Allegato: EUROPA MEDITERRANEO un giornale nella prospettiva dell’apertura dell’area di libero scambio GIORNALE SICILIANO DI POLITICA, CULTURA, ECONOMIA, TURISMO, SPETTACOLO ANNO PRIMO Nº 8 - 23 DICEMBRE 2006 ~ 4 GENNAIO 2007 - a 1,50 DIRETTORE RESPONSABILE SALVO BARBAGALLO Con il patrocinio Regione Siciliana Assessorato Turismo, Comunicazioni e Trasporti Dipartimento Turismo, Sport e Spettacolo L’’ARS può decidere senza referendum. Irreversibile l’iter che percorre maggioranza di governo e opposizione? Ci stanno fregando Ecco come riformano lo Statuto Siciliano di SALVO BARBAGALLO C i stanno fregando. I deputati che noi Siciliani abbiamo eletto al Parlamento della Regione, ci stanno fregando. I lettori ci perdoneranno la terminologia (“ci stanno fregando!”) forse un po’ pesante, e non certo consueta nel nostro modo di esprimerci, ma il fatto è che non esiste (a nostro avviso) terminologia diversa per descrivere ciò che sta accadendo a Palermo. In più circostanze abbiamo denunciato l’atto (che consideriamo assurdo, quasi “sacrilego”) che i nostri deputati (tutti d’accordo, quelli dell’attuale maggioranza di Governo, e quelli che costituiscono la cosiddetta “opposizione”) stanno compiendo a danno della collettività: il tentativo di riforma dello Statuto Speciale Autonomistico, uno Statuto (come è a tutti noto) che mai è stato applicato nelle sue norme, che avrebbe potuto (se fosse stato utilizzato) portare benessere e sviluppo alla Sicilia. Con il nostro giornale ci siamo intestati la battaglia a difesa dello Statuto che si vuole (a tutti i costi) cambiare, annacquare e renderlo inerte. Questo giornale si voluto attribuire anche l’ingrato compito di “censore” nei confronti dei tanti mistificatori di turno che parlano in nome dell’Autonomia Siciliana, ma che mai nulla hanno fatto (in passato) e fanno (nel presente) per difenderla nella sua essenza principale, quella, appunto, del rispetto dello Statuto Speciale. Abbiamo lanciato, sempre dalle pagine di questo giornale, un grido di “allarme” ai Siciliani, dicendo che i loro rappresentanti hanno tradito il mandato ricevuto perché “nascondono” all’intera collettività isolana ciò che stanno compiendo, privandola della opportuna informazione in merito, privandola del diritto di esprimere la propria convinzione. Forse siamo arrivati tardi: ciò che stiamo facendo “forse” sarà inutile in quanto i deputati (tutti i deputati, a qualsiasi colore politico appartengono) hanno ben tutelato i loro intendimenti, con normative che rendono insignificante la delega loro concessa dagli elettori affinché operassero per il bene comune. I nostri lettori potranno comprendere ciò che affermiamo leggendo l’articolo (veramente “tecnico”) che pubblichiamo in seconda pagina, a firma di Giovanni G. A. Dato. .In questo articolo si spiega il “perché” tecnicamente i Siciliani non avranno modo di esprimere il loro parere attraverso un possibile referendum: una normativa, approvata recentemente, consente, infatti, di non ricorrere al coinvolgimento diretto del corpo elettorale quando due terzi dei componenti dell’Assemblea regionale si trovi concorde nell’applicazione di una modifica: Non è un “concetto” facilmente assimilabile, ma comprensibile è. In poche parole: se all’Ars una maggioranza fortemente qualificata decide una qualsiasi cosa, non c’è bisogno di chiederlo agli elettori, cioè alla gente. Per spiegarci ancora meglio: se maggioranza di Governo ed opposizione trovano una inetsa possono decidere come vogliono. In poche parole, ancora e come detto all’inizio. Noi Siciliani siamo fregati, il nostro Statuto può considerarsi già archiviato come reperto archeologico. Possiamo ora spiegarci il perché di tanta fretta nella incomprensibile corsa alla riforma dello Statuto; possiamo spiegarci il motivo per cui Micciche ed Enzo Bianco (maggioranza ed opposizione, cioè) hanno chiesto a Bertinotti di accelerare l’iter stesso della riforma; possiamo spiegarci il perché delle continue sollecitazioni nella stessa direzione a Camera e Senato, unici organi competenti a decidere in materia costituzionale. Possiamo spiegarci tanti “perché”, ma non certo le cause che stanno determinando questo (a nostro avviso) insano modi di procedere, all’insaputa dell’intera collettività, alla quale viene negato il diritto all’informazione, il diritto ad esprimere ciò che realmente vuole. A propositi di diritti, c’è da dire che noi Siciliani il diritto di criticare i nostri 90 deputati non lo abbiamo: al Parlamento regionale li abbiamo mandati noi, quindi la responsabilità è solo nostra…Questo è il risultato di una delega concessa con troppa superficialità, data nella convinzione che i nostri eletti rappresentassero veramente noi elettori. Una pia illusione, un alibi per tanti, una responsabilità per tutti. Per risvegliare le coscienze necessario un altro Vespro? di FRANCESCO DATO L ’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani: frase storica che aveva il significato intrinseco di constatazione delle diversità dei vari popoli che insistevano sui vari territori dello stivale, ora finalmente Italia unita. E’ appena il caso di ricordare che fin dal 1860 si aveva la considerazione delle diverse caratteristiche socio–economiche che esprimevano le popolazioni di quelle terre che sarebbero diventate le Regioni Italiane. Se mi è concesso il paragone, oggi si sta cercando di fare la stessa cosa con l’Unione Europea, e probabilmente oggi capiamo di più le difficoltà che si sono dovute affrontare e superare per l’obiettivo unitario della nostra Patria, constatando le innumerevoli problematiche di una gestione politica ed economica a livello europeo nel panorama di diversità delle varie Nazioni che coesistono nel progetto di Europa Unita; l’Europa è fatta, ora bisogna fare gli europei. Fin da allora il Popolo Siciliano, che in quanto a cultura e storia non aveva nulla da invidiare agli altri Popoli del territorio Italia, esprimeva con legittima consapevolezza quelle istanze autonomistiche che poi gli sono state riconosciute, dimostrando quella integrazione anche di religione proprio per le innumerevoli dominazioni storicamente susseguitesi. Il percorso è stato lungo e accidentato, costellato anche di episodi cruenti, che hanno ancor più legittimato il conseguimento di una autonomia che, passata attraverso fasi di lotte indipendentistiche (ricordiamoci del M.I.S. e del suo braccio armato E.V.I.S.) alla fine aveva visto regolare (e mediata) attuazione con lo Statuto ancor oggi vigente. Vigente e mai del tutto applicato, anzi, concesso formalmente per poi, utilizzando i soliti ascari (leggi rappresentanti del popolo siciliano venduti al potere partitico e politico centrale) sostanzialmente disatteso nelle prerogative prettamente autonomistiche. Il gioco è stato scoperto fin da subito, tanto è vero che numerose sono state nel corso di questi cinquanta anni le iniziative tendenti all’effettiva applicazione dei nostri diritti statutari, tentativi peraltro risoltisi con un nulla di fatto per la miope e servile attività politica-partitica dei nostri rappresentanti democraticamente eletti. Si è perpetrato in questo cinquantennio anche un delitto, fors’anche più grave rispetto alla mancata applicazione del nostro Statuto, delitto che riguarda la storia ed insieme la nostra identità culturale e l’immagine mediatica della nostra terra e del nostro popolo. Andiamo con ordine, la nostra storia: chiedete ai nostri ragazzi se conoscono le fasi storiche siciliane dalla seconda guerra mondiale in poi, chi era Canepa e perché è stato eliminato, che cos’era il M.I.S., chi era Silvio Milazzo e che cosa ha rappresentato il milazzismo, chiedete dei fatti di Avola e dei motivi di quell’eccidio, chiedete perché, più recentemente, non è stato consentito al presidente della Regione Rino Nicolosi la creazione delle Linee Aeree Siciliane (L.A.S.); chiedete perché a Taormina c’era un Casinò che è stato cancellato ed in Sicilia non è possibile aprirne, mentre altre regioni italiane godono dei benefici di queste strutture che attraggono anche turismo, e potremmo continuare a snocciolare ancora tanti “perché” se non avessimo la certezza dell’inutilità di queste domande che non avranno risposta. Soffermiamoci sull’identità culturale, che in questa epoca di estrema globalizzazione, è stata attratta in un contesto di diffusa omologazione a culture diverse lasciando via via nel dimenticatoio generalizzato quella cultura prettamente nostrana che, inevitabilmente, andrà colpevolmente perduta nel volgere di pochi anni. Il capolavoro distruttivo è stato però raggiunto mediaticamente, in quanto il cinema, la televisione ed i giornali sembra facciano di tutto per reiterare con costanza degna di miglior causa quella che è diventata l’icona della Sicilia nel mondo: siamo tutti mafiosi, e nel caso qualcuno non lo sia, quanto meno ha la rogna, come amaramente mi confessava un mio vecchio Professore, che questa realtà l’aveva vissuta personalmente avendo insegnato per anni al nord; stranamente però quando ci capita di ospitare qualcuno, risentiamo con piacere, ma anche con rabbia, sempre le stesse parole di positiva incredulità sulla realtà del luogo e del popolo siciliano rispetto al prevenuto convincimento. E siccome non vogliamo piangerci addosso, né abbiamo più voglia di fare dell’inutile vittimismo, essendo consapevoli che nessuno ha voglia o, meglio, interesse a darci una mano, dobbiamo capire che l’unica strada percorribile per cambiare le cose sta nella nostra capacità di intendere la libertà e la democrazia. Le lotte dei nostri progenitori ci hanno concesso il bene più prezioso, la libertà. Ma cosa sappiamo in pratica di questo valore fondamentale del quale, ogni tanto, parliamo con la leggerezza e l’ignoranza che deriva da una eredità per la quale nulla abbiamo dovuto faticare per avere, e che invece rappresenta la base di tutte le altre e numerose conquiste sociali succedutesi, nonché il presupposto per altre da ottenere? Ed allora impadroniamoci del vero e incommensurabile concetto di libertà, che è il potere di compiere o di non compiere certi atti secondo la determinazione della nostra volontà; è il diritto di fare tutto ciò che non è contrario alla legge morale e alla libertà altrui. La democrazia, altro bene prezioso della società, ottenuta anch’essa attraverso il sacrificio e le lotte dei nostri predecessori, e che etimologicamente significa governo a cui prendono parte diretta o indiretta tutti i cittadini, è vissuta in quest’epoca priva di valori con il convincimento della inutilità delle scelte in considerazione dei risultati negativi ottenuti. Gran parte della situazione negativa che abbiamo vissuto e che ancora oggi viviamo sotto l’aspetto prettamente politico-partitico, è causata da un sistema democratico imperfetto che ci ha fin qui costretto a fare le scelte del meno peggio, o di non farne alcuna astenendoci dalla partecipazione attiva alla vita politica e sociale della nostra terra. Infatti, come si può attivamente intervenire, ammesso che ci sia qualcuno di buona volontà e di ottima moralità, nel potere decisionale dei partiti politici, se essi soli decidono chi, come e dove candidarsi, praticamente utilizzando il bisogno (nelle segreterie partitiche) e la necessità obiettiva che comunque dobbiamo essere governati; a questo punto il potere del popolo di eleggere democraticamente i propri rappresentanti viene sostanzialmente disatteso, e con esso viene tradito anche il senso di democrazia rappresentativa. Per questo è necessario, anzi vitale, risvegliare le coscienze di chi, per convenzione ma non per convinzione, ha ritenuto superati e forse pure inutili i concetti di libertà e di democrazia, perché probabilmente a questo risultato hanno mirato coloro i quali ci hanno (male) governato e si propongono di farlo ( male ) anche in futuro. In quest’epoca di decadentismo morale è necessario forse un altro vespro che liberi il tempio dai mercanti e ridia al popolo siciliano quella dignità da troppo tempo calpestata. LA VOCE DELL’ISOLA 2 23 dicembre 2006 Ecco quali sono i meccanismi che consentono la distruzione dell’ultima conquista della Sicilia L’intesa dell’A.R.S. nel procedimento di modifica dello Statuto d’Autonomia Per la legge non è necessario il coinvolgimento degli elettori nella riforma di GIOVANNI G. A. DATO L ’Assemblea regionale siciliana, nella seduta di martedì 5 dicembre, ha espresso parere favorevole (limitatamente alle norme relative alla modifica dello Statuto siciliano) a tre progetti di legge costituzionale (nn. 206, 980 e 1241 – XV legislatura) e parere contrario ad un quarto progetto di legge costituzionale (n. 1606 – XV legislatura), tutti di iniziativa parlamentare, presentati alla Camera dei Deputati. Merita di essere precisato che l’art. 41-ter dello Statuto regionale prevede che per le modificazioni dello Statuto (l’iniziativa per la modifica può essere assunta anche dall’Assemblea regionale) si applica il procedimento stabilito dalla Costituzione per le leggi costituzionali (trattasi del procedimento cd. aggravato descritto dall’art. 138 Cost. in base al quale le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione; merita di essere osservato, tuttavia, che ai sensi del citato art. 41-ter St., a differenza della previsione ex art. 138 Cost. le modificazioni allo Statuto approvate non sono, comunque, sottoposte a referendum nazionale). La parte di maggior interesse, in questa sede, della disposizione in esame è quella racchiusa nel comma 3 del citato articolo 41ter St. secondo cui i progetti di iniziativa governativa o parlamentare di modificazione dello Statuto sono comunicati dal Governo della Repubblica all’Assemblea regionale, che esprime il suo parere entro due mesi. Proprio in applicazione di tale norma l’A.R.S. Giornale Siciliano di politica, cultura, informazione, economia, turismo, spettacolo nello scorso 5 dicembre ha espresso il suo parere sulle proposte di modifica (i richiamati p.d.l.cost. nn. 206, 980, 1241 e 1606 – XV legislatura). La previsione in esame, introdotta dalla legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2 che ha modificato e semplificato il procedimento di revisione degli Statuti delle regioni ad autonomia speciale è stata oggetto di vivaci critiche: innanzitutto, la disposizione non mette a fuoco in modo chiaro la natura giuridica del parere espresso dall’A.R.S.: sembrerebbe trattarsi di un parere (obbligatorio ma) non vincolante in quanto la legge si è limitata a prescriverne la previa acquisizione, senza aggiungere altro: ben potrebbero, dunque, le Assemblee elettive statali disattendere il parere dell’A.R.S. senza violare alcuna regola giuridico–costituzionale (ma solo di galateo e di fair – play istituzionale); inoltre, l’espressione di un “semplice” parere da parte dell’Assemblea rappresentativa del corpo elettorale siciliano in ordine alla proposta di modifica (di matrice “nazionale”) dello Statuto d’Autonomia tradisce il principio di pari dignità e di equiordinazione costituzionale (sancito dall’art. 114 Cost.) e, con particolare riguardo alla peculiare specialità siciliana, il patto autonomistico fra l’ordinamento siciliano e quello statale; il parere esprime, infatti, un semplice giudizio in funzione meramente ausiliaria della determinazione finale, nulla più. L’articolo 38 (Approvazione degli Statuti delle Regioni speciali) della legge costituzionale approvata dalla Camera dei deputati e dal Sala d’Ercole Senato della Repubblica, e poi sottoposta al referendum del 25 e 26 giugno 2006 (con esito, come è noto, non confermativo del testo), in funzione del superamento di questo meccanismo poco rispettoso delle Autonomie speciali prevedeva di aggiungere all’articolo 116, primo comma, della Costituzione la previsione in base alla quale gli Statuti speciali dovevano essere adottati con legge costituzionale previa intesa con la Regione o Provincia autonoma interessata sul testo approvato dalle due Camere in prima deliberazione. Il diniego alla proposta di intesa poteva essere manifestato entro tre mesi dalla trasmissione del testo, con deliberazione a maggioranza dei due terzi dei componenti del Consiglio o Assemblea regionale o del Consiglio della Provincia autonoma interessata. Decorso tale termine senza che fosse stato deliberato il diniego, le Camere potevano adottare la legge costituzionale. I tre progetti che hanno raccolto il parere favorevole dell’A.R.S. lo scorso 5 dicembre prevedono – in piena continuità con il richiamato art. 38 di sostituire il citato terzo comma dell’articolo 41-ter dello Statuto della Regione Siciliana con il seguente: «I progetti di modificazione del presente Statuto approvati dalle due Camere in prima deliberazione sono trasmessi all’Assemblea regionale per l’espressione dell’intesa. Il diniego alla proposta di intesa può essere manifestato entro tre mesi dalla trasmissione del testo, con deliberazione a maggioranza dei due terzi dei componenti l’Assemblea regionale. Decorso tale termine senza che sia stato deliberato il diniego, le Camere possono approvare la legge costituzionale» (merita di essere osservato che non è stato favorevolmente valutato dall’A.R.S. il citato p.d.l.cost. n. 1606 il quale, al meccanismo descritto negli altri tre progetti di legge esitati favorevolmente, aggiungeva la seguente previsione: qualora un progetto di modificazione sia stato approvato in prima deliberazione da una delle Camere e il parere dell’Assemblea regionale sia contrario, il Presidente della Regione indice un referendum consultivo prima del compimento del termine previsto per la seconda deliberazione). Deve salutarsi con favore la prevista sostituzione dell’istituto del “parere” con quello dell’”intesa”: l’intesa è ontologicamente diversa dal semplice parere, essendo una formula organizzatoria che presup- pone un coordinamento interprocedimentale (e non già endoprocedimentale) tra Enti pariordinati. L’intesa – quella descritta nei tre progetti di legge citati – è un vero e proprio “accordo” tra il Soggetto (lo Stato) cui l’atto può essere giuridicamente imputato (nel caso che ci occupa, la legge costituzionale di modifica statutaria, essendo lo Stato depositario del potere costituente e di revisione costituzionale) e quello (la Regione Sicilia) che partecipa alla determinazione del suo contenuto. L’intesa, come più volte ha chiarito la Corte Costituzionale, è una tipica forma di coordinamento paritario, in quanto comporta che i soggetti partecipanti siano posti sullo stesso piano in relazione alla decisione da adottare, nel senso che quest’ultima deve risultare come il prodotto di un accordo e, quindi, di una negoziazione diretta. Ove le proposte di legge costituzionale in esame venissero approvate, dunque, l’atto di assenso della Regione Sicilia dovrebbe considerarsi vera e propria determinazione volitiva preordinata a realizzare l’effetto finale che la norma collega alla fattispecie procedimentale: la mancanza dell’intesa (la quale, giova ribadirlo è “paritaria codeterminazione” del contenuto dell’atto da adottare, senza che sia consentito un “declassamento” in mera consultazione a carattere non vincolante), da parte dell’A.R.S., infatti, si risolverebbe in mancanza di una condizione di operatività del procedimento di modificazione statutaria, stante l’incompletezza della fattispecie complessa, al cui perfezionamento soltanto è condizionato il conseguimento dell’effetto finale. Mutuando la terminologia propria delle discipline giuspubblicistiche, nella fattispecie in esame l’intesa dell’A.R.S. può considerarsi del tipo “forte” nel senso che il mancato raggiungimento di essa costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento. Il mancato coinvolgimento diretto del corpo elettorale siciliano nel procedimento di modificazione statutaria (nei p.d.l.cost. nn. 206, 980 e 1241 – XV legislatura) si spiega, probabilmente, in ragione dell’elevato quorum (due terzi dei componenti l’Assemblea regionale) richiesto per l’espressione del diniego alla proposta di modifica: una percentuale così elevata lascia presumere l’idem sentire fra il corpo elettorale siciliano ed i suoi rappresentanti. Iscritto al n° 15/2006 dell’apposito Registro presso il Tribunale di Catania Nella nostra Isola, nonostante tutto, la lezione verghiana non è servita proprio a nulla Editore Mare Nostrum Edizioni Srl I nuovi Mazzarò ed i piani regolatori Amministratore delegato Francesco Dato Direttore responsabile Salvatore Barbagallo Redazione Catania - Via Distefano n° 25 Tel/fax 095 533835 E-mail: [email protected] Stampa Litocon Srl - Z.I. Catania Tel. 095 291862 Concessionario pubblicità: Valgiulia srl Viale Europa, 10 San Gregorio – Catania Tel. 095 7513758 Fax 095 7513757 e-mail: [email protected] Anno I, nº 8 23 dicembre 2006 ~ 4 gennaio 2007 Gli articoli rispecchiano l’esclusivo pensiero dei loro autori di ENZO LOMBARDO G iovanni Verga, tra la sua meravigliosa produzione letteraria, scrisse una bellissima novella intitolata “La Roba” che potrebbe essere benissimo, per chi non vedesse l'operazione come blasfema, aggiunta alla parabole raccontate da Gesù. In questa novella si racconta la storia di Mazzarò, un contadino siciliano che aveva l'ossessione di accumulare terre e ricchezze, e vi erano casi dove tutto ciò che era visibile all'occhio umano era di sua proprietà. La “roba” , antico termine siciliano per definire i possedimenti e la ricchezza, e la sua accumulazione erano le uniche ragioni di vita di Mazzarò. Ma venne il tempo della vecchiaia e Mazzarò, che nemmeno aveva voluto sposarsi e avere figli, capì che alla sua morte tutto sarebbe stato perduto e anche se avesse avuto figli, la “roba” non sarebbe comunque stata più sua. Egli, alla prospettiva della morte sempre più vicina ed incalzante, prendeva a calci i suoi terreni ed i suoi palazzi, gridando contro di loro la sua terribile angoscia e rinfacciando ad essi, muti spettatori, il fallimento di una vita dicendo: “Robba mia, vienitene con me!”. Nella Sicilia di oggi, la lezione verghiana non è servita a molto; il sogno di moltissimi di noi è sempre quello: la roba. Ci sono ancora dei Mazzarò, ma gli assomigliano solo per lo scopo finale, quello di accaparrare tutto, anche se non serve a rendere più ricchi. Essi, a differenza di Mazzarò, usano tutti i mezzi a loro disposizione e soprattutto usano i mezzi che la legge (che dovrebbe tutelare anche e soprattutto i più deboli) mette a loro disposizione. Uno di questi mezzi, il più vergognoso, è costituito dai Piani regolatori generali. Questi strumenti, di cui ogni Comune dovrebbe essere dotato, servirebbero, in teoria, a regolare armonicamente l'urbanizzazione del territorio comunale, anche secondo delle direttive di espansione sociale ed economica. In realtà essi sono degli strumenti nelle mani dei novelli Mazzarò che li usano, tramite i consiglieri comunali e le giunte, per decidere quali terreni possono essere edificabili (e quindi valere un sacco di soldi) e quali no. Ma quale norma morale, o giusnaturalistica, può tollerare che un assemblea politica (e quindi portatrice di interessi diversi) possa decidere se sul mio pezzo di terra posso costruirmi la mia casa oppure no? Questo dirigismo travestito da Stato Etico è la cosa più antisociale che si sia mai vista negli ultimi tempi. Grazie ai Piani regolatori l'offerta di immobili è limitata e, quindi, come in qualsiasi mercato il prezzo delle case e dei terreni edificabili è sempre alle stelle e non fluttua mai verso il basso. Ciò rende, ormai, il mercato immobiliare, un mercato a cui nessun consumatore medio può accedere se non indebitandosi per una vita (creando profitto per le banche ed il sistema finanza). La cosa più tragica di tutta questa vicenda è che primi difensori dei Piani regolatori sono proprio le sinistre ambientaliste ed “attente” alla povera gente. Eliminare i Piani regolatori potrebbe essere possibile in Sicilia che, sull'urbanistica, possiede competenza legislativa esclusiva. Se si facesse questa coraggiosa riforma, il prezzo delle case scenderebbe in maniera vertiginosa e molte persone potrebbero comprare casa, rilanciando l'edilizia e quindi immettendo più denaro nel circuito produttivo piuttosto che su quello finanziario. D'altro canto, sarebbe così possibile eliminare tout court il malcostume e la corruzione che ruotano attorno all'approvazione dei Piani regolatori, che spesso non vedono la luce proprio perché non si riesce a mettersi d'accordo sulla spartizione. Eliminati i piani Regolatori, la Regione dovrebbe emanare un Regolamento Edilizio con tutti i requisiti di legge per potere costruire un edificio su un terreno; questo regolamento dovrebbe fare in modo che il prospetto architettonico di un immobile sia, naturalmente, coerente con il contesto in cui si inserisce, ma una volta rispettata la sicurezza ed il contesto architettonico nessuno può impedire ad un libero cittadino di farsi la propria casa. Una volta il sogno dei nostri nonni era quello di comprarsi un pezzo di terra per poterci costruire la propria dimora, la propria roba; oggi l'unico sogno di due sposi è quello che il direttore della banca gli conceda la “grazia” di potersi indebitare per tutta la vita. La battaglia per l'abolizione dei Piani regolatori è una battaglia sociale e civile, è una battaglia per noi e per i nostri figli, è il nostro modo di dire che non vogliamo morire di fame per una politica lontana ed asservita ai Mazzarò di turno. LA VOCE DELL’ISOLA 3 23 dicembre 2006 Anche presso l'Assemblea Regionale Siciliana gli emolumenti dei deputati raggiungono cifre vertiginose Palazzo d’Orleans batte Palazzo Madama Un deputato costa oltre 20mila euro al mese Dovrebbe guadagnare la stessa cifra di un senatore ma ne porta a casa di più di GUGLIELMO ALTAVILLA N el 1947 venne istituita la regola, a Costituzione Repubblicana non ancora vigente, che i parlamentari dell’Assemblea Regionale Siciliana (istituita ancor prima del referendum Monarchia-Repubblica e, precisamente, il 15 maggio del 1946) avrebbero dovuto avere delle indennità pari a quelle dei senatori. Da allora vige questa sorta di adeguamento automatico delle indennità degli onorevoli dell’ARS con i Senatori della Repubblica. Resta naturalmente scontato che, comunque, l’ARS ha piena facoltà di determinare autonomamente sul trattamento economico dei suoi componenti, come recita l’art.69 del suo regolamento. E questa facoltà i nostri deputati se la riservano molto seriamente e valga il ricordo della circostanza che ha visto l’aumento dell’indennità lorda dei parlamentari siciliani, mentre quella dei senatori (seppur simbolicamente) diminuiva. Infatti mentre, come spiegato nel servizio del numero precedente del nostro giornale, dedicato ai parlamentari nazionali, l’indennità di un senatore è “diminuita” a 11.940,68 euro lordi al mese, quella di un deputato all’ARS è aumentata a 12.434 euro lordi al mese. Ma la differenza non è soltanto questa, c’è molto di più. Un deputato all’ARS ha diritto a percepire delle indennità aggiuntive se occupa delle posizioni ulteriori nella geografia del potere istituzionale isolano. Ad esempio se il deputato occupa la funzione di Presidente dell’ARS gli spetta un ‘indennità ulteriore netta di circa 8.000 Euro. Meno “fortunati” sono i deputati che assurgono alla carica di vice Presidente dell’ARS, ovvero di assessore della Giunta Regionale, ad essi spettano soltanto 4.000 euro netti in aggiunta alla loro indennità. Le “cenerentole” sono i deputati che rivestono la carica di componente del Collegio dei Questori, componente del Consiglio di Presidenza, presidente di Commissione parlamentare; ad essi spetta una cifra netta aggiuntiva che oscilla tra i 3.000 ed i 2.000 euro al mese. Le indennità aggiuntive (diaria di presenza a Palermo, rimborso viaggi, spese telefoniche ed altro) ammontano a circa 6.000 euro (su di esse, come per i parlamentari nazionali, non è possibile applicare alcuna trattenuta, nemmeno fiscale). I benefits dei deputati palermitani ricalcano, grossomodo, quelli degli inquilini di Palazzo Madama, tranne il fatto che, quando non coincidono, sono sempre in meglio. Valga l’esempio del vitalizio (una sorta di pensione aggiuntiva a quella che il deputato matura per la sua attività professionale): mentre quello di deputati e senatori nazionali non può superare l’80% dell’indennità mensile lorda (gli 11.940 euro per intenderci), quello dei deputati siciliani all’ARS sarà pari al 100% dell’indennità lorda. Vi è poi un rimborso del tutto particolare riconosciuto ai fini del gruppo parlamentare. Ad ogni deputato appartenente ad un gruppo parlamentare in seno all’ARS vengono riconosciuti 6700 euro al mese per il funzionamento delle segreterie all’interno di Palaz- zo dei Normanni. Questa cifra, però, è valida solo per i primi due deputati, dal terzo in poi la cifra si abbassa. Come è facile dimostrare facendo soltanto qualche addizione il costo mensile di ogni deputato supera abbondantemente i 22.000 euro (considerati gli incarichi speciali e la media dei rimborsi ai gruppi parlamentari). Di conseguenza, volendo prendere questa cifra come punto di riferimento, ogni mese i siciliani devono “sborsare” circa 1.980.000 euro solo per pagare stipendio ed indennità varie agli onorevoli. A questo punto diventa facile stabilire che, in un anno, i novanta nababbi di Sala d’Ercole costino 23.760.000 euro (circa 46 miliardi del vecchio conio per usare un espressione di un noto presentatore televisivo). Si tenga presente che questa cifra non comprende tutte le spese per il funzionamento dell’ARS (personale, manutenzione, affitti, utenze, auto di servizio, cellulari e via dicendo). Purtroppo, come molti altri Parlamenti, l’ARS tiene le informazioni sui suoi costi molto riservate, anche se essi sono atti pubblici, ed è difficilissimo per un normale cittadino procurarsi questi dati. Ancora una volta bisogna denunciare pubblicamente questo sconcio e questo sperpero di pubblico danaro. In una regione come la nostra dove la disoccupazione è altissima e dove spesso i Comuni non hanno i soldi per pagare i servizi sociali, il Parlamento regionale spende e spande a più non posso come per una perversa regola secondo la quale più poveri sono i territori, maggiore deve essere lo sfarzo delle “corti” che li rappresentano (monarchiche, dit- tatoriali o democratiche che esse siano). Come notazione finale possiamo aggiungere che il costo dei parlamentari siciliani è il più alto d’Italia e non solo rispetto ai rappresentanti nei Consigli di altre Regioni, ma anche rispetto al Parlamento nazionale. Chi pensasse che questo è “qualunquismo” ci farebbe soltanto un complimento: noi siamo uomini qualunque (anche nel senso politico e giannianiano del termine) e come tutti gli uomini qualunque vogliamo sapere come vengono spesi i soldi che, d’imperio, ci vengono tolti; se questo è qualunquismo siamo orgogliosi di esercitarlo e di credere che esso sia l’essenza della democrazia. Chi afferma e pratica il contrario rischia solo di essere, a nostro modesto avviso, un oligarca travestito da intellettuale. Riprendiamo coscienza della nostra memoria e rispolveriamo secoli di storia che abbiamo cancellato Mettiamo in moto la rivoluzione silenziosa di SERURIER I l primo presidente della Regione Siciliana, Giuseppe Alessi, in una riunione clandestina del suo partito (la Democrazia Cristiana) nel 1943 ebbe ad affermare, in opposizione a Silvio Milazzo, che “....il popolo siciliano non esiste !”