Rivista Studentesca di Antropologia

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ACHAB
Rivista Studentesca di Antropologia
2004 numero 1
Universita’ degli Studi di Milano-Bicocca
Di tutto quanto è scritto io amo solo ciò che uno
scrive col sangue. Scrivi col sangue: e allora
imparerai che il sangue è spirito.
(F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Del leggere e
dello scrivere)
Editoriale
Achab nasce dal desiderio e dalla passione.
Il desiderio di essere parte attiva nella costruzione di un sapere critico, capace di sottoporre ad
un'analisi profonda i presupposti della società in cui nasce e di estendere questa riflessione ai
suoi stessi strumenti d'analisi in un processo retroattivo continuo che lo rende unico: il
sapere antropologico.
Achab è il desiderio di sperimentare e di mettersi alla prova in uno spazio di riflessione aperto
ai contributi di chiunque abbia voglia di confrontarsi con questa disciplina e con i suoi
temi, in uno scambio tra studenti, docenti e ricercatori che ci auguriamo proficuo. In Achab
prendono forma le nostre passioni, per la scrittura innanzi tutto, ma anche per la scoperta e
per quella "vitalità culturale" che sorregge gli studi antropologici
Se è la capacità stessa dell'antropologia di riconoscersi come sapere critico a donarle un'aria
incerta ed irrequieta (e che in fondo le garantisce la sua autorevole specificità), ci auguriamo
che questa rivista possa, a sua volta, trasmettere un po' di questa "inquieta curiosità" ai suoi
lettori.
Desideriamo ringraziare tutti coloro che hanno contribuito a realizzare questo numero di Achab e, in
particolare, Flavia Mammoliti e Donata Balzarotti per il loro prezioso aiuto.
I Responsabili
Achab - Rivista studentesca di Antropologia dell'Università Bicocca - Anno I , Numero I
Responsabili: Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri
Hanno collaborato: Barbara Caputo, Domenico Copertino, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Ugo Fabietti, Marzio Gatti, Lara
Palazzo, Michele Parodi, William Pioltelli
Grafica Interna: Niccolò De Giorgio, William Pioltelli, Amanda Ronzoni
Grafica copertina: Lorenzo D'Angelo
Responsabile del sito: Antonio De Lauri
Tiratura: 500 copie
Se desiderate collaborare al progetto della rivista con vostri lavori o commentare gli articoli, potete scrivere a: [email protected]
oppure [email protected]
La rivista è disponibile anche in versione elttronica scaricabile in formato pdf dai siti www.studentibicocca.it/achab e www.culturelab.it
INDICE:
Indice
Queequeg
Sul concetto di cultura
di Lorenzo D’Angelo
pag. 2
di William Pioltelli
pag. 4
di Marzio Gatti
pag. 8
di Michele Parodi
pag. 13
di Lorenzo D'Angelo
pag. 21
di Barbara Caputo
pag. 25
Un viaggio tra le favole
di Antonio De Lauri
pag. 31
Della guerra.
di Lorenzo D'Angelo
e Antonio De Lauri
pag. 41
Intervista a Ugo Fabietti
Diplomazia di un terremoto
di Lara Palazzo
pag. 44
Storie di citta’
di Domenico Copertino
pag. 46
di Antonio De Lauri
pag. 51
La Conoscenza in Antropologia
Frammenti e pensieri sparsi
Uno sguardo al mondo classico
La polis e la formazione del cittadino
Arte, Religione, Medicina:
il ruolo terapeutico e soteriologico dell’alterita’ presente
Frazer il selvaggio
Un percorso tra le Note sul Ramo d’Oro di Wittgenstein
Bourdieu
Spazio dei corpi e dominazione di genere
La tradizione orale senegalese
Chiapas
Riflessione sulla situazione degli indigeni
e sullo sfruttamento delle risorse
1
Queequeg
"Sul concetto di cultura"
work in progress a cura di Lorenzo D'Angelo
"...Cosicché Queequeg era, nella sua stessa persona, un enigma da scoprire: un'opera straordinaria in un solo volume, i cui
misteri, però, non poteva leggere nemmeno lui, quantunque il suo cuore vivo vi pulsasse sotto, e questi misteri erano perciò
destinati, alla fine, a ridursi in polvere con la pergamena vivente su cui erano stati scritti, e a rimanere così insoluti in eterno.
Doveva essere stato questo pensiero, forse, a suggerire ad Ahab quella disperata esclamazione volgendosi, una mattina,
dall'osservare il povero Queequeg: "Oh, diabolico supplizio di Tantalo degli dei!"..."
(H. Melville, Moby Dick, cap. CX)1 .
Perché Queequeg? Queequeg è l'enigma dell'alterità, o
meglio, il paradigma dell'alterità che si fa enigma. Un
ramponiere polinesiano che vende teste imbalsamate e si
comporta in modo bizzarro: riuscite ad immaginare qualcosa
di più esotico?
Queequeg compare già nel III capitolo ed è un personaggio
importante in Moby Dick. A noi, tuttavia, non interessa tanto il
personaggio letterario né, a dire il vero, il romanzo in sé (che
pure è uno dei nostri favoriti). Moby Dick è il nostro pre-testo
per provare ad osservare con gli occhi di Melville (e dei suoi
personaggi) un'epoca2 in cui l'antropologia era appena un
seme, seppure promettente, ma interrato. Vorremmo fare
l'archeologia di questo stesso sguardo per parlare
dell'"antropologia" prima dell'antropologia e capire meglio
quest'ultima. Il breve passo citato in calce ci pare, da questo
punto di vista, denso di temi dai quali trarre spunto per avviare
una riflessione più sistematica. Ci auguriamo di poter
coinvolgere quanti desiderino seguire questa traccia o
indicarne delle altre. Questo lavoro è un esperimento di
scrittura poli-grafica.
Ismaele/Melville e Queequeg si incontrano per la prima volta
in una locanda, precisamente, nella camera nella quale
passeranno la notte a dormire. Ismaele, ingannato dall'oscurità
della stanza, inizialmente scambia il suo compagno per un
bianco con delle strane macchie sulla pelle. Poi,
improvvisamente, "...ricordai la storia di un bianco, baleniere
anche lui, il quale, capitando tra i cannibali, era stato tatuato.
Conclusi che a questo ramponiere, nei suoi lunghi viaggi,
doveva essere capitata un'avventura simile.." (p. 48). Poco
dopo Ismaele si rende conto che il suo compagno di stanza
non è semplicemente un'altro non-Io, un bianco baleniere che
si avventura tra i selvaggi, ma è proprio un'altro. Questa
semplice constatazione lo confonde. Stupore e orrore si
mescolano nel suo animo. Ismaele ha paura e la ragione è
semplice: "..non sono un codardo, ma farmi una ragione di
questo rossastro briccone [Queequeg], venditore di teste,
superava ampiamente i limiti della mia comprensione.
L'ignoranza è madre della paura, ed essendo io completamente
sconcertato e confuso a proposito dello straniero, confesso che
2
ho provato orrore di quell'uomo..." (p. 49). E, ancora, poco
sotto: "...avevo tanta paura di lui che non avevo il coraggio
nemmeno di rivolgergli la parola per avere una risposta
soddisfacente a ciò che in lui mi pareva inesplicabile"
(sottolineatura mia, p. 49). La paura di Ismaele origina da una
ricerca di senso fallita. Conoscere per placare l'inquietudine
del misterioso dunque, colmare una distanza per tradurre
l'alterità in differenza, diremmo noi. Ma, ad Ismaele sembra
mancare
un
traduttore/mediatore
concettuale
di
"distanze"/differenze: il concetto di cultura. Accade allora che
Queequeg, l'insondabile, sia un generatore di paradossi.
Mistero a se stesso e agli altri, diventa agli occhi di Ahab un
supplizio per gli dei, i veri detentori del sapere, che a loro
volta avevano punito Tantalo per il suo affronto. L'altro ,
quando è così lontano e imperscrutabile o lo si combatte
(Ahab vs Moby Dick) o se ne rimane rapiti ed affascinati
(Ahab vs Queequeg). I due atteggiamenti sono opposti ma
complementari [....].
NOTE
1
Le pagine delle citazioni che seguono fanno riferimento alla
seguente edizione: Melville, Moby Dick, trad. it. di C. Minoli,
Milano, A. Mondadori, 1998.
2
Moby Dick è stato pubblicato la prima volta nel 1851.
Indicazioni su possibili tracce di lavoro :
* critica al concetto di cultura / utilità concetto di cultura
* cultura come testo
* corpo/ in-corporazione della cultura
* atteggiamenti verso l'alterità (etnocentrismo, razzismo, fascinazione, salvaguardia....)
* (......)
Meta tracce:
Scrittura (mono/poli-grafia, dialogicità, polifonia...)
Funzione autore.
Coloro che desiderano partecipare al progetto possono scrivere e inviare le proprie riflessioni,
critiche, suggerimenti a: [email protected]
3
La conoscenza in antropologia
Frammenti e pensieri sparsi.
di William Pioltelli
I.
E' difficile dare della conoscenza una definizione sintetica.
Questo probabilmente perché si corre il rischio di non
considerare molti aspetti referenziali e processuali che tutti i
saperi, alcuni forse più di altri , hanno aggiunto ad essa
progressivamente. Si possono utilizzare o distruggere schemi,
in qualsivoglia campo disciplinare, considerando che la nostra
attenzione ora pone un accento essenziale e processuale più
che referenziale o espresso in termini di contenuto. Ma ci si
accorgerebbe, come probabilmente già avviene, di alcuni
limiti evidenti
L'atto del conoscere è sempre rivolto, secondo una metafora
visiva e cinetica, all'inglobamento di oggetti non-conosciuti,
nella conoscenza specifica appunto, o comunque alla
violazione del confine che separa il noto dall'ignoto, secondo
uno schema di pensiero duale che sottilmente e
strutturalmente accompagna ogni nostro processo conoscitivo
quotidiano o accademico, anche quando si cerca di superare
proprio questo strumento cognitivo. Se anche si intende la
conoscenza in termini rigidamente ed esclusivamente
processuali, ovvero la conoscenza intesa come la
partecipazione diretta del conoscente ad un processo di comutazione con l'oggetto/processo, dove il piano processuale e
referenziale sono intercambiabili, lo schema citato sembra
scomparire ma, in realtà, diviene semplicemente più
elaborato.
Anche nel caso della conoscenza metafisica, rivolta al Tutto,
all'intero,
al
processo
di
creazione-generazioneframmentazione delle singolarità numeriche, oggettuali, ecc..,
è difficile non scorgere implicito il concetto di confine/limite,
inteso prevalentemente in senso spaziale. L'idea stessa che il
tutto possa frantumarsi, dividersi, condensare sé o espressioni
di sé, mi sembra suggerisca, irrimediabilmente una
confinazione, un limite (limes), un confine. Queste
considerazioni sembrano valere anche per quanto riguarda la
matematica e la linguistica. E ciò risulta evidente nel caso di
concetti limite, indipendentemente che essi siano radicati in
una visione relativa o assoluta, individuale o collettiva, interna
o esterna, che abbia o non abbia un corrispondente concreto
visibile/tangibile/esperibile
nella
realtà.
Noi
pensiamo/diciamo il mondo ponendo un confine tra il
conoscente e il conosciuto, indipendentemente da altri aspetti.
Tutto ciò è così profondamente radicato nell'uomo
occidentale, che, con occhio antropologico, non scandalizza
pensare come gli dei del mondo classico, piuttosto che i
demoni della Cristianità, non fossero altro che tentativi,
probabilmente anche riusciti, di confinare appunto esperienze
dirette o indirette, mediate o immediate, di aspetti del vivere,
processi di varia natura al fine, semplicemente, di poterli
conoscere-inglobare, e dove possibile, gestire-determinare,
dando loro una posizione e un ordine rispetto al sé conoscente
individuale e collettivo.
Bisogna però premettere che questo processo è stato possibile
probabilmente perché la nozione di persona, di singolo, di
individuo, maturata sia nel contesto ebraico (l'idea di
creaturalità, dell'essere figlio di Dio, l'idea stessa di Messia),
che in quello greco-romano (l'eroe, tutto il corpus del diritto
elaborato nei secoli), lo ha permesso e sostenuto, quasi
legittimandolo/postulandolo. Non è un caso, come afferma
Reale, che il pensiero razionale sia frutto peculiare dei Greci.
"Rilevare tutto ciò significa riconoscere, né più né meno,
che… furono dei creatori, ossia che diedero alla civiltà
qualcosa che essa non aveva, e che,… si rivelerà di tale
portata rivoluzionaria da mutare il volto della civiltà
medesima," in senso qualitativo. "…e chi non tenga ben
presente questo non riuscirà a comprendere perché la civiltà
di tutto l'Occidente abbia preso, sotto la spinta dei greci, una
direzione completamente diversa da quella dell'Oriente; e non
capirà perché la scienza abbia potuto nascere appunto
solamente in Occidente e non in Oriente. Inoltre non capirà
perché gli orientali abbiano dovuto, quando vollero
beneficiare della scienza occidentale e dei suoi risultati, far
proprie, in larga misura, anche le categorie o almeno alcune
categorie essenziali della logica occidentale." (Cfr. G. Reale,
1992). Anche Marc Augè in Genio del Paganesimo sostiene
che "l'affermazione dell-Io, che ha qualcosa della scommessa,
non significa dunque ignoranza degli innumerevoli cammini e
dei diversi declivi attraverso i quali l'identità si disperde o si
divide, si perde o si ritrova. Ma l'attenzione prestata alla
relativa autonomia dei momenti e delle qualità non ha niente
a che vedere con lo spezzettamento feticistico del corpo al
quale procede lo sguardo sadico da un lato, né con la teoria
della persona e dell'ereditarietà, proprie di talune siciet,
aventi l'effetto di relativizzare la nozione di identità".
La logica fu dunque scelta come la via per accertare la misura
della verità o della falsità, componenti entrambe della
conoscenza. Logica, come logistica ha in se il senso e il
significato del contare/calcolare, frantumare, mettere insieme
frammenti. Logica, legato alla semantica del mondo interiore
e logistica, legato alla semantica del mondo esterno, nascono
dalla stessa parola greca.
Possiamo quindi affermare che la conoscenza, nel suo senso
contestuale, è intesa come la ricerca della verità, nel senso di
una corrispondenza tra gli oggetti del mondo interiore e quelli
del mondo esteriore o dell'esperienza di realtà, che porta il
movimento indagatorio all'interno dei binari (principi) di
4
corrispondenza e di non contraddizione. Vi è in ciò una
reminescenza certamente platonica, rimasta ingenuamente
inalterata anche in Aristotele e fino ai tempi della filosofia
moderna. Lo stesso J. Lacan sostiene che le dinamiche della vita
psichica (interiore) sono riducibili a una dialettica tra verità e
realtà: la prima abita nel discorso e operando di nascosto concorre
a fornire un senso alla seconda (esteriore), fin ad allora muta.
Con Aristotele si afferma che le verità logiche sono vere in tutti i
casi, e che le falsità logiche sono false in tutti i casi, e che ogni
verità che esce da questi assunti è considerata verità fattuale,
necessitaria di una contestualizzazione. Per poter determinare la
verità o la falsità di un'affermazione del tipo "Sta piovendo",
devo, infatti, verificare le effettive condizioni meteorologiche
ovvero il contesto. Anche nel caso della "verità pratica", dove
l'azione ha come principio la scelta, la quale è il risultato
dell'incontro tra il desiderio di raggiungere un certo fine ed il
calcolo dei mezzi necessari a raggiungerlo, siamo in presenza di
verità e falsità rispetto al calcolo per determinare i mezzi
realmente necessari per conseguire il fine buono o non buono.
Anche quando Bergson sostiene che se, per affermare "fatti" quali
la libertà, l'estetica e simili, si usa l'introspezione allora non si può
avere alcuna scienza (perché la scienza è "oggettiva" ed in questo
caso l'io sarebbe contemporaneamente soggetto osservante ed
oggetto osservato e che nessun fatto "oggettivo" è indagabile con
il metodo scientifico), egli si pone nei confini del mondo
interiore, cercando di non sostenere per tali oggetti, una
corrispondenza, non tanto confutando il metodo oggettivo, quanto
piuttosto cercando di soffocarne all'origine l'esigenza
intellettuale.
Gli Spiritualisti concordano con chi sostiene l'impossibilità di
esaminare questi "fatti" col metodo sperimentale della fisica: per
loro si tratta di fatti a cui, quindi, non è accessibile la "scienza" col
suo metodo. Egli afferma, in un certo senso il diritto ad
un'individualità creativa, "avalutabile" e "amisurabile"
Dunque, la struttura dicotomica del pensiero occidentale è ancora
fortemente presente. Soggetto e oggetto continuano a rimanere
separati e poco importa se la separazione sia operata da una
grande muraglia o da un impercettibile confine.
Eppure già dal pensiero greco si nota come vi siano delle zone
d'ombra nel movimento di conoscenza. Lo stesso Platone si
rifiutava di scrivere, formalmente e referenzialmente, le sue
dottrine più importanti, come quella dell'Uno, perché si rendeva
conto di come certi oggetti/campi di indagine, fossero ampi e
mutevoli, nel senso che andavano compresi in relazione al
soggetto conoscente, non tanto nel senso di una
interpretazione/opinione da parte di questi o di una loro
modificazione di un qualche tipo, quanto piuttosto di una sua
partecipazione in quanto parte inseparabile dell'intero movimento
conoscitivo. Nel suo pensiero le dottrine erano meglio comprese
nel rapporto individuale, nell'oralità. Scrivere significava dunque
per Platone confinare, limitare, e soprattutto escludere una parte
fondamentale del movimento indagatorio e della conoscenza.
L'oralità, come la scrittura non formale e referenziale,
sembravano garantire una sufficiente dose di sfumatura.
Se consideriamo, ad esempio, il paradosso del mentitore
possiamo portare alcune utili considerazioni. Se un bugiardo
afferma di stare mentendo e ci viene chiesto se la sua
affermazione è vera o falsa, incontriamo una contraddizione se la
nostra analisi avviene esclusivamente sul piano formale e
linguistico. Se, al contrario, un nostro amico o conoscente,
notoriamente bugiardo nelle sue affermazioni, ci dicesse "Sto
mentendo" noi potremmo intendere "in questa determinata
situazione sto mentendo" oppure "Ora sto mentendo", oppure "al
riguardo di quel o quell'altro argomento [a te noto e quindi
sottointeso in questo nostro dialogo] sto mentendo,
introdurremmo cioè la necessità della funzione indessicale, di un
rimando immediato a parti non verbalizzate del discorso o del
contesto previo o contingente. In mancanza di tali elementi
referenziali, per dare un senso (stabilire la veridicità o la falsità) a
quest'affermazione dovremmo ipotizzare alcuni scenari. Ma ciò
ancora non sarebbe sufficiente a stabilire con un massimo grado
di esattezza e di corrispondenza se quanto detto dal nostro amico
sia effettivamente vero o falso. Non ne avremmo una conoscenza
certa e inconfutabile, a meno naturalmente di introdurre nuovi
elementi indagatori. Dovremmo introdurre nella nostra ricerca
della conoscenza un elemento di tipo storico relazionale
(probabilistico). In base alla pregressa osservazione/esperienza
operata nella relazione storica con il nostro amico/conoscente,
con i dati incerti della nostra memoria, potremmo stabilire con un
grado di approssimazione se in questo caso contingente è più
probabile che egli stia mentendo o meno. Potremmo allora
stabilire che egli, al riguardo di quella o quell'altra questione, sta
effettivamente mentendo e quindi nel momento in cui lo afferma
nel dialogo con noi sta dicendo il vero. [Sto mentendo (a mia
madre per quanto riguarda i voti degli esami sostenuti); [Sto
mentendo ora quando ti dico che non amo Nicoletta (è vero che
sto mentendo perché io la amo)] in ogni caso lo status o la
condizione di bugiardo è una conseguenza e non un
precondizione, a meno di non introdurre appunto l'elemento
storico-relazionale-probabilistico, in altri contesti detto
pregiudizio.
Ma fatto anche questo genere di considerazioni, esse non possono
che essere valide in relazione esclusiva a quel contesto. Non
sarebbe possibile generalizzare la nostra conclusione, quel che è
vero nella situazione considerata non lo è poi necessariamente in
un contesto anche uguale e con le stesse persone. Esiste allora un
tipo di conoscenza non legato necessariamente a leggi
deterministiche o formali in senso forte e stretto, ma comunque
valido ai fini dell'incremento della conoscenza. Tale tipologia di
conoscenza è contingente pur utilizzando, se crede, strumenti
formali, è relazionale perché include il soggetto e l'oggetto nel
movimento di conoscenza; è storico perché implica l'utilizzo di un
tempo la cui efficacia non si misura (come direbbe Bergson) con
l'orologio atomico della fisica, ma è anche probabilistico e quindi
con opportuni strumenti ed ad un certo grado di complessa
attenzione misurabile ma non in modo esclusivo. Questo tipo di
conoscenza non coincide con la misurazione anche se può
decidere di adottarla. In fine la necessità della caratterizzazione ne
5
include l'uso della descrizione e del lavoro vis-a-vis nel contesto
spazio-temporale, meglio se non differito o delocalizzato. Questo
genere di conoscenza interpella quelle discipline, non esatte nel
senso aristotelico, che operano dove le condizioni di relazione tra
soggetto e oggetto sono al limite perché tale distinzione è
arbitraria e non vi è lo spazio sufficiente affinché, senza ambiguità
alcuna, il soggetto conoscente inglobi/incorpori l'oggetto
conosciuto. Ci troviamo di fronte al limite stabilito da Gödel. Un
esempio può essere la psicologia intendendola come una psiche
che studia un'altra psiche, un sé che determina il concetto del Sé.
Inevitabilmente in questa particolare tipologia di rapporto tra
soggetto e oggetto, volendo mantenere tale distinzione, i contorni
dell'oggetto sono inevitabilmente sfocati/sfumati. L'antropologia
sembra porsi in questi contesti. E proprio in questi contesti ci
sorge il dubbio che la conoscenza debba/possa uscire, per quanto
possibile, da quella dicotomia di pensiero che regge, come un
Atlante, le fondamenta del pensiero occidentale. Sorge anche il
dubbio che esso poggi non tanto su un assunto vero o falso, ma su
una semplice scelta dogmatica, una prassi consolidatasi in
migliaia di anni di esercizio mentale e di esperienza.
conoscenza del mondo, uomo compreso e che anzi essa sembra
porsi come una forzatura all'interno della quale cerchiamo di
mettere il mondo e la realtà. Essa è eccezione e non regola e il
mondo è indagabile, con un maggior grado di conoscenza, non
all'interno di una struttura dicotomica, ma graduata, sfumata,
mediata, in un movimento conoscitivo e indagatorio che non
distingue (almeno non nettamente e rigidamente) il soggetto e
l'oggetto, perché questo è poco funzionale e lontano dal maggior
grado di conoscenza acquisibile. Ciò che varia è il movimento tra
i due, sono i processi di relazione che si vengono a creare. Ciò che
intendiamo affermare non è l'inutilità o l'inadeguatezza della
logica aristotelica, ma ci preme osservare come la sua funzionalità
sia legata al contesto pratico/concreto e sia in tal senso una scelta
arbitraria e quindi non necessariamente fondata. Logica che
significa, anche, tecnica e calcolo. E' una questione molto
concreta. Non è questione di metodo buono o non buono, ma di
metodo adatto o inadatto allo studio di una porzione di
universo/esperienza. Nessuno oserebbe affermare che la
geometria euclidea non sia uno strumento adatto a stabilire il
perimetro della casa che stiamo costruendo, ma, è altrettanto vero,
che la stessa geometria non è uno strumento adatto a misurare lo
stesso perimetro se questi si trovasse in prossimità del Sole o
nell'orizzonte degli eventi di una singolarità (o buco nero). Lo
stesso di potrebbe dire per la fisica classica e quella moderna.
Gli studi di A. Einstein dimostrarono come la realtà, oltre ad
esistere indipendentemente dalle menti degli uomini, potesse
mutare, pur non diventando un'opinione, in relazione al soggetto
conoscente, ovvero di come la conoscenza fosse oggettiva ma
relativa al particolare punto di vista o rapporto tra i due termini
del movimento di conoscenza all'interno di un determinato
sistema di riferimento. Un cubo si presenterà "cubico" ad un
osservatore in un determinato sistema (diciamo a bassa velocità).
Lo stesso cubo si presenterà "sferico" contemporaneamente ad un
altro osservatore in un altro sistema di riferimento (diciamo a
velocità molto alte). Il cubo è contemporaneamente cubico e
sferico e in questo non vi è contraddizione, ma semplicemente si
evidenzia il rapporto vitale tra tutti i termini del movimento di
conoscenza.
La percezione, non a scapito dell'oggettività della realtà e delle
sue unità, è dunque parte integrante del processo o del movimento
di conoscenza; per avere un sapere è necessario che percezione e
rappresentazione operino contestualmente. Se una percezione
rimane tale, non è condivisibile e quindi, non vi è sapere, non vi
è una condivisione, questo perché il nostro modo di percepire si
riflette immediatamente nel modo di comunicare l'oggetto della
nostra percezione, anche là dove questa avvenga nel "recinto"
delle categorie culturali che hanno formato la nostra mente.
La conoscenza antropologica acquista lo status di sapere in
relazione all'arbitrarietà del modello aristotelico e si presenta
come sapere di confine.
Le sue caratteristiche, dunque, sono quelle di essere libera da tutti
quei processi della retorica scientifica che implica "oggetti",
"fatti", "descrizioni", "induzioni", "generalizzazioni", "verifiche",
"esperimento", "verità" e concetti simili (cfr. Tyler, 1997).
II.
L'indagine moderna, a partire dal 1900 circa sembra essersene
accorta.
Furono W. Heisemberg e A. Einstein a porre indirettamente il
dubbio. Entrambi fisici, lavorarono, com'è noto, prevalentemente
nel campo delle particelle atomiche e subatomiche, pur con
approcci e scuole di pensiero differenti. Il primo, con il principio
di indeterminazione della meccanica quantistica mostrò come
fosse possibile guardare più da vicino e vedere di meno,
possedere l'informazione totale e non poter dire nulla con certezza
assoluta.
