la criminalità
cinese ha, nel tempo, rilevato da
imprenditori italiani, costretti a chiudere le loro attività, un gran numero di
ristoranti, laboratori, negozi. Grazie ad
alcune indagini svolte dalle Forze dell’Ordine, quando si ebbero, nel ‘90, i
primi scontri tra organizzazioni criminali cinesi per il controllo del traffico
di clandestini, si sono potute ricostruire le rotte utilizzate e il modus operanti dei gruppi criminali.
Coloro che dalla Cina intendono
emigrare clandestinamente si rivolgono ad un membro della “banda” che si
può facilmente incontrare nei mercati
di Yuhu e di Wencheng o presso la stazione degli autobus di Wenzhou. Una
volta stabiliti i contatti, ai futuri clandestini viene chiesto se hanno parenti
all’estero e in quali Paesi intendono
emigrare. In seguito viene concordato
il prezzo dell’operazione. La cifra pattuita in relazione al grado di conoscenza delle famiglie dei “viaggiatori” ed
alla loro affidabilità.
La criminalità cinese procura i documenti necessari, dal passaporto alla
carta d’identità, tutti originali poiché
rilasciati dalle autorità, anche se le
generalità sono false. Una volta che i
clandestini arrivano a destinazione il
passaporto e tutti gli altri documenti
vengono ritirati dai loro “accompagnatori”. All’inizio del loro viaggio i clandestini, dopo aver passato il primo
confine, soggiornano per un certo
periodo di tempo a Mosca o in altre
città dell’Est europeo in attesa di essere divisi in sottogruppi e “smistati” per
le varie destinazioni. Una volta oltrepassato il confine terrestre, i clandestini si ricongiungono a coloro che li
hanno accompagnati.
Dopo la cosiddetta sanatoria, la
comunità cinese si è distribuita soprattutto nelle zone già “occupate” dai
concittadini provenienti dalla stessa
provincia o addirittura dalla stessa
città.
Le regioni italiane nelle quali è stato
rilasciato il maggior numero di soggiorno ai cittadini cinesi sono la Lombardia, la Toscana, il Lazio, l’Emilia
Romagna, il Veneto, il Piemonte.
Un numero sempre più crescente lo
troviamo anche in altre regioni italiane
e la Sicilia non è da meno, basta girare
tra i banchi della fiera di Catania e tra
le vie limitrofe e non solo per capire
come i cinesi si sono radicati nella
nostra terra.
LA VOCE DELL’ISOLA
9
23 dicembre 2006
A distanza di decenni dai primi insediamenti si registrano malformazioni e malattie incurabili
Lo scempio del territorio siracusano
I danni prodotti dall’industria petrolchimica
Anche le discariche per i rifiuti tossici rendono grave la situazione
di GIANNI TOMASELLI
N
on è certo impresa facile tracciare un quadro chiaro della
gestione dei rifiuti speciali (i
rifiuti tossici, cioè) nella regione Sicilia. L’unico dato certo e inconfutabile,
è quello che riguarda le cause di decesso registrate nella provincia di Siracusa provocate da mesotelioma pleurico.
Il killer che ha falcidiato, e continua a
mietere vittime a distanza di oltre 20
anni, è l’asbesto, commercialmente
chiamato amianto. Appare più preoccupante anche lo scenario che si incomincia a delineare in merito agli interventi dal Piano di disinquinamento per
il risanamento del territorio della provincia di Siracusa, istituito dai Comuni di Augusta, Priolo, Melilli, previsti
dal Dpr 17 gennaio 1995. Questo
Piano fa seguito alla Deliberazione del
Consiglio dei ministri adottata il 30
novembre 1990, per la quale il territorio della provincia di Siracusa e Caltanissetta furono dichiarate aree ad alto
rischio di crisi ambientale. Il Piano,
relativamente al problema dei rifiuti
tossici e nocivi (amianto, fanghi mercurici, etc.) stoccati ancora presso
grossi insediamenti industriali, (leggasi Enichem di Siracusa) e a quello
della bonifica dei siti contaminati, prevede strutture di smaltimento che al
momento sono del tutto inesistenti,
anche se il ministero dell’Ambiente ha
già emesso i bandi di gara per dare il
via alle operazioni preliminari del
Piano.
Buona parte di questi rifiuti hanno,
tra l’altro, trasformato i nostri fondali
marini della riviera in “immondezzai
sottomarini”, dove le fiorenti praterie
di posidonia hanno ceduto il posto ad
aride distese di fanghiglia prive di vita.
Buona parte dell’amianto smantellato
nel territorio regionale ha un’unica
destinazione, quella in contrada Bagali, nel territorio di Melilli. A questa
discarica vengono conferite notevoli
quantità di amianto che dovrebbero (il
condizionale è d’obbligo) subire un
trattamento di inertizzazione. Il tutto in
barba alle più elementari norme di
sicurezza per gli operatori addetti e
alle conseguenze per la salute degli
abitanti delle zone limitrofe alla discarica. E dire che questi rifiuti altamente
letali, non sono solo il frutto di scarti
delle industrie della provincia di Siracusa, ma la maggior parte provengono
dalle caserme del Genio Militare di
Messina, dalle Centrali Enel del territorio regionale, dall’Enichem di Siracusa e da piccole raffinerie e impianti
petroliferi del siracusano, come se già
il tasso d’inquinamento esistente fosse
insufficiente. Una vergogna!
La provincia di Siracusa, uno dei
territori più significativi dal punto di
vista archeologico e paesaggistico
della Sicilia, è stata trasformata in una
pericolosa pattumiera, a dispetto di
tutto e di tutti. Mai nessuno si è attribuito responsabilità. A tal proposito: la
politica ha favorito questo disastro
umano ed ecologico, le amministrazioni locali e regionali hanno incentivato
lo scempio a cui assistiamo, la magistratura ha tirato il freno a mano, anziché pigiare sull’acceleratore e mandare in carcere i responsabili di questo
irreversibile disastro. Nessuno si è
occupato degli otre 5000 casi presentati negli uffici dell’Inail del capoluogo
aretuseo. Anche negli uffici dell’Inail
il tempo sembra essersi fermato. Il
pesante ritardo con cui l’Istituto gestisce una vicenda che interessa i lavoratori beneficiari del provvedimento che
tutela i malcapitati affetti da neoplasie
ai polmoni, dovrebbe essere sufficiente testimonianza della convivenza
generale e dell’inefficienza dei servizi.
L’Inail, quantomeno, dovrebbe dare
risposta immediata a tutte le pratiche
presentate da coloro che sono stati colpiti da malattie particolari provocate
dal lavoro che i esponeva alle esalazioni dell’amianto. Il diritto dei lavoratori, non può essere vanificato dalla presunta lentezza delle procedure.
In alcuni casi, è documentato, qualche lavoratore non è riuscito ad essere
risarcito per la malattia acquisita sul
posto di lavoro, perché nel frattempo è
passato a miglior vita. Altra vergogna!
Non si capisce, a questo punto, come il
territorio siracusano possa fregiarsi
dell’onoreficenza Unesco quando la
maggior parte del suo patrimonio
ambientale è soggetto a danni sfregi
che ben difficilmente possono essere
sanati:
La ricchezza che in tanti, tra gli anni
‘60 e ’80, hanno cercato e ottenuto
dalle nostre coste, dai nostri litorali,
creando i poli industriali (con la complicità di amministratori che hanno
elargito autorizzazioni senza le dovute
garanzie del rispetto dell’eco sistema e
dell’uomo) si è trasformata in male per
la collettività.
C’è da chiedersi se la “industrializzazione” fosse stata di altra natura,
fatta da insediamenti balneari, con
catene di alberghi e luoghi di relax, in
attività per l’intero anno, grazie al
clima mite mediterraneo. C’è da chiedersi quanti posti di lavoro avrebbe
potuto creare l’industria turistica, supportata dalle nostre tradizioni enogastronomiche e culturali. C’è da chiedersi quante vite umane sarebbero
state salvate. Invece assistiamo al
veloce declino del territorio e al degrado della vita dell’uomo.
Se Augusta soffre, Gela non ride
Le conseguenze dell’inquinamento
di GIUSEPPE PARISI
L
aura Malandrino sul giornale “L’Avvenire”,
il solo quotidiano a tiratura nazionale che ha
avuto il coraggio di pubblicare i servizi della
nostra collega, ha fornito una serie di tre suoi articoli, assai forti per i contenuti in quanto ha osato
parlare a chiare note sull'inquinamento del petrolchimico di Gela e altro. Si riportano per i nostri lettori alcuni passaggi dei citati pezzi: “Petrolchimico
nel mirino... I dati parlano chiaro: il rischio di
tumori e malformazioni a Gela è il doppio della
media nazionale…”.
Anche la ricerca effettuata dai tecnici nominati
dalla Procura della Repubblica di Gela ha rilevato
che tra il 1990 e il 2002 nella cittadina industriale
si sono registrati 398 casi (su 10.000) di individui
con irregolarità cardiovascolari, al sistema nervoso,
digerente e urinario, cioè circa il doppio dei casi
rispetto a quelli catalogati a livello nazionale (205
su 10.000). Anche le difformità cromosomiche non
sono da meno registrandosi infatti un buon 60 per
cento in più circa, sia rispetto al resto della Sicilia
che d’Italia.
Non sfugge all’analisi, un altro
importante episodio anche se di natura squisitamente civile e politica e
cioè una nuova presa di coscienza dei
cittadini gelesi di fronte a questi
allarmanti avvenimenti che non consentono più d’essere sottaciuti neanche dagli amministratori, che non
hanno alcun titolo per sacrificare o
barattare la salute degli amministrati
con il posto di lavoro quando questi
risulta (con dati alla mano e non a
chiacchiere) pericoloso, ad alto
rischio e spesso anche mortale. Dati
allarmanti, quelli appena riportati,
che il sindaco di Gela, Crocetta, non
ha potuto eludere (sicuramente diciamo noi, conoscendo l’uomo, non ne
aveva neanche l’intenzione) tant’è
che si è deciso di far costituire il
Comune parte civile nei processi per
inquinamento e danno biologico.
Laura Malandrino continua: ”Da
parte nostra non c'è nessuna criminalizzazione del Petrolchimico, quell'industria è la principale fonte di
occupazione per la nostra gente”.
Affermazione che la dice lunga sull’attuale posizione dibattuta dei gelesi.
Per cambiare sito, con un altro a noi più vicino,
ci giunge un’altra amara constatazione, che è di don
Palmiro Priscutto, da 28 anni sacerdote e da 14
assegnato alla parrocchia san Nicola nella frazione
Brucoli di Augusta: :” Ora le mamme sono pronte a
scendere in piazza… Ho visto il mare di casa mia
cambiare colore. Fino agli anni Sessanta era azzur-
ro, color pavone, come lo descrive Tomasi di Lampedusa. Una delle coste più belle della Sicilia sud
orientale. Poi, pian piano, l'ho vista diventare del
colore caffellatte". La situazione in questo piccolo
centro isolano iniziò a cambiare dagli inizi degli
anni ’80, quando si constatò una certa moria di
pesci, episodio che tendeva a divenire costante,
mentre nel reparto di pediatria dell'ospedale
Muscatello di Augusta le gestanti iniziarono a dare
alla luce bambini malformati.
"Nelle nostre case è entrata la sofferenza - continua il sacerdote - Eppure la gente non ha saputo
reagire a quello che stava succedendo. Facile capirne la ragione: la paura di perdere il posto di lavoro". C’e anche da dire a onor di cronaca che per
Augusta transita più del 50 per cento del petrolio
italiano, per un valore di 18 miliardi di euro ogni
anno; e che il 100% per cento del carburante con
cui si alzano in cielo le flotte aeree del nostro Paese
viene proprio dalle nostre raffinerie siciliane.
Giacinto Franco, dal 1969 primario del reparto
pediatria dell'ospedale di Augusta, afferma:
“…Ancora oggi il problema più grave è il "ricatto"
occupazionale. Basta pensare a quello che una volta
ho sentito con le mie orecchie dalla bocca di un
malato terminale nel reparto di oncologi. Dopo tre
mesi di sofferenze atroci per un tumore ai polmoni
per cause professionali, mi ha sussurrato: Preferisco morire di tumore lasciando la mia famiglia con
la pancia piena, piuttosto che morire zappando la
terra, lasciando i miei cari con la pancia vuota”.
Pochi commenti a queste parole.
A noi pare però che da parte di certi politici, che
da anni si sono impinguati, ammaliando tanti con la
chimera del posto di lavoro, utilizzando il ricatto
occupazionale come merce di scambio forzato per
il voto, non vogliono proprio saperne di prendere
atto di queste tristi situazioni e correre, quantomeno, ai ripari. A parole si, forse, mentre nei fatti li
stiamo ancora aspettando. Noi siamo convinti che
queste statistiche possano avere non solo valore
orientativo, valide per la ricerca sulle cause del
fenomeno, ma che abbiano anche un nesso logico
fra causa ed effetto, costituendo elementi probatori
fra un prima e un dopo, e che indagini serie ed
approfondite debbano comunque essere compiute.
I politici nazionali, regionali, provinciali e locali,
sanno benissimo cosa c’è dietro il polo industriale
di Gela e di Augusta, a partire dalle tasse che a noi
risulta vengano pagate in luoghi lontani del nord
italia. Oggi, diciamo noi, e non domani, la situazione deve essere chiarita.
Non si può più ordinare ai siciliani “giù la testa”
d’avanti agli interessi di pochi. In un precedente
articolo avevamo detto che l’ultimo, grave episodio
verificatosi in ordine di tempo, quello dell’incendio nello stabilimento
della Erg, poteva provocare un disastro ecologico, ma non abbiamo parlato della fortissima “paura” provata
l’estate scorsa dagli abitanti di Melilli, tappati in casa, e degli automobilisti di passaggio terrorizzati dalle
altissime nuvole di fumo e fuoco che
si sollevava lungo la statale 114, e
della stomachevole “puzza oleosa”,
che per giorni e giorni ha aleggiato
sul territorio.
Nelle pagine di un altro giornale,
“Informa Sicilia”, abbiamo anche
scritto che attendevamo sull’accaduto gli esiti di inchieste, seppur solo
conoscitive, da parte della Provincia,
del Comune e i chiarimenti da parte
dell’assessore siracusano Vinciullo, o
anche da parte della Procura della
Repubblica e, di certo e comunque,
non attendevamo chiarimenti da
parte della Erg che, comprensibilmente, si è limitata a diramare sull’episodio laconici comunicati stampa,
che non sono serviti a nulla.
Noi non dobbiamo essere solo
buoni per correre dall’esterno ai ripari, in aiuto di
questi stabilimenti di multinazionali, con i nostri
valorosi uomini e con i mezzi della Protezione civile, pompieri in testa.
Noi abbiamo ben diritto di sapere cosa c’è sotto
il perpetuarsi di questi incidenti. Se è vero che la
“trasparenza” è ormai consolidata in questa democrazia, non si capisce perchè non si debba applicare anche in queste circostanze devastanti.
LA VOCE DELL’ISOLA
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23 dicembre 2006
Catania - C’è chi lavora in regime di sovvenzioni e chi non ha mai visto un euro di contributo
Teatro e Musica “minori” sopravvivono
umiliati dall’assenza degli Enti pubblici
Benincasa: “Difficile operare senza la collaborazione delle Istituzioni”
di FRANCO DISTEFANO
«Per l’attività in programma si
auspica l’intervento della Regione
Siciliana, della Provincia di Catania e
del Comune»: ecco la parola d’ordine
degli operatori culturali a Catania. Un
po’ provocazione. Un po’ vittimismo.
Un po’ specchio della situazione di
disagio che vive chi opera nel settore.
La situazione è complessa. Nel capoluogo etneo esistono oltre venti teatri e
svariate associazioni che operano nel
settore musicale. Per tutte, la “musica”
è la stessa. Dei distinguo vanno fatti.
C’è chi in città lavora in regime di sovvenzione e chi non ha mai visto un
euro di provenienza pubblica. C’è chi
fa attività rivolta al pubblico e chi, per
propria scelta, si rivolge solo a delle
elite, con spettacoli che, per numero di
spettatori e costo dei biglietti, si situano immediatamente al di fuori del
mercato. Per tanti che decidono di
ampliare la propria offerta, ce ne sono
altrettanti che chiudono.
Il caso che l’anno scorso creò maggior scalpore fu la chiusura del
“Camera teatro studio” diretto da Nino
Romeo. Il motivo? Mancanza di sostegno economico da parte delle Istituzioni. La decisione di sbarrare le porte del
piccolo teatro di viale Mario Rapisardi, fu accompagnata così in maniera
provocatoria da una “festa di chiusura”. In tanti erano presenti. Buona
parte della stampa denunciò la gravità
del fatto. Non era possibile che si permettesse la chiusura del CTS. Ad
osservare i fatti, nasce spontanea una
domanda: il perché della chiusura. A
cosa servono le sovvenzioni di cui si
ha così bisogno e che tanti richiedono?
Il quesito sorse spontaneo proprio al
CTS lo scorso anno. Allo spettacolo
“Post Mortem”: in sala, nei giorni successivi al debutto, solo pochissime
persone, all’incirca sette. Pressappoco
sono gli stessi numeri in cui ci s’imbatte normalmente in molti altri piccoli teatri catanesi. Come può un teatro
Un momento dello spettacolo “L’Ispettore” di Gogol, messo in scena dal “Teatro del Canovaccio”
lavorare con dei numeri così piccoli?
Questo non è solo un problema dell’ex
CTS, anche altre strutture in città lavorano con gli stessi numeri. Solo c’è
chi, anche con pochi spettatori,
sopravvive, c’è chi chiude.
Un esempio positivo è quello del
teatro del “Canovaccio”. La scorsa stagione quasi il tutto esaurito ad ogni
spettacolo, l’anno prossimo addirittura
amplierà la sala, i posti a sedere passeranno da cinquanta a cento. Da sottolineare: la programmazione del “Canovaccio” non è né di taglio popolare, né
tanto meno dialettale.
Di fronte alla gestione accorta che
alcuni gruppi fanno delle proprie
entrate, perché finanziare spettacoli
che, per il proprio taglio, sono destinati solo a pochi? Quando la cultura va
sostenuta, pur se l’attività che si conduce è chiaramente anti-economica?
E’ una domanda non da poco. Il dena-
ro con cui si aiuta il mondo del teatro
è pur sempre di provenienza pubblica.
Come può essere che alcune Compagnie lavorano, pur se con molte difficoltà, senza sostegno pubblico, mentre
altre, con il denaro pubblico, non sono
riuscite più ad andare avanti. A testimoniarlo è Salvo Musumeci, promotore del “Teatro del Canovaccio”, piccola ma interessante realtà teatrale cittadina. Non è di certo un’analisi imparziale, in quanto proveniente dallo stesso mondo che si cerca di analizzare,
ma pur sempre il punto di vista di chi
lavora nel settore.
Così si esprime Salvo Musumeci:
«Lo scorso anno sono andato in un
Comune etneo per proporre loro la
messa in scena di uno spettacolo di
Pirandello; un lavoro che puoi tranquillamente presentare in una rassegna. Mi presento al Comune e dico
loro che ci occorrevano tremila euro,
service compreso. Un prezzo modesto.
A tutti era garantito il minimo. Loro mi
hanno risposto che non avevano quella
cifra e che mi potevano offrire 1500
euro. Noi non ci arrivavamo a coprire
le spese. Poi arriva lì un’altra Compagnia e gli comprano lo spettacolo per
11mila euro. Così ci sono gruppi, legati all’area popolare, che lavorano con
queste cifre. Vi sono anche Compagnie
che faticano. Altri ancora che vanno
avanti con le sovvenzioni, privi d’interesse ad incrementare il pubblico, perché vivevano con il sostegno statale.
Poi quando la vacca è stata munta,
hanno iniziato a fare le vittime».