. Con questa affermazione l’on. Alessi, ancora vivente ed osannata icona di non si capisce cosa, ha negato dignità culturale e storica a quello che, invece, è stato uno dei popoli più antichi e riconoscibili della storia mediterranea. Le aspirazioni all’indipendenza ed, in subordine, all’autonomia dei Siciliani sono storicamente documentate da oltre nove secoli, nonostante la cultura ufficiale dello Stato Italiano abbia fatto di tutto per negare questa evidente, quanto macroscopica, verità storica. Noi invece pensiamo che il popolo siciliano esista ma, tuttavia, abbia un grande problema: non ha coscienza di ciò! Il risultato di circa centottantanove anni di cultura ufficiale anti-siciliana (prima i Borbone di Napoli, poi i Savoia, seguì Mussolini ed hanno completato gli illuminati paladini della Repubblica Italiana) è stato il totale annientamento della nostra consapevolezza di popolo e nazione. Vorremmo chiedere ai docenti siciliani che insegnano nelle scuole secondarie se si sono mai soffermati, magari come corso monografico, sulla secolare storia del Regno di Sicilia; se hanno mai parlato ai ragazzi della guerra del Vespro andando oltre la saga del “palpeggiamento” del militare francese alla giovane palermitana ferita nell’onore; se hanno mai pensato di raccontare veramente, la storia di Ruggero Settimo e dei gloriosi moti del 1848. I giovani siciliani non conoscono la storia della loro terra, qauantomeno non più di quanto non prevedano i programmi del Ministero. In questa operazione di pulizia, o forse sarebbe meglio di polizia, culturale la più grossa fetta di Giuseppe Alessi responsabilità appartiene comunque a noi. Non si ritiene opportuno, nè tantomeno dignitoso, gridare sistematicamente allo scippo quando i ladri siamo noi stessi. Ma cosa pretendiamo, che i colonizzatori e gli sfruttatori ci diano pure gli strumenti (culturali e politici) per evitare lo sfruttamento stesso? Suvvia, non scherziamo. Se non abbiamo più memoria è perché non siamo stati capaci di difendere la nostra dignità. Tuttavia, spesso, questi discorsi vengono tacciati come retorici, astratti, passionali e poco pragmatici e invece noi vi diciamo che è proprio il pragmatismo che ha ucciso le nostre coscienze. L’idea di Sicilia va coltivata nei nostri giovani con la cultura e con la conoscenza e non con i finanziamenti a pioggia e l’ele- mosina di Stato (ed oggi anche di continente). Noi non abbiamo bisogno di nessun aiuto, ma solo di pari opportunità. proprio questo è quello che temono i colonizzatori: le pari opportunità. Fin quando i siciliani saranno un popolo di disoccupati, un branco di consumatori da rinchiudere negli ipermercati, una schiatta di indebitati con le finanziarie da tassi astronomici, una masnada di compilatori di schede elettorali, essi non avranno nè dignità di popolo nè libertà di uomini. Non possiamo più nasconderci, occorre una rivoluzione, una rivoluzione pacifica ma non per questo meno epocale. Per prima cosa bisogna immediatamente riaffermare la propria sovranità elettorale e, di conseguenza, riportare l’autonomia siciliana alla sua vera essenza: quella di patto tra il popolo Siciliano e la Repubblica Italiana. Questo potremmo ottenerlo solo in un modo: dando una forte spallata alle oligarchie politiche già dalle prossime amministrative di primavera. State attenti, fra pochi giorni comincerà il can can delle riunioni con le conseguenti tarantelle nelle segreterie politiche e persino nei ballatoi dei condomini. Vedrete come organizzeranno la cosa in maniera scientifica, metteranno un candidato per appartamento, faranno in modo di intercettare tutti i voti possibili ed immaginabili promettendo presidenze, posti di vigile urbano, lavoro, case popolari, conversione di terreni agricoli in terreni edificabili e, se necessario, persino un dog-sitter per il vostro cane. Questa volta abbiate il coraggio di dire no! Vi garantiamo che non avete niente da perdere ma tutto da guadagnare. Come dire questo no sceglietelo voi: scheda bianca, scheda nulla, astensione, voto disperso; diciamolo come vogliamo ma diciamoglielo forte: non ci rappresentate più. Fatto questo verrà il momento che qualcuno dovrà prendere atto che la Sicilia si è svegliata. Alziamoci, la rivoluzione è iniziata. LA VOCE DELL’ISOLA 4 23 dicembre 2006 Intervista al segretario generale della Cisl di Catania, Salvatore Leotta, sui pesanti problemi siciliani L’imprenditoria ricerca la sua strada Inespresse le grandi potenzialità esistenti Oggi il Sud non è in grado di colmare il pesante gap con il Nord di GIOVANNI PELLIZZERI T ante parole si sono dette, e molte altre si sono scritte sulle decisioni del Governo Prodi in merito alla realizzazione di importanti infrastrutture che potrebbero favorire lo sviluppo economico e sociale della Sicilia. La Cgil si è espressa in maniera chiara, invitando a Catania il ministro Bianchi, che ha detto (anzi, ripetuto) chiaramente che il Ponte sullo Stretto di Messina non si farà. Noi, francamente, non abbiamo mai nutrito questa convinzione, e abbiamo espresso in tante circostanze la nostra opinione: la Sicilia è un’isola che non deve (materialmente e “ideologicamente”) essere unita al Continente Italia, al Continente Europa. La Sicilia deve essere, oggi più che ieri, una regione che deve “consumare” e non “produrre”. Consumare (cioè, comperare) tutto ciò che al nord si produce, la Sicilia deve essere vincolata alla disoccupazione, la Sicilia deve essere quella dello sfruttamento umano nelle antiche zolfare, dove generazioni di adolescenti venivano sfruttati per l’arricchimento di pochi. La Sicilia non può essere il punto di confluenza tra Europa e Mediterraneo, e quindi deve essere “tagliata” fuori anche dai processi di avanzamento economico e culturale che l’apertura dell’area di libero scambio porterà ovunque in Italia, da Gioia Tauro sino alla cosiddetta Padania, e oltre. Queste sono le problematiche di oggi e di domani, e su queste problematiche abbiamo voluto ascoltare il parere del segretario generale della Cisl di Catania, Salvatore Leotta. Ecco le domande che abbiamo posto e le risposte che ci sono state date: Salvatore Leotta La provincia di Catania, come il resto della Sicilia, stenta a decollare sul piano dello sviluppo economico e occupazionale; quali sono a suo avviso le cause e i rimedi? La provincia di Catania ha tante potenzialità attraverso le quali svilupparsi: quella turistica, quella agroalimentare, quella industriale dell’hitech. Sono tutti settori, però, che l’intervento degli enti e delle istituzioni pubbliche dovrebbero governare o dove dovrebbero determinare condizioni favorevoli all’imprenditoria. Tutto ciò però non succede, o succede molto raramente. Le condizioni in cui versa l’Area di sviluppo industriale, la lunga querelle sulla società di gestione dell’aeroporto, la pesante presenza nel mercato di Comune e Provincia con le multiservizi, la scarsa Ma perché Totò Cuffaro affida la Sicilia alla Madonna? Gioca coi fanti e lascia stare i Santi di FRANCO LOMBARDO O rmai sono circa otto anni che il nostro Governatore si reca in pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Siracusa per devozione e preghiera; meraviglioso gesto, esempio vivente di come sia possibile abbinare la fede alla gestione della cosa pubblica. Infatti, quando si diventa per scelta, per caso, o per mille altri motivi, dirigenti politici, è quasi fisiologico che la fede religiosa che si interseca e si incrocia con le fede politica (sono esclusi i casi di ateismo poiché chi lo professa e lo applica ha una sola fede) porta l’uomo all’invocazione di aiuto in caso necessità personale, familiare e (perché no?) politica. Nel caso che citiamo, nulla togliendo alla buona fede del nostro Presidente Regionale, ci sembra esagerato che da anni l’invocazione di aiuto sia sempre la stessa: affidiamo la Sicilia al Cuore Sacro e Immacolato della Madonna affinché ELLA possa proteggere i poveri, i bisognosi, i giovani ecc. ecc. Pensiamo infatti, né da miscredenti, né da atei, ma da onesti cittadini di estrazione e cultura cristiana e cattolica, che la preghiera non basti! Caro Presidente, nulla togliendo al Suo impegno, sicuramente pieno di ostacoli e compromessi come avviene normalmente in politica, Lei pensa veramente che la Madonna possa fare tanto da miracolare la Sicilia e con un gesto di benedizione far diventare questa meravigliosa terra il vero centro del mediterraneo, incrocio commerciale, culturale e politico? Lei pensa veramente che per mettere in moto una economia inesistente, costruire il Ponte, fare le vere infrastrutture, rilanciare il turismo, fare dell’agricoltura vera impresa, rivisitare la faraonica ed onerosissima organizzazione burocratica regionale (effetto solo di clientelismo), utilizzare le nostre risorse prima di tutto per noi stessi, incentivare la produzione e l’acquisto almeno di generi alimentari provenienti dalle nostre terre (anzicchè acquistare tutto dal centro o nord Italia), insomma applicare in pieno la Vera Autonomia lasciataci in eredità da chi si è sacrificato per noi Siciliani dandoci la più moderna Carta Costituzionale esistente al mondo, cioè “lo Statuto autonomistico speciale”, Lei crede che basti una Pre- Chiunque dei vostri colleghi tenti, come si fa da decenni, di utilizzare la Sicilia come campo prova per ogni tipo di elezione (Casini e Follini ripartono da Palermo, mentre la Finocchiaro e Bianco in Catania dibattono sul Partito democratico) deve capire che sono finiti tempi del fatalismo e della passività. I cittadini siciliani sembrano Totò Cuffaro ghiera? No caro Presidente, occorre ben altro! Non inneggiamo né all’indipendentismo, né al separatismo, ma crediamo, perché ormai si è toccato il fondo, che tutti voi Signori politici siciliani riprendiate la vostra dignità di rappresentare un popolo degno di tale nome; chiediamo di essere ascoltati, chiediamo di incontrarvi, offriamo la nostra collaborazione con l’unico vero interesse che è il riscatto di questa terra fin troppo sfruttata. assuefatti a questo stato di cose, ma non è così! La storia ci insegna tante cose, e non a caso è Maestra di vita, quindi non permettiamo più a nessuno di ricattarci, non abbiamo nulla da chiedere se non quello che ci spetta di diritto “la nostra totale autonomia (cosa che ci viene invidiata anche da Bossi). Ma sia lui che tutti voi avete veramente capito che il nostro Statuto è parte integrante della Costituzione Italiana? Vede, caro Presidente, è signifi- cativo che mentre Lei va a pregare per la Sicilia (si dice: aiutati che Dio ti aiuta) il Presidente della Repubblica Napolitano si reca nello stesso giorno nella sua città natale Napoli (città che noi amiamo come tutto il resto d’Italia) e dà la sua Benedizione alla Tav che dovrebbe collegare Salerno con Bari (effetto governo centrosinistra in altri termini: Bassolino–D’Alema?). Non facciamo commenti, ma il Presidente della Repubblica non è il Presidente di tutti gli Italiani? E allora, caro Presidente, dove sono tutte le promesse fatte ai Siciliani? Chi è il garante della Costituzione? Il popolo giudica e quando sarà stanco di promesse e di chimere, avrà sempre, almeno speriamo, il più importante potere democratico esistente: il voto! Per concludere, che fa il signor Presidente del Consiglio? Esegue dettagliatamente le disposizioni avute nel suo mandato, dal quale, se pur con tanta confusione, non può derogare e quindi approva che Napolitano benedica la Tav napoletana e Cuffaro preghi in Siracusa mentre lui da Parigi chiude gli accordi di massima con Chirac per la Tav che collegherà l’Italia alla Francia, nonostante la Val di Susa! Tutto è perfetto, o forse ancora perfezionabile. Aspettiamo fiduciosi che qualcuno ci ascolti, ma nel frattempo, Caro Governatore, visto che c’è ancora qualcuno che vuole investire in Sicilia, sicuramente per fare utili, ma portando probabilmente lavoro, turismo ed altro, perché non vede di dare una mano a Sir Rocco Forte che vorrebbe realizzare i campi da Golf nei dintorni di Sciacca? Pare che ci siano dei contratti firmati mentre il suo assessorato all’Ambiente pare abbia bloccato i lavori. Chi avrà ragione? Risolva il problema in maniera da non perdere gli investimenti, senza deturpare l’ambiente! Quante vecchie norme andrebbero riscritte e quanta burocrazia andrebbe semplificata! attenzione ai problemi di un colosso come la StM sono condizioni che non favoriscono né l’imprenditoria privata né lo sviluppo. I settori dove certa politica ha messo le mani affondando nel caos e a nulla vale il tradizionale fermento che ha sempre caratterizzato la nostra provincia. Gli enti locali possono concorrere a un processo di sviluppo? E come? Gli enti locali si stanno allontanando sempre più dal loro tradizionale ruolo. La produzione legislativa comunitaria, e quella nazionale, li stanno delineando come soggetti di indirizzo politicoprogrammatico e di controllo che scelgono di lasciare, dove possibile, ai soggetti privati meglio attrezzati la fornitura di servizi pubblici, all’insegna dell’efficienza e dell’economicità. La pianificazione del territorio operata, ad esempio, attraverso i Prg o con i piani del trasporto, può certamente contribuire, come ho già detto, a determinare condizioni favorevoli di sviluppo. La concertazione con la società organizzata, però, non può essere abbandonata, come purtroppo è successo e sta succedendo. La voglia dei palazzi della politica di far da sé, di restringere il ruolo dei corpi sociali e del sindacalismo confederale sta ottenendo risultati deleteri, rivolti più a perseguire interessi personali che collettivi. Ma gli enti locali possono a devono intervenire anche nella lotta contro l’illegalità, grande e piccola, che frena lo sviluppo sano. E lo possono fare favorendo nel cittadino atteggiamenti di rispetto civico delle istituzioni, che devono però offrire esempi virtuosi da far seguire. Il Ponte sullo Stretto è un fattore di sviluppo e occupazione per l’Isola? Se sì, perché tanto ostracismo? Ci sono interessi alternativi? La Cisl è sempre stata favorevole alla realizzazione del Ponte, perché vi ha visto non solo un volano di sviluppo e occupazione, ma anche la possibilità concreta di superare quella “insularità psicologica” che spesso fa rinchiudere il siciliano in sé stesso e non lo fa aprire al mondo. La decisione del goberdo di non fare più il Ponte, dunque, ci amareggia. È possibile che prioritarie appaiono altre opere, come la Tav. È necessario, però, che le risorse a esso destinate siano utilizzate per ricostruire un sistema infrastrutturale serio nella nostra regione, fatto di autostrade, porti e interporti. Risorse che dovrebbero essere destinate anche al resto del Mezzogiorno, per colmare il gap che lo separa dal Nord del Paese. La Legge finanziaria, così come si è delineata, quali aspetti positivi o negativi avrà sulla nostra regione e sulla nostra provincia? Nella Finanziaria, purtroppo, per il Sud e per la Sicilia ci sono solo interventi simbolici. Ciò che cittadini, lavoratori e imprenditori si aspettano, invece, è che il governo ridia al Mezzogiorno la priorità che gli spetta per lo sviluppo organico, complessivo e armonico di tutto il Paese. Occorrono investimenti in infrastrutture, ma anche interventi di politica finanziaria a favore delle imprese, come fiscalità di vantaggio e incentivi per la ricerca. C’è un grande appuntamento che aspetta il Mediterraneo nel 2010, l’area di libero scambio. Il Mezzogiorno, e la Sicilia soprattutto, devono essere messi in condizione di arrivarci con il massimo delle potenzialità espresse. La concorrenza è aggressiva; paesi come Malta o le regioni meridionali spagnole sono già in corsa per assumere leadership in svariati settori. L’Italia deve fare in modo che la Sicilia si imponga come centro di interesse economico e politico. Ne verranno benefici per tutti, anche per i fragili equilibri geo-politici dell’area. LA VOCE DELL’ISOLA 5 23 dicembre 2006 Annullata la gara d’appalto dopo l’infruttuosa Conferenza dei sindaci della provincia Ragusa: resta ancora non sciolto il nodo della privatizzazione della società idrica Si sta attendendo l’orientamento del Governo in materia di ATO di ERNESTO GIRLANDO D opo mesi di rinvii, incertezze e sospetti, la Conferenza dei sindaci, riunita al cospetto del Presidente della Provincia, ha deciso di annullare la gara d’appalto per l’individuazione del partner privato della società che dovrebbe gestire le risorse idriche per i prossimi trent’anni in provincia di Ragusa. In precedenza una sospensione aveva consentito la composizione di un tavolo tecnico con il compito di verificare la possibilità della gestione in house del prezioso liquido, conoscere gli orientamenti che il Governo nazionale vorrà assumere in materia di Ambiti Territoriali Ottimali e verificare i termini entro i quali giungere a una determinazione certa in ordine alla gestione per poter accedere ai fondi comunitari. Non avendo conseguito alcun risultato né nell’uno, né nell’altro senso e nemmeno nell’altro ancora, la palla torna alla conferenza dei sindaci e al presidente della Provincia che dovrebbero, a breve, deliberare in merito e porre fine a una pratica dilatoria che dura da troppo tempo. La decisione di sospendere la gara era giunta al termine di una lunga e sofferta disputa nel corso della quale Il presidente della Provincia, Antoci se n’erano sentite e viste di tutti i colori. Dai sindaci del centrodestra che hanno sempre sostenuto l’ineluttabilità della privatizzazione del servizio additando, con estremo candore, - udite, udite – la conduzione pubblica quale sinonimo di spreco, inefficienza, gestione clientelare, a quelli del centrosinistra con la loro condotta ondivaga, spavaldi nelle dichiarazioni di principio e in piazza, esitanti nelle sedi che contano. Dalle dimissioni di un componente del seggio di gara per l’esclusione sospetta di una delle tre società partecipanti, alle accuse di infiltrazioni mafiose, denunciate tra l’altro anche attraverso un’interrogazione parlamentare e alle mobilitazioni della società civile e di parte del clero, attraverso movimenti, comitati e associazioni che hanno, in qualche modo, rallentato il processo di privatizzazione. Poca invece la chiarezza sui reali termini della questione e su tutto ciò che è sotteso alla determinazione di privatizzare e mercificare un bene comune come l’acqua. La qual cosa travalica, naturalmente, i termini della contesa locale e pone problemi di ordine generale. I processi di privatizzazione che negli ultimi quindici anni hanno investito la vita italiana sembrano inarrestabili. Nessuno però ha avuto l’ardire di pensare, fino a poco tempo fa, che essi avrebbero riguardato anche i beni comuni. Il progetto di privatizzazione delle risorse idriche riguarda l’intero Paese e interessa trasversalmente gli schieramenti politici, ma è parte di una strategia globale di investimenti privati. In Italia il quadro normativo sulle acque è dato dalla legge Galli del 1994 che ha normato il settore introducendo il concetto di ciclo idrico integrato e quello degli ATO, trasformando ogni impresa municipale o consortile di gestione pubblica dei servizi di acqua in S.p.A., con l’obbligo di apertura al capitale privato (minimo 40% con unico partner privato), e facendo dell’Italia, dopo l’Inghilterra della That- cher, il Paese dove è legalmente vietata la gestione in diretta dei servizi pubblici da parte degli organi pubblici. Nel dicembre del 2001 il Parlamento italiano ha approvato la legge delle cosiddette grandi opere, conferendo al Governo Berlusconi, insediatosi da poco, il mandato di individuare le infrastrutture e gli insediamenti produttivi di interesse primario per favorire l’ammodernamento del Paese. Tra gli obiettivi prioritari gli “interventi per l’emergenza idrica nel Mezzogiorno”. Gli importi ammontano a 4.641 milioni di euro: il più grande affare garantito alle imprese del settore costruzione dopo quello per il ponte sullo stretto di Messina. Le aspettative del mondo imprenditoriale sono enormi: il business dell’acqua è avviato. Il caso Ragusa è per molti versi emblematico: una grande massa di finanziamenti pubblici (63,8 milioni di euro, di cui 44,6 a fondo perduto) con i quali si dovrà ristrutturare e gestire la rete idrica provinciale. Ed è altrettanto emblematico sul piano dei rapporti tra politica ed economia. “Affrontare il problema non sotto il profilo ideologico, ma sotto quello economico considerando l’aspetto utilitaristico prima di ogni altra cosa”, dichiara il presidente della Provincia, Antoci, denunciando quella crisi della politica sostenuta da più parti e inserita in un quadro di declino dovuto non tanto all’estinguersi di una funzione, bensì al suo essere esercitata sempre più secondo modalità “tecniche”. La crisi della politica, che è crisi del suo senso per il venir meno del legame con “potenze etiche”, si esplicita con il suo subordinarsi a finalità proprie di altre dimensioni della vita sociale, in primis alla logica dell’economia. E la crisi diventa palese quando l’Europa del presidente Prodi, nell’ambito dei negoziati per la liberalizzazione del mercato dei servizi, portata avanti dal WTO, l’Organizzazione mondiale del Commercio, ha intimato a moltissimi paesi dell’Africa e dell’America latina di privatizzare i servizi idrici per sostenere le grandi multinazionali dell’ac- Alex Zanotelli qua, per la maggior parte europee. Oppure quando l’azienda municipalizzata Acea (maggioranza 51% del Comune di Roma del sindaco Veltroni), quotata in borsa, si accaparra la gestione di diversi servizi idrici nei paesi del Terzo Mondo, negando di fatto l’accesso all’acqua ai più poveri. Interessante vedere poi ciò che succede in India. La corporation ‘Suez’, che ha partecipazioni in Acea, ha avviato un progetto di una megaconduttura per portare l’acqua del Gange fino a Nuova Delhi: 635 milioni di litri di acqua che ogni giorno ‘Suez’ vende all’Ente idrico statale, prelevandola gratuitamente. Tutti ci rimettono: i contadini, il settore pubblico dei servizi, i consumatori. Solo la ‘Suez’ ci guadagna senza dover investire nulla. “Oggi è il grande comitato degli affari che decide le sorti del pianeta. Tutto è sottomesso all’economia e alla finanza, anche la politica”, tuona Alex Zanotelli, il missionario comboniano fondatore della Rete Lilliput, vera anima dell’opposizione al processo di privatizzazione delle risorse idriche. “Noi diciamo un no irremovibile alla privatizzazione degli acquedotti, perché se ci prendono aria e acqua è la fine. La mercificazione dell’acqua è un fatto scandaloso, purtroppo portato avanti anche da amministratori di sinistra. Non aspettiamo in silenzio che privati ci rubino le nostri fonti per poi rivenderci l’acqua”. Alex Zanotelli è atteso a breve a Ragusa. Speriamo non venga accolto dalle preclare figure del centrosinistra ragusano come quel prefetto del Ventennio che, durante il periodo delle grandi opere di bonifica delle paludi, in visita in un paesino del litorale laziale, venne accolto, oltre che dalle autorità locali, da una nuvola di mosche. Rimproverò il podestà: “Ma la guerra alle mosche non l’avete fatta?”. “Come no, eccellenza”, rispose quello, “solo che a vincerla sono state le mosche”. Lo stile dei quotidiani sportivi invade le pagine politiche e svuota di concretezza la discussione Al Calciomercato della nuova Finanziaria Come i mass media hanno seguito il dibattito sulla manovra economica O ra che la polvere dello scontro si è depositata sul terreno della battaglia, ora che anche le adunate oceaniche dell’opposizione si sono svolte, è forse possibile fare una riflessione serena sull’ultima finanziaria appena licenziata dalle Camere. Non vogliamo preoccupare i nostri lettori, l’intenzione non é quella di fare una dotta dissertazioni piena di numeri e astrusi termini economici. Ci interessa approfondire invece come è stata affrontata dai mezzi di comunicazione di massa la questione. La nostra impressione è che tutti, chi più chi meno, si siano lanciati in una sorta di calciomercato della finanziaria, abbiano trattato cioè questioni di grande importanza per lo sviluppo del paese come i giornali sportivi parlano degli scambi estivi tra le squadre di calcio. Peggio, si è trasformata il racconto della discussione in un nuovo assurdo reality show, dove le parti in campo svolgevano i ruoli preassegnati e nessuno si è impegnato più di tanto a spiegare i contenuti della manovra. Se ci fate attenzione, il susseguirsi di scoop, veri o presunti, con contorno di tabelle e conteggi al volo che sarebbero dovuti servire a spiegare ai lettori le conseguenze sulle tasche dei cittadini delle scelte del governo e della maggioranza si sono risolte in realtà nello strumento ideale per aumentare la confusione e il mal di testa per i lettori. E non hanno contribuito a migliorare la situazione la replica ciclica di dichiarazioni stereotipate da parte dei contendenti. Un esempio su tutti ci serve da rappresentazione ideale. Un’edizione qualsiasi di un telegiornale nazionale qualsiasi di un giorno qualsiasi degli ultimi due mesi: a un certo punto della sua scaletta, viene toccato l’argomento della finanzia- ria. La/lo speaker dice “Continua lo scontro sulla manovra finanziaria. Per l’opposizione di centrodestra (e qui si cita un nome qualsiasi appartenete allo schieramento) la finanziaria porterà nuove tasse etc. etc.”. Parte un servizio che, sulla base delle famose tabelle pubblicate al mattino dai giornali (tutte uguali, anche nell’impostazione grafica), da per assodati cambiamenti che in realtà alla fine non ci saranno. Quindi su questa ipotesi si innesca un dibattito preregistrato pieno di dichiarazioni precotte e lì si chiude l’attenzione del media sull’argomento. I tre-cinque minuti concessi all’interno del telegiornale finiscono e in questo modo si può dire conclusa la giornata di lavoro per il giornalista. Ma cosa è rimasto dal punto di vista del contenuto del dibattito in corso? Poco o niente, anche perché poco o niente hanno voluto (o saputo) comunicare sia i giornalisti che i protagonisti politici della questione. E questo non vale solo per la tv, ma anche, e con maggiore responsabilità visto il tipo di strumento e le possibilità di approfondimento concesse allo stesso, con i giornali. Un fiorire di titoloni, tabellone, interviste all’uomo qualunque per carpirne le paure sulla manovra prossima ventura ed ecco belle e confezionate le cinque-sei pagine di articoli dedicati alla politica. Anche qui nessuna riflessione sulle motivazioni alla base di scelte politiche, nessun tentativo di capire. Meglio lo spazio concesso all’intervista gridata, nel quale un esponente del governo da addosso ai suoi stessi sodali (sempre più o meno le stesse cose “vorrei di più ma non me lo danno”), ad un retroscena su di una riunione in cui, ancora una volta, si preferisce approfondire l’aspetto personale del dibattito (litigi, riappaci- ficazioni e quant’altro) che non quello politico vero e proprio, meglio un commento di una Grande Firma che parla di cose che un giorno dopo, spariscono dal dibattito. I giornali si trasformano da filtro in imbuto e così riversano a valle, sui lettori, cose che probabilmente, non hanno capito neanche loro. Il risultato finale é un assordante rumore di fondo con il risultato paradossale che, a Finanziaria definitivamente approvata, nessuno sa davvero cosa ci sia dentro, anche perché dal giorno dopo l’approvazione l’attenzione si sposta rapidamente su altro. Va bene l’informazione spettacolo, ma qui dov’è l’informazione? Mds 6 LA VOCE DELL’ISOLA 23 dicembre 2006 cxÜ ÇÉ| ¢ áxÅÑÜx atàtÄx Turisthotels s.r.l. • Hotel Nettuno Viale Ruggero di Lauria, 121 • 95126 Catania Tel. +39 095 7122006 • Fax +39 095 498066 www.hotel-nettuno.it E-mail: [email protected] PERIODICO DI INFORMAZIONE - ECONOMIA - CULTURA - TURISMO E SPETTACOLO • ANNO SECONDO Nº 1 - OTTOBRE/DICEMBRE 2006 Il 2010 è alle porte, ancora fin troppo da fare Area di libero scambio già conto alla rovescia Per i Paesi rivieraschi il futuro è il Mediterraneo i stringono i tempi e il conto alla rovescia verso il 2010, anno dell’apertura dell’area di libero scambio del Mediterraneo, si fa sempre più frenetico. Tante le cose che restano da fare e molti i ritardi accumulati negli ultimi anni dall’Unione Europea e dai suoi partners della sponda sud del Mediterraneo. Indubbiamente a frenare gli entusiasmi e i lavori legati all’apertura di questa importante area commerciale sono stati gli stravolgimenti di inizio secolo, conflitti territoriali compresi, ma se c’è un pregio indiscusso del percorso iniziato a Barcellona nell’oramai lontano 1995 (un’antica era geologica dal punto di vista politico, se si pensa a quello che è successo dal 2001 in poi) è proprio che il dialogo euromediterraneo è stato l’unico punto di incontro tra civiltà che molti, non del tutto disinteressatamente, vorrebbero vedere costantemente in conflitto. Ora che però è passato anche un lustro dal momento in cui George W. Bush ha iniziato quella che potremmo definire la sua “Gulf War” è giusto tirare le somme dei due approcci, sicuramente contrapposti nel metodo e nelle filosofie. E se si può partire da un aspetto non di poco conto possiamo notare come, tutti i paesi di matrice araba che partecipano all’area di integrazione euromediterranea siano quelli in cui l’integralismo terroristico ha avuto minor presa e questo anche grazie allo sviluppo dei rapporti con la comunità Europea. Compiendo un’analisi di tipo politico, si può notare che nei paesi membri del Processo di Barcellona la religione musulmana viene praticata in senso moderato e tollerante, con rifiuto netto dell’integralismo. Compiendo un monitoraggio completo della sponda meridionale del Mediterraneo, muovendosi da occidente verso oriente, si nota bene che Marocco e Tunisia sono gli esempi più evidenti di evoluzione in senso di tolleranza, avendo perfino approvato una legislazione del codice di famiglia in senso liberale, rifiutando concetti estremisti di tipo wahabita. La Tunisia ha abolito la poligamia, mentre il Marocco l’ha sottoposta a severe restrizioni. Altri due Stati decisamente impegnati contro il fanatismo religioso sono l’Algeria, che ha combattuto una lunga guerra contro il Fronte Islamico di salvezza (Fis), e la Libia, che ha mutato in modo netto la sua politica e ora guarda all’occidente. Proseguendo verso S oriente, si rileva che l’Egitto è un punto di riferimento affidabile per l’intero mondo occidentale, nonostante i limiti relativi alle libertà personali. Stesso discorso vale per la Giordania, spesso accusata di eccessiva acquiescenza nei confronti di americani ed europei. Per la Turchia il discorso è ancora più semplice, in quanto siamo di fronte a un paese che ha posto la lotta al radicalismo religioso come priorità fin dalla nascita della repubblica. L’unico Stato della sponda meridionale che presenta ancora problemi seri, sia in tema di sviluppo economico sia perché sospettato di appoggiare gruppi terroristi, è la Siria. Tale constatazione può essere spiegata con il mancato adeguamento di Damasco al processo di integrazione, avendo la Siria definito solo nell’autunno del 2004 l’accordo di associazione con l’UE, che ancora non è divenuto effettivo. L’integrazione Euromediterranea ha avuto profondo impatto, sia sotto il profilo economico sia dal punto di vista geopolitico, determinando un ampliamento dei confini del Medio Oriente. Qualche dato esemplificherà l’effetto di questi rapporti privilegiati. A partire dal 1995, l’attenzione dei Paesi arabi e delle potenze straniere, per tanti anni concentrata sul Golfo Persico, si è di nuovo spostata sul Mediterraneo. La prospettiva di beneficiare di importanti aiuti