Se uno guida molto velocemente in autostrada, quindi solitamente
in linea retta, e guarda il tachimetro, non può sapere, in quale
punto dell'autostrada si trovi la sua autovettura in ogni istante. Se
supponiamo invece che stia andando più veloce di quanto
generalmente consenta la forza di gravità e le caratteristiche
dell'auto, allora, conoscendo il punto in cui si trova la macchina
in autostrada, non possiamo sapere a quale velocità sta andando (a
meno di non avere, in questo caso, due cervelli e quattro occhi;
ma cambierebbe poco poiché un eventuale marziano, come lo
abbiamo immaginato, si troverebbe, ad un altro grado di
complessità, e con un ben altro numero di variabili, nella nostra
stessa identica situazione d'approssimazione, anche se rimane pur
vero che la forma del nostro corpo determina il modo con cui
conosciamo il mondo). In questo caso è utile osservare come gli
strumenti di misurazione non alterano nulla ma si limitano
semplicemente a misurare gli effetti di certe cause, che risiedono
semplicemente nella natura delle cose, nel limite del nostro
orizzonte, per quanto distante possa essere, nella struttura remota
e profonda del nostro universo. Allora la conoscenza è
strutturalmente fuzzy, sfumata. Possiamo tranquillamente
affermare che la logica aristotelica non è uno strumento buono, né
affidabile come pretende di essere per l'incremento della nostra
6
I fenomeni da lui studiati non sono più entità occulte che devono
essere portate alla luce mediante procedimenti di tipo osservativoinduttivo-deduttivo.
La sua fuzzytà strutturale, evidenziandone le caratteristiche di
disciplina di confine, la rende simile ad un precipitato di
percezioni organizzate che si depositano, solitamente, in una
scrittura rappresentativa-evocativa, che incrementano la
conoscenza principalmente per accumulo di "precipitati" e non
per deduzioni (cfr. J.Goody, 1997).
Ogni concetto in antropologia è questione di densità, e proprio la
densità, soggettivamente-oggettivamente, stabilisce i confini
dell'interesse contingente di quanto l'antropologo studia.
Se è difficile parlare di un confine netto, che permetta, appunto di
de-finire nettamente gli oggetti di studio dell'antropologia, la
nozione di densità permette, senza contraddizioni, di mantenere in
gioco oggetti e confini e molte di quelle dimensioni tanto care agli
antropologi (spazio, tempo, etico, emico, ecc.), senza porsi il
problema di stabilire, pena l'insuccesso conoscitivo, e la
fondazione disciplinare, dove cominci e dove finisca (secondo
quanto suggerito da Eububide) quanto di volta in volta è interesse
di studio (famiglia, lingua, cultura, ecc.) (Cfr. L.Piasere, 2002).
Possiamo allora intendere con U. Fabietti l'antropologia come
un'esperienza pratica ed intellettuale con finalità conoscitive, che
tenta di tra-durre dati ed esperienze asistematici e frammentari, e
dove le dimensioni di tutti gli attanti sono complessamente, e non
senza fatica, confuse, per ottenere dove è possibile una "serie di
rappresentazioni, ipotesi e teorie più o meno ordinate…in un testo
etnografico".
Compito principale dell'antropologia è quello di esplicitare i
significati (e la loro densità) che emergono come tali,
generalmente in contesti di ricerca etnografica, ma non solo,
nell'accordo che nasce tra attanti nel reciproco
ideologico/dialogico processo-movimento di conoscenza.
Sapere antropologico e scrittura etnografica sono
inscindibilmente legati, pena la perdita del reciproco status.
L'antropologia senza la scrittura, risulta essere un sapere "vuoto";
sarebbe, per dirla con le parole di Clifford Geertz, un'esperienza
da cartolina.
Anche se la scrittura dell'antropologo fa perdere inevitabilmente
rappresentatività alle parole dell'altro, in ogni caso la sua scrittura
non ha una semplice funzione mnemonica e traspositiva, ma essa
è (seppure in tono minore) la riproposizione della sua esperienza
sul campo dell'incontro con l'altro. Scrittura formale-referenziale
e scrittura etnografica non sono sempre ed immediatamente
sovrapponibili.
BIBLIOGRAFIA
Augè M., Genio del paganesimo, ed Bollati e Boringhieri, Torino, 2002.
Duranti A., Antropologia del linguaggio, ed. Meltemi, Roma, 2000.
Fabietti U., La scrittura etnografica, tratto da http://www.centroilse.it/Testi/Fabietti-4.htm
Geertz C., Interpretazione di Culture, (Nuova traduzione Bologna 1998), ed. Il Mulino.
Goody, J., Representations and Contradictions, Blackwell, Oxford, 1997.
Kosko B., Il fuzzy pensiero. Teoria e applicazioni della logica fuzzy, ed. Baldini e Castoldi, Milano, 2002.
Lacan J., A di là del principio di realtà, ed. Einaudi, Torino, 1974.
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7
Uno sguardo al mondo classico
La polis e la formazione del cittadino
di Marzio Gatti
spazio pubblico fino a completarlo nel corpo civico 5. Nelle
Oscoforie in onore di Dioniso, i giovani sfilavano in
processione portando rami di vite ricchi di grappoli ed
indossando abiti femminili: l'abbigliamento rappresentava la
realtà infantile, "femminile", che veniva abbandonata. Dello
stesso tenore il rito officiato durante le Apaturie, nel quale i
giovani, all'età di sedici anni, dopo che avevano assistito al
giuramento del padre sulla loro legittimità, si tagliavano
ciocche di capelli da consacrare ad Artemide, simboleggiando
la presa di distanza da una condizione superata.
Il bambino era sottoposto ad un percorso educativo, paideia,
che lo vedeva impegnato già dai sette anni, età a partire dalla
quale iniziava l'istruzione elementare 6 impartitagli da maestri
privati, presso edifici collettivi destinati dalla polis ad uso
scolastico. Ogni individuo che partecipava attivamente alla
vita delle istituzioni democratiche - siano esse l'assemblea, il
Consiglio dei cinquecento od i tribunali - doveva possedere
una sufficiente conoscenza delle lettere. Veniva infatti
richiesta ai cittadini che avevano ricoperto le magistrature,
una volta terminato il mandato, una relazione scritta sul
proprio operato e le cause del tribunale richiedevano la
redazione di un fascicolo processuale, dal momento che, a
differenza di altre società antiche, non esisteva un corpo di
funzionari a cui demandare questa competenza. Il
grammatistès sottoponeva all'attenzione degli allievi i grandi
testi della tradizione culturale greca, dai quali uscivano "le
grandi figure degli eroi, dei "palaioi andres," che "sono
proposti all'imitazione e all'emulazione", in modo da
permettere un processo mimetico7.
A ciò si aggiungeva una preparazione musicale, impartita dal
kitharistès , ritenuta fondamentale come mezzo per
raggiungere un'armonia psichica ed indispensabile, insieme
alla danza, nei momenti pubblici rappresentati dalle feste della
polis. Non era trascurato neanche l'avviamento all'attività
sportiva affidata al paidotribes e consistente nella corsa, nel
lancio del giavellotto, nel salto in lungo, nella lotta e nel
pugilato. Sono questi momenti funzionali all'attività militare,
dal momento che il ruolo di oplita non richiedeva una
conoscenza tecnica elevata ma requisiti fisici quali forza fisica
ed agilità e, soprattutto, un forte senso morale. Raggiunta l'età
di sedici anni, il ragazzo poteva frequentare un luogo
peculiare della città, il ginnasio, alle cui attività partecipavano
anche i cittadini adulti e liberi. Esso era stato istituito nel VI
secolo ed aveva un ruolo culturale, oltre che militare: era
infatti un luogo di conversazione, di socialità e di cultura. Era
anche luogo di iniziazione erotica. Il rapporto omosessuale tra
adulto (amante attivo) e fanciullo (amato passivo) aveva
infatti come finalità la trasmissione dei valori della città da
In questo articolo verranno analizzati alcuni momenti
significativi e necessari, nei quali la città di Atene si
caratterizzava come complesso educativo ed ideologico, in
grado di svolgere quell'opera di formazione e conformazione
pubblica del cittadino, in modo che tutti fossero partecipi dei
medesimi valori morali, basati sul modello antropologico
dominante maschile che costituiva l'asse portante della città.
Questi momenti erano rappresentati dall'investitura del padre
nel ruolo del capofamiglia, al quale la città delegava la
funzione di selezione del corpo civico con il riconoscimento
dei figli e l'importanza nelle scelte educative di questi, l'iter
educativo al quale si dovevano sottoporre i giovani ateniesi
per una piena integrazione nella città, dalla paideia all'istituto
dell'efebia, la frequentazione di alcuni luoghi simbolici, ma
anche la partecipazione agli agoni sportivi, a quelli teatrali ed
alle feste religiose, al fine di interiorizzare il messaggio
educativo. Si cercherà infine di evidenziare lo stretto legame
tra l'essere cittadino e l'essere guerriero.
Nella polis classica di Atene per esercitare il proprio dirittodovere di partecipare alla vita politica della città1 erano
richieste: status sociale di cittadino, riservato solo a coloro che
erano nati nella condizione di liberi2 , alfabetizzazione e
preparazione ginnica e musicale. La cittadinanza si otteneva
per diritto di sangue. La figura del capofamiglia svolgeva un
ruolo determinante come primo passo d'ingresso nella polis, in
quanto era a lui che si demandava il compito di riconoscere la
legittimità del figlio ed il conseguente inserimento nel suo
lignaggio. Tale inserimento avveniva attraverso un rituale di
integrazione, le Anfidromie, che cadevano nei primi dieci
giorni di vita del bambino. Il rituale vedeva il padre correre
intorno al focolare, tenendo in braccio l'infante e così
sancendo la sua integrazione nello spazio familiare. Al decimo
giorno si operava un sacrificio e si organizzava un banchetto,
durante il quale al bambino veniva imposto il nome. Una
pratica opposta era quella dell'esposizione3, che comportava
l'abbandono del bambino non riconosciuto in uno spazio
esterno all'oikos4. Al terzo anno di vita, durante le Antesterie,
feste in onore di Dioniso, i bambini potevano partecipare alla
gara di bevuta, con l'assaggio del vino nuovo in un piccolo
boccale. Si trattava di un gesto significativo, un momento che
segnava il primo passo verso il mondo maschile degli adulti.
Infatti, l'infanzia nella realtà greca era intesa come un periodo
transitorio nel quale il bambino, privo di ragione, considerato
alla pari della donna e dello schiavo, viveva nello spazio
chiuso dell'oikos: solo attraverso i riti simbolici ed iniziatici,
che accompagnavano le feste pubbliche ed i momenti
educativi, iniziava un percorso graduale d'inserimento nello
8
parte dell'amante, che ricopriva il ruolo di modello e di maestro.
Si trattava di una pratica propria del mondo greco, che prevedeva
rituali di iniziazione omosessuale come forme di accesso allo
statuto di adulto e di guerriero. L'omosessualità aveva un ruolo
più formalizzato nelle città doriche 8 , dove era più radicato il culto
della figura del guerriero.
Il termine "ginnasio" deriva da "gymnos" che significa "nudo":
l'addestramento avveniva infatti indossando quella sorta di
uniforme costituita dalla nudità. Tale pratica è un'altra peculiarità
tipicamente greca e diviene un elemento distintivo, di superiorità,
nei confronti dei barbari, ossia dei popoli limitrofi. Ad introdurre
questo uso furono per primi gli Spartani9 instaurando una vera e
propria frattura con il mondo degli eroi omerici, che non lo
praticavano.
Nei poemi omerici l'individuo nudo è povero e vulnerabile e la
nudità è segno d'infamia e di vergogna. A proposito di questa
doppia rappresentazione della nudità, emblematico è l'episodio di
Tersite tratto dall'Iliade 10. Nel II libro Tersite attacca verbalmente
Agamennone, che viene rappresentato bello e forte, mentre
Tersite viene descritto come "l'uomo più brutto", "camuso e zoppo
d'un piede, le spalle eran torte, curve e rientranti sul petto; il
cranio aguzzo in cima, e rado il pelo fioriva." (215-220). Le
caratteristiche che vengono messe in evidenza hanno una
connotazione negativa: brutto, pelato (il capello è segno
distintivo) e gobbo (segno di maledizione divina). L'intervento di
Odisseo lo riduce al silenzio e lo minaccia: "ti spoglio delle tue
vesti, mantello e tunica, che le vergogne ti coprono" (260-265) e
lo percuote. La nudità è intesa come segno di umiliazione:
mostrare le parti sessuali è venire meno al decoro. Significativo è
l'atteggiamento dell'assemblea "gli altri scoppiarono a ridere di
cuore di lui" (270): il riso si associa alla bruttezza e all'infrazione
del decoro. Vi sono dunque due atteggiamenti mentali diversi, che
rimandano a due giudizi opposti: la vergogna della nudità e
l'onore di esercitarsi nudi, segno distintivo e privilegiato del
cittadino e rappresentazione estetica della virtù del coraggio. La
nudità viene infatti associata all'omogeneità civica,
all'egualitarismo dei cittadini. Mentre l'abbigliamento privato è
simbolo della disuguaglianza e della ricchezza, la nudità diventa
simbolo dell'interscambialità nella polis.
Il colorito della pelle dell'uomo, segno dell'addestramento
ginnico, si oppone, svalorizzandolo, al pallore che
contraddistingue le donne chiuse all'interno dell'oikos. Tale
pallore viene anche riferito al gruppo degli artigiani, i quali, come
sostiene Senofonte nell'Economico (4.2), svolgono la loro attività
all'interno della casa, divenendo vili e deboli, simili alle donne. La
nudità, per coloro che sono esclusi dall'omogeneità politica,
conserva la sua connotazione negativa. La nudità femminile,
associata alla vergogna, resta un momento privato e non prevede
un'estensione pubblica.
L'educazione ginnica e quella musicale preparavano inoltre alle
competizioni presenti nelle feste, che erano innumerevoli nel
calendario civico. La partecipazione alla festività era parte
integrante dello status di cittadino e rivestiva una rilevanza tale da
interrompere, oltre alle attività lavorative, anche quelle politiche.
La festa, che si poneva come momento di autocelebrazione della
città, svolgeva un ruolo educativo ed aveva il compito di plasmare
l'identità del cittadino. Le Panatenee in onore di Atena Poliade,
dea tutelare della città, erano ritenute la festa per eccellenza.
Venivano celebrate dal 27 al 30 di Ecatombe (primi giorni di
agosto) e vedevano donare ad Atena un peplo11, portato
solennemente in processione dalle zone periferiche della polis
sino al tempio sull'acropoli. Tutta la comunità ateniese
partecipava alla processione, quale simbolo della coesione
politica, intonando canti che esaltavano i valori morali di cui era
espressione la loro città. Di grande valenza culturale erano gli
agoni musicali, ginnici ed ippici, che arricchivano la festa. I ricchi
premi e la fama ottenuta nel primeggiare nei grandi agoni
attiravano partecipanti da diverse zone della Grecia. Strettamente
riservati ai cittadini ateniesi erano invece i piccoli agoni12, che si
dividevano in lampadedromia, euandria, pirriche e regata. La
lampadedromia, la corsa con le fiaccole, era contrassegnata da un
grande valore simbolico. La corsa-staffetta, che precedeva la
processione, vedeva gareggiare tra loro squadre di giovani delle
dieci tribù attiche ed aveva come finalità l'accensione di un nuovo
fuoco sacro sull'altare della dea Poliade: tale gesto rappresentava
la continuazione della comunità, il suo perpetuarsi. Altra gara
riservata strettamente ai giovani ateniesi era l'euandria, nella
quale la competizione si basava esclusivamente sulla valutazione
di elementi estetici: la statura e la prestanza fisica, ritenute qualità
distintive dell'uomo ateniese. Un agone significativo era
sicuramente la pirriche, una danza armata che aveva come
protagonisti concorrenti provenienti dalle diverse tribù attiche e di
età diversificata: fanciulli, adolescenti ed uomini. Significativo
era soprattutto il suo valore rievocativo: la danza eseguita era
infatti quella con la quale Atena aveva celebrato la vittoria sui
Giganti. Infine si svolgeva la regata che vedeva come campo di
gara le acque del Pireo e come concorrenti cittadini in
rappresentanza delle tribù di appartenenza. L'aspetto
fondamentale che emerge da questi agoni, fossero essi piccoli o
grandi, è il fatto che la città stessa con il suo apparato politico ed
educativo incentivava il confronto nella competizione, quale
momento funzionale alla tipizzazione dell'uomo ideale. Era nel
confronto che si manifestava l'arete, la superiorità, l'eccellenza,
tanto nell'ambito ginnico-sportivo quanto in quello politico. Un
altro dato rilevante è che ogni gara prevedeva, come
gratificazione per il raggiungimento della vittoria, la fama ed un
premio che poteva essere simbolico o materiale. Altro momento
educativo era la rappresentazione teatrale. Il teatro era un altro
edificio significativo. Si trattava di un luogo cruciale all'interno
della dimensione politica della città, come mostra la
remunerazione13 della partecipazione del cittadino. L'allestimento
di uno spettacolo tragico era inoltre una importante liturgia ed il
servizio era a carico dei cittadini più facoltosi. La disposizione dei
cittadini riproduceva quella dei cittadini nell'Assemblea, secondo
l'ordine delle tribù. La giuria che assegnava il premio era stabilita
con il meccanismo politico del sorteggio. Il giudizio espresso era
più etico che estetico. Prima della rappresentazione teatrale vi era
la sfilata dei giovani, orfani di guerra, vestiti da opliti, e
9
l'esibizione del tributo versato dagli alleati ad Atene: erano questi
momenti autocelebrativi della città. Anche il coro era visto come
metafora della comunità, quale collettività. La polis era allo stesso
tempo finanziatrice ed oggetto della riflessione compiuta dalle
rappresentazioni. Le tematiche affrontate negli spettacoli
riflettevano i nodi nevralgici dei problemi della comunità politica,
costituendo pertanto un momento educativo. Il teatro svolgeva
un'opera importante nel rafforzare la coesione del corpo civico,
agendo sull'omologazione del singolo ai valori della città.
Ultimo passo di avvicinamento verso lo status di adulto era
rappresentato dall'istituto dell'efebia. Raggiunta l'età di diciotto
anni, i giovani erano inseriti nelle liste compilate annualmente dai
demi di appartenenza dei padri. La procedura costituzionale
prevedeva che tali nominativi fossero sottoposti alla revisione
della Boulè, che doveva verificare il reale diritto di cittadinanza e
che abilitava l'individuo a svolgere per due anni il servizio
militare 14 . Infatti solo i figli legittimi di cittadini, di qualunque
condizione sociale, erano obbligati a sottoporsi all'addestramento
militare, delle cui spese si faceva carico la città. I giovani idonei
apprendevano l'uso delle armi oplitiche basilari per la battaglia,
del tiro con l'arco, del lancio del giavellotto e della catapulta, da
maestri eletti dall'assemblea. Nella festa di Artemide Agrotera, i
ragazzi svolgevano una parte attiva partecipando alla processione
che aveva come meta il santuario di Aglauro, nel quale giuravano
fedeltà alla patria, alla difesa dei suoi confini e delle sue
istituzioni. Terminato il giuramento, i giovani si avviavano verso
il Pireo e qui svolgevano servizio di guardia. Nel secondo anno si
presentavano di fronte all'assemblea a dare dimostrazione di
quanto avevano appreso, ricevendo lo scudo e la lancia che
rappresentavano i simboli del passaggio all'età adulta e
l'immissione nella falange degli opliti. Questo, insieme
all'istituzione del matrimonio, era considerato un momento
fondamentale dell'aggregazione completa al corpo civico. Vi era
quindi una stretta connessione tra la funzione militare e l'essere
cittadino: la funzione guerriera era parte integrante della
posizione che quest'ultimo ricopriva. Protagonista dell'attività
militare era l'hoplites, il fante, il cui armamento era costituito da
gambali, elmo e corazza di bronzo e da uno scudo circolare,
hoplon, che copriva l'avambraccio sinistro permettendo al braccio
destro di maneggiare la lancia. La sua posizione sul campo di
battaglia era all'interno della falange, che si disponeva su più file,
permettendo la protezione del fianco destro, ed affrontando
frontalmente il nemico. Ciò che veniva richiesto durante il
combattimento all'oplita, differenziandolo dall'eroe omerico in
cui prevaleva il thymos15 , era la sophrosyne, il sentimento di
solidarietà ed autocontrollo che vietava gli eccessi di virtù eroica
e di viltà, esecrabili e dannosi, in quanto mettevano in pericolo
l'esito positivo della battaglia e la vita del proprio compagno. Per
inculcare tale atteggiamento psicologico, che non poteva certo
essere trasmesso attraverso un percorso di tecnica militare, era
quindi necessaria un'attività educativa costante e capillare, in
grado di plasmare il bambino secondo gli scopi della comunità.
L'immissione nella falange degli opliti insieme all'istituzione del
matrimonio, era considerato un momento fondamentale
dell'aggregazione completa al corpo civico. Inoltre la costruzione
della polis , come ambito di razionalità che produceva
l'omogeneità del corpo civico maschile, prevedeva l'esclusione
della donna e ne metteva in luce l'immaturità psicologica. La
ragione, logos, costituisce una delle prerogative essenziali del
cittadino ed è assunta come l'elemento caratteristico e distintivo
che seleziona i greci dai barbari. L'ampia gamma di significati che
può avere il termine "logos" - parola, discorso, pensiero,
razionalità - mostra come prerogative del cittadino, polites, la
capacità di comunicare e di utilizzare le facoltà razionali, elementi
che esercita nello spazio della città. La ragione diviene il
coefficiente che regola l'accesso al potere. Questo modello di
organizzazione della polis, in cui la gerarchizzazione ha come
discriminante la maggiore o minore efficienza dell'elemento
deliberativo, troverà una sistemazione teorica nel I libro della
Politica di Aristotele. L'adulto cittadino pienamente razionale è
abilitato al potere, mentre sono esclusi, per carenza di razionalità,
gli schiavi, le donne e bambini. Lo schiavo "non possiede in tutta
la sua pienezza la parte deliberativa" (13, 1260 a) "partecipa di
ragione in quanto può apprenderla, ma non averla" (5, 1254 b)
perché il corpo prevale sulla ragione. Il bambino "la possiede ma
non sviluppata" (13, 1260 a) e, quindi, la sua natura lo legittima
all'obbedienza. La donna, moglie di un cittadino, ha la razionalità,
ma "senza autorità" (13, 1260 a) e deve obbedire, in quanto,
sopraffatta dalle emozioni e dalle passioni, non è in grado di
interiorizzare la legge. E' quindi naturalmente caratterizzata da
una forma inconcludente di razionalità. La conformità della
società al progetto di razionalità doveva produrre l'eunomia, il
buon ordine realizzato dalla legge.
10
NOTE
1
Si veda in proposito S. Campese- S. Gastaldi, Immagini e pratiche educative della città antica, "Quaderni della fondazione G.
Feltrinelli", 23, 1983, p. 15.
2
Per la trasmissione della cittadinanza ai figli, che avveniva iure sanguinis, l'elemento determinante era il padre fosse ateniese. Con il
decreto di Pericle nel 451-450 a.C., il diritto venne limitato ai figli di genitori che godevano entrambi della cittadinanza. Si veda E.
Cantarella, L'ambiguo malanno, Roma 1981, p 78.
3
In riferimento alla pratica dell'esposizione dei neonati ed alla sua funzione politico sociale, si veda E. Cantarella, L'ambiguo malanno,
Roma 1981, pp.66-67; G. Cambiano, Diventare uomo, in J. P. Vernant (a cura di), L'uomo greco, Bari-Roma 1974, pp 87-88-89.
4
Il termine ha tre aree di significato: l'abitazione, la famiglia e la proprietà. Infatti con oikos si intende ciò che è di pertinenza della
casa, che è contemporaneamente un luogo affettivo e patrimoniale. La funzione primaria della casa era quella di unità produttiva. In
questo senso il termine viene esteso alla casa, al terreno, ai depositi, alle capanne, ai pastori ed alle bestie. Insomma a tutto ciò che fa
parte della produzione. In questo caso il significato viene inteso comprendere tutta la proprietà che appartiene al domestico, attività
agricola ed allevamento. L'oikos designa l'infrastruttura di proprietà che è sottesa alla dimensione politica
5
Si veda G. Cambiano, Diventare uomo, in J. P. Vernant (a cura di), L'uomo greco, Bari-Roma 1974, pp. 101-102.
6
Su questa problematica si veda M.Vegetti, La città educa gli uomini: polis classica e formazione del cittadino, in E. Becchi (a cura),
Storia dell'educazione, Firenze 1987, p. 40; S. Campese-S. Gastaldi, Immagini e pratiche educative della città antica, "Quaderni della
fondazione G. Feltrinelli", 23, 1983, pp. 14-15. Per un quadro completo dell'educazione nell'antichità H. I. Marrou, Storia
dell'educazione nell'antichità (1950), tr. it. Roma 1971.
7
Si veda in proposito S. Gastaldi, Paideia/mythologia, in M. Vegetti (a cura di), Traduzione e commento della Repubblica di Platone,
libri II-III, Pavia 1995, pp, 339-340.
8
Il rituale cretese prevedeva il rapimento del ragazzo da parte dell'amante solo dopo che questi, informati gli amici del giovane tre
giorni prima del ratto, riceveva il loro consenso. Quindi, accompagnato dagli amici del prescelto, lo portava fuori città in campagna e
per due mesi si dedicavano alla caccia ed ai banchetti. Questa prima tappa segnava un periodo di segregazione dai compagni e di
separazione dalla comunità, terminato il quale, ricevuta in dono un'armatura, avveniva il ritorno in città, che segnava l'acquisizione di
un ruolo sociale diverso: quello dell'adulto e guerriero. A Sparta i momenti che segnano una forte separazione tra la comunità maschile
e quella femminile, come le mense in comune, i sissizi, e la pratica di dormire insieme, erano ritenuti essenziali per l'interiorizzazione,
da parte dei giovani, dei valori trasmessi dalla frequentazione e dai rapporti omoerotici con gli adulti. Si veda a proposito G. Cambiano,
Diventare uomo, in J.P. Vernant, L'uomo greco, Bari-Roma 1974 p 100.
9
Si veda S. Campese, Nudità, in Vegetti M. (a cura di), Repubblica. Traduzione e commento, vol. IV, libro V, Napoli 2000, pp. 197207.
10
I passi sono tratti da Omero, Iliade, tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Milano 1977.
11
Alla consegna del peplo, atto che chiudeva la processione venivano officiati due sacrifici diversi per carattere: quello presso l'Eretteo
e la grande Ecatombe. Al primo i soli magistrati politici, religiosi e militari potevano partecipare alla liturgia ed alla spartizione della
carne delle bestie sacrificate, mentre agli altri venivano distribuiti i resti, espressione di un momento non pubblico ma che richiamava
i caratteri e le gerarchizzazioni arcaiche. Il secondo sacrificio, la grande Ecatombe, riveste un carattere fortemente partecipativo e
pubblico. Veniva officiato sul grande altare di fronte al Partenone in uno spazio aperto e, con la distribuzione delle carni per sorteggio,
veniva affermata l'omogeneità del corpo civico e, con il banchetto a conclusione del rito, veniva espressa la sua coesione comunitaria.