Ambiente un po’ più protetto è quello
del teatro ufficiale, strutture istituzionalizzate che guardano con meno
preoccupazione al futuro. Anche qui
non sono rose e fiori, specialmente per
gli attori professionisti. «In Sicilia racconta Fabio Monti, attore e regista
Un accorato appello alle competenti autorità prima della completa distruzione
Carlentini: salviamo
il Palmento Ferrarotto
L’antico opificio enologico è già
sottoposto a vincolo architettonico
I
La Cantina del Palmento Ferrarotto
l Signore Filadelfo Pizzolo ha inviato un
Sos a tutte le competenti autorità (dal
ministero ai Beni culturali, al presidente
della Regione Siciliana) affinché venga salvato dal degrado il “Palmento Ferrarotto”,
in contrada Mercadante a Carlentini. Ecco
il messaggio che il signor Pizzolo ha diramato:
Il “Palmento Ferrarotto” monumentale
(mq. 800), antico opificio enologico, prototipo di architettura industriale dell’ottocento, dal 1997 è sottoposto a “vincolo architettonico” con D.A. n.5486 Regione Sicilia,
per notevole importanza storica. Per le sue
caratteristiche potrebbe essere utilizzato
come contenitore culturale (mostre, convegni, museo etnoantropologico etc.) ed offrire reali opportunità di lavoro per tanti giovani disoccupati. Purtroppo versa in precario stato di agibilità, rischia la completa
distruzione, Se parte della copertura (costituita da monumentali capriate) crolla, evento che si può verificare da un momento
all’altro, il processo di degrado si accelererà. Gli enti come la Soprintendenza, la
Regione, la Provincia, il Comune, sono a
conoscenza delle dette opportunità ma,
anche, dei pericoli che corre, eppure, di
fatto, insensibili ad ogni sollecito, non
hanno mai mosso un dito per salvaguardarlo e renderlo usufruibile. Personalmente, in
passato, ho provveduto alla sua manutenzione, svenandomi economicamente.Ades-
so non sono più in grado di farlo. La rabbia
accumulata e l’amore per il sito m’ indurrebbe ad usare parole forti per scuotere l’
indifferenza degli amministratori ma, visto
che tutte le mie pregresse, decennali sollecitazioni sono finite nel nulla, in questa
sede mi limiterò ad invitare, per l’ultimissima volta: la Regione Siciliana, il Presidente della Provincia, il Sindaco di Carlentini,
la Soprintendenza di Siracusa, a prendersi
cura del monumento in forma immediata,
se non vogliono che venga dispersa l’ultima
rappresentazione della civiltà contadina ed
industriale dell’ottocento, così com’è accaduto per altre decine di antiche testimonianze che sino a trent’anni fa erano sparsi
lungo il pendio ovest del monte Pancali,
tipo frontoi, stalle, magazzini, piccole coorti, ecc., delle quali non rimane traccia alcuna. Un’ultima annotazione: se gli enti pubblici, cui è destinato l’invito, hanno in
mente di giustificare la loro inerzia “piangendo miseria” li prego vivamente di non
farlo. Seguendo La trasmissione di Rai
TRE e ““Reporter” che tratta degli “sprechi” della P.A. mi sono convinto che quella
“balla” non regge più. La salvaguardia del
Palmento è impegno prioritario oltre che
dovere civico e morale. Qualsiasi giustificazione è inopportuna e sintomo di disamore per le proprie radici. Se questo Sos resterà inascoltato, abbandonerò il Palmento al
proprio destino, con buona pace di tutti.
catanese - tutti devono essere dei boss.
Se c’è qualcuno che emerge si cerca di
ucciderlo nella culla».
Questo in ambito teatrale in
maniera particolare?
«No. Paradossalmente, qui a Catania
meno che in altri posti della Sicilia».
Ma è difficile entrare nei circuiti
ufficiali?
«Impossibile».
Chi è che riesce ad entrarci?
«Chi c’è già dentro. E’ come se chiedi ad uno che lavora in un ente pubblico come sia riuscito a farsi assumere.
Questa è una cosa che a Milano non
c’è; non solo nell’ambito dello spettacolo, ma in generale. Se io valgo mi
assumono perché loro guadagnano di
più. Qui c’è come la paura che poi un
domani chi vale possa scalzare chi
occupa determinati posti. Prima o poi
tutto il sistema crollerà, appena
comunque qualche ente non vorrà
pagare i buchi di bilancio».
Passando dal teatro al mondo della
musica, le parole non cambiano. L’anno scorso vi fu la protesta delle grosse
agenzie di management eventi. Adesso, è “Catania Jazz” a minacciare la
chiusura.
«Non si può ancora tirare avanti così
- spiega Pompeo Benincasa, direttore
artistico di “Catania Jazz” -. Non si
può fare attività per tanti anni senza
avere alcuna collaborazione dalle istituzioni locali ma addirittura averli
contro».
Come?
«I motivi sono vari. Nel corso degli
anni ci sono state delle amministrazioni anche di diverso colore politico e la
cosa non è cambiata.
Il primo motivo però è l’ignoranza.
Io ancora ricordo un assessore alla cultura che, quando ci andai a parlare, già
a distanza di venti metri, quando mi
vide, mi disse: Benincasa, mettiamo
subito in chiaro una cosa, che a me il
jazz non piace. Allora, girai i tacchi e
andai via».
Tra i problemi della città vi è anche
quello dell’assenza anche di grosse
sale concerto. Un fatto emerso in tutto
il suo clamore agli appuntamenti di
“Etnafest 2006”. Troppe le persone in
fila ai botteghini. Troppe le persone
rimaste al freddo di fronte al teatro
Sangiorgi, senza avere la possibilità di
entrare. “Etnafest”, comunque, è al
centro delle lamentele d’alcuni operatori.
L’accusa mossa ai “grandi eventi
della Provincia di Catania”? Dumping.
In pratica, è la vendita di un servizio
ad un prezzo inferiore di quello di
mercato. «Non si è mai visto in Italia continua Benincasa - che un ente pubblico organizzi in qualità di manager
una manifestazione.
Non stanno lavorando per sostenere
le associazioni culturali della loro
città, ma per ucciderle, con costi paurosi. Ad occhio, una stagione di Etnafest equivale alle ultime dodici nostre.
Una grande macchina mangiasoldi che
serve solo a scopo d’immagine di chi
l’organizza.
Loro così si possono permettere di
spendere 750mila euro per poco più di
trenta concerti e di non incassarne
neanche il 10 per cento. Una logica
opposta alla nostra. Qui siamo al paradosso, con l’Amministrazione pubblica che fa dumping nei confronti dei
propri operatori culturali.
Ma se domani facessero la stessa
cosa con il cinema, e proiettassero i
film in prima visione a due euro, probabilmente ci sarebbe la rivoluzione
degli esercenti. Per il pubblico capisco
che è una grande conquista.
Temporanea, però. Alla lunga anche
Etnafest finirà. Una cosa che ho detto
spesso agli assessori alla Cultura di
Catania, quando non ottenevamo
udienza, è noi sopravvivremo a voi.
E’ stato così. Noi siamo qui da 25
anni. Di quegli assessori alla Cultura si
è persa ogni traccia. Volendo noi resisteremo ad Etnafest, ma con grande
fatica».
Sopravvivranno? Si spera. La questione resta comunque aperta. Più scottante che mai.
LA VOCE DELL’ISOLA
11
23 dicembre 2006
Il fenomeno giovanile, sino a poco tempo addietro sottovalutato, sta assumendo toni allarmanti
Dal malessere ai soprusi e alla violenza
Il bullismo miete vittime tra deboli e indifesi
Prevenire il disagio denunciando le devianze quando si manifestano
di ALFREDO LIETO
G
ravi episodi di violenza ma anche umiliazione e soprusi. Aggressioni fisiche e verbali tra giovani nelle scuole, nelle piazze,
nei luoghi di ritrovo. Sulle pagine dei giornali si
leggono sempre più spesso episodi legati a fatti di
cronaca che, oltre a far rabbrividire al momento,
preoccupano per il futuro. Il cosiddetto fenomeno
del bullismo è sempre più diffuso nel nostro
Paese, come in altre nazioni, e può creare gravi
disagi in chi li subisce. Non si tratta solo di atteggiamenti provocatori o di derisione ma anche di
vere e proprie aggressioni, intenzionali e ripetute
nel tempo, che coinvolgono soprattutto i giovani
tra i 7 e i 18 anni
La parola «bullismo» è la traduzione italiana
dell’inglese bullying ed è utilizzata per indicare
un insieme di comportamenti in cui qualcuno
ripetutamente fa o dice cose per avere potere su
un’altra persona e dominarla. Il bullo, in genere
(ma non sempre) è un maschio che si compiace di
insultare, picchiare e cercare di dominare il compagno più debole anche quando è evidente che la
sua vittima sta molto male ed è angosciata. Egli
di solito persiste nel suo atteggiamento per un
lungo periodo di tempo, favorito anche dalla sua
stessa costituzione fisica, infatti, solitamente è
più grande della sua vittima e ha maggiore forza.
La vittima del bullo è più sensibile degli altri
coetanei alle prese in giro, non è capace o non è
fisicamente in grado di difendersi in modo efficace; spesso si sente isolata ed esposta, ha molta
paura di riferire anche agli adulti le prepotenze
che subisce perché teme rappresaglie e vendette.
La qualità di soprusi che è costretto a tollerare
determina una spiccata diminuzione dell’autostima. Un simile danno può mantenersi nel tempo e
induce la persona maltrattata a perdere interesse
per la scuola o ad assumere a sua volta atteggiamenti violenti e aggressivi: può accadere che
alcune vittime diventino a loro volta aggressori.
Il bullismo si manifesta in due forme principali:
può essere diretto o indiretto. Nel primo caso l’attacco è fisico e/o verbale: consiste nel colpire con
pugni o calci la vittima, rubare o rovinare oggetti di sua proprietà, deriderla, insultarla, sottolineare aspetti razziali o caratteristiche fisiche, più
frequente tra i maschi è caratterizzato da comportamenti facilmente visibili. Nel secondo, meno
facile da individuare perché giocato sul piano psichico tipicamente femminile. In questo caso l’attacco è più sottile e consiste nel diffondere pettegolezzi fastidiosi o storie offensive allo scopo di
isolare dal resto del gruppo la vittima. Purtroppo
si riscontra una preoccupante diffusione del bullismo nella scuola primaria e nei primi anni della
scuola secondaria.
Con il crescere dell’età si assiste ad una diminuzione del numero dei bulli, ma i ragazzi che
ancora si comportano in questo modo sono da
considerarsi a tutti gli effetti ragazzi con disagi
personali gravi. Anche le ragazze sono coinvolte,
nel senso che si constata una tendenza da parte
delle femmine a comportarsi in modo aggressivo
e violento.
Si è portati a pensare che il bullo provenga soltanto da persone con problemi familiari o bassa
scolarizzazione ma, sempre più spesso purtroppo,
leggiamo di ragazzi provenienti dal cosiddetto
ceto medio apparentemente senza gravi problemi
economici o sociali. Sottovalutato dai ragazzi e
spesso anche dagli adulti il fenomeno desta molta
preoccupazione nella scuola, nelle istituzioni e
nell’opinione pubblica e visto che le nuove tecnologie permettono la diffusione del fenomeno
anche online, non è difficile scovare immagini
video di violenze che fanno cassa di risonanza e
quasi incitano all’emulazione. (ne sono una
dimostrazione i gravissimi fatti visti in Tv con
manifestazioni di bullismo nei confronti non solo
di compagni più deboli ma anche a carico di professori privi di qualsivoglia reazione e pronti a
subire; viene allora da chiedersi se l’insegnante
era stata già stata vittima da giovane ed ora continua ad esserlo)
I ragazzi non devono aver paura di denunciare
i loro problemi, si devono fidare degli adulti. E’
l’unico modo per aiutare se stessi e anche i loro
persecutori che non di rado vivono in ambienti
familiari difficili e hanno bisogno di un supporto.
Un ruolo fondamentale riveste anche il gruppo
degli spettatori. L’85% degli episodi di bullismo
avviene alla presenza di compagni che nella maggior parte dei casi rimangono silenziosi e inattivi.
Proprio su di loro si deve intervenire e si deve far
leva per ridurre la portata del fenomeno.
La scuola, la famiglia e noi tutti dobbiamo aiutare questi giovani a formarsi quale cittadini onesti del futuro.
La memoria perduta può ritrovarsi fra mille oggetti ritenuti inutili
Nei mercatini si scoprono i libri dimenticati
di TEA RANNO
C
apita. Di andare in giro per
bancarelle e trovare un libro
che appena lo apri ti restituisce
la vita di cinquant’anni fa; la vita di
un certo luogo, che poi, magari, è
quello in cui sei nato - o i suoi dintorni - e di cui, quindi, conosci il cielo, il
mare, l’aguzzo dell’unica montagna
che si staglia all’orizzonte. E gli
odori. Soprattutto gli odori, perché
sono quelli che all’improvviso ti
assalgono, lì, davanti al banco stracolmo di libri, mentre il tunisino che
li vende - un signore brizzolato,
paziente, che ti conosce e sa che
comunque compri - ti guarda come a
dire: “Ma che ci trovi in questo sfasciume?” (tale è infatti il libro: giallognolo, sgualcito, con la foderina
strappata e il frontespizio in parte
cancellato; buttato nell’angolo delle
“occasioni” visto che costa appena un
euro). E tu stai lì, col libro in mano,
pensando che non t’importa nulla
della copertina strappata o del frontespizio cancellato, anzi, neppure ci fai
caso, tutto preso come sei da quell’odore da capogiro (di limoni, di zagare, di terra umida, di salmastro, di
foglie che cominciano a marcire, di
funghi) mentre il sole di luglio ti
cuoce la testa, e il mercato intorno a
te puzza di sottaceti, formaggi e
meloni sfatti.
Sfogli le pagine e sei dentro un
giardino, sono le quattro e mezza, il
sole deve ancora spuntare, Ercole
Patti cammina sulla terra umida, ha
gli stivali coperti di brina, un fucile a
tracolla che non userà. E’ novembre.
Tra gli alberi fuggono conigli, cinguettano uccelli ai quali in altri tempi
si sarebbe sparato e adesso invece non
più: si lasciano svolazzare da un ramo
a un tetto, dal mare alle sciare dell’Etna, dove ci sono castagni e noccioli e
contadini che attendono alla vendemmia. E all’odore dei limoni - mano a
mano che sfogli le pagine - si sostituisce quello del mosto. E poi quello
della terra bagnata. C’è un temporale
che riga i vetri della finestra mentre lo
scrittore - è l’alba di un altro giorno lavora ai testi che spedirà a Roma, e
intanto pensa a una donna che quella
notte non ha dormito e se ne va in giro
- nella stessa alba - colma di una stanchezza che è soprattutto languore,
odore di carne, di una sottoveste che
sa di zagara. No, di zagara no, non
profumano di zagara le signorine che
vanno di notte in giro per i locali della
Capitale, ma le ragazze che si stendono nei fienili, o nei palmenti, al buio,
dentro l’odore del mosto, come fa la
zia Cettina con Nino, in quel “bellissimo novembre” intriso di senso e
desolazione, dove ci si incontra in
case di campagna rette da contadine
pronte a soddisfare ogni fame. E la
pagina si colma dell’odore di maccheroni, di salsicce cotte sopra le
tegole infuocate, della polvere da
sparo che resta sulle mani a fare il
maschio più maschio e la femmina
più pronta a concedersi.
E pagina chiama pagina, storia
chiama storia: adesso l’odore che
senti è quello del lisoformio sulle
gambe della cugina tredicenne, che
poi si farà baronessa e profumerà di
cosmetici francesi in una storia lunga
trent’anni in cui avrà il tempo di
appassire e morire sotto lo sguardo
impietoso del cugino, che l’ha usata
per trarne, soltanto, il miele del piacere.
“In un angolo accanto a un ulivo
secolare (…) c’è un giornale tutto
gonfio di brina. In un grosso titolo si
legge: ‘Lo Sputnik II ha compiuto più
di cento volte il giro del mondo. La
cagnetta Leika non dà più segni di
vita”. E’ il novembre del 1956. Oggi,
intorno alla Terra non girano più
astronavi con dentro cagnette morte.
Oggi si costruiscono stazioni orbitanti permanenti. Ma il sacrificio di
Leika è servito alla scienza. E la parola “sacrificio” richiama immediatamente una scena crudelissima raccontata sempre da Patti: Enzo, il cugino,
va a trovare un suo massaro, e lo
coglie nel momento in cui questi sta
allenando un furetto. Per insegnargli
il mestiere, l’uomo ha catturato un
cucciolo di coniglio, gli ha spezzato
le zampe - fragili come grissini - e
l’ha buttato, sussultante per il dolore,
tra le fauci del furetto, che l’ha doverosamente azzannato per la nuca,
senza ucciderlo però, perché il
mestiere suo è questo: riportare al
padrone le prede ancora vive.
Sfogli il libro, leggi che nella casa
di Bellini, a Catania, c’è il disegno di
una lira, una delle cinque corde è formata da un filo di capello del giovane
compositore: “un capello chiaro,
quasi evanescente”. Ercole Patti è
insieme a Mario Soldati, che sa leggere la musica e guardando i quaderni di
Bellini ne canticchia le arie.
Leggi ancora: “Le ragazze in villeggiatura uscivano la mattina sui terrazzini sotto il cielo limpido, nell’aria
frizzante che arrivava dalle vigne sottostanti imperlate di brina, e andavano a mangiare con una forchetta d’argento i fichidindia ammonticchiati
sulle tegole, che il freddo della notte
aveva fatto diventare freddi e duri
come gelati”.
Il tunisino ti guarda. Se gli parli dei
fichidindia e dei giardini di limoni
sicuramente ti capisce, perché anche
lui, in qualche remota estate della sua
infanzia, avrà mangiato fichidindia
gelati, o avrà respirato l’odore delle
zagare, prima di finire qui, in questo
mercato in cui svolazzano sottane di
nylon che nulla sanno delle sottane di
Cettina, quelle che scivolano sopra
ginocchia ben tornite e cosce bianche,
e che accendono di desiderio un sedicenne che non avrà il tempo di sapere
che cos’è l’amore.
Ercole Patti: Diario Siciliano - Un
bellissimo Novembre - La cugina
LA VOCE DELL’ISOLA
12
23 dicembre 2006
Intervista all’on. Franco Frattini
Nuove strategie per favorire l’integrazione
degli immigrati nel mercato del lavoro UE
Creare le basi per una collaborazione più ampia tra gli Stati membri
N
aturale premessa all’assegnazione del
premio “Paolo Ungari”, assegnato dalla
LIDU (Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo) nei giorni scorsi a Roma all’onorevole Franco Frattini è, in base ai principi fondativi su cui
è stata costituita la Comunità Europea (principi
che, via via, attuati,dovranno portare ad un’integrazione sempre più stretta tra gli Stati membri,
fino a determinare, di fatto, un’unità politica,
economica e sociale, come ebbe ad auspicare,
oltre150 anni fa, Giuseppe Mazzini), il particolare impegno politico e di lavoro profuso da autorevoli membri istituzionali della Comunità nelle
delicata gestione dei flussi della vera e propria
sopravvivenza, vengono, ormai da qualche anno,
riversandosi sul vecchio Continente.
Grave e pesante questione da far letteralmente
tremare “le vene e i polsi”, anche perché strettamente intrecciata con l’altrettanto delicato problema dell’invocato asilo politico da parte dei
tanti e tanti individui costretti a fuggire dai Paesi
in cui della difesa dei diritti fondamentali dell’uomo, del rispetto dell’incolumità fisica e
morale della persona, viene fatto strame.
Grave e pesante questione che, nella misura in
cui sarà elaborata una legislazione in grado di
garantire una dignitosa integrazione tra popolazioni diverse, culture diverse, tradizioni diverse,
sulla base dei principi uguali e condivisi di giustizia e libertà, che siano presidio per tutti, senza
distinzione di colore, razza, fede o convinzione
politica, potrà essere rivolta al meglio per il bene
comune.
Solo così, infatti, nessuno si sentirà dimidiato
nei diritti fondamentali che gli competono, per
natura, come individuo e come cittadino, e nessuno, di converso, dovrà mancare al dovere di
rispettare le prerogative che, parimenti, spettano
agli altri.
Sulla base di tutto questo, abbiamo chiesto al V
vicepresidente della Commissione Europea,
nonchè Commissario, sempre per la Comunità,
della Giustizia, della Libertà e della Sicurezza, di
rispondere a tre “corpose” domande in materia.
Franco Frattini
migrazione (beninteso nel senso di affinare sempre più la conoscenza del fabbisogno del nostro
mercato del lavoro), dall’altro dobbiamo pensare
anche di essere scelti, Con questo intendo dire
che va incoraggiata la voglia di integrazione.
A che punto si trova il lavoro per uniformare e coordinare la normativa europea in tema
di asilo politico? Quali sono i temi previsti per
il varo di una legge comune?
Da sempre, in ogni regione del mondo, individui o intere popolazioni hanno dovuto abbandonare le loro dimore e sfuggire a persecuzioni,
Aggressioni: dieci milioni di vittime
Contro ogni violenza
di GIAN PIERO CALCHETTI
Quali iniziative ha preso, in senso al consesso comunitario per migliorare l’integrazione
effettiva dei migranti nel mercato del lavoro
nel contesto dei Paesi ospiti, con riferimento
soprattutto al rispetto dei valori fondamentali
della società ospite e dell’Unione Europea?
In questo senso, al cospetto dei vari problemi di multietnicità ed, a volte, di sostanziale
scontro di usi e costumi tra le diverse etnie e
religioni, che, come ben sai, vanno giornalmente emergendo in seno all’Europa, quale è
la sua personale posizione: è favorevole al
mantenimento, da parte delle comunità
migranti dei costumi d’origine, ovvero ritiene
che un migrante, da qualsiasi parte provenga,
debba dismettere le proprie abitudini e “sposare” acriticamente i comportamenti di chi le
ospita?
Siamo impegnati a promuovere una nuova strategia per l’integrazione dei cittadini dei Paesi
terzi nel tessuto sociale europeo. E in questo
senso, nel Settembre del 2005, ho presentato una
“Comunicazione su un’agenda comune per l’integrazione dei cittadini dei Paesi terzi dell’Unione Europea”.