dall’Europa ha indotto gli arabi a creare una base per sviluppare un mercato comune. Nel 1998 è stato raggiunto un accordo per creare una “Area di Libero Scambio Panaraba” (Pafta). Tale progetto era, tuttavia, troppo ambizioso, volendo creare un’unione doganale fra 14 stati. È stato allora scelta una soluzione più limitata, che si è concretizzata nella “Dichiarazione di Agadir” del 2001. Tale intesa è divenuta un trattato internazionale il 25 febbraio 2004, quando quattro stati arabi (Egitto, Giordania, Tunisia e Marocco) hanno firmato l’accordo di Agadir. Il risultato è di grande rilievo poiché è una conseguenza diretta del processo Euromed, essendo tutti i quattro Paesi membri del progetto concepito nella città catalana del 1995. Il contributo dell’Ue ha consentito di realizzare importanti interventi nei paesi mediorientali che hanno aderito all’iniziativa. Marocco, Tunisia e Giordania hanno utilizzato i fondi per realizzare interventi di tipo strutturale. L’Egitto ha impiegato i contributi europei per costi- tuire un fondo finalizzato a creare posti di lavoro. Il Libano ha sfruttato i fondi per riformare la pubblica amministrazione. L’Autorità Nazionale Palestinese ha impiegato i contributi nel delicato settore delle risorse idriche. L’Algeria li ha destinati a misure per ridurre l’inquinamento e all’acquisto di apparecchiature speciali per gli aeroporti. La Turchia li ha investiti nella pubblica istruzione e nelle infrastrutture. Attraverso il programma Meda, lo strumento finanziario creato dall’Ue per sostenere la partnership Euromed, sono stati destinati alla sponda meridionale del Mare Nostrum quote importanti: 3,345 miliardi di euro nel periodo 1995-1999 e altri 5,35 miliardi di euro sono stati stanziati per il programma 2000-2006. A tali somme, già considerevoli, si deve aggiungere la partecipazione della Banca Europea degli Investimenti (BEI), che dal 1974 a oggi ha erogato finanziamenti per circa 14 miliardi di euro per incentivare lo nei paesi della sponda meridionale. Tutto bene quindi? Niente affatto, perché questo processo ha vissuto negli ultimi anni un sensibile rallentamento tanto da far prospettare a più d’uno osservatore che sia vicino un rinvio dell’apertura dell’area di libero scambio dal 2010 a data da destinarsi. Motivi di questo rallentamento si possono legare alle pastoie burocratiche di cui l’Unione Europea è da sempre maestra e con le quali ingabbia ogni possibilità di vero sviluppo che non sia firmato e controbbollato da un qualsiasi funzionario dell’organizzazione, ma anche per le caratteristiche che, con il passare degli anni hanno trasformato l’Unione nella sua natura stessa. Oggi la Ue è sempre meno legata al Mare Nostrum rispetto al passato. Nel 1957, anno di fondazione, l’allora Comunità Economica Europea (Cee) presentava una marcata impronta mediterranea. Su sei membri fondatori ve ne erano due che si affacciano sul Mare Nostrum, Francia e Italia, per di più di notevole peso politico ed economico. La Cee ha accentuato il suo carattere mediterraneo durante gli anni 80, quando entrarono nel club europeo Grecia, Spagna e Portogallo. Dopo quell’allargamento, la Cee (e poi la Ue) sono progressivamente divenute sempre meno mediterranee. Il grande allargamento del 2004 ha visto l’ingresso contemporaneo di dieci nuovi stati, quasi tutti facenti parte dell’Europa Orientale e Settentrionale a parte Malta e Cipro, realtà troppo piccole per bilanciare il peso dei più importanti stati ex sovietici. E questo ha provocato non pochi blocchi, basti pensare alle ultime vicende legato al percorso di ingresso della Turchia per rendersene conto. Il processo iniziato a Barcellona nel 1995 ha conosciuto il suo apice nel 2003, autentico anno d’oro del Mediterraneo giacché il turno di presidenza è stato appannaggio prima della Grecia e poi dell’Italia. Dopo la presidenza italiana la struttura Euromed ha rallentato il suo ritmo di sviluppo per ragioni fisiologiche. Presidenze quali Irlanda, Olanda, Lussemburgo, Regno Unito, Austria non hanno avuto interesse a rilanciare il Processo di Barcellona, che adesso vive una fase di impasse. Ma nonostante questo, il suo bilancio è nettamente positivo, soprattutto se raffrontato con il fallimento della visione bushiana che si sta rivelando sempre più agli occhi di tutti. Ma il rischio che le timidezze europee (o gli interessi dei paesi del nord Europa che perderebbe centralità a favore di quelli dell’area mediterranea) contribuiscano al fallimento del dialogo tra le due sponde del Mediterraneo è sempre dietro l’angolo. E il conto alla rovescia continua, implacabile. Marco Di Salvo Negli ultimi anni i tempi della politica e della diplomazia hanno avuto una forte accelerazione Turchia: il Papa apre, l’Europa frena e poi si scusa tempi della politica e della diplomazia sembrano aver preso un'accelerazione inattesa negli ultimi anni e le posizioni non sono più granitiche come quelle di una volta. Per cui si possono ritrovare nel giro di pochi mesi i protagonisti della politica internazionale a difendere posizione che prima erano appartenute ai propri avversari. È quello che è successo, ad esempio, nella vicenda della visita del Pontefice in Turchia. Una visita che si è svolta, a differenza di quanto temuto, nella più assoluta calma (quasi indifferenza) da parte della popolazione e che ha visto Benedetto XVI difendere e promuovere, seppure con toni pacati, il dialogo tra UE e il paese guidato dal premier Erdogan. I conflitti sorti dopo la lectio di Ratisbona sono d’un tratto svaniti e il premier ed il papa hanno posato insieme sorridenti. Sorrisi che si sono quasi subito gelati, quando si è appreso che la commissione europea guidata dal portoghese Barroso si preparava a consegnare un giudizio largamente negativo nei confronti del percorso riformistico che dovrebbe consentire al paese di entrare nell’Ue e che sembrano aver rallentato il loro percorso negli ultimi dodici mesi. Alle vibrate I proteste da parte del primo ministro e del responsabile degli esteri Gul nei confronti della proposta di congelamento da parte della commissione l’Unione Europea ha risposto imbarazzata e quasi facendo marcia indietro. Ha voluto ad esempio essere molto rassicurante il premier finlandese Matti Vanhanen, presidente di turno dell'Ue, nella sua visita lampo ad Ankara, solo due giorni dopo la pubblicazione della raccomandazione di Bruxelles, motivata con il persistente rifiuto turco di aprire i propri porti alle navi grecocipriote, in violazione del Trattato sull'unione doganale Turchia-Ue. “Si tratta solo di un incidente di percorso” ha minimizzato. Ma la contemporaneità del giudizio negativo con le aperture della Santa Sede hanno fanno sobbalzare più di un osservatore. Anche perché in un primo momento sembrava che fossero le frenate di natura religiosa a rallentare il percorso di dialogo tra Turchia ed Ue mentre a questo punto qualcos’altro dev’esserci sotto. Magari la manona di una Germania che guarda sempre più ad est e sempre meno al Mediterraneo per ampliare la cornice dell’Unione mantenendo la propria centralità. In fase avanzata i progetti avviati dalla III Conferenza di Catania tenutasi all’inizio dell’anno Già operativa la cooperazione universitaria tra l’Europa e i Paesi del sud Mediterraneo Rete di otto Centri di Eccellenza scaturita dagli accordi firmati a partire dal 2003 i rivedranno di nuovo nel 2008, sempre sotto il vulcano e per allora i progetti messi in moto alla terza Conferenza di Catania tenutasi all’inizio di quest’anno dovrebbero essere in piena attività. A meno di tre anni di distanza dal lancio del progetto di un'area di cooperazione universitaria che unisse l'Europa ai Paesi della sponda sud del Mediterraneo, avviato nel corso del Semestre italiano di Presidenza dell'Ue, diventa operativo lo Spazio euromediterraneo di Istruzione, Alta formazione e Ricerca. Con la dichiarazione congiunta firmata a Catania da 12 ministri dell'Istruzione e della Ricerca, su proposta dell’allora ministro Letizia Moratti, i Governi di Algeria, Egitto, Francia, Giordania, Grecia, Italia, Malta, Marocco, Slovenia, Spagna, Tunisia, Turchia si sono impegnati a promuovere la convergenza dell'architettura dei sistemi d'istruzione superiore dell'area euromediterranea, pur preser- S vando le specificità di ogni Paese, e a stabilire dei percorsi educativi e formativi comuni, basati su un sistema di crediti compatibili e trasferibili, e su qualifiche facilmente leggibili, riconoscibili e spendibili nel mondo del lavoro, condividendo per tali percorsi criteri e metodi di valutazione e di garanzia di qualità, in modo da facilitare la mobilità di studenti, ricercatori e docenti. Tali percorsi saranno implementati anche attraverso l'uso di nuove tecnologie e di metodi di e-learning. Hanno partecipato alla Conferenza di Catania anche i rappresentanti della Commissione europea e di altri Paesi dell'area euromediterranea e dell'Unione europea. Il percorso ha avuto inizio nel novembre 2003, quando a Catania furono presenti 5 ministri, 80 delegati e 20 università. A fine gennaio 2006 hanno partecipato a questa conferenza 12 ministri, 40 università e 200 delegati appartenenti a 16 Paesi, e, nel frattempo, è nata una rete di otto centri di eccellenza proprio dagli accordi firmati a partire dal 2003. In occasione dell’incontro di quest’anno sono stati anche firmati due accordi tecnici, che riguardano la nascita di un Centro di Alta formazione e ricerca sui Diritti umani, da istituire in Giordania presso la University of Jordan, e un Centro di Alta formazione e Ricerca sulla Circolazione giuridica nell'area mediterranea, da attivare a Istanbul. Questi centri si affiancano a quelli già attivati nel corso delle due precedenti Conferenze di Catania attraverso delle partnership tra Università e centri di ricerca italiani e i migliori atenei dei Paesi del Mediterraneo. Queste iniziative hanno ricevuto un sostegno finanziario da parte del Miur, nell'ambito delle proprie attività di internazionalizzazione (per le quali sono state stanziati 10 milioni di euro) o attraverso i fondi per la ricerca Firb e cominciano a produrre i primi risultati, con l'avvio di master e dottorati di ricerca congiunti e l'apertura di joint-laboratories su progetti d'interesse comune per i Paesi partner. In particolare, si tratta dei Centri in Scienza e Tecnologia dei Media, a Tunisi; E-Business, in Marocco; Cooperazione allo Sviluppo, nei Territori Palestinesi; Agroalimentare in Zone Aride, in Egitto; Ingegneria sismica-sismologia-sismotettonica-management dei disastri, in Turchia, Nanotecnologie, a Creta (Grecia). Nel 2008 si farà, sempre nella città siciliana, il punto della situazione dello sviluppo di questa che si presenta come una rete di cultura e conoscenza che dovrebbe rendere sempre più saldi i rapporti tra i Paesi delle due sponde del Mediterraneo. Mds Necessario creare una “zona franca integrale” per lo sviluppo degli interscambi commerciali Sollecitare interventi dell’UE per accelerare il processo di integrazione l 15 maggio 2006 si è compiuto il 60° anniversario dello Statuto Siciliano. Nato dall’impegno delle personalità politiche e culturali dell’epoca, è il frutto della mediazione tra chi spingeva verso l’autonomia completa e chi invece voleva una Regione integrata nello Stato Italiano. Lo Statuto concepito dal Parlamento Italiano, tra le fonti legislative italiane, ha lo stesso rango della Costituzione Italiana essendo stato sottoposto all’approvazione del Parlamento Nazionale che ha emanato la Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2 “Conversione in legge costituzionale dello Statuto della regione siciliana”, approvato con R.D.Lgs. 15 maggio 1946, n. 455. Con esso è stata pensata una Regione con competenze proprie in alcune materie Istituzionali (Sanità, Ordinamento degli Enti Territoriali, Commercio, etc.). La Regione Sicilia, in forza degli articoli 36 e 38 del proprio Statuto, possiede autonomia finanziaria riguardo l'istituzione di nuovi tributi o la emanazione di agevolazioni contributive per i tributi, ad esempio le imposte dirette, il cui gettito è destinato alla Regione stessa. A tal proposito, da ultimo, il dibattito politico per lo sviluppo economico isolano, si è spostato sulla “fiscalità di vantaggio”, la creazione della “zona franca integrale”e sulla creazione di nuove infrastrutture e istituti di credito. In quest’articolo affronteremo la questione relativa alla creazione di una “Zona franca”, ricomprensibile tra la fiscalità di vantaggio dedicata alle regioni del sud. Da tanto tempo si ritiene che la creazione di una “zona franca”(proposta fatta già dal Consiglio Provinciale di Caltanissetta ben 85 anni fa) di abbattere cioè le barriere doganali per la Sicilia porterebbe notevoli vantaggi all’economia isolana. L’istituzione, facendo fruttare le esperienze in essere, non potrà che essere ben regolamentata, programmata ed eco-compatibile. Fortemente e responsabilmente rispettosa di tutte le altre vocazioni del territorio, specialmente turisticaculturale, e che dovrà escludere ogni presenza di mafia e di speculatori di ogni tipo. E pertanto, a 60 anni dall’emanazione dello Statuto Siciliano ritorna di attualità la creazione di una “zona franca integrale”. La zona franca porterebbe notevoli benefici all’import-export siciliano, ma anche alle attività trainanti dell’economia, prima fra tutte il turismo. Oltre tutto, la I 2 creazione di un sistema fiscale agevolato andrebbe in linea con l’orientamento statale che vuole che ogni territorio regionale si gestisca prevalentemente con le risorse finanziarie ricavate dalla produzione del reddito prodotto a livello locale. La zona franca doganale e fiscale porterebbe, in primis, ad una esclusiva competenza regionale sul fronte dell'Entrata, tranne poche imposte residuali allo Stato Italiano, in secondo luogo, sul fronte della Spesa, la Sicilia garantirebbe direttamente ai propri cittadini la quasi totalità dei servizi pubblici, ancora una volta direttamente o per mezzo degli enti locali, senza chiedere nulla allo Stato. La Sicilia avrebbe già le risorse per fare da sé, creando autonomamente, anche una fiscalità di vantaggio per cittadini e imprese, e nel breve termine, con quest'ordinamento, recupererebbe anche il divario rispetto al resto d'Italia non dovendo, così, dover chiedere più aiuti o sussidi. Certamente, il progetto non è difficile da realizzare ma ha bisogno di un parlamento siciliano forte e coraggioso che, partendo dallo Statuto Regionale, riesca a organizzare e gestire un progetto serio di sviluppo socio-economico e sociale qual è la zona franca. Certamente, come ogni progetto innovativo per il territorio che dovrebbe accetarlo, esso avrebbe bisogno di una sperimentazione che potrebbe partire dalle città a forte economia turistica che avrebbero dal “no tax”un potenziamento dell’appetibilità del loro prodotto turistico. La Zona Franca, istituto riconosciuto anche dalle leggi fiscali europee che, in aree ben delimitate, consente abbattimenti tributari, previdenziali e normativi a favore delle imprese che vi vanno ad operare diventerebbe uno strumento innovativo perché introdurrebbe incentivi alla creazione di industrie che potrebbero, conseguentemente, incrementare il livello occupazionale della nostra regione e dell’Italia tutta. La Sicilia, pertanto, per potersi concretamente risollevare, così da contribuire paritariamente alle altre regioni italiane allo sviluppo nazionale, necessita di condizioni “speciali”: queste condizioni le possono essere offerte, così come è stato per le Fiandre, l’Irlanda, la Scozia, il Galles, la Corsica e, per ultime le Baleari, dal riconoscimento da parte della Comunità Europea del beneficio della Zona Franca. Con lo sviluppo economico dell’area del Mediterraneo. dovremo spostare più al Sud l’asse dello sviluppo comunitario per consentire lo scambio fra le due fondamentali aree di risorse: mercato e produzione. Il ruolo della Sicilia, così, assumerebbe una importanza strategica negli scambi tra le due realtà, passando da periferia a soggetto protagonista di una economia mediterranea. Sull’Isola sarebbero così orientati importanti investimenti sia nazionali sia stranieri che migliorando le condizioni economiche porterebbero maggiore sicurezza sull’avvenire dei nostri figli ed una migliore condizione di vita ai Siciliani. Giuseppe Spartà Un programma dell’Unione Europea con la partecipazione di 400 partner di trentacinque Paesi L’attuale obiettivo è il dialogo tra le culture Interessi comuni per trovare punti d’unione Una rete di università, enti governativi e privati per superare gli estremismi l dialogo tra le culture, una delle maggiori sfide del momento, passa anche per il patrimonio comune del Mediterraneo. Per promuoverlo e difenderlo l’Unione Europea all’interno del piano di progetti legati all’area Euromediterranea ha sviluppato il programma Euromed Heritage, che ha unito 400 partners dei 25 Paesi dell’Unione Europea e i dieci Paesi MEDA (Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Siria, Autorità Palestinese, Tunisia e Turchia). E’ una rete unica di università, musei, enti pubblici, associazioni culturali, organizzazioni non governative che lavorano insieme, superano gli estremismi e le roccaforti culturali e si scambiano esperienze e informazioni. Sono coinvolte 87 città da Aix en Provence, Albacete, Alessandria d’Egitto, Algeri, Amman, per finire con Valdemossa, la Valletta e Venezia. Euromed Heritage il programma europeo del valore totale di 57 milioni di Euro (di cui 17 milioni nella fase precedente, 1998-2002) mira a rafforzare la capacità dei Paesi mediterranei a gestire e sviluppare il proprio patrimonio culturale, è oggi coordinato da Roma presso l’Istituto per il Catalogo e la Documentazione del Ministero dei Beni e le Attività Culturali, che conferma così la sua vocazione euro-mediterranea, attraverso un’Unità di gestione e di supporto del programma (RMSU). L’affidamento dalla Commissione Europea è un riconoscimento alla politica di dialogo che l’Italia ha sempre sostenuto, appoggiando la Conferenza di Barcellona del 1995, dove al patrimonio culturale venne riconosciuta la caratteristica di essere un concreto campo d’azione per il rafforzamento della dimensione sociale, culturale e umana del Partenariato Euro-Mediterraneo. Il ministero dei Beni e delle attività culturali partecipa così agli obiettivi più ampi del Processo di Barcellona per un’accresciuta cooperazione regionale, e per il rafforzamento della dimensione regionale dei programmi finanziati da MEDA. Delta, Prodecom, Filières Innovantes, Navigation du Savoir, Mediterranean Voices, Medimuses, Temper, Patrimoines Partagés, Ikonos, Unimed Cultural Heritage, Defence Systems, Discover Islamic Art, Defence Systems on the Mediterranean Coasts, Rehabimed, Byzantium Early Islam e Qantara sono i 16 progetti che fanno parte della seconda e della terza fase de programma e affrontano tutti i campi della cultura mediterranea, dall’architettura alla musica, dall’uso degli arsenali all’artigianato, dai prodotti tipici alla preistoria, dai mosaici alle fortezze, dall’arte islamica al recupero dei palazzi del XIX secolo. Uno dei progetti principali è “Adotta il patrimonio mediterraneo”nato per favorire i contatti tra i promotori culturali del patrimonio mediterraneo a rischio e gli investitori internazionali interessati a finanziarne, per esempio, il restauro, la conservazione o la valorizzazione. Non si tratta dunque di un finanziamento europeo diretto ma di una iniziativa che promuove il partenariato tra il pubblico e il privato, consapevole del contributo strategico che il patrimonio culturale può offrire allo sviluppo economico e sociale di un Paese. Gli elementi del patrimonio culturale oggetto dell’adozione devono essere situati in uno dei Paesi mediterranei partner (Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Autorità Palestinese, Siria, Tunisia e Turchia). Inoltre, per questa prima edizione, potrà essere ammesso a candidatura solo il patrimonio tangibile: monumenti, edifici e città storiche, siti archeologici, paesaggi culturali, ma anche sculture, dipinti, oggetti d’arte, manoscritti o strumenti di musica antica. L’iniziativa è gestita dall’Unità regionale di gestione e supporto (RMSU) del programma Euromed Heritage. I Mds 3 Un saldo improntato al segno “meno” nonostante il lungo percorso di integrazione Nell’import/export con le nazioni rivierasche negativa per la Sicilia la prospettiva del 2010 Struttura imprenditoriale debole per affrontare le sfide nell’area di libero scambio dati relativi all’import-export con i Paesi dell’area euromediterranea della nostra regione non fanno ben sperare nella prospettiva 2010. Infatti, nonostante il percorso di integrazione sia in atto oramai da più di un decennio, il saldo del nostro territorio risulta sempre improntato al segno meno. Colpa sicuramente dell’importazione dei prodotti minerari/petroliferi (che servono a tutto il territorio, ma nelle statistiche sono rubricati a carico della provincia di Trapani) ma anche a causa di una struttura imprenditoriale ancora troppo debole per poter essere certa di affrontare le sfide I prossime venture senza finirne schiacciata. Da questo punto sono esemplificative le tabelle che pubblichiamo in questa pagina e che sono state elaborate dalla Camera di Commercio di Milano. In sostanza, la Sicilia esporta poco perché produce poco in generale e ancor meno per il mercato mediterraneo e non dispone di una rete commerciale adeguata alle nuove esigenze della distribuzione su vasta scala. Dalle statistiche presentate e dal confronto fra regioni, si evidenzia la marginalità dell’Isola nelle esportazioni verso il mer- cato mediterraneo. Può sembrare un paradosso, ma Milano è la prima provincia per grado di mediterraneità (un mix d’indicatori che vanno dai valori dell’export al numero d’imprese interessate) seguita da Bologna, Pavia, Vicenza, Treviso. Palermo, che ogni tanto qualcuno candida a “capitale del Mediterraneo”, si trova al 78° posto, dopo Catania al 54° e Messina al 60°. Fra le province siciliane quelle che più si avvicinano alla vetta della classifica troviamo Siracusa (9° posto) e Trapani (29°). D’altra parte, basta dare uno sguardo ai flussi dell’interscambio globale siciliano con l’estero per accorgersi come il peso della nostra Regione sia davvero aleatorio e distorto, nel senso che la Sicilia continua ad essere caricata di un'importazione esorbitante di idrocarburi, senza averne vantaggio sul terreno dell’export. Il rischio è sotto gli occhi di tutti e si materializza nell’ennesimo treno che l’Isola rischia di perdere. Anche perché di questi tempi, non è difficile scavalcare un’isola, seppur al centro del Mediterraneo, per arrivare sull’altra sponda e commerciare. Mds Così gli scambi con i Paesi del Mediterraneo EUROPA MEDITERRANEO Iscritto al n° 27/2004 dell’apposito Registro presso il Tribunale di Catania Editore: Mare Nostrum Edizioni Srl Amministratore delegato: Francesco Dato Direttore responsabile: Salvatore Barbagallo Redazione: Catania - Via Distefano n° 25 - Tel/fax 095 533835 E-mail: [email protected] Stampa: Litocon Srl - Z.I. Catania - Tel. 095 291862 Anno II, nº 1 - Ottobre/Dicembre 2006 4 LA VOCE DELL’ISOLA 23 dicembre 2006 7 LA VOCE DELL’ISOLA 8 23 dicembre 2006 La malavita organizzata ha saputo cogliere l’opportunità della globalizzazione dei mercati Ormai siamo finiti nell’occhio del drago Sotterranea, ma visibile, l’invasione dei cinesi In Sicilia sono già perfettamente inseriti nel tessuto commerciale I primi cittadini cinesi arrivarono in Italia durante la II guerra mondiale: oggi, dopo le ultime sanatorie ne risultano residenti circa 50mila. Che ruolo ha nella loro comunità la malavita organizzata? Come viene gestito il forte flusso di clandestini verso il nostro Paese? Dalla ricerca “Nuove mafie ed economia”, realizzata dalla Polizia di Stato con la collaborazione dell’Università Bocconi di Milano, emerge l’importanza che la cooperazione tra le autorità di polizia e gli esperti di analisi economica per il raggiungimento di un fine comune: analizzare per poter prevenire e reprimere la criminalità a livello nazionale ed internazionale. “La spinta della malavita organizzata” ha saputo cogliere con prontezza le opportunità offerte dell’internazionalizzazione dei mercati commerciali e finanziari, dall’abbattimento dei confini, dai progressi scientifici e tecnologici e dai nuovi scenari geopolitici mondiali ampliando lo spettro delle attività illecite e proiettando la propria influenza su aree territoriali sempre più vaste. Partendo dalla criminalità organizzata cinese, che comprende il narcotraffico, il commercio degli esseri umani, il “lavaggio” dei capitali. Le prime presenze di cittadini cinesi nel nostro Paese risalgono alla seconda guerra mondiale, quando un certo numero di operai si trasferì nel centronord della Penisola, per la costruzione della cosiddetta “Linea Maginot”. Questi operai sarebbero dovuti rientrare nella loro patria, ma rimasero invece in Italia e furono rinchiusi in campi di concentramento fino alla fine della guerra. Negli anni successivi la comunità cinese è rimasta isolata dalla nazione di origine, anche a causa della chiusura della Cina all’Occidente, così i cittadini di origine cinese si sono sistemati a Roma e a Milano dove Aggravata la dimensione internazionale dei traffici illeciti in materia di ambiente L’ecomafia va oltre le frontiere di PEPPE RUGGIERO N ell’era della mondializzazione si aggrava la dimensione internazionale dei traffici illeciti in materia d’ambiente, da quello dei rifiuti a quello della specie animali protette, passando attraverso il traffico di legnami pregiati: lo denuncia l’ultimo “Rapporto Ecomafia” di Legambiente, presentato a Roma lo scorso giugno. Tecno-spazzatura. La Cina è diventata il nuovo “Eldorado” dei traffici internazionali di rifiuti. Erano diretti proprio nel Paese asiatico i container sequestrati in diversi porti italiani, carichi di rifiuti speciali “camuffati” da materiale da avviare formalmente ad attività di recicleggio. Lo stesso trucco è stato utilizzato da società inglesi che trafficavano rifiuti verso la Cina attraverso il porto di Rotterdam (oltre mille tonnellate sequestrate in una sola operazione). Commentando l’inchiesta, un portavoce del Governo olandese non ha usato mezzi termini: ”Crediamo che questa sia soltanto la punta dell’iceberg di uno scandalo a livello europeo, che vede diverse società operare in rete per abbattere i costi di smaltimento dei rifiuti”. E sempre la Cina si conferma come una sorta di “discarica globale” dei rifiuti elettronici. Un giro d’affari impressionante: le ultime stime dell’Unione Europea si attestano su 11 milioni di tonnellate annue di tecno-spazzatura da smaltire. Nei porti cinesi in particolare quello di Hong Kong, arrivano container da tutto il mondo; Stati Uniti e Giappone in testa. Le indagini eseguite dall’Agenzia delle Dogane rilevano anche l’esistenza di rotte di traffici di rifiuti ritenute abbandonate, come per esempio quello verso l’Africa. I servizi antifrode hanno sequestrato in soli sei mesi (ottobre 2005-marzo 2006) ben 270 container in partenza da cinque porti italiani (Gioia Tauro, Venezia, Taranto, Salerno e Civitavecchia). La maggior parte era diretta verso la Cina, ma tra i Paesi di destinazione sono emersi anche India, Senegal e Ghana. Contrabbando di foreste. Rifiuti dall’Italia verso l’Africa e, lungo la rotta inversa, centinaia di tonnellate di legname, contaminato da diossina, sequestrate alle nostre frontiere. Il mercato illegale del legno è un fenomeno in forte espansione; il suo giro d’affari è stimato circa 150 miliardi di dollari l’anno. Almeno il 50% dei prelievi nel bacino amazzonico, in Africa centrale e nel Sud-est asiatico, è illegale. Spariscono foreste tropicali e, contemporaneamente, crescono i traffici di specie protette, animali e vegetali. Anche in questo caso i numeri aiutano a capire meglio: il commercio illegale di flora e fauna è stimato ogni anno a circa 7 miliardi di euro e contemporaneamente è la causa diretta dell’estinzione di circa 100 specie animali. In Colombia, secondo l’inchiesta condotta dall’associazione Ecofondo, sono stati sequestrati dal 1992 al 1998 oltre 100 mila esemplari, per il 46% volatili (in maggioranza pappagalli), specie quasi tutte iscritte nella “lista rossa” a rischio estinzione. Animali destinati in prevalenza al ricco mercato statunitense. Anche l’Italia fa la sua parte: il Corpo Forestale dello Stato sequestra ogni anno circa 10 mila animali vivi nel corso di controlli doganali sul commercio di specie esotiche. Settori diversi, ma unica matrice: l’esistenza di vere e proprie holding a servizio di ogni forma di economia criminale. hanno aperto alcuni ristoranti. In seguito alle sanatorie applicate negli anni, volute dai governi succedutesi negli anni e a una maggiore”apertura” della Cina verso l’Occidente, il numero ei cittadini cinesi è cresciuto di anno in anno e il loro ingresso in Italia è stato favorito dalle organizzazioni criminali cinesi dedide all’immigrazione clandestina. La comunità cinese è diventata quindi sempre più grande e ha occupato ampi territori, tanto che oggi vi sono interi quartieri cinesi. Nel settore produttivo la criminalità cinese ha, nel tempo, rilevato da imprenditori italiani, costretti a chiudere le loro attività, un gran numero di ristoranti, laboratori, negozi. Grazie ad alcune indagini svolte dalle Forze dell’Ordine, quando si ebbero, nel ‘90, i primi scontri tra organizzazioni criminali cinesi per il controllo del traffico di clandestini, si sono potute ricostruire le rotte utilizzate e il modus operanti dei gruppi criminali. Coloro che dalla Cina intendono emigrare clandestinamente si rivolgono ad un membro della “banda” che si può facilmente incontrare nei mercati di Yuhu e di Wencheng o presso la stazione degli autobus di Wenzhou. Una volta stabiliti i contatti, ai futuri clandestini viene chiesto se hanno parenti all’estero e in quali Paesi intendono emigrare. In seguito viene concordato il prezzo dell’operazione. La cifra pattuita in relazione al grado di conoscenza delle famiglie dei “viaggiatori” ed alla loro affidabilità. La criminalità cinese procura i documenti necessari, dal passaporto alla carta d’identità, tutti originali poiché rilasciati dalle autorità, anche se le generalità sono false. Una volta che i clandestini arrivano a destinazione il passaporto e tutti gli altri documenti vengono ritirati dai loro “accompagnatori”. All’inizio del loro viaggio i clandestini, dopo aver passato il primo confine, soggiornano per un certo periodo di tempo a Mosca o in altre città dell’Est europeo in attesa di essere divisi in sottogruppi e “smistati” per le varie destinazioni. Una volta oltrepassato il confine terrestre, i clandestini si ricongiungono a coloro che li hanno accompagnati. Dopo la cosiddetta sanatoria, la comunità cinese si è distribuita soprattutto nelle zone già “occupate” dai concittadini provenienti dalla stessa provincia o addirittura dalla stessa città. Le regioni italiane nelle quali è stato rilasciato il maggior numero di soggiorno ai cittadini cinesi sono la Lombardia, la Toscana, il Lazio, l’Emilia Romagna, il Veneto, il Piemonte. Un numero sempre più crescente lo troviamo anche in altre regioni italiane e la Sicilia non è da meno, basta girare tra i banchi della fiera di Catania e tra le vie limitrofe e non solo per capire come i cinesi si sono radicati nella nostra terra. LA VOCE DELL’ISOLA 9 23 dicembre 