Si veda S. Campese - S. Gastaldi, Festa ed educazione del cittadino, in E. Becchi (a cura di), Storia dell'educazione, Firenze 1987,
pp.106-146, in particolare p. 132.
12
Erano composti dalla corsa dello stadio, dal pentathlon, dalla lotta, dal pugilato, dal pancrazio e dalla corsa con i cavalli.
13
Il fondo del theorikon era la cassa per pagare il biglietto del teatro.
14
Per quanto riguarda l'efebia ateniese e al confronto con Sparta e Creta si veda G. Cambiano, Diventare uomo, in J.P. Vernant (a cura
di), L'uomo greco, Bari-Roma 1974, pp. 87-119; O. Murray, La città greca, Torino 1993, pp.132-134.
15
La figura dell'eroe omerico era contraddistinta dai valori culturali associati al modello etico-comportamentale del combattimento,
portato ad assumere significato fine a se stesso: individualismo ed autoaffermazione al fine della gloria. L'ira, caratteristica del
guerriero aristocratico, era il primo impulso che lo spingeva a gettarsi nella mischia ed era strettamente legato all'onore personale.
11
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12
Arte, Religione e Medicina:
il ruolo terapeutico e soteriologico dell'alterità presente
di Michele Parodi
L'arte esiste universalmente, anche al di fuori dei nostri confini culturali? Per superare questa domanda (che a me pare
insolubile e labirintica) propongo la definizione semiotica di testo estetico, quale insieme di strumenti concettuali in grado di
connettere tra loro diversi discorsi. Ciò ci permetterà di costruire un oggetto di riflessione, "produttivo" e "aperto", capace di
evidenziare alcuni tratti comuni che percorrono trasversalmente l'arte, la religione e la medicina, mostrando l'essenziale
ambiguità, autoriflessività, creatività costitutiva di tali pratiche e il loro fondamentale valore simbolico, terapeutico e
soteriologico1.
Francis Bacon
Study of a nude, 1952-3
1. Il testo estetico
Secondo Eco2 il testo estetico implica una manipolazione
dell'espressione che provoca un riassestamento del contenuto
e quindi produce un mutamento di codice3. Rappresenta un
reticolo di atti comunicativi che mirano a sollecitare risposte
originali. In definitiva il testo estetico si pone come asserto
metasemiotico. Da ciò deriva sia l'aspetto poietico del testo
estetico sia il suo carattere ambiguo. Il mutamento di codice
che propone implica, infatti, un processo interpretativo che
cerca di riorganizzare ciò che inizialmente appare
irriconoscibile e straniante. La violazione del codice obbliga a
riconsiderare le regole che lo definiscono, trasformando il
testo estetico in un testo autoriflessivo4. Infatti il destinatario,
mentre avverte un mutamento nella forma del contenuto, è
invitato a ritornare al messaggio stesso, come entità fisica, per
osservare le alterazioni della forma dell'espressione. Le nostre
attese sono tradite e ciò induce a cercare nuovi percorsi di
senso, nel tentativo di superare la situazione di improbabilità
che l'opera esibisce rispetto ai codici soggiacenti.
E' chiaro che questo processo dinamico avviene
continuamente in ogni fenomeno interpretativo. Ma il testo
13
estetico sembra opporre una resistenza maggiore che aumenta
la durata e la difficoltà della percezione. Si verifica una
dilatazione del tempo, una violazione del ritmo percettivo in
un ritmo che non è più prevedibile.
Il testo estetico si può allora pensare come "procedimento
ostacolo", come "trappola per lo sguardo" capace di attivare
l'attenzione. La disposizione delle forme (forme deformanti) e
dei simboli, guida l'occhio attraverso percorsi paradigmatici e
sintagmatici, segni mutevoli che s'intrecciano all'interno della
cornice, nella trama del testo. La dinamica cognitiva
multisensoriale che sostiene la percezione, attivando processi
interpretativi multipli, rende semioticamente rilevanti le
microstrutture che compongono il continuum della materia 5 e
che il codice nel lavoro di segmentazione non aveva
considerato. Diventano così significanti anche le sfumature
tonali, l'intensità dei colori, le sensazioni tattili e sonore, la
superficie materica e, nel caso del testo letterario, le forme
dell'intreccio narrativo, le ricorrenze tematiche, le strutture
temporali. Elementi i cui effetti anche l'autore non sa ciò che
produrranno, ma che "pre-vede" lavorando come se esistesse
un'effettiva correlazione segnica tra essi e un significato
ancora da scoprire.
Ma qualcosa di più accade nell'esperienza estetica attraverso
la sensazione. Nella sensazione si annulla lo spazio teatrale
che l'opposizione soggetto/oggetto presuppone: l'Io diviene
problematico. L'oggetto diventa l'oggetto nella sua
formazione, evento, vibrazione, modulazione, risonanza,
materialità energetica in movimento. Si attua così una forma
di empirismo dove l'esperienza estetica si dà come esercizio
trascendentale 6. Una forma di illuminazione, di estasi
contemplativa prodotta dall'intensità cognitiva di fenomeni
interpretativi in atto. Seguendo le indicazioni di Benjamin
possiamo allora dire che il valore estetico, la bellezza, si rivela
veramente solo nel suo svanire, come apparenza che si spegne.
La bellezza raggiunge il suo massimo di luminosità nel suo
tramontare7 . Infatti, nel momento esatto in cui il senso delle
sue forme è colto, l'esperienza estetica, in quanto intensità
interpretativa in atto, s'interrompe, svanisce8 . Ciò che rimane
è solo una vaga sensazione, la nostalgia e il ricordo del suo
apparire seducente che però fugge l'intelletto. La bellezza,
come già in Platone, è dunque forza mediatrice, il frutto
elusivo di un processo erotico. Proviamo però ora a cambiare
scenario.
La nudità degli indigeni, tutti gli attributi negativi di cui sono fatti
oggetto (nudi, senza legge, senza morale, senza proprietà, senza
regni e senza re...) non rappresentano differenze, ma piuttosto il
nascondimento di un'identità mancante, un nulla semantico,
negazione astratta di un'assenza. Una differenza spingerebbe a
parlare, a descrivere, a proseguire un discorso testimone di una
continuità; l'esitare indecidibile segna invece una frattura, una
rottura di piani.
2. L'alterità presente
Venerdì 12 Ottobre. (..). Alle due dopo la mezzanotte apparve la
terra dalla quale erano lontani due leghe circa. Ammainarono tutte
le vele (..) e si misero in panna, temporeggiando fino al nuovo
giorno, venerdì9 .
Nella sua distanza assoluta l'alterità, in quanto sorgente
primordiale del senso, superficie oscura e insondabile del fluido e
caotico continuum originario, diviene luogo di emersione del
sacro, luogo creativo dove il mondo venendo alla luce prende o
riprende forma.
Il primo sguardo di Colombo sulle Americhe converge sull'altro
senza sostegno referenziale. L'altro emerge come dal nulla, nel
sorgere del nuovo giorno. La descrizione della scoperta si compie
allora attraverso l'uso di una prolusione di indici qualitativi, privi
però di alcuna efficacia semantica. Si percepisce una frattura tra il
voler dire e il poter dire. E' un nuovo tipo di lingua. Il linguaggio
arriva ai suoi confini, ai limiti del silenzio e del panico. Ecco così
lo sbalordimento, la meraviglia, il piacere, la figura superlativa o,
all'opposto, il disgusto, l'orrore:
I pesci di qui sono talmente diversi dai nostri che ci si resta
sbalorditi. Ce ne sono alcuni che si direbbero dipinti coi più bei
colori del mondo.
Domenica 21 Ottobre. (..). C'è una tale moltitudine di uccelli,
grandi, piccoli, e così diversi dai nostri, il che desta meraviglia. E
gli alberi mandano tutti un tale buon odore che fa davvero piacere
(..)10 .
Nell'interruzione della possibilità di paragonare si può soltanto
contemplare, scrutare. Le parole non riescono a rendere la
ricchezza di una natura ancora "irreale". La lingua non possiede
più significanti efficaci. Si vaga in uno spazio dove non si può
dire tutto ciò che si vede. La lingua diventa allora oculare. Ma la
vista stessa si confonde, delira. Si vede dove non c'è nulla da
vedere e non si vede ciò che c'è da vedere.
Henri Rousseau il Doganiere:
L'incantatrice di serpenti, 1907
Domenica 16 dicembre. (..) gli alberi erano così belli da vedere
che il loro fogliame sembrava essere non più verde e che si
avvicinasse quasi al nero, per il suo rigoglio…11
L'altro diventa nel contempo reale e trascendente, empirico e
universale. Così come i cristiani sono parsi divini agli indiani,
nello stesso modo, ma in un convincimento inconfessabile, gli
indiani sono sentiti come sacri 13.
Ed ecco infine l'acme, l'ammissione stessa della propria
impotenza:
Sacri poiché mediatori di uno spazio ancora deserto, troppo
remoto perché si possa stabilirne il contorno. Il tempo della
scoperta assume allora una durata profetica, diventando tempo
dell'annunzio, della promessa, del presagio14.
Sabato 5 gennaio: (..). Tutto questo è così perfettamente
bello…che non credeva di poterne riferire pur la millesima parte 12.
Come di fronte ad un quadro astratto, le espressioni che
descrivono la bellezza e il colore divengono operatori enigmatici,
simbolo di una perfezione che non trova parole. La lingua si
caratterizza allora come atto compulsivo e performativo, dire "era
orribile", "era bellissimo" è importante per se stesso come evento
ma non dice nulla di ciò che si percepisce.
In questo senso possiamo porre quindi l'analogia tra esperienza
estetica e alterità presente 15. Si comprende così il panico, l'orrore,
o l'estasi, che si manifesta nel contatto contaminante con ciò che
si oppone all'uomo finito come trascendenza assoluta. Ripartiamo
dunque da qui.
14
sottrae, possibilità che non presuppone ma che si costituisce in
desiderio, attesa, prospettiva messianica di salvezza. Si lasciano
allora dei vuoti con la speranza che possa essere la redenzione dal
male, la guarigione, il successo a colmarli e colonizzarli
nuovamente. In tale possibilità inespressa può prendere forma un
futuro di prosperità, salute, felicità (sia che si incarni in una vita
terrena o in un al di la ultramondano), una risposta alle domande
universali sulla natura della sofferenza, della morte,
dell'ingiustizia; oppure a domande anche più elementari e dirette
sulle cause della sventura: "perché io?", "perché a me e non a
lui?". Ma anche nel processo di riassorbimento di questi vuoti ci
si lascia sempre una porta aperta, un non spiegato che costituisce
un potenziale creativo, una risorsa disponibile per comprendere e
curare l'alterità presente.
Hans Holbein
Il corpo di Cristo deposto nella tomba, 1521
3. Il valore soteriologico dell'esperienza estetica
Secondo Lowie nell'arte religiosa si osserva un occultamento, un
suggerire piuttosto che un rappresentare esplicito; un illustrare in
modo oscuro ed enigmatico ciò che potrebbe essere mostrato più
facilmente. Nel porre la questione della relazione tra arte e
religione, Lowie fa riferimento alle sue ricerche etnografiche tra
gli indiani Crow.
4. La malattia come crisi della presenza
Sfruttando le analisi fenomenologiche di Alfred Schutz possiamo
descrivere le esperienze di malattia grave, di lutto o di altre
situazioni estreme, come momenti critici in cui avviene un
mutamento dei presupposti che fondano "l'atteggiamento
naturale" dell'individuo con il proprio Sé, il proprio corpo e con il
mondo esterno 21 . Questo mutamento passa attraverso una fase
liminare di crisi, che utilizzando la terminologia di De Martino
possiamo anche chiamare "crisi della presenza", crisi dell'esserci,
cioè della possibilità di "dare orizzonte formale al patire, [di]
oggettivarlo in una forma particolare di coerenza culturale"22.
Secondo Schutz, nell'atteggiamento naturale è in opera una
specifica epoché, che non consiste nella husserliana sospensione
del giudizio, ma invece nel sospendere il dubbio sull'esistenza di
un mondo della vita condiviso: "l'atteggiamento naturale di ogni
giorno, io accetto come "scontati" a) l'esistenza corporea degli
altri uomini, b) che questi corpi sono dotati di coscienza che è, per
principio, simile alla mia, c) che le cose del mondo esterno sono,
nel mio ambiente e in quello dei miei contemporanei, le stesse e
hanno, per noi, fondamentalmente, lo stesso significato; d) che io
posso entrare in rapporto reciproco, con i miei contemporanei, e
di reciproca influenza; e) che io posso intendermi con loro (...)".23
Nelle loro pitture secolari (..) gli Indiani della Prateria sono capaci
di rappresentazioni vivide di gesta militari: ora il proprietario è
raffigurato mentre si porta via un branco dei cavalli del nemico,
ora mentre colpisce un avversario con una lancia piumata (..).
Tuttavia nell'arte religiosa di queste tribù, avventure che pure
sono facilmente padroneggiabili dall'abilità dell'artista nativo, non
vengono riprodotte ma solo suggerite16 .
Su uno scudo sacro un combattimento a fuoco è simbolizzato
allora solo con una serie di linee, le traiettorie dei proiettili;
attraverso cioè una modalità ermetica. Come suggerisce Boas,
citato da Lowie, la "sacralità dell'idea rappresentata può indurre
l'artista a oscurarne intenzionalmente il senso allo scopo di
proteggere il significato del disegno da occhi profani"17. Ma
questa spiegazione troppo semplice non sembra convincere.
Per quanto detto nel primo paragrafo il testo estetico è sempre
concepibile come "arte religiosa", ha cioè sempre dei legami col
sacro e con la liminarità. L'estetico e il religioso si configurano
quindi come esperienze essenzialmente simili. Invece le
rappresentazioni naturalistiche appartengono ad un altro ordine
dell'espressività, più vicino alle scienze strumentali, delineandosi
come trasmissione, ricezione d'informazioni utili per determinati
scopi. L'esperienza estetica, anche se presente, non è qui cruciale.
Cerchiamo ora di comprendere le funzioni dell'ermeticità nel testo
estetico-religioso.
Se, come già detto, l'ambiguità come ostacolo cognitivo è la fonte
stessa delle forme percettive dell'esperienza e della sensibilità
estetica (che si manifesta come tensione abduttiva 18, come
"orgasmo interpretativo"19, l'apertura e il carattere di
indeterminatezza inscritto in essa acquista anche un valore
soteriologico e divinatorio20. Infatti, è proprio il carattere virtuale
del testo estetico a costituirlo come stimolo d'interpretazioni
immaginarie che lo trascendono. L'estetico, se da un lato si
presenta come vuoto, assenza, negatività, dall'altro appare come
complessità strutturale che resiste all'analisi ma che non vi si
Nell'atteggiamento naturale l'Io si rapporta alle cose secondo un
orientamento all'azione che implica un organizzarsi della vita
quotidiana per "ordini di realtà":
..mondi reali quando vi si partecipa, vi si è per così dire immersi,
che scompaiono con lo spostamento dell'attenzione del soggetto
nella direzione di un'altra "presa" sulla realtà, o "immersione" in
essa. E' quindi la modalità dell'orientamento (all'azione) che
configura il rapporto del soggetto con la realtà.24
La realtà si articola dunque in "realtà multiple", ambiti di senso
chiusi caratterizzati da uno specifico stile cognitivo, una specifica
tensione della coscienza, a loro volta organizzati nei tratti
caratteristici di: 1) una specifica forma di attenzione alla vita, 2)
una specifica epoché, 3) uno specifico ordine di rilevanza, 4) una
15
specifica forma di socialità, 5) una specifica prospettiva
temporale.
La malattia grave (ad esempio la malattia cronica) si configura, a
questo punto, come l'irrompere di un'esperienza "strana", non
riconducibile a nessuna delle risorse disponibili, che spinge il
sofferente a revocare la "fede" nella realtà del mondo "così
com'è". Ciò che emerge è qualcosa di totalmente estraneo, un
demone, un mostro che erompe in varie parti del corpo e quindi
invade anche il mondo esterno. Il dolore diventa un tutto,
un'esperienza totalizzante.
interessi che prima organizzavano la vita di ogni giorno non
hanno più alcuna rilevanza. Il tempo stesso assume un senso
diverso, sembra dilatarsi. Il tempo interiore si amplifica, non
corrisponde più al tempo esteriore e questo sfasamento fa perdere
al tempo il proprio potere organizzativo.
Di fronte a questa trasformazione spaventosa del proprio Sé, del
proprio corpo, il malato, come direbbe De Martino, ingaggia una
lotta drammatica per continuare ad esistere: il tentativo
angoscioso di riaffermare una presenza di fronte al rischio di non
esserci. Se il primo emergere della malattia si mostra come
liminarità, come incontro con un'alterità spaesante, il resto del
percorso di cura e di guarigione si costituisce invece come terapia
simbolica, come rito di aggregazione27.
5. Narrare la malattia come esperienza estetica
Come si è detto, l'esigenza più urgente del sofferente consiste nel
cercare di ridare senso ad un mondo che la malattia
continuamente mette in discussione. Ma di tale atteggiamento il
sofferente non è l'unico soggetto. Anche i suoi familiari, i medici
e le istituzioni a cui egli si affida sono impegnati attivamente in
questo sforzo. Infatti, la sua anomia, il suo non esserci
completamente, intacca anche l'esserci delle persone a lui vicine,
mentre la sua devianza si pone come problema anche per la
società. La malattia consiste quindi in una specie di lutto
"anticipato" a cui corrisponde una specie di "crisi del cordoglio".
Così, nel dare senso alla malattia, più voci interagiscono
dialogicamente, ostacolandosi o collaborando, a seconda dei casi,
secondo le relazioni di potere che ognuno incarna nel suo ruolo
posizionale all'interno della rete dei correlati dell'afflitto.
Francis Bacon - Head VI, 1949
Ho perso la mia vita (..) Non avrei mai scelto di ammalarmi a 25
anni (..) e all'improvviso tutto ti viene strappato via, come
amputato dalla tua vita. 25
A volte, se dovessi visualizzarlo, è come se là ci fosse ah,… un
demone, un mostro, qualcosa di orribile nascosto che squassa
l'interno del mio corpo (..) io lo contengo, o cerco di contenerlo,
dimodoché nessuno possa vederlo, e nessun altro possa esserne
turbato (..) Ho come la sensazione che mi stia succedendo
qualcosa di molto, molto terribile, che non riesco a controllare.26
Come l'alterità presente, il dolore acuto resiste al linguaggio
esprimendosi nel pianto, nel grido, oppure in un silenzio quasi
autistico, in un'apatia che manifesta una passività radicale, uno
stato di anomia in cui ogni slancio della volontà sembra essere
privo di una progettualità coerente.
Se normalmente il Sé, come autore delle proprie attività, è
considerato indiviso dal proprio corpo, nel sorgere della malattia
il corpo progressivamente viene sentito come alieno, è investito
da un'autonomia minacciosa che lo trasforma in un corpo nemico.
Allo stesso tempo il mondo vasto e raggiungibile che ci circonda
nella vita normale, nella percezione del sofferente è risucchiato
via, non è più credibile e ciò che rimane è solo un mondo chiuso,
ristretto, claustrofobico, un altro mondo. Il resto dell'umanità
diventa estraneo alla sua esperienza, incapace di comprendere
quello che egli realmente prova. Il dolore, per l'afflitto certezza
assoluta, per gli altri è oscuro, impenetrabile. Nella malattia
cronica ci si sente allora tagliati fuori. Il lavoro, il successo, gli
Egon Schiele - Amanti, 1913
La malattia viene allora continuamente evocata, si cerca di
colmare il vuoto di senso da essa generato imbrigliandola in una
rete di simboli e di pratiche, cercando di localizzarla in una parte
del corpo, di situarla nel tempo; gli si assegnano nomi e origini.
16
Questo percorso si compie principalmente attraverso le narrazioni
della malattia.
Ma ciò che si dice è sempre parte di una trama incompleta,
essenzialmente indeterminata, provvisoria. La trama aperta di un
testo virtuale, dinamico, errante, stratificato, ambiguo, cioè,
secondo la definizione proposta nel primo paragrafo, di un testo
estetico. Inoltre la narrazione, nel suo essere frammentata,
multipla, "eteroglossa"28 , incerta e performativa, svolge anche
delle performance che mette in scena nel tessuto sociale del
sofferente.
Da una parte la storia narrata dialogicamente si emancipa ben
presto dal suo contesto discorsivo; i suoi effetti sfuggono
all'autore (o agli autori) e in tale processo di "entestualizzazione"29
creano una realtà, naturalizzano la malattia (o meglio la
incorporano culturalmente). La malattia diventa una sintesi di più
voci, un dramma corale stratificato in una molteplicità di
prospettive socialmente distribuite; essa, oggettivandosi, diventa
anche luogo di discussione e di lotta, aggregazione in una trama
comune di una molteplicità di visioni dialogicamente o
conflittualmente interconnesse. Diventa il luogo dove
l'individuale, il sociale e il politico si manifestano
contemporaneamente.30
D'altra parte la similitudine tra estetico e religioso si riflette nella
narrazione. Se la sofferenza rifiuta di oggettivarsi, di darsi un
nome e un luogo, tale resistenza a manifestarsi può essere vinta
con i mezzi simbolici dell'arte e della religione. La malattia
diventa magica, ineffabile, creatura stratificata che si riproduce
ermeneuticamente, afferrabile solo con logiche in grado di gestire
la sua ambiguità, i suoi vuoti. Ed è proprio nelle lacune della sua
rappresentazione che, come già osservato, si realizza la funzione
soteriologica del testo estetico e quindi il valore essenzialmente
terapeutico del narrare.
La forma di narrazione così concepita, come protonarrazione in
atto creata situazionalmente, non regge solo i racconti, ma il
processo sociale stesso, il quale progredisce da una rottura nello
stato presente verso una crisi e una riparazione. Per V. Turner i
resoconti narrativi, insieme ai rituali, o anzi essendo essi stessi
rituali, si organizzano in relazione alle contraddizioni strutturate
nella società, ma anche in relazione all' "indeterminatezza
assoluta" che emerge nei momenti di crisi, nell'impatto con ciò
che abbiamo chiamato "alterità presente"31. La narrazione, come
"forma simbolica", non solo rappresenta la malattia e il processo
di guarigione ma costruisce entrambi come sintesi parziali di una
configurazione estratta da una successione di ricordi, di
percezioni corporee, di desideri e speranze che inglobano passato,
presente e futuro; sintesi che si sviluppa appunto nell'interazione
continua tra memoria e attesa, le tracce del tempo segnate nel
corpo-mente32 e nel sociale.
che esiste tra le narrazioni della malattia e il processo di
costruzione della medesima, diventa dunque uno strumento
metodologico fondamentale per l'antropologica medica. Se da un
lato certifica la presenza dell'antropologo sul campo, l'essere stati
là, osservatori partecipanti delle vicissitudini interpretative,
coinvolti attivamente nella costruzione dei racconti medesimi che
verranno inclusi nel testo etnografico, dall'altro, in quanto
rappresentazione della narrazione provvisoria di un incontro,
costituisce un'ermeneutica della vulnerabilità che mina l'autorità
del ricercatore distribuendola polifonicamente su tutti i soggetti
implicati33.
Questo risultato - importante di per sé, nel mettere in crisi il
modello ideologico di una pratica etnografica fondata sull'autorità
di un'unica figura "affidabile", l'etnografo professionista,
legittimante la scrittura della classica monografia etnografica - nel
contesto dell'antropologia medica acquista anche un altro
significato cruciale. Infatti l'esperienza di malattia e i fenomeni di
espressività corporea ad essa associati sono spesso sintomi
"ribelli", "anarchici", destabilizzanti, caotici, indici di un
Francis Bacon - Portrait of Michel Leiris 35, 1976
malessere che non sempre trova soluzioni nel contesto sociale e
culturale in cui si manifesta; indizi, in alcuni casi, di una vitalità
disordinata che resiste al dominio che la vorrebbe silente, rituali
di resistenza, forme di sabotaggio che agiscono secondo tattiche
somatiche 34.
6. Scrivere storie narrate: una via dialogica al problema
dell'autorità etnografica in antropologia medica
La rappresentazione delle storie narrate, data la stretta dipendenza
17
Mentre allora un'antropologia sistematica, che cerca di
organizzare i suoi dati in una configurazione stabile e coerente,
finisce per ridurre ed annullare la critica culturale, sociale,
politica, potenzialmente sovversiva, inscritta nella malattia,
replicando in tal modo l'ideologia conservatrice delle opere dei
primi antropologi-etnografi impegnati nell'antropologia medica36,
un'antropologia dialogica e riflessiva non risolvendo le questioni,
ma conservandole appunto dialogicamente, non cancella i
sintomi37 , ma li agisce diventando catalizzatore capace di
mostrarne il potere e le possibilità generative.
Ma anche questa strategia etnografica, come ci fa vedere James
Clifford non è priva di rischi in quanto le testualizzazioni dei
racconti restano comunque delle rappresentazioni del dialogo,
rappresentazioni controllate univocamente dall'autore. 38 Le
soluzioni proposte da Clifford sono varie: 1) estendere le citazioni
lasciando loro una sufficiente ampiezza in modo che l'etnografia
sia letteralmente invasa dalla eteroglossia; 2) condividere con gli
informatori lo status di autori creando testi realmente polifonici,
basati su una collaborazione non coercitiva ma stimolata dai
diversi interessi in gioco; 3) disseminare il testo etnografico di
dati grezzi, dettagli apparentemente insignificanti, creando così
un testo aperto, pieno di vuoti, di connessioni mancate, di
questioni solo accennate e irrisolte suscettibili di successive
reinterpretazioni.39
Ai fini del nostro discorso l'importante, al di là degli strumenti
utilizzati, è riuscire a conservare nel testo etnografico il valore
poietico della malattia nel suo emergere dal corpo, nel suo
trascendere il mondo che essa stessa contribuisce a dissolvere;
riuscire a custodire il valore creativo dell'alterità radicale che
nella malattia si manifesta come speranza di vita, apertura di
possibilità, utopia. L'obiettivo implicito è allora quello di
praticare un'antropologia capace di costituirsi come parte
integrante del processo di cura e di guarigione. 40 Infatti, se le
narrazioni non rappresentano ma creano gli oggetti di cui parlano,
anche la scrittura etnografica, per essere "fedele" all'intenzione
che le ha suscitate e sfuggire al paradigma, sempre latente, che
concepisce la cultura come dispositivo referenziale, deve
assumere essa stessa un ruolo esplicitamente performativo,
ricostituirsi come performance, come testo estetico che suscita
delle forze, le forze ad esempio della guarigione di cui parla, e ciò
attraverso un'empatia che non si limita al coinvolgimento nelle
negoziazioni più o meno conflittuali dell'etnografia sul campo 41 ,
ma che s'inscrive nei testi prodotti come empatia testuale 42. Ed è
allora proprio in questo atteggiamento, in questa "espèce de
déclaration de foi dans la vie"43, che l'arte, ponendosi al di là del
ri-conoscimento, indica alla filosofia (e all'antropologia) la via
dell'abbandono della rappresentazione44.