Mi sono quindi adoperato per promuovere gli
sforzi della Comunità e dei suoi Stati membri in
direzione di un miglioramento dell’integrazione
effettiva e responsabile degli immigrati: tanto nel
mercato del lavoro,quanto nei percorsi che il processo democratico dei nostri paesi offre a chi
voglia compiere il cammino dell’integrazione.
L’integrazione ha conosciuto e conosce diversi
modelli nei principali Paesi europei. Dalla Francia al Regno Unito e dall’Olanda, per citare solo
alcune delle esperienze principali: tutte più o
meno in crisi, però, dobbiamo dirlo con franchezza. Anche perché dobbiamo forse mettere l’accento non soltanto sulla partecipazione e sul dialogo ma anche sul rispetto dei valori fondamentali della società ospite e complessivamente dell’Unione europea. Dobbiamo meglio conoscere i
mondi delle comunità che entrano in Europa - in
questo impegnando maggiormente le istituzioni
locali, le più vicine ai cittadini -, e dobbiamo nel
contempo favorire la disponibilità all’integrazione, all’apprendimento della lingua prima di tutto.
Da un lato dobbiamo anche poter scegliere l’im-
conflitti armati, e violenze, cercando rifugio
altrove. Da sempre, pertanto, l’esilio è uno degli
eventi più drammatici della vita dell’ uomo;
La concessione dell’asilo rappresenta per gli
Stati membri un modo per ribadire la propria
sovranità territoriale, un atto sovrano basato su
considerazioni umanitarie.
Con l’adozione della direttiva del 1° Dicembre
2005 sulle procedure d’asilo - vi si danno indicazioni minime per il riconoscimento o la revoca
dello status di rifugiata - si è completata la prima
fase del regime europeo comune in materia di
di MARIO FIORITO
D
ieci milioni di donne italiane sono
vittime di violenze. Anche sul posto
di lavoro sono diffusi i ricatti sessuali per esser assunte o far carriera. Il 90%
delle vittime non denuncia le aggressioni
fisiche e psicologiche. Questo è il quadro
della situazione in Italia così come è emerso
dai dati ISTAT, che sono stati discussi in un
dibattito parlamentare, alla Camera, in vista
della Giornata internazionale contro le molestie e le aggressioni, che si celebra il 25
novembre (secondo quanto designato dall’Onu, a Pechino, con risoluzione n.54/134
del 17 dicembre 1999).
Mentre il Parlamento si accinge a discutere un nuovo progetto di legge contro le violenze alle donne (saranno apportate modifiche con pene severe per gli uomini violenti
che minacciano di ritorsioni le conviventi
che decidono di lasciarli) questi stessi temi
sono stati analizzati nella sede della Provincia regionale di Catania, in occasione di un
incontro organizzato dall’assessore provinciale alle Pari opportunità e alla Politiche
scolastiche, Margherita Ferro, per la presentazione del progetto “Sembrava fosse
amore e invece…”, che sarà attuato in alcuni
istituti scolastici, al fine di sensibilizzare i
giovani alla tematica della violenza contro le
donne e i minori, per la prevenzione di tale
fenomeno. All’incontro della Provincia
hanno partecipato il questore Michele Capomacchina, la viceprefetto aggiunta Michela
La Jacona (in rappresentanza del prefetto
Cancellieri), il magistrato Francesco Di Stefano, Pina Ferraro (presidente dell’Associazione Thamaia), Rita Palidda (presidente del
Comitato Pari opportunità dell’Ateneo) e
Serafina Perra, assessore provinciale alle
Politiche culturali.
Ha portato il suo saluto al consesso il presidente della Provincia regionale di Catania,
Raffaele Lombardo, che dopo aver pubblicamente plaudito all’impegno profuso dall’assessore Ferro, ha fortemente apprezzato
l’immediata e totale disponibilità ad affrontare il problema manifestato dai rappresentanti delle istituzioni locali, dalle associazioni e dai sodalizi che hanno più volte affrontato questo problema.
“La violenza distrugge non solo le vite
delle donne, bensì il potenziale che si potrebbe avere in esse. Ciò provoca gravi perdite
ed arretramento nelle loro stesse comunità.
Purtroppo, però, una grave e costante manifestazione del ciclo della violenza contro la
donna è l’impunità nella quale rimangono
dette violazioni ai diritti fondamentali della
donna stessa”, così ha dichiarato l’assessore
Ferro, che ha anche parlato del sistema giudiziario spagnolo - il più evoluto in Europa –
caratterizzato da tempi brevissimi per lo
svolgimento dei processi contro i mariti o
conviventi violenti.
asilo. L‘obbiettivo di un regime europeo è chiaro:
affrontare, tutti insieme, in quanto comunità, la
gestione delle questioni inerenti all’asilo. In una
Unione Europea, che ha abbandonato tutte le proprie frontiere interne, nessuno Stato potrebbe,
infatti, affrontare e risolvere efficacemente, da
solo, questo problema. Dobbiamo, quindi, e la
sfida posta al programma dell’AIA indica il 2010
come traguardo: 1) aumentare la convergenza dei
processi decisionali degli Stati membri nel quadro delle disposizioni fissate dalla normativa
comunitaria in materia di asilo; 2) creare le basi
per una collaborazione più ampia tra Stati, ed
instaurare un clima di fiducia e una consapevolezza che si affronta un tema di interesse comune;
3) procedere, infine e congiuntamente, alla raccolta, alla valutazione e all’utilizzo di informazioni riguardanti i Paesi d’origine.
Quali sono gli strumenti previsti in materia
(corsi, stages, direttive etc) per la formazione
dei funzionari territoriali, in modo che non si
verifichino spiacevoli discrasie di comportamento nella valutazione delle richieste di
asilo?
Più volte Lei ha sottolineato il fatto che gli
emigrati in regola con le leggi sull’immigrazione hanno diritto al massimo rispetto, così
come debbono essere aiutati ad integrarsi. Esiste però anche un flusso migratorio e clandestino che pure interessa persone la cui sola
colpa è quella di essere degli emarginati alla
mercè di sfruttatori, trafficanti e malavitosi di
varia connotazione e specie. Per questa massa
di diseredati, l’unica soluzione è il rimpatrio.
A livello comunitario si stanno studiando soluzioni meno traumatiche e comunque in grado
di offrire anche a questi una prospettiva di
inserimento e di integrazione?
L’intera materia va affrontata con un approccio
globale che aiuti a definire, per poi rispondere
con strumenti adeguati, i lati di un fenomeno
complesso. Abbiamo appena visto il dramma dei
rifugiati. E dobbiamo naturalmente guardare con
la stesse umanità e lo stesso rispetto dei diritti
anche l’immigrazione illegale. Che non possiamo
però incoraggiare, naturalmente. E soprattutto
perché l’obbiettivo è quello di arrivare a governare il fenomeno attraverso politiche coordinate con
i Paesi da cui la migrazione proviene: con decisioni-scelte attente alle dinamiche del mercato
del lavoro europeo e con il compito di creare un
circuito virtuoso riguardo al pericolo della fuga
dei cervelli. Dobbiamo poi combattere il lavoro
nero che tutte le analisi ci dicono essere un pull
factor, un fattore di attrazione dell’immigrazione
illegale. Concludendo:non possiamo né vogliamo
contraddirci in tema di umanità dicendo che il
rimpatrio sia l’unica risposta all’illegalità (e dunque sono i governi a cercare e a trovare soluzioni), ma neppure possiamo contraddirci offrendo
in anticipo una soluzione di tutto comodo a chi ci
ha raggiunto nell’illegalità: dobbiamo infatti e
con chiarezza affermare l’importanza decisiva
della legalità. Soltanto così possiamo contribuire
a costruire una politica di governo del fenomeno
utile ad abbattere la povertà e, nello stesso tempo,
utile all’Europa. Noi dobbiamo forse fare anche
di più in termini di politica di comunicazione:
informare e fare sapere nei Paesi di origine il contesto e le condizioni e le richiesta che provengono dall’Europa in materia di mercato del lavoro.
LA VOCE DELL’ISOLA
i nostri Documenti
2
decreto, egli scartasse
ogni pur minima concesLa storia mai raccontata: l’impresa dei Mille di Garibaldi
lla luce di così
sione alla libertà dei sicitanto interesse
liani, poiché con la forza
fu una truffa nei confronti dei Siciliani, ed ebbe lo scopo
sulla questione
acquistava la sovranità
siciliana che si è accendi annettere la Sicilia ad uno Stato che ancora non esisteva,
del territorio che gratuata in questi ultimi
dualmente andava occuin nome di una Unità che portava benefici soltanto al Nord
tempi, vogliamo narrare
pando. Contrariamente
quanto accadde in Sicilia
alla sua conclamata senquel famoso 21 ottobre
sibilità di “eroe della lidel 1860, anniversario
bertà dei popoli”, che
che è ricorso proprio nei
avrebbe dovuto indurlo a
giorni scorsi, poiché anscegliere di concedere la
cora sono in tanti a non
legislazione e l’organizconoscere la “verità”
zazione che lo Stato di
guardata da un diverso di
Sicilia si era dato nel
punto di vista da quello
1848-49, si comportò da
ufficiale, di quella pagiinvasore, sfruttando il
na di storia che ci ha
territorio occupato, diportato a ciò che siamo
straendone le risorse fioggi.
nanziarie per i bisogni di
Al fine di essere il più
altri territori, di altre popossibile chiari sulla
polazioni, di altri Stati.
questione, non possiamo
Gli eventi di quella triesimerci d’iniziare senza
ste pagina di storia del
brevemente accennare ad
popolo siciliano, che fu
alcune realtà sullo sbarrapinato, saccheggiato,
co di Garibaldi, azione
umiliato, reso servo e
che lo storico Mack
trucidato dai liberatori
Smith ha definito “la
garibaldini, non trova
donchisciottesca spedispazio di approfondizione di Garibaldi e dei
mento in questa brevissisuoi Mille”, circa il moma narrativa che, princido rocambolesco di copalmente, è rivolta all’atme avvenne l’operazioto ben congegnato di anne. Innanzitutto, apparve
nessione della Sicilia. Inchiaro che le operazioni
fatti, il 2 giugno, il goparamilitari di Garibaldi
verno provvisorio garifurono prive di validità
baldino aveva emanato
giuridica perché a quelda Palermo un decreto
l’impresa mancò la cresulla divisione dei demadenziale di uno Stato ufni; ma non appena i conficialmente costituito e,
tadini passarono a reclaquindi, la necessaria comarne l’attuazione e a ripertura di una bandiera.
vendicare anche la quoSi trattò dunque, a nostro
tizzazione delle terre deMartin, di Artigas, di Espartero, la stoffa del libertaavviso, di un’avventura paramilitare, personale e pimaniali acquistate illegalmente dai commercianti e
dor sudamericano o iberico, anglofilo per inclinazioratesca assolutamente illegale, per usare un linguagdai borghesi, fu proprio quel governo che cominciò
ne o per necessità; né di dare spazio alla sterile e
gio in voga oggi. Sin dal primo momento, il popolo
ad applicare contro di essi quegli altri decreti emaodiosa polemica sull’estrazione tipicamente italica e
siciliano ebbe seri dubbi sull’azione: si voleva realnati dallo stesso Dittatore in difesa della proprietà e
nordista del contingente originario dei cosiddetti
mente liberare la Sicilia dalla dominazione borbonidegli interessi agrari della borghesia e, per di più,
Mille. Lo scopo è invece di chiarire lo status che il
ca, oppure si voleva compiere un’altra vera e propria
adottando contro i poveri disillusi la procedura somnuovo invasore rivesti in Sicilia, succedendo all’ocinvasione? Infatti, quel giorno di maggio, quando a
maria dei Consigli di guerra distrettuali, istituiti con
cupante borbonico. Giuseppe Garibaldi non prese
Marsala giunse Garibaldi con le sue navi, in rada e
il decreto del 20 maggio. E se ciò costituì da un lato
mai in considerazione il sacrosanto diritto dei sicialla fonda del porto trovò due cannoniere della “Meuna garanzia per la classe aristocratico-borghese, la
liani alla libertà, né volle riconoscere l’esistenza di
diterranean Fleet” inglese: le HMS. “Argus” e “Inquale inclinò subito all’annessione pronta ed inconquel partito costituzionale che rappresentava l’opitrepid”, formalmente in visita di cortesia in Sicilia,
dizionata, determinò dall’altro la frattura definitiva
nione politica maggioritaria di essi. Non di meno, i
ma in realtà giunte lì su precise istruzioni del gabitra quello pseudo-liberatore e il proletariato dell’isotesti scolastici e la storiografia tradizionale tentano
netto Palmerston Russel; e mentre i garibaldini del
la. Inoltre, le stragi contadine che Bixio e gli altri
ancora, nel 2006, di far passare per verità la grossoPiemonte erano già sbarcati e gli altri del “Lombarcomandanti delle colonne garibaldine consumarono
lana menzogna secondo cui egli sbarcò nell’isola per
do” si accingevano a imitarli, sopraggiunsero a Mara Bronte, a Nicosia, a Mascalucia, a Nissoria, a
aiutare il popolo siciliano a riprendere in mano la disala la pirocorvetta “Stromboli”, comandata da GuLeonforte e a Biancavilla, sono il suggello e le prove
sponibilità del proprio destino. Infatti, nel primo deglielmo Acton, e due altri piroscafi armati della stesstoriche più schiaccianti della politica filoborghese e
creto fatto a Salemi due giorni dopo lo sbarco, egli
sa flotta borbonica, che si accorsero della presenza
reazionaria adottata fin dal primo momento dall’Esi autoproclamò “comandante in capo delle forze nasul molo di uomini in giubbe rosse e li scambiarono
roe della libertà dei popoli. Garibaldi mise subito in
zionali in Sicilia” e affermò di “assumere nel nome
per i red coats delle truppe inglesi. Allora, il comanatto il desiderio del re che “si compisse senza ritardo
di Vittorio Emanuele Re d’Italia, la Dittatura in Sicidante Acton, che aveva già fatto armare i pezzi, fece
l’annessione”, e Depretis (pro-dittatore con il decrelia”. Cioè, si attribuì, senza mezzi termini e senz’alchiedere agli inglesi se gli uomini armati che si vetò di Milazzo del 21luglio) cominciò ad emanare tutcun equivoco, la posizione giuridica dell’occupante
devano sul molo fossero truppe britanniche. Gli inta una serie di provvedimenti allo scopo di far scombellico e, in particolare, dell’invasore il quale, per
glesi risposero di no, e nel contempo, avvertirono
parire ogni residua possibilità di autodeterminazione
delega più o meno espressa del non ancora re d’ItaActon che i loro comandanti si trovavano a terra.
dei siciliani. A tale proposito, ricordiamo in modo
lia, intendeva succedere al precedente invasore. È
Acton, che rabbrividì al solo pensiero che una
specifico i provvedimenti politicamente e psicologidunque inoppugnabile che fin da questo suo primo
scheggia di granata potesse colpire un ufficiale della
camente incisivi deI 13 giugno, con il quale si abolì
regina Vittoria, decise di attendere il loro ritorno sull’emblema nazionale dell’Isola, sostituendolo con lo
le loro navi, e solo dopo un’ora buona poté aprire il
stemma sabaudo, come se la Sicilia dovesse essere
fuoco. Ma a quel punto, gli uomini intravisti sul moconsiderata d’ora innanzi un bene di quella Corona o
lo erano già al sicuro e ben nascosti dai tiri dello
addirittura parte del patrimonio privato di quei re;
“Stromboli” e dei piroscafi “Partenope” e “Capri”.
quello del 16 giugno, che revocò le dogane tra l’IsoQuesti episodi della prima ora di Garibaldi e dei
la e le province italiane; quello del I7 giugno, che
Mille in Sicilia, la dicevano già allora lunga e c’inimpose alle navi siciliane la bandiera dello Stato saducono oggi a ritenere che, se il capitano di fregata
baudo; quello del 2 luglio, con il quale si stabili che
Acton non fosse stato troppo fiducioso nella lealtà
gli effettivi dell’esercito siciliano andavano a costibritannica e avesse adempiuto al suo dovere di soltuire la XV e la XVI divisione dell’esercito piemondato, almeno la metà della spedizione che approfittò
tese; quello del 6 luglio, che dispose l’intestazione
di quell’ora per abbandonare il “Lombardo”, avrebdi tutti gli atti pubblici a “Vittorio Emanuele II Re
be fatto la stessa fine che fecero nel 1857 i 300 di
d’Italia”, quando ancora non lo era; quelli del 5 e del
Carlo Pisacane, e forse la storia che portò la Sicilia
14 luglio, con i quali gli uomini della Marina Militadall’una all’altra dominazione sarebbe ancora tutta
re siciliana furono incorporati negli organici di quelda scrivere.
la Sarda.
D’altronde, la perfidia e l’egoismo della diplomaDal 3 agosto ad oltre la metà di ottobre, anziché
zia inglese, le sue riserve mentali sul destino colodare la pro-dittatura ad Antonio Mordini, si attuò
niale della Sicilia, nel maggio 1860, non vennero
una vera e propria buriana di provvedimenti: l’estencompresi soltanto da quell’ufficiale borbonico che,
sione all’isola dello Statuto Albertino; l’adozione
dopo tutto, passò al nemico prima ancora della capidella formula del giuramento di fedeltà a Vittorio
tolazione del proprio re, ma non lo furono dagli stesEmanuele Il e ai suoi reali successori; l’intestazione
si Siciliani nel 1812, nel ‘48, nel ‘60, e anche nel
delle leggi “in nome di S.M. Vittorio Emanuele Re
1943-45. La narrazione di quei fatti non ha lo scopo
d’Italia”; l’unificazione monetaria; il riconoscimento
di fare filosofia politica o di rifare la storia dell’imalla pari dei gradi accademici conseguiti fuori della
presa siciliana di un Garibaldi a cui il Foreign Office
Sicilia e nei pubblici concorsi svoltisi nell’isola.
Giuseppe Garibaldi
credette di riconoscere la stoffa del Bolivar, di San
Vennero recepiti pure i decreti piemontesi sull’ordidi GIUSEPPE PARISI
A
LA VOCE DELL’ISOLA
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namento degli uffici di Questura e sulla Pubblica sicurezza, come anche le leggi e i regolamenti della
marina mercantile sarda. Vennero estesi all’isola la
legge comunale e provinciale sarda del 23 ottobre
1859, il Codice penale militare piemontese e la legge piemontese 16 novembre 1859 sulla composizione degli uffici di Governo e d’Intendenza, sui gradi,
le classi, gli stipendi dei funzionari, degli impiegati
e del personale di segreteria. Questa pesante messe
di disposizioni, è stato giustamente osservato da De
Stefano e Oddo, “metteva l’isola né più e né meno
sul medesimo piano delle province che avevano votato l’annessione al regno sardo, e annullava e trasformava radicalmente istituzioni, uffici, metodi inveterati e adeguati alle tradizioni isolane”. La flebile
opposizione radicale del gruppo crispino affogava
dunque nella marea di quei decreti e di quel “riordinamento amministrativo” che costituirono la base
politica e psicologica per il plebiscito di annessione
immediata. Quando però il 14 settembre Garibaldi si
vide costretto a Napoli, ad accettare le dimissioni di
Depretis per sciogliere il nodo del contrasto insorto
tra la politica di quest’ultimo e quella temporeggiatrice del gruppo dei radicali - contrasto che aveva
portato alle dimissioni dello stesso cervello politico
del Dittatore dal governo presieduto dal Depretis sembrò che tra il nuovo prodittatore Mordini e i democratici e i moderati autonomisti chiamati al ministero si potesse giungere alla mediocrità di un accordo di massima sul futuro assetto costituzionale dell’Isola.
E in questo senso va interpretata la decisione del 5
ottobre del Consiglio dei ministri, in base alla quale
Mordini decretò e promulgò la convocazione dei comizi elettorali per l’elezione dei deputati che avrebbero dovuto stabilire in Palermo, «in Assemblea, le
condizioni dell’annessione».