2006 A distanza di decenni dai primi insediamenti si registrano malformazioni e malattie incurabili Lo scempio del territorio siracusano I danni prodotti dall’industria petrolchimica Anche le discariche per i rifiuti tossici rendono grave la situazione di GIANNI TOMASELLI N on è certo impresa facile tracciare un quadro chiaro della gestione dei rifiuti speciali (i rifiuti tossici, cioè) nella regione Sicilia. L’unico dato certo e inconfutabile, è quello che riguarda le cause di decesso registrate nella provincia di Siracusa provocate da mesotelioma pleurico. Il killer che ha falcidiato, e continua a mietere vittime a distanza di oltre 20 anni, è l’asbesto, commercialmente chiamato amianto. Appare più preoccupante anche lo scenario che si incomincia a delineare in merito agli interventi dal Piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Siracusa, istituito dai Comuni di Augusta, Priolo, Melilli, previsti dal Dpr 17 gennaio 1995. Questo Piano fa seguito alla Deliberazione del Consiglio dei ministri adottata il 30 novembre 1990, per la quale il territorio della provincia di Siracusa e Caltanissetta furono dichiarate aree ad alto rischio di crisi ambientale. Il Piano, relativamente al problema dei rifiuti tossici e nocivi (amianto, fanghi mercurici, etc.) stoccati ancora presso grossi insediamenti industriali, (leggasi Enichem di Siracusa) e a quello della bonifica dei siti contaminati, prevede strutture di smaltimento che al momento sono del tutto inesistenti, anche se il ministero dell’Ambiente ha già emesso i bandi di gara per dare il via alle operazioni preliminari del Piano. Buona parte di questi rifiuti hanno, tra l’altro, trasformato i nostri fondali marini della riviera in “immondezzai sottomarini”, dove le fiorenti praterie di posidonia hanno ceduto il posto ad aride distese di fanghiglia prive di vita. Buona parte dell’amianto smantellato nel territorio regionale ha un’unica destinazione, quella in contrada Bagali, nel territorio di Melilli. A questa discarica vengono conferite notevoli quantità di amianto che dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) subire un trattamento di inertizzazione. Il tutto in barba alle più elementari norme di sicurezza per gli operatori addetti e alle conseguenze per la salute degli abitanti delle zone limitrofe alla discarica. E dire che questi rifiuti altamente letali, non sono solo il frutto di scarti delle industrie della provincia di Siracusa, ma la maggior parte provengono dalle caserme del Genio Militare di Messina, dalle Centrali Enel del territorio regionale, dall’Enichem di Siracusa e da piccole raffinerie e impianti petroliferi del siracusano, come se già il tasso d’inquinamento esistente fosse insufficiente. Una vergogna! La provincia di Siracusa, uno dei territori più significativi dal punto di vista archeologico e paesaggistico della Sicilia, è stata trasformata in una pericolosa pattumiera, a dispetto di tutto e di tutti. Mai nessuno si è attribuito responsabilità. A tal proposito: la politica ha favorito questo disastro umano ed ecologico, le amministrazioni locali e regionali hanno incentivato lo scempio a cui assistiamo, la magistratura ha tirato il freno a mano, anziché pigiare sull’acceleratore e mandare in carcere i responsabili di questo irreversibile disastro. Nessuno si è occupato degli otre 5000 casi presentati negli uffici dell’Inail del capoluogo aretuseo. Anche negli uffici dell’Inail il tempo sembra essersi fermato. Il pesante ritardo con cui l’Istituto gestisce una vicenda che interessa i lavoratori beneficiari del provvedimento che tutela i malcapitati affetti da neoplasie ai polmoni, dovrebbe essere sufficiente testimonianza della convivenza generale e dell’inefficienza dei servizi. L’Inail, quantomeno, dovrebbe dare risposta immediata a tutte le pratiche presentate da coloro che sono stati colpiti da malattie particolari provocate dal lavoro che i esponeva alle esalazioni dell’amianto. Il diritto dei lavoratori, non può essere vanificato dalla presunta lentezza delle procedure. In alcuni casi, è documentato, qualche lavoratore non è riuscito ad essere risarcito per la malattia acquisita sul posto di lavoro, perché nel frattempo è passato a miglior vita. Altra vergogna! Non si capisce, a questo punto, come il territorio siracusano possa fregiarsi dell’onoreficenza Unesco quando la maggior parte del suo patrimonio ambientale è soggetto a danni sfregi che ben difficilmente possono essere sanati: La ricchezza che in tanti, tra gli anni ‘60 e ’80, hanno cercato e ottenuto dalle nostre coste, dai nostri litorali, creando i poli industriali (con la complicità di amministratori che hanno elargito autorizzazioni senza le dovute garanzie del rispetto dell’eco sistema e dell’uomo) si è trasformata in male per la collettività. C’è da chiedersi se la “industrializzazione” fosse stata di altra natura, fatta da insediamenti balneari, con catene di alberghi e luoghi di relax, in attività per l’intero anno, grazie al clima mite mediterraneo. C’è da chiedersi quanti posti di lavoro avrebbe potuto creare l’industria turistica, supportata dalle nostre tradizioni enogastronomiche e culturali. C’è da chiedersi quante vite umane sarebbero state salvate. Invece assistiamo al veloce declino del territorio e al degrado della vita dell’uomo. Se Augusta soffre, Gela non ride Le conseguenze dell’inquinamento di GIUSEPPE PARISI L aura Malandrino sul giornale “L’Avvenire”, il solo quotidiano a tiratura nazionale che ha avuto il coraggio di pubblicare i servizi della nostra collega, ha fornito una serie di tre suoi articoli, assai forti per i contenuti in quanto ha osato parlare a chiare note sull'inquinamento del petrolchimico di Gela e altro. Si riportano per i nostri lettori alcuni passaggi dei citati pezzi: “Petrolchimico nel mirino... I dati parlano chiaro: il rischio di tumori e malformazioni a Gela è il doppio della media nazionale…”. Anche la ricerca effettuata dai tecnici nominati dalla Procura della Repubblica di Gela ha rilevato che tra il 1990 e il 2002 nella cittadina industriale si sono registrati 398 casi (su 10.000) di individui con irregolarità cardiovascolari, al sistema nervoso, digerente e urinario, cioè circa il doppio dei casi rispetto a quelli catalogati a livello nazionale (205 su 10.000). Anche le difformità cromosomiche non sono da meno registrandosi infatti un buon 60 per cento in più circa, sia rispetto al resto della Sicilia che d’Italia. Non sfugge all’analisi, un altro importante episodio anche se di natura squisitamente civile e politica e cioè una nuova presa di coscienza dei cittadini gelesi di fronte a questi allarmanti avvenimenti che non consentono più d’essere sottaciuti neanche dagli amministratori, che non hanno alcun titolo per sacrificare o barattare la salute degli amministrati con il posto di lavoro quando questi risulta (con dati alla mano e non a chiacchiere) pericoloso, ad alto rischio e spesso anche mortale. Dati allarmanti, quelli appena riportati, che il sindaco di Gela, Crocetta, non ha potuto eludere (sicuramente diciamo noi, conoscendo l’uomo, non ne aveva neanche l’intenzione) tant’è che si è deciso di far costituire il Comune parte civile nei processi per inquinamento e danno biologico. Laura Malandrino continua: ”Da parte nostra non c'è nessuna criminalizzazione del Petrolchimico, quell'industria è la principale fonte di occupazione per la nostra gente”. Affermazione che la dice lunga sull’attuale posizione dibattuta dei gelesi. Per cambiare sito, con un altro a noi più vicino, ci giunge un’altra amara constatazione, che è di don Palmiro Priscutto, da 28 anni sacerdote e da 14 assegnato alla parrocchia san Nicola nella frazione Brucoli di Augusta: :” Ora le mamme sono pronte a scendere in piazza… Ho visto il mare di casa mia cambiare colore. Fino agli anni Sessanta era azzur- ro, color pavone, come lo descrive Tomasi di Lampedusa. Una delle coste più belle della Sicilia sud orientale. Poi, pian piano, l'ho vista diventare del colore caffellatte". La situazione in questo piccolo centro isolano iniziò a cambiare dagli inizi degli anni ’80, quando si constatò una certa moria di pesci, episodio che tendeva a divenire costante, mentre nel reparto di pediatria dell'ospedale Muscatello di Augusta le gestanti iniziarono a dare alla luce bambini malformati. "Nelle nostre case è entrata la sofferenza - continua il sacerdote - Eppure la gente non ha saputo reagire a quello che stava succedendo. Facile capirne la ragione: la paura di perdere il posto di lavoro". C’e anche da dire a onor di cronaca che per Augusta transita più del 50 per cento del petrolio italiano, per un valore di 18 miliardi di euro ogni anno; e che il 100% per cento del carburante con cui si alzano in cielo le flotte aeree del nostro Paese viene proprio dalle nostre raffinerie siciliane. Giacinto Franco, dal 1969 primario del reparto pediatria dell'ospedale di Augusta, afferma: “…Ancora oggi il problema più grave è il "ricatto" occupazionale. Basta pensare a quello che una volta ho sentito con le mie orecchie dalla bocca di un malato terminale nel reparto di oncologi. Dopo tre mesi di sofferenze atroci per un tumore ai polmoni per cause professionali, mi ha sussurrato: Preferisco morire di tumore lasciando la mia famiglia con la pancia piena, piuttosto che morire zappando la terra, lasciando i miei cari con la pancia vuota”. Pochi commenti a queste parole. A noi pare però che da parte di certi politici, che da anni si sono impinguati, ammaliando tanti con la chimera del posto di lavoro, utilizzando il ricatto occupazionale come merce di scambio forzato per il voto, non vogliono proprio saperne di prendere atto di queste tristi situazioni e correre, quantomeno, ai ripari. A parole si, forse, mentre nei fatti li stiamo ancora aspettando. Noi siamo convinti che queste statistiche possano avere non solo valore orientativo, valide per la ricerca sulle cause del fenomeno, ma che abbiano anche un nesso logico fra causa ed effetto, costituendo elementi probatori fra un prima e un dopo, e che indagini serie ed approfondite debbano comunque essere compiute. I politici nazionali, regionali, provinciali e locali, sanno benissimo cosa c’è dietro il polo industriale di Gela e di Augusta, a partire dalle tasse che a noi risulta vengano pagate in luoghi lontani del nord italia. Oggi, diciamo noi, e non domani, la situazione deve essere chiarita. Non si può più ordinare ai siciliani “giù la testa” d’avanti agli interessi di pochi. In un precedente articolo avevamo detto che l’ultimo, grave episodio verificatosi in ordine di tempo, quello dell’incendio nello stabilimento della Erg, poteva provocare un disastro ecologico, ma non abbiamo parlato della fortissima “paura” provata l’estate scorsa dagli abitanti di Melilli, tappati in casa, e degli automobilisti di passaggio terrorizzati dalle altissime nuvole di fumo e fuoco che si sollevava lungo la statale 114, e della stomachevole “puzza oleosa”, che per giorni e giorni ha aleggiato sul territorio. Nelle pagine di un altro giornale, “Informa Sicilia”, abbiamo anche scritto che attendevamo sull’accaduto gli esiti di inchieste, seppur solo conoscitive, da parte della Provincia, del Comune e i chiarimenti da parte dell’assessore siracusano Vinciullo, o anche da parte della Procura della Repubblica e, di certo e comunque, non attendevamo chiarimenti da parte della Erg che, comprensibilmente, si è limitata a diramare sull’episodio laconici comunicati stampa, che non sono serviti a nulla. Noi non dobbiamo essere solo buoni per correre dall’esterno ai ripari, in aiuto di questi stabilimenti di multinazionali, con i nostri valorosi uomini e con i mezzi della Protezione civile, pompieri in testa. Noi abbiamo ben diritto di sapere cosa c’è sotto il perpetuarsi di questi incidenti. Se è vero che la “trasparenza” è ormai consolidata in questa democrazia, non si capisce perchè non si debba applicare anche in queste circostanze devastanti. LA VOCE DELL’ISOLA 10 23 dicembre 2006 Catania - C’è chi lavora in regime di sovvenzioni e chi non ha mai visto un euro di contributo Teatro e Musica “minori” sopravvivono umiliati dall’assenza degli Enti pubblici Benincasa: “Difficile operare senza la collaborazione delle Istituzioni” di FRANCO DISTEFANO «Per l’attività in programma si auspica l’intervento della Regione Siciliana, della Provincia di Catania e del Comune»: ecco la parola d’ordine degli operatori culturali a Catania. Un po’ provocazione. Un po’ vittimismo. Un po’ specchio della situazione di disagio che vive chi opera nel settore. La situazione è complessa. Nel capoluogo etneo esistono oltre venti teatri e svariate associazioni che operano nel settore musicale. Per tutte, la “musica” è la stessa. Dei distinguo vanno fatti. C’è chi in città lavora in regime di sovvenzione e chi non ha mai visto un euro di provenienza pubblica. C’è chi fa attività rivolta al pubblico e chi, per propria scelta, si rivolge solo a delle elite, con spettacoli che, per numero di spettatori e costo dei biglietti, si situano immediatamente al di fuori del mercato. Per tanti che decidono di ampliare la propria offerta, ce ne sono altrettanti che chiudono. Il caso che l’anno scorso creò maggior scalpore fu la chiusura del “Camera teatro studio” diretto da Nino Romeo. Il motivo? Mancanza di sostegno economico da parte delle Istituzioni. La decisione di sbarrare le porte del piccolo teatro di viale Mario Rapisardi, fu accompagnata così in maniera provocatoria da una “festa di chiusura”. In tanti erano presenti. Buona parte della stampa denunciò la gravità del fatto. Non era possibile che si permettesse la chiusura del CTS. Ad osservare i fatti, nasce spontanea una domanda: il perché della chiusura. A cosa servono le sovvenzioni di cui si ha così bisogno e che tanti richiedono? Il quesito sorse spontaneo proprio al CTS lo scorso anno. Allo spettacolo “Post Mortem”: in sala, nei giorni successivi al debutto, solo pochissime persone, all’incirca sette. Pressappoco sono gli stessi numeri in cui ci s’imbatte normalmente in molti altri piccoli teatri catanesi. Come può un teatro Un momento dello spettacolo “L’Ispettore” di Gogol, messo in scena dal “Teatro del Canovaccio” lavorare con dei numeri così piccoli? Questo non è solo un problema dell’ex CTS, anche altre strutture in città lavorano con gli stessi numeri. Solo c’è chi, anche con pochi spettatori, sopravvive, c’è chi chiude. Un esempio positivo è quello del teatro del “Canovaccio”. La scorsa stagione quasi il tutto esaurito ad ogni spettacolo, l’anno prossimo addirittura amplierà la sala, i posti a sedere passeranno da cinquanta a cento. Da sottolineare: la programmazione del “Canovaccio” non è né di taglio popolare, né tanto meno dialettale. Di fronte alla gestione accorta che alcuni gruppi fanno delle proprie entrate, perché finanziare spettacoli che, per il proprio taglio, sono destinati solo a pochi? Quando la cultura va sostenuta, pur se l’attività che si conduce è chiaramente anti-economica? E’ una domanda non da poco. Il dena- ro con cui si aiuta il mondo del teatro è pur sempre di provenienza pubblica. Come può essere che alcune Compagnie lavorano, pur se con molte difficoltà, senza sostegno pubblico, mentre altre, con il denaro pubblico, non sono riuscite più ad andare avanti. A testimoniarlo è Salvo Musumeci, promotore del “Teatro del Canovaccio”, piccola ma interessante realtà teatrale cittadina. Non è di certo un’analisi imparziale, in quanto proveniente dallo stesso mondo che si cerca di analizzare, ma pur sempre il punto di vista di chi lavora nel settore. Così si esprime Salvo Musumeci: «Lo scorso anno sono andato in un Comune etneo per proporre loro la messa in scena di uno spettacolo di Pirandello; un lavoro che puoi tranquillamente presentare in una rassegna. Mi presento al Comune e dico loro che ci occorrevano tremila euro, service compreso. Un prezzo modesto. A tutti era garantito il minimo. Loro mi hanno risposto che non avevano quella cifra e che mi potevano offrire 1500 euro. Noi non ci arrivavamo a coprire le spese. Poi arriva lì un’altra Compagnia e gli comprano lo spettacolo per 11mila euro. Così ci sono gruppi, legati all’area popolare, che lavorano con queste cifre. Vi sono anche Compagnie che faticano. Altri ancora che vanno avanti con le sovvenzioni, privi d’interesse ad incrementare il pubblico, perché vivevano con il sostegno statale. Poi quando la vacca è stata munta, hanno iniziato a fare le vittime». Ambiente un po’ più protetto è quello del teatro ufficiale, strutture istituzionalizzate che guardano con meno preoccupazione al futuro. Anche qui non sono rose e fiori, specialmente per gli attori professionisti. «In Sicilia racconta Fabio Monti, attore e regista Un accorato appello alle competenti autorità prima della completa distruzione Carlentini: salviamo il Palmento Ferrarotto L’antico opificio enologico è già sottoposto a vincolo architettonico I La Cantina del Palmento Ferrarotto l Signore Filadelfo Pizzolo ha inviato un Sos a tutte le competenti autorità (dal ministero ai Beni culturali, al presidente della Regione Siciliana) affinché venga salvato dal degrado il “Palmento Ferrarotto”, in contrada Mercadante a Carlentini. Ecco il messaggio che il signor Pizzolo ha diramato: Il “Palmento Ferrarotto” monumentale (mq. 800), antico opificio enologico, prototipo di architettura industriale dell’ottocento, dal 1997 è sottoposto a “vincolo architettonico” con D.A. n.5486 Regione Sicilia, per notevole importanza storica. Per le sue caratteristiche potrebbe essere utilizzato come contenitore culturale (mostre, convegni, museo etnoantropologico etc.) ed offrire reali opportunità di lavoro per tanti giovani disoccupati. Purtroppo versa in precario stato di agibilità, rischia la completa distruzione, Se parte della copertura (costituita da monumentali capriate) crolla, evento che si può verificare da un momento all’altro, il processo di degrado si accelererà. Gli enti come la Soprintendenza, la Regione, la Provincia, il Comune, sono a conoscenza delle dette opportunità ma, anche, dei pericoli che corre, eppure, di fatto, insensibili ad ogni sollecito, non hanno mai mosso un dito per salvaguardarlo e renderlo usufruibile. Personalmente, in passato, ho provveduto alla sua manutenzione, svenandomi economicamente.Ades- so non sono più in grado di farlo. La rabbia accumulata e l’amore per il sito m’ indurrebbe ad usare parole forti per scuotere l’ indifferenza degli amministratori ma, visto che tutte le mie pregresse, decennali sollecitazioni sono finite nel nulla, in questa sede mi limiterò ad invitare, per l’ultimissima volta: la Regione Siciliana, il Presidente della Provincia, il Sindaco di Carlentini, la Soprintendenza di Siracusa, a prendersi cura del monumento in forma immediata, se non vogliono che venga dispersa l’ultima rappresentazione della civiltà contadina ed industriale dell’ottocento, così com’è accaduto per altre decine di antiche testimonianze che sino a trent’anni fa erano sparsi lungo il pendio ovest del monte Pancali, tipo frontoi, stalle, magazzini, piccole coorti, ecc., delle quali non rimane traccia alcuna. Un’ultima annotazione: se gli enti pubblici, cui è destinato l’invito, hanno in mente di giustificare la loro inerzia “piangendo miseria” li prego vivamente di non farlo. Seguendo La trasmissione di Rai TRE e ““Reporter” che tratta degli “sprechi” della P.A. mi sono convinto che quella “balla” non regge più. La salvaguardia del Palmento è impegno prioritario oltre che dovere civico e morale. Qualsiasi giustificazione è inopportuna e sintomo di disamore per le proprie radici. Se questo Sos resterà inascoltato, abbandonerò il Palmento al proprio destino, con buona pace di tutti. catanese - tutti devono essere dei boss. Se c’è qualcuno che emerge si cerca di ucciderlo nella culla». Questo in ambito teatrale in maniera particolare? «No. Paradossalmente, qui a Catania meno che in altri posti della Sicilia». Ma è difficile entrare nei circuiti ufficiali? «Impossibile». Chi è che riesce ad entrarci? «Chi c’è già dentro. E’ come se chiedi ad uno che lavora in un ente pubblico come sia riuscito a farsi assumere. Questa è una cosa che a Milano non c’è; non solo nell’ambito dello spettacolo, ma in generale. Se io valgo mi assumono perché loro guadagnano di più. Qui c’è come la paura che poi un domani chi vale possa scalzare chi occupa determinati posti. Prima o poi tutto il sistema crollerà, appena comunque qualche ente non vorrà pagare i buchi di bilancio». Passando dal teatro al mondo della musica, le parole non cambiano. L’anno scorso vi fu la protesta delle grosse agenzie di management eventi. Adesso, è “Catania Jazz” a minacciare la chiusura. «Non si può ancora tirare avanti così - spiega Pompeo Benincasa, direttore artistico di “Catania Jazz” -. Non si può fare attività per tanti anni senza avere alcuna collaborazione dalle istituzioni locali ma addirittura averli contro». Come? «I motivi sono vari. Nel corso degli anni ci sono state delle amministrazioni anche di diverso colore politico e la cosa non è cambiata. Il primo motivo però è l’ignoranza. Io ancora ricordo un assessore alla cultura che, quando ci andai a parlare, già a distanza di venti metri, quando mi vide, mi disse: Benincasa, mettiamo subito in chiaro una cosa, che a me il jazz non piace. Allora, girai i tacchi e andai via». Tra i problemi della città vi è anche quello dell’assenza anche di grosse sale concerto. Un fatto emerso in tutto il suo clamore agli appuntamenti di “Etnafest 2006”. Troppe le persone in fila ai botteghini. Troppe le persone rimaste al freddo di fronte al teatro Sangiorgi, senza avere la possibilità di entrare. “Etnafest”, comunque, è al centro delle lamentele d’alcuni operatori. L’accusa mossa ai “grandi eventi della Provincia di Catania”? Dumping. In pratica, è la vendita di un servizio ad un prezzo inferiore di quello di mercato. «Non si è mai visto in Italia continua Benincasa - che un ente pubblico organizzi in qualità di manager una manifestazione. Non stanno lavorando per sostenere le associazioni culturali della loro città, ma per ucciderle, con costi paurosi. Ad occhio, una stagione di Etnafest equivale alle ultime dodici nostre. Una grande macchina mangiasoldi che serve solo a scopo d’immagine di chi l’organizza. Loro così si possono permettere di spendere 750mila euro per poco più di trenta concerti e di non incassarne neanche il 10 per cento. Una logica opposta alla nostra. Qui siamo al paradosso, con l’Amministrazione pubblica che fa dumping nei confronti dei propri operatori culturali. Ma se domani facessero la stessa cosa con il cinema, e proiettassero i film in prima visione a due euro, probabilmente ci sarebbe la rivoluzione degli esercenti. Per il pubblico capisco che è una grande conquista. Temporanea, però. Alla lunga anche Etnafest finirà. Una cosa che ho detto spesso agli assessori alla Cultura di Catania, quando non ottenevamo udienza, è noi sopravvivremo a voi. E’ stato così. Noi siamo qui da 25 anni. Di quegli assessori alla Cultura si è persa ogni traccia. Volendo noi resisteremo ad Etnafest, ma con grande fatica». Sopravvivranno? Si spera. La questione resta comunque aperta. Più scottante che mai. LA VOCE DELL’ISOLA 11 23 dicembre 2006 Il fenomeno giovanile, sino a poco tempo addietro sottovalutato, sta assumendo toni allarmanti Dal malessere ai soprusi e alla violenza Il bullismo miete vittime tra deboli e indifesi Prevenire il disagio denunciando le devianze quando si manifestano di ALFREDO LIETO G ravi episodi di violenza ma anche umiliazione e soprusi. Aggressioni fisiche e verbali tra giovani nelle scuole, nelle piazze, nei luoghi di ritrovo. Sulle pagine dei giornali si leggono sempre più spesso episodi legati a fatti di cronaca che, oltre a far rabbrividire al momento, preoccupano per il futuro. Il cosiddetto fenomeno del bullismo è sempre più diffuso nel nostro Paese, come in altre nazioni, e può creare gravi disagi in chi li subisce. Non si tratta solo di atteggiamenti provocatori o di derisione ma anche di vere e proprie aggressioni, intenzionali e ripetute nel tempo, che coinvolgono soprattutto i giovani tra i 7 e i 18 anni La parola «bullismo» è la traduzione italiana dell’inglese bullying ed è utilizzata per indicare un insieme di comportamenti in cui qualcuno ripetutamente fa o dice cose per avere potere su un’altra persona e dominarla. Il bullo, in genere (ma non sempre) è un maschio che si compiace di insultare, picchiare e cercare di dominare il compagno più debole anche quando è evidente che la sua vittima sta molto male ed è angosciata. Egli di solito persiste nel suo atteggiamento per un lungo periodo di tempo, favorito anche dalla sua stessa costituzione fisica, infatti, solitamente è più grande della sua vittima e ha maggiore forza. La vittima del bullo è più sensibile degli altri coetanei alle prese in giro, non è capace o non è fisicamente in grado di difendersi in modo efficace; spesso si sente isolata ed esposta, ha molta paura di riferire anche agli adulti le prepotenze che subisce perché teme rappresaglie e vendette. La qualità di soprusi che è costretto a tollerare determina una spiccata diminuzione dell’autostima. Un simile danno può mantenersi nel tempo e induce la persona maltrattata a perdere interesse per la scuola o ad assumere a sua volta atteggiamenti violenti e aggressivi: può accadere che alcune vittime diventino a loro volta aggressori. Il bullismo si manifesta in due forme principali: può essere diretto o indiretto. Nel primo caso l’attacco è fisico e/o verbale: consiste nel colpire con pugni o calci la vittima, rubare o rovinare oggetti di sua proprietà, deriderla, insultarla, sottolineare aspetti razziali o caratteristiche fisiche, più frequente tra i maschi è caratterizzato da comportamenti facilmente visibili. Nel secondo, meno facile da individuare perché giocato sul piano psichico tipicamente femminile. In questo caso l’attacco è più sottile e consiste nel diffondere pettegolezzi fastidiosi o storie offensive allo scopo di isolare dal resto del gruppo la vittima. Purtroppo si riscontra una preoccupante diffusione del bullismo nella scuola primaria e nei primi anni della scuola secondaria. Con il crescere dell’età si assiste ad una diminuzione del numero dei bulli, ma i ragazzi che ancora si comportano in questo modo sono da considerarsi a tutti gli effetti ragazzi con disagi personali gravi. Anche le ragazze sono coinvolte, nel senso che si constata una tendenza da parte delle femmine a comportarsi in modo aggressivo e violento. Si è portati a pensare che il bullo provenga soltanto da persone con problemi familiari o bassa scolarizzazione ma, sempre più spesso purtroppo, leggiamo di ragazzi provenienti dal cosiddetto ceto medio apparentemente senza gravi problemi economici o sociali. Sottovalutato dai ragazzi e spesso anche dagli adulti il fenomeno desta molta preoccupazione nella scuola, nelle istituzioni e nell’opinione pubblica e visto che le nuove tecnologie permettono la diffusione del fenomeno anche online, non è difficile scovare immagini video di violenze che fanno cassa di risonanza e quasi incitano all’emulazione. (ne sono una dimostrazione i gravissimi fatti visti in Tv con manifestazioni di bullismo nei confronti non solo di compagni più deboli ma anche a carico di professori privi di qualsivoglia reazione e pronti a subire; viene allora da chiedersi se l’insegnante era stata già stata vittima da giovane ed ora continua ad esserlo) I ragazzi non devono aver paura di denunciare i loro problemi, si devono fidare degli adulti. E’ l’unico modo per aiutare se stessi e anche i loro persecutori che non di rado vivono in ambienti familiari difficili e hanno bisogno di un supporto. Un ruolo fondamentale riveste anche il gruppo degli spettatori. L’85% degli episodi di bullismo avviene alla presenza di compagni che nella maggior parte dei casi rimangono silenziosi e inattivi. Proprio su di loro si deve intervenire e si deve far leva per ridurre la portata del fenomeno. La scuola, la famiglia e noi tutti dobbiamo aiutare questi giovani a formarsi quale cittadini onesti del futuro. La memoria perduta può ritrovarsi fra mille oggetti ritenuti inutili Nei mercatini si scoprono i libri dimenticati di TEA RANNO C apita. Di andare in giro per bancarelle e trovare un libro che appena lo apri ti restituisce la vita di cinquant’anni fa; la vita di un certo luogo, che poi, magari, è quello in cui sei nato - o i suoi dintorni - e di cui, quindi, conosci il cielo, il mare, l’aguzzo dell’unica montagna che si staglia all’orizzonte. E gli odori. Soprattutto gli odori, perché sono quelli che all’improvviso ti assalgono, lì, davanti al banco stracolmo di libri, mentre il tunisino che li vende - un signore brizzolato, paziente, che ti conosce e sa che comunque compri - ti guarda come a dire: “Ma che ci trovi in questo sfasciume?” (tale è infatti il libro: giallognolo, sgualcito, con la foderina strappata e il frontespizio in parte cancellato; buttato nell’angolo delle “occasioni” visto che costa appena un euro). E tu stai lì, col libro in mano, pensando che non t’importa nulla della copertina strappata o del frontespizio cancellato, anzi, neppure ci fai caso, tutto preso come sei da quell’odore da capogiro (di limoni, di zagare, di terra umida, di salmastro, di foglie che cominciano a marcire, di funghi) mentre il sole di luglio ti cuoce la testa, e il mercato intorno a te puzza di sottaceti, formaggi e meloni sfatti. Sfogli le pagine e sei dentro un giardino, sono le quattro e mezza, il sole deve ancora spuntare, Ercole Patti cammina sulla terra umida, ha gli stivali coperti di brina, un fucile a tracolla che non userà. E’ novembre. Tra gli alberi fuggono conigli, cinguettano uccelli ai quali in altri tempi si sarebbe sparato e adesso invece non più: si lasciano svolazzare da un ramo a un tetto, dal mare alle sciare dell’Etna, dove ci sono castagni e noccioli e contadini che attendono alla vendemmia. E all’odore dei limoni - mano a mano che sfogli le pagine - si sostituisce quello del mosto. E poi quello della terra bagnata. C’è un temporale che riga i vetri della finestra mentre lo scrittore - è l’alba di un altro giorno lavora ai testi che spedirà a Roma, e intanto pensa a una donna che quella notte non ha dormito e se ne va in giro - nella stessa alba - colma di una stanchezza che è soprattutto languore, odore di carne, di una sottoveste che sa di zagara. No, di zagara no, non profumano di zagara le signorine che vanno di notte in giro per i locali della Capitale, ma le ragazze che si stendono nei fienili, o nei palmenti, al buio, dentro l’odore del mosto, come fa la zia Cettina con Nino, in quel “bellissimo novembre” intriso di senso e desolazione, dove ci si incontra in case di campagna rette da contadine pronte a soddisfare ogni fame. E la pagina si colma dell’odore di maccheroni, di salsicce cotte sopra le tegole infuocate, della polvere da sparo che resta sulle mani a fare il maschio più maschio e la femmina più pronta a concedersi. E pagina chiama pagina, storia chiama storia: adesso l’odore che senti è quello del lisoformio sulle gambe della cugina tredicenne, che poi si farà baronessa e profumerà di cosmetici francesi in una storia lunga trent’anni in cui avrà il tempo di appassire e morire sotto lo sguardo impietoso del cugino, che l’ha usata per trarne, soltanto, il miele del piacere. “In un angolo accanto a un ulivo secolare (…) c’è un giornale tutto gonfio di brina. In un grosso titolo si legge: ‘Lo Sputnik II ha compiuto più di