NOTE
1
Soteriologia: Dottrina religiosa basata sulla fede nella possibilità della redenzione; sapere impegnato a sviluppare i mezzi e le tecniche
d'ascesi necessari a pervenire alla salvezza spirituale dell'uomo. Scienza dell'eterna salute. Composto, dal greco, di soterìa "salvezza"
e -logia. Cfr. F. Sabatini - V. Coletti, Dizionario Italiano Sabatini Coletti, Giunti, Firenze, 1997; N. Zingarelli, Vocabolario della lingua
Italiana, IX ed. 1965.
2
Cfr. U. Eco, Trattato di semiotica generale, edizioni Bompiani, Milano, XII ed. 1991 [I ed. 1975], cap. 3.7. Vedi anche U. Eco, Opera
Aperta, Bompiani, Milano, 1993 [1962], pp. 291-306
3
Un insieme di correlazioni (o funzioni segniche) che connette elementi del piano dell'espressione (significanti) con elementi del piano
del contenuto (significati). Cfr. ad esempio Eco 1991, op.cit.
4
La formulazione del carattere ambiguo e autoriflessivo del linguaggio poetico è dovuta ai formalisti russi e ai fondatori del circolo
linguistico di Praga. In particolare a Jakobson (R. Jakobson, Linguistica e poetica, 1958).
5
Il continuum indifferenziato dell'espressione che precede la sua segmentazione in occorrenze (sostanze), inscrizione, di un materiale
amorfo originario, in posizioni (forme) all'interno di un sistema strutturato di natura posizionale e opposizionale. Cfr. Eco 1991, op.
cit., L. Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino, 1968 [1943].
6
Cfr. Paolo Gambazzi, Pensiero pittura. A proposito del "Bacon" di Deleuze, in "aut aut", 277-278, 1997 pp. 93-125; pp. 100, 101;
vedi anche M. A. Bonfantini, La semiosi e l'abduzione, edizioni Bompiani, Milano, 1987. In quest'ultimo testo si propone
un'interpretazione del trascendentale kantiano quale apparato precategoriale di facoltà interpretative: "la facoltà semiosico-cognitiva,
come capacità di dare senso all'esperienza (..); la facoltà progettuale del desiderio; la facoltà produttivo-trasformativa della prassi"(p.
32). Il trascendentale, secondo questa prospettiva, si pone nell'esperienza e nella percezione, non come già dato in partenza, ma come
frutto dinamico di un'interazione. In questo senso, tale punto di vista, ricorda gli studi di epistemologia genetica di Piaget, in cui gli
schemi cognitivi del bambino si sviluppano progressivamente seguendo una successione di fasi evolutive. Ma se per Piaget tali schemi
ad un certo punto si irrigidiscono in forme compiute, le facoltà interpretative, di cui sopra, si caratterizzano, invece, per una dinamicità
che non si riduce mai a schema.
7
Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, II ed. 1975 [1963], pp. 3-10.
8
Ciò che svanisce è "il procedimento ostacolo", ciò che rende effettivamente desiderabile l'oggetto del desiderio, ciò che rende tale
oggetto oscuro e vuoto, generando il desiderio stesso indipendentemente dal suo fine. Cfr. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla
fondazione del mondo, Adelphi Edizioni, Milano, 1983 [1978], Libro Terzo: Psicologia interindividuale.
9
Cristoforo Colombo, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle indie (1492-1493), in Gabriele De Rosa, Storia
medioevale, Minerva Italica, III ed. 1982, p. 310. Corsivo nostro.
18
10
Cristoforo Colombo, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle indie (1492-1493), in F. Affergan, Esotismo e
alterità, Ugo Mursia Editore, Milano, 1991 [1987], pp. 60, 61. Corsivi nostri.
11
Ibid., p. 61. Corsivi nostri.
12
Ibid., p. 61. Corsivi nostri.
13
Affergan 1991, op. cit., p. 68.
14
Cfr. Affergan 1991, op. cit., p. 67-68. In questa direzione potrebbero essere indagati i culti del cargo dell'oceania e anche i vari
esotismi occidentali. Vedi P. Worsley, Les mouvements millénaristes de Mélanésie, The Rhodes-Livingston Journal 21, 1957, pp. 1831; E. Messina, Muse d'oltremare. Esotismo e primitivismo dell'arte contemporanea, Einaudi, Torino, 1993.
15
Anche l'alterità, come la bellezza (cfr. par. 1), sembra dissolversi nelle mani che cercano di afferrarla. Nel ricondurre l'alterità alla
differenza essa si trasforma, incorporando lo sguardo che la illumina. E' qui in gioco un principio di indeterminazione, ciò che già
Levy-Strauss aveva colto con geniale precisione al ritorno dai suoi primi viaggi, ma che forse egli non aveva saputo superare,
rimanendo intrappolato nella nostalgia di una purezza paradossale: "Ed ecco davanti a me il cerchio chiuso (..). In fin dei conti sono
prigioniero di un'alternativa: o viaggiatore antico, messo di fronte a un prodigioso spettacolo di cui quasi tutto gli sfuggiva (..) o
viaggiatore moderno, in cerca di vestigia di una realtà scomparsa (..). Da tempo paralizzato da questo dilemma, mi sembra tuttavia che
il liquido torbido cominci a decantare…" (C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1988 [1955], pp. 5051).
16
R. H. Lowie, Primitive Religion, New York, 1948, 2a ed. (1a ed. 1924) pp. 259-276, in Estetica e Antropologia, a cura di G. Carchia,
1980, pp. 98-110; cit. p. 100.
17
Ibid., p.102.
18
Peirce distingue tre forme di inferenza: 1) l'abduzione, il suo primo momento di assunzione o premessa, quale mossa inferenziale in
cui l'ipotesi esplicativa congetturata non è sullo stesso piano dei fenomeni che deve spiegare; 2) la deduzione, il suo secondo momento
di analisi o "mediazione esplicitativa" (M. A. Bonfantini 1987, op. cit., p. 45) del contenuto delle premesse, quale inferenza di
conseguenze logiche che esprimono il risultato necessario dell'applicazione di una regola ad un caso; 3) l'induzione, il suo terzo
momento, come generalizzazione di ipotesi e casi di ugual tipo.
19
U. Eco 1991, op. cit., p. 330.
20
Divinazione: Interpretazione di fenomeni naturali, di casuali combinazioni di elementi, di sogni ecc.; predizione, profezia, presagio.
Cfr. Dizionario Italiano Sabatini Coletti, 1997, op. cit.
21
Cfr. B. J. Good, Narrare la malattia, Edizioni di Comunità, Torino, 1999 [1994], cap. 5.
22
De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Boringhieri, Torino, 1975 [1958], p. 15
23
A. Schutz, Th. Luckmann, Strukturen der Lebenswelt, 1979 [rielaborazione di Luckmann dei taccuini compilati da Schutz durante il
1958] , citazione riportata in: Mauro Protti, Alfred Schutz. Fondamenti di una sociologia fenomenologica, Ed. Unicopli/Cuesp, Milano,
1995, p. 170.
24
Mauro Protti 1995, op. cit. p. 172.
25
Ivo Quaranta, Costruzione e negoziazione sociale di una sindrome, AM Rivista della Società italiana di antropologia medica / 7-8,
ottobre 1999, pp. 129-172; citazione di un'intervista dell'autore ad un afflitto da CFS (Chronic fatigue syndrome), p. 144.
26
B. J. Good 1999, op. cit.; citazione di un'intervista dell'autore ad un afflitto da dolore cronico, p. 185.
27
Secondo la terminologia di Van Gennep un rito post-liminare.
28
Termine proposto da Michail Bachtin nell'analisi dei romanzi di Dostoevskij, ove ne rileva il carattere "polifonico" e "dialogico". La
nozione di "eteroglossia" prevede che differenti linguaggi non si escludano l'un l'altro ma piuttosto si intersechino vicendevolmente.
29
Termine dovuto a Ricoeur, citato da B. J. Good 1999, op. cit., p. 251.
30
E' interessante notare qui l'omologia (l'identità strutturale) tra i tratti che caratterizzano il testo estetico narrativo e quelli che
contraddistinguono i sintomi di emersione della malattia nell'espressività del corpo. Entrambe le tipologie di forme sembrano
inscrivere in sé una propria biografia fenomenologica fatta di rapporti sociali esistenzialmente vissuti, di una storia politica di conflitti
e negoziazioni. Ciò che li accomuna è anche il carattere imprevedibile, provvisorio, incerto, caotico, situazionale, dinamico, creativo,
stratificato, incompleto del loro manifestarsi. Tanto che alla fine sorge il dubbio che il corpo non sia che la sostanza materiale, il
supporto biologico, corporeo, del cui appiglio non ci si riesce a separare. Un corpo mistico, ultimo baluardo soteriologico prima
dell'abisso, del nulla dell'essere, del pre-linguistico, pre-categoriale, dell'indicibile, di cui invece la parola del narrare ci parla, anche
se non è l'essere ciò di cui predica. Il corpo in questo senso assume lo stesso significato della cosa in sé di Kant. Ma come la cosa in
sé, anche il corpo non sfugge allora al linguaggio, essendo già l'effetto del linguaggio, del limite che il Sé pone fuori di sé come proprio
altro. Il corpo nascondendoci l'abisso ci nasconde la visione oscura del vuoto che ci fonda, l'orrore, l'orrore del cuore di tenebra che
affiora ogni volta che un'alterità presente contamina le illusioni in cui crediamo più ciecamente.
31
Vedi ad esempio, di V. Turner, Il processo rituale (1966); La foresta dei simboli (1967).
32
Il body-self teorizzato da N. Scheper-Hughes; si veda ad esempio N. Scheper-Hughes, Il sapere incorporato: pensare con il corpo
attraverso una antropologia medica critica, in R. Borofsky (a cura di), L'antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma, 2000 [1994].
19
33
E' chiaro qui il riferimento a J. Clifford, in particolare al primo capitolo, Sull'autorità etnografica, nel volume J. Clifford, I frutti
puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino, I ed. 1993 [1988]. Sul carattere "autobiografico" e "biografico" della ricerca sul
campo, quale working fiction, in cui antropologo e informatori sono reciprocamente coinvolti nella formulazione d'interpretazioni
originali della propria cultura, vedi R. Malighetti, Dal punto di vista dell'antropologo. L'etnografia del lavoro antropologico, in U.
Fabietti (a cura di), Etnografia e culture, Carocci, Roma, 1998, pp. 211-214.
34
Vedi N. Scheper-Hughes 1994, op. cit. e I. Quaranta 1999, (op. cit.). Se il corpo si manifesta come emersione dell'inconscio,
dell'automatico (pensiamo ad esempio, nel campo dell'arte, al così detto automatismo psichico dell'Action Painting, all'arte
dell'impulso e del caso di Pollock, di De Kooning, ecc.), e quindi anche delle forme incorporate del potere, tali manifestazioni, nel
momento in cui diventano sintomi stranianti di un'umanità repressa e occultata, deutomatizzando il linguaggio svelano le ideologie
che lo informano, trasfigurando così l'egemonia in ideologia e quindi capovolgendola in contro-ideologia. Cfr. ad esempio, J.
Camaroff, Body of Power, Spirit of Resistance: the Culture History of a South African People, University of Chicago Press, 1985. Sul
ruolo delle abilità tecniche incorporate, nel campo delle arti plastiche, vedi invece G. Bateson, Stile, grazia e informazione nell'arte
primitiva, 1967, in G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1988[1972], pp. 160-192.
35
Di Leiris possiamo qui ricordare l'amicizia con Francis Bacon sul quale scrisse diversi lavori di critica dell'arte: Francis Bacon ou
la vérité criante, 1974; Francis Bacon, 1987; Bacon le hors-la-loi, 1989. Riguardo a Leiris etnografo rinviamo invece alla nota
seguente.
36
Ad esempio Frazer (1911-1915), Rivers (1924), Evans-Pritchard (1937), ecc.
37
Da un punto di vista epistemologico, i sintomi "irriducibili" della malattia rappresentano la presenza fuggitiva di un elemento
estraneo ai modelli esplicativi disponibili al momento del loro emergere. In quanto non spiegabili tali sintomi risultano, teoricamente,
dei prodotti che nonostante la propria presenza non possono venir visti. Questo invisibile si manifesta allora come lapsus, come
mancanza, come sintomo anche teorico. Il discorso che abbiamo fin qui condotto, riguardo alla narrazione come testo in fieri, il cui
senso sorge appunto in un'assenza, in un vuoto che presuppone la possibilità virtuale di essere riempito, trasposto nei termini di
un'epistemologia delle pratiche teoriche, si può allora mettere in relazione alla lettura "sintomale" di Althusser, nell'ambito della quale
il lettore, scoprendo ciò che si cela nel testo che ha di fronte, contemporaneamente lo correla a un altro testo presente come assenza
necessaria nel primo (cfr. S. Tagliagambe, L'epistemologia contemporanea, Editori Riuniti, Roma, 1991); il secondo essendo il frutto
dei silenzi, delle carenze concettuali, dei vuoti di rigore della formazione strutturale che lo ospita.
38
Cfr. J. Clifford 1993, op. cit.; per un'analisi dei limiti dell'etnografia post-moderna vedi anche R. Malighetti, 1998, op. cit., pp. 202205.
39
Un testo pioniere di queste strategie etnografiche, è L'afrique fantome di Leiris: "un diario di viaggio nel quale sono annotati alla
rinfusa eventi, osservazioni, sentimenti, sogni, idee" (dalla prefazione di Leiris alla prima edizione di L'afrique fantome, in J. Clifford
1993, op. cit., p. 197). Leiris scrive appunti su se stesso, "su un'incerta esistenza", compilando i suoi taccuini durante la missione
etnografica Dakar-Gibuti, organizzata da Griaule nel 1930. Possiamo notare però, che, in L'afrique fantome, l'ispirazione ad una totale
autenticità e trasparenza, trascurando di mettere al centro dell'attività etnografica le proprie competenze analitiche disciplinari, finisce
per non prendere in considerazione le modificazioni dei propri modelli concettuali. Per una rassegna di più recenti scritti etnografici
sperimentali vedi Clifford e Marcus, Writing Cultures: The Poetics and Politics of Ethnography, Berkeley, 1986.
40
E' chiaro che qui per guarigione non si intende la neutralizzazione, narcotizzazione di sintomi medicalizzati, calmati, sedati,
soppressi, né l'adattamento ad un ordine solo ritualmente negato (ad esempio nei riti di inversione, di travestimento,…). Vedi anche
N. Scheper-Hughes 1994, op. cit.
41
Qui il termine empatia non va inteso come immedesimazione, ma come com-passione, condivisione di una stessa tensione vitale.
Vi è qui una responsabilità particolare che significa riavvicinarsi al potenziale, alla situazione come potenza d'incontro. Sul tema della
responsabilità cfr. F. Zourbabichvili, Deleuze e il possibile (sul non volontarismo in politica), in "aut aut", 276, 1996, pp. 79-87.
42
Queste osservazioni mi sembrano valide, non solo per gli studi antropologici che riguardano l'antropologia medica, ma anche per
l'antropologia dell'arte, l'etnoestetica o l'antropologia delle religioni, le cui analisi non sempre riescono ad inscrivere e ad esprimere,
nei testi che producono, il valore creativo e soteriologico delle realtà che indagano. Tali osservazioni riguardano infine anche le
istituzioni accademiche che, nelle loro pratiche, dovrebbero essere in grado di sviluppare nuovi campi di possibilità, operando nel
reale, piuttosto che parlando del reale. Sarebbe interessante, a questo punto, sviluppare un discorso più ampio che, interpretando le
istituzioni come testi letterari o poetici (qui il riferimento è chiaramente geerziano..), porga ad esse il problema del modo con cui
inscrivere, all'interno delle proprie strutture formali, delle lacune, degli spazi aperti non chiaramente definiti. Questo, del resto, è uno
dei problemi cruciali, che continuamente anche le istituzioni democratiche pongono a se stesse (senza mai essere in grado di risolverlo
compiutamente), vivendo le contraddizioni delle loro pratiche effettive. Probabilmente, l'esempio più appropriato, delle potenzialità
inscritte nella dialogicità caotica, che affrontare tale problema impone, è la palabre dei villaggi africani (cfr. E. E. Evans-Pritchard, I
Nuer: un'anarchia ordinata, Franco Angeli, Milano, 1991 [1940]; vedi anche S. Latouche, La sfida di Minerva, razionalità e ragione
mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 2000 [1999], pp. 31-45).
43
G. Deleuze, Francis Bacon. Logique de le sensation, 1981, in P. Gambazzi 1997, op. cit., p. 118.
44
Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, il Mulino, Bologna, 1971 [1968].
20
Frazer il Selvaggio
Un percorso tra le Note sul "Ramo d'Oro" di Wittgenstein
di Lorenzo D'Angelo
Nel 1930 Wittgenstein chiese al suo amico Drury di procurargli una copia de "Il Ramo d'Oro" di Frazer e di leggergliela ad
alta voce. Secondo quanto riferisce lo stesso Drury, la sua lettura di quest'opera non andò oltre il primo volume a causa dei
continui interventi critici di Wittgenstein. Sta di fatto che, il 19 giugno 1931, il filosofo austriaco prese carta e penna per
scrivere la prima delle sue note: "Io credo che ora sarebbe giusto cominciare il mio libro con alcune osservazioni sulla
metafisica considerata come un tipo di magia". Wittgenstein, in realtà, non scriverà mai quel libro ma, delle 771 pagine
dattiloscritte e variamente composite di riflessioni sugli argomenti più disparati, una decina di fogli venne in seguito pubblicata
da Rhees nella rivista Synthese (1967). In quelle pagine sono contenute le osservazioni degli anni trenta e gli appunti del 1948
che Wittgenstein avrebbe desiderato inserire nella sua copia del Ramo d'Oro. L'edizione italiana dell'Adelphi intitolata "Note
sul "Ramo d'Oro" di Frazer" fa riferimento a questa raccolta1.
"Il modo in cui Frazer rappresenta le concezioni magiche e
religiose è insoddisfacente perché le fa apparire come errori"
(p.17). Così comincia, idealmente, l'attacco critico sferrato da
Wittgenstein ad uno dei più famosi antropologi inglesi del suo
tempo: James George Frazer.
Wittgenstein legge The Golden Bough (1911-1915, 3aed.) in
un periodo cruciale del suo percorso intellettuale. Sono gli
anni, quelli tra il 1930 e il 1933, in cui il filosofo - tornato a
Cambridge per occuparsi di filosofia - prende le distanze dal
suo Tractatus logico-philosophicus ed elabora un nuovo
metodo per fare filosofia. L'idea che il linguaggio possa
rispecchiare la struttura logica della realtà e la verità, di
conseguenza, debba essere concepita in termini puramente
referenziali, non sembra convincerlo più. Il confronto con gli
esponenti del Circolo di Vienna, che avevano fatto del
Tractatus il loro manifesto, non fa che accentuare il senso di
distacco intellettuale da quest'opera "giovanile". Così, mentre
un neopositivista come Carnap auspicava il superamento della
metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio e liquidava
come insensate tutte quelle proposizioni che non fossero
empiriche o logico-matematiche, Wittgenstein da parte sua
affermava, invece, di comprendere molto bene quel che certi
filosofi intendono con termini come essere, angoscia 2 ...
termini che non hanno una denotazione empirica
immediatamente riconoscibile. Ecco, allora, che la prima nota
di questi appunti, presi in parte nel 1931 e in parte nel 1948, è
già una ricerca che risente di quel clima intellettuale e delle
tensioni che animano il filosofo viennese: "Per convincere
qualcuno della verità non basta constatare la verità, occorre
invece trovare la via dall'errore alla verità" (p. 17). La verità
non la si scopre. La verità è la ricerca stessa.
Lasciamo però in sospeso per un momento questo problema
che ci porterebbe ad affrontare prematuramente la questione
del metodo e affrontiamo invece, la problematica che sembra
21
essere centrale, almeno in questa prima parte delle Note. E'
appropriato riferirsi ad una pratica o ad un comportamento
magico come ad un errore della ragione, così come sostiene
Frazer nella sua opera più celebre? Frazer, lo ricordiamo,
coerentemente con il paradigma evoluzionista (di cui è uno dei
massimi esponenti), attribuisce alla magia un ruolo e un posto
ben preciso nello sviluppo storico del pensiero umano: essa
rappresenta uno stadio precursore della scienza e del pensiero
razionale. In questa prospettiva, la magia esprime una
conoscenza falsa della natura. Più precisamente, ad essere
errate, sono le opinioni e le credenze che la sorreggono e non
tanto i processi cognitivi che permettono agli uomini di agire
coerentemente con le loro idee (per il principio di unità
psichica del genere umano questi processi sarebbero gli stessi
per tutti).
Se è vero ciò che afferma Frazer, ci aspetteremmo però che
tutta la vita dei "selvaggi" sia contrassegnata dall'errore e non
solo quella porzione che (noi) riconosciamo essere
propriamente magica. In altri
termini, se assumiamo che il
"selvaggio" si comporta in
maniera coerente con le sue
credenze implicite quando
trafigge l'immagine del nemico
pensando di recargli un danno,
ci domandiamo come sia
possibile, allora, che questo
stesso "selvaggio", in altre
circostanze, non commetta
l'errore di mettere sullo stesso
piano ontologico l'immagine e
J. Frazer 1854/1941
ciò che essa rappresenta:
"Il medesimo selvaggio che trafigge l'immagine del nemico,
apparentemente per ucciderlo, costruisce realmente la propria
capanna di legno e fabbrica frecce letali, non in effige". (p. 22)
precedenza matura nel nostro filosofo l'idea che anche il
linguaggio non scientifico possa essere sensato, purché non si
riduca la "sensatezza" alla sola possibilità di raffigurare gli stati di
cose del mondo.
Come nota acutamente Sobrero, non è un caso che Wittgenstein,
diversamente dal testo frazeriano, associa la parola "magia" alla
parola "religione". Entrambe, magia e religione, si rifanno alle
stesse illusioni e paure. Nella magia c'è inoltre un sentimento
religioso che Frazer, prigioniero del suo "perbenismo", non può
riconoscere, pena la confusione della religione moderna con la
magia antica, del "civilizzato" con il "primitivo" (Sobrero, 1999).
Del resto, si potrebbe ancora obiettare a Frazer, così come fa
Wittgenstein in una delle note iniziali, non capita anche ad un
innamorato dell'evoluta società inglese di inizio novecento di
"baciare l'immagine dell'amata? Questo naturalmente non poggia
su una credenza in un determinato effetto sulla persona
rappresentata. Tende ad una soddisfazione e la raggiunge pure..."
(p. 21). Sotto questa luce ecco che il primitivo di Frazer non
appare più tanto distante da un "evoluto" intellettuale tardovittoriano. Anzi, tra l'ironia e il disprezzo intellettuale,
Wittgenstein arriva ad affermare senza mezzi termini che:
"...Agostino era in errore quando in ogni pagina delle Confessioni
invoca Dio? Ma - si può dire - se non errava Agostino, errava
però il santo buddista, o qualunque altro, la cui religione
esprimesse concezioni affatto diverse. Nessuno di essi invece
sbagliava, se non quando enunciava una teoria" (p. 17-18).
"Frazer è molto più selvaggio della maggioranza dei suoi
selvaggi, perché questi non potranno essere così distanti dalla
comprensione di un fatto spirituale quanto lo è un inglese del
ventesimo secolo. Le sue spiegazioni delle usanze primitive sono
molto più rozze del senso di quelle usanze stesse" (p. 28).
Per Wittgenstein vi sono esperienze e distinzioni che noi come gli
altri dobbiamo saper fare per poterci riparare, nutrire... in una
parola, per sopravvivere. Tra un "selvaggio" e un'inglese la
differenza di conoscenze è molto meno marcata di quanto possa
apparire ad una sommaria rassegna di fatti che solo
superficialmente possono sembrare bizzarri ed esotici. E, infatti,
"se [i "selvaggi"] mettessero per iscritto la loro conoscenza della
natura, essa non si distinguerebbe in modo fondamentale dalla
nostra. Solo la loro magia è diversa" (p. 37).
Considerato sotto un'altra prospettiva l'atteggiamento di Frazer
verso la magia è criticabile in quanto ci preclude la comprensione
di quella dimensione profonda delle cose che la spiegazione
scientifica - inevitabilmente - trascura nel momento stesso in cui
ha la pretesa di essere esaustiva, quando ha la pretesa di dire,
insomma, l'indicibile. Per comprendere il senso di tale questione
bisogna ricordare le proposizioni del Tractatus dedicate al tema
del "Mistico". Senza entrare nel dettaglio (per cui si rimanda alle
innumerevoli introduzioni dedicate al pensiero del filosofo
austriaco) in quest'opera troviamo due coppie di contrapposti che
sono di nostro interesse: la contrapposizione tra filosofia e scienza
e quella tra dire e mostrare. In sintesi, secondo il Tractatus, la
filosofia non è una dottrina bensì un'attività che mostra i limiti
stessi del dicibile e dunque della scienza. Tutto ciò che non è
esprimibile in modo chiaro ed esaustivo attraverso un linguaggio
rigoroso confluisce nel territorio del silenzio mistico ("Su ciò di
cui non si può parlare si deve tacere"). Tra il dicibile e l'indicibile
il confine è netto, l'uno è campo della scienza, l'altro della
filosofia. Il Tractatus segnala quindi un limite.
Il rispetto che Wittgenstein nutre per la magia, così come per la
religione, nasce proprio dalla consapevolezza di quei limiti
evidenziati nella sua prima opera. Una spiegazione scientifica non
può sostituire una "spiegazione" magico-religiosa perché è
"insensata", o meglio, non dà un senso capace di esprimere, ad
esempio, le inquietudini della vita. Come si accennava anche in
22
E' chiaro che, mentre il riduzionismo evoluzionista di Frazer
spiega le procedure e i comportamenti magici alla luce del sapere
scientifico del suo tempo e li fa apparire come errori, la tesi che
Wittgenstein sostiene è che possiamo parlare di errore solo
laddove vi siano opinioni, credenze, teorie, in altri termini, solo
laddove abbiamo a che fare con una conoscenza (Piana, 2001).