Alle elezione avrebbero potuto partecipare ora
“tutti i cittadini” alfabetizzati e non esclusi dal titolo
di elettore, dai 21 anni in poi, come d’altronde aveva
proposto il decreto dittatoriale n 57 del 23 giugno,
con il quale si richiamarono ancora le stesse norme
della legge elettorale promulgata dal Governo siciliano del ’48 e caddero tutte quelle categorie del
censo che erano state ripristinate invece dal Borbone
dopo il maggio ’49. Nel decreto del 5 ottobre si premise che quei comizi avevano lo scopo di «stabilire
le condizioni di tempo e di modo, per entrare in seno
alla grande famiglia Italiana», e mentre l’art. 1 fissava le elezioni per il 21 ottobre, all’art. 14 si diceva:
«Un’altro prossimo decreto indicherà il giorno ed il
luogo in cui i deputati eletti si debbano riunire in
Assemblea, nella città di Palermo». Non appena infatti pervenne anche l’assenso definitivo del Dittatore che si trovava ad attendere sul Volturno l’avanzata dell’esercito piemontese, il 9 ottobre il governo
Mordini decretò addirittura che alla data fatidica del
4 novembre “L’Assemblea dei Rappresentanti del
Popolo Siciliano” avrebbe dovuto riunirsi in Palermo. Lo stesso Mordini, nella nota illustrativa del
precitato decreto-diretta ai Governatori dell’isola,
dopo aver affermato che “il suffragio universale diretto è la più irrecusabile consacrazione della volontà di un popolo”, volle mettere in risalto il motivo
per il quale il governo da lui presieduto aveva scelto
il ricorso all’Assemblea dei Rappresentanti e non il
suffragio diretto, abbandonandosi a queste candide
confessioni: “Nel ricevere dalle mani del Dittatore la
delegazione dei suoi poteri sull’Isola, io riconobbi la
esistenza di elementi di discordia alla superficie, non
al fondo della società siciliana”, per cui, convintosi
che “dalla massa emerge la classe che non ragiona
soltanto col cuore e che discute i problemi dell’avvenire con calcoli freddi e maturi”, il Governo da lui
presieduto aveva deciso per la convocazione dell’Assemblea, in quanto la stessa apriva “larghissimo
il campo alla classe intelligente e colta di svolgere,
in un terreno libero, indipendente, non soggetto a
coazione alcuna, i propri studi, le proprie vedute, i
concetti che ognuno crede meglio conducenti a consolidare il benessere generale”. E l’opinione pubblica, come rileva Mack Smith
in “Cavour e Garibaldi nel 1860”, “aveva
accolto con favore il suo progetto di Assemblea”, giacché a tutti pareva giusto che si discutessero le forme e i modi di quella non
invisa richiesta di adesione alla “grande famiglia Italiana”. Come però era da attendersi, Cavour reagì immediatamente anche perché aveva già respinto la stessa proposta fattagli al principio di luglio dal gruppo moderato autonomista guidato da Emerico Amari,
da Francesco Ferrara e dal conte Michele
Amari; e, deciso a scongiurare il pericolo
delle aumentate pressioni di Mazzini, Cattaneo, Conforti e Crispi su Garibaldi per la
convocazione delle Assemblee costituenti di
Sicilia e di Napoli, quando il 2 ottobre si
aprì a Torino la seconda e ultima sessione di
quella VII Legislatura, presentò alla Camera
Nino Bixio
un disegno di legge in cui si autorizzava il Governo
ad accettare per regi-decreti le “annessioni incondizionate da farsi con i plebisciti”. L’1l ottobre, la Camera approvò la proposta quasi ad unanimità e così,
il 16, il Senato e, a questo punto, il genio politico di
Garibaldi, partorì quel decreto di S. Angelo del 15
ottobre, nel quale addirittura sancì, sei giorni prima
della data già fissata in Sicilia per quegli altri ben diversi comizi elettorali, l’annessione sic et simpliciter
della Sicilia e del Napoletano al Regno di Vittorio
Emanuele Il. “Le Due Sicilie», dice l’unico articolo
del madornale decreto, «... fanno parte integrante
dell’Italia una ed indivisibile, con Re Costituzionale
Vittorio Emanuele e i suoi discendenti. I Pro-dittatori sono incaricati dell’esecuzione del presente decreto”.
E se questa non fosse la storia sulla quale è tessuto
il dramma della Sicilia dal 1860, saremmo tentati di
credere che ci si trova di fronte ad una pochade o a
un vaudeville. Ma non è ancor tutto, perché nello
stesso giorno, Torino indusse il suo eroe sudamericano ad annullare il decreto, spiegandogli forse discretamente che per salvare almeno la faccia di fronte all’Europa si sarebbe dovuto procedere all’annessione coi plebisciti e non con un decreto dittatoriale.
E così, i due pro-dittatori, Pallavicino a Napoli e
Mordini a Palermo, ricevettero dal loro capo politicamente esautorato la libertà di rimescolare ancora
le carte. Mordini, infatti, con un proclama dello stesso 15 ottobre, ritrattò la convocazione di quei comizi
indetti per eleggere i Rappresentanti dell’Assemblea
che avrebbe dovuto “stabilire le condizioni” della
Sicilia per entrare a far parte della “grande famiglia
Italiana”, e dopo avere puerilmente affermato che in
quel giorno “nuovi casi” avevano “cambiato le condizioni nel decreto”, pubblica in calce al buffo e
sconcertante proclama: “Art. 1° - I comizi elettorali
Inglesi a Marsala
3
convocati per il 21 ottobre, in luogo di procedere all’elezione dei deputati, dovranno votare per plebiscito sulla seguente proposizione: “Vogliamo l’Italia
una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale ed i suoi legittimi discendenti». Art. 2° - Il
voto sarà dato per bullettino stampato o scritto portante la scritta «Si» o «No»; ogni altro bullettino sarà reputato nullo... ”.
S’immagini, dunque, quanta confusione produssero questi reiterati contraccolpi sul già disorientato
spirito pubblico di un Popolo che contava ancora un
numero di analfabeti che toccava il 90%, e che raggiungeva il 100 % tra le popolazioni rurali e nei
quartieri più popolosi delle stesse città. Come osserva Mack Smith nell’opera citata, “fu proprio l’ignoranza generale, di fatto, che in Sicilia garantì a Cavour il voto popolare”. Le nuove modalità dettate da
Mordini per esprimere il “voto plebiscitario” erano
tra l’altro profondamente differenti dalle modalità
adottate l’11 e il 12 marzo del 1860 in Emilia e in
Toscana dai Governi provvisori annessionisti del
Farmi e del Ricasoli, i quali, sempre in adempimento alle istruzioni di Cavour, avevano chiamato gli
ex-sudditi di quegli ex-ducati assolutisti e senza storia a scegliere una di queste due proposte: “Annessione alla monarchia costituzionale del Re Vittorio
Emanuele Il” oppure “Regno separato”. Come invece abbiamo visto, per i siciliani la necessaria chiarezza di questa legittima alternativa non ebbe spazio.
Da parte di alcuni dei tanti giornali annessionisti che
fiorivano ormai in ogni Comune con i soldi della
Società Nazionale, in quei giorni si scrisse pure che
l’eliminazione dell’espressione “annessione alla monarchia di Vittorio Emanuele” dalla formula plebiscitaria proposta, sottintendeva già la considerazione
dei diritti particolari dei siciliani, e che dunque si
votava solo “per entrare a far parte di un nuovo Stato italiano e non per annettersi a uno Stato già esistente e in possesso di una costituzione già interamente redatta”. Questa grossolana menzogna dei
gazzettieri era, però, smentita dallo stesso testo della
formula plebiscitaria, ma di per sé illumina la preoccupazione del nuovo occupante e del suo mandante,
che ricorreva ad ogni mezzo per piegare al plebiscito
la “libera volontà” del Popolo. Torino, infatti, ben
sapeva che l’occupazione bellica, pur se si estende
alla maggior parte del territorio nemico, non può
spiegare da sé alcuna efficacia giuridica in ordine al
suo acquisto e rimane sempre un fatto puramente
militare che non può dar luogo a nessun mutamento
di sovranità. Era pertanto necessario che all’occupazione si aggiungesse un titolo giuridico tale da non
revocare il fondamento dell’intero processo acquisitivo della sovranità territoriale: un titolo il quale, facendo seguito alla conquista del territorio e alla debellatio del Regno di Napoli, avesse appunto come
effetto formale e sostanziale l’estinzione dello Stato
annesso e di tutti quei suoi diritti e doveri che ne
presuppongono l’indipendenza o sovranità.
Quel plebiscito di natura mista che la conquista
piemontese impose ai siciliani nella complessa situazione del 1860, altro non fu, come vedremo, se non
l’attuazione di un progetto accuratamente elaborato
per sanzionare l’annessione attraverso il metodo, in
principio ineccepibile, del ricorso al “suffragio universale”. Non vi era molto da aspettarsi; ma poiché
il 17 e nei giorni seguenti erano stati emanati anche
alcuni decreti che allargavano e rafforzavano le
piante organiche dei vari ministeri di quel governo
prodittatoriale, come confessò nel 1868 lo stesso exunitario pentito Paolo Gramignani nello scritto intitolato “I Regionisti”, «si accreditò e ribadì sempre di
più l’idea che si sarebbe stabilito e mantenuto in Sicilia un importante Governo locale”. Furono anzi
queste implicite pattuizioni, dice il Gramignani, a
spingere “fiduciosi e compatti i siciliani alla votazione del plebiscito”. Nei precedenti centocinquanta
giorni dall’invasione, ogni mossa politica, legislativa e amministrativa era stata peraltro finalizzata a
preparare il rito dell’adesione totalitaria alla
proposta di una formula che, come ha osservato di recente anche Sandro Attanasio in
“Gli occhiali di Cavour”, “non offriva alternativa… o Vittorio Emanuele e i suoi legittimi discendenti, oppure niente”. E a questo
scopo, capipopolo e propagandisti politici,
mafiosi di ogni calibro e piccoli burocrati
desiderosi di far carriera, indigenti e possidenti, arrivisti e mestatori d’ogni genere erano stati mobilitati con qualunque mezzo dai
Governi dei due pro-dittatori e dai loro organi provinciali e comunali. Erano stati distribuiti a iosa posti, prebende, incarichi e gradi
che, in verità, durarono in moltissimi casi fino all’indomani della celebrazione di quella
kermesse, ma risultarono oltremodo efficaci
ad alimentare tutte le illusioni e le allucinazioni di quel momento. A questo giuoco,
d’altro canto, si prestava mirabilmente l’odio covato per lungo tempo dal Popolo con-
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4
tro la dominazione del governo di Napoli, sicché la
sua strumentalizzazione contribuiva in maniera determinante a far dimenticare che la posta ora non era
il cambio dei cavalli governativi, ma il destino medesimo dello Stato di Sicilia, esistito nella sua più
sostanziale integrità dal 1131 al 1815 e risorto ancora nel 1848-49.
Uno storico come Mack Smith, a cui di certo non
si può rimproverare una qualche simpatia per i Siciliani e la loro causa, ma che non pecca di accuratezza e originalità di ricerche negli Archivi di Stato dell’Isola, in “Cavour e Garibaldi neI 1860” precisa:
“Se ci fosse stato qualche dubbio sul modo in cui il
popolo avrebbe votato, esso fu dissipato dall’annuncio fatto da Garibaldi, che le Due Sicilie formavano
già parte dell’Italia una e indivisibile e della sua proposta di cedere a Vittorio Emanuele il potere dittatoriale che la nazione gli aveva conferito”. Dopo di
che, riassume così i dati e i fatti più significativi di
quel 21 ottobre: “A Palermo, su una popolazione totale di un quarto di milione di abitanti, gli elettori registrati erano solo poco più di quarantamila e di essi
trentasettemila avrebbero poi effettivamente votato”.
Quella di “suffragio universale” era evidentemente
un’espressione arbitraria. Molti cittadini non si erano affatto iscritti nei registri, per “non avere niente
capito” - come scrisse il giornale palermitano Il Regno d’Italia del 17 ottobre - “dell’importanza del diritto di elettori... ; in
cinque mesi molti
hanno smarrito il
biglietto, molti non
l’hanno più perché
non sapevano cosa
farsene”. Il giorno
precedente la votazione, i registri dovettero essere aperti
di nuovo. Il decreto
originario del 21
giugno sulla procedura del voto, aveva
concesso ad ogni
località di regolarsi
in proposito come
volesse. Messina
chiese, ma invano,
altri dieci giorni di
preparazione; Siracusa non aveva
compilato affatto le
liste elettorali e un
proclama invitò il
popolo a firmare su
un registro aperto; a
Palermo grandi folle - come attesta tra
l’altro il giornale
palermitano L’Annessione del 21 ottobre - “dovettero
votare senza nessuna previa formalità”. Nella capitale
c’era un’enorme eccitazione per questo
nuovo genere di feste che precedettero
il grande giorno in
molte località, con illuminazioni notturne e strade come comunicò il viceconsole inglese Richard al
suo ambasciatore a Napoli Elliot in data 22 ottobre bellamente decorate con tappeti e bandiere sarde.
Il 21 era domenica e la votazione si tenne in generale nelle chiese, dopo la messa; il pro-dittatore con i
ministri, gli impiegati pubblici e l’arcivescovo votarono tutti nella cattedrale. Alla sera, molti non si erano ancora rammentati di votare, cosi il Consiglio comunale risolse che sarebbe stato legale lasciare la
votazione aperta anche tutto il giorno successivo.
Sarebbe facile dimostrare come, in molti casi particolari, il sistema usato non fosse il metodo per sincerarsi della volontà popolare. La votazione era pubblica, su un palco, con due urne aperte perché tutti
vedessero quale fosse la scelta e davanti a un semicerchio di agenti lafariniani travestiti, con facce scure e un’aria di mistero, seduti al centro della navata.
Fuori dalle grandi città, nelle zone dove i villaggi
erano ancora feudali e i proprietari terrieri si erano
convinti che l’unione con il Piemonte offriva le migliori speranze per la restaurazione dell’ordine, la
pubblicità che circondò la votazione significò un sì
quasi obbligatorio. In alcuni luoghi, per esempio a
Trapani - come è attestato da un telegramma dello
stesso governatore di Trapani a Mordini in data 30
ottobre - i contadini, nella loro ignoranza, fuggirono
in montagna, avendo l’impressione che il voto fosse
solo un trucco per intrappolarli e obbligarli al servizio militare. Il corrispondente del giornale “L’Unità
Italiana” di Palermo, in data 1 novembre descrive
Alcamo, dicendo che la loro esistenza mostrava la
libertà della votazione. Alcara Li Fusi ne ebbe ancora di più, 27 su 384; Caltabellotta, 47 su 500; ma furono casi eccezionali. Il numero più alto di voti contrari si ebbe nel distretto di Girgenti, con 70 no su
circa 2.500 sì.
Non si seppe mai quanti fossero gli aventi diritto
al voto su una popolazione di quasi 2.400.000 abitanti né quanti furono gli astenuti. Come osserva Attanasio, “Mancò poco che i voti favorevoli superassero il 100% dei votanti”. Il risultato del plebiscito
infatti, anche secondo quanto afferma Mack Smith
nella “Storia della Sicilia medievale e moderna”,
diede «una maggioranza favorevole del 99,5%».
È vero che non si hanno esempi di plebisciti contrari al regime che ne proponevano le risposte, ma è
vero altresì che non si hanno esempi di plebisciti in
cui, come in quello di Sicilia, su 432.720 votanti si
siano avuti 432.053 sì e soltanto 667 no.
Ma la radicale nullità dell’atto che i suoi promotori avrebbero voluto far passare agli occhi del mondo
come un limpido e solenne negozio di diritto pubblico internazionale, come un vero e proprio Atto o
Contratto di valore politico reale, venne subito colta
ed evidenziata sia da osservatori inglesi, come il
Mundy e il Clark, sia da tutti i consoli e i ministri
plenipotenziari accreditati ancora dai loro Governi a
Palermo e nella capitale del Regno di Napoli. E i testi di alcuni di quei
dispacci inviati alla
vigilia e all’indomani del 21 ottobre a
Londra e a Napoli
dal console Goodwin, che risiedeva a
Palermo e a cui faceva capo tutta la
rete consolare inglese di Licata, Messina, Catania, Marsala, come di quelli
inviati dal ministro
plenipotenziario Elliot al Segretario di
Stato agli Esteri
Lord Russell, come
il rapporto di quest’ultimo al ministero Whig presieduto
da Lord Palmerston,
sono eloquenti di
per se. Elliot scrisse
in quei giorni al capo del Foreign Office: “pur essendo
moltissimi i dissidenti, sono tutti forzati a votare per
l’annessione; ed infatti la formula del
voto e il modo di
raccoglierlo così disposti, assicurano la
gran maggioranza
possibile per l’annessione, ma non
Un disegno di Trevisan della Campagna Garibaldina di Sicilia
constatano il desiderio del Paese”. E
il 30 ottobre aggiunse
che «il voto era stato la farsa più ridicola che si poNon solo la compilazione delle liste era stata alteteva immaginare e non c’era stata nemmeno la prerata, ma in certi casi le schede elettorali erano messe
tesa di limitarlo a quelli che erano qualificati, poiché
in vendita al mercato nero. P. Grofani dà il prezzo di
gente di ogni paese e di ogni età e anche di ogni sesdue scudi per ogni scheda, in una lettera a Mordini,
so non hanno difficoltà nel far contare anche la loro
11 ottobre; il giornale “L’Assemblea” del 12 ottobre
opinione». Il ministro Russell precisò al Gabinetto:
dà il prezzo di 5 franchi per scheda. Il governatore
“I voti del suffragio universale in quei Regni non
di Catania e quello di Messina proibirono quella che
hanno alcun valore; sono mere formalità dopo un risecondo loro era la “stampa clandestina” degli “agivolgimento ed una ben riuscita invasione; né implitatori” autonomisti. A Catania, uno del partito delcano in sé l’esercizio della volontà della Nazione,
l’annessione si vantò di aver messo a tacere ogni
nel cui nome si sono dati... ”. Il perdurare del divieto
gruppo di opposizione nella sua provincia. Ancor
agli storici di visionare presso il Publjc Record Offipiù significative le parole del governatore di Girgence del Foreign Office tutte quelle notizie documenti, come risulta da un suo rapporto a Mordini in data
tali e di carattere diplomatico; il silenzio medesimo
29 ottobre. A Noto e a Modica, e forse anche altroche grava ancora sui rapporti inviati ai loro Governi
ve, i governatori usarono una forma veniale d’ingandagli altri consoli e diplomatici, dimostrano soltanto
no: avrebbero tralasciato di continuare la coscrizione
che i giudizi di tutti i rappresentanti dei Paesi a Pae sospeso le operazioni di leva fino alla conclusione
lermo e a Napoli furono negativi in proposito.
del voto. I votanti furono un po’ meno del quinto
In questo modo si concluse l’ultimo atto di un
della popolazione. Su un totale di 292 distretti [seggi
dramma che venne subito definito dal Popolo “lu
elettorali] in Sicilia, sembra che 238 non abbiano reschifiu di la Rivoluzioni”. Ma non fu tuttavia, come
gistrato nessun voto negativo. Non meno singolare
si può credere, l’insignificante plebiscito a rinviare
appare forse il fatto che solo per 18 distretti le autola soluzione del problema della libertà dei siciliani,
rità riferirono di qualche voto nullo o di qualche
bensì il riaccendersi, come dodici anni prima, del
scheda bianca. Altrettanto notevole, anche se più sivecchio contrasto franco-inglese per la supremazia
gnificativo, quanto riferiscono le relazioni da Patti,
nel Mediterraneo, dove l’Isola rappresenta la più imcioè che su 1.646 elettori, votarono tutti, e tutti per il
portante posizione strategica. Il risultato di quell’insì. A Palermo, su 40.000 registrati ci furono più di
trigo che l’infaticabile Cavour seppe tessere, è co4.000 astenuti e solo 20 voti negativi; Messina, su
munque inciso ad memoriam dei siciliani sulle lastre
24.000 votanti registrò solo 8 contrari. Il giornale
di marmo poste ad ornamento delle facciate di tanti
“La Forbice” di Palermo, il 23 ottobre mostrava di
vecchi e gloriosi Comuni dell’isola.
■
fare un gran conto dei 14 voti negativi sui 3.000 di
come, nel suo villaggio, il capo del municipio si alzò
anzitutto per spiegare il significato del sì e del no,
ma non ebbe in risposta che grida di “Non vogliamo
né Vittorio Emanuele, né Francesco, ma don Peppino”, (cioè Garibaldi); allora l’oratore, un pò perplesso, rispose che proprio in questo caso dovevano votare per il sì e la gente lo fece concorde. Un Governatore, quello di Mazara, aveva scritto l’8 ottobre al
Governo di fare molta attenzione a questa sorta di
problemi, e di rendersi conto che l’analfabetismo
completo di quasi tutti gli abitanti rendeva impossibile un voto segreto; ma ebbe dal Governo, in data
11 ottobre, questa risposta che non gli recò certo
molto aiuto: “Se l’elettore analfabeta è sottoposto all’arbitrio dello scriba, il difetto sta nel fatto, non nella legge”. I moderati si sentivano sicuri che, con la
Guardia Nazionale che faceva il suo dovere, con una
votazione pubblica, con la direttiva personale di Garibaldi e con alla presidenza [dei seggi] magistrati
che avevano tutti giurato fedeltà a Vittorio Emanuele, non vi potessero esser dubbi sul risultato del plebiscito. Era però necessario unire disciplina ed entusiasmo; per questo la Guardia Nazionale fu obbligata a votare - come risulta dal rapporto del comandante della Guardia Nazionale di Milazzo al suo
ispettore generale a Palermo, in data 22 ottobre - “in
corpore” e in uniforme per dare l’esempio di un voto
solido con bandiere e cartelli per il Sì.