cento volte il giro del mondo. La cagnetta Leika non dà più segni di vita”. E’ il novembre del 1956. Oggi, intorno alla Terra non girano più astronavi con dentro cagnette morte. Oggi si costruiscono stazioni orbitanti permanenti. Ma il sacrificio di Leika è servito alla scienza. E la parola “sacrificio” richiama immediatamente una scena crudelissima raccontata sempre da Patti: Enzo, il cugino, va a trovare un suo massaro, e lo coglie nel momento in cui questi sta allenando un furetto. Per insegnargli il mestiere, l’uomo ha catturato un cucciolo di coniglio, gli ha spezzato le zampe - fragili come grissini - e l’ha buttato, sussultante per il dolore, tra le fauci del furetto, che l’ha doverosamente azzannato per la nuca, senza ucciderlo però, perché il mestiere suo è questo: riportare al padrone le prede ancora vive. Sfogli il libro, leggi che nella casa di Bellini, a Catania, c’è il disegno di una lira, una delle cinque corde è formata da un filo di capello del giovane compositore: “un capello chiaro, quasi evanescente”. Ercole Patti è insieme a Mario Soldati, che sa leggere la musica e guardando i quaderni di Bellini ne canticchia le arie. Leggi ancora: “Le ragazze in villeggiatura uscivano la mattina sui terrazzini sotto il cielo limpido, nell’aria frizzante che arrivava dalle vigne sottostanti imperlate di brina, e andavano a mangiare con una forchetta d’argento i fichidindia ammonticchiati sulle tegole, che il freddo della notte aveva fatto diventare freddi e duri come gelati”. Il tunisino ti guarda. Se gli parli dei fichidindia e dei giardini di limoni sicuramente ti capisce, perché anche lui, in qualche remota estate della sua infanzia, avrà mangiato fichidindia gelati, o avrà respirato l’odore delle zagare, prima di finire qui, in questo mercato in cui svolazzano sottane di nylon che nulla sanno delle sottane di Cettina, quelle che scivolano sopra ginocchia ben tornite e cosce bianche, e che accendono di desiderio un sedicenne che non avrà il tempo di sapere che cos’è l’amore. Ercole Patti: Diario Siciliano - Un bellissimo Novembre - La cugina LA VOCE DELL’ISOLA 12 23 dicembre 2006 Intervista all’on. Franco Frattini Nuove strategie per favorire l’integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro UE Creare le basi per una collaborazione più ampia tra gli Stati membri N aturale premessa all’assegnazione del premio “Paolo Ungari”, assegnato dalla LIDU (Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo) nei giorni scorsi a Roma all’onorevole Franco Frattini è, in base ai principi fondativi su cui è stata costituita la Comunità Europea (principi che, via via, attuati,dovranno portare ad un’integrazione sempre più stretta tra gli Stati membri, fino a determinare, di fatto, un’unità politica, economica e sociale, come ebbe ad auspicare, oltre150 anni fa, Giuseppe Mazzini), il particolare impegno politico e di lavoro profuso da autorevoli membri istituzionali della Comunità nelle delicata gestione dei flussi della vera e propria sopravvivenza, vengono, ormai da qualche anno, riversandosi sul vecchio Continente. Grave e pesante questione da far letteralmente tremare “le vene e i polsi”, anche perché strettamente intrecciata con l’altrettanto delicato problema dell’invocato asilo politico da parte dei tanti e tanti individui costretti a fuggire dai Paesi in cui della difesa dei diritti fondamentali dell’uomo, del rispetto dell’incolumità fisica e morale della persona, viene fatto strame. Grave e pesante questione che, nella misura in cui sarà elaborata una legislazione in grado di garantire una dignitosa integrazione tra popolazioni diverse, culture diverse, tradizioni diverse, sulla base dei principi uguali e condivisi di giustizia e libertà, che siano presidio per tutti, senza distinzione di colore, razza, fede o convinzione politica, potrà essere rivolta al meglio per il bene comune. Solo così, infatti, nessuno si sentirà dimidiato nei diritti fondamentali che gli competono, per natura, come individuo e come cittadino, e nessuno, di converso, dovrà mancare al dovere di rispettare le prerogative che, parimenti, spettano agli altri. Sulla base di tutto questo, abbiamo chiesto al V vicepresidente della Commissione Europea, nonchè Commissario, sempre per la Comunità, della Giustizia, della Libertà e della Sicurezza, di rispondere a tre “corpose” domande in materia. Franco Frattini migrazione (beninteso nel senso di affinare sempre più la conoscenza del fabbisogno del nostro mercato del lavoro), dall’altro dobbiamo pensare anche di essere scelti, Con questo intendo dire che va incoraggiata la voglia di integrazione. A che punto si trova il lavoro per uniformare e coordinare la normativa europea in tema di asilo politico? Quali sono i temi previsti per il varo di una legge comune? Da sempre, in ogni regione del mondo, individui o intere popolazioni hanno dovuto abbandonare le loro dimore e sfuggire a persecuzioni, Aggressioni: dieci milioni di vittime Contro ogni violenza di GIAN PIERO CALCHETTI Quali iniziative ha preso, in senso al consesso comunitario per migliorare l’integrazione effettiva dei migranti nel mercato del lavoro nel contesto dei Paesi ospiti, con riferimento soprattutto al rispetto dei valori fondamentali della società ospite e dell’Unione Europea? In questo senso, al cospetto dei vari problemi di multietnicità ed, a volte, di sostanziale scontro di usi e costumi tra le diverse etnie e religioni, che, come ben sai, vanno giornalmente emergendo in seno all’Europa, quale è la sua personale posizione: è favorevole al mantenimento, da parte delle comunità migranti dei costumi d’origine, ovvero ritiene che un migrante, da qualsiasi parte provenga, debba dismettere le proprie abitudini e “sposare” acriticamente i comportamenti di chi le ospita? Siamo impegnati a promuovere una nuova strategia per l’integrazione dei cittadini dei Paesi terzi nel tessuto sociale europeo. E in questo senso, nel Settembre del 2005, ho presentato una “Comunicazione su un’agenda comune per l’integrazione dei cittadini dei Paesi terzi dell’Unione Europea”. Mi sono quindi adoperato per promuovere gli sforzi della Comunità e dei suoi Stati membri in direzione di un miglioramento dell’integrazione effettiva e responsabile degli immigrati: tanto nel mercato del lavoro,quanto nei percorsi che il processo democratico dei nostri paesi offre a chi voglia compiere il cammino dell’integrazione. L’integrazione ha conosciuto e conosce diversi modelli nei principali Paesi europei. Dalla Francia al Regno Unito e dall’Olanda, per citare solo alcune delle esperienze principali: tutte più o meno in crisi, però, dobbiamo dirlo con franchezza. Anche perché dobbiamo forse mettere l’accento non soltanto sulla partecipazione e sul dialogo ma anche sul rispetto dei valori fondamentali della società ospite e complessivamente dell’Unione europea. Dobbiamo meglio conoscere i mondi delle comunità che entrano in Europa - in questo impegnando maggiormente le istituzioni locali, le più vicine ai cittadini -, e dobbiamo nel contempo favorire la disponibilità all’integrazione, all’apprendimento della lingua prima di tutto. Da un lato dobbiamo anche poter scegliere l’im- conflitti armati, e violenze, cercando rifugio altrove. Da sempre, pertanto, l’esilio è uno degli eventi più drammatici della vita dell’ uomo; La concessione dell’asilo rappresenta per gli Stati membri un modo per ribadire la propria sovranità territoriale, un atto sovrano basato su considerazioni umanitarie. Con l’adozione della direttiva del 1° Dicembre 2005 sulle procedure d’asilo - vi si danno indicazioni minime per il riconoscimento o la revoca dello status di rifugiata - si è completata la prima fase del regime europeo comune in materia di di MARIO FIORITO D ieci milioni di donne italiane sono vittime di violenze. Anche sul posto di lavoro sono diffusi i ricatti sessuali per esser assunte o far carriera. Il 90% delle vittime non denuncia le aggressioni fisiche e psicologiche. Questo è il quadro della situazione in Italia così come è emerso dai dati ISTAT, che sono stati discussi in un dibattito parlamentare, alla Camera, in vista della Giornata internazionale contro le molestie e le aggressioni, che si celebra il 25 novembre (secondo quanto designato dall’Onu, a Pechino, con risoluzione n.54/134 del 17 dicembre 1999). Mentre il Parlamento si accinge a discutere un nuovo progetto di legge contro le violenze alle donne (saranno apportate modifiche con pene severe per gli uomini violenti che minacciano di ritorsioni le conviventi che decidono di lasciarli) questi stessi temi sono stati analizzati nella sede della Provincia regionale di Catania, in occasione di un incontro organizzato dall’assessore provinciale alle Pari opportunità e alla Politiche scolastiche, Margherita Ferro, per la presentazione del progetto “Sembrava fosse amore e invece…”, che sarà attuato in alcuni istituti scolastici, al fine di sensibilizzare i giovani alla tematica della violenza contro le donne e i minori, per la prevenzione di tale fenomeno. All’incontro della Provincia hanno partecipato il questore Michele Capomacchina, la viceprefetto aggiunta Michela La Jacona (in rappresentanza del prefetto Cancellieri), il magistrato Francesco Di Stefano, Pina Ferraro (presidente dell’Associazione Thamaia), Rita Palidda (presidente del Comitato Pari opportunità dell’Ateneo) e Serafina Perra, assessore provinciale alle Politiche culturali. Ha portato il suo saluto al consesso il presidente della Provincia regionale di Catania, Raffaele Lombardo, che dopo aver pubblicamente plaudito all’impegno profuso dall’assessore Ferro, ha fortemente apprezzato l’immediata e totale disponibilità ad affrontare il problema manifestato dai rappresentanti delle istituzioni locali, dalle associazioni e dai sodalizi che hanno più volte affrontato questo problema. “La violenza distrugge non solo le vite delle donne, bensì il potenziale che si potrebbe avere in esse. Ciò provoca gravi perdite ed arretramento nelle loro stesse comunità. Purtroppo, però, una grave e costante manifestazione del ciclo della violenza contro la donna è l’impunità nella quale rimangono dette violazioni ai diritti fondamentali della donna stessa”, così ha dichiarato l’assessore Ferro, che ha anche parlato del sistema giudiziario spagnolo - il più evoluto in Europa – caratterizzato da tempi brevissimi per lo svolgimento dei processi contro i mariti o conviventi violenti. asilo. L‘obbiettivo di un regime europeo è chiaro: affrontare, tutti insieme, in quanto comunità, la gestione delle questioni inerenti all’asilo. In una Unione Europea, che ha abbandonato tutte le proprie frontiere interne, nessuno Stato potrebbe, infatti, affrontare e risolvere efficacemente, da solo, questo problema. Dobbiamo, quindi, e la sfida posta al programma dell’AIA indica il 2010 come traguardo: 1) aumentare la convergenza dei processi decisionali degli Stati membri nel quadro delle disposizioni fissate dalla normativa comunitaria in materia di asilo; 2) creare le basi per una collaborazione più ampia tra Stati, ed instaurare un clima di fiducia e una consapevolezza che si affronta un tema di interesse comune; 3) procedere, infine e congiuntamente, alla raccolta, alla valutazione e all’utilizzo di informazioni riguardanti i Paesi d’origine. Quali sono gli strumenti previsti in materia (corsi, stages, direttive etc) per la formazione dei funzionari territoriali, in modo che non si verifichino spiacevoli discrasie di comportamento nella valutazione delle richieste di asilo? Più volte Lei ha sottolineato il fatto che gli emigrati in regola con le leggi sull’immigrazione hanno diritto al massimo rispetto, così come debbono essere aiutati ad integrarsi. Esiste però anche un flusso migratorio e clandestino che pure interessa persone la cui sola colpa è quella di essere degli emarginati alla mercè di sfruttatori, trafficanti e malavitosi di varia connotazione e specie. Per questa massa di diseredati, l’unica soluzione è il rimpatrio. A livello comunitario si stanno studiando soluzioni meno traumatiche e comunque in grado di offrire anche a questi una prospettiva di inserimento e di integrazione? L’intera materia va affrontata con un approccio globale che aiuti a definire, per poi rispondere con strumenti adeguati, i lati di un fenomeno complesso. Abbiamo appena visto il dramma dei rifugiati. E dobbiamo naturalmente guardare con la stesse umanità e lo stesso rispetto dei diritti anche l’immigrazione illegale. Che non possiamo però incoraggiare, naturalmente. E soprattutto perché l’obbiettivo è quello di arrivare a governare il fenomeno attraverso politiche coordinate con i Paesi da cui la migrazione proviene: con decisioni-scelte attente alle dinamiche del mercato del lavoro europeo e con il compito di creare un circuito virtuoso riguardo al pericolo della fuga dei cervelli. Dobbiamo poi combattere il lavoro nero che tutte le analisi ci dicono essere un pull factor, un fattore di attrazione dell’immigrazione illegale. Concludendo:non possiamo né vogliamo contraddirci in tema di umanità dicendo che il rimpatrio sia l’unica risposta all’illegalità (e dunque sono i governi a cercare e a trovare soluzioni), ma neppure possiamo contraddirci offrendo in anticipo una soluzione di tutto comodo a chi ci ha raggiunto nell’illegalità: dobbiamo infatti e con chiarezza affermare l’importanza decisiva della legalità. Soltanto così possiamo contribuire a costruire una politica di governo del fenomeno utile ad abbattere la povertà e, nello stesso tempo, utile all’Europa. Noi dobbiamo forse fare anche di più in termini di politica di comunicazione: informare e fare sapere nei Paesi di origine il contesto e le condizioni e le richiesta che provengono dall’Europa in materia di mercato del lavoro. LA VOCE DELL’ISOLA i nostri Documenti 2 decreto, egli scartasse ogni pur minima concesLa storia mai raccontata: l’impresa dei Mille di Garibaldi lla luce di così sione alla libertà dei sicitanto interesse liani, poiché con la forza fu una truffa nei confronti dei Siciliani, ed ebbe lo scopo sulla questione acquistava la sovranità siciliana che si è accendi annettere la Sicilia ad uno Stato che ancora non esisteva, del territorio che gratuata in questi ultimi dualmente andava occuin nome di una Unità che portava benefici soltanto al Nord tempi, vogliamo narrare pando. Contrariamente quanto accadde in Sicilia alla sua conclamata senquel famoso 21 ottobre sibilità di “eroe della lidel 1860, anniversario bertà dei popoli”, che che è ricorso proprio nei avrebbe dovuto indurlo a giorni scorsi, poiché anscegliere di concedere la cora sono in tanti a non legislazione e l’organizconoscere la “verità” zazione che lo Stato di guardata da un diverso di Sicilia si era dato nel punto di vista da quello 1848-49, si comportò da ufficiale, di quella pagiinvasore, sfruttando il na di storia che ci ha territorio occupato, diportato a ciò che siamo straendone le risorse fioggi. nanziarie per i bisogni di Al fine di essere il più altri territori, di altre popossibile chiari sulla polazioni, di altri Stati. questione, non possiamo Gli eventi di quella triesimerci d’iniziare senza ste pagina di storia del brevemente accennare ad popolo siciliano, che fu alcune realtà sullo sbarrapinato, saccheggiato, co di Garibaldi, azione umiliato, reso servo e che lo storico Mack trucidato dai liberatori Smith ha definito “la garibaldini, non trova donchisciottesca spedispazio di approfondizione di Garibaldi e dei mento in questa brevissisuoi Mille”, circa il moma narrativa che, princido rocambolesco di copalmente, è rivolta all’atme avvenne l’operazioto ben congegnato di anne. Innanzitutto, apparve nessione della Sicilia. Inchiaro che le operazioni fatti, il 2 giugno, il goparamilitari di Garibaldi verno provvisorio garifurono prive di validità baldino aveva emanato giuridica perché a quelda Palermo un decreto l’impresa mancò la cresulla divisione dei demadenziale di uno Stato ufni; ma non appena i conficialmente costituito e, tadini passarono a reclaquindi, la necessaria comarne l’attuazione e a ripertura di una bandiera. vendicare anche la quoSi trattò dunque, a nostro tizzazione delle terre deMartin, di Artigas, di Espartero, la stoffa del libertaavviso, di un’avventura paramilitare, personale e pimaniali acquistate illegalmente dai commercianti e dor sudamericano o iberico, anglofilo per inclinazioratesca assolutamente illegale, per usare un linguagdai borghesi, fu proprio quel governo che cominciò ne o per necessità; né di dare spazio alla sterile e gio in voga oggi. Sin dal primo momento, il popolo ad applicare contro di essi quegli altri decreti emaodiosa polemica sull’estrazione tipicamente italica e siciliano ebbe seri dubbi sull’azione: si voleva realnati dallo stesso Dittatore in difesa della proprietà e nordista del contingente originario dei cosiddetti mente liberare la Sicilia dalla dominazione borbonidegli interessi agrari della borghesia e, per di più, Mille. Lo scopo è invece di chiarire lo status che il ca, oppure si voleva compiere un’altra vera e propria adottando contro i poveri disillusi la procedura somnuovo invasore rivesti in Sicilia, succedendo all’ocinvasione? Infatti, quel giorno di maggio, quando a maria dei Consigli di guerra distrettuali, istituiti con cupante borbonico. Giuseppe Garibaldi non prese Marsala giunse Garibaldi con le sue navi, in rada e il decreto del 20 maggio. E se ciò costituì da un lato mai in considerazione il sacrosanto diritto dei sicialla fonda del porto trovò due cannoniere della “Meuna garanzia per la classe aristocratico-borghese, la liani alla libertà, né volle riconoscere l’esistenza di diterranean Fleet” inglese: le HMS. “Argus” e “Inquale inclinò subito all’annessione pronta ed inconquel partito costituzionale che rappresentava l’opitrepid”, formalmente in visita di cortesia in Sicilia, dizionata, determinò dall’altro la frattura definitiva nione politica maggioritaria di essi. Non di meno, i ma in realtà giunte lì su precise istruzioni del gabitra quello pseudo-liberatore e il proletariato dell’isotesti scolastici e la storiografia tradizionale tentano netto Palmerston Russel; e mentre i garibaldini del la. Inoltre, le stragi contadine che Bixio e gli altri ancora, nel 2006, di far passare per verità la grossoPiemonte erano già sbarcati e gli altri del “Lombarcomandanti delle colonne garibaldine consumarono lana menzogna secondo cui egli sbarcò nell’isola per do” si accingevano a imitarli, sopraggiunsero a Mara Bronte, a Nicosia, a Mascalucia, a Nissoria, a aiutare il popolo siciliano a riprendere in mano la disala la pirocorvetta “Stromboli”, comandata da GuLeonforte e a Biancavilla, sono il suggello e le prove sponibilità del proprio destino. Infatti, nel primo deglielmo Acton, e due altri piroscafi armati della stesstoriche più schiaccianti della politica filoborghese e creto fatto a Salemi due giorni dopo lo sbarco, egli sa flotta borbonica, che si accorsero della presenza reazionaria adottata fin dal primo momento dall’Esi autoproclamò “comandante in capo delle forze nasul molo di uomini in giubbe rosse e li scambiarono roe della libertà dei popoli. Garibaldi mise subito in zionali in Sicilia” e affermò di “assumere nel nome per i red coats delle truppe inglesi. Allora, il comanatto il desiderio del re che “si compisse senza ritardo di Vittorio Emanuele Re d’Italia, la Dittatura in Sicidante Acton, che aveva già fatto armare i pezzi, fece l’annessione”, e Depretis (pro-dittatore con il decrelia”. Cioè, si attribuì, senza mezzi termini e senz’alchiedere agli inglesi se gli uomini armati che si vetò di Milazzo del 21luglio) cominciò ad emanare tutcun equivoco, la posizione giuridica dell’occupante devano sul molo fossero truppe britanniche. Gli inta una serie di provvedimenti allo scopo di far scombellico e, in particolare, dell’invasore il quale, per glesi risposero di no, e nel contempo, avvertirono parire ogni residua possibilità di autodeterminazione delega più o meno espressa del non ancora re d’ItaActon che i loro comandanti si trovavano a terra. dei siciliani. A tale proposito, ricordiamo in modo lia, intendeva succedere al precedente invasore. È Acton, che rabbrividì al solo pensiero che una specifico i provvedimenti politicamente e psicologidunque inoppugnabile che fin da questo suo primo scheggia di granata potesse colpire un ufficiale della camente incisivi deI 13 giugno, con il quale si abolì regina Vittoria, decise di attendere il loro ritorno sull’emblema nazionale dell’Isola, sostituendolo con lo le loro navi, e solo dopo un’ora buona poté aprire il stemma sabaudo, come se la Sicilia dovesse essere fuoco. Ma a quel punto, gli uomini intravisti sul moconsiderata d’ora innanzi un bene di quella Corona o lo erano già al sicuro e ben nascosti dai tiri dello addirittura parte del patrimonio privato di quei re; “Stromboli” e dei piroscafi “Partenope” e “Capri”. quello del 16 giugno, che revocò le dogane tra l’IsoQuesti episodi della prima ora di Garibaldi e dei la e le province italiane; quello del I7 giugno, che Mille in Sicilia, la dicevano già allora lunga e c’inimpose alle navi siciliane la bandiera dello Stato saducono oggi a ritenere che, se il capitano di fregata baudo; quello del 2 luglio, con il quale si stabili che Acton non fosse stato troppo fiducioso nella lealtà gli effettivi dell’esercito siciliano andavano a costibritannica e avesse adempiuto al suo dovere di soltuire la XV e la XVI divisione dell’esercito piemondato, almeno la metà della spedizione che approfittò tese; quello del 6 luglio, che dispose l’intestazione di quell’ora per abbandonare il “Lombardo”, avrebdi tutti gli atti pubblici a “Vittorio Emanuele II Re be fatto la stessa fine che fecero nel 1857 i 300 di d’Italia”, quando ancora non lo era; quelli del 5 e del Carlo Pisacane, e forse la storia che portò la Sicilia 14 luglio, con i quali gli uomini della Marina Militadall’una all’altra dominazione sarebbe ancora tutta re siciliana furono incorporati negli organici di quelda scrivere. la Sarda. D’altronde, la perfidia e l’egoismo della diplomaDal 3 agosto ad oltre la metà di ottobre, anziché zia inglese, le sue riserve mentali sul destino colodare la pro-dittatura ad Antonio Mordini, si attuò niale della Sicilia, nel maggio 1860, non vennero una vera e propria buriana di provvedimenti: l’estencompresi soltanto da quell’ufficiale borbonico che, sione all’isola dello Statuto Albertino; l’adozione dopo tutto, passò al nemico prima ancora della capidella formula del giuramento di fedeltà a Vittorio tolazione del proprio re, ma non lo furono dagli stesEmanuele Il e ai suoi reali successori; l’intestazione si Siciliani nel 1812, nel ‘48, nel ‘60, e anche nel delle leggi “in nome di S.M. Vittorio Emanuele Re 1943-45. La narrazione di quei fatti non ha lo scopo d’Italia”; l’unificazione monetaria; il riconoscimento di fare filosofia politica o di rifare la storia dell’imalla pari dei gradi accademici conseguiti fuori della presa siciliana di un Garibaldi a cui il Foreign Office Sicilia e nei pubblici concorsi svoltisi nell’isola. Giuseppe Garibaldi credette di riconoscere la stoffa del Bolivar, di San Vennero recepiti pure i decreti piemontesi sull’ordidi GIUSEPPE PARISI A LA VOCE DELL’ISOLA i nostri Documenti namento degli uffici di Questura e sulla Pubblica sicurezza, come anche le leggi e i regolamenti della marina mercantile sarda. Vennero estesi all’isola la legge comunale e provinciale sarda del 23 ottobre 1859, il Codice penale militare piemontese e la legge piemontese 16 novembre 1859 sulla composizione degli uffici di Governo e d’Intendenza, sui gradi, le classi, gli stipendi dei funzionari, degli impiegati e del personale di segreteria. Questa pesante messe di disposizioni, è stato giustamente osservato da De Stefano e Oddo, “metteva l’isola né più e né meno sul medesimo piano delle province che avevano votato l’annessione al regno sardo, e annullava e trasformava radicalmente istituzioni, uffici, metodi inveterati e adeguati alle tradizioni isolane”. La flebile opposizione radicale del gruppo crispino affogava dunque nella marea di quei decreti e di quel “riordinamento amministrativo” che costituirono la base politica e psicologica per il plebiscito di annessione immediata. Quando però il 14 settembre Garibaldi si vide costretto a Napoli, ad accettare le dimissioni di Depretis per sciogliere il nodo del contrasto insorto tra la politica di quest’ultimo e quella temporeggiatrice del gruppo dei radicali - contrasto che aveva portato alle dimissioni dello stesso cervello politico del Dittatore dal governo presieduto dal Depretis sembrò che tra il nuovo prodittatore Mordini e i democratici e i moderati autonomisti chiamati al ministero si potesse giungere alla mediocrità di un accordo di massima sul futuro assetto costituzionale dell’Isola. E in questo senso va interpretata la decisione del 5 ottobre del Consiglio dei ministri, in base alla quale Mordini decretò e promulgò la convocazione dei comizi elettorali per l’elezione dei deputati che avrebbero dovuto stabilire in Palermo, «in Assemblea, le condizioni dell’annessione». Alle elezione avrebbero potuto partecipare ora “tutti i cittadini” alfabetizzati e non esclusi dal titolo di elettore, dai 21 anni in poi, come d’altronde aveva proposto il decreto dittatoriale n 57 del 23 giugno, con il quale si richiamarono ancora le stesse norme della legge elettorale promulgata dal Governo siciliano del ’48 e caddero tutte quelle categorie del censo che erano state ripristinate invece dal Borbone dopo il maggio ’49. Nel decreto del 5 ottobre si premise che quei comizi avevano lo scopo di «stabilire le condizioni di tempo e di modo, per entrare in seno alla grande famiglia Italiana», e mentre l’art. 1 fissava le elezioni per il 21 ottobre, all’art. 14 si diceva: «Un’altro prossimo decreto indicherà il giorno ed il luogo in cui i deputati eletti si debbano riunire in Assemblea, nella città di Palermo». Non appena infatti pervenne anche l’assenso definitivo del Dittatore che si trovava ad attendere sul Volturno l’avanzata dell’esercito piemontese, il 9 ottobre il governo Mordini decretò addirittura che alla data fatidica del 4 novembre “L’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo Siciliano” avrebbe dovuto riunirsi in Palermo. Lo stesso Mordini, nella nota illustrativa del precitato decreto-diretta ai Governatori dell’isola, dopo aver affermato che “il suffragio universale diretto è la più irrecusabile consacrazione della volontà di un popolo”, volle mettere in risalto il motivo per il quale il governo da lui presieduto aveva scelto il ricorso all’Assemblea dei Rappresentanti e non il suffragio diretto, abbandonandosi a queste candide confessioni: “Nel ricevere dalle mani del Dittatore la delegazione dei suoi poteri sull’Isola, io riconobbi la esistenza di elementi di discordia alla superficie, non al fondo della società siciliana”, per cui, convintosi che “dalla massa emerge la classe che non ragiona soltanto col cuore e che discute i problemi dell’avvenire con calcoli freddi e maturi”, il Governo da lui presieduto aveva deciso per la convocazione dell’Assemblea, in quanto la stessa apriva “larghissimo il campo alla classe intelligente e colta di svolgere, in un terreno libero, indipendente, non soggetto a coazione alcuna, i propri studi, le proprie vedute, i concetti che ognuno crede meglio conducenti a consolidare il benessere generale”. E l’opinione pubblica, come rileva Mack Smith in “Cavour e Garibaldi nel 1860”, “aveva accolto con favore il suo progetto di Assemblea”, giacché a tutti pareva giusto che si discutessero le forme e i modi di quella non invisa richiesta di adesione alla “grande famiglia Italiana”. Come però era da attendersi, Cavour reagì immediatamente anche perché aveva già respinto la stessa proposta fattagli al principio di luglio dal gruppo moderato autonomista guidato da Emerico Amari, da Francesco Ferrara e dal conte Michele Amari; e, deciso a scongiurare il pericolo delle aumentate pressioni di Mazzini, Cattaneo, Conforti e Crispi su Garibaldi per la convocazione delle Assemblee costituenti di Sicilia e di Napoli, quando il 2 ottobre si aprì a Torino la seconda e ultima sessione di quella VII Legislatura, presentò alla Camera Nino Bixio un disegno di legge in cui si autorizzava il Governo ad accettare per regi-decreti le “annessioni incondizionate da farsi con i plebisciti”. L’1l ottobre, la Camera approvò la proposta quasi ad unanimità e così, il 16, il Senato e, a questo punto, il genio politico di Garibaldi, partorì quel decreto di S. Angelo del 15 ottobre, nel quale addirittura sancì, sei giorni prima della data già fissata in Sicilia per quegli altri ben diversi comizi elettorali, l’annessione sic et simpliciter della Sicilia e del Napoletano al Regno di Vittorio Emanuele Il. “Le Due Sicilie», dice l’unico articolo del madornale decreto, «... fanno parte integrante dell’Italia una ed indivisibile, con Re Costituzionale Vittorio Emanuele e i suoi discendenti. I Pro-dittatori sono incaricati dell’esecuzione del presente decreto”. E se questa non fosse la storia sulla quale è tessuto il dramma della Sicilia dal 1860, saremmo tentati di credere che ci si trova di fronte ad una pochade o a un vaudeville. Ma non è ancor tutto, perché nello stesso giorno, Torino indusse il suo eroe sudamericano ad annullare il decreto, spiegandogli forse discretamente che per salvare almeno la faccia di fronte all’Europa si sarebbe dovuto procedere all’annessione coi plebisciti e non con un decreto dittatoriale. E così, i due pro-dittatori, Pallavicino a Napoli e Mordini a Palermo, ricevettero dal loro capo politicamente esautorato la libertà di rimescolare ancora le carte. Mordini, infatti, con un proclama dello stesso 15 ottobre, ritrattò la convocazione di quei comizi indetti per eleggere i Rappresentanti dell’Assemblea che avrebbe dovuto “stabilire le condizioni” della Sicilia per entrare a far parte della “grande famiglia Italiana”, e dopo avere puerilmente affermato che in quel giorno “nuovi casi” avevano “cambiato le condizioni nel decreto”, pubblica in calce al buffo e sconcertante proclama: “Art. 1° - I comizi elettorali Inglesi a Marsala 3 convocati per il 21 ottobre, in luogo di procedere all’elezione dei deputati, dovranno votare per plebiscito sulla seguente proposizione: “Vogliamo l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale ed i suoi legittimi discendenti». Art. 2° - Il voto sarà dato per bullettino stampato o scritto portante la scritta «Si» o «No»; ogni altro bullettino sarà reputato nullo... ”. S’immagini, dunque, quanta confusione produssero questi reiterati contraccolpi sul già disorientato spirito pubblico di un Popolo che contava ancora un numero di analfabeti che toccava il 90%, e che raggiungeva il 100 % tra le popolazioni rurali e nei quartieri più popolosi delle stesse città. Come osserva Mack Smith nell’opera citata, “fu proprio l’ignoranza generale, di fatto, che in Sicilia garantì a Cavour il voto popolare”. Le nuove modalità dettate da Mordini per esprimere il “voto plebiscitario” erano tra l’altro profondamente differenti dalle modalità adottate l’11 e il 12 marzo del 1860 in Emilia e in Toscana dai Governi provvisori annessionisti del Farmi e del Ricasoli, i quali, sempre in adempimento alle istruzioni di Cavour, avevano chiamato gli ex-sudditi di quegli ex-ducati assolutisti e senza storia a scegliere una di queste due proposte: “Annessione alla monarchia costituzionale del Re Vittorio Emanuele Il” oppure “Regno separato”. Come