Frazer crede invece di poter spiegare certi rituali supponendo
l'esistenza di opinioni o credenze che il "primitivo" assume
tacitamente. Ma, quelli descritti da Frazer sono innanzitutto
esempi di comportamenti, azioni che non è necessario far derivare
da un'errata credenza o teoria implicita così come non attribuiamo
a qualcuno che colpisce la terra con il bastone quando è arrabbiato
"la credenza che la colpa sia della terra o che colpirla possa
servire a qualcosa" (p. 34).
Va sottolineato che con ciò Wittgenstein non intende negare
l'esistenza di quelle credenze che ruotano intorno ai rituali, così
come non nega ad esempio la superstizione, semmai, ciò che egli
rifiuta è l'idea che questi stessi rituali possano essere spiegati
ri(con)ducendoli nei termini di opinioni o di (errate) concezioni
delle cose (p. 26-27). E' nella natura della pratica scientifica
ricercare concatenazioni causali che abbiano un valore esplicativo
dei fenomeni considerati. Ma sappiamo anche che la scienza
muove da ipotesi. Accade allora che Frazer, nel tentativo di
applicare un modello di spiegazione scientifica che esplori
l'origine stessa dei rituali, finisca con il presupporre quel legame
tra le cose e gli eventi (passati e presenti) che dovrebbe invece
"spiegare". E' nell'origine storica, insomma, che l'autore del Ramo
d'Oro cerca la profondità delle cose e lo fa, appunto, attraverso
spiegazioni storico-ipotetiche.
"Quando Frazer, all'inizio, ci racconta la storia del re della foresta
di Nemi, lo fa con un tono che indica che qui avviene qualcosa di
strano e terribile. Ma alla domanda "perché questo avviene?" si
risponde è poi così: perché è terribile. Vale a dire che proprio ciò
che in questo evento ci pare terribile, enorme, pauroso, tragico,
ecc., tutto tranne che banale e insignificante, proprio questo ha
dato origine all'evento". (p. 19)
una rappresentazione perspicua "designa la nostra forma di
rappresentazione, il modo in cui vediamo le cose" (p. 29) e che
l'antropologo può ottenerle cercando di rendere "visibili le
connessioni", ossia, mostrando le relazioni di somiglianza di una
qualche usanza praticata da una società con pratiche culturali e
comportamenti della sua cultura, quel che emerge è una
prospettiva incentrata sul versante del "Noi" (contrapposto ad un
"Loro"). Siamo Noi a mettere ordine ai fatti cercando uno dei
possibili modi di vederli che permetta di renderli significativi; e
siamo ancora Noi ad ottenere una serie di analogie e differenze
concatenate a partire da una somiglianza con la Nostra cultura.
Come ci ricorda la Andronico, questo "Noi" non si identifica con
una soggettività empirica (questa o quella società specifica) e
nemmeno con una soggettività trascendentale. "Il Noi di
Wittgenstein sembra piuttosto rinviare alla
soggettività
dell'analisi
filosofica:
una
soggettività aperta, che si costituisce nell'accordo
che via via incontra o suscita tra gli interlocutori"
(Andronico, 1997). Wittgenstein sembra qui
porre le basi per superare quella concezione della
verità e dei rapporti tra linguaggio e realtà a cui è
in un qualche modo legata l'antropologia
evoluzionista di Frazer. L'attacco a Frazer è un
attacco mediato ad una concezione della verità di
tipo referenziale, quella stessa concezione che il
Tractatus sosteneva esplicitamente. Il cerchio su
Frazer si stringe sempre più ma, nel contempo, si
apre una nuova prospettiva, un nuovo modo di
intendere le cose e i rapporti con e tra di esse.
Dunque, perché, si domanda Wittgenstein nella seconda parte
delle Note, ci sono riti che, ancora oggi, possiamo comprendere o
addirittura rievocare partecipandovi con una "sinistra"
inquietudine? La Festa di Beltane, ad esempio, simbolizza l'atto di
bruciare un uomo sorteggiato tra i presenti. Per come Frazer ci
presenta i fatti si potrebbe dire che abbiamo a che fare con una
sopravvivenza di un rito antico nel quale un uomo veniva bruciato
veramente. Questo nesso storico per Frazer spiegherebbe il fatto
che lo spettatore moderno possa rimanere particolarmente
impressionato da questa usanza. Detto in altri termini, la violenza
evocata dal ricordo dell'immagine originaria proietterebbe la sua
ombra cupa e carica di irrazionalità direttamente sul presente
disturbando così la nostra sensibilità moderna ed
evoluta. Wittgenstein ribalta la prospettiva:
"Siamo noi che proiettiamo questa luce sinistra
da un'esperienza nell'intimo di noi stessi" (p. 45)
e proprio per questo possiamo comprenderla e
sentirla persino familiare. Ciò che qui è in gioco
non è tanto il pericolo di proiettare sull'Altro
dimensioni ad esso sconosciute distorcendone
così la comprensione. Ad essere in gioco è la
modalità di un approccio che vada effettivamente
nella direzione dell'altro. A questo proposito non
è un caso che quel che Wittgenstein rimprovera
di più a Frazer è di mancare di immaginazione:
"Quale ristrettezza della vita dello spirito in
Frazer! Quindi: quale impossibilità di
comprendere una vita diversa da quella inglese
"La spiegazione storica, la spiegazione come
del suo tempo!
ipotesi di sviluppo è solo un modo di raccogliere
L. Wittgenstein 1889 / 1951
Frazer non è in grado di immaginarsi un
i dati - della loro sinossi. E' ugualmente possibile
sacerdote che in fondo non sia un pastore inglese del nostro vedere i dati nella loro relazione reciproca e riassumerli in una
tempo, con tutta la sua stupidità e insipidezza" (p. 23).
immagine generale che non abbia la forma di un'ipotesi sullo
Comprendere forme di vita differenti dalla propria è innanzitutto sviluppo cronologico" (p. 28).
uno sforzo di immaginazione. Infatti, l'immaginare concetti,
giochi o forme di vita differenti consente di ripensare, a partire da E' solo dal raffronto continuo di somiglianze e differenze che può
un serrato confronto, i propri concetti o le regole dei giochi scaturire una qualche comprensione dell'altro. L'importanza di
linguistici usati solitamente e spesso inconsapevolmente. Se trovare quelli che il filosofo viennese definisce "anelli
l'antropologo non è in grado di immaginare forme di vita intermedi" consiste proprio nel "richiamare l'attenzione sulla
differenti dalla propria e di liberarsi dai propri pregiudizi correrà somiglianza, sul nesso tra i fatti" (p. 29). Si costruiscono così
sempre il rischio di non comprendere veramente i possibili modi catene d'esempi legati l'uno all'altro come i fili intrecciati di una
di essere nel mondo alternativi al proprio e cadrà facilmente nella corda; per vedere connessioni illuminanti; istituire analogie che
trappola etnocentrica, così come capita a Frazer.
"[affinino] il nostro occhio a cogliere la natura metamorfica del
Nessuna immedesimazione e nessuna proiezione sostengono la reale" (Fabbrichesi-Leo, 1997); per vedere le stesse cose sotto
comprensione dell'altro: quel che si può fare è descrivere. A tal altri aspetti e scoprirne così di nuovi. In questo consiste il metodo
proposito le Note sono alle volte talmente lapidarie da risultare, di Wittgenstein.
per certi versi, fuorvianti ("Qui si può solo descrivere, così è la
vita umana"). Tuttavia, è chiaro che, per Wittgenstein, descrivere
non significa accostare semplicemente delle rappresentazioni
"fedeli ai fatti" come se questi possano avere un senso di per sé.
Il metodo che Wittgenstein propone è un "metodo descrittivo" che
ha lo scopo di produrre rappresentazioni perspicue. Chiarito che
23
NOTE
1
2
L'edizione a cui si riferiscono le pagine delle citazioni è: Note sul "Ramo d'Oro" di Frazer, Milano, Adelphi, 1975.
Il riferimento esplicito è ad Heidegger (v. Marconi, 1997).
BIBLIOGRAFIA
Andronico, M. (1997), Giochi linguistici e forme di vita, in Marconi, D. (a cura di), Wittgenstein, Laterza, Bari, 1997, p. 241-289.
Fabbrichesi Leo, R. (2000), Vedere connessioni, descrivere forme di vita, illustrare esempi. Wittgenstein legge Frazer, in: Sini, C. (a
cura di), Terra e storia. Itinerari del pensiero contemporaneo, Cisalpino, Milano, 2000, p. 13-39.
Piana, G. (2001), Wittgenstein lettore di Frazer , in: http://filosofia.dipafilo.unimi.it/piana/frazer/frazidx.htm
Sobrero, A. (1999), L'Antropologia dopo l'antropologia, Meltemi, Roma.
LETTURE CONSIGLIATE
Per un'introduzione generale al pensiero di Wittgenstein:
Kenny, A. (1984), Wittgenstein, Bollati Boringhieri, Torino.
Marconi, D. (1997), Wittgenstein, Laterza, Bari.
Per saperne di più sulla complessa personalità di Wittgenstein e sulle sue tormentate vicissitudini, una biografia interessante è quella
di Monk:
Monk, R. (2000), Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, Bologna.
J. M. W. Turner - Il Ramo d’Oro, 1819 ca
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Bourdieu.
Spazio dei corpi e dominazione di genere
di Barbara Caputo
Uno dei maggiori contributi teorici di Bourdieu é stato nel
campo degli studi sul genere. Il sociologo-etnologo francese,
a partire dal suo lavoro di campo in Kabylia, ha dedicato una
parte significativa della sua riflessione ad analizzare il modo
in cui la dominazione di genere - asimmetria sociale
fondamentale - e i generi maschile e femminile vengono
costituiti, attraverso un sistema di classificazioni inserito in
uno schema cosmologico, nello spazio pubblico e domestico.
Questo sistema di classificazioni, rafforzato non solo dalle
iscrizioni spaziali, ma anche da detti e discorsi quotidiani, si
iscrive profondamente nei corpi sessuati, incarnandosi in
movimenti, posture, pensiero e azioni, attraverso quel potente
veicolo di dominazione che é l'habitus.
A differenza che nel termine latino originario, il concetto di
habitus di Bourdieu non designa "una condizione tipica o
abituale, uno stato o apparenza; in particolare del corpo"
(Jenkins 1992: 74, cit. in Farnell 2000). E, a differenza che in
altre teorie sul corpo (che possono anche non utilizzare il
termine di habitus ma, di fatto, ne contemplano il concetto),
esso non riguarda il modo in cui ogni cultura crea forme di
umanità segnando e incidendo i corpi, in forme che possono
essere superficiali o profondamente impresse nella carne
(Remotti 1993, 2000), oppure una domesticità appaesante che
si costituisce attraverso una corrispondenza tra luoghi,
memorie familiari e gesti d'uso (De Martino 1977). Con il
termine habitus, Bourdieu intende schemi generativi di
percezione, valutazione e azione, che si traducono in
disposizioni e stati abituali inconsci, e nella predisposizione
ad agire in modi già preordinati a seconda delle situazioni.
L'habitus costituisce per lui (prendo a prestito il termine,
cambiandone il senso, da Alexander) un "cavallo di Troia" per
l'esercizio del potere nei corpi, consentendo il passaggio delle
regole sociali da minuziose rappresentazioni cosmologiche e
da spazi concreti ai corpi e alle menti.
Spazi, corpi e classificazioni di genere
Per Bourdieu lo spazio - spazio immaginato e concreto si
intersecano e si confondono - é, come già in Mauss e
Durkheim, supporto di sistemi di classificazione, cioè, nel
nostro caso, di valori e simboli che vengono raggruppati e
assegnati a diverse porzioni di spazio (nord, sud, est, ovest,
alto, basso, destra, sinistra) e che a loro volta permettono la
riproduzione delle strutture e diseguaglianze sociali. Poiché
ogni porzione di spazio reca inscritti valori e regole,
l'esposizione a tale spazio e ai valori che in esso sono
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incorporati e raggruppati, e da esso riaffermati, e
l'assegnazione e collocazione dei corpi in questi spazi,
l'incorporazione, sono uno dei principali veicoli di
inculcazione e perpetuazione di un sistema di potere e di
ordine sociale, attraverso quella che da Bourdieu viene
definita violenza simbolica, "violenza dolce, insensibile,
invisibile alle sue stesse vittime", che consiste in un'adesione
spontanea delle vittime stesse all'ordine simbolico incorporato
nelle strutture di trasmissione del potere, tra cui lo spazio.
Tale adesione assume l'aspetto di un ordine naturale,
(Bourdieu 1998: 7), e cioè una doxa, un "credo", una
"convinzione", un "riconoscimento che sfugge alla messa in
discussione" (Bourdieu 1992: 68) del gioco sociale e che
comporta una illusio, un investimento nel gioco stesso,
esperito non come sottomissione ad una serie di regole
arbitrarie, ma come adesione spontanea ad uno stato di cose
percepito come naturale da tutti gli agenti sociali. Gli schemi
cognitivi spaziali, a detta di Bourdieu, si imprimono sul corpo
proiettandovi e riproducendovi cosmologie sociali e sistemi di
classificazione spaziali, mediante segni esteriori ma anche
dettando gesti, movimenti e posture, cioè producendo habitus.
Gli schemi classificatori si trasformano in atti corporei
mediante una mimesi pratica, traducendosi in un sapere
cinetico che è allo stesso tempo un senso pratico, una
conoscenza anticipatoria delle mosse da compiere in virtù
della conoscenza delle regole del proprio gioco.
La divisione dei generi per spazi costituisce essa stessa una
forma di classificazione, cioè il "disporre in uno stesso
raggruppamento fenomeni caratterizzati da certi tratti comuni,
distinguendoli, nel contempo, da fenomeni appartenenti a
raggruppamenti diversi", e dando luogo a "rapporti di
inclusione/esclusione" e alla "istituzione/registrazione di
somiglianze e differenze" (Fabietti, Remotti 1997: 171). Si
raggruppano "cose" per separarle nel distinguerle.
Bourdieu ci mostra come creare classificazioni e gruppi non è
solo una presa d'atto dell'esistenza di differenze e regole
sociali. Qui egli sembra avere ben presente il concetto
foucaultiano di dislocazione, che designa l'atto di assegnare
determinati corpi a determinati spazi, come precisa modalità
di esercizio del potere e di controllo dei corpi. Modalità di
configurazione territoriale "definita dalle relazioni di
prossimità tra punti o elementi" (Foucault 1994: 127), la
dislocazione è al tempo stesso strumento panoptico mediante
il quale ogni potere persegue e pone in essere le sue strategie
di controllo delimitando e ripartendo, assegnando ogni
individuo ad una precisa casella, e potendo così agevolmente
eseguire un minuzioso controllo sociale (Foucault 1967)1.
Dall'applicazione del concetto di dislocazione ai generi maschile
e femminile derivano alcune significative conseguenze teoriche.
Secondo Bourdieu, la lettura analitica dello spazio non si può
limitare alla ricostruzione di una griglia schematica di significati
e opposizioni, dotata di una coerenza logica autonoma. Per
completarne il senso si ha bisogno di tener conto dei corpi che vi
si muovono dentro, destinatari dei messaggi iscritti negli spazi, e
allo stesso tempo agenti che, con le loro azioni, conferiscono allo
spazio un significato che è ad esso intimamente legato e che lo
eccede, in una relazione di reciprocità che si struttura in accordo
con le opposizioni cosmologiche mitico-rituali (Bourdieu 1977:
89). Vero é che i significati generati dai corpi in Bourdieu sono
leggibili soprattutto su di una serie di posizioni significative
cristallizzate, isolate l'una dall'altra, rese statiche dalla
discontinuità dei significati e dalla necessità di leggerle in una
sorta di fermo immagine. I corpi mancano qui di movimento.
Bourdieu stabilisce inoltre un'importante differenziazione interna
relativamente all'accesso agli spazi nell'ambito di una medesima
cultura, mostrando come le regole spaziali non siano uguali per
tutti gli individui, in quanto portatori di identità di genere, oltre
che di classe (Bourdieu 1995), e di conseguenza come gli spazi
stessi diventino, alla fine, diversi, in quanto diversamente
connotati e agiti. La consuetudine, la frequentazione dello spazio
che conferisce sicurezza ai corpi non è dunque necessariamente,
automaticamente data per tutti gli abitanti del luogo ad uno stesso
modo. Una parte di esso, sottratto alla legittimità e alla
consuetudine della frequentazione (un discorso valido più nel
caso delle donne che degli uomini), si configura come spazio non
appaesante, reso estraneo, luogo "proprio" di un potere, che può
ispirare sentimenti e stati del corpo traducenti ed esprimenti tutto
il senso dell'estraneità e del timore ad essa associato. Si tratta di
un modo di essere "fuori luogo", non però in un caos ignoto, ma
in uno spazio che in qualche modo si conosce, perché fa parte di
un sistema sociale di appartenenza, e che però in quanto
inappropriato a chi non vi è legittimamente assegnato, suggerisce
sottomissione o insicurezza, corporeamente espressi. Il corpus di
regole culturali non garantisce così istruzioni per l'uso atte ad
impadronirsi di ogni parte del luogo abitato, ma può,
nell'esercizio di un potere, trovare molteplici modi, su vari piani
tra i quali esiste una corrispondenza, di escludere le persone dagli
spazi, mediante un'operazione di classificazione che non è
completa se non comprende le posture e le pratiche permesse e
vietate al corpo, collegate quasi per corrispondenza naturale a
determinati luoghi e non ad altri, e che nella non corrispondenza
rivelano la non appartenenza.
L'insostenibile incoscienza del soggetto
Se Bourdieu ha elaborato una efficace teoria sulla dominazione
sociale -in questo caso di genere- che tiene conto degli spazi e dei
corpi, non l'ha tuttavia dotata di molte uscite. Uno dei problemi
insiti nel suo sistema teorico è che, trattandosi di
un'incorporazione inconscia di regole di dominazione, sembra
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non esserci via di uscita, di reazione da parte dei soggetti stessi2 .
E' stato rimproverato all'etnologo-sociologo francese di mancare
di un'adeguata teoria dell'agency (Farnell 2000), di trattare
l'inconscio come un "marmo immobile" (De Certeau 1980) privo
di creatività e capacità di resistenza, di usare l'habitus come
"cavallo di Troia per il determinismo" (Alexander 1995) oltre che
di non riuscire in tal modo a spiegare il mutamento delle strutture
sociali e degli habitus stessi. L'unico cambiamento sarebbe
possibile, da quanto si può evincere dai suoi lavori di teoria
sociale, o mediante un cambiamento delle strutture di potere
stesse, o con l'intervento del ricercatore sociale che porta allo
stato di coscienza strutture inconsce.
La possibilità di una iniziativa da parte del soggetto parte dallo
sganciamento da una dimensione di radicale inconsapevolezza,
dalla riconduzione ad uno stato, per quanto potenziale o parziale,
di coscienza. A tale proposito Giddens distingue due forme di
coscienza, una pratica e una discorsiva, assimilando la prima a
quella sorta di consapevolezza sensoriale cieca posseduta par
corps, la seconda ad una consapevolezza scaturita dall'attenzione
ai propri atti da parte dei soggetti, e tradotta in "monitoraggio
riflessivo della condotta". "Nella coscienza discorsiva l'agente
deve pensare ciò che sta facendo, e ciò presuppone la capacità di
descrivere coerentemente le proprie attività e le loro ragioni,
esprimere le cose con parole. (Giddens 1990: 45)
Bourdieu stesso nega la possibilità che le pratiche consistano di
meri atti meccanici (Bourdieu 1977: 73). Gli habitus sembrano
comportare una "invasione della coscienza" (Bourdieu 1988a: 47)
che prevede gradi differenti di strutturazione e di limitazione delle
sue capacità di esercizio, ma se questa coscienza ha la possibilità
di riflettere la via al cambiamento e all'iniziativa individuale
sembra essere aperta. "Bourdieu sostiene che per tutto il tempo in
cui gli agenti agiscono sulla base di una soggettività che è
l'interiorizzazione
dell'oggettività,
essi
rimangono
necessariamente "soggetti apparenti di azioni che hanno per
oggetto la struttura". Al contrario più prendono coscienza del
sociale che si trova dentro di loro, garantendosi un controllo
riflessivo sulle loro categorie di pensiero e di azione, meno
probabilità avranno di essere agiti dall'esteriorità che li abita"
(Wacquant 1992: 37).
Sistemi di classificazione e dinamiche di cambiamento
La corporeità in Bourdieu non deve niente al caso. In un mondo
dove ogni strutturazione spaziale e ogni oggetto sono
minuziosamente esaminati per il ruolo occupato nella struttura dei
rapporti di potere, ogni settore dello spazio reca una serie di
indicazioni coerenti con gli altri settori, e ogni atto del corpo è
sottoposto ad una scrupolosa motivazione. L'apparente effetto di
completezza è ottenuto attraverso una selezione attenta delle
pratiche coincidenti con la struttura di omologie del sistema
simbolico, o con una messa in evidenza degli aspetti
corrispondenti, svolta contemporaneamente ad una messa in
ombra di eventuali altri significati (De Certeau 1980). Così come
accade per lo spazio strutturato, quanto viene escluso dal sistema
rientra in una zona oscura che sembrerebbe appartenere alla sfera
della non-significazione, entrando però in contraddizione con una
logica sottesa ad un sistema di dominazione che non dovrebbe
lasciare nulla al caso. Si pone quindi il problema di reintrodurre
le azioni di resistenza e l'iniziativa del soggetto, oltre che le sue
narrazioni. Bourdieu infatti non fa parlare i corpi ma parla dei
corpi, apparendo come l'unico soggetto del discorso (Farnell
2000).
Sebbene Bourdieu cerchi inoltre di accordare la sua teoria con le
specifiche situazioni locali, considerando le invarianti strutturali e
inconsce della dominazione di genere come categorie
storicamente costituite, che prendono forma in modi diversi in
diverse formazioni storico-culturali, questo tuttavia non si rivela
sufficiente3, e la sua teoria continua, per diverse ragioni, a sottrarsi
al flusso storico e ai mutamenti culturali, nonostante abbia origine
da uno specifico contesto.
La teoria della dominazione di genere in Bourdieu si basa sugli
schemi strutturali elaborati in base agli studi etnografici sui
Kabyli.
Qui la dominazione di genere ruota intorno alle due concezioni di
onore maschile e femminile che prescrivono minuziosamente i
comportamenti appropriati. La concezione dell'onore maschile,
nif, corrispondente all'est, settore dello spazio legato alla luce, alla
religione ufficiale, al secco, alla destra, a tutto ciò che é diritto e
allo spazio aperto, comporta quali corollari la forza e la
relazionalità, e prevede una postura eretta, un passo sicuro e
deciso, il dover far fronte agli altri uomini con sguardo dritto. Le
posture del corpo rimandano ad una sicurezza nello spazio
esterno, ad una sua appropriazione che è anche sensoriale. Tutto,
nelle tecniche del corpo, suggerisce l'apertura allo spazio
mediante il movimento, persino il modo di prendere il cibo a
bocca aperta.
Nella donna il movimento, l'abbigliamento, la collocazione nello
spazio rimandano al basso, al curvo, al contenimento, alla
chiusura, regole di una "buona tenuta, inseparabilmente corporea
e morale" (Bourdieu 1980: 33) che la ricollegano allo spazio che
le è stato assegnato. Camminando per strada, spazio a lei estraneo
e carico di pericolosità, il suo sguardo, di cui le è interdetto l'uso
pubblico (1998a: 23) e il suo corpo devono essere costantemente
rivolti al suolo, il passo esitante, traduzione e inculcazione allo
stesso tempo di uno stato d'animo appropriato allo spazio che
attraversa. "In breve, la virtù specificamente femminile, lahia,
modestia, ritegno, riservatezza, orienta l'intero corpo femminile
verso il basso, la terra, l'interno, la casa, mentre l'eccellenza
maschile, nif, è affermata nei movimenti verso l'alto, l'esterno, gli
altri uomini" (Bourdieu, 1977: 94).
Ogni gesto femminile è metafora di una chiusura e contrattura
nello spazio, operata anche quando le donne accedono a spazi
aperti, e che si traduce in clausura dei movimenti: inibita apertura
del corpo, presa del cibo in punta di labbra. La donna, simbolo e
incarnazione visibile del principio dell'onore femminile, lo haram
(termine che indica tutto ciò che è sacro e proibito, e richiede
rispetto, ihtiram), è permanentemente rinchiusa, contenuta,
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limitata da una serie di confini visibili e simbolici. E' rinserrata
nel suo abbigliamento, che deve coprirla in modo da non rivelarne
i capelli o il corpo, dalla sua cintura, segno di virtù e castità
(Bourdieu 1998a: 21). Per Bourdieu le classificazioni simboliche
legate al femminile si trovano iscritte nel settore ovest, che
include lo spazio domestico, il buio e il tramonto, i principi legati
alle funzioni riproduttive, dell'umidità e del gonfiare, il lato
sinistro, negativamente connotato, e con esso tutto ciò che é
"storto", curvo, contorto, come la magia che si pone al posto della
religiosità ortodossa.
In virtù del principio di integrazione tra spazio corporeo, cosmico
e sociale il movimento della donna è centripeto, orientato verso la
casa, specchio della cosmologia intera ma spazio assegnato
principalmente alla donna - richiamando la sua funzione di
accumulazione dei beni, mentre quello maschile, centrifugo,
diretto verso i campi ed il mercato, ricorderebbe il compito di
produzione e circolazione dei beni. (Bourdieu 1980: 130)
Assume tale significato anche la ripartizione delle posture drittocurvo, che per Bourdieu viene utilizzata in molte società quale
segno e strumento visibile sul corpo di rapporti di potere, e che si
riproduce nella suddivisione dei lavori: nella raccolta delle olive
è l'uomo, dritto con un bastone in mano, che le fa cadere
dall'albero, mentre la donna le raccoglie da terra (Bourdieu 1980:
119). L'aperto, il dritto, l'alto, costituiscono piani simbolici
paralleli e corrispondenti che rimandano a un principio di
maggiore quantità e qualità, traducentesi, in termini spaziali, non
solo nell'ampiezza dello spazio, ma in una grandezza simbolica
oltre che effettiva, che trova corrispondenza nelle dimensioni del
corpo, prescriventi la grandezza per l'uomo, la piccolezza per la
donna. Nel gioco relazionale ed analogico delle opposizioni
simboliche, come il "davanti" è associato al maschile e allo spazio
esterno, all'andare verso est o verso la luce, il "dietro" corrisponde
al femminile ed agli spazi chiusi, interni, e per trasposizione a ciò
che è privato, intimo e segreto. Ma si tratta ancora una volta di
un'associazione asimmetrica, nella quale il valore maggiore viene
assegnato alla parte frontale del corpo.