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6
L
a sera del 23 ottobre del 1958 a Sala d'Ercole
(la sala del Parlamento siciliano) si tiene una
delle sedute più drammatiche della storia politica isolana. Dopo due anni di crisi, caduto il governo
La Loggia, la Democrazia cristiana cerca di attuare un
governo tripartito (con i liberali ed i socialdemocratici)
proponendo, alla presidenza la candidatura dell'on. Lo
Giudice, a maggioranza. L'Assemblea non tiene m alcun conto le decisioni prese dopo lunghi compromessi,
ed elegge Silvio Milazzo. Ottantanove sono i votanti:
Silvio Milazzo ottiene cinquantaquattro voti e Lo Giudice ventisette. Solo sette le schede bianche. E'-appena
finita la lettura dei risultati, che l'opposizione esulta al
grido “Viva Milazzo”, “viva l'Autonomia”, “Viva la
Sicilia”. Democristiani, liberali e socialdemocratici
tacciono, si guardano in faccia cercando i “franchi tiratori”, i dissidenti. E nove sono i dissidenti democristiani che non hanno obbedito agli ordini di scuderia: senza quei nove l'operazione Milazzo non avrebbe potuto
avere alcun successo.
A favore del parlamentare dissidente dc hanno votato comunisti e missini. L'on. Michele Russo, capogruppo del partito socialista, tiene a dichiarare: “Il voto di questa sera è anzitutto una vittoria del Parlamento
siciliano contro le intimidazioni e le coercizioni esterne. L'Autonomia non può essere strumento di forze incapaci di espressioni veramente democratiche
e parlamentari. La Dc esce da questa esperienza con le ossa rotte perché il candidato del
partito, imposto pesantemente da Roma, non
ha riportato in aula tutti i voti del suo gruppo”.
E la verità dell'elezione di Silvio Milazzo
sta proprio nella frase del socialista Russo: la
Democrazia cristiana in Sicilia si è spaccata.
Ovviamente anche i comunisti, sono nell'occhio del ciclone, e viene difficile a loro spiegare una alleanza con i fascisti.
Silvio Milazzo, primo ribelle della Democrazia cristiana, si trova, con una espressione
entrata in voga, a “cavalcare la tigre”. Il neopresidente - è bene, ricordarlo - era stato già
sospeso dal gruppo democristiano, con sanzione disciplinare, poiché, alla caduta del governo La Loggia, non aveva voluto seguire le
indicazioni del suo partito, rispettando invece
la volontà dell'Assemblea regionale. Milazzo,
era assessore all'Agricoltura, ed era stato l'unico a dimettersi dalla Giunta. Una volta eletto, comunque, Milazzo ha febbrili incontri a
Roma per chiarire le sue posizioni. Fanfani è
in escandescenze: inconcepibile, per lui, che
un democristiano fosse eletto presidente con i
voti determinanti del partito comunista. Milazzo, secondo Fanfani, non è degno di rappresentare la Democrazia cristiana: deve dimettersi dal partito!
Di questa opinione non è Mario Scelba: da
quell'uomo politico che è comprende che la
situazione può essere tenuta sotto controllo, e
considera i voti comunisti non condizionanti.
A questo punto, molti sono i tentativi per fare
abbandonare la carica al neopresidente: si tenta di imporre Giuseppe Alessi, qualora Milazzo si fosse mostrato disposto a collaborare.
Ma anche Alessi è un uomo politico di buona
levatura: vede la trappola, e non accetta una
soluzione imposta dall'alto. Il progetto, quindi, resta solo nelle intenzioni. La stampa, nazionale e locale, si accanisce, cercando di evidenziare i rischi che si possono correre con i
comunisti al governo.
Guardati a distanza di decenni, questi episodi sembrano precorrere i tempi: è quel che sta
accadendo oggi, per certi versi, a livello di
politica nazicnale.
Ancora una volta Silvio Mílazzo - convocato presso
la direzione della Dc a Roma - riceve un invito formale a dimettersi. Ed ancora una volta risponde picche:
non può deludere chi lo ha eletto mostrando e dimostrandogli fiducia incondizionata. Interviene anche
Scelba e Don Sturzo, ma i tentativi falliscono. Scelba
cerca di aggirare l'ostacolo, e si muove per convincere
Fanfani (con la buona parola dell'on. Rumor) ad accettare la situazione. Inutilmente: Fanfani non può desistere dalla sua decisione poiché è stato già avvertito,
nel caso facesse marcia indietro, che l'on. Nino Gullatti non avrebbe potuto garantire la compattezza del
gruppo Dc all'atto della formazione della nuova Giunta
di governo. E' una situazione che appare priva di sbocchi. L'unico atteggiamento possibile che la Dc avrebbe
potuto tenere è quello di continuare a chiedere le dimissioni, e qualora queste non venissero date, di espellere Milazzo dal partito. Insomma, si vuole la testa del
dissidente per sanare le molte beghe interne dei dirigenti politici siciliani. L'ultima strada che la Dc segue:
Milazzo viene espulso dal partito, e in questa occasione sono in molti a tirare fuori i precedenti del nuovo
presidente della Regione.
Milazzo viene accusato di ideologia separatista, -e il
giornale democristiano Il Popolo lo grida a tutto spia-
no, facendo presente come gia in due occasioni, nel
1943 e nel 1953, fosse stato espulso dal partito per le
sue prese di posizioni considerate anticostituzionali.
Silvio Milazzo, dopo le calde giornate romane, rientra a Palermo i130 ottobre e forma un governo di “unità siciliana”.
Ma ecco come lo stesso Milazzo rievocherà anni dopo, quella fase cruciale della vita politica siciliana:
“Cade La Loggia. E' il 23 ottobre 1958. In Assemblea
si ha la reazione contro tutto il complesso delle cose
andate male e contro quelle non andate secondo i corretti binari politici. Il candidato della Dc è Barbaro Lo
Giudice, ma l'Assemblea mi vota come aveva fatto tre
anni prima. E' in questo frangente che mi alzo, e annuncio le teorie che ho detto e che mi propongo di applicare. Ma sorgono gravissimi problemi, all’Assemblea siciliana il rituale per il rinnovo del governo è
questo: per prima cosa l’assemblea vota il presidente.
Poi gli otto assessori. In questo modo il governo non
se lo compone il presidente, come a Roma, ma viene a
essere composto per votazione diretta assembleare.
Che cosa fare? Non era facile. Dal direttivo del gruppo
Dc era stato disposto che alla presidenza dovesse andare Barbaro Lo Giudice. La candidatura era stata una
mediazione tra Roma e Palermo. Rumor aveva però risposto che il presidente doveva essere Lo Giudice. An-
Silvio Milazzo col suo fedele sigaro
diamo in assemblea e l'Assemblea dà questo responso:
17 democristiani e 10 alleati per Lo Giudice; 16 democristiani e 28 socialisti, comunisti, fascisti e monarchici per Milazzo. Eletto con i voti dei comunisti, dei fascisti, dei socialisti e dei monarchici resto solo. E mi si
pone il dilemma: Milazzo accetti o non accetti? Dico:
Accetto con riserva in attesa della votazione di coloro
che dovranno essere miei collaboratori, gli assessori.
In quegli anni, dunque, la vita pubblica siciliana attraversa la sua fase più acuta e complessa, tanto da
balzare prepotentemente all'attenzione nazionale. E l'Italia conierà un nuovo vocabolo: il “milazzismo”. E'
una pagina della storia della Regione abbastanza controversa a tutt'oggi, nonostante appunto che siano trascorsi quasi cinquant'anni da quei momenti cruciali.
Purtroppo i protagonisti di quelle vicende politiche sono scomparsi. Forse per capirne qualcosa bisognerebbe andare ancora più indietro nel tempo, ed analizzare
la nascita e lo sviluppo, e le mancate attuazioni dello
Statuto della Regione siciliana che, come è noto, fa
parte integrante della Carta costìtuzionale.
Forse sarebbe opportuno anche vedere il come e il
perché la Sicilia, che possedeva tutti i mezzi statutari
per farlo, rimase, ed è rimasta, inerte al progresso industriale che, puntualmente, si è avuto in altre regioni.
Ma tutto ciò è materia di un saggio storico, non di articoli che ne rievochino i momenti drammatici che travagliarono l'isola, a causa delle continue, faziose, lotte
dei dirigenti i partiti politici del cosiddetto arco che
costituzionale.
C'era evidentemente, chi non voleva, preso chissà da
quali paure o interessi, il rilancio economico e industriale della Sicilia, come se questa terra fosse avulsa
da tutto il contesto nazionale.
C'è chi all'operazione Milazzo ha fornito le interpretazioni più oscure, nel tentativo solo di farle apparire,
invece, chiare. Secondo alcuni, attraverso Milazzo il
partito comunista stava cercando di impadronirsi del
potere in Sicilia, mentre per gli altri tutto il marchingegno che portò alla presidenza della Regione Silvio Milazzo, non era altro che la manovra dell'Eni, che cercava di ottenere una situazione di privilegio per quanto
concerneva la ricerca e la concessione dello sfruttamento di metano e petrolio.
C'era infine chi sosteneva che dietro a Milazzo fossero Scelba e Don Sturzo, che volevano raggiungere
determinate posizioni di potere a danno della corrente
fanfaniana.
Un guazzabuglio nel quale era, ed è difficile trovare
una linea di raccordo per comprendere in pieno il susseguirsi degli avvenimenti. Cerchiamo, dunque, di
procedere con ordine nella esposizione dei
fatti.
Il pomeriggio del 3 aprile 1958 viene costituita la SoFiS (Società Finanziaria Siciliana),
con partecipazione maggioritaria della Regione (51 per cento delle azioni), di enti pubblici
e di operatori privati. Questa società avrebbe
dovuto avere come finalità precisa l'attuazione
di una legge (quella per l'impiego dei 75 miliardi del Fondo di solidarietà) che avrebbe
dovuto aprire alla Sicilia un avvenire che, fino
a quel momento, non aveva avuto. II primo
inghippo, nella cronologia di quella fase politica, si ha con l'esclusione dal Consiglio di
amministrazione del presidente, ing. Domenico La Cavera. Inghippo voluto da Don Sturzo,
il quale riteneva La Cavera troppo legato all'Eni. Presidente della SoFiS veniva nominato
l'ing. Ignazio Capuano, nonostante il parere
contrario di Giuseppe La Loggia, presidente
della Regione. La Loggia aveva dato per
scontata la nomina di La Cavera, anche se era
risaputo che Carlo Pesenti non avrebbe mai
tollerato ciò. E dicendo Pesenti si intendeva la
Confindustria. La Cavera, per meglio comprendere, aveva sostenuto sempre la necessità
della presenza delle aziende pubbliche in Sicilia, chiedendo che l'isola potesse usufruire del
piano di finanziamento Iri ed Eni.
Gli oppositori sostenendo che La Cavera,
tutto sommato, facesse il gioco dei comunisti,
prendono lo spunto da una situazione contingente per mettere in crisi il governo La Loggia. Ipotesi avvalorata da quanto andava accadendo per le continue difficoltà nelle quali doveva barcamenarsi (per restare in piena efficienza) Giuseppe' La Loggia. Come a significare che la questione della. SoFiS era soltanto
un fatto pretestuoso dietro al quale si nascondevano episodi politici più complessi. Insomma era una battaglia tra: Scelba, Don sturzo e
Fanfani. Una battaglia per la conquista di una
egemonia, per mezzo della quale si sarebbe in un modo o in un altro - indirizzato il futuro
della Sicilia. Manco a dirlo, il partito comunista di questa situazione ne seguiva passo passo l'evoluzione, aspettando il momento propizio per entrare in scena in maniera incontrovertibile e pesante, tanto da poter dettar legge.
E' un susseguirsi di giornate convulse, e non
solo perché fra tanto tergiversare, nel frattempo si è
giunti al mese di giugno. Si parla, ormai apertamente,
di crisi di governo, e, da più parti, si sollecitano le dimissioni di Giuseppe La Loggia. La stampa, regionale
e nazionale, non lesina attacchi, in previsione del dibattito (che si avrà in luglio) e della votazione della
legge di bilancio: un'occasione sicuramente strumentalizzabile per discutere il problema della politica economica. Nel quale problema grande attenzione avrebbe
assorbito la questione della SoFis, e la programmazione del Piano quinquennale. Alla vigilia delle votazioni,
socialisti e comunisti si presentano contro il governo,
così come i liberali, mentre i missini costituiscono un
grosso punto interrogativo. In seno alla Democrazia
cristiana le posizioni appaiono contrastanti, ma le forze all'opposizione sono chiaramente in vantaggio. Per
tutto la giornata del 2 agosto si susseguono, alla Regione, i dibattiti, fin quando, in nottata il governo viene battuto sul bilancio. Su ottanta votanti si hanno sette astenuti (i missini), ventidue contrari e cinquantuno
a favore, venti sono comunisti: il governo, in pratica,
ha ottenuto solo trentuno voti! Non raggiunge la maggioranza. La Loggia rifiuta di dimettersi.
Spiegherà il presidente della Regione che l'articolo
94 della Costituzione sancisce che il rigetto di una pro-
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Silvio Milazzo pronuncia il discorso programmatico subito dopo essere stato eletto Presidente della Regione
posta governativa non implica revoca della fiducia,
cioè che non sussisteva l'obbligo delle dimissioni.
La situazione si protrae, con alti e bassi, sino al 3 ottobre (c'è da chiedersi perché le sedute più importanti
si protraggono sino a notte alta, o alle prime luci dell'alba) Giuseppe La Loggia consegna al presidente dell'Assemblea regionale. Giuseppe Alessi, la sua lettera
di dimissione. A Sala d'Ercole sono in molti a trarre un
sospiro di sollievo: la questione è durata a lungo, ma
finalmente si è risolta. A vantaggio di chi? Di una
maggioranza, di una opposizione, oppure della Sicilia
stessa? Forse i veri interessi della Sicilia e dei siciliani
in tutta questa storia non c'entravano per nulla.
Si tenta il monocolore, e i nomi che si fanno per la
presidenza sono quelli di Stagno d'Alcontres, Lo Giudice, Lanza e Milazzo. Ma la formula del monocolore
risulta inaccettabile, in quanto troppo debole gli attacchi che sicuramente si sarebbero avuti da lì a poco. Si
ritorna a fare il nome di La Loggia, su indicazione di
Rubino (segretario provinciale) della Dc di Agrigento).
Per una formula tripartita (Dc, Pli, Psdi) acquista maggiore quotazione la candidatura di Lo Giudice, designata il 16 ottobre. La candidatura dell'on. Lo Giudice
viene ripresentata il 23 ottobre a maggioranza.
Ed è proprio questa giornata, il 23 ottobre, che vede
aprirsi il “caso Milazzo”: l'Assemblea regionale scavalca la designazione della Democrazia cristiana ed
elegge presidente Silvio Milazzo, con cinquantaquattro voti su 89 votanti. Lo Giudice ottiene solamente
ventisette voti!
Cosa si è verificato è presto detto. La maggioranza
tripartita doveva essere costituita da 46 voti: 37 democristiani, 7 liberali, due socialdemocratici. Per Milazzo
hanno votato invece, comunisti, socialisti, missini, oltre nove democristiani dissidenti. Milazzo accetta la
carica con riserva che la scioglierà dopo qualche giorno: la Democrazia cristiana si è letteralmente spaccata
attestandosi su posizioni divergenti.
II 25 novembre del 1958 Silvio Milazzo, presidente
della Regione, pronuncia a Sala d'Ercole il discorso
programmatico del suo governo: i punti principali indicano chiaramente quale linea si vuole portare avanti.
Quella esclusivamente autonomistica. Il succo delle
parole del neopresidente sono: abbiamo delle buone
leggi (lo Statuto autonomistico), pensiamo ad applicarle nella maniera più giusta, e la Sicilia avrà la possibilità, tante volte negata, di svilupparsi sul piano economico ed industriale.
Belle e sincere parole, ma - come suol dirsi - tra il
dire e il fare c'è di mezzo il mare. Certo non manca la
buona volontà a Milazzo, ma i problemi materiali che
gli si pongono davanti sin dall'inizio del suo insediamento, si presentano complessi, se non insormontabili.
Nasce, allora, un nuovo partito: l'Uscs (l'Unione Siciliana Cristiano-Sociale), presidente lo stesso Milazzo, segretario politico Francesco Pignatone (ex parlamentare Dc). Sono in molti a ritenere che questa nuo-
va compagine politica sia nata, e cresciuta, servendosi
di consistenti aiuti finanziari dell'Eni. Ipotesi avvalorata dal fatto che, con il nuovo governo regionale, l'Eni
ci naviga bene, ottenendo delle grosse agevolazioni.
L'Ente di Stato, infatti, viene esentato dal pagamento
di circa metà delle royalties petrolifere, ed anche se la
circostanza viene considerata lievemente scandalosa si
guarda al futuro ed a tutto ciò che l'Eni potrà rappresentare per la Sicilia. A seguito di questi accordi l'Ente
di Stato amplia i progetti di insediamento industriale a
Gela, e l'Anic-Gela nasce e si allarga con sostanziosi
finanziamenti della SoFiS, che ne diviene una delle
principali azioniste.
Appena due mesi dopo la creazione dell'Uscs si ha la
prima scadenza elettorale cui va incontro Milazzo e la
sua Giunta: il 7 giugno del 1959 i siciliani sono chiamati alle urne. La Democrazia cristiana prevede un calo dovuto alla nascita del nuovo partito cattolico. Previsioni che, a livello di voti, risulteranno errate: la Dc
cresce, passando da 897.397 voti delle elezioni precedenti, a 937.734. Il gioco dei resti le è contrario e perde tre seggi.
Anche il partito comunista avanza: da 482.793 supera il mezzo milione di suffragi (533.148 voti). Il crollo
avviene a destra, invece, dove il Msi dai 222.429 voti
cala a 187.788. Il partito di Milazzo ottiene un successo neppure lontanamente sperato: 257.023 voti, e nove
seggi in Parlamento.
L'Uscs ha ottenuto il dieci e sei per cento di tutti i
votanti. Milazzo viene accusato sempre più di tirare a
sinistra: il voto del Pci alla sua elezione è risultato essere non strumentale, ma sostanziale. Don Sturzo tuona contro il suo figlioccio, definendolo “strumento incosciente nelle mani della sinistra e degli uomini che
lo avevano circuito”. Ne nasce un'aspra polemica, i
due cattolici si scontrano sul piano dei comunicati
stampa, e corsivi giornalistici. Milazzo rilascia una dichiarazione all'Ansa: “Don Sturzo manca da trentanove anni dalla Sicilia, e in trentanove anni molte cose
che sono cambiate, possono sfuggire al suo attento
acume. A Don Sturzo consento di dire tutto, ma debbo
precisare che io mi sento strumento nelle mani del popolo siciliano”. I rapporti diventano estremamente incandescenti dopo che si apprendono i risultati elettorali. La Democrazia cristiana fa gioco pesante ed invita
gli elettori dell'Uscs a rientrare nelle file, incitandoli a
lottare Milazzo.
Dopo poco più di un mese l'Assemblea Regionale
esprime, ancora una volta, il suo parere favorevole al
governo Milazzo: all'apposizione sempre Dc, socialdemocratici e liberali.
E' il 21 luglio del 1959: hanno inizio le trattative per
la formazione della nuova Giunta. La Dc cerca di aggirare l'ostacolo avvicinandosi ai fascisti, ed invitandoli a togliere il loro appoggio a Milazzo: si lancia la
proposta della creazione di un governo di coalizione
anticomunista, e poiché Milazzo è inamovibile, ci si
mostra disposti a lasciarlo alla Presidenza. Il problema
dei dissidi interni si risolve in una questione di merito:
la maggioranza all'interno della Dc va allargata, oppure semplicemente mutata? A cosa mira, in realtà, la
Democrazia cristiana? A formare un governo di centro-destra? Ma come avrebbe reagito la forte base antifascista del partito? Lo stesso on. Giuseppe Alessi dichiara pubblicamente che è controproducente per la
Dc schierarsi contro il partito di Milazzo, lanciando al
leader dell'Uscs un invito indiretto.
“Milazzo è al bivio - sottolineerà Alessi -. Deve scegliere fra il successo personale ed il successo politico.
Fra lo stravincere ed il vincere facendo l'interesse della
Sicilia. A cosa gioverebbe sul piano programmatico?”.
Ed anche a Roma, a questo punto, ci si accorge che la
parola è a Milazzo, ma il presidente della Regione fa
orecchio da mercante, attendendo che gli eventi possano maturare ulteriormente.
Con questa situazione fluida si giunge alla formazione del secondo governo presieduto dal ribelle democristiano. Le previsioni vengono rispettate: Milazzo la
spunta e forma la Giunta secondo il suo criterio. Ne
fanno parte Ludovico Corrao (Uscs), Gioacchino Germanà (Uscs), Romano Battaglia (Uscs), Mario Crescimanno (indipendente, ex Msi), Sergio Marullo (indipendente, ex monarchico), Ernesto Pivetti (indipendente, ex monarchico), Benedetto Maiorana della Nicchiara. La frattura all'interno della Democrazia cristiana siciliana si allarga, l'accordo tentato con l'Uscs non
avviene.
Per Milazzo si presenta una gestione difficile del potere, che lo porterà a scelte sempre più pericolose. Il
braccio di ferro continua con momenti di enorme esasperazione: la Sicilia è nell'occhio del ciclone e presa
di mira dagli strali dei quotidiani nazionali.