invece abbiamo visto, per i siciliani la necessaria chiarezza di questa legittima alternativa non ebbe spazio. Da parte di alcuni dei tanti giornali annessionisti che fiorivano ormai in ogni Comune con i soldi della Società Nazionale, in quei giorni si scrisse pure che l’eliminazione dell’espressione “annessione alla monarchia di Vittorio Emanuele” dalla formula plebiscitaria proposta, sottintendeva già la considerazione dei diritti particolari dei siciliani, e che dunque si votava solo “per entrare a far parte di un nuovo Stato italiano e non per annettersi a uno Stato già esistente e in possesso di una costituzione già interamente redatta”. Questa grossolana menzogna dei gazzettieri era, però, smentita dallo stesso testo della formula plebiscitaria, ma di per sé illumina la preoccupazione del nuovo occupante e del suo mandante, che ricorreva ad ogni mezzo per piegare al plebiscito la “libera volontà” del Popolo. Torino, infatti, ben sapeva che l’occupazione bellica, pur se si estende alla maggior parte del territorio nemico, non può spiegare da sé alcuna efficacia giuridica in ordine al suo acquisto e rimane sempre un fatto puramente militare che non può dar luogo a nessun mutamento di sovranità. Era pertanto necessario che all’occupazione si aggiungesse un titolo giuridico tale da non revocare il fondamento dell’intero processo acquisitivo della sovranità territoriale: un titolo il quale, facendo seguito alla conquista del territorio e alla debellatio del Regno di Napoli, avesse appunto come effetto formale e sostanziale l’estinzione dello Stato annesso e di tutti quei suoi diritti e doveri che ne presuppongono l’indipendenza o sovranità. Quel plebiscito di natura mista che la conquista piemontese impose ai siciliani nella complessa situazione del 1860, altro non fu, come vedremo, se non l’attuazione di un progetto accuratamente elaborato per sanzionare l’annessione attraverso il metodo, in principio ineccepibile, del ricorso al “suffragio universale”. Non vi era molto da aspettarsi; ma poiché il 17 e nei giorni seguenti erano stati emanati anche alcuni decreti che allargavano e rafforzavano le piante organiche dei vari ministeri di quel governo prodittatoriale, come confessò nel 1868 lo stesso exunitario pentito Paolo Gramignani nello scritto intitolato “I Regionisti”, «si accreditò e ribadì sempre di più l’idea che si sarebbe stabilito e mantenuto in Sicilia un importante Governo locale”. Furono anzi queste implicite pattuizioni, dice il Gramignani, a spingere “fiduciosi e compatti i siciliani alla votazione del plebiscito”. Nei precedenti centocinquanta giorni dall’invasione, ogni mossa politica, legislativa e amministrativa era stata peraltro finalizzata a preparare il rito dell’adesione totalitaria alla proposta di una formula che, come ha osservato di recente anche Sandro Attanasio in “Gli occhiali di Cavour”, “non offriva alternativa… o Vittorio Emanuele e i suoi legittimi discendenti, oppure niente”. E a questo scopo, capipopolo e propagandisti politici, mafiosi di ogni calibro e piccoli burocrati desiderosi di far carriera, indigenti e possidenti, arrivisti e mestatori d’ogni genere erano stati mobilitati con qualunque mezzo dai Governi dei due pro-dittatori e dai loro organi provinciali e comunali. Erano stati distribuiti a iosa posti, prebende, incarichi e gradi che, in verità, durarono in moltissimi casi fino all’indomani della celebrazione di quella kermesse, ma risultarono oltremodo efficaci ad alimentare tutte le illusioni e le allucinazioni di quel momento. A questo giuoco, d’altro canto, si prestava mirabilmente l’odio covato per lungo tempo dal Popolo con- LA VOCE DELL’ISOLA i nostri Documenti 4 tro la dominazione del governo di Napoli, sicché la sua strumentalizzazione contribuiva in maniera determinante a far dimenticare che la posta ora non era il cambio dei cavalli governativi, ma il destino medesimo dello Stato di Sicilia, esistito nella sua più sostanziale integrità dal 1131 al 1815 e risorto ancora nel 1848-49. Uno storico come Mack Smith, a cui di certo non si può rimproverare una qualche simpatia per i Siciliani e la loro causa, ma che non pecca di accuratezza e originalità di ricerche negli Archivi di Stato dell’Isola, in “Cavour e Garibaldi neI 1860” precisa: “Se ci fosse stato qualche dubbio sul modo in cui il popolo avrebbe votato, esso fu dissipato dall’annuncio fatto da Garibaldi, che le Due Sicilie formavano già parte dell’Italia una e indivisibile e della sua proposta di cedere a Vittorio Emanuele il potere dittatoriale che la nazione gli aveva conferito”. Dopo di che, riassume così i dati e i fatti più significativi di quel 21 ottobre: “A Palermo, su una popolazione totale di un quarto di milione di abitanti, gli elettori registrati erano solo poco più di quarantamila e di essi trentasettemila avrebbero poi effettivamente votato”. Quella di “suffragio universale” era evidentemente un’espressione arbitraria. Molti cittadini non si erano affatto iscritti nei registri, per “non avere niente capito” - come scrisse il giornale palermitano Il Regno d’Italia del 17 ottobre - “dell’importanza del diritto di elettori... ; in cinque mesi molti hanno smarrito il biglietto, molti non l’hanno più perché non sapevano cosa farsene”. Il giorno precedente la votazione, i registri dovettero essere aperti di nuovo. Il decreto originario del 21 giugno sulla procedura del voto, aveva concesso ad ogni località di regolarsi in proposito come volesse. Messina chiese, ma invano, altri dieci giorni di preparazione; Siracusa non aveva compilato affatto le liste elettorali e un proclama invitò il popolo a firmare su un registro aperto; a Palermo grandi folle - come attesta tra l’altro il giornale palermitano L’Annessione del 21 ottobre - “dovettero votare senza nessuna previa formalità”. Nella capitale c’era un’enorme eccitazione per questo nuovo genere di feste che precedettero il grande giorno in molte località, con illuminazioni notturne e strade come comunicò il viceconsole inglese Richard al suo ambasciatore a Napoli Elliot in data 22 ottobre bellamente decorate con tappeti e bandiere sarde. Il 21 era domenica e la votazione si tenne in generale nelle chiese, dopo la messa; il pro-dittatore con i ministri, gli impiegati pubblici e l’arcivescovo votarono tutti nella cattedrale. Alla sera, molti non si erano ancora rammentati di votare, cosi il Consiglio comunale risolse che sarebbe stato legale lasciare la votazione aperta anche tutto il giorno successivo. Sarebbe facile dimostrare come, in molti casi particolari, il sistema usato non fosse il metodo per sincerarsi della volontà popolare. La votazione era pubblica, su un palco, con due urne aperte perché tutti vedessero quale fosse la scelta e davanti a un semicerchio di agenti lafariniani travestiti, con facce scure e un’aria di mistero, seduti al centro della navata. Fuori dalle grandi città, nelle zone dove i villaggi erano ancora feudali e i proprietari terrieri si erano convinti che l’unione con il Piemonte offriva le migliori speranze per la restaurazione dell’ordine, la pubblicità che circondò la votazione significò un sì quasi obbligatorio. In alcuni luoghi, per esempio a Trapani - come è attestato da un telegramma dello stesso governatore di Trapani a Mordini in data 30 ottobre - i contadini, nella loro ignoranza, fuggirono in montagna, avendo l’impressione che il voto fosse solo un trucco per intrappolarli e obbligarli al servizio militare. Il corrispondente del giornale “L’Unità Italiana” di Palermo, in data 1 novembre descrive Alcamo, dicendo che la loro esistenza mostrava la libertà della votazione. Alcara Li Fusi ne ebbe ancora di più, 27 su 384; Caltabellotta, 47 su 500; ma furono casi eccezionali. Il numero più alto di voti contrari si ebbe nel distretto di Girgenti, con 70 no su circa 2.500 sì. Non si seppe mai quanti fossero gli aventi diritto al voto su una popolazione di quasi 2.400.000 abitanti né quanti furono gli astenuti. Come osserva Attanasio, “Mancò poco che i voti favorevoli superassero il 100% dei votanti”. Il risultato del plebiscito infatti, anche secondo quanto afferma Mack Smith nella “Storia della Sicilia medievale e moderna”, diede «una maggioranza favorevole del 99,5%». È vero che non si hanno esempi di plebisciti contrari al regime che ne proponevano le risposte, ma è vero altresì che non si hanno esempi di plebisciti in cui, come in quello di Sicilia, su 432.720 votanti si siano avuti 432.053 sì e soltanto 667 no. Ma la radicale nullità dell’atto che i suoi promotori avrebbero voluto far passare agli occhi del mondo come un limpido e solenne negozio di diritto pubblico internazionale, come un vero e proprio Atto o Contratto di valore politico reale, venne subito colta ed evidenziata sia da osservatori inglesi, come il Mundy e il Clark, sia da tutti i consoli e i ministri plenipotenziari accreditati ancora dai loro Governi a Palermo e nella capitale del Regno di Napoli. E i testi di alcuni di quei dispacci inviati alla vigilia e all’indomani del 21 ottobre a Londra e a Napoli dal console Goodwin, che risiedeva a Palermo e a cui faceva capo tutta la rete consolare inglese di Licata, Messina, Catania, Marsala, come di quelli inviati dal ministro plenipotenziario Elliot al Segretario di Stato agli Esteri Lord Russell, come il rapporto di quest’ultimo al ministero Whig presieduto da Lord Palmerston, sono eloquenti di per se. Elliot scrisse in quei giorni al capo del Foreign Office: “pur essendo moltissimi i dissidenti, sono tutti forzati a votare per l’annessione; ed infatti la formula del voto e il modo di raccoglierlo così disposti, assicurano la gran maggioranza possibile per l’annessione, ma non Un disegno di Trevisan della Campagna Garibaldina di Sicilia constatano il desiderio del Paese”. E il 30 ottobre aggiunse che «il voto era stato la farsa più ridicola che si poNon solo la compilazione delle liste era stata alteteva immaginare e non c’era stata nemmeno la prerata, ma in certi casi le schede elettorali erano messe tesa di limitarlo a quelli che erano qualificati, poiché in vendita al mercato nero. P. Grofani dà il prezzo di gente di ogni paese e di ogni età e anche di ogni sesdue scudi per ogni scheda, in una lettera a Mordini, so non hanno difficoltà nel far contare anche la loro 11 ottobre; il giornale “L’Assemblea” del 12 ottobre opinione». Il ministro Russell precisò al Gabinetto: dà il prezzo di 5 franchi per scheda. Il governatore “I voti del suffragio universale in quei Regni non di Catania e quello di Messina proibirono quella che hanno alcun valore; sono mere formalità dopo un risecondo loro era la “stampa clandestina” degli “agivolgimento ed una ben riuscita invasione; né implitatori” autonomisti. A Catania, uno del partito delcano in sé l’esercizio della volontà della Nazione, l’annessione si vantò di aver messo a tacere ogni nel cui nome si sono dati... ”. Il perdurare del divieto gruppo di opposizione nella sua provincia. Ancor agli storici di visionare presso il Publjc Record Offipiù significative le parole del governatore di Girgence del Foreign Office tutte quelle notizie documenti, come risulta da un suo rapporto a Mordini in data tali e di carattere diplomatico; il silenzio medesimo 29 ottobre. A Noto e a Modica, e forse anche altroche grava ancora sui rapporti inviati ai loro Governi ve, i governatori usarono una forma veniale d’ingandagli altri consoli e diplomatici, dimostrano soltanto no: avrebbero tralasciato di continuare la coscrizione che i giudizi di tutti i rappresentanti dei Paesi a Pae sospeso le operazioni di leva fino alla conclusione lermo e a Napoli furono negativi in proposito. del voto. I votanti furono un po’ meno del quinto In questo modo si concluse l’ultimo atto di un della popolazione. Su un totale di 292 distretti [seggi dramma che venne subito definito dal Popolo “lu elettorali] in Sicilia, sembra che 238 non abbiano reschifiu di la Rivoluzioni”. Ma non fu tuttavia, come gistrato nessun voto negativo. Non meno singolare si può credere, l’insignificante plebiscito a rinviare appare forse il fatto che solo per 18 distretti le autola soluzione del problema della libertà dei siciliani, rità riferirono di qualche voto nullo o di qualche bensì il riaccendersi, come dodici anni prima, del scheda bianca. Altrettanto notevole, anche se più sivecchio contrasto franco-inglese per la supremazia gnificativo, quanto riferiscono le relazioni da Patti, nel Mediterraneo, dove l’Isola rappresenta la più imcioè che su 1.646 elettori, votarono tutti, e tutti per il portante posizione strategica. Il risultato di quell’insì. A Palermo, su 40.000 registrati ci furono più di trigo che l’infaticabile Cavour seppe tessere, è co4.000 astenuti e solo 20 voti negativi; Messina, su munque inciso ad memoriam dei siciliani sulle lastre 24.000 votanti registrò solo 8 contrari. Il giornale di marmo poste ad ornamento delle facciate di tanti “La Forbice” di Palermo, il 23 ottobre mostrava di vecchi e gloriosi Comuni dell’isola. ■ fare un gran conto dei 14 voti negativi sui 3.000 di come, nel suo villaggio, il capo del municipio si alzò anzitutto per spiegare il significato del sì e del no, ma non ebbe in risposta che grida di “Non vogliamo né Vittorio Emanuele, né Francesco, ma don Peppino”, (cioè Garibaldi); allora l’oratore, un pò perplesso, rispose che proprio in questo caso dovevano votare per il sì e la gente lo fece concorde. Un Governatore, quello di Mazara, aveva scritto l’8 ottobre al Governo di fare molta attenzione a questa sorta di problemi, e di rendersi conto che l’analfabetismo completo di quasi tutti gli abitanti rendeva impossibile un voto segreto; ma ebbe dal Governo, in data 11 ottobre, questa risposta che non gli recò certo molto aiuto: “Se l’elettore analfabeta è sottoposto all’arbitrio dello scriba, il difetto sta nel fatto, non nella legge”. I moderati si sentivano sicuri che, con la Guardia Nazionale che faceva il suo dovere, con una votazione pubblica, con la direttiva personale di Garibaldi e con alla presidenza [dei seggi] magistrati che avevano tutti giurato fedeltà a Vittorio Emanuele, non vi potessero esser dubbi sul risultato del plebiscito. Era però necessario unire disciplina ed entusiasmo; per questo la Guardia Nazionale fu obbligata a votare - come risulta dal rapporto del comandante della Guardia Nazionale di Milazzo al suo ispettore generale a Palermo, in data 22 ottobre - “in corpore” e in uniforme per dare l’esempio di un voto solido con bandiere e cartelli per il Sì. LA VOCE DELL’ISOLA i nostri Documenti 6 L a sera del 23 ottobre del 1958 a Sala d'Ercole (la sala del Parlamento siciliano) si tiene una delle sedute più drammatiche della storia politica isolana. Dopo due anni di crisi, caduto il governo La Loggia, la Democrazia cristiana cerca di attuare un governo tripartito (con i liberali ed i socialdemocratici) proponendo, alla presidenza la candidatura dell'on. Lo Giudice, a maggioranza. L'Assemblea non tiene m alcun conto le decisioni prese dopo lunghi compromessi, ed elegge Silvio Milazzo. Ottantanove sono i votanti: Silvio Milazzo ottiene cinquantaquattro voti e Lo Giudice ventisette. Solo sette le schede bianche. E'-appena finita la lettura dei risultati, che l'opposizione esulta al grido “Viva Milazzo”, “viva l'Autonomia”, “Viva la Sicilia”. Democristiani, liberali e socialdemocratici tacciono, si guardano in faccia cercando i “franchi tiratori”, i dissidenti. E nove sono i dissidenti democristiani che non hanno obbedito agli ordini di scuderia: senza quei nove l'operazione Milazzo non avrebbe potuto avere alcun successo. A favore del parlamentare dissidente dc hanno votato comunisti e missini. L'on. Michele Russo, capogruppo del partito socialista, tiene a dichiarare: “Il voto di questa sera è anzitutto una vittoria del Parlamento siciliano contro le intimidazioni e le coercizioni esterne. L'Autonomia non può essere strumento di forze incapaci di espressioni veramente democratiche e parlamentari. La Dc esce da questa esperienza con le ossa rotte perché il candidato del partito, imposto pesantemente da Roma, non ha riportato in aula tutti i voti del suo gruppo”. E la verità dell'elezione di Silvio Milazzo sta proprio nella frase del socialista Russo: la Democrazia cristiana in Sicilia si è spaccata. Ovviamente anche i comunisti, sono nell'occhio del ciclone, e viene difficile a loro spiegare una alleanza con i fascisti. Silvio Milazzo, primo ribelle della Democrazia cristiana, si trova, con una espressione entrata in voga, a “cavalcare la tigre”. Il neopresidente - è bene, ricordarlo - era stato già sospeso dal gruppo democristiano, con sanzione disciplinare, poiché, alla caduta del governo La Loggia, non aveva voluto seguire le indicazioni del suo partito, rispettando invece la volontà dell'Assemblea regionale. Milazzo, era assessore all'Agricoltura, ed era stato l'unico a dimettersi dalla Giunta. Una volta eletto, comunque, Milazzo ha febbrili incontri a Roma per chiarire le sue posizioni. Fanfani è in escandescenze: inconcepibile, per lui, che un democristiano fosse eletto presidente con i voti determinanti del partito comunista. Milazzo, secondo Fanfani, non è degno di rappresentare la Democrazia cristiana: deve dimettersi dal partito! Di questa opinione non è Mario Scelba: da quell'uomo politico che è comprende che la situazione può essere tenuta sotto controllo, e considera i voti comunisti non condizionanti. A questo punto, molti sono i tentativi per fare abbandonare la carica al neopresidente: si tenta di imporre Giuseppe Alessi, qualora Milazzo si fosse mostrato disposto a collaborare. Ma anche Alessi è un uomo politico di buona levatura: vede la trappola, e non accetta una soluzione imposta dall'alto. Il progetto, quindi, resta solo nelle intenzioni. La stampa, nazionale e locale, si accanisce, cercando di evidenziare i rischi che si possono correre con i comunisti al governo. Guardati a distanza di decenni, questi episodi sembrano precorrere i tempi: è quel che sta accadendo oggi, per certi versi, a livello di politica nazicnale. Ancora una volta Silvio Mílazzo - convocato presso la direzione della Dc a Roma - riceve un invito formale a dimettersi. Ed ancora una volta risponde picche: non può deludere chi lo ha eletto mostrando e dimostrandogli fiducia incondizionata. Interviene anche Scelba e Don Sturzo, ma i tentativi falliscono. Scelba cerca di aggirare l'ostacolo, e si muove per convincere Fanfani (con la buona parola dell'on. Rumor) ad accettare la situazione. Inutilmente: Fanfani non può desistere dalla sua decisione poiché è stato già avvertito, nel caso facesse marcia indietro, che l'on. Nino Gullatti non avrebbe potuto garantire la compattezza del gruppo Dc all'atto della formazione della nuova Giunta di governo. E' una situazione che appare priva di sbocchi. L'unico atteggiamento possibile che la Dc avrebbe potuto tenere è quello di continuare a chiedere le dimissioni, e qualora queste non venissero date, di espellere Milazzo dal partito. Insomma, si vuole la testa del dissidente per sanare le molte beghe interne dei dirigenti politici siciliani. L'ultima strada che la Dc segue: Milazzo viene espulso dal partito, e in questa occasione sono in molti a tirare fuori i precedenti del nuovo presidente della Regione. Milazzo viene accusato di ideologia separatista, -e il giornale democristiano Il Popolo lo grida a tutto spia- no, facendo presente come gia in due occasioni, nel 1943 e nel 1953, fosse stato espulso dal partito per le sue prese di posizioni considerate anticostituzionali. Silvio Milazzo, dopo le calde giornate romane, rientra a Palermo i130 ottobre e forma un governo di “unità siciliana”. Ma ecco come lo stesso Milazzo rievocherà anni dopo, quella fase cruciale della vita politica siciliana: “Cade La Loggia. E' il 23 ottobre 1958. In Assemblea si ha la reazione contro tutto il complesso delle cose andate male e contro quelle non andate secondo i corretti binari politici. Il candidato della Dc è Barbaro Lo Giudice, ma l'Assemblea mi vota come aveva fatto tre anni prima. E' in questo frangente che mi alzo, e annuncio le teorie che ho detto e che mi propongo di applicare. Ma sorgono gravissimi problemi, all’Assemblea siciliana il rituale per il rinnovo del governo è questo: per prima cosa l’assemblea vota il presidente. Poi gli otto assessori. In questo modo il governo non se lo compone il presidente, come a Roma, ma viene a essere composto per votazione diretta assembleare. Che cosa fare? Non era facile. Dal direttivo del gruppo Dc era stato disposto che alla presidenza dovesse andare Barbaro Lo Giudice. La candidatura era stata una mediazione tra Roma e Palermo. Rumor aveva però risposto che il presidente doveva essere Lo Giudice. An- Silvio Milazzo col suo fedele sigaro diamo in assemblea e l'Assemblea dà questo responso: 17 democristiani e 10 alleati per Lo Giudice; 16 democristiani e 28 socialisti, comunisti, fascisti e monarchici per Milazzo. Eletto con i voti dei comunisti, dei fascisti, dei socialisti e dei monarchici resto solo. E mi si pone il dilemma: Milazzo accetti o non accetti? Dico: Accetto con riserva in attesa della votazione di coloro che dovranno essere miei collaboratori, gli assessori. In quegli anni, dunque, la vita pubblica siciliana attraversa la sua fase più acuta e complessa, tanto da balzare prepotentemente all'attenzione nazionale. E l'Italia conierà un nuovo vocabolo: il “milazzismo”. E' una pagina della storia della Regione abbastanza controversa a tutt'oggi, nonostante appunto che siano trascorsi quasi cinquant'anni da quei momenti cruciali. Purtroppo i protagonisti di quelle vicende politiche sono scomparsi. Forse per capirne qualcosa bisognerebbe andare ancora più indietro nel tempo, ed analizzare la nascita e lo sviluppo, e le mancate attuazioni dello Statuto della Regione siciliana che, come è noto, fa parte integrante della Carta costìtuzionale. Forse sarebbe opportuno anche vedere il come e il perché la Sicilia, che possedeva tutti i mezzi statutari per farlo, rimase, ed è rimasta, inerte al progresso industriale che, puntualmente, si è avuto in altre regioni. Ma tutto ciò è materia di un saggio storico, non di articoli che ne rievochino i momenti drammatici che travagliarono l'isola, a causa delle continue, faziose, lotte dei dirigenti i partiti politici del cosiddetto arco che costituzionale. C'era evidentemente, chi non voleva, preso chissà da quali paure o interessi, il rilancio economico e industriale della Sicilia, come se questa terra fosse avulsa da tutto il contesto nazionale. C'è chi all'operazione Milazzo ha fornito le interpretazioni più oscure, nel tentativo solo di farle apparire, invece, chiare. Secondo alcuni, attraverso Milazzo il partito comunista stava cercando di impadronirsi del potere in Sicilia, mentre per gli altri tutto il marchingegno che portò alla presidenza della Regione Silvio Milazzo, non era altro che la manovra dell'Eni, che cercava di ottenere una situazione di privilegio per quanto concerneva la ricerca e la concessione dello sfruttamento di metano e petrolio. C'era infine chi sosteneva che dietro a Milazzo fossero Scelba e Don Sturzo, che volevano raggiungere determinate posizioni di potere a danno della corrente fanfaniana. Un guazzabuglio nel quale era, ed è difficile trovare una linea di raccordo per comprendere in pieno il susseguirsi degli avvenimenti. Cerchiamo, dunque, di procedere con ordine nella esposizione dei fatti. Il pomeriggio del 3 aprile 1958 viene costituita la SoFiS (Società Finanziaria Siciliana), con partecipazione maggioritaria della Regione (51 per cento delle azioni), di enti pubblici e di operatori privati. Questa società avrebbe dovuto avere come finalità precisa l'attuazione di una legge (quella per l'impiego dei 75 miliardi del Fondo di solidarietà) che avrebbe dovuto aprire alla Sicilia un avvenire che, fino a quel momento, non aveva avuto. II primo inghippo, nella cronologia di quella fase politica, si ha con l'esclusione dal Consiglio di amministrazione del presidente, ing. Domenico La Cavera. Inghippo voluto da Don Sturzo, il quale riteneva La Cavera troppo legato all'Eni. Presidente della SoFiS veniva nominato l'ing. Ignazio Capuano, nonostante il parere contrario di Giuseppe La Loggia, presidente della Regione. La Loggia aveva dato per scontata la nomina di La Cavera, anche se era risaputo che Carlo Pesenti non avrebbe mai tollerato ciò. E dicendo Pesenti si intendeva la Confindustria. La Cavera, per meglio comprendere, aveva sostenuto sempre la necessità della presenza delle aziende pubbliche in Sicilia, chiedendo che l'isola potesse usufruire del piano di finanziamento Iri ed Eni. Gli oppositori sostenendo che La Cavera, tutto sommato, facesse il gioco dei comunisti, prendono lo spunto da una situazione contingente per mettere in crisi il governo La Loggia. Ipotesi avvalorata da quanto andava accadendo per le continue difficoltà nelle quali doveva barcamenarsi (per restare in piena efficienza) Giuseppe' La Loggia. Come a significare che la questione della. SoFiS era soltanto un fatto pretestuoso dietro al quale si nascondevano episodi politici più complessi. Insomma era una battaglia tra: Scelba, Don sturzo e Fanfani. Una battaglia per la conquista di una egemonia, per mezzo della quale si sarebbe in un modo o in un altro - indirizzato il futuro della Sicilia. Manco a dirlo, il partito comunista di questa situazione ne seguiva passo passo l'evoluzione, aspettando il momento propizio per entrare in scena in maniera incontrovertibile e pesante, tanto da poter dettar legge. E' un susseguirsi di giornate convulse, e non solo perché fra tanto tergiversare, nel frattempo si è giunti al mese di giugno. Si parla, ormai apertamente, di crisi di governo, e, da più parti, si sollecitano le dimissioni di Giuseppe La Loggia. La stampa, regionale e nazionale, non lesina attacchi, in previsione del dibattito (che si avrà in luglio) e della votazione della legge di bilancio: un'occasione sicuramente strumentalizzabile per discutere il problema della politica economica. Nel quale problema grande attenzione avrebbe assorbito la questione della SoFis, e la programmazione del Piano quinquennale. Alla vigilia delle votazioni, socialisti e comunisti si presentano contro il governo, così come i liberali, mentre i missini costituiscono un grosso punto interrogativo. In seno alla Democrazia cristiana le posizioni appaiono contrastanti, ma le forze all'opposizione sono chiaramente in vantaggio. Per tutto la giornata del 2 agosto si susseguono, alla Regione, i dibattiti, fin quando, in nottata il governo viene battuto sul bilancio. Su ottanta votanti si hanno sette astenuti (i missini), ventidue contrari e cinquantuno a favore, venti sono comunisti: il governo, in pratica, ha ottenuto solo trentuno voti! Non raggiunge la maggioranza. La Loggia rifiuta di dimettersi. Spiegherà il presidente della Regione che l'articolo 94 della Costituzione sancisce che il rigetto di una pro- LA VOCE DELL’ISOLA i nostri Documenti 7 Silvio Milazzo pronuncia il discorso programmatico subito dopo essere stato eletto Presidente della Regione posta governativa non implica revoca della fiducia, cioè che non sussisteva l'obbligo delle dimissioni. La situazione si protrae, con alti e bassi, sino al 3 ottobre (c'è da chiedersi perché le sedute più importanti si protraggono sino a notte alta, o alle prime luci dell'alba) Giuseppe La Loggia consegna al presidente dell'Assemblea regionale. Giuseppe Alessi, la sua lettera di dimissione. A Sala d'Ercole sono in molti a trarre un sospiro di sollievo: la questione è durata a lungo, ma finalmente si è risolta. A vantaggio di chi? Di una maggioranza, di una opposizione, oppure della Sicilia stessa? Forse i veri interessi della Sicilia e dei siciliani in tutta questa storia non c'entravano per nulla. Si tenta il monocolore, e i nomi che si fanno per la presidenza sono quelli di Stagno d'Alcontres, Lo Giudice, Lanza e Milazzo. Ma la formula del monocolore risulta inaccettabile, in quanto troppo debole gli attacchi che sicuramente si sarebbero avuti da lì a poco. Si ritorna a fare il nome di La Loggia, su indicazione di Rubino (segretario provinciale) della Dc di Agrigento). Per una formula tripartita (Dc, Pli, Psdi) acquista maggiore quotazione la candidatura di Lo Giudice, designata il 16 ottobre. La candidatura dell'on. Lo Giudice viene ripresentata il 23 ottobre a maggioranza. Ed è proprio questa giornata, il 23 ottobre, che vede aprirsi il “caso Milazzo”: l'Assemblea regionale scavalca la designazione della Democrazia cristiana ed elegge presidente Silvio Milazzo, con cinquantaquattro voti su 89 votanti. Lo Giudice ottiene solamente ventisette voti! Cosa si è verificato è presto detto. La maggioranza tripartita doveva essere costituita da 46 voti: 37 democristiani, 7 liberali, due socialdemocratici. Per Milazzo hanno votato invece, comunisti, socialisti, missini, oltre nove democristiani dissidenti. Milazzo accetta la carica con riserva che la scioglierà dopo qualche giorno: la Democrazia cristiana si è letteralmente spaccata attestandosi su posizioni divergenti. II 25 novembre del 1958 Silvio Milazzo, presidente della Regione, pronuncia a Sala d'Ercole il discorso programmatico del suo governo: i punti principali indicano chiaramente quale linea si vuole portare avanti. Quella esclusivamente autonomistica. Il succo delle parole del neopresidente sono: abbiamo delle buone leggi (lo Statuto autonomistico), pensiamo ad applicarle nella maniera più giusta, e la Sicilia avrà la possibilità, tante volte negata, di svilupparsi sul piano economico ed industriale. Belle e sincere parole, ma - come suol dirsi - tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. Certo non manca la buona volontà a Milazzo, ma i problemi materiali che gli si pongono davanti sin dall'inizio del suo insediamento, si presentano complessi, se non insormontabili. Nasce, allora, un nuovo partito: l'Uscs (l'Unione Siciliana Cristiano-Sociale), presidente lo stesso Milazzo, segretario politico Francesco Pignatone (ex parlamentare Dc). Sono in molti a ritenere che questa nuo- va compagine politica sia nata, e cresciuta, servendosi di consistenti aiuti finanziari dell'Eni. Ipotesi avvalorata dal fatto che, con il nuovo governo regionale, l'Eni ci naviga bene, ottenendo delle grosse agevolazioni. L'Ente di Stato, infatti, viene esentato dal pagamento di circa metà delle royalties petrolifere, ed anche se la circostanza viene considerata lievemente scandalosa si guarda al futuro ed a tutto ciò che l'Eni potrà rappresentare per la Sicilia. A seguito di questi accordi l'Ente di Stato amplia i progetti di insediamento industriale a Gela, e l'Anic-Gela nasce e si allarga con sostanziosi finanziamenti della SoFiS, che ne diviene una delle principali azioniste. Appena due mesi dopo la creazione dell'Uscs si ha la prima scadenza elettorale cui va incontro Milazzo e la sua Giunta: il 7 giugno del 1959 i siciliani sono chiamati alle urne. La Democrazia cristiana prevede un calo dovuto alla nascita del nuovo partito cattolico. Previsioni che, a livello di voti, risulteranno errate: la Dc cresce, passando da 897.397 voti delle elezioni precedenti, a 937.734. Il gioco dei resti le è contrario e perde tre seggi. Anche il partito comunista avanza: da 482.793 supera il mezzo milione di suffragi (533.148 voti). Il crollo avviene a destra, invece, dove il Msi dai 222.429 voti cala a 187.788. Il partito di Milazzo ottiene un successo neppure lontanamente sperato: 257.023 voti, e nove seggi in Parlamento. L'Uscs ha ottenuto il dieci e sei per cento di tutti i votanti. Milazzo viene accusato sempre più di tirare a sinistra: il voto del Pci alla sua elezione è risultato essere non strumentale, ma sostanziale. Don Sturzo tuona contro il suo figlioccio, definendolo “strumento incosciente nelle mani della sinistra e degli uomini che lo avevano circuito”. Ne nasce un'aspra polemica, i due cattolici si scontrano sul piano dei comunicati stampa, e corsivi giornalistici. Milazzo rilascia una dichiarazione all'Ansa: “Don Sturzo manca da trentanove anni dalla Sicilia, e in trentanove anni molte cose che sono cambiate, possono sfuggire al suo attento acume. A Don Sturzo consento di dire tutto, ma debbo precisare che io mi sento strumento nelle mani del popolo siciliano”. I rapporti diventano estremamente incandescenti dopo che si apprendono i risultati elettorali. La Democrazia cristiana fa gioco pesante ed invita gli elettori dell'Uscs a rientrare nelle file, incitandoli a lottare Milazzo. Dopo poco più di un mese l'Assemblea Regionale esprime, ancora una volta, il suo parere favorevole al governo Milazzo: all'apposizione sempre Dc, socialdemocratici e liberali. E' il 21 luglio del 1959: hanno inizio le trattative per la formazione della nuova Giunta. La Dc cerca di aggirare l'ostacolo avvicinandosi ai fascisti, ed invitandoli a togliere il loro appoggio a Milazzo: si lancia la proposta della creazione di un governo di coalizione anticomunista, e poiché Milazzo è inamovibile, ci si mostra disposti a lasciarlo alla Presidenza. Il problema dei dissidi interni si risolve in una questione di merito: la maggioranza all'interno della Dc va allargata, oppure semplicemente mutata? A cosa mira, in realtà, la Democrazia cristiana? A formare un governo di centro-destra? Ma come avrebbe reagito la forte base antifascista del partito? Lo stesso on. Giuseppe Alessi dichiara pubblicamente che è controproducente per la Dc schierarsi contro il partito di Milazzo, lanciando al leader dell'Uscs un invito indiretto. “Milazzo è al bivio - sottolineerà Alessi -. Deve scegliere fra il successo personale ed il successo politico. Fra lo stravincere ed il vincere facendo l'interesse della Sicilia. A cosa gioverebbe sul piano programmatico?”