Il modello cosmologico kabylo tracciato da Bourdieu, nel quale
sono iscritte le opposizioni di genere, viene utilizzato ai fini di
una comparazione puntuale con l'analogo modello di
differenziazione di genere occidentale, in base ai presupposti che
esso da una parte costituisca una via per l'oggettivazione del gioco
sociale di appartenenza del ricercatore, dall'altro che i due sistemi
simbolici siano strettamente apparentati, costituendo il modello
kabylo "una forma paradigmatica della visione fallonarcisistica e
della cosmologia androcentrica che sono comuni a tutte le società
mediterranee e che sopravvivono, ancora oggi, ma allo stato
parziale e come frammentato nelle nostre strutture cognitive e
sociali" (1998a: 12). Egli applica dunque molte delle opposizioni
simboliche rilevate in Kabylia, legate allo spazio e alla "topologia
corporea" dei corpi sessuati alle "società euro-americane", allo
scopo di cogliere i modi in cui la dominazione maschile vi si
perpetua. Ciò in base all'assunto che "seppure le condizioni
"ideali" che la società kabyla offre alle pulsioni dell'inconscio
androcentrico siano state in gran parte abolite e che il dominio
maschile abbia perso qualcosa della sua evidenza immediata,
alcuni dei meccanismi che fondano tale dominazione continuano
a funzionare, come la relazione di causalità circolare che si
stabilisce tra le strutture oggettive dello spazio sociale e le
disposizioni che esse producono tanto negli uomini quanto nelle
donne" (Bourdieu 1998a: 63)
Nel compiere questa operazione di ampliamento del paradigma
kabylo, Bourdieu modifica la sua concezione di memoria par
corps. Inizialmente, quando studia la società kabyla, egli ritiene
che la memoria corporea/incorporata risponda ad un'esigenza di
trasmissione del sapere propria delle società senza scrittura,
mentre in quelle letterate si assisterebbe ad una progressiva
"disincarnazione", un "disimpegno" del corpo (Bourdieu 1980:
124). In seguito però egli mostra, seppur non del tutto
dichiaratamente, di abbandonare tale concezione. Anche in
Occidente, in un contesto sociale "ormai socialmente ed
economicamente differenziato" (Bourdieu 1998a: 63) la logica
pratica delle strategie di potere troverebbe una sua convenienza a
strutturare, mediante una perpetuazione delle divisione
fondamentale in generi, un ordine sociale classificatorio e
asimmetrico degli spazi e dei corpi quanto delle destinazioni, dei
compiti e delle connotazioni ad essi attribuiti. In tal modo la
memoria sociale e corporea affermerebbe una sua permanenza al
di là della presenza o meno di scrittura, proprio in virtù della sua
clandestinità e della sua pervasività, configurandosi in senso
ampio quale memoria eidetica, che in parte coincide con le
mnemotecniche classiche di derivazione latina (cfr. Yates: 1972):
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le regole sociali sono dislocate in parti di spazio o di corpo, in
immagini corporee, posturali o cinetiche4 .
Così come anche negli spazi strutturati dell'Occidente la
condizione di dominazione della donna vedrebbe in modo
analogo il confinamento allo spazio domestico, effettivo o
simbolico, o relativo ai compiti svolti, qui l'analogia corporea si
traduce nella sua conseguenza logica, che è la limitazione del
movimento. Anche nelle donne occidentali, seppure secondo
modalità dissimili, essa mirerebbe a produrre, sia attraverso le
posture che l'abbigliamento una chiusura in un recinto invisibile
(Bourdieu 1998: 34-35).
Vi è tuttavia da chiedersi se sia del tutto lecito utilizzare il
paradigma simbolico kabylo, associato non solo ad un preciso
sistema di riferimento religioso e di regole sociali, a un modo
specifico di produzione, e a specifiche pratiche quotidiane, per
spiegare e chiarire un sistema di rapporti di genere, qual'è quello
occidentale, e la cui formazione storica e culturale scaturisce
spesso da origini differenti, estendendo peraltro tale rete di
somiglianze dal bacino mediterraneo all'intero ambito
occidentale5. Si rischia così di trasporre dei significati simbolici
e forme pratiche della dominazione da un ordine culturale
all'altro, riscontrando analogie tra due modi culturali di porle in
essere, e senza interrogarsi, ad ogni modo, sulla loro specificità
simbolica, e di conseguenza sul loro collegamento con le logiche
di produzione sociale e culturale più ampia in cui essi sono
inseriti. In tal modo, se l'operazione di rinvenimento di una serie
di somiglianze nei modi simbolici e pratici della dominazione
serve ad uscire dalla illusio pertinente alla società di appartenenza
del ricercatore, la mancanza di un approfondimento delle sue
peculiarità simboliche impedisce di cogliere logiche e modalità
più specifiche, ma anche manifestazioni discordanti. Così accade
d'altra parte nel caso dell'assimilazione degli spazi domestici
occidentale e kabylo (che in alcuni sociologi per estensione é
divenuto quello musulmano), che fa perdere di vista la differenza
di alcune pratiche effettuate in essi e legate a differenti
riferimenti, e che porta a ignorare i motivi sottesi ad una
differenza fondamentale, quale la destinazione della donna
occidentale ai compiti di relazione sia in ambito domestico che
successivamente lavorativo, rispetto all'analoga esclusione dai
compiti relazionali della donna in ambito islamico. In tal modo,
Bourdieu si assegna come compito primario non quello di
ricostruire una struttura di relazioni, ma di risalire alle opposizioni
simboliche fondamentali che fondano tale struttura, e il cui
significato alla fine, deprivato del suo contesto, rischia di passare
in secondo piano, senza compiere peraltro quell'operazione di
storicizzazione dell'inconscio che viene messa in campo. Al
rinvenimento di opposizione simboliche in un contesto
occidentale non fa riscontro un quadro simbolico di riferimento,
ma solo le sue ipotetiche conseguenze. Manca inoltre
quell'universo del discorso che nel sistema kabylo contribuisce a
spiegare, a legittimare e rafforzare la strutturazione sociale e
quella del sistema simbolico, manifestazione di un sapere che è
diffuso sia tramite le rappresentazioni scritte che il senso comune.
Bourdieu, dunque, non espone la sua teoria alla prova delle
situazioni storiche concrete e di un mutamento, che sia decretato
dall'alto o dal basso.
Un'altra questione da affrontare criticamente è quella della netta
dicotomizzazione dello spazio sessuato, di sapore strutturalista
ma anche richiamantesi a molte teorie di antropologia del
Mediterraneo. La teoria del legame tra genere, corpo e spazio si
riallaccia, in Bourdieu, a quella di una dicotomia tra gli spazi
pubblici e privati, e che a suo dire si estenderebbe a tutto
l'occidente, seppure in forme più articolate, con una
"domesticizzazione" di alcuni spazi pubblici e lavorativi. Tale
divisione corrisponderebbe all'assegnazione del principio
dell'onore femminile, lo haram, soprattutto allo spazio privato, e
quello dell'eccellenza maschile, che comporta il far fronte, al
mondo esterno, agli spazi pubblici, e consentirebbe di perpetuare
un sistema di potere. Tale concezione, che in fondo nemmeno in
Bourdieu appare così categorica (le donne kabyle in fondo
possono uscire nei campi, e quelle arabe hanno sempre potuto
andare allo hammam o ai mausolei) va rianalizzata alla lice dei
mutamenti culturali e delle lotte delle donne per la conquista degli
spazi pubblici. Tanto per fare un esempio, citerò la progressiva
conquista da parte delle donne tunisine del diritto di sedersi in un
caffè, o di andare al mercato, considerati prima dell'indipendenza
spazi radicalmente maschili, connotati di forte sessualità e del
tutto sconvenienti per le donne.
Vi é poi il problema di mettere in relazione gli habitus dei corpi
di genere con quelli dei corpi di classe, argomento affrontato da
Bourdieu in La distinction. Critique sociale du jugement (1972),
aprendo la prospettiva di un comportamento differenziato per
classe dei corpi sessuati, del potere dipendente dal loro
ammontare di capitale, e di un rapporto con gli spazi differente, e
rompendo (almeno per quanto riguarda l'Occidente) con la
concezione implicita di un'unica cultura, intesa come unico
sistema simbolico di riferimento che riunisce in sé valori opposti,
introducendo un insieme differenziato di sottoculture che trovano
il loro corrispettivo nei gusti di classe.
Va esaminata anche la questione della memoria individuale. Per il
sociologo francese il corpo socialmente e sessualmente informato
è anche, come abbiamo visto, luogo depositario di memoria fatta
corpo. Tale memoria rimanda però solamente alla incorporazione
di un sistema di potere sia individuale che collettiva, che assume
l'aspetto di una identità di genere (o di classe), più che a usi
propriamente detti del corpo rimandanti ad uno stretto, immediato
rapporto con lo spazio e con gli oggetti. Essa costituisce la
"traccia incorporata di una storia collettiva e di una storia
individuale che impone a tutti gli agenti, uomini o donne, il suo
sistema di presupposti imperativi" (1998a: 62). Poco si scorge
però di queste tracce storiche, mentre l'habitus sembra veicolare
solo la memoria di un presente, ripetizione che costantemente
riproduce se stessa di uno schema simbolico e cognitivo,
costituito da "un piccolo numero di principi praticamente
coerenti" e dalla "ridondanza infinita" (Bourdieu 1980: 125), che
dura fin tanto che dura una determinata struttura di rapporti.
Come un microcosmo sia simbolico che sociale, la cui geografia
costituisce un "caso particolare della geografia o meglio della
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cosmologia" (ivi: 132) il corpo esprime il campo6 di appartenenza
nei movimenti, nelle posture e nell'abbigliamento, e in definitiva
nell'hexis stessa, "nei muscoli e nella mente", costituendo
continue operazioni di identificazione di tipo mimetico ed
emotivo con esso.
Credo che sia importante, quando nella ricerca antropologica, e
non solo, si prendono ad oggetto privilegiato di analisi i corpi,
utilizzare un concetto di habitus di ampio respiro, che contempli
le strategie di potere, ma anche quelle abitudini che dichiarano
uno stretto legame tra determinati corpi e luoghi, un modo di
abitare il mondo che si traduce in un rapporto armonioso con lo
spazio circostante, con uno stare a suo agio della persona e del
corpo, che ha anche a che fare con memorie affettive tramandatesi
nel tempo. Mi ricollego in questo caso a Francesco Remotti e
Ernesto De Martino. Remotti collega il termine latino habitus
all'abitudine, l'atteggiamento, ma anche alla forma del corpo, e la
maniera di vestire. A questo circolo virtuoso di concetti Remotti
aggiunge il legame operato da Dewey tra habits e to in-habit, tra
le abitudini e l'abitare. Sono le abitudini che, consentendoci di
instaurare un rapporto non meccanico ma creativo con il mondo,
ci consentono di abitarlo. Per Remotti è la cultura, prima del
potere, a segnare i corpi.
Gli habitus di De Martino hanno a che vedere con una duplice
forma di memoria. Da una parte i gesti che facciamo ci rimandano
a generazioni passate. Dall'altra, lo spazio costituisce una forma
di memoria dei nostri stessi gesti compiuti, e un sapere
anticipatorio di quelli da compiere. Il mondo è un mondo abitato
da una pluralità di soggetti, di comunità, di microcosmi locali, ed
è questa coralità che si trasfonde attraverso la memoria di luoghi,
corpi, gesti e sensi. Nel corpo si stratifica una memoria di usi
sedimentatasi nel corso delle generazioni, e acquisita, incorporata
(parola mai banale, ma da intendersi nel suo pieno significato)
nell'abitudine al mondo che si traduce in un insieme composito di
infinite abitudini. Le quali legano a quel mondo, non ad altri,
permettendo di stabilire un'intima, rassicurante corrispondenza,
una familiarità con il mondo stesso e con le piccole o grandi
azioni che in esso si devono compiere, che riguardino l'indirizzo
da dare alla nostra esistenza o più semplicemente una serie di
semplici atti di uso del mondo.
A seconda delle differenti circostanze, si dovranno utilizzare uno
o più di questi concetti di habitus, non dimenticando,
naturalmente, di rilevare quelle tattiche di uso del corpo e dello
spazio che costituiscono atti di resistenza e mutamento,
spezzando e modificando le routine, quando il rapporto tra i corpi
e gli spazi, evidentemente, non é più armonioso. Saranno allora i
percorsi individuali, atti di resistenza iscritti nello spazio
mediante l'enunciazione di discorsi personali nello spazio, che
scompaginano la maglia di classificazioni e i tentativi di
dislocazione, a essere esaminati (De Certeau 1980). Così come
dovranno esserlo quelle operazioni di resistenza e mutamento che
partono dai corpi stessi. L'habitus, per quanto granitico o
rassicurante, non è immutabile.
NOTE
Essa vale anche da strumento di produzione, secondo logiche razionali di perseguimento del massimo risultato, con l'obiettivo "di
conoscere quali relazioni di prossimità, che tipo di stoccaggio, di circolazione, di approvvigionamento, di classificazione degli
elementi umani, deve essere considerato primariamente in questa o quella situazione per conseguire un certo fine" (Foucault 1994: 12).
2
Certo, Bourdieu ha in seguito avuto modo negli ultimi lavori di apportare chiarimenti o modifiche alla sua concezione teorica,
precisando che i soggetti possono prendere coscienza dei meccanismi che perpetuano la loro dominazione, e che tanto più ciò avviene,
tanto più diviene possibile il cambiamento sociale (cita rif). Ciò non toglie, tuttavia, che egli dia unicamente spazio ad un'analisi della
perpetuazione dei meccanismi di potere,
3
Tale affermazione viene postulata senza una ricaduta effettiva, e resta prevalente una visione strutturalista: "Étonnant constat en effet
que celui de l'extraordinaire autonomie des structures sexuelles par rapport aux structures économiques, des modes de reproduction
par rapport aux modes de production: le même système de schèmes classificatoires se retrouve, pour l'essentiel, par-delà des siècles et
le différences économiques et sociales, aux deux extrêmes de l'espace des possibilités anthropologiques, chez les paysans montagnards
de Kabylie et chez les grands bourgeois anglais de Bloomsbury". (Bourdieu 1988: 89)
4
Hall (1972: 88) suggeriva la presenza di caratteristiche iconiche nella prossemica.
5
Lo stesso bacino mediterraneo, che da Bourdieu viene considerato relativamente alle regole di differenziazione di genere,
apparentando paesi quali ", Italia, Spagna, Egitto, Turchia, Kabylia" (Bourdieu 1998: 12) comprende realtà differenti tra loro, o
differenze al loro interno. Se per alcuni di essi le vicende storiche testimoniano di una diffusione di un modello di ispirazione
musulmana di divisione dei generi e del concetto di onore femminile, per altri questo discorso rischia di cancellare altri apporti storici,
magari precedenti. Bourdieu ricusa tuttavia la validità del ricorso al corpus mitico e storico greco, quale quello operato da Vernant, che
presenterebbe a suo dire il rischio di "sincronizzare artificialmente stadi successivi, e differenti, del sistema, e soprattutto di conferire
lo stesso statuto epistemologico a dei testi che hanno sottomesso il vecchio sostrato mitico-rituale a rielaborazioni più o meno
profonde" (ibidem). L'approssimazione del paradigma mitico greco, cui però vengono aggiunti dati storici, non cancella però quella
del paradigma simbolico kabylo, i cui significati sono pensati per una stretta corrispondenza tra significati simbolici e strutture sociali,
spaziali, cognitive, incorporate, in virtù di una rielaborazione egualmente operata dal ricercatore.
6
Bourdieu intende come "campi" i microcosmi sociali che compongono una società, ognuno dotato di una logica e di regole proprie
ed autonome da quelle degli altri campi, ognuno con le sue poste in gioco per le quali gli agenti del campo sono oltre che in relazione
anche in lotta tra loro.
1
BIBLIOGRAFIA
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de trois études d'ethnologie kabyle, Librairie Droz, Suisse, 1972).
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Remotti F., (2000) Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari.
Yates F., 1972: L'arte della memoria, Einaudi, Torino.
30
La tradizione orale senegalese
Un viaggio tra le favole
di Antonio De Lauri
Si spendono grandi quantità di tempo e molto denaro
nel raccogliere frammenti di sculture in legno e in pietra,
resti di tessuti e schegge d'avorio, e nel misurare antiche costruzioni…
Tuttavia, quanto più vicine all'identità vera, al pensiero e alla vita sono le
parole degli uomini che le esprimono nella loro lingua.
Daniel Brinton1
INTRODUZIONE
C'è qualcosa nella memoria di ognuno, qualcosa che lo collega
all'infanzia, alla fantasia, a mondi ideali: i racconti, le favole, i
ricordi di un tempo passato che ritorna in alcuni miti, in alcune
figure o semplicemente in alcune parole.
In queste pagine approfondirò alcuni aspetti della tradizione orale,
l'importanza delle favole, del raccontare; affronterò un viaggio
magico alla scoperta delle fiabe senegalesi e dei mondi che
raffigurano. In questo viaggio mi accompagnano tre uomini
senegalesi (prima parte), immigrati in Italia, che con gentilezza
mi hanno svelato i loro ricordi, le loro paure e i loro sogni.
Nella seconda parte presenterò alcune favole senegalesi che
hanno particolarmente attirato la mia attenzione, mi soffermerò
inoltre sui rischi e i problemi legati alla traduzione, sul parlare
come pratica sociale e sui significati del racconto e della
narrazione.
Obiettivo di questo lavoro non è quello di spiegare in maniera
precisa l'enorme varietà e complessità della tradizione orale
senegalese, è piuttosto un piacevole soggiorno nei luoghi creati
dall'immaginario, un soggiorno nel regno degli animali, nelle
terre dalle sabbie gialle, un soggiorno che ha lo scopo di
evidenziare la bellezza e l'importanza delle favole, attraverso una
parte della tradizione fiabesca del Senegal dei wolof.
<<La scoperta del mondo senegalese è stata affascinante sia per la
sua cultura sia per il suo popolo. Si tratta di un mondo in
transizione fra "tradizione" e "modernità", pur mantenendo ben
vive certe radici2 >>. È emerso un panorama ricco e complesso,
una modalità d'espressione, le favole, in continuo movimento con
la necessità di ricostruirsi uno spazio in un contesto caratterizzato
da profonde trasformazioni. Per molto tempo l'Occidente ha letto
nelle pratiche culturali africane significati tenebrosi, e anche
quando una certa dignità è stata restituita ai vari aspetti delle
culture africane, queste sono state private di una storia, relegate ad
un'immobilità e ad una chiusura senza tempo, come segno di
un'anima "primitiva", come prodotto di una "tribalità" destinata
alla decadenza3. È in un'altra prospettiva, invece, che vogliamo
"ascoltare" le favole senegalesi ed è da un altro punto di vista che
vogliamo coglierne le specificità. La tradizione non può essere
vista come qualcosa di statico, al contrario vive un mutamento
31
continuo in un processo di incontro con culture diverse, in un
percorso di ri-definizione delle proprie peculiarità e dei propri
significati.
Nel parlare di favole non si può non tenere in considerazione
l'aspetto fondamentale di tale forma culturale: l'oralità. Spesso
l'oralità è stata vista come uno strumento "primitivo", come un
modo di comunicare proprio delle culture definite "selvagge", le
quali, prive di scrittura, affidano tutto il loro sapere alla tradizione
orale, incapace di conservarlo. Oggi questa immagine si può dire
superata, in una prospettiva di "rivalutazione dell'oralità" si
riconoscono la complessità e il valore delle tradizioni orali, basate
su determinate "pratiche di conservazione" e non solo, vi sono
anche i modi in cui la parola viene tramandata, che naturalmente
variano a seconda dei contesti e delle popolazioni. Il confronto tra
oralità e scrittura <<viene impostato per lo più come se fosse una
questione di tecniche differenti, opposte, da un lato la scrittura,
dall'altro l'oralità, laddove andrebbe sottolineato che sono
entrambe pratiche di comunicazione, in quanto tali inserite in un
contesto>> [Matera 2002: 62]. In quanto pratiche culturali, le
narrazioni orali mostrano una parte essenziale della propria
cultura, una parte che non si svela negli scritti o nelle descrizioni;
attraverso tali narrazioni gli individui riflettono e modificano
l'esperienza quotidiana della realtà. Bisogna quindi <<considerare
le narrazioni orali ben più di semplici antenati primitivi della
narrazione scritta>> [Tedlock 2002: 183]. I racconti, le favole, le
storie hanno un grande valore non solo in quanto espressione di
una certa tradizione, ma anche come prodotti e rappresentazioni
di una determinata cultura. <<Un racconto non è semplicemente
un genere letterario come gli altri, ma assomiglia molto di più a
una complessa performance in miniatura, e include aforismi,
declamazioni, dichiarazioni solenni, atti linguistici, preghiere ed
esortazioni, persino inserimenti di altre narrazioni>> [ivi: 29].
Queste pagine dedicate alle favole senegalesi vogliono essere un
inno all'oralità, alla fantasia e un incentivo per una pratica sempre
meno utilizzata, resa inerme dalle innovazioni tecnologiche e
dagli "eroi globali". C'è sempre meno tempo per ascoltare una
nonna che racconta una favola e sempre di più per guardare
cartoni animati giapponesi. Non si ha più voglia di inventare
storie perché è più comodo guardarle alla televisione, il regno
degli animali è stato ormai scalzato dalle basi dei Robot. Non
ritengo che la produzione fantastico-scientifica di oggi sia un
aspetto negativo all'interno di un contesto artistico-culturale,
quello che può destare preoccupazione però è immaginare un
futuro in cui favole e racconti siano uguali dappertutto. Per quanto
possa credere che ogni cultura negozi i propri significati e le
proprie forme di espressione in modo diverso, una certa
percentuale di rischio rimane se non si guida tale "produzione
dell'immaginario". Per mantenere vivi determinati aspetti della
culturalità di ogni società bisogna conservare uno sguardo critico
e attento ai processi di cambiamento: <<la portata del
cambiamento e delle sue implicazioni ci richiede nuove capacità
di conoscenza non per un esercizio accademico, ma per guidare la
nostra vita4>>.
PRIMA PARTE
In questo viaggio5 tra le favole senegalesi ho incontrato tre
persone che mi hanno aiutato notevolmente ad affrontare
l'incontro con una parte della tradizione wolof; ma prima di
proseguire è forse utile approfondire alcuni aspetti della società
senegalese per poter contestualizzare quanto viene detto.
<<Il Senegal è forse uno dei paesi in cui in maniera più evidente
si è sviluppata la forza delle confraternite: il mondo sufi
(devozionale) con le sue strutture "ecclesiali". L'Islam della
umma è molto meno evidente e quindi l'aspetto sociale e religioso
prevale su quello politico. Questo spiega la relativa tolleranza del
mondo islamico senegalese abituato a una lunga tradizione di
"unità nella diversità">> [Schmidt 1994: XI].
Il Senegal è composto, e lo era in passato, da varie e multiformi
popolazioni che fin dal dodicesimo secolo si sono dovute
confrontare con l'espansione islamica diffusasi con i mercanti
arabi e i nomadi berberi. Un aspetto importante della religione in
Senegal è relativo al muridismo, recente espressione del sufismo:
la muridiya è nata intorno agli anni ottanta del diciannovesimo
secolo ad opera dello serign (lingua wolof) Ahmadu Bamba
Mbacke. La particolarità sta nella visione del lavoro, da alcuni
studiosi definita "mistica del lavoro": <<tale situazione è legata al
tipo di predicazione proposta dal fondatore che, ritenendo
contemplazione e ascetismo non alla portata di chiunque,
introdusse il concetto di "lavoro" come "redenzione", come
"preghiera", incorporando così nella propria dottrina uno degli
elementi fondamentali della cultura tradizionale africana, appunto
il lavoro trasformato per l'adepto in prova di fede6>>.
In Senegal si parlano una ventina di lingue tra cui sei sono le più
importanti e utilizzate per l'alfabetizzazione: wolof 70,9% della
popolazione; pulaar, sereer, mandingo, joola, soninke sono le
altre lingue più parlate. La lingua ufficiale è il francese nonostante
sia una minoranza la parte di popolazione che lo conosce7. Di
seguito riporto sinteticamente i "frutti" degli incontri con queste
tre persone, non ho effettuato delle interviste strutturate, ho scelto
di fare delle interviste non direttive, delle interviste narrative,
poiché <<i racconti autobiografici sono un mezzo eccellente per
comprendere come le persone vedono la propria vita, le proprie
esperienze e le proprie interazioni con gli altri 8>>. Non esporrò i
32
racconti in modo lineare attraverso una griglia precisa, presenterò
piuttosto il flusso di parole e di significati così come l'ho
percepito per fornire un'immagine più libera da scansioni
"proposizionali" e schemi rigidi 9.
1.1 Papkhouma
Pap, come si fa chiamare, è nato a Dakar, vive in Italia da diversi
anni con la sua famiglia e lavora in una libreria di Milano, ha
pubblicato in Italia un libro "Io venditore di elefanti". Pap ha
cominciato il suo "racconto" dicendomi che in passato le storie
venivano raccontate in particolar modo dai griots 10 ritenuti i
custodi della tradizione orale: oggi i griots sono rari e il loro ruolo
è notevolmente cambiato.
<<…Il problema della scrittura…gli arabi hanno portato anche la
scrittura…la lingua più parlata è il wolof…il Senegal faceva parte
del Regno del Mali…esisteva la scrittura ma si è diffusa di più la
tradizione orale>>. Gli argomenti variano, si confondono, ma
piano piano entriamo in un'atmosfera di confidenza, interrotti
ogni tanto da suo figlio, Pap ricorda che quando era piccolo era
sua zia che raccontava le fiabe ai bambini. I nipoti portavano
anche gli amici, il momento del racconto era circondato da
un'atmosfera di gioia e suspance, le fiabe si raccontavano di sera,
dopo cena, con il buio e solo i bambini che durante il giorno si
erano comportati bene potevano stare lì ad ascoltare. Anche il
luogo del racconto era importante, chi raccontava si metteva su
una sedia e tutti i bambini si sedevano per terra, ascoltare una
favola era un premio e durante il racconto si poteva mangiare
qualcosa di buono. Inoltre i bambini non si limitavano ad
ascoltare, durante il racconto potevano intervenire, interrompere
con delle domande e scherzare, il narratore a volte coinvolgeva i
bambini chiedendo alcune cose, o dicendo qualche battuta o
facendoli cantare.