La pressione che la DC effettua sul piano individuale è pesante, e si cercano i franchi tiratori che possano
pugnalare alle spalle Milazzo, senza che lui stesso ne
abbia alcun sentore. Lo scoglio è sempre il voto sul bilancio: la maggioranza di cartello di Milazzo prevede
46 voti, ma due franchi tiratori mostrano la corda.
Si verifica la identica situazione che aveva portato
alla crisi del governo La Loggia. Ulteriori trattative romane: il presidente Uscocco propone un allargamento
della maggioranza su una base che vedesse al centro il
suo partito, a sinistra il partito socialista ed a destra la
Dc. Ma mentre sono in corso tali trattative, i due franchi tiratori, vengono recuperati, e tutto va a monte. La
crisi continua con fasi alterne: tutto può esplodere da
un momento all'altro. Chi vincerà il braccio di ferro?
Quel che accade in Sicilia appare veramente paradossale: non s'è mai verificato in nessuna parte del mondo! Nonostante che gli incontri nella Capitale si susseguissero a ritmo vertiginoso (senza apparenti risultati),
a Sala d'Ercole Milazzo supera la crisi, ottenendo 50
voti, quattro m più della maggioranza di cartello. Ci
sono malumori anche all'interno deli'Uscs, subito chia-
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me i tre governi presieduti da Milazzo, tutto sommato,
non hanno portato alla Regione quei benefici tanto
ventilati e vantati. Ed è questa la buccia di banana sulla quale scivola il ribelle Milazzo: la dimostrazione
che l'industrializzazione dell'isola come preventivata
non era avvenuta.
Inoltre (sempre a livello di discredito) si appunta all'Uscs di reggersi con finanziamenti derivati da corruzione politica e da privilegi derivati da compromessi
vari. Si parla di corruzione di uomini politici, ed il
fianco lo mostra (ma la veridicità di tutto ciò non è mai
stata provata) l'on. Ludovico Corrao accusato di avere
offerto cento milioni all'on. Carmelo Santalco, per passare dalle file della DC a quelle dell'Uscs. Questo
scandalo lascerà molti lati oscuri. Ricostruiamo brevemente la dinamica.
E' il 15 febbraio del 1960. L'incontro tra Corrao e
Santalco avviene nel noto albergo "Delle Palme" a Palermo. Corrao (alter ego di Milazzo) tenta con ogni sistema (secondo le accuse) di ottenere l'adesione di
Santalco. Le trattative sono lunghe: vale, comunque,
l'ultima offerta. Quella dei cento milioni. Saltalco chiede tempo per la sua decisione. Evidentemente è tutta
una trappola. Saltalco lasciato Corrao, si sposta a Sala
d'Ercole, dove stanno per iniziare i lavori dell'Assemblea. Chiede la parola, ed ottenuta, sale alla tribuna.
Con fare concitato spiega all'assemblea che è stato oggetto di un tentativo di corruzione, e che può fornire le
prove di quanto asseriva. Corrao (che lo aveva seguito)
interviene subito dopo chiedendo che fosse istituita
riti. La nuova rielezione di Silvio Milazzo provoca il
totale irrigidimento della Dc, anche perché la potenza del leader ribelle sembra accrescersi quando c'è la
votazione per la Giunta di governo, che viene eletta
addirittura con 52 voti. E' un pasticciaccio.
Il 1959 si chiude con la chiara vittoria dei dissidenti: una vittoria soltanto apparente, come i fatti
che accadranno da lì a qualche mese, dimostreranno
ampiamente. Polemiche su polemiche, speranze che
si aprono per poi creare delusioni. Molti sostengono
che per la Sicilia stia per aprirsi un'era "nuova" a seguito dell'awenuta industrializzazione.
La SoFiS allarga il capitale azionario per l'AnicGela. La Cavera così si esprime: “Uno dei più grandi
colossi industriali mette le sue profonde radici nell'isola. Oggi, a molti, appariranno chiari i motivi della
mia battaglia, i motivi della mia polemica. Quello
che sorge a Gela, non si fermerà a Gela. Intorno a
Gela sorgeranno molteplici industrie”. Peccato che
queste previsioni poi siano state mortificate dal mancato sviluppo industriale della Sicilia.
Anche Milazzo insiste sulle posizioni di La Cavera: “L'intervento dell'Eni non è soltanto un atto economico di grande rilievo per lo sviluppo industriale
della Sicilia. E' il riconoscimento, insistentemente da
noi invocato, del carattere di doveroso impegno cui
dovrebbe essere sempre improntata l'azione degli
enti economici dello Stato nell'ambito della Regione”.
Sono i giorni del vino e delle rose: delle facili
ubriacature e delle speranze che il tempo distruggerà. La Sicilia è stata sempre terra di conquista, e tale
resterà. Tutte le promesse svaniscono, come quelle che
prevedevano l'intervento dell'Iri per la costruzione di
un centro siderurgico nel Palermitano. Progetti che restano sulla carta: le battaglie economiche che la Sicilia
conduce in questi mesi sono perdute in partenza, anche
se i promotori sono in perfetta buona fede, ed operano
per il benessere della loro terra. Anche se tutto doveva
essere dimostrato. Le intenzioni sicuramente erano
buone, ma le lotte intestine della classe dirigente, assetata di potere, hanno il solo risultato di consentire agli
altri facili speculazioni, basate su uno stato di necessità. La verità era anche che mancavano le strutture sulle
quali potere edificare il castello di illusione di quanti
(come detto in buona fede) si sforzano di dare un serio
impulso alle attività industriali. La teorizzazione è un
conto, l'atto pratico è tutt'altro.
Ai primi del 1960 la parabola di Silvio Milazzo, del
suo governo, è già in fase discendente: il leone non è
addomesticato, ma incomincia a morire sotto gli attacchi del domatore. La guerra ad oltranza dichiarata dalla Dc alla sua pecora nera non poteva, chiaramente,
avere altro sbocco.
Il segretario della Democrazia cristiana, on. Giuseppe D'Angelo non può darla vinta al nuovo partito cattolico, l'Unione Siciliana Cristiano Sociale, che potrebbe costituire una alternativa alla Dc. Un pericolo da
eliminare, ed i mezzi per farlo sono tutti validi.
La prima manovra (già collaudata in altre circostanze) è il discredito: l'Uscs è uno strumento nelle mani
del partito comunista. In secondo luogo si dimostra co-
Silvio Milazzo nella sua abitazione nel 1980
ricorda gli anni della lotta politica
alla Regione Siciliana
una commissione d'inchiesta per accettare la veridicità delle accuse mossegli.
La Commissione d'inchiesta verrà costituita, ma il
governo Milazzo è costretto a dimettersi a seguito
dello scandalo e non avrà più la forza di risalire la
china.
Molte ipotesi sono state avanzate sulla natura e sulla dinamica dello scandalo che portò alla fine del milazzismo. C'è chi ha sostenuto che l'Eni, cioè Mattei,
abbia avuto un ruolo determinante nel portare avanti,
e poi distruggere, Milazzo. Si verrà anche a sapere
che l’incontro segretissimo tra Corrao e Santalco all'hotel Delle Palme, fu seguito, passo passo, dai servizi segreti di controspionaggio (il Sifar), che avevano
fornito per la particolare circostanza l'assistenza tecnica.
La Commissione d'inchiesta regionale (diretta dall'on. comunista Antonino Varvaro) rese pubblici i risultati delle indagini dopo due mesi di lavoro: non
escludeva che Corrao fosse caduto in un tranello, come non escludeva che un qualche tipo di trattativa, in
realtà, si fosse avuta.
La Democrazia cristiana, quali che fossero stati i
mezzi adottati, vince dunque il braccio di ferro con
l'Uscs. E non poteva essere altrimenti nell'alternarsi
di una classe dirigente che poneva come fine ultimo la
leader ship politica.
Quel che è avvenuto in Sicilia, insomma, è da rivedere alla distanza di quasi mezzo secolo nelle linee
della stessa politica nazionale: il gioco dei compromessi (stonci e non storici), e alleanze momentanee e
fittizie, gli interessi industriali finalizzati, eccetera, eccetera.
Qualcuno si chiese, allora perché Benedetto Majorana della Nicchiara abbandonò Milazzo. La risposta la
fornirono i fatti: la presidenza della Regione costituisce un motivo valido per qualsiasi tipo di cambiamento umano e politico.
Come reagiscono i comunisti alla caduta di Milazzo?
Lo si saprà in termini ufficiali quattro mesi dopo, il 3
giugno allorché si tiene a Palermo il VI Congresso regionale del Pci. L'on. Emanuele Macaluso prenderà le
difese dell'ex presidente, dichiarando anche: “La Sicilia ha un nucleo di forze dirigenti capaci di farla procedere sulle difficili vie della resurrezione sociale ed
economica. Se non sono oggi alla direzione politica
della Regione è perché ancora prevale la discriminazione non solo contro partiti dei lavoratori, ma anche
contro gli stati più vivi della borghesia siciliana”.
Quale è stata l'opinione del protagonista in merito alle vicende da lui vissute? Milazzo così si è espresso
sulla fine dei suoi governi: “Ammazzai io il milazzismo, per vivere. Per continuare a vivere fisicamente. Il
milazzismo dura un'anno e mezzo di logorìo. L'azotemia mi arriva a un livello massimo: 3,75. Le mie forze
non reggono. Tengo presente che non ci fu console,
non ci fu ambasciatore che non mi volle conoscere.
Corrao, Ludovico Corrao, quello che venne indicato
come il mio delfino, tentò di convincermi di andare
in Russia. Non ci andai. Ci andò lui col solito carrettino, siciliano per Kruscev. E Kruscev gli disse: E
Milazzo perché non è venuto?". Dunque, il milazzismo finì perché non ne potevo più fisicamente. Ma
cessò anche di vivere a causa di un complotto. Il colpo finale contro il milazzismo venne, dalla cosiddetta beffa delle Palme. La cosa fu ordinata da un uomo
della Dc che poi si guadagnò un posto di senatore
con la complicità involontaria, anzi con la stupidità,
di quello che veniva chiamato il mio delfino, Ludovico Corrao, il forsennato che era andato a trovare
Kruscev e che mi voleva portare in giro per il mondo
dove, mi diceva, la gente voleva veder l'autore di
questo importante fenomeno. Scoppia lo scandalo.
La commissione incaricata dell'inchiesta accerta che
io non c'entro. Ma la tensione è tale che io non ce la
faccio ad andare avanti. Allora vado in assemblea,
mi alzo a parlare, e dico: Signori io me ne vado. E
siccome non trovo le giuste parole italiano, ve lo dico in latino non istantem; subito, istantium più subito. Ancora: instantissime; subitissimo. Non ne posso
più. E me ne vado".
Così si concludeva la magnifica avventura di Silvio Milazzo, durata appena un anno e mezzo. Se fosse durata di più? Chissà, forse, non si può dire...
La Sicilia sta sempre qui, ad attendere che le cose
cambino.
10
L
’aeroporto di Catania Fontanarossa “Filippo Eredia”è stato al centro di fatti misteriosi in più circostanze, il’episodio più inquietante quello che riguarda la fine del presidente dell’Eni, Enrico Mattei. È da Catania, infatti, che decolla l’aereo con a bordo l’uomo politico e “imprenditore”dello Stato più discusso e più temuto
del dopoguerra.
Bascapè, in provincia di Pavia, a dodici chilometri dall’aeroporto di Milano-Linate, 27 ottobre
1962: è sabato e nella pianura cade insistente la
pioggia. Poco prima delle ore 19 un contadino
(Mario Ronchi, 41 anni) cena all’interno del suo
cascinale di Londriano quando sente un “rumore
fortissimo”. Si affaccia a guardare fuori: «Ci sono
rimasto con una paura tremenda. Il cielo era rosso
e bruciava come un grande falò, e le fiammelle
scendevano tutt’intorno. Sulle prime ho pensato
ad un incendio, poi ho capito che doveva trattarsi
di un aeroplano. Si era incendiato e i pezzi stavano cadendo sui prati, sotto l’acqua…».
Ciò che aveva visto il contadino è stata la conseguenza di una esplosione, quella di un aereo: il
“Morane Saulnier”, sigla “I Snap”dell’Eni con a
bordo il presidente dell’ente Enrico Mattei, il pilota Irnerio Bertuzzi ed il giornalista americano William Mac Hale,
capo della redazione romana di
“Time”e “Life”.
Il velivolo, un bireattore executive
era esploso in volo a pochi chilometri dall’aeroporto di Linate,
dove doveva atterrare.
Il contadino testimone dell’evento continua:
«Mi sono infilato
gli stivaloni, ho
afferrato una
lampada e sono
corso verso il
luogo in cui il
fuoco era più
grande e faceva
paura. Pensavo
di poter soccorrere qualcuno, ma
non c’era più
niente da fare.
Sono corso subito
ad avvertire i carabinieri di Landriano, e ho guidato sul posto il
brigadiere con i
suoi uomini».
L’aereo di Mattei era precipitato a pezzi in un
campo dietro un filare di pioppi, a pochi metri da
una roggia, scavando una buca enorme dove a malapena si intravedeva uno spezzone di coda del velivolo. Intorno, i rottami sparsi in mille pezzi,
frammisti a brandelli di carne, per un raggio di trecento metri.
Oltre alla segnalazione del contadino, è già la
torre di Linate che, qualche minuto dopo le 19, dà
l’allarme, avendo perso alle 18,51 il contatto radio
con il pilota del “Morane Saulnier”.
Le telescriventi danno del disastro un flash incompleto solamente alle ventidue e trenta di quel
giorno: «L’aereo dell’ingegner Mattei è caduto a
Bascapè, nei pressi di Malegno, in provincia di
Pavia. La notizia è stata appresa presso la torre di
controllo di Linate». Così veniva comunicata la
morte del presidente dell’ente petrolifero di Stato,
che tanto aveva fatto parlare all’estero per la sua
politica tendente ad infrangere il dominio monopolistico del cartello petrolifero angloamericano.
Il velivolo della flotta privata dell’Eni era decol-
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lato dall’aeroporto di Catania Fontanarossa, diretto
a Milano, alle 16,57. Mattei aveva trascorso l’ultima mattinata della sua vita a Gagliano Castelferrato (in provincia di Enna), fra festeggiamenti, discorsi e molte speranze: a poca distanza dal paese
era stato trovato il metano e con il metano erano
nate le polemiche e le speculazioni.
II paese era in agitazione, così come gli ambienti
qualificati dell’Isola. Mattei, quel giorno, si è recato appositamente a Gagliano perché vuole calmare
le acque, vuol tranquillizzare la piccola comunità.
Questo è quanto hanno sostenuto “dopo”le fonti
ufficiali sull’improvviso viaggio del presidente
dell’Eni in Sicilia, ma, probabilmente – e le ipotesi
sono svariate – i reali motivi consistevano in una
serie di incontri con personaggi isolani e forse
stranieri.
Mattei, quel 27 ottobre del 1962, tiene un discorso dal balcone del Circolo degli Operai, che dà
sulla piazza principale del paese. Parla, in quella
circostanza, anche il presidente della Regione,
D’Angelo, e le sue parole assumono il tono della
profezia: «Mattei – dice – porta un carico sulle
spalle di tanta responsabilità, di tanto impegno,
che non gli consente mai di dormire sonni tranquilli. Questo è un uomo che ha mezzo mondo
contro di sé, e deve stare molto attento. Noi possiamo sbagliare e rimediare. Lui se sbaglia una
volta è perduto per sempre».
Mattei era stato in Sicilia alcuni giorni prima, e
quel viaggio appare, nelle sue connotazioni, ben
strano per un uomo occupato in affari internazionali che richiedevano sempre la sua presenza fisica.
Il fratello del presidente dell’Eni, Italo Mattei,
dichiarerà: «Mio fratello era stato in Sicilia appena sei giorni prima, il 18 ottobre. A Palermo si era
impegnato perché Gagliano avesse uno stabilimento per 400 operai e perfino una scuola professionale. L’impegno era stato preso davanti al sindaco, ingegnere Cuva, e all’on. D’Angelo, neopresidente della Regione. Tornato a Roma, il 20 ottobre, Mattei fu raggiunto da una telefonata: a chiamarlo era il suo collaboratore Graziano Verzotto,
che gli prospettò la necessità di tornare urgentemente in Sicilia perché la popolazione di Gagliano
era nervosa, parlava di barricate e voleva essere
tranquillizzata da una visita del presidente dell’E-
ni. Mio fratello diventò a sua volta nervoso. Non
aveva proprio tempo da perdere: lo aspettava, fra
l’altro, in Algeria, l’accordo petrolifero da firmare
con Ben Bella il 6 novembre, la battaglia decisiva
con le grandi compagnie petrolifere internazionali. Il 25 ottobre Mattei ricevette una seconda telefonata, che credo venisse da Gela. Dalle risposte
di Enrico mi resi conto che era stato compiuto un
attentato contro attrezzature dell’aeroporto di Gela, dove avrebbe dovuto atterrare il suo bireattore
personale. Enrico, urtato dalla notizia, ma anche
francamttente irritato, rispose: “Io a Gela ci vengo ugualmente e in aereo. E se mi vogliono ammazzare, facciano pure”».
Qualcosa in pentola, dunque, bolliva veramente.
Ma perché avrebbero dovuto uccidere Mattei, e
chi era quest’uomo che era diventato un pericolo
per le “grandi compagnie petrolifere internazionali”? Numerose le pubblicazioni e gli articoli su
quotidiani e riviste, nazionali ed esteri, hanno cercato di dare risposte a questi due – apparentemente
semplici – interrogativi, ma senza pervenire a
spiegazioni definitive. Quel che sembra assodato,
e pur tuttavia mai provato, è che la preparazione
dell’attentato a Enrico Mattei (il sabotaggio, cioè,
dell’aereo), avvenne mentre il “Morane
Saulnier”era posteggiato in un’area prospiciente
la piccola aerostazione di Fontanarossa.
Mattei nasce ad
Acqualagna in
pronvincia di Pesaro, il 29 aprile
1906, da una famiglia di modeste
possibilità. Da
giovane lascia gli
studi ed a quindici anni è già al
suo primo impiego come verniciatore; in meno
di cinque anni è
direttore di una
fabbrica con alle
dipendenze 150
operai. Nel 1930
cambia attività,
diventa commesso viaggiatore,
rappresentando
prodotti scientifici tedeschi. Poi,
con un piccolo
capitale e tanti
debiti che ben
presto paga, crea
a Bergamo una
fabbrica specializzata, la “Industria Chimica Lombarda”, che resterà attiva, nonostante la guerra, fino al 1943. Dopo l’armistizio, la “sua”scelta: la
“Resistenza”, fra i partigiani cattolici, con un posto di responsabilità. Viene arrestato due volte dai
nazifascisti e riesce a scampare anche alla fucilazione. Alla fine della guerra il suo nome è popolare in tutta l’alta Italia. Il 12 maggio 1945 gli viene
affidato, dal Comitato di Liberazione Alta Italia, la
carica di commissario straordinario dell’Agip per
l’Italia settentrionale e, nell’autunno dello stesso
anno, già membro del Consiglio nazionale della
Dc, viene nominato alla Consulta nazionale. Allorché si scopre il metano nella pianura Padana, Mattei ottiene dal ministro Vanoni, in esclusiva, la
concessione per lo sfruttamento e la ricerca di
idrocarburi su quel territorio.
Nel 1948 viene eletto deputato nella circoscrizione di Milano-Pavia ed appena un anno dopo,
quando una sonda dell’Agip, a 1600 metri di profondità, trova a Cortemaggiore un giacimento di
petrolio, è in grado di cavalcare la tigre. Incomin-
LA VOCE DELL’ISOLA
i nostri Documenti
cia a nascere il “mito”e Mattei sa sfruttare più che
bene la situazione del momento: la scoperta dell’oro nero in Italia può considerarsi un vero miracolo.
Nonostante che, qualche mese dopo, l’8 giugno, il
ministero dell’Industria cerchi di ridimensionare la
scoperta, volendo ridimensionare la stessa figura
del dirigente democristiano, Mattei mostra tutto il
peso che può avere sul governo.
Nessuno riesce a contrastarlo facilmente: la sua
linea è accettata dalla Dc, che chiede al Parlamento l’emissione di una legge per affidare, all’azienda di Stato, l’esclusiva delle ricerche e dello sfruttamento degli idrocarburi nella Val Padana. Mattei
punta psicologicamente sull’affermazione dello
“Stato”affinché gestisca le ricchezze minerarie del
suo territorio per farle defluire a vantaggio della
collettività.
Dopo una lunga battaglia, il 27 marzo del 1953,
la “Gazzetta Ufficiale”pubblica la legge istitutiva
dell’Eni: Mattei ne viene nominato presidente.
Questa battaglia vinta costituisce una sconfitta non
solo per la Confindustria ma anche per il cartello
petrolifero internazionale, che, certamente, non
gradiva la presenza di un ente statale che cercava
di accaparrarsi “monopoli”. I primi scontri sul
mercato internazionale l’Eni di Mattei incomincia
ad averli nel 1957, quando l’ente di Stato crea le
strutture, la rete di ricerca e distribuzione, e necessita sempre maggiormente di greggio.