. Ed anche a Roma, a questo punto, ci si accorge che la parola è a Milazzo, ma il presidente della Regione fa orecchio da mercante, attendendo che gli eventi possano maturare ulteriormente. Con questa situazione fluida si giunge alla formazione del secondo governo presieduto dal ribelle democristiano. Le previsioni vengono rispettate: Milazzo la spunta e forma la Giunta secondo il suo criterio. Ne fanno parte Ludovico Corrao (Uscs), Gioacchino Germanà (Uscs), Romano Battaglia (Uscs), Mario Crescimanno (indipendente, ex Msi), Sergio Marullo (indipendente, ex monarchico), Ernesto Pivetti (indipendente, ex monarchico), Benedetto Maiorana della Nicchiara. La frattura all'interno della Democrazia cristiana siciliana si allarga, l'accordo tentato con l'Uscs non avviene. Per Milazzo si presenta una gestione difficile del potere, che lo porterà a scelte sempre più pericolose. Il braccio di ferro continua con momenti di enorme esasperazione: la Sicilia è nell'occhio del ciclone e presa di mira dagli strali dei quotidiani nazionali. La pressione che la DC effettua sul piano individuale è pesante, e si cercano i franchi tiratori che possano pugnalare alle spalle Milazzo, senza che lui stesso ne abbia alcun sentore. Lo scoglio è sempre il voto sul bilancio: la maggioranza di cartello di Milazzo prevede 46 voti, ma due franchi tiratori mostrano la corda. Si verifica la identica situazione che aveva portato alla crisi del governo La Loggia. Ulteriori trattative romane: il presidente Uscocco propone un allargamento della maggioranza su una base che vedesse al centro il suo partito, a sinistra il partito socialista ed a destra la Dc. Ma mentre sono in corso tali trattative, i due franchi tiratori, vengono recuperati, e tutto va a monte. La crisi continua con fasi alterne: tutto può esplodere da un momento all'altro. Chi vincerà il braccio di ferro? Quel che accade in Sicilia appare veramente paradossale: non s'è mai verificato in nessuna parte del mondo! Nonostante che gli incontri nella Capitale si susseguissero a ritmo vertiginoso (senza apparenti risultati), a Sala d'Ercole Milazzo supera la crisi, ottenendo 50 voti, quattro m più della maggioranza di cartello. Ci sono malumori anche all'interno deli'Uscs, subito chia- LA VOCE DELL’ISOLA i nostri Documenti 8 me i tre governi presieduti da Milazzo, tutto sommato, non hanno portato alla Regione quei benefici tanto ventilati e vantati. Ed è questa la buccia di banana sulla quale scivola il ribelle Milazzo: la dimostrazione che l'industrializzazione dell'isola come preventivata non era avvenuta. Inoltre (sempre a livello di discredito) si appunta all'Uscs di reggersi con finanziamenti derivati da corruzione politica e da privilegi derivati da compromessi vari. Si parla di corruzione di uomini politici, ed il fianco lo mostra (ma la veridicità di tutto ciò non è mai stata provata) l'on. Ludovico Corrao accusato di avere offerto cento milioni all'on. Carmelo Santalco, per passare dalle file della DC a quelle dell'Uscs. Questo scandalo lascerà molti lati oscuri. Ricostruiamo brevemente la dinamica. E' il 15 febbraio del 1960. L'incontro tra Corrao e Santalco avviene nel noto albergo "Delle Palme" a Palermo. Corrao (alter ego di Milazzo) tenta con ogni sistema (secondo le accuse) di ottenere l'adesione di Santalco. Le trattative sono lunghe: vale, comunque, l'ultima offerta. Quella dei cento milioni. Saltalco chiede tempo per la sua decisione. Evidentemente è tutta una trappola. Saltalco lasciato Corrao, si sposta a Sala d'Ercole, dove stanno per iniziare i lavori dell'Assemblea. Chiede la parola, ed ottenuta, sale alla tribuna. Con fare concitato spiega all'assemblea che è stato oggetto di un tentativo di corruzione, e che può fornire le prove di quanto asseriva. Corrao (che lo aveva seguito) interviene subito dopo chiedendo che fosse istituita riti. La nuova rielezione di Silvio Milazzo provoca il totale irrigidimento della Dc, anche perché la potenza del leader ribelle sembra accrescersi quando c'è la votazione per la Giunta di governo, che viene eletta addirittura con 52 voti. E' un pasticciaccio. Il 1959 si chiude con la chiara vittoria dei dissidenti: una vittoria soltanto apparente, come i fatti che accadranno da lì a qualche mese, dimostreranno ampiamente. Polemiche su polemiche, speranze che si aprono per poi creare delusioni. Molti sostengono che per la Sicilia stia per aprirsi un'era "nuova" a seguito dell'awenuta industrializzazione. La SoFiS allarga il capitale azionario per l'AnicGela. La Cavera così si esprime: “Uno dei più grandi colossi industriali mette le sue profonde radici nell'isola. Oggi, a molti, appariranno chiari i motivi della mia battaglia, i motivi della mia polemica. Quello che sorge a Gela, non si fermerà a Gela. Intorno a Gela sorgeranno molteplici industrie”. Peccato che queste previsioni poi siano state mortificate dal mancato sviluppo industriale della Sicilia. Anche Milazzo insiste sulle posizioni di La Cavera: “L'intervento dell'Eni non è soltanto un atto economico di grande rilievo per lo sviluppo industriale della Sicilia. E' il riconoscimento, insistentemente da noi invocato, del carattere di doveroso impegno cui dovrebbe essere sempre improntata l'azione degli enti economici dello Stato nell'ambito della Regione”. Sono i giorni del vino e delle rose: delle facili ubriacature e delle speranze che il tempo distruggerà. La Sicilia è stata sempre terra di conquista, e tale resterà. Tutte le promesse svaniscono, come quelle che prevedevano l'intervento dell'Iri per la costruzione di un centro siderurgico nel Palermitano. Progetti che restano sulla carta: le battaglie economiche che la Sicilia conduce in questi mesi sono perdute in partenza, anche se i promotori sono in perfetta buona fede, ed operano per il benessere della loro terra. Anche se tutto doveva essere dimostrato. Le intenzioni sicuramente erano buone, ma le lotte intestine della classe dirigente, assetata di potere, hanno il solo risultato di consentire agli altri facili speculazioni, basate su uno stato di necessità. La verità era anche che mancavano le strutture sulle quali potere edificare il castello di illusione di quanti (come detto in buona fede) si sforzano di dare un serio impulso alle attività industriali. La teorizzazione è un conto, l'atto pratico è tutt'altro. Ai primi del 1960 la parabola di Silvio Milazzo, del suo governo, è già in fase discendente: il leone non è addomesticato, ma incomincia a morire sotto gli attacchi del domatore. La guerra ad oltranza dichiarata dalla Dc alla sua pecora nera non poteva, chiaramente, avere altro sbocco. Il segretario della Democrazia cristiana, on. Giuseppe D'Angelo non può darla vinta al nuovo partito cattolico, l'Unione Siciliana Cristiano Sociale, che potrebbe costituire una alternativa alla Dc. Un pericolo da eliminare, ed i mezzi per farlo sono tutti validi. La prima manovra (già collaudata in altre circostanze) è il discredito: l'Uscs è uno strumento nelle mani del partito comunista. In secondo luogo si dimostra co- Silvio Milazzo nella sua abitazione nel 1980 ricorda gli anni della lotta politica alla Regione Siciliana una commissione d'inchiesta per accettare la veridicità delle accuse mossegli. La Commissione d'inchiesta verrà costituita, ma il governo Milazzo è costretto a dimettersi a seguito dello scandalo e non avrà più la forza di risalire la china. Molte ipotesi sono state avanzate sulla natura e sulla dinamica dello scandalo che portò alla fine del milazzismo. C'è chi ha sostenuto che l'Eni, cioè Mattei, abbia avuto un ruolo determinante nel portare avanti, e poi distruggere, Milazzo. Si verrà anche a sapere che l’incontro segretissimo tra Corrao e Santalco all'hotel Delle Palme, fu seguito, passo passo, dai servizi segreti di controspionaggio (il Sifar), che avevano fornito per la particolare circostanza l'assistenza tecnica. La Commissione d'inchiesta regionale (diretta dall'on. comunista Antonino Varvaro) rese pubblici i risultati delle indagini dopo due mesi di lavoro: non escludeva che Corrao fosse caduto in un tranello, come non escludeva che un qualche tipo di trattativa, in realtà, si fosse avuta. La Democrazia cristiana, quali che fossero stati i mezzi adottati, vince dunque il braccio di ferro con l'Uscs. E non poteva essere altrimenti nell'alternarsi di una classe dirigente che poneva come fine ultimo la leader ship politica. Quel che è avvenuto in Sicilia, insomma, è da rivedere alla distanza di quasi mezzo secolo nelle linee della stessa politica nazionale: il gioco dei compromessi (stonci e non storici), e alleanze momentanee e fittizie, gli interessi industriali finalizzati, eccetera, eccetera. Qualcuno si chiese, allora perché Benedetto Majorana della Nicchiara abbandonò Milazzo. La risposta la fornirono i fatti: la presidenza della Regione costituisce un motivo valido per qualsiasi tipo di cambiamento umano e politico. Come reagiscono i comunisti alla caduta di Milazzo? Lo si saprà in termini ufficiali quattro mesi dopo, il 3 giugno allorché si tiene a Palermo il VI Congresso regionale del Pci. L'on. Emanuele Macaluso prenderà le difese dell'ex presidente, dichiarando anche: “La Sicilia ha un nucleo di forze dirigenti capaci di farla procedere sulle difficili vie della resurrezione sociale ed economica. Se non sono oggi alla direzione politica della Regione è perché ancora prevale la discriminazione non solo contro partiti dei lavoratori, ma anche contro gli stati più vivi della borghesia siciliana”. Quale è stata l'opinione del protagonista in merito alle vicende da lui vissute? Milazzo così si è espresso sulla fine dei suoi governi: “Ammazzai io il milazzismo, per vivere. Per continuare a vivere fisicamente. Il milazzismo dura un'anno e mezzo di logorìo. L'azotemia mi arriva a un livello massimo: 3,75. Le mie forze non reggono. Tengo presente che non ci fu console, non ci fu ambasciatore che non mi volle conoscere. Corrao, Ludovico Corrao, quello che venne indicato come il mio delfino, tentò di convincermi di andare in Russia. Non ci andai. Ci andò lui col solito carrettino, siciliano per Kruscev. E Kruscev gli disse: E Milazzo perché non è venuto?". Dunque, il milazzismo finì perché non ne potevo più fisicamente. Ma cessò anche di vivere a causa di un complotto. Il colpo finale contro il milazzismo venne, dalla cosiddetta beffa delle Palme. La cosa fu ordinata da un uomo della Dc che poi si guadagnò un posto di senatore con la complicità involontaria, anzi con la stupidità, di quello che veniva chiamato il mio delfino, Ludovico Corrao, il forsennato che era andato a trovare Kruscev e che mi voleva portare in giro per il mondo dove, mi diceva, la gente voleva veder l'autore di questo importante fenomeno. Scoppia lo scandalo. La commissione incaricata dell'inchiesta accerta che io non c'entro. Ma la tensione è tale che io non ce la faccio ad andare avanti. Allora vado in assemblea, mi alzo a parlare, e dico: Signori io me ne vado. E siccome non trovo le giuste parole italiano, ve lo dico in latino non istantem; subito, istantium più subito. Ancora: instantissime; subitissimo. Non ne posso più. E me ne vado". Così si concludeva la magnifica avventura di Silvio Milazzo, durata appena un anno e mezzo. Se fosse durata di più? Chissà, forse, non si può dire... La Sicilia sta sempre qui, ad attendere che le cose cambino. 10 L ’aeroporto di Catania Fontanarossa “Filippo Eredia”è stato al centro di fatti misteriosi in più circostanze, il’episodio più inquietante quello che riguarda la fine del presidente dell’Eni, Enrico Mattei. È da Catania, infatti, che decolla l’aereo con a bordo l’uomo politico e “imprenditore”dello Stato più discusso e più temuto del dopoguerra. Bascapè, in provincia di Pavia, a dodici chilometri dall’aeroporto di Milano-Linate, 27 ottobre 1962: è sabato e nella pianura cade insistente la pioggia. Poco prima delle ore 19 un contadino (Mario Ronchi, 41 anni) cena all’interno del suo cascinale di Londriano quando sente un “rumore fortissimo”. Si affaccia a guardare fuori: «Ci sono rimasto con una paura tremenda. Il cielo era rosso e bruciava come un grande falò, e le fiammelle scendevano tutt’intorno. Sulle prime ho pensato ad un incendio, poi ho capito che doveva trattarsi di un aeroplano. Si era incendiato e i pezzi stavano cadendo sui prati, sotto l’acqua…». Ciò che aveva visto il contadino è stata la conseguenza di una esplosione, quella di un aereo: il “Morane Saulnier”, sigla “I Snap”dell’Eni con a bordo il presidente dell’ente Enrico Mattei, il pilota Irnerio Bertuzzi ed il giornalista americano William Mac Hale, capo della redazione romana di “Time”e “Life”. Il velivolo, un bireattore executive era esploso in volo a pochi chilometri dall’aeroporto di Linate, dove doveva atterrare. Il contadino testimone dell’evento continua: «Mi sono infilato gli stivaloni, ho afferrato una lampada e sono corso verso il luogo in cui il fuoco era più grande e faceva paura. Pensavo di poter soccorrere qualcuno, ma non c’era più niente da fare. Sono corso subito ad avvertire i carabinieri di Landriano, e ho guidato sul posto il brigadiere con i suoi uomini». L’aereo di Mattei era precipitato a pezzi in un campo dietro un filare di pioppi, a pochi metri da una roggia, scavando una buca enorme dove a malapena si intravedeva uno spezzone di coda del velivolo. Intorno, i rottami sparsi in mille pezzi, frammisti a brandelli di carne, per un raggio di trecento metri. Oltre alla segnalazione del contadino, è già la torre di Linate che, qualche minuto dopo le 19, dà l’allarme, avendo perso alle 18,51 il contatto radio con il pilota del “Morane Saulnier”. Le telescriventi danno del disastro un flash incompleto solamente alle ventidue e trenta di quel giorno: «L’aereo dell’ingegner Mattei è caduto a Bascapè, nei pressi di Malegno, in provincia di Pavia. La notizia è stata appresa presso la torre di controllo di Linate». Così veniva comunicata la morte del presidente dell’ente petrolifero di Stato, che tanto aveva fatto parlare all’estero per la sua politica tendente ad infrangere il dominio monopolistico del cartello petrolifero angloamericano. Il velivolo della flotta privata dell’Eni era decol- LA VOCE DELL’ISOLA i nostri Documenti lato dall’aeroporto di Catania Fontanarossa, diretto a Milano, alle 16,57. Mattei aveva trascorso l’ultima mattinata della sua vita a Gagliano Castelferrato (in provincia di Enna), fra festeggiamenti, discorsi e molte speranze: a poca distanza dal paese era stato trovato il metano e con il metano erano nate le polemiche e le speculazioni. II paese era in agitazione, così come gli ambienti qualificati dell’Isola. Mattei, quel giorno, si è recato appositamente a Gagliano perché vuole calmare le acque, vuol tranquillizzare la piccola comunità. Questo è quanto hanno sostenuto “dopo”le fonti ufficiali sull’improvviso viaggio del presidente dell’Eni in Sicilia, ma, probabilmente – e le ipotesi sono svariate – i reali motivi consistevano in una serie di incontri con personaggi isolani e forse stranieri. Mattei, quel 27 ottobre del 1962, tiene un discorso dal balcone del Circolo degli Operai, che dà sulla piazza principale del paese. Parla, in quella circostanza, anche il presidente della Regione, D’Angelo, e le sue parole assumono il tono della profezia: «Mattei – dice – porta un carico sulle spalle di tanta responsabilità, di tanto impegno, che non gli consente mai di dormire sonni tranquilli. Questo è un uomo che ha mezzo mondo contro di sé, e deve stare molto attento. Noi possiamo sbagliare e rimediare. Lui se sbaglia una volta è perduto per sempre». Mattei era stato in Sicilia alcuni giorni prima, e quel viaggio appare, nelle sue connotazioni, ben strano per un uomo occupato in affari internazionali che richiedevano sempre la sua presenza fisica. Il fratello del presidente dell’Eni, Italo Mattei, dichiarerà: «Mio fratello era stato in Sicilia appena sei giorni prima, il 18 ottobre. A Palermo si era impegnato perché Gagliano avesse uno stabilimento per 400 operai e perfino una scuola professionale. L’impegno era stato preso davanti al sindaco, ingegnere Cuva, e all’on. D’Angelo, neopresidente della Regione. Tornato a Roma, il 20 ottobre, Mattei fu raggiunto da una telefonata: a chiamarlo era il suo collaboratore Graziano Verzotto, che gli prospettò la necessità di tornare urgentemente in Sicilia perché la popolazione di Gagliano era nervosa, parlava di barricate e voleva essere tranquillizzata da una visita del presidente dell’E- ni. Mio fratello diventò a sua volta nervoso. Non aveva proprio tempo da perdere: lo aspettava, fra l’altro, in Algeria, l’accordo petrolifero da firmare con Ben Bella il 6 novembre, la battaglia decisiva con le grandi compagnie petrolifere internazionali. Il 25 ottobre Mattei ricevette una seconda telefonata, che credo venisse da Gela. Dalle risposte di Enrico mi resi conto che era stato compiuto un attentato contro attrezzature dell’aeroporto di Gela, dove avrebbe dovuto atterrare il suo bireattore personale. Enrico, urtato dalla notizia, ma anche francamttente irritato, rispose: “Io a Gela ci vengo ugualmente e in aereo. E se mi vogliono ammazzare, facciano pure”». Qualcosa in pentola, dunque, bolliva veramente. Ma perché avrebbero dovuto uccidere Mattei, e chi era quest’uomo che era diventato un pericolo per le “grandi compagnie petrolifere internazionali”? Numerose le pubblicazioni e gli articoli su quotidiani e riviste, nazionali ed esteri, hanno cercato di dare risposte a questi due – apparentemente semplici – interrogativi, ma senza pervenire a spiegazioni definitive. Quel che sembra assodato, e pur tuttavia mai provato, è che la preparazione dell’attentato a Enrico Mattei (il sabotaggio, cioè, dell’aereo), avvenne mentre il “Morane Saulnier”era posteggiato in un’area prospiciente la piccola aerostazione di Fontanarossa. Mattei nasce ad Acqualagna in pronvincia di Pesaro, il 29 aprile 1906, da una famiglia di modeste possibilità. Da giovane lascia gli studi ed a quindici anni è già al suo primo impiego come verniciatore; in meno di cinque anni è direttore di una fabbrica con alle dipendenze 150 operai. Nel 1930 cambia attività, diventa commesso viaggiatore, rappresentando prodotti scientifici tedeschi. Poi, con un piccolo capitale e tanti debiti che ben presto paga, crea a Bergamo una fabbrica specializzata, la “Industria Chimica Lombarda”, che resterà attiva, nonostante la guerra, fino al 1943. Dopo l’armistizio, la “sua”scelta: la “Resistenza”, fra i partigiani cattolici, con un posto di responsabilità. Viene arrestato due volte dai nazifascisti e riesce a scampare anche alla fucilazione. Alla fine della guerra il suo nome è popolare in tutta l’alta Italia. Il 12 maggio 1945 gli viene affidato, dal Comitato di Liberazione Alta Italia, la carica di commissario straordinario dell’Agip per l’Italia settentrionale e, nell’autunno dello stesso anno, già membro del Consiglio nazionale della Dc, viene nominato alla Consulta nazionale. Allorché si scopre il metano nella pianura Padana, Mattei ottiene dal ministro Vanoni, in esclusiva, la concessione per lo sfruttamento e la ricerca di idrocarburi su quel territorio. Nel 1948 viene eletto deputato nella circoscrizione di Milano-Pavia ed appena un anno dopo, quando una sonda dell’Agip, a 1600 metri di profondità, trova a Cortemaggiore un giacimento di petrolio, è in grado di cavalcare la tigre. Incomin- LA VOCE DELL’ISOLA i nostri Documenti cia a nascere il “mito”e Mattei sa sfruttare più che bene la situazione del momento: la scoperta dell’oro nero in Italia può considerarsi un vero miracolo. Nonostante che, qualche mese dopo, l’8 giugno, il ministero dell’Industria cerchi di ridimensionare la scoperta, volendo ridimensionare la stessa figura del dirigente democristiano, Mattei mostra tutto il peso che può avere sul governo. Nessuno riesce a contrastarlo facilmente: la sua linea è accettata dalla Dc, che chiede al Parlamento l’emissione di una legge per affidare, all’azienda di Stato, l’esclusiva delle ricerche e dello sfruttamento degli idrocarburi nella Val Padana. Mattei punta psicologicamente sull’affermazione dello “Stato”affinché gestisca le ricchezze minerarie del suo territorio per farle defluire a vantaggio della collettività. Dopo una lunga battaglia, il 27 marzo del 1953, la “Gazzetta Ufficiale”pubblica la legge istitutiva dell’Eni: Mattei ne viene nominato presidente. Questa battaglia vinta costituisce una sconfitta non solo per la Confindustria ma anche per il cartello petrolifero internazionale, che, certamente, non gradiva la presenza di un ente statale che cercava di accaparrarsi “monopoli”. I primi scontri sul mercato internazionale l’Eni di Mattei incomincia ad averli nel 1957, quando l’ente di Stato crea le strutture, la rete di ricerca e distribuzione, e necessita sempre maggiormente di greggio. Si incomincia con la questione del Sahara, un territorio rivelatosi una inesauribile miniera. La Francia in quel periodo tentava di garantirsi lo sfruttamento monopolistico della zona del deserto Algerino (allora colonia francese) e nonostante si trovi di fronte gli ostacoli del cartello petrolifero internazionale e degli Usa, riesce a raggiungere un compromesso. Mattei si inserisce in questa disputa, e fornisce aiuti ai rivoluzionari del Fronte Nazionale di Liberazione, prendendo contemporaneamente contatti con la Libia, i cui territori confinano ad Oriente con il tratto di Sahara dove erano stati rinvenuti i giacimenti petroliferi. In Libia, in quel periodo, regnava sovrano re Idris, e con questi Mattei raggiunge un accordo per la concessione di una vasta area nel Fezzan, ai confini dell’Algeria. Era il marzo del 1957. Agli americani l’invadenza dell’Eni non era certo gradita: Mattei si era trasformato sempre più in un uomo estremamente pericoloso. L’accordo con la Libia non passa a seguito delle pressioni americane. Mattei si lancia all’attacco: nel 1960 conclude con la Tunisia un accordo per la definizione della costruzione e della gestione di una raffineria e per un permesso di ricerca, sempre nel Sahara. Stipula accordi anche con altri paesi africani, dalla Somalia alla Nigeria, dal Marocco al Ghana, al Kenia, all’Uganda. L’Eni cresce smisuratamente e, pur essendo azienda di Stato, chiude bilanci con utili diretti e netti (quello derivante dalla differenza fra il prezzo di produzione e il prezzo politico di vendita) calcolati in oltre quaranta miliardi annui, molti dei quali reinvestiti. Per Mattei, comunque, c’è sempre la necessità di trovare nuovo greggio ed al prezzo più basso. L’opportunità gli viene offerta dall’Unione Sovietica, con la quale raggiunge un accordo sostanzioso che segnala la definitiva rottura tra Eni e le compagnie americane. Mattei si trova, pertanto, con Francia, America e cartello petrolifero alle costole; non a caso un americano appartenente alle alte sfere di una delle massime compagnie petrolifere, il 12 settembre del 1960 a Piacenza, in occasione dell’VIII Congresso dei petroli, affermerà che «non riusciva a capire come mai nessuno avesse ancora trovato il modo di fare uccidere Mattei». In quei giorni i quotidiani francesi accusano apertamente il presidente dell’Eni di finanziare e fornire armi ai guerriglieri del Fronte Nazionale di Liberazione algerino. Si vede bene, a questo punto, come molti sono interessati a fare scomparire Mattei dalla scena in 11 Nelle pagine 9 e 10, le foto della tragedia di Bascapé il 27 ottobre del 1962: gli inquirenti esaminano i resti del velivolo di Enrico Mattei A sinistra le locandine del film inchiesta di Francesco Rosi “Il caso Mattei” Sopra, una sequenza della ricostruzione cinematografica che ha fatto il regista sulla preparazione dell’attentato dell’aereo del presidente dell’Eni mentre era parcheggiato nel piazzale dell’aeroporto di Catania Fontanarossa A pagina 12 la partenza di Enrico Mattei dallo scalo di Catania; i rottami del velivolo a Bascapé 12 maniera definitiva. Le minacce di morte e gli attentati non tardano a venire, così come non mancano le pressioni sul piano nazionale. L’aeroporto di Fontanarossa, nel 1962, è ancora nelle condizioni post belliche, con l’unico dato – considerato all’epoca positivo – di possedere un’aerostazione, quella inaugurata nel 1950 dal ministro degli Interni Mario Scelba. Non ci sono servizi di sicurezza adeguati. I tempi, in realtà, erano diversi dagli attuali e non si mostravano concrete ragioni per attivare misure preventive di allarme per scongiurare eventuali pericoli. L’aerostazione era aperta dall’esterno all’interno attraverso il salone-aerostazione, dal quale si poteva accedere direttamente all’area parcheggi velivoli. Gli aerei delle Compagnie aeree operanti su Fontanarossa venivano raggiunti a piedi dai passeggeri i quali, prima della partenza, potevano attendere la chiamata del volo e l’imbarco, fermandosi a prendere un caffé o una bibita, seduti ai tavoli del bar collocati nella terrazza che dava direttamente sul piazzale velivoli, separato dall’edificio dell’aerostazione soltanto da una staccionata alta poco meno di un metro e mezzo. Il servizio di sicurezza era affidato ad un personale ridotto di polizia, l’intera zona aeroportuale interna poteva essere facilmente raggiunta da persone che non destassero particolare attenzione. In diverse ricostruzioni giornalistiche e nel filminchiesta di Franco Rosi, “Il caso Mattei”, oltre che nei processi per chiarire la fine del presidente dell’Eni, si è detto dettagliatamente che il “Morane Saulnier”è stato sabotato mentre si trovava all’aeroporto di Catania, prima che decollasse per la sua destinazione lombarda. Si è parlato di un’azione criminale ben congegnata, che ha toccato, organizzativamente, diversi livelli, sia politici che tecnici, quelli principali vicini allo stesso Mattei. È stato accertato che lo stesso Mattei, non ritenendo sicuro il vecchio aeroporto militare di Gela, avesse impartito l’ordine di portare, la sera prima di quel fatidico 27 ottobre, il piccolo bireattore francese all’aeroporto di Fontanarossa, dove venne parcheggiato in una piazzuola normalmente usata dai velivoli dell’Aeronautica Militare. In questa piazzuola l’aereo rimarrà per l’intera notte tra il 26 e il 27 ottobre fino all’ora del decollo, nel primo pomeriggio. Non c’era personale dell’Eni, o dello scalo, a sorvegliare il velivolo. Lo stesso pilota Irnerio Bertuzzi trascorrerà la sua ultima notte in un albergo di Catania. Il tempo per preparare un sabotaggio, curato nei minimi particolari, era, quindi, abbastanza ampio. Alla fine del 1995, dopo 33 anni d’indagini e d’inchieste pubbliche che non avevano prodotto alcun risultato, grazie alla perizia ordinata dalla Procura di Pavia, sarà accertato che l’aereo di Mattei è esploso in volo “a causa di una carica di cento grammi di Compound B, potente e dirompente esplosivo, posta dietro il cruscotto dell’aeromobile, collegata con il congegno d’apertura del carrello, in modo da esplodere poco prima dell’atterraggio”. Questa carica di esplosivo sarebbe stata posta sul velivolo durante la sosta a Catania. Altri particolari inquietanti emergeranno da questa inchiesta della magistratura: il Pm della Procura di Pavia Vincenzo Calia ha scoperto che il “Morane Saulnier”di Mattei quel tragico giorno a Fontanarossa ha registrato due rifornimenti di carburante in poche ore, rifornimenti non giustificati per le poche miglia percorse dall’aereo. Il magistrato ha dedotto che quel giorno, a disposizione di Mattei, ci fossero due velivoli identici dell’Eni in Sicilia: uno per essere utilizzato, l’altro per distogliere l’attenzione da eventuali malintenzionati, collocato altrove. L’Eni ha dovuto confermare al giudice Calia la presenza dei due aerei in Sicilia, quello pilotato da Bertuzzi ed esploso con Mattei e il giornalista William Mc Hale, l’altro pilotato da Ferdinando Bignardi, morto in circostanze misteriose nel 1980, ucciso da una bomba all’hotel Norfolk di Nairobi. Interrogativi rimasti senza risposte, frammisti a certezze, a dati di fatto, per episodi accadu- LA VOCE DELL’ISOLA i nostri Documenti ti nei giorni che precedettero la partenza da Fontanarossa del presidente dell’Eni. Dopo le minacce ricevute, e tenuto conto dei pericoli che correva, Mattei aveva rafforzato le sue misure di sicurezza affidando il delicato servizio “personale”ad un uomo di sua fiducia, l’ex partigiano Rino Pacchetti, medaglia d’oro della Resistenza, suo antico compagno nella lotta clandestina. Ebbene, alla vigilia dell’ultimo viaggio in Sicilia di Mattei a Pacchetti viene revocato l’incarico con l’ordine di sospendere ogni sorveglianza, che sarebbe rimasta affidata solo agli uomini dei servizi segreti delle Forze armate, agli uomini del Sifar. Un caso identico a quello già verificatosi nella primavera precedente, quando al motorista di fiducia del pilota Irnenio Bertuzzi, Erminio Loretti, venne revocato l’incarico del controllo del “Morane Saulnier”e trasferito in altra sede. Erminio Loretti e il figlio Marino periranno in un incidente aereo, a bordo di un “De Havilland”di loro proprietà, il 12 agosto del 1969. Per il giudice Calia anche gli avvenimenti che precedettero il sabotaggio del velivolo dell’Eni a Catania e le susseguenti morti sono collegate al caso: c’era chi aveva progettato la fine di Mattei in tutti i particolari senza trascurare nulla. Quanto si verificò