In questa prospettiva l'immagine che Tedlock ci offre di
narrazione come performance è ideale, il racconto non è un
semplice scambio di parole, è anche partecipazione, costruzione
di significati, interpretazione, prestazione, giudizio, emozione.
Oltre alla zia c'era anche un'altra donna che raccontava le fiabe,
era la mamma più giovane della via, ma nei suoi ricordi un posto
particolare è riservato alle favole della zia.
Gli animali venivano usati come metafore <<l'elefante è
saggio…la iena è cattiva… la lepre è furba e spesso è la
protagonista>>. Le fiabe erano raccontate da donne perché gli
uomini rappresentavano l'autorità, dunque non potevano mettersi
ad inventare delle storie e poi raccontarle ai bambini perché
altrimenti avrebbero perso credibilità.
Poi Pap mi ha descritto i sistemi di parentela dei wolof: <<i figli
di due fratelli sono fratelli, uguale per i figli di due sorelle… i figli
di un fratello e una sorella sono cugini… i fratelli non si possono
sposare, i cugini si… la famiglia si allarga oltre il legame di
sangue… un figlio chiama padre anche il fratello del padre…vale
anche per due sorelle, quella che qui è la zia viene chiamata
mamma… prima c'era un sistema matrilineare, tramite il fratello
della madre si passava l'eredità… il nipote di zii si chiama
giarbat…il nipote di nonni set… i miei genitori venivano dalla
campagna>>. Mi ha spiegato il legame tra nonno e nipote,
quest'ultimo ha un rapporto d'amicizia con il nonno, può anche
<<insultarlo>>, non deve avere un atteggiamento riverenziale nei
suoi confronti e nessuno può intromettersi tra di loro. Il nonno
non deve educare quindi può mantenere questo tipo di rapporto
informale e confidenziale con il nipote.
Pap ricorda che a scuola dovevano studiare fiabe francesi <<le
fiabe a casa erano un premio, a scuola un compito>>; quindi passa
a descrivermi lo svolgimento di un racconto.
<<Il narratore dice léébóón (c'era una fiaba), i bambini
rispondono lippón (una fa-fiaba); poi il narratore dice amoon nafi
(c'era una volta) e i bambini rispondono daan na am (espressione
ironica per dire: come c'è sempre stato)… il narratore comincia a
raccontare…i bambini cantano, prendono in giro il narratore...
quando finisce la fiaba il narratore dice fi la leb geche nao nao ba
danu gheg bachen bu ka ngk fon tabi agiana (e così finisce la
storia, il primo naso che l'annusa finirà in paradiso - non nel senso
di paradiso post mortem ma di luogo paradisiaco - …vola vola nel
mare)… i bambini annusano con il naso puntato verso l'alto e
urlano per dire chi è stato il più veloce…durante l'ultima frase i
bambini tengono il fiato, poi quando dice agiana si respira e si
torna alla realtà… prima di concludere il narratore può fare anche
degli scherzi, per esempio dice: il primo che annusa finirà… nella
stalla… i bambini ridono e si preparano nuovamente…>>.
Infine Pap mi ha parlato dei mondi paralleli, degli spiriti che
possono passare da un mondo all'altro; questi argomenti potevano
rientrare nei racconti e i bambini avevano tutti paura, qualcuno
decideva persino di andarsene.
1.2 Mbacke
Mbacke ha lasciato l'Africa nell'86, ha abitato in Francia e da
qualche anno vive in Italia, lavora per un giornale e ha pubblicato
una raccolta di favole "Numbelan" e "Lo spirito delle sabbie
gialle". Fin da piccolo è stato educato alla fede musulmana ma poi
è diventato animista e ci tiene molto ad esplicitare questa sua fede
nell'anima, che si trova ovunque, nelle persone, negli animali o
negli oggetti 11.
<<Molta importanza è data alla parola… la parola viene da ogni
cosa, anche dagli oggetti… bisogna parlare ai bambini altrimenti
altre cose possono parlargli e dirgli cose sbagliate>>.
Anche Mbacke conferma che le storie si raccontavano di sera, era
sua nonna che conosceva le favole e le raccontava a tutti i bambini
della zona, <<l'oralità è legata alla vita della comunità, che viene
prima dell'individuo…gli anziani hanno la capacità della parola,
sanno cioè raccontare nel giusto modo… i racconti sono sia storici
che fiabeschi… la fiaba è un aspetto importante dell'animismo…
animali, oggetti, uomini non sono divisi gerarchicamente… c'è
un'armonia dell'universo, auspicata anche nelle favole…>>.
Le persone anziane, dice Mbacke, hanno anche il compito di
tenere unito il gruppo sociale e i racconti in questo hanno la loro
parte, in un certo senso servono a riportare equilibrio,
costituiscono un esempio di buona condotta attraverso la morale
e possono segnare la fine di un litigio o di una disputa.
<<Il momento della favola è vissuto come un momento magico,
33
di felicità… la tradizione orale sta sparendo, schiacciata dalla
scrittura sulla base del modello occidentale… ci sono pochi
anziani oggi che raccontano le favole… l'evangelizzazione,
l'islamizzazione hanno influito molto nel venir meno della
tradizione orale nelle comunità>>.
Le favole che scrive Mbacke sono quelle che gli raccontava sua
nonna, egli riconosce il paradosso che vive personalmente nello
"scrivere l'oralità", ma lo vive come un contributo al
mantenimento di un certo tipo di favola, di determinati
personaggi, in altre parole di una specifica tradizione.
<<Nella tradizione animista non c'è una fine… si vive per portare
qualcosa all'umanità… dopo la vita terrena si diventa spirito,
sempre comunque al servizio della vita, in un campo però più
ristretto, per esempio: spirito delle piogge, delle sabbie etc... per
diventare spirito si affronta un percorso che per ognuno è diverso,
si può passare attraverso altre persone o animali… il carattere, le
capacità vengono trasmesse nella reincarnazione… un bambino
che prende il nome di un suo antenato eredita le sue sette migliori
caratteristiche>>.
Secondo Mbacke le favole locali hanno subito diverse
contaminazioni dalle altre culture: Cristianesimo e Islam hanno
segnato in maniera indelebile le pratiche culturali delle comunità
locali. Dalla città alla campagna le favole cambiano
notevolmente, <<in passato era tutto uguale, poi il racconto si è
adattato all'ambiente e si sono distinti i diversi tipi di favole…>>.
I processi di ibridazione, le contaminazioni tra diverse culture
sono da sempre presenti nella storia umana. Nell'incontro, che in
molti casi si rivela come scontro, tra culture si mettono in moto
meccanismi di ri-definizione di se stessi e delle proprie pratiche
sociali e culturali. Questo fenomeno è spiegato chiaramente da
Gruzinski con riferimento all'occidentalizzazione dell'America
pre-ispanica: <<essa animò processi più profondi e determinanti:
l'evoluzione della rappresentazione della persona e dei rapporti tra
gli esseri, la trasformazione dei codici figurativi e grafici, dei
mezzi d'espressione e di trasmissione del sapere, il cambiamento
della concezione del tempo e del modo di credere, e infine la
ridefinizione dell'immaginario e del reale all'interno dei quali gli
indios furono costretti a esprimersi e a sussistere, costretti o
affascinati12>>.
Le efficaci parole di Gruzinski mettono bene in luce ciò cui
Mbacke accennava, <<il rapporto con la natura per esempio è
cambiato in peggio con l'arrivo delle culture dominanti>>. Le
favole che scrive Mbacke sono legate alla tradizione animista,
<<anche gli animali hanno la loro organizzazione sociale…
Numbelan 13 è il regno degli animali di una volta… ci sono degli
episodi in cui ci sono degli scambi tra uomini e animali…>>.
Poi Mbacke torna ad esprimere il suo pessimismo sul futuro della
tradizione orale senegalese: <<intorno al racconto c'è un rituale
che oggi non può essere fatto…nella povertà se una cosa non è
indispensabile alla sopravvivenza viene buttata via… sono i
borghesi che mantengono la tradizione orale, la povertà ha reso
difficile la continuazione tra tutti… tra le persone povere vengono
raccontate sempre meno favole…>>.
La preoccupazione di Mbacke sembra tutt'altro che infondata,
torniamo quindi alla questione del mantenimento e della perdita
di tratti culturali significativi di una società e alla necessità di
guidare le trasformazioni del nostro tempo.
1.3 Mamadou
Mamadou vive in Italia da molti anni, è impiegato presso gli uffici
della Regione Lombardia e si occupa degli immigrati a Milano.
Mamadou non ricorda molto delle storie che gli raccontavano,
quando vuole dirle ai suoi figli infatti deve andare a rileggerle,
comunque quando gli presento il mio lavoro comincia a parlarmi
di urbanizzazione, dell'impatto della produzione letteraria etc. (mi
ha prestato anche dei libri). Le favole, dice, hanno diverse
funzioni <<hanno una morale… esprimono i cambiamenti
culturali della società… conservano i valori del gruppo…
rappresentano i miti… hanno una funzione storica: ricordare un
passato prosperoso…>>.
Secondo Mamadou le favole che raccontano nelle campagne
rimandano maggiormente alla cultura del passato, nelle città
invece sono più evidenti fenomeni come l'avvento della scrittura
o come quello delle "favole alla tv": <<oggi non ascoltano più le
favole di una volta… preferiscono guardare Harry Potter>>.
Tuttavia Mamadou non è pessimista, <<più che ricordare un
passato felice e gioioso bisogna guardare alla realtà e adeguare i
nostri modelli con i tempi che cambiano… come si possono
riprodurre le favole del passato?>>.
Nella prospettiva ottimista di Mamadou la nuova produzione di
miti e leggende non è negativa, è semplicemente segno dei tempi
che cambiano, inevitabilmente e senza pause.
SECONDA PARTE
2.1 Favole e traduzioni
In questa parte trascriverò alcune favole, in lingua wolof, in
francese e in italiano. Bisogna però tenere conto, sulla base di
quanto detto finora, che la scrittura non rende giustizia alle favole
che seguiranno, attraverso la scrittura non si possono trasmettere
gli aspetti essenziali e caratteristici che emergono solo nella fase
della narrazione. <<Il fatto che parlare sia parte di un insieme più
vasto di attività viene attualmente formulato grazie all'uso del
concetto di partecipazione. Si tratta di una nozione che sottolinea
il carattere intrinsecamente sociale, collettivo e distribuito di
ciascun atto linguistico: in quest'ottica parlare una lingua significa
essere in grado di far uso di suoni che ci consentano di partecipare
ad interazioni con altri, evocando un mondo che di solito è più
vasto di qualunque cosa possiamo vedere o toccare in un
momento dato. Il rapporto con questo mondo più vasto, sia esso
reale o immaginario, è in parte creato dalla possibilità di far cose
con le parole - cioè dal potere performativo di queste ultime - a
sua volta reso in parte possibile dalla possibilità che le parole
hanno di puntare qualcosa al di là di se stesse - cioè dalle loro
proprietà indessicali 14>>. Un racconto è ancora di più. La
gestualità, l'espressione del viso, lo sguardo, la posizione del
corpo, la distanza tra chi narra e chi ascolta, l'ambiente, sono tutti
elementi che giocano un ruolo importante nella narrazione,
elementi che le donano inoltre gran parte del suo fascino.La prima
fiaba che riporto è tratta dal libro di Mbacke 15 .
In questa sede non è possibile approfondire i contenuti delle
favole che presento, non è possibile misurarne la datazione e
l'originalità, la precedente fiaba è un ricordo di Mbacke dei
racconti di sua nonna, tuttavia egli ha rivisitato personalmente
alcuni aspetti: la citazione di La Fontaine16 non è un ricordo del
racconto originale ma un' aggiunta alla trascrizione da lui
realizzata.
La prossima favola è tratta dal sito www.insenegal.org che riporta
diverse favole tra cui quella che segue.
La tartaruga e il leopardo
"La ragione del più forte è sempre la migliore", diceva il poeta francese La Fontaine; questa teoria sembra condivisa dal popolo di
Numbelan, dove un giorno un temibile leopardo, dopo aver seminato zizzania per anni fra le prede, decise di confrontarsi con la
tartaruga. Quest'ultima è l'unica presenza, in una giungla effervescente e piena di sorprese, che brilla per la sua discrezione e la sua
pacifica natura. Un giorno come gli altri, un avvoltoio incrociò su un ramo alto di baobab un leopardo che sembrava annoiarsi a morte.
"Oh grande carnivoro delle pianure di Numbelan, perché stai appollaiato da giorni in cima a questo albero? Gli impala, le zebre, gli
gnu e compagni non ti gustano più?". "Proprio così, sono vecchio, ho dominato queste vaste distese per anni; la tua tribù ne è testimone,
avete sempre saziato il vostro terribile appetito con i resti delle mie vittime, nessuna carne mi è estranea, ora non so più chi e cosa
sfidare". "Hai mai mangiato la carne di tartaruga?". "Che cos'è la tartaruga?". "Non saprei dirtelo, so tramite un mio cugino, il marabù,
che ha la carne più tenera che la natura abbia mai riservato ad un abitante di Numbelan". "Vuoi dire che è uno di noi e non lo conosco?".
"Certo è difficile da trovare e altrettanto da combattere". "Tu l'hai mai mangiata questa tartaruga?". "…e come avrei potuto?…se tu
non l'hai mai cacciata, io non ho mai trovato i suoi resti". "Da oggi annuncio ufficialmente una sfida alla tartaruga, fate passare la
notizia". L'avvoltoio andò a raccontare personalmente la notizia a suo cugino, il marabù, uno dei più grandi predatori delle tartarughe.
Quest'ultimo che si trovava alle prese con una di loro, dopo un ennesimo vano tentativo di ingannare l'animale ritirato nel suo guscio,
le annunciò rassegnato: "Se non sarò io a mangiarti ci penserà il leopardo ad ucciderti". Sempre dentro il guscio la tartaruga ribadì:
"Che cos'è questa storia del leopardo che mi cerca?" "Ah! Lo sai già! Sarebbe allora meglio per te lasciarti mangiare da me; con lui la
tua morte sarà crudele e finirai nello stomaco dell'orribile avvoltoio". "A Numbelan nessuno ha bisogno di suicidarsi, la morte vive qui
34
come noi: oggi la provvidenza mi ha risparmiato il tuo becco assassino, domani chi lo può sapere?… E poi se i piedi sono destinati a
calpestare il suolo, prima o poi incroceranno il serpente". Fu così che la saggia tartaruga liquidò la questione. Lei che non aveva mai
fretta, ne aveva ancora meno di morire. Il leopardo e la tartaruga si incontrarono un giorno in un luogo della giungla dalla fitta
vegetazione. Dopo uno scambio di cortesie il leopardo riconobbe il nemico del suo momento. "Sei la tartaruga, bassa statura?". "Si,
temibile leopardo cosa vuoi?". "Niente di straordinario, è giunto il tuo momento di morire". "Che la sfida avvenga in un posto più
accessibile" suggerì allora la tartaruga. "Come vuoi tu", acconsentì il leopardo. I due si diressero verso un corso d'acqua dove la
vegetazione era meno fitta, e quando lo raggiunsero il leopardo chiese alla tartaruga quale fosse il suo ultimo desiderio. "Chiedo cinque
minuti per compiere un mio rito", rispose la vittima designata ad un destino più che certo, e si allontanò. La tartaruga cominciò a
scavare di qua e di là nel terreno, si rotolò sul suolo con balzi frenetici finché esaurite le forze, tornò davanti al suo sfidante e si dichiarò
pronta. Il leopardo, che sembrò turbato, chiese all'avversario: "Che hai fatto?…invece di risparmiare le tue forze, cosa ti sei affannata
a fare?". "Non c'è tempo per spiegartelo caro leopardo, passiamo pure all'atto finale". Il leopardo alzò una zampa e la tartaruga si spense
senza soffrire. Aveva accettato il suo destino senza troppe difficoltà dopo una vita vissuta nel miglior modo possibile. Per non passare
da essere insignificante ed incapace, forse la tartaruga aveva ritenuto giusto lasciare delle tracce riconoscibili di una sua resistenza
prima di soccombere al potente leopardo?
"Per forza" dice il saggio, "se apparire conta più di essere".
In questa sede non è possibile approfondire i contenuti delle
favole che presento, non è possibile misurarne la datazione e
l'originalità, la precedente fiaba è un ricordo di Mbacke dei
racconti di sua nonna, tuttavia egli ha rivisitato personalmente
alcuni aspetti: la citazione di La Fontaine16 non è un ricordo del
racconto originale ma un'aggiunta alla trascrizione da lui
realizzata.
La prossima favola è tratta dal sito www.insenegal.org che riporta
diverse favole tra cui quella che segue.
Tra cane e gatto
Il cane e il gatto si trovavano spesso al servizio dello stesso padrone e ciascuno pretendeva di essere il suo beniamino.
- Sono io il preferito - diceva il gatto - Prova ne è che il padrone ama prendermi sulle ginocchia, coccolarmi e accarezzare il mio
soffice pelo.
- No! - replicava il cane - Il padrone preferisce me, infatti quando va a caccia mi prende con sé e tu resti a casa.
- Appunto - rispondeva il gatto - Il padrone mi lascia a casa per il servizio insostituibile che gli rendo: senza di me i suoi granai
sarebbero preda dei topi.
- Sono io il più utile. Chi abbaia quando arriva un estraneo oppure un ladro? Chi snida la selvaggina quando andiamo a caccia?
- Sei ingenuo - ribadiva il gatto - Come può il padrone amare te che sbraiti per ogni passante giorno e notte, sei pieno di zecche e
sporchi dove capita?
- Insomma - insisteva il cane ormai spazientito - Tu credi che il padrone preferisca esseri ipocriti come te, che non fanno festa al suo
ritorno e che, se non sta in guardia, gli rubano i bocconi migliori sulla tavola o i pulcini in cortile?
La disputa durò a lungo, molto a lungo, ma nessuno dei due riuscì a convincere l'altro. Alla fine il cane drizzò le orecchie.
- Ho un'idea - disse - Oggi, dopo pranzo, andiamo insieme a stenderci sulla sedia del padrone, quando verrà per la siesta vedremo
finalmente quale dei due preferisce.
- Ottima idea - rispose il gatto.
Quando il padrone vide i due "signorini" comodamente allungati sulla sua sedia, afferrò una bacchetta e si avventò su di loro gridando:
- Via di qua, bestiacce! Tu cane rognoso e tu gatto pieno di pulci, che non vi veda più qui, banda di fannulloni!
I poveri diavoli si trovarono in giardino gemendo per i colpi ricevuti.
- Allora - miagolò il gatto con voce ironica - Chi di noi due è il preferito?
- Credo che sia tu - azzardò il cane.
- Eh, no! - ribatté il gatto - Penso proprio che sia tu.
E ricominciarono a litigare.
Da quel giorno il cane e il gatto non andarono più d'accordo.
È proprio vero che è impossibile far intendere ragione a chi non vuol capire…
35
Ora, possiamo solo immaginare l'atmosfera che si creava quando
si raccontava una favola, Pap ricorda con estremo piacere quei
momenti, così anche Mbacke e Mamadou. Le formule di apertura
e chiusura avevano un compito molto importante: con le frasi
iniziali il narratore creava l'ambiente, permetteva ai bambini di
immergersi in quel clima magico; con le formule finali poi <<i
bambini prendevano possesso della favola>> [Mbacke], si rideva
e si tornava alla realtà. La prossima favola17 è riportata in lingua
wolof, tradotta poi in francese e tradotta infine da me in italiano.
Trascriverò tutte le versioni, bisogna però tenere in
considerazione il fatto che la favola abbia subito una triplice
traduzione (dalla forma orale a quella scritta in wolof, la seconda
traduzione in francese e poi quella in italiano) con tutti i rischi che
ciò comporta. <<Il contenuto e la forma sono uniti da un nesso
inscindibile, e solo la comprensione di questo stretto rapporto può
far cogliere il punto centrale di ogni traduzione 18>>.
Cosaanu Ndombo
As soxna dafa amoon doom ju jigéén. Bi doom ji matee sëy mu maye ko. Yàllah def xale ba ëmb. Bi mu demee ba ci juróóm ñeenti
weeram, am bès, mu nekk ag yaayam; ba ñu añee ba sottal, yaay ji woo nag ñetti morooman. Mu daldi né moroom yi:
- Dama bëggoon ngeen àndal maag sama doom ji nekk ciw mat, yóbbu ko mu doxantu ndax yaramam wi nàyyi.
Moroom yi daldi ànd ak xale bi doxantuji ba ci tàkku dex ga, taxanaale fa. Bi ñu taxanee bay ñibbi, ñu ñów ba ci taatu dàqaar gi,
yenneeku fa, di naan ci dex gi. Mat wi daldi jàpp foofu xale bi, mënatula def dara. Mu tëdd ci ag taatu daqaar, ñi mu àndaloon né ko:
- Xaaral ñu dow ca dëkk ba woowi sa yay.
Bi àndandoo ya demee, xale bi des fa, moom donn ag jaljaleem. Jinné ji dëkkoom ci dàqaar gi daldi génn fekk ko ci taatu daqaar gi,
moom rekk. Mu dimmali ko ba mu wasin daldi ko jël moog liir ba, yóbbu ko ci biir garab gi (këram).
Bi àndandooy xale bi wootejee ba dellusi, gisatuñu kenn ci taatu garab gi ñu ko bàyyiwon! Bi ñu wutee ba tàyyi gisuñu kenn, ñu
yaakaar né rabu àll dafa lekk xale ba. Booba xale baa nga kër jinné ja.
Jinné ji ngénté na ko ba ba santale liir bi santam; xale bi toog na lu tollu ni ñetti weer kër jinné ji; bés bu ne jinné ji dina dem ca dëkk
ba seet lu xew kër yaayu xale bi, xamal ko ko. Ben bés mu ñów né xale bi:
- Yërëm naa sa yaay ndax bi ma la jëlee ba léégi, guddi ag bëccëg mu ngiy jooy. Dinaa la bàyyi nga ñibbi ngir moom.
Bi mu ko waajalee, wutal ko yéré ag wurus wu bare, daldi woo doomam yépp ñu teewe, mu né xale bi :
- Man, Maymuna laa Tudd, sant jóób. Duma sa yaay waaye mel na ni maa la jur ; ndax dëkk ci daqaar gi. Dinaa la booleeg suma doom
yii, ñu gungé la ba ca sa kër yaay.
Noonu mu jekki ba guddi daldi ko génné, dellu woo jinné yépp ñu teewe, mu dindi benn ndombo jox ko, wax ko xam-xam ndombo
gi, teg ca né :
- Joxuma la fas gi, yow ci sa bopp, sa doom laa ko jox. Su ko takkee dina yàgg ci àddina. Boo demee seen dëk na nga fexe dëkksi yaag
sa yaay ag sa jëkkër ci taatu dex gi. Dëkk bi ngeen nekkoon daañu toxusi, fekksi leen, boo defee li ma la wax, - sa doom - cosaanam
ag lu bokk ci giiram ñoo di moom dëkk bi.
Bi xale bi ñibbee, fexe ba toxu ca taatu dex gi, waa dëkk ba wàccsi ci taatu dex gi, fekksi leen.
Doomu xale bi nekk buuru dëkk bu bees bi, bi mu màgge.
Le Mythe de fondation de Ndombo
Une vieille femme avait une fille. Quand elle an eut l'âge, elle fut donnée en mariage. Allah fit que la fille fut enceinte.
Un jour après le repas, alors que fille en était à son neuvième mois, sa mère causant avec trois de ses amies leur dit :
- Je Voudrais que vous alliez avec ma fille enceinte pour une promenade qui lui dégourdirait les jambes.
Les amies emmenèrent la fille jusqu'au bord du fleuve. Elles profitèrent de l'occasion pour ramasser du bois.
Quand elles eurent fini elles boire au fleuve. A ce moment la fille ressentit les premières douleurs de l'accouchement. Elle ne pouvait
plus bouger, elle s'étendit à l'ombre d'un tamarinier. Ses compagnes lui dirent alors : << Attends ici, nous allons au village appeler ta
mére>>.
Quand elle se furent éloignées, la fille demeura seule avec ses maux. C'est alors que la Djinné qui habitait le tamarinier, en sortit et
trouva la fille ; elle l'aida, elle l'aida à accoucher, puis, elle emporta la fille avec le nouveau-né à l'intérieur de l'arbre, sa demeure.
Quand revinrent les trois amies, il n'y avait plus personne au pied de l'arbre où elles avaient laissé leur compagne.
Elles eurent beau chercher, elles ne trouvèrent personne et crurent que les bêtes de la brousse l'avaient dévorée.
Pendant ce temps la fille se trouvait chez la Djinné ; celle-ci vait baptisé le bébé et lui avait donné un nom.
36
La fille au village, voir ce qui se passait chez la mère de la fille, afin de l'en informer.
Un jour la Djinné en revint et dit à la fille :
- J'ai pitié de ta mère, car depuis je t'ai enlevée elle pleure nuit et jour. Je te laisse rentrer à cause d'elle.
Elle l'apprêta pour son retour et lui offrit or et vêtements en abondance. Ensuite elle convoqua ses enfants, en témoins, et parla ainsi
à la fille :
- Mon prénom est Maimouna, mon nom est Diop. Je ne suis pas ta mère. Mais c'est tout comme, car je suis la djinné protectrice de
ton village d'origine, Je suis reine des Djinns de ce tamarinier. Je te ferai accompagner par mes enfants jusqu'au logis de ta mère.
(Maiomouna Diop la Djinné fit sortir la fille à la tombée de la nuit).
Après quoi elle reconvoqua l'assemblée des génies. Devant eux, elle sortit une amulette qu'elle confia à la fille et dont elle lui révéla
le secret ; elle ajouta ceci :
- Ce n'est pas à toi que j'offre ce talisman, j'en fais cadeau à ton fils, s'il le porte sur lui, il vivra longtemps.
- Quand tu rentreras à ton village, que personne ne change jamais le nom que j'ai donné à ton enfant.
- Quand tu retourneras les tiens, tente de les convaincre de venir habiter, toi, ta mère et ton mari, au bord de ce fleuve.
- Les gens du village que vous quitterez déménageront et viendront vous retrouver.
- Si tu fais ainsi, ton fils et sa descendance seront toujours les maîtres du nouveau village.
Quand la fille rentra chez elle, elle réussit à venir s'installer au bord du fleuve. Les habitants de l'ancien village descendirent les y
retrouver.
Alors le fils de la jeune femme, quand il eut grandi, devint chef du nouveau village, (Ndombo).
Il mito della fondazione di Ndombo
Una vecchia donna aveva una figlia. Quando questa fu in età da marito fu data in sposa. Allah fece sì che la ragazza rimanesse in cinta.