Si incomincia con la questione del Sahara, un
territorio rivelatosi una inesauribile miniera. La
Francia in quel periodo tentava di garantirsi lo
sfruttamento monopolistico della zona del deserto
Algerino (allora colonia francese) e nonostante si
trovi di fronte gli ostacoli del cartello petrolifero
internazionale e degli Usa, riesce a raggiungere un
compromesso. Mattei si inserisce in questa disputa, e fornisce aiuti ai rivoluzionari del Fronte Nazionale di Liberazione, prendendo contemporaneamente contatti con la Libia, i cui territori confinano ad Oriente con il tratto di Sahara dove erano
stati rinvenuti i giacimenti petroliferi. In Libia, in
quel periodo, regnava sovrano re Idris, e con questi Mattei raggiunge un accordo per la concessione
di una vasta area nel Fezzan, ai confini dell’Algeria.
Era il marzo del 1957. Agli americani l’invadenza dell’Eni non era certo gradita: Mattei si era trasformato sempre più in un uomo estremamente pericoloso. L’accordo con la Libia non passa a seguito delle pressioni americane. Mattei si lancia all’attacco: nel 1960 conclude con la Tunisia un accordo per la definizione della costruzione e della
gestione di una raffineria e per un permesso di ricerca, sempre nel Sahara. Stipula accordi anche
con altri paesi africani, dalla Somalia alla Nigeria,
dal Marocco al Ghana, al Kenia, all’Uganda. L’Eni
cresce smisuratamente e, pur essendo azienda di
Stato, chiude bilanci con utili diretti e netti (quello
derivante dalla differenza fra il prezzo di produzione e il prezzo politico di vendita) calcolati in
oltre quaranta miliardi annui, molti dei quali reinvestiti. Per Mattei, comunque, c’è sempre la necessità di trovare nuovo greggio ed al prezzo più
basso.
L’opportunità gli viene offerta dall’Unione Sovietica, con la quale raggiunge un accordo sostanzioso che segnala la definitiva rottura tra Eni e le
compagnie americane. Mattei si trova, pertanto,
con Francia, America e cartello petrolifero alle costole; non a caso un americano appartenente alle
alte sfere di una delle massime compagnie petrolifere, il 12 settembre del 1960 a Piacenza, in occasione dell’VIII Congresso dei petroli, affermerà
che «non riusciva a capire come mai nessuno
avesse ancora trovato il modo di fare uccidere
Mattei».
In quei giorni i quotidiani francesi accusano
apertamente il presidente dell’Eni di finanziare e
fornire armi ai guerriglieri del Fronte Nazionale di
Liberazione algerino.
Si vede bene, a questo punto, come molti sono
interessati a fare scomparire Mattei dalla scena in
11
Nelle pagine 9 e 10,
le foto della tragedia di Bascapé
il 27 ottobre del 1962:
gli inquirenti esaminano
i resti del velivolo
di Enrico Mattei
A sinistra le locandine del film inchiesta
di Francesco Rosi “Il caso Mattei”
Sopra, una sequenza della ricostruzione
cinematografica che ha fatto
il regista sulla preparazione dell’attentato
dell’aereo del presidente
dell’Eni mentre era parcheggiato
nel piazzale dell’aeroporto
di Catania Fontanarossa
A pagina 12
la partenza di Enrico Mattei
dallo scalo di Catania;
i rottami del velivolo a Bascapé
12
maniera definitiva. Le minacce di morte e gli attentati non tardano a venire, così come non mancano le pressioni sul piano nazionale.
L’aeroporto di Fontanarossa, nel 1962, è ancora
nelle condizioni post belliche, con l’unico dato –
considerato all’epoca positivo – di possedere
un’aerostazione, quella inaugurata nel 1950 dal
ministro degli Interni Mario Scelba. Non ci sono
servizi di sicurezza adeguati. I tempi, in realtà,
erano diversi dagli attuali e non si mostravano
concrete ragioni per attivare misure preventive di
allarme per scongiurare eventuali pericoli. L’aerostazione era aperta dall’esterno all’interno attraverso il salone-aerostazione, dal quale si poteva
accedere direttamente all’area parcheggi velivoli.
Gli aerei delle Compagnie aeree operanti su Fontanarossa venivano raggiunti a piedi dai passeggeri
i quali, prima della partenza, potevano attendere la
chiamata del volo e l’imbarco, fermandosi a prendere un caffé o una bibita, seduti ai tavoli del bar
collocati nella terrazza che dava direttamente sul
piazzale velivoli, separato dall’edificio dell’aerostazione soltanto da una staccionata alta poco meno di un metro e mezzo. Il servizio di sicurezza era
affidato ad un personale ridotto di polizia, l’intera
zona aeroportuale interna poteva essere facilmente
raggiunta da persone che non destassero particolare attenzione.
In diverse ricostruzioni giornalistiche e nel filminchiesta di Franco Rosi, “Il caso Mattei”, oltre
che nei processi per chiarire la fine del presidente
dell’Eni, si è detto dettagliatamente che il “Morane Saulnier”è stato sabotato mentre si trovava all’aeroporto di Catania, prima che decollasse per la
sua destinazione lombarda. Si è parlato di un’azione criminale ben congegnata, che ha toccato, organizzativamente, diversi livelli, sia politici che tecnici, quelli principali vicini allo stesso Mattei.
È stato accertato che lo stesso Mattei, non ritenendo sicuro il vecchio aeroporto militare di Gela,
avesse impartito l’ordine di portare, la sera prima
di quel fatidico 27 ottobre, il piccolo bireattore
francese all’aeroporto di Fontanarossa, dove venne
parcheggiato in una piazzuola normalmente usata
dai velivoli dell’Aeronautica Militare. In questa
piazzuola l’aereo rimarrà per l’intera notte tra il 26
e il 27 ottobre fino all’ora del decollo, nel primo
pomeriggio. Non c’era personale dell’Eni, o dello
scalo, a sorvegliare il velivolo. Lo stesso pilota Irnerio Bertuzzi trascorrerà la sua ultima notte in un
albergo di Catania. Il tempo per preparare un sabotaggio, curato nei minimi particolari, era, quindi,
abbastanza ampio.
Alla fine del 1995, dopo 33 anni d’indagini e
d’inchieste pubbliche che non avevano prodotto
alcun risultato, grazie alla perizia ordinata dalla
Procura di Pavia, sarà accertato che l’aereo di
Mattei è esploso in volo “a causa di una carica di
cento grammi di Compound B, potente e dirompente esplosivo, posta dietro il cruscotto dell’aeromobile, collegata con il congegno d’apertura del
carrello, in modo da esplodere poco prima dell’atterraggio”. Questa carica di esplosivo sarebbe stata posta sul velivolo durante la sosta a Catania.
Altri particolari inquietanti emergeranno da questa inchiesta della magistratura: il Pm della Procura di Pavia Vincenzo Calia ha scoperto che il “Morane Saulnier”di Mattei quel tragico giorno a Fontanarossa ha registrato due rifornimenti di carburante in poche ore, rifornimenti non giustificati per
le poche miglia percorse dall’aereo. Il magistrato
ha dedotto che quel giorno, a disposizione di Mattei, ci fossero due velivoli identici dell’Eni in Sicilia: uno per essere utilizzato, l’altro per distogliere
l’attenzione da eventuali malintenzionati, collocato altrove. L’Eni ha dovuto confermare al giudice
Calia la presenza dei due aerei in Sicilia, quello pilotato da Bertuzzi ed esploso con Mattei e il giornalista William Mc Hale, l’altro pilotato da Ferdinando Bignardi, morto in circostanze misteriose
nel 1980, ucciso da una bomba all’hotel Norfolk di
Nairobi. Interrogativi rimasti senza risposte, frammisti a certezze, a dati di fatto, per episodi accadu-
LA VOCE DELL’ISOLA
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ti nei giorni che precedettero la partenza da Fontanarossa del presidente dell’Eni.
Dopo le minacce ricevute, e tenuto conto dei pericoli che correva, Mattei aveva rafforzato le sue
misure di sicurezza affidando il delicato servizio
“personale”ad un uomo di sua fiducia, l’ex partigiano Rino Pacchetti, medaglia d’oro della Resistenza, suo antico compagno nella lotta clandestina.
Ebbene, alla vigilia dell’ultimo viaggio in Sicilia
di Mattei a Pacchetti viene revocato l’incarico con
l’ordine di sospendere ogni sorveglianza, che sarebbe rimasta affidata solo agli uomini dei servizi
segreti delle Forze armate, agli uomini del Sifar.
Un caso identico a quello già verificatosi nella primavera precedente, quando al motorista di fiducia
del pilota Irnenio Bertuzzi, Erminio Loretti, venne
revocato l’incarico del controllo del “Morane
Saulnier”e trasferito in altra sede. Erminio Loretti
e il figlio Marino periranno in un incidente aereo,
a bordo di un “De Havilland”di loro proprietà, il
12 agosto del 1969.
Per il giudice Calia anche gli avvenimenti che
precedettero il sabotaggio del velivolo dell’Eni a
Catania e le susseguenti morti sono collegate al
caso: c’era chi aveva progettato la fine di Mattei in
tutti i particolari senza trascurare nulla.
Quanto si verificò all’aeroporto di Fontanarossa
è ancora avvolto nel mistero, nonostante che il
quadro complessivo appaia chiaro. Gli avvenimenti di quel 27 ottobre del 1962 a Fontanarossa, probabilmente, cambiarono le sorti dell’Italia politica
ed industriale. Episodi minori, ma non meno inquietanti, quelli verificatisi nel 1978 e nel 1980:
due velivoli scomparsi nel nulla subito dopo il loro
decollo da Catania.
In una calda serata di luglio del 1978, giovedì
26, il pilota di un bimotore civile, un vecchio “Dc3”– comunemente noto con il nome di Dakota –
chiede di effettuare un atterraggio con sosta. Il pilota parla infrancese e declina le generalità di rito:
ottiene l’autorizzazione alla manovra. Sono le
21.50 quando il velivolo rulla sulla pista per rag-
giungere l’area di parcheggio. I componenti dell’equipaggio, tre elementi, si presentano all’ufficio
traffico ed esibiscono le carte di volo. Tutto appare
in regola: il bimotore proviene da Palermo e la sua
destinazione, per l’indomani, è Brindisi. I funzionari italiani apprendono dalla documentazione presentata che il velivolo (sigla F-Biee) appartiene ad
una società francese che effettua servizio privato e
concedono l’autorizzazione alla sosta ed il rifornimento carburante. Niente di particolare viene segnalato. I tre componenti dell’equipaggio lasciano
lo scalo per dirigersi in città. All’indomani il pilota
del Dc-3 si ripresenta all’ufficio traffico di Fontanarossa con il piano di volo, chiedendo di potere
lasciare l’aeroporto ed effettuare un volo in “V-FV”, cioè con le regole del volo “a vista”, che si effettua solo quando le condizioni atmosferiche sono
ottime ed a determinate quote che non superano i
mille e cinquecento metri. Il permesso viene accordato ed alle 10,18 il vecchio Dakota accende i
motori e rulla sulla pista, in attesa che la torre di
controllo gli fornisca la frequenza del primo radiofaro sul percorso, quello di Reggio Calabria. Ottenuta l’informazione, il bimotore decolla alle 10,23
e, pochi minuti dopo, è il silenzio radio.
L’allarme scatta poco prima delle ore 11; il pilota dell’aereo francese, mentre sorvolava lo Stretto
di Messina, aveva interrotto il contatto radio con la
torre di controllo di Fontanarossa senza aver chiamato Reggio Calabria o qualsiasi altro aeroporto.
Dalla base di Maristaeli si alzano in volo elicotteri
alla ricerca del “Dc-3”e da Sigonella decollano
due “Atlantic-Breguet”del 41° Stormo, che perlustrano sia la zona di mare antistante le coste, sia
l’entroterra isolano e calabro, temendo che l’aereo
fosse precipitato.
Le ricerche durano a lungo, per giorni; non si
scopriranno rottami. Il Dakota non è precipitato.
Viene aperta una indagine da parte dei carabinieri
che scoprono che la sigla dell’aereo fornita dal pilota non risulta negli appositi registri internazionali. Si scopre che soltanto due dei tre elementi dell’equipaggio (il pilota Roland Raucoules, di 33 anni, algerino residente a Parigi, e il quarantottenne
Michel Winter) sono stati alloggiati in un albergo
della città, mentre del terzo elemento non si riesce
a ricostruirne i movimenti, né le generalità.
Sulla stampa si avanzerà l’ipotesi (che verrà
smentita) che lo sconosciuto passeggero fosse
Gheddafi, giunto in incognito a Catania chissà per
quale ragione. Della faccenda ingarbugliata si occuperanno i servizi segreti italiani e francesi, ma la
verità sulla scomparsa del “Dc-3”e dei suoi passeggeri non verrà acclarata. A conclusione dell’inchiesta si verrà a sapere che il bimotore apparteneva alla società “General air service”di Nizza, che
lo aveva venduto ad un intermediario alcuni giorni
prima che svanisse nel nulla, il 21 luglio; si conosceranno anche le generalità del terzo componente
dell’equipaggio: Philipe Toutot, che sarebbe ripartito da Fontanarossa assieme ai suoi compagni di
viaggio. Si dirà anche che il velivolo forse veniva
utilizzato per traffici illeciti, ma non si scoprirà altro. Identica situazione per un monoplano
“Piper”tedesco, decollato da Fontanarossa il 21
aprile del 1980. Il velivolo, giunto a Catania due
giorni prima, proveniva da Monaco ed a Monaco
era diretto quando si è staccato dalla pista alle 8
del mattino, con rotta su Ponza, Firenze, Bologna,
Bolzano. Sul piccolo velivolo, immatricolato nei
registri della Germania Federale con la sigla
“Degfp”, il primo pilota, un ufficiale di nome Krohen, un secondo pilota, di nome Wimboch, e due
passeggeri di generalità sconosciute.
A sette minuti dal decollo il contatto radio che il
velivolo manteneva con Fontanarossa e Monaco si
interrompe all’improvviso. Dopo trenta minuti di
silenzio radio, l’aeroporto di Monaco lancia l’allarme, e subito da Catania vengono avviate le ricerche con gli elicotteri di Maristaeli e con i velivoli del 41° Stormo: del “Piper”tedesco e dei suoi
passeggeri non si saprà nulla, così come avvenne
due anni prima per il “Dc-3”francese.
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LA VOCE DELL’ISOLA
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Nelle foto, a sinistra, al centro e in basso l’Atlantic del 41°
Stormo Antisom in volo. Qui sopra, in alto, il primo aereo
dello Stormo, il “Curtis Helldiver” e l’Atlantic Breguet
L
a base militare di Sigonella ha suscitato e suscita impressioni di diversa natura nella gente comune (e no).
C’è chi la prende come simbolo di un militarismo straniero (quello statunitense); c’è chi la identifica come luogo
dove è possibile trovare un posto di lavoro; c’è che, a livello
di imprenditoria locale, ritiene che torna utile perché si possono avviare rapporti costruttivi; c’è chi la vede come una
opportunità di guadagno, c’è chi si preoccupa perché ritiene
che all’interno dei depositi di munizioni possano esserci anche ordigni nucleari; c’è chi volutamente ne ignora l’esistenza; c’è pure chi vorrebbe sapere cosa significhi la (ormai) radicata nel tempo presenza americana in un luogo italiano. E
così via, tanti sono gli interrogativi che la gente comune (e
no) si è posta nel corso di tanti anni.
Sigonella per i cosiddetti “antimilitaristi” ha rappresentato
l’occasione di inscenare manifestazioni di protesta che, nel
concreto, non hanno sortito effetti di sorta. Ci sono italiani
(oltre 500, quasi tutti siciliani) che hanno un impiego stabile,
regolarizzato con contratti Usa, e quindi la base statunitense
significa anche lavoro sicuro sul territorio. Ma non solo. I
grandi investimenti che il Governo americano ha (e sta) effettuando per migliorare l’installazione (sia da un punto di vista
tecnico, sia per le strutture che ospitano le famiglie dei militari) sono stati (e sono) fonti di attività delle imprese locali
che realizzano le opere richieste. E’ sufficiente ricordare l’entità degli investimenti americani nel territorio etneo, oltrechè
a Sigonell, per rendersi conto pienamente ciò che rappresenta
questa struttura: nell’ultimo quadrienno – dal 2004 al 2007
–ggli Usa hanno stanziato la somma di ben 680 milioni di
dollari. Quest’ultimo piano è stato ufficializzato nel 2003 e i
lavori sono già in fase di completamento.Qualunque sia l’opinione di chi “sta fuori”, Sigonella ha mantenuto sempre una
riservatezza tale che, alla fine, è stata interpretata come “segretezza”, lasciando a briglia sciolta tutte le possibili ipotesi
sul suo utilizzo da parte dei militari, italiani e americani. In
realtà di “misterioso”
c’è ben poco; in realtà
ha nuociuto (in special
modo nel passato) la
sua eccessiva “chiusura” al mondo esterno,
il costante “off limit”
ai civili che ha dato
modo di ingigantire le
facili strumentalizzazioni antimilitariste, tipiche, soprattutto, dei
momenti di gravi crisi
internazioni.
Fino a qualche decennio addietro, negli anni della Guerra fredda
tra i due blocchi UsaUrss (e loro rispettivi
alleati) riuscire a penetrare (giornalisticamente parlando) a Sigonella era praticamente impossibile: la base militare (tra le province di Siracusa e di Catania) era (ed è) sede del 41° Stormo dell’Aeronautica italiana ed anche sede logistica (Naval Air Station) della
Sesta Flotta Usa, di stanza nel Mediterraneo. Per i giornalisti,
sino tre decenni addietro, per gli privati, i cancelli di Sigonella restavano inesorabilmente chiusi. L’installazione era difesa
da una impenetrabile cortina di silenzio su quanto si svolgeva
al suo interno, e ciò finiva con l’alimentare inevitabilmente
l’alone di mistero e di “proibito” che, di certo, non favoriva i
rapporti tra la collettività e il personale (italiano e americano)
di Sigonella.
Fu alla fine degli anni Settanta (nel 1978, esattamente) che riuscimmo a superare gli ostacoli imposti dalle rigide regole
militari, grazie all’intervento diretto del ministero competente sull’allora comandante della base, colonnello Giuseppe
Bovio, persona squisita, che applicava ordini e norme in maniera letterale, senza nulla concedersi e concedere o concedersi. Superati gli ostacoli, Sigonella si aprì come un libro
appena uscito dalle macchine stampatrici, se pure nella naturale cautela che gli addetti ai lavori hanno nei confronti degli
estranei che invadono un campo non loro.
Indubbiamente episodi di una certa rilevanza, tali da attirare
l’attenzione internazionale sulla Sicilia, nel passato si sono
avuti: basti ricordare la presenza dei missili “Cruise”, di stanza nel vicino aeroporto di Comiso, e le ripercussioni del se-
questro della “Achille Lauro”, che ebbe il suo momento conclusivo più drammatico proprio a Sigonella nella notte del 10
ottobre del 1985 il presidente del Consiglio Bettino Craxi si
rifiutava di consegnare agli americano Abu Abbas e i quattro
terroristi che avevano fatto parte del commando che aveva
sequestrato la nave di crociera. Episodi ormai dimenticati, ma
che fanno parte della storia di Sigonella.
Prima di addentrarci nelle esperienze dirette e personali, è
opportuno tracciare la linea storica del 41° Stormo dell’Aeronautica Militare Italiana, che costituisce il nucleo portante e
di “comando” dell’intera base di Sigonella.
Storicamente il 41° Stormo si costituisce nel luglio del 1939
sull’aeroporto di Reggio Emilia; con gli eventi bellici viene
trasferito in Sicilia, a Gela, inquadrato nella Terza divisione
aerea, e partecipa a quasi tutte le missioni nel Mediterraneo
sino alla conclusione dell’ultimo conflitto mondiale, quando
lo Stormo venne disciolto. A Catania, la presenza militare – a
caratterizzare la “natura” e la “funzione” specifica originaria
dell’aeroporto di Fontanarossa – non viene mai annullata. Un
contingente di velivoli dell’Aeronautica viene mantenuto sul
capoluogo etneo, ma la costituzione ufficiale del primo Gruppo antisom, l’87°, a Fontanarossa, è da ricondurre, come data
storica, al 15 luglio del 1952, mentre otto anni dopo, il 1°
marzo del 1960, viene costituto l’88° Gruppo antisom. Il 41°
Stormo rinasce il 1° ottobre del 1965, incorporando l’87° e
l’88° Gruppo di volo. I primi aerei in dotazione all’87° Gruppo antisom sono i “Curtiss Helldiver Sb2C-5”: le prime missioni antisommergibili dei nuovi equipaggi italiani si effettuano nell’estate del 1952, in collaborazione con la Marina e
l’Aeronautica francese, e consistono in manovre aeronavali
nel nord del Tirreno. Nel febbraio del 1953 al Gruppo iniziale
vengono assegnati i bimotori “Lockheed Harpoon Pv-2”, un
pattugliatore con caratteristiche tecniche superiori al “Curtiss
Helldiver” e con una maggiore autonomia. Agli alleati americani, nel quadro dell’intesa di cooperazione militare, dall’Italia verranno richiesti i
“Lockheed Neptune”, velivoli operativi su Malta.