all’aeroporto di Fontanarossa è ancora avvolto nel mistero, nonostante che il quadro complessivo appaia chiaro. Gli avvenimenti di quel 27 ottobre del 1962 a Fontanarossa, probabilmente, cambiarono le sorti dell’Italia politica ed industriale. Episodi minori, ma non meno inquietanti, quelli verificatisi nel 1978 e nel 1980: due velivoli scomparsi nel nulla subito dopo il loro decollo da Catania. In una calda serata di luglio del 1978, giovedì 26, il pilota di un bimotore civile, un vecchio “Dc3”– comunemente noto con il nome di Dakota – chiede di effettuare un atterraggio con sosta. Il pilota parla infrancese e declina le generalità di rito: ottiene l’autorizzazione alla manovra. Sono le 21.50 quando il velivolo rulla sulla pista per rag- giungere l’area di parcheggio. I componenti dell’equipaggio, tre elementi, si presentano all’ufficio traffico ed esibiscono le carte di volo. Tutto appare in regola: il bimotore proviene da Palermo e la sua destinazione, per l’indomani, è Brindisi. I funzionari italiani apprendono dalla documentazione presentata che il velivolo (sigla F-Biee) appartiene ad una società francese che effettua servizio privato e concedono l’autorizzazione alla sosta ed il rifornimento carburante. Niente di particolare viene segnalato. I tre componenti dell’equipaggio lasciano lo scalo per dirigersi in città. All’indomani il pilota del Dc-3 si ripresenta all’ufficio traffico di Fontanarossa con il piano di volo, chiedendo di potere lasciare l’aeroporto ed effettuare un volo in “V-FV”, cioè con le regole del volo “a vista”, che si effettua solo quando le condizioni atmosferiche sono ottime ed a determinate quote che non superano i mille e cinquecento metri. Il permesso viene accordato ed alle 10,18 il vecchio Dakota accende i motori e rulla sulla pista, in attesa che la torre di controllo gli fornisca la frequenza del primo radiofaro sul percorso, quello di Reggio Calabria. Ottenuta l’informazione, il bimotore decolla alle 10,23 e, pochi minuti dopo, è il silenzio radio. L’allarme scatta poco prima delle ore 11; il pilota dell’aereo francese, mentre sorvolava lo Stretto di Messina, aveva interrotto il contatto radio con la torre di controllo di Fontanarossa senza aver chiamato Reggio Calabria o qualsiasi altro aeroporto. Dalla base di Maristaeli si alzano in volo elicotteri alla ricerca del “Dc-3”e da Sigonella decollano due “Atlantic-Breguet”del 41° Stormo, che perlustrano sia la zona di mare antistante le coste, sia l’entroterra isolano e calabro, temendo che l’aereo fosse precipitato. Le ricerche durano a lungo, per giorni; non si scopriranno rottami. Il Dakota non è precipitato. Viene aperta una indagine da parte dei carabinieri che scoprono che la sigla dell’aereo fornita dal pilota non risulta negli appositi registri internazionali. Si scopre che soltanto due dei tre elementi dell’equipaggio (il pilota Roland Raucoules, di 33 anni, algerino residente a Parigi, e il quarantottenne Michel Winter) sono stati alloggiati in un albergo della città, mentre del terzo elemento non si riesce a ricostruirne i movimenti, né le generalità. Sulla stampa si avanzerà l’ipotesi (che verrà smentita) che lo sconosciuto passeggero fosse Gheddafi, giunto in incognito a Catania chissà per quale ragione. Della faccenda ingarbugliata si occuperanno i servizi segreti italiani e francesi, ma la verità sulla scomparsa del “Dc-3”e dei suoi passeggeri non verrà acclarata. A conclusione dell’inchiesta si verrà a sapere che il bimotore apparteneva alla società “General air service”di Nizza, che lo aveva venduto ad un intermediario alcuni giorni prima che svanisse nel nulla, il 21 luglio; si conosceranno anche le generalità del terzo componente dell’equipaggio: Philipe Toutot, che sarebbe ripartito da Fontanarossa assieme ai suoi compagni di viaggio. Si dirà anche che il velivolo forse veniva utilizzato per traffici illeciti, ma non si scoprirà altro. Identica situazione per un monoplano “Piper”tedesco, decollato da Fontanarossa il 21 aprile del 1980. Il velivolo, giunto a Catania due giorni prima, proveniva da Monaco ed a Monaco era diretto quando si è staccato dalla pista alle 8 del mattino, con rotta su Ponza, Firenze, Bologna, Bolzano. Sul piccolo velivolo, immatricolato nei registri della Germania Federale con la sigla “Degfp”, il primo pilota, un ufficiale di nome Krohen, un secondo pilota, di nome Wimboch, e due passeggeri di generalità sconosciute. A sette minuti dal decollo il contatto radio che il velivolo manteneva con Fontanarossa e Monaco si interrompe all’improvviso. Dopo trenta minuti di silenzio radio, l’aeroporto di Monaco lancia l’allarme, e subito da Catania vengono avviate le ricerche con gli elicotteri di Maristaeli e con i velivoli del 41° Stormo: del “Piper”tedesco e dei suoi passeggeri non si saprà nulla, così come avvenne due anni prima per il “Dc-3”francese. 14 LA VOCE DELL’ISOLA i nostri Documenti Nelle foto, a sinistra, al centro e in basso l’Atlantic del 41° Stormo Antisom in volo. Qui sopra, in alto, il primo aereo dello Stormo, il “Curtis Helldiver” e l’Atlantic Breguet L a base militare di Sigonella ha suscitato e suscita impressioni di diversa natura nella gente comune (e no). C’è chi la prende come simbolo di un militarismo straniero (quello statunitense); c’è chi la identifica come luogo dove è possibile trovare un posto di lavoro; c’è che, a livello di imprenditoria locale, ritiene che torna utile perché si possono avviare rapporti costruttivi; c’è chi la vede come una opportunità di guadagno, c’è chi si preoccupa perché ritiene che all’interno dei depositi di munizioni possano esserci anche ordigni nucleari; c’è chi volutamente ne ignora l’esistenza; c’è pure chi vorrebbe sapere cosa significhi la (ormai) radicata nel tempo presenza americana in un luogo italiano. E così via, tanti sono gli interrogativi che la gente comune (e no) si è posta nel corso di tanti anni. Sigonella per i cosiddetti “antimilitaristi” ha rappresentato l’occasione di inscenare manifestazioni di protesta che, nel concreto, non hanno sortito effetti di sorta. Ci sono italiani (oltre 500, quasi tutti siciliani) che hanno un impiego stabile, regolarizzato con contratti Usa, e quindi la base statunitense significa anche lavoro sicuro sul territorio. Ma non solo. I grandi investimenti che il Governo americano ha (e sta) effettuando per migliorare l’installazione (sia da un punto di vista tecnico, sia per le strutture che ospitano le famiglie dei militari) sono stati (e sono) fonti di attività delle imprese locali che realizzano le opere richieste. E’ sufficiente ricordare l’entità degli investimenti americani nel territorio etneo, oltrechè a Sigonell, per rendersi conto pienamente ciò che rappresenta questa struttura: nell’ultimo quadrienno – dal 2004 al 2007 –ggli Usa hanno stanziato la somma di ben 680 milioni di dollari. Quest’ultimo piano è stato ufficializzato nel 2003 e i lavori sono già in fase di completamento.Qualunque sia l’opinione di chi “sta fuori”, Sigonella ha mantenuto sempre una riservatezza tale che, alla fine, è stata interpretata come “segretezza”, lasciando a briglia sciolta tutte le possibili ipotesi sul suo utilizzo da parte dei militari, italiani e americani. In realtà di “misterioso” c’è ben poco; in realtà ha nuociuto (in special modo nel passato) la sua eccessiva “chiusura” al mondo esterno, il costante “off limit” ai civili che ha dato modo di ingigantire le facili strumentalizzazioni antimilitariste, tipiche, soprattutto, dei momenti di gravi crisi internazioni. Fino a qualche decennio addietro, negli anni della Guerra fredda tra i due blocchi UsaUrss (e loro rispettivi alleati) riuscire a penetrare (giornalisticamente parlando) a Sigonella era praticamente impossibile: la base militare (tra le province di Siracusa e di Catania) era (ed è) sede del 41° Stormo dell’Aeronautica italiana ed anche sede logistica (Naval Air Station) della Sesta Flotta Usa, di stanza nel Mediterraneo. Per i giornalisti, sino tre decenni addietro, per gli privati, i cancelli di Sigonella restavano inesorabilmente chiusi. L’installazione era difesa da una impenetrabile cortina di silenzio su quanto si svolgeva al suo interno, e ciò finiva con l’alimentare inevitabilmente l’alone di mistero e di “proibito” che, di certo, non favoriva i rapporti tra la collettività e il personale (italiano e americano) di Sigonella. Fu alla fine degli anni Settanta (nel 1978, esattamente) che riuscimmo a superare gli ostacoli imposti dalle rigide regole militari, grazie all’intervento diretto del ministero competente sull’allora comandante della base, colonnello Giuseppe Bovio, persona squisita, che applicava ordini e norme in maniera letterale, senza nulla concedersi e concedere o concedersi. Superati gli ostacoli, Sigonella si aprì come un libro appena uscito dalle macchine stampatrici, se pure nella naturale cautela che gli addetti ai lavori hanno nei confronti degli estranei che invadono un campo non loro. Indubbiamente episodi di una certa rilevanza, tali da attirare l’attenzione internazionale sulla Sicilia, nel passato si sono avuti: basti ricordare la presenza dei missili “Cruise”, di stanza nel vicino aeroporto di Comiso, e le ripercussioni del se- questro della “Achille Lauro”, che ebbe il suo momento conclusivo più drammatico proprio a Sigonella nella notte del 10 ottobre del 1985 il presidente del Consiglio Bettino Craxi si rifiutava di consegnare agli americano Abu Abbas e i quattro terroristi che avevano fatto parte del commando che aveva sequestrato la nave di crociera. Episodi ormai dimenticati, ma che fanno parte della storia di Sigonella. Prima di addentrarci nelle esperienze dirette e personali, è opportuno tracciare la linea storica del 41° Stormo dell’Aeronautica Militare Italiana, che costituisce il nucleo portante e di “comando” dell’intera base di Sigonella. Storicamente il 41° Stormo si costituisce nel luglio del 1939 sull’aeroporto di Reggio Emilia; con gli eventi bellici viene trasferito in Sicilia, a Gela, inquadrato nella Terza divisione aerea, e partecipa a quasi tutte le missioni nel Mediterraneo sino alla conclusione dell’ultimo conflitto mondiale, quando lo Stormo venne disciolto. A Catania, la presenza militare – a caratterizzare la “natura” e la “funzione” specifica originaria dell’aeroporto di Fontanarossa – non viene mai annullata. Un contingente di velivoli dell’Aeronautica viene mantenuto sul capoluogo etneo, ma la costituzione ufficiale del primo Gruppo antisom, l’87°, a Fontanarossa, è da ricondurre, come data storica, al 15 luglio del 1952, mentre otto anni dopo, il 1° marzo del 1960, viene costituto l’88° Gruppo antisom. Il 41° Stormo rinasce il 1° ottobre del 1965, incorporando l’87° e l’88° Gruppo di volo. I primi aerei in dotazione all’87° Gruppo antisom sono i “Curtiss Helldiver Sb2C-5”: le prime missioni antisommergibili dei nuovi equipaggi italiani si effettuano nell’estate del 1952, in collaborazione con la Marina e l’Aeronautica francese, e consistono in manovre aeronavali nel nord del Tirreno. Nel febbraio del 1953 al Gruppo iniziale vengono assegnati i bimotori “Lockheed Harpoon Pv-2”, un pattugliatore con caratteristiche tecniche superiori al “Curtiss Helldiver” e con una maggiore autonomia. Agli alleati americani, nel quadro dell’intesa di cooperazione militare, dall’Italia verranno richiesti i “Lockheed Neptune”, velivoli operativi su Malta. La richiesta non verrà accolta, ma in sostituzione di questi aerei verranno concessi, nel 1958, i bimotori “Grumman S2F-1 Tracker”, che potevano contare su apparecchiature elettroniche avanzate, provvisti dell’Ecm (Electronic Counter Measures) e del Mad (Magnetic Anomaly Detector). Questi velivoli consentiranno al Gruppo di effettuare un notevole salto di qualità. Con la ricostituzione del 41° Stormo Antisom – equipaggi formati al 50 per cento dalla Marina e al 50 per cento dall’Aeronautica – si avvia un’attività, intensa e sempre più impegnativa, in campo nazionale e interforze della Nato, per contrastare quotidianamente la presenza sempre più consistente, nel Canale di Sicilia e nell’Europa meridionale, di sommergibili e unità di superficie dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati. Il periodo che va dagli anni Cinquanta sino agli anni Ottanta è quello che vede nella Sicilia la punta avanzata dall’apparato militare dell’Alleanza Atlantica. Si crea la base di Sigonella Sono gli anni della “guerra fredda” e lo scacchiere del Mediterraneo costituisce un nodo vitale per i due “blocchi” contrapposti Usa-Urss per l’influenza che esercita sui rispettivi Paesi alleati e per il predominio ed il controllo dell’aria e dei mari. L’aeroporto di Fontanarossa, pur vantando una posizione strategica invidiabile, essendo “aperto” ai voli commerciali, non poteva costituire una soluzione permanente per le forze aeree alleate. Occorreva sia per la Nato (e quindi per l’Italia, in prima istanza) e sia per gli Usa una installazione militare adeguata a fronteggiare le esigenze che si prospettavano, vista la crescente invadenza e costante presenza della flotta sovietica in quello che una volta era considerato il “mare nostrum”. Sia la Nato, sia gli Usa – che nel Mediterraneo avevano già dislocato stabilmente la VI Flotta, con sede Napoli necessitavano di una posizione logistica di livello elevato nel quadro delle nuove prospettive che assegnavano alla forza armata compiti sempre più impegnativi e qualificati. A seguito di valutazioni strategiche inequivocabili – necessità di potere contare su un punto di riferimento molto importante nello scacchiere del Sud Europa, potenziale ed effettiva “testa di ponte” verso il Medio Oriente, l’Africa e il Sud-Est Asiatico – si ipotizza la creazione di un “hub” che possa essere utilizzato dall’Italia, dalla Nato e dagli Usa. Nel 1952 una commissione tecnica e militare effettua un sopralluogo nel territorio della provincia etnea per individuare il sito più idoneo dove costruire un grande aeroporto. Il sito prescelto è quello di Sigonella, espressamente in contrada Sigona, un terreno nel quale, nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, era stata realizzata una pista sussidiaria di Fontanarossa. Sigonella nasce, pertanto, come base Nato per far fronte alle necessità dell’Alleanza, all’interno della quale sarebbero stati allocati il Co- LA VOCE DELL’ISOLA i nostri Documenti 15 Nelle foto, qui sopra l’equipaggio di un Atlantic (il velivolo francese anche accanto) al rientro di una missione notturna mando italiano ed una “stazione” aeronavale Usa. Gli Stati Uniti, infatti, cercavano da tempo una collocazione definitiva per i Gruppi aeronavali d’appoggio alla VI Flotta, dovendoli trasferire da Malta, dove erano situati sin dal 1943. Individuata la zona dove costruire l’aeroporto e le relative infrastrutture, gli Usa sottoscrivono nel 1952 un primo accordo con le autorità governative italiane, un ulteriore accordo “provvisorio” il 25 giugno del 1957 ed un accordo definitivo due anni dopo. Oggetto del trattato “definitivo”: mantenere all’interno del progettato scalo di Sigonella una componente aeronavale statunitense “autonoma”, operativamente dipendente dal Comando forze navali degli Stati Uniti in Europa (Comusmaveur), ma sotto il controllo del Comando del 41° Stormo Antisom, essendo la base militare italiana. I lavori per realizzare l’installazione prendono il via nei primi mesi del 1955 su terreni appartenenti al Duca di Misterbianco, venduti quasi due miliardi, un milione ad ettaro. Per la pista, i piazzali e le vie di rullaggio velivoli, le opere vennero aggiudicate alla “Sab” (Società appalti bonifiche) di Roma, che li ultimò nel 1957; gli impianti vennero affidati all’impresa “Bulini e Grande” di Bologna, che li completò alla fine dello stesso anno. Le prime costruzioni che sorsero furono quelle di “Nas 1”, cioè del villaggio che avrebbe dovuto ospitare (e che ospita a tutt’oggi) la maggior parte del personale americano. “Nas 1” (primi edifici costruiti dall’impresa “Nisticò” di Palermo nel 1956) sorge sulla statale per Enna, in collina, a sedici chilometri a sud della periferia di Motta S. Anastasia ed a una ventina di chilometri di distanza da Sigonella-aeroporto – sito americano chiamato “Nas 2” (Naval air station) – nella Piana, all’estre- Nelle foto: in alto - una panoramica dei parcheggi velivoli di Nas 2 Usa sopra - la portaerei della VI Flotta “America” al centro - l’inaugurazione della base di Sigonella accanto - un P-3 Orion in volo sulle coste siciliane ma periferia del territorio ovest di Catania, in parte ricadente in territorio di Lentini, provincia di Siracusa. I reparti aerei americani residenti a Malta vengono trasferiti a Sigonella nel luglio del 1959; l’apertura della base avviene ufficialmente il primo giugno di quell’anno. Tra il dicembre del 1959 e il gennaio del 1960 l’87° Gruppo antisom (non ancora ricongiunto all’88° Gruppo per formare il 41° Stormo dell’Aeronautica Militare Italiana) viene trasferito da Fontanarossa a Sigonella. Il 1° ottobre del 1965, con disposizione dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, viene soppresso il Comando aeroporto di Fontanarossa e sullo stesso sedime è costituito il 41° Stormo, che trasferisce i reparti a Sigonella nel novembre del 1971: in quella data il graduale abbandono di Fontanarossa dell’Aeronautica Militare può considerarsi in fase avanzata. È, quello, un periodo di convulsa trasformazione dello Stormo Antisom: dal 27 giugno del 1972 si ha la sostituzione dei “Grumman S2f-1 Tracker” con i più moderni e attrezzati “Breguet Atlantic 1150”, velivoli francesi, prescelti comunemente da tutti i Paesi appartenenti alla Nato. I vecchi bimotori, che tanto fattivamente avevano operato nel Mediterraneo per scongiurare la minaccia sovietica, verranno imbarcati nel porto di Catania alla fine dello stesso anno per essere avviati alla demolizione. Il 31 agosto del 1978 anche il Comando dello Stormo trasloca a Sigonella e venti anni dopo, il 29 maggio del 1998, l’Aeronautica militare, dopo 74 anni di presenza ininterrotta, lascia definitivamente Fontanarossa: "Nel quadro dei provvedimenti per la ristrutturazione delle Forze armate, il residuo Distaccamento è soppresso", si afferma nella motivazione letta nel “rapporto storico” dal generale Filippo Affronti prima della cerimonia dell’ammaina bandiera, alla presenza del comandante dello Stormo Vitantonio Di Lorenzo. Il 21 settembre del 1998 il generale di Squadra Aerea Pier Giorgio Crucioli, comandante della Terza Regione Aerea, in merito al futuro della zona militare di Fontanarossa, dichiarava in una intervista: "Noi abbiamo reso disponibile questa base come bene demaniale alle altre istituzioni. Esiste una norma nella Finanziaria dello scorso anno che prevede che la cessione dei beni demaniali alle Regioni avvenga senza alcuna corresponsione. Su Fontanarossa vi sono diversi interessi: per coagulare questi interessi, è mia opinione, che la Regione debba prendersi in carico l’area demaniale per poi destinarla al meglio alle istituzioni interessate". Qualche mese dopo, l’ultimo bimotore “Grumman Tracker” viene portato fuori da un hangar di Fontanarossa: si alza in aria per il suo ultimo volo sollevato da una potente gru, posato su un mezzo speciale, scortato da polizia e carabinieri, viene trasportato a Sigonella dove viene collocato, all’interno di un’aiuola, in mostra statica, a ricordo di un periodo storico irripetibile. Questo, a linee molto larghe, il percorso compiuto dagli Antisom nel corso di oltre mezzo secolo: entrare nei dettagli significherebbe ricordare tutte le tappe che hanno caratterizzato la vita della rinata Aeronautica Militare Italiana dal dopoguerra ad oggi. Per quanto attiene il nostro contributo alla conoscenza degli Antisom, delle tante tappe vogliamo ricordare la prima consegna all’Italia da parte della Marina degli Stati Uniti dei primi 24 Curtiss S2C-% “Helldiver”, adattati per il ruolo antisommergibile, avvenuta nel 1950. Questi velivoli (che con successive assegnazioni raggiunsero il numero di 42 unità operative) vennero assegnati all’86° Gruppo Antisom, ricostituito con i piloti dell’Aeronautica e della Marina Militare. Questo Gruppo, articolato in tre squadriglie e dislocato a Grottaglie prende la denominazione di “Gruppo Aereo Autonomo Antisom”, che solo sette anni dopo (a seguito del decreto legge n° 968 del 7 ottobre 1957) sarà costituito in Aviazione Antisommergibile (Antisom) composta da reparti aerei dell’Aeronautica Militare dipendenti per l’impiego dalla Marina Militare. Altra tappa significativa il 27 giugno del 1972, data d’immissione in servizio del bimotore “Atlantic <brequet”, un velivolo selezionato perla molteplice dotazione di strumenti di navigazione, di scoperta e localizzazione di sommergibili naviganti in immersione, dotato di una tecnologia avanzata e provvisto di un armamento più elevato di quello disponibile sugli aerei di quel momento. LA VOCE DELL’ISOLA i nostri Documenti 16 Nelle foto, qui sopra un F 15 Eagle in manovra davanti agli hangar di Nas 2 Sigonella; al centro della pagina, l’entrata della base Usa e manifestanti antimilitaristi; in basso, un aereo da trasporto statunitense scarica mezzi a Sigonella I lunghi anni della Guerra Fredda Quando varcammo per la prima volta i cancelli della base del 41° Stormo, a Sigonella, potevamo considerarci “impreparati” ad affrontare argomenti di natura militare o di politica internazionale: in precedenza, infatti, professionalmente non avevamo spinto il nostro interesse al di là di questioni locali o nazionali, limitandoci all’approfondimento personale delle problematiche di più largo respiro attraverso le informazioni indirette fornite da libri, pubblicazioni e mezzi televisivi. Per Sigonella ci spingeva la naturale curiosità verso ciò che (almeno in quegli anni) era proibito all’informazione, e verso tutto ciò che l’installazione militare poteva rappresentare, costituendo un mondo sconosciuto pur essendo a due passi da casa. Quella prima visita a Sigonella, nel lontano 1968, fu una salutare lezione sa livello professionale. E non solo. Scoprimmo, principalmente, che c’erano uomini che dedicavano la loro vita, mettendola continuamente a rischio (e non è retorica) per preservare l’irrinunciabile bene comune della collettività, del Paese: il bene della pace. Erano gli anni della Guerra fredda, ma la gente che conduceva una esistenza “normale” non poteva essere in grado di percepire una realtà trasmessagli solo dalle divulgazioni dei mass media: Guerra fredda era come un “qualcosa” che apparteneva ad un altro mondo. Estraneo. Lo stesso discorso valeva per noi, fino a quando, imbarcati da Sigonella su un “Atlantica” del 41° Stormo in volo operativo non potemmo constatare direttamente cosa volesse dire il termine “prevenzione”, il termine “controllo” delle acque territoriali di appartenenza. In quel primo volo di 9 ore (tanto dura una normale missione) sorvolando il mare spesso quasi a pelo d’acqua, il pattugliatore dell’Aeronautica militare italiana individuò ben sette sottomarini sovietici. Il Mediterraneo da tempo non era più un mare nostrum, ma uno spazio dove si fronteggiavano le due grandi potenze, Stati Uniti e Unione sovietica. In quel periodo l’Urss manteneva nel Mediterraneo una Flotta di 59 unità, di superficie e non; la VI Flotta Usa operava nella stessa area, all’Italia e alle forze della Nato il compito di controllo e di eventuale intervento. Nello stesso periodo della nostra prima visita, in un incontro a Napoli, il comandante dell’AFSOUTHf (Forza Alleata del Sud Euriopa), ammiraglio Harold E. Shear, ebbe a dichiararci: “E’ questo un momento in cui il mondo è gravemente turbato ed è più che necessaria un’alleanza forte ed efficace. La NATO deve continuare a rimanere forte nell’Europa centrale, ma è soprattutto sui fianchi ed oltre che è necessario concentrare la nostra attenzione. L’area del Mediterraneo è a contatto con il Medio Oriente, ricco di petrolio, e con il Nord Africa. La presenza militare dell’Unione Sovietica in quest’area si è gravemente allargata negli ultimi anni. Oggi una potente flotta sovietica (50/60 navi) è costantemente presente nel Mediterraneo, e l’intera area è nel raggio d’azione degli aerei sovietici. La difendibilità di quest’area è critica per l’Alleanza: noi dobbiamo compiere ogni sforzo per impedire che essa costituisca il ventre molle dell’Europa, come Winston Churchill la definì trentacinque anni fa. La regione meridionale và salvaguardata perché l’Europa orientale è assolutamente dipendente dalle risorse petrolifere del Medio Oriente e del Nord Africa, i cui giacimenti costituiscono il 65 per cento del totale delle riserve mondiali. In queste aree viene estratto quasi il cinquanta per cento del petrolio consumato nel mondo, circa due miliardi mezzo di tonnellate. Una significativa percentuale di questo petrolio transita dal Mediterraneo, che è quasi letteralmente a tiro da parte dell’Urss. E’ importante rilevare se i sovietici possono politicamente, militarmente o economicamente, controllare l’afflusso del petrolio dal Golfo Persico all’Europa. Se riuscissero in ciò, i sovietici possono vincere una guerra senza usare mai una pallottola, né speso un soldato”. In una situazione così politicamente e militarmente delicata l’Italia faceva la sua parte, e la loro parte importante facevano (e continuano ancora a farla, anche se le condizioni sono diverse) gli uomini degli Antisom che non risparmiavano energie, tanto da meritarsi la denominazione di “sentinelle della pace”. Mediterraneo mare affollato, in quegli anni dove gli equilibri fra i due blocchi contrapposti, Usa e Urss, erano sempre sul punto di spezzarsi. Il Mediterraneo crocevia tra continenti, caratterizzato da una molteplicità di “cerniere”, di strettoie terrestri e marittime che costituiscono posizioni di controllo delle vie di comunicazione. Questi nodi strategici accrescono l’importanza della conservazione della sicurezza di questo mare. Il frazionamento della regione mediterranea (dal mar Nero al Golfo Persico, dal mar Rosso alle coste atlantiche) significa la presenza di oltre trenta Paesi, molti dei quali ancora in fase di assestamento. La perdurante pericolosità della situazione medio-orientale, provocata principalmente dall’insoluto contrasto arabo-israeliano e dalla instabilità che esso determina nelle zone più direttamente legate al problema palestinese, sono una continua minaccia ad una pace che necessita di costanti supporti. Nel Mediterraneo, dalla penisola Iberica a Beirut, l’Europa democratica, l’intero mondo occidentale giocano ogni giorno la propria esistenza. Controllare il Mediterraneo significa controllare le vie di rifornimento, significa potere penetrare in Paesi di capitale importanza. In tutto il corso della storia, il Mediterraneo è stato un elemento un elemento determinante per lo sviluppo economico, politico e sociale delle diciotto nazioni rivierasche. Come mare “internazionale”, cioè come unica via per accedere dall’Atlantico e dall’Oceano Indiano al cuore del continente europeo e di quello asiatico, è stato nei secoli, ed ancora oggi, il crocevia del commercio e delle vie di comunicazione. Questo grande specchio d’acqua, che ha a Gilbilterra il suo accesso all’Atlantico, va dall’Italia, attraverso le isole greche, fino agli stretti Turchi, ove si collega con il mar Nero. Come mare in mezzo alla terra (da dove il nome Mid-terra) è il punto d’incontro di tre continenti, Europa, Africa ed Asia Più di 350 milioni di abitanti popolano i Paesi che vi si affacciano, i quali dipendono da questo mare come mezzo di comunicazione e di commercio, di sostentamento e di scambi. Ogni giorno questo mare è solcato da oltre tremila navi mercantili, e da migliaia di piccoli battelli. Il Mediterraneo ha avuto (ed ha) un ruolo di primaria importanza: ne era pienamente consapevole l’Unione Sovietica negli anni della Guerra fredda, che posizionò gran parte della sua Marina militare, rendendo- ne i confini sempre più stretti: La presenza stabile delle navi sovietiche nel Mediterraneo incomiciò a manifestarsi verso la metà degli anni Sessanta. Già in quell’epoca operavano regolarmente nel bacino orientale, lungo le coste dell’Egitto, una decina di navi militari sovietiche; negli anni successivi, e via via che l’instabilità dei rapporti Usa e Urss andava crescendo, la presenza della flotta sovietica si faceva più consistente, con un raggio delle operazioni sempre più allargato. I canali di Sicilia e di Sardegna, lo Jonio e il Tirreno venivano costantemente incrociati da navi di superficie e da sottomarini sovietici, molti dei quali equipaggiati con missili nucleari. Il controllo “permanente” del Mediterraneo da parte delle forze alleate e, soprattutto, dell?italia si trasformava in un “fatto” che nell’economia della difesa generale occupava un posto preminente. Il mantenimento degli equilibri, non solo militari ma in special modo politici, finiva con il basarsi sul concetto di una “pace attraverso la forza”, poiché non esistevano (e in realtà, per altri versi, non esistono a tutt’oggi) i presupposti di un processo di pace che potesse evolversi in modo concreto. E’ in questo contesto che hanno operato per decenni gli uomini e i velivoli Antisom dell’Aeronautica militare che hanno continuato a controllare il Mediterraneo, per prevenire qualsiasi tipo di aggressione. E in questo contesto, via via anche più ampio con il mutare delle condizioni socio-politiche e militari dei Paesi del Medio Oriente e nel sud-est Asiatico, che hanno operato – nella maggior parte dei casi in maniera nettamente autonoma, i gruppi aeronavali statunitensi, che hanno usato Sigonella come “hub” e base logistica primaria. Con il processo di distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica prima, con il crollo dell’Urss, le condizioni mondiali politiche sono cambiate, ma di certo non è esplosa la pace, e le fibrillazioni nelle stesse aree d’influenza (vedi Iraq, Israele, Libano e quant’altro) dalla caduta del muro di Berlino non hanno fatto abbassare la guardia, ma hanno ulteriormente trasformato i compiti degli Antisom italiani, che agiscono in stretta collaborazione con tutte le componenti della NATO. Periodiche esercitazioni interforze tengono sempre alta l’attenzione sul Mediterraneo, alimentando la cooperazione fra i Paesi dell’Alleanza. Oggi Sigonella è base del 41° Stormo Antisom dell’aeronautica Militare Italiana che opera nell’area del Mediterraneo, mentre la struttura Usa, con circa novemila unità, è sede del 25° Squadrone Antisommergibile “VP-25” della Marina, dotato di aerei P-3 Orion per il pattugliamento marittimo a lungo raggio.; l’Helicopter Combat Support Squadron Four dotato di elicotteri Black Stallions; l’Air Services Coordinator Mediterranean (Ascomed); il Naval Computer and Telecommunication Station, il Centro Operativo di Controllo Aerei Antisommergibile (Aswoc) della Us Navy; un reparto del Navy Center for Tactical Systems Iteroperability; una unità di supporto sanitario Per comprensibili ragioni, essendo una base “logistica”, Sigonella Usa ricopre un ruolo fondamentale nello stoccaggio di tutti i generi (dai viveri alle munizioni) necessari per il “supporto” delle forze statunitensi nelle aree indicate, operato dal Wapons Department. Questa particolare missione “logistica” di Nas 2 ha alimentato quella che i militari dell’Aviazione italiana definiscono “leggenda metropolitana”, cioè la presenza nella base di armi atomiche: diverse Commissioni parlamentari italiane avrebbero accertato l’infondatezza dell’informazione.