La richiesta non verrà accolta, ma in sostituzione
di questi aerei verranno
concessi, nel 1958, i bimotori “Grumman S2F-1
Tracker”, che potevano
contare su apparecchiature elettroniche avanzate,
provvisti dell’Ecm (Electronic Counter Measures)
e del Mad (Magnetic Anomaly Detector). Questi velivoli
consentiranno al Gruppo di effettuare un notevole salto di
qualità.
Con la ricostituzione del 41° Stormo Antisom – equipaggi
formati al 50 per cento dalla Marina e al 50 per cento dall’Aeronautica – si avvia un’attività, intensa e sempre più impegnativa, in campo nazionale e interforze della Nato, per
contrastare quotidianamente la presenza sempre più consistente, nel Canale di Sicilia e nell’Europa meridionale, di
sommergibili e unità di superficie dell’Unione Sovietica e dei
suoi alleati. Il periodo che va dagli anni Cinquanta sino agli
anni Ottanta è quello che vede nella Sicilia la punta avanzata
dall’apparato militare dell’Alleanza Atlantica.
Si crea la base di Sigonella
Sono gli anni della “guerra fredda” e lo scacchiere del Mediterraneo costituisce un nodo vitale per i due “blocchi” contrapposti Usa-Urss per l’influenza che esercita sui rispettivi
Paesi alleati e per il predominio ed il controllo dell’aria e dei
mari. L’aeroporto di Fontanarossa, pur vantando una posizione strategica invidiabile, essendo “aperto” ai voli commerciali, non poteva costituire una soluzione permanente per le forze aeree alleate. Occorreva sia per la Nato (e quindi per l’Italia, in prima istanza) e sia per gli Usa una installazione militare adeguata a fronteggiare le esigenze che si prospettavano,
vista la crescente invadenza e costante presenza della flotta
sovietica in quello che una volta era considerato il “mare nostrum”. Sia la Nato, sia gli Usa – che nel Mediterraneo avevano già dislocato stabilmente la VI Flotta, con sede Napoli necessitavano di una posizione logistica di livello elevato nel
quadro delle nuove prospettive che assegnavano alla forza armata compiti sempre più impegnativi e qualificati. A seguito
di valutazioni strategiche inequivocabili – necessità di potere
contare su un punto di riferimento molto importante nello
scacchiere del Sud Europa, potenziale ed effettiva “testa di
ponte” verso il Medio Oriente, l’Africa e il Sud-Est Asiatico
– si ipotizza la creazione di un “hub” che possa essere utilizzato dall’Italia, dalla Nato e dagli Usa. Nel 1952 una commissione tecnica e militare effettua un sopralluogo nel territorio della provincia etnea per individuare il sito più idoneo dove costruire un grande aeroporto. Il sito prescelto è quello di
Sigonella, espressamente in contrada Sigona, un terreno nel
quale, nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, era stata realizzata una pista sussidiaria di Fontanarossa. Sigonella nasce,
pertanto, come base Nato per far fronte alle necessità dell’Alleanza, all’interno della quale sarebbero stati allocati il Co-
LA VOCE DELL’ISOLA
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Nelle foto, qui sopra l’equipaggio di un Atlantic
(il velivolo francese anche accanto) al rientro di una missione notturna
mando italiano ed una “stazione” aeronavale Usa. Gli Stati
Uniti, infatti, cercavano da tempo una collocazione definitiva
per i Gruppi aeronavali d’appoggio alla VI Flotta, dovendoli
trasferire da Malta, dove erano situati sin dal 1943.
Individuata la zona dove costruire l’aeroporto e le relative infrastrutture, gli Usa sottoscrivono nel 1952 un primo accordo
con le autorità governative italiane, un ulteriore accordo
“provvisorio” il 25 giugno del 1957 ed un accordo definitivo
due anni dopo. Oggetto del trattato “definitivo”: mantenere
all’interno del progettato scalo di Sigonella una componente
aeronavale statunitense “autonoma”, operativamente dipendente dal Comando forze navali degli Stati Uniti in Europa
(Comusmaveur), ma sotto il controllo del Comando del 41°
Stormo Antisom, essendo la base militare italiana.
I lavori per realizzare l’installazione prendono il via nei primi
mesi del 1955 su terreni appartenenti al Duca di Misterbianco, venduti quasi due miliardi, un milione ad ettaro. Per la pista, i piazzali e le vie di rullaggio velivoli, le opere
vennero aggiudicate alla “Sab” (Società appalti bonifiche) di Roma, che li ultimò nel 1957; gli impianti vennero affidati all’impresa “Bulini e Grande” di Bologna, che li completò alla fine dello stesso anno. Le prime costruzioni che sorsero furono
quelle di “Nas 1”, cioè del villaggio che avrebbe
dovuto ospitare (e che ospita a tutt’oggi) la maggior
parte del personale americano. “Nas 1” (primi edifici costruiti dall’impresa “Nisticò” di Palermo nel
1956) sorge sulla statale per Enna, in collina, a sedici chilometri a sud della periferia di Motta S. Anastasia ed a una ventina di chilometri di distanza da
Sigonella-aeroporto – sito americano chiamato
“Nas 2” (Naval air station) – nella Piana, all’estre-
Nelle foto:
in alto - una panoramica
dei parcheggi velivoli
di Nas 2 Usa
sopra - la portaerei
della VI Flotta “America”
al centro - l’inaugurazione
della base di Sigonella
accanto - un P-3 Orion in volo
sulle coste siciliane
ma periferia del territorio ovest di Catania, in parte ricadente
in territorio di Lentini, provincia di Siracusa.
I reparti aerei americani residenti a Malta vengono trasferiti a
Sigonella nel luglio del 1959; l’apertura della base avviene
ufficialmente il primo giugno di quell’anno.
Tra il dicembre del 1959 e il gennaio del 1960 l’87° Gruppo
antisom (non ancora ricongiunto all’88° Gruppo per formare
il 41° Stormo dell’Aeronautica Militare Italiana) viene trasferito da Fontanarossa a Sigonella. Il 1° ottobre del 1965, con
disposizione dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, viene
soppresso il Comando aeroporto di Fontanarossa e sullo stesso sedime è costituito il 41° Stormo, che trasferisce i reparti a
Sigonella nel novembre del 1971: in quella data il graduale
abbandono di Fontanarossa dell’Aeronautica Militare può
considerarsi in fase avanzata. È, quello, un periodo di convulsa trasformazione dello Stormo Antisom: dal 27 giugno del
1972 si ha la sostituzione dei “Grumman S2f-1 Tracker” con
i più moderni e attrezzati “Breguet Atlantic 1150”, velivoli
francesi, prescelti comunemente da tutti i Paesi appartenenti
alla Nato. I vecchi bimotori, che tanto fattivamente avevano
operato nel Mediterraneo per scongiurare la minaccia sovietica, verranno imbarcati nel porto di Catania alla fine dello
stesso anno per essere avviati alla demolizione.
Il 31 agosto del 1978 anche il Comando dello Stormo trasloca a Sigonella e venti anni dopo, il 29 maggio del 1998, l’Aeronautica militare, dopo 74 anni di presenza ininterrotta, lascia definitivamente Fontanarossa: "Nel quadro dei provvedimenti per la ristrutturazione delle Forze armate, il residuo Distaccamento è soppresso", si afferma nella motivazione letta
nel “rapporto storico” dal generale Filippo Affronti prima
della cerimonia dell’ammaina bandiera, alla presenza del comandante dello Stormo Vitantonio Di Lorenzo. Il 21 settembre del 1998 il generale di Squadra Aerea Pier Giorgio Crucioli, comandante della Terza Regione Aerea, in merito al futuro della zona militare di Fontanarossa,
dichiarava in una intervista: "Noi abbiamo reso disponibile questa base come
bene demaniale alle altre istituzioni.
Esiste una norma nella Finanziaria dello
scorso anno che prevede che la cessione
dei beni demaniali alle Regioni avvenga
senza alcuna corresponsione. Su Fontanarossa vi sono diversi interessi: per coagulare questi interessi, è mia opinione,
che la Regione debba prendersi in carico l’area demaniale per poi destinarla al
meglio alle istituzioni interessate".
Qualche mese dopo, l’ultimo bimotore
“Grumman Tracker” viene portato fuori
da un hangar di Fontanarossa:
si alza in aria per il suo ultimo
volo sollevato da una potente
gru, posato su un mezzo speciale, scortato da polizia e carabinieri, viene trasportato a Sigonella dove viene collocato,
all’interno di un’aiuola, in mostra statica, a ricordo di un periodo storico irripetibile.
Questo, a linee molto larghe, il
percorso compiuto dagli Antisom nel corso di oltre mezzo
secolo: entrare nei dettagli significherebbe ricordare tutte le
tappe che hanno caratterizzato
la vita della rinata Aeronautica
Militare Italiana dal dopoguerra ad oggi. Per quanto attiene il
nostro contributo alla conoscenza degli Antisom, delle
tante tappe vogliamo ricordare
la prima consegna all’Italia da parte della Marina degli Stati Uniti dei primi 24
Curtiss S2C-% “Helldiver”, adattati per
il ruolo antisommergibile, avvenuta nel
1950. Questi velivoli (che con successive assegnazioni raggiunsero il numero
di 42 unità operative) vennero assegnati
all’86° Gruppo Antisom, ricostituito con
i piloti dell’Aeronautica e della Marina
Militare. Questo Gruppo, articolato in
tre squadriglie e dislocato a Grottaglie
prende la denominazione di “Gruppo
Aereo Autonomo Antisom”, che solo
sette anni dopo (a seguito del decreto
legge n° 968 del 7 ottobre 1957) sarà
costituito in Aviazione Antisommergibile (Antisom) composta da reparti aerei
dell’Aeronautica Militare dipendenti per
l’impiego dalla Marina Militare. Altra
tappa significativa il 27 giugno del
1972, data d’immissione in servizio del
bimotore “Atlantic <brequet”, un velivolo selezionato perla molteplice dotazione di strumenti di navigazione, di
scoperta e localizzazione di sommergibili naviganti in immersione, dotato di
una tecnologia avanzata e provvisto di
un armamento più elevato di quello disponibile sugli aerei di quel momento.
LA VOCE DELL’ISOLA
i nostri Documenti
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Nelle foto, qui sopra un F 15 Eagle in manovra davanti agli hangar di Nas 2 Sigonella; al centro della pagina, l’entrata della base Usa e manifestanti antimilitaristi;
in basso, un aereo da trasporto statunitense scarica mezzi a Sigonella
I lunghi anni della Guerra Fredda
Quando varcammo per la prima volta i cancelli della base del
41° Stormo, a Sigonella, potevamo considerarci “impreparati” ad affrontare argomenti di natura militare o di politica internazionale: in precedenza, infatti, professionalmente non
avevamo spinto il nostro interesse al di là di questioni locali
o nazionali, limitandoci all’approfondimento personale delle
problematiche di più largo respiro attraverso le informazioni
indirette fornite da libri, pubblicazioni e mezzi televisivi. Per
Sigonella ci spingeva la naturale curiosità verso ciò che (almeno in quegli anni) era proibito all’informazione, e verso
tutto ciò che l’installazione militare poteva rappresentare, costituendo un mondo sconosciuto pur essendo a due passi da
casa. Quella prima visita a Sigonella, nel lontano 1968, fu
una salutare lezione sa livello professionale. E non solo. Scoprimmo, principalmente, che c’erano uomini che dedicavano
la loro vita, mettendola continuamente a rischio (e non è retorica) per preservare l’irrinunciabile bene comune della collettività, del Paese: il bene della pace.
Erano gli anni della Guerra fredda, ma la gente che conduceva una esistenza “normale” non poteva essere in grado di percepire una realtà trasmessagli solo dalle divulgazioni dei
mass media: Guerra fredda era come un “qualcosa” che apparteneva ad un altro mondo. Estraneo. Lo stesso discorso
valeva per noi, fino a quando, imbarcati da Sigonella su un “Atlantica” del 41° Stormo in volo operativo non potemmo constatare direttamente cosa
volesse dire il termine “prevenzione”, il termine
“controllo” delle acque territoriali di appartenenza.
In quel primo volo di 9 ore (tanto dura una normale
missione) sorvolando il mare spesso quasi a pelo
d’acqua, il pattugliatore dell’Aeronautica militare
italiana individuò ben sette sottomarini sovietici.
Il Mediterraneo da tempo non era più un mare nostrum, ma uno spazio dove si fronteggiavano le due
grandi potenze, Stati Uniti e Unione sovietica. In
quel periodo l’Urss manteneva nel Mediterraneo
una Flotta di 59 unità, di superficie e non; la VI
Flotta Usa operava nella stessa area, all’Italia e alle forze
della Nato il compito di controllo e di eventuale intervento.
Nello stesso periodo della nostra prima visita, in un incontro
a Napoli, il comandante dell’AFSOUTHf (Forza Alleata del
Sud Euriopa), ammiraglio Harold E. Shear, ebbe a dichiararci: “E’ questo un momento in cui il mondo è gravemente
turbato ed è più che necessaria un’alleanza forte ed efficace.
La NATO deve continuare a rimanere forte nell’Europa centrale, ma è soprattutto sui fianchi ed oltre che è necessario
concentrare la nostra attenzione. L’area del Mediterraneo è a
contatto con il Medio Oriente, ricco di petrolio, e con il Nord
Africa. La presenza militare dell’Unione Sovietica in quest’area si è gravemente allargata negli ultimi anni. Oggi una potente flotta sovietica (50/60 navi) è costantemente presente
nel Mediterraneo, e l’intera area è nel raggio d’azione degli
aerei sovietici. La difendibilità di quest’area è critica per
l’Alleanza: noi dobbiamo compiere ogni sforzo per impedire
che essa costituisca il ventre molle dell’Europa, come Winston Churchill la definì trentacinque anni fa. La regione meridionale và salvaguardata perché l’Europa orientale è assolutamente dipendente dalle risorse petrolifere del Medio Oriente e del Nord Africa, i cui giacimenti costituiscono il 65 per
cento del totale delle riserve mondiali. In queste aree viene
estratto quasi il cinquanta per cento del petrolio consumato
nel mondo, circa due miliardi mezzo di tonnellate. Una significativa percentuale di questo petrolio transita dal Mediterraneo, che è quasi letteralmente a tiro da parte dell’Urss. E’ importante rilevare se i sovietici possono politicamente, militarmente o economicamente, controllare l’afflusso del petrolio
dal Golfo Persico all’Europa. Se riuscissero in ciò, i sovietici
possono vincere una guerra senza usare mai una pallottola, né
speso un soldato”.
In una situazione così politicamente e militarmente delicata
l’Italia faceva la sua parte, e la loro parte importante facevano (e continuano ancora a farla, anche se le condizioni sono
diverse) gli uomini degli Antisom che non risparmiavano
energie, tanto da meritarsi la denominazione di “sentinelle
della pace”.
Mediterraneo mare affollato, in quegli anni dove gli equilibri
fra i due blocchi contrapposti, Usa e Urss, erano sempre sul
punto di spezzarsi. Il Mediterraneo crocevia tra continenti,
caratterizzato da una molteplicità di “cerniere”, di strettoie
terrestri e marittime che costituiscono posizioni di controllo
delle vie di comunicazione. Questi nodi strategici accrescono
l’importanza della conservazione della sicurezza di questo
mare. Il frazionamento della regione mediterranea (dal mar
Nero al Golfo Persico, dal mar Rosso alle coste atlantiche) significa la presenza di oltre trenta Paesi, molti dei quali ancora in fase di assestamento. La perdurante pericolosità della situazione medio-orientale, provocata principalmente dall’insoluto contrasto arabo-israeliano e dalla instabilità che esso
determina nelle zone più direttamente legate al problema palestinese, sono una continua minaccia ad una pace che necessita di costanti supporti. Nel Mediterraneo, dalla penisola
Iberica a Beirut, l’Europa democratica, l’intero mondo occidentale giocano ogni giorno la propria esistenza. Controllare
il Mediterraneo significa controllare le vie di rifornimento,
significa potere penetrare in Paesi di capitale importanza. In
tutto il corso della storia, il Mediterraneo è stato un elemento
un elemento determinante per lo sviluppo economico, politico e sociale delle diciotto nazioni rivierasche. Come mare
“internazionale”, cioè come unica via per accedere dall’Atlantico e dall’Oceano Indiano al cuore del continente europeo
e di quello asiatico, è stato nei secoli, ed ancora oggi, il crocevia del commercio e delle vie di comunicazione. Questo
grande specchio d’acqua, che ha a Gilbilterra il suo accesso
all’Atlantico, va dall’Italia, attraverso le isole greche, fino
agli stretti Turchi, ove si collega con il mar Nero. Come mare
in mezzo alla terra (da dove il nome Mid-terra) è il punto
d’incontro di tre continenti, Europa, Africa ed Asia Più di 350
milioni di abitanti popolano i Paesi che vi si affacciano, i
quali dipendono da questo mare come mezzo di comunicazione e di commercio, di sostentamento e di scambi. Ogni
giorno questo mare è solcato da oltre tremila navi mercantili,
e da migliaia di piccoli battelli. Il Mediterraneo ha avuto (ed
ha) un ruolo di primaria importanza: ne era pienamente consapevole l’Unione Sovietica negli anni della Guerra fredda,
che posizionò gran parte della sua Marina militare, rendendo-
ne i confini sempre più stretti: La presenza stabile delle navi
sovietiche nel Mediterraneo incomiciò a manifestarsi verso
la metà degli anni Sessanta. Già in quell’epoca operavano regolarmente nel bacino orientale, lungo le coste dell’Egitto,
una decina di navi militari sovietiche; negli anni successivi, e
via via che l’instabilità dei rapporti Usa e Urss andava crescendo, la presenza della flotta sovietica si faceva più consistente, con un raggio delle operazioni sempre più allargato. I
canali di Sicilia e di Sardegna, lo Jonio e il Tirreno venivano
costantemente incrociati da navi di superficie e da sottomarini sovietici, molti dei quali equipaggiati con missili nucleari.
Il controllo “permanente” del Mediterraneo da parte delle
forze alleate e, soprattutto, dell?italia si trasformava in un
“fatto” che nell’economia della difesa generale occupava un
posto preminente. Il mantenimento degli equilibri, non solo
militari ma in special modo politici, finiva con il basarsi sul
concetto di una “pace attraverso la forza”, poiché non esistevano (e in realtà, per altri versi, non esistono a tutt’oggi) i
presupposti di un processo di pace che potesse evolversi in
modo concreto.
E’ in questo contesto che hanno operato per decenni gli uomini e i velivoli Antisom dell’Aeronautica militare che hanno
continuato a controllare il Mediterraneo, per prevenire qualsiasi tipo di aggressione. E in questo contesto, via via anche
più ampio con il mutare delle condizioni socio-politiche e
militari dei Paesi del Medio Oriente e nel sud-est Asiatico,
che hanno operato – nella maggior parte dei casi in maniera
nettamente autonoma, i gruppi aeronavali statunitensi, che
hanno usato Sigonella come “hub” e base logistica primaria.
Con il processo di distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica prima, con il crollo dell’Urss, le condizioni mondiali politiche sono cambiate, ma di certo non è esplosa la pace, e le
fibrillazioni nelle stesse aree d’influenza (vedi Iraq, Israele,
Libano e quant’altro) dalla caduta del muro di Berlino non
hanno fatto abbassare la guardia, ma hanno ulteriormente trasformato i compiti degli Antisom italiani, che agiscono in
stretta collaborazione con tutte le componenti della NATO.
Periodiche esercitazioni interforze tengono sempre alta l’attenzione sul Mediterraneo, alimentando la cooperazione fra i
Paesi dell’Alleanza.
Oggi Sigonella è base del 41° Stormo Antisom dell’aeronautica Militare Italiana che opera nell’area del Mediterraneo,
mentre la struttura Usa, con circa novemila unità, è sede del
25° Squadrone Antisommergibile “VP-25” della Marina, dotato di aerei P-3 Orion per il pattugliamento marittimo a lungo raggio.; l’Helicopter Combat Support Squadron Four dotato di elicotteri Black Stallions; l’Air Services Coordinator
Mediterranean (Ascomed); il Naval Computer and Telecommunication Station, il Centro Operativo di Controllo Aerei
Antisommergibile (Aswoc) della Us Navy; un reparto del
Navy Center for Tactical Systems Iteroperability; una unità di
supporto sanitario
Per comprensibili ragioni, essendo una base “logistica”, Sigonella Usa ricopre un ruolo fondamentale nello stoccaggio
di tutti i generi (dai viveri alle munizioni) necessari per il
“supporto” delle forze statunitensi nelle aree indicate, operato
dal Wapons Department. Questa particolare missione “logistica” di Nas 2 ha alimentato quella che i militari dell’Aviazione italiana definiscono “leggenda metropolitana”, cioè la
presenza nella base di armi atomiche: diverse Commissioni
parlamentari italiane avrebbero accertato l’infondatezza dell’informazione.