Un giorno, dopo pranzo, quando la ragazza era al nono mese di gravidanza, la madre parlando con le amiche disse loro:
- vorrei che voi usciste con mia figlia per una passeggiata, per farle sgranchire le gambe.
Le amiche portarono la ragazza fino al bordo del fiume. Approfittando dell'occasione si misero a raccogliere della legna. Quando
ebbero finito, deposero i loro fagotti all'ombra dei tamarindi, per andare a bere al fiume. In quel momento la ragazza sentì i primi dolori
del parto. Non poteva muoversi e si stese all'ombra di un tamarindo. Le altre donne allora le dissero:
- aspetta qui, noi andiamo al villaggio a chiamare tua madre.
Quando si furono allontanate la ragazza restò sola con i suoi dolori, fu allora che la djinné 19 che abitava il tamarindo uscì e trovò la
ragazza; la aiutò a partorire, poi la portò, insieme al suo nuovo nato, all'interno dell'albero che era la sua dimora.
Quando le tre amiche tornarono non c'era più nessuno ai piedi dell'albero dove avevano lasciato la ragazza, cercarono più volte ma non
trovarono nessuno e credettero che le bestie della savana l'avessero divorata. Ma la ragazza si trovava dalla djinné; questa aveva
battezzato il neonato e gli aveva dato un nome. La ragazza restò dalla djinné circa tre mesi. Ogni giorno la djinné andava al villaggio
per vedere cosa succedeva dalla mamma della ragazza e per informarla. Un giorno la djinné ritornò e disse alla ragazza:
- provo tanta pena per tua mamma poiché da quando sei qui piange giorno e notte. Ti lascio tornare da lei.
La preparò per il ritorno e le offrì oro e vestiti in abbondanza, infine convocò i suoi bambini, in qualità di testimoni, e parlò così alla
ragazza:
- il mio nome è Maymuna, il mio cognome è Diop. Io non sono tua mamma ma è come se lo fossi poiché sono il djinné protettore del
tuo villaggio d'origine. Io sono la regina dei djinné di questo tamarindo, ti farò accompagnare dai miei bambini da tua mamma.
(Maymuna Diop fece uscire la ragazza al tramontare del sole).
Dopo di che convocò l'assemblea dei geni, davanti a loro tirò fuori un amuleto e disse:
- non è a te che offro questo talismano, ma a tuo figlio. Se lo porterà con sé vivrà a lungo. Quando rientrerai nel tuo villaggio che
nessuno cambi mai il nome che ho dato al tuo bambino. Quando sarai dai tuoi, la tua famiglia, convincili a trasferirsi ai bordi di questo
fiume. Le persone del villaggio si sposteranno e verranno con voi. Se tu farai così tuo figlio e i suoi discendenti saranno sempre i capi
del villaggio.
Quando la ragazza rientrò a casa sua convinse la sua famiglia ad installarsi sul bordo del fiume. Gli abitanti del villaggio li seguirono
a loro volta, allora il figlio della ragazza quando divenne grande, divenne capo del nuovo villaggio (Ndombo).
37
Se la traduzione è una strategia che, come dicevamo, non rende
giustizia al valore del racconto e a tutti quei meccanismi che si
mettono in atto nella fase della narrazione, rimane tuttavia uno
strumento necessario per rendere conoscibili certi aspetti delle
culture, o di alcune pratiche culturali, che si studiano. L'obiettivo
è cioè quello di <<ricondurre le esperienze culturali umane a un
orizzonte di senso […] in cui tali esperienze possano essere
comprese20 >>. Ciò non significa che i lavori di traduzione
debbano essere immuni da critiche o da analisi attente, anzi, è
necessario mantenere uno sguardo critico unito alla
consapevolezza che traducendo si sta "inventando" qualcosa di
diverso, una nuova storia nel nostro caso.
2.2 Parlare e raccontare
<<Le parole possono essere non solo simboli ma anche azioni>>
[Duranti 2000: 194]. Il linguaggio non ha solo il compito di
esprimere o rappresentare qualcosa, riveste anche un ruolo
pragmatico, non è solo un modo per nominare le cose, al
contrario, mediante il linguaggio le cose prendono vita ed
esistono
<<Le parole hanno con sé una miriade di possibilità per metterci
in rapporto con altri esseri umani, altre situazioni, eventi atti […]
la lingua è in grado di descrivere il mondo e al tempo stesso di
metterci in relazione con gli individui che lo abitano, gli oggetti,
i luoghi, i tempi che lo scandiscono>> [ivi: 51].
Ciò di cui parliamo qui è un tipo particolare di azione che, come
abbiamo visto, non è solo linguistica: il racconto, la narrazione,
<<una delle forme di discorso più diffuse e più potenti della
comunicazione umana21>>.
In una prospettiva che vede la narrazione come importante
strumento di coesione sociale, è implicito lo spostamento,
sull'asse delle priorità, dell'attenzione dalle strutture materiali a
quelle discorsive dell'azione umana. <<La narrazione ha una
specifica capacità di stabilire legami tra l'eccezionale e
l'ordinario22>>, in questo senso può essere intesa come uno
strumento in grado di rendere conoscibile il mondo e come un
sistema di mediazione tra la realtà e l'immaginario.
<<In ogni narrazione noi raccontiamo a noi stessi, prima di tutto,
e raccontiamo noi stessi; poi raccontiamo agli altri e raccontiamo
gli altri>> [Melucci 2000: 114]; ciò significa che con ogni storia,
con ogni racconto noi "ritualizziamo" la nostra esistenza, la
rendiamo esplicita e condivisibile.
<<Il racconto è una preziosa forma di conoscenza, un sistema di
costruzione del significato, che permette di capire cos'è unico per
alcuni e universale per altri, e di come sia l'unico che l'universale
facciano parte di un tutto dinamico e interattivo>> [Atkinson:
114]. In quest'ottica il racconto non può essere inteso come un
aspetto marginale della vita socio-culturale di un popolo,
tutt'altro, è un elemento essenziale per rapportarsi al mondo, in
altre parole <<si tratta di fare della narrazione non solo
un'esperienza privata, ma uno spazio pubblico dove la diversità
della parola possa essere contenuta e ascoltata>> [Melucci: 118].
Il mondo vive in noi, non il contrario, tu sei il mondo stesso…
38
sei sempre esistito come me e come tutto, magari in stati diversi,
ma sempre…
non c'è vita al di fuori del mondo, non esiste mondo al di fuori
della vita…23
Le società creano i loro miti e attraverso le storie, i racconti, le
favole, tracciano il loro tragitto verso mondi immaginari e
ripensano il loro passato cercando le risposte alle domande che da
sempre occupano i vuoti dell'uomo: da dove veniamo? Verso dove
stiamo andando? Chi siamo? Ogni società, quindi, crea il proprio
orizzonte simbolico in cui riflette se stessa, orizzonte che è
soggetto a continui cambiamenti di forma e significato. <<I miti
e le leggende popolari assolvono tradizionalmente quattro
funzioni classiche, finalizzate a sintonizzarci maggiormente con
noi stessi, gli altri, il mistero della vita e l'universo che ci
circonda>> (Atkinson: 16).
William Blake, I want! I want!
IO VORREI NON CONCLUDERE!
Vorrei non smettere mai di ascoltare favole, vorrei continuare a
sognare mondi meravigliosi, vorrei volare a Numbelan, vorrei
raccontare fiabe ai più piccoli e anche ai più grandi, vorrei che
Mbacke non temesse la fine di una tradizione, continuamente
vorrei vivere la magia delle favole.
<<Leggendo queste fiabe africane, la prima nostra curiosità va
non tanto al dibattuto problema della loro storia e origine quanto
al loro futuro 24 >>. C'è ancora spazio in questo mondo per le
favole? Abbiamo ancora bisogno di viaggiare con
l'immaginazione in luoghi incredibili, magari per parlare con
leoni e zebre? <<L'uomo che non ha fantasia non ha ali per
volare>> diceva Muhammad Ali, vorrei aggiungere che l'uomo
che non sogna di volare resterà incatenato alla fragile lotta per la
sopravvivenza, senza poter cogliere la meraviglia del desiderio,
della creatività, della diversità. Coltivare l'immaginario è dunque
l'esercizio che dobbiamo imporci di eseguire, coltivare
l'immaginario e raccontare, ascoltare, inventare, sognare e persino
volare.
Infine vorrei dedicare le ultime righe di questo mio "elogio alla
favola" al racconto di un re e di sua figlia, un favola come tante,
una favola che, come tutte le favole, ha qualcosa da insegnarci.
Prova d’amore
C'era una volta un re che aveva una figlia ammirata da tutti per la sua bellezza e bontà.
Molti venivano a offrirle gioielli, stoffe preziose, noci di kola, sperando d'averla come sposa. Ma la giovane non sapeva decidersi.
- A chi mi concederai? - Chiese a suo padre.
- Non so - disse il padre - Lascio scegliere a te: sono sicuro che tu, giudiziosa come sei, farai la scelta migliore.
- Facciamo così - propose la giovane - Tu fai sapere che sono stata morsa da un serpente velenoso e sono morta. I membri della famiglia
reale prenderanno il lutto. Suoneranno i tam-tam dei funerali e cominceranno le danze funebri. Vedremo cosa succederà.
Il re, sorpreso e un po' controvoglia, accettò.
La triste notizia si diffuse come un fulmine. Nei villaggi fu un gran parlare sottomesso, spari di fucile rintronavano in segno di dolore,
mentre le donne anziane, alla porta della stanza mortuaria, sgranavano le loro tristi melopee. Ed ecco arrivare anche i pretendenti della
principessa. Si presentarono al re e pretesero la restituzione dei beni donati.
- Giacché tua figlia è morta, rendimi i miei gioielli, le stoffe preziose, le noci di kola.
Il re accontentò tutti, nauseato da un simile comportamento. Capì allora quanto sua figlia fosse prudente.
Per ultimo si presentò un giovanotto, povero, come appariva dagli abiti dimessi che indossava.
Con le lacrime agli occhi egli disse:
- O re, ho sentito la dolorosa notizia e non so come rassegnarmi. Porto queste stoffe per colei che tanto amavo segretamente. Non mi
ritenevo degno di lei. Desidero che anche nella tomba lei sia sempre la più bella di tutte. Metti accanto a lei anche queste noci di kola
perché le diano forza nel grande viaggio.
Il re fu commosso fino al profondo del cuore. Si presentò alla folla, fece tacere ogni clamore e annunciò a gran voce:
- Vi do una grande notizia: mia figlia non è morta. Ha voluto mettere alla prova l'amore dei suoi pretendenti. Ora so chi ama davvero
e profondamente mia figlia. E' questo giovane! E' povero ma sincero.
Dopo qualche tempo si celebrarono le nozze con la più bella festa mai vista a memoria d'uomo.
I vecchi pretendenti non c'erano e non si fecero più vedere25.
NOTE
Tedlock, Verba manent, 2002, L'ancora, Napoli, p. 29.
Fasana, "Prefazione" in Schmidt, Islam, solidarietà e lavoro, 1994, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, p. IX.
3
Bargna, Arte africana, 2003, Jaka Book, Milano.
4
Melucci, Culture in gioco, 2000, Il Saggiatore, Milano, p. 23.
5
L'espressione viaggio è usata nel senso cliffordiano del termine come esplorazione, ricerca, incontro trasformatore... in Clifford,
Strade, 1999, Bollati Boringhieri, Torino.
6
Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, 2002, Einaudi, Torino, p. 255.
7
www.insenegal.org
8
Atkinson, L'intervista narrativa, 2002, Cortina, Milano.
9
Sull’argomento si veda Block, Linguaggio, antropologia e scienze cognitive, in Borowsky, L'antropologia culturale oggi, 2001,
Meltemi, Roma.
10
I Griots sono una sorta di poeti e musici ambulanti; la comunità li considerava dotati di particolari poteri.
11
Animismo: forma religiosa che considera tutte le cose governate da un'entità spirituale o anima, Nuova Enciclopedia Universale
Rizzoli Larousse (1994) . Il termine animismo, come prima forma di religiosità, fu introdotto da Tylor, Primitive culture, 1871.
12
Gruzinski, La colonizzazione dell'immaginario, 1994, Einaudi, Torino, p. 360.
13
Senghar, Abduliye e Sadji sono stati i primi a parlare di Numbelan
14
Duranti, Antropologia del linguaggio, 2000, Meltemi, Roma, p. 29.
15
Gadji, Numbelan, 1999, Dell'Arco, Milano.
16
La Fontaine, poeta francese (1621-1695). Nei dodici volumi delle Favole rinnovò la tradizione esopica rappresentando la commedia
umana; utilizzando animali simbolici ironizzò sulla vita della società dell'epoca.
17
Kesteloot, Mbodj, Contes et Mithes wolof, 1983, La Nouvelles Editions Africaines, Dakar.
18
Matera, Biscaldi, Introduzione all'edizione italiana in Tedlock, op.cit , p. 9.
19
Considerato una sorta di spirito.
20
Fabietti, Antropologia culturale, 2000, Laterza, Roma-Bari, p. 227.
21
Bruner, La mente a più dimensioni, 1993, Laterza, Roma-Bari, p.81.
1
2
39
Piasere, L’etnografo imperfetto, 2002, Laterza, Roma-Bari, p.170.
Lo spirito guardiano parla a Mor in una notte insonne, Gadji, Lo spirito delle sabbie gialle, 1999, Dell’Arco, Milano.
24
Calvino, Prefazione in Radin Fiabe africane, 1955, Einaudi, Torino, p. VII.
25
www.insenegal.org
22
23
BIBLIOGRAFIA
Atkinson, L'intervista narrativa, 2002, Cortina, Milano.
Bargna, Arte africana, 2003, Jaca Book, Milano.
Bloch, Linguaggio, antropologia e scienze cognitive, in Borowsky, L'antropologia culturale oggi, 2001, Meltemi, Roma.
Bruner, La mente a più dimensioni, 1993, Bollati Boringhieri, Torino.
Clifford, Strade, 1999, Bollati Boringhieri, Torino.
Diagne, Contes sérère du Sine, 1978, Nouvelles Editions Africaines, Dakar.
Duranti, Antropologia del linguaggio, 2000, Meltemi, Roma.
Fabietti, Antropologia culturale, 2000, Laterza, Roma-Bari.
Gadji, Lo spirito delle sabbie gialle, 1999, Dell'Arco, Milano.
Gadji, Numbelan, 1996, Dell'Arco, Milano.
Geertz, Interpretazione di culture, 1998, Il Mulino, Bologna.
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Matera, Etnografia della comunicazione, 2002, Carocci, Roma.
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Radin, Fiabe africane, 1955, Einaudi, Torino.
Schmidt, Islam, solidarietà e lavoro, 1994, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino.
Sow, Chroniques et récits du Fouta-Dialon, 1968, Kincksieck, Parigi.
Tedlock, Verba manent, 2002, L'ancora, Napoli.
Tylor, Primitive culture, 1871, UK.
Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, 2002, Einaudi, Torino.
Willemin, Le confraternite nell'Islam: il muridismo"
www.insenegal.org
40
Della guerra. Intervista a Ugo Fabietti
a cura di Lorenzo D'Angelo e Antonio De Lauri
Frederic Brown
La Sentinella
"Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa.
Un sole straniero dava una gelida luce azzurra, e la gravità, doppia di quella cui era abituato, faceva d'ogni movimento una agonia
di fatica.
Ma dopo decine di migliaia d'anni quest'angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell'aviazione, con le loro
astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria,
prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo schifoso pianeta di una stella mai sentita nominare
finché non ce lo avevano sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c'era arrivato anche il nemico. Il nemico, l'unica razza
intelligente della Galassia... crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.
Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di
pianeti; ed era stata la guerra, subito; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione
pacifica.
E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo, e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva
male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale.
Stava all'erta, il fucile pronto. lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se
ce l'avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che
tutti loro facevano, poi non si mosse più.
I l verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s'erano abituati, non ci facevano più caso;
ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d'un bianco nauseante, e senza
squame".
(Da Solmi-Fruttero, Le meraviglie del possibile, Torino, Einaudi, 1973)
I. Nel racconto di Brown emerge come ci sia una naturale
tendenza ad identificare il protagonista come umano e
l'avversario come alieno. Solo alla fine del racconto il lettore
scopre di essersi inconsapevolmente messo nei panni
dell'Altro. Si può affermare che ogni guerra presuppone una
"naturale" tendenza a de-umanizzare l'altro, a considerare
"scimmie di terra" o "uova di pidocchio" quanti vivono
appena al di là del fiume1? Qual è la sua opinione in
proposito?
F. Questo è sicuramente vero, in parte perché sappiamo che i
nemici sono tratteggiati con caratteristiche disumane e si
comportano attraverso una serie di atteggiamenti che
rovesciano i valori accettati della bontà, della solidarietà,
fraternità... Il nemico è sempre quello che rovescia i valori su
cui si fonda il gruppo sociale. Certo, ci sono anche delle
eccezioni. Alle volte il nemico, in contesti particolari, può
diventare colui che solidarizza con l'avversario. Ci sono dei
momenti di fraternità, di mutuo riconoscimento attraverso un
generico "siamo tutti sulla stessa barca" perché siamo tutti in
guerra, oppure a livello di classe. In un celebre romanzo di
Emilio Lussu, Un anno sull'altipiano, emerge proprio questa
problematicità dei due schieramenti dove, però, ci sono delle
differenze di classe e non si capisce perché i proletari italiani
debbano sparare contro i proletari austriaci nel corso della
prima guerra mondiale. In generale c'è - anche attraverso uno
studiato sistema di propaganda - un tentativo di far apparire il
nemico come colui che non crede, come colui che non rispetta,
come colui che sovverte. Ci sono diversi esempi in questo
senso, casi in cui avviene una stigmatizzazione di certi tratti
culturali tipici di una particolare popolazione: lo abbiamo visto
in Afghanistan, in Iraq etc.
I. In certi dibattiti uno degli assunti di fondo sembra essere
quello che la guerra sia una conseguenza naturale
dell'aggressività umana...
F. Penso di interpretare abbastanza il sentire comune della
maggioranza dei miei colleghi se dico che, per gli antropologi,
quando si comincia a parlare di cose innate, di risposte a
stimoli... si va su un terreno che ci piace poco. Allora tanto
varrebbe dire che l'uomo è figlio dei propri istinti e avremmo
risolto tutto; avremmo spiegato tutto. Lo scopo
dell'antropologia è sempre stato però quello di cercare di
contestualizzare i comportamenti, gli atteggiamenti e le
41
disposizioni intellettuali dell'umanità, e questo comporta uno
sforzo di distinzione cognitiva su oggetti specifici. Per cui non si
può andare alla ricerca di spiegazioni generali o totalizzanti del
tipo "la guerra c'è perché gli esseri umani sono aggressivi". E'
chiaro che tra il randello dell'australopiteco e la bomba atomica
c'è una bella differenza! La violenza, la guerra, l'aggressività
trovano in certi contesti una particolare possibilità di sviluppo o
di "applicazione". In altri, invece, vengono bloccate, tenute sotto
controllo. Quindi, parlare di odio per l'altro, per il nemico, come
qualcosa che è frutto di un nostro istinto non spiega niente.
Se parliamo di alterità, bisogna dire che questa la si crea sempre.
Se come esempio prendiamo lo stadio, succede che quelli della
curva sud pensano che quelli della curva nord siano gli "altri" e
viceversa; non è necessario che appartengano ad un'altra "cultura"
a un'altra "etnia". L' "altro" lo si ri-crea sempre ogni volta che lo
si vuole creare, magari non studiandolo a tavolino ma attraverso
una serie di disposizioni e di atteggiamenti che tendono, nel
momento in cui si vuole affermare una certa identità, a creare
esclusione e quindi alterità. In generale il problema dell'alterità
non può essere legato all'alterità culturale in senso stretto, a quella
cioè che incontra l'antropologo sbarcando sulle isole della
Polinesia. L'alterità è ovunque.
I. Ci sono circostanze in cui attraverso uno studio sistematico,
quasi scientifico, si cerca di dettare delle regole o dei criteri di
alterità. Casi del genere hanno reso particolarmente violenti
conflitti in passato e oggi...
F. Certo, perché, come dice Renan, se l'etnografia, o quella che
noi oggi definiamo antropologia, si mette al servizio della politica
per costruire l' "altro" come diverso, per poterlo, come diremmo
noi, dominarlo o controllarlo, renderlo "altro", allora sì che la
questione dell'alterità diventa un problema grave. I teorici della
"razza pura" si siedono a tavolino e stabiliscono criteri e giudizi
per classificare gli uomini. Al museo di antropologia e di
etnografia di Firenze, questo lo si dice poco per esempio, nel 1938
venne elaborata la teoria dell' "italiano puro" e quindi le basi
teoriche delle leggi razziali che sarebbero state promulgate lo
stesso anno contro gli ebrei, gli zingari etc. In questo caso
appunto, c'è un'alterità studiata a tavolino.
I. Quanto è cambiata l'idea di guerra dopo l'11 settembre? In
che misura è possibile (se lo è) parlare di "scontro tra culture"?
F. La percezione generale è che l'idea di guerra sia cambiata
davvero dopo l'11 settembre, forse anche già prima, ma noi
abbiamo sempre bisogno di date per scandire i nostri
cambiamenti, i nostri modi nuovi di rappresentare il mondo che ci
circonda. Sicuramente dopo quella data si è cominciato a parlare
di guerra all'America e di guerra al terrorismo, e visto che questi
diventano gli elementi dominanti della scena politica
internazionale, è chiaro che hanno polarizzato su di sé il
significato, la portata semantica, del termine guerra. In realtà le
guerre si continuano a fare anche con metodi convenzionali, con
gli eserciti schierati uno di fronte all'altro come è successo,
almeno prima dell'ultima tregua, tra Etiopia ed Eritrea. Oppure
quelle guerre endemiche, estenuanti che affliggono gran parte del
globo. L'idea di guerra è cambiata perché è avvenuto un po' come
per le culture, nel senso che non si pensano più le culture come
lontane le une dalle altre, ma si pensano ormai come una dentro
le altre. La guerra allo stesso modo viene pensata come qualcosa
che penetra, anche nella pace, nel quotidiano di una vita tranquilla
e pacifica. Quante volte ci viene ripetuto dai media "siamo in
guerra". É certo che se dovessimo adottare il criterio classico per
stabilire se siamo in guerra, diremmo che non è così. Di fatto
siamo in guerra perché ogni tanto compare un ministro o un uomo
politico, italiano e non, che ci dice che "ci sono minacce di
attentati", "che dobbiamo mandare i soldati di qui e di là", "che
bisogna controllare, fare operazioni di polizia": si genera un clima
di guerra. Certamente non siamo al razionamento del pane e della
carne, come nel ricordo di coloro che hanno vissuto altre guerre,
per cui l'idea di guerra era associata a povertà, bombardamenti. Il
nemico lo si riconosceva bene. Pensare alla guerra in termini di
"guerra al terrorismo" o "guerra all'America", ci rimanda ad altre
concezioni e altre immagini.
Non so quanto questo cambiamento dell'idea di guerra sia
connesso con quello che si definisce "scontro tra culture".
Sicuramente all'epoca della prima e della seconda guerra
mondiale non si parlava di scontro tra culture, semmai vi era uno
scontro di ideologie. Oggi al termine cultura si dà un significato
molto più pesante, antropologico direi. Non credo comunque che
la guerra del terrorismo contro l'occidente, e dell'occidente contro
il terrorismo sia oggettivamente una guerra tra culture. Direi che
viene caricata di questi significati da parte di quanti vedono
questo confronto, questa insorgenza del terrorismo, come
un'occasione, un modo, un quadro entro cui perseguire un certo
progetto politico; allora ecco che nella geopolitica dell'impero il
mondo può essere diviso in culture in conflitto (penso anche che
da parte dei terroristi vi sia una tendenza speculare). Qual'è il
messaggio che può passare attraverso questa idea di scontro tra
civiltà, tra culture, spesso ridotte a religione? Il messaggio è che
gli interessi dell'Occidente devono essere difesi a tutti i costi
contro questo nemico indefinibile, che non si capisce se si tratti di
un mondo emergente o un mondo che sta precipitando e cerca di
aggrapparsi a qualcosa, per non precipitare o per tirare giù con sé
anche l'Occidente. Sicuramente la Cina è l'aspetto emergente di
questa alterità. L'Africa, il mondo sub-sahariano sono l'aspetto
naufragante di questa alterità. Quindi l'idea di questo "scontro tra
culture" è non solo eticamente ed epistemologicamente scorretta
dal punto di vista antropologico, ma è anche politicamente molto
rischioso e azzardato un discorso di questo genere perché rischia
di produrre grosse opposizioni, anche laddove fino a questo
momento non ce ne sono state. Il problema quindi è capire in che
misura certe "costruzioni dell'alterità" siano funzionali a un
determinato disegno politico. In una prospettiva di questo genere
la differenza culturale diventa uno strumento per legittimare una
guerra.
I. Quale contributo è in grado di fornire l'antropologia nel
dibattito attuale sulla guerra?
F. Secondo me ci sono due piani su cui si può situare, oggi, il
42
contributo dell'antropologia al ripensamento o alla comprensione
del fenomeno "guerra". Uno è più strettamente tecnico, cioè i
classici strumenti dell'antropologia messi al servizio di una
comprensione di realtà particolari, specifiche. Il secondo è più
generale ed ha una rilevanza più etico-politica e culturale, perché
traduce in uno sguardo sulla situazione attuale, contemporanea,
quelli che sono i presupposti della disposizione antropologica alla
comprensione della diversità.
Nel primo caso, su un piano strettamente tecnico, è chiaro che se
utilizziamo il sapere antropologico per capire fenomeni attuali,
abbiamo maggiori possibilità di comprendere la specificità di tali
fenomeni. Prendiamo il caso dei cosiddetti kamikaze islamici:
ricordo che quando vennero fuori i primi casi di questo tipo
c'erano alcuni miei colleghi, non antropologi, che ritenevano
assolutamente irrazionale e incomprensibili questi gesti. Ma,
innanzitutto, abbiamo avuto anche noi numerosi esempi nella
storia, dal mondo classico fino ad oggi, di coloro che si
sacrificano per un ideale. Dobbiamo essere capaci di comprendere
il significato del "martirio" (non del suicidio), perché noi li
chiamiamo kamikaze ma in realtà non sono dei kamikaze. Il
kamikaze era il soldato giapponese (aviatore, in genere di alto
rango sociale) che si buttava con l'aereo contro le navi nemiche
durante la seconda guerra mondiale. Applicava un codice d'onore
che non era lo stesso di - tanto per fare un esempio di eroe
sacrificale - Pietro Micca. Nel caso di questi martiri islamici, le
cose sono ancora diverse: nei loro atti c'è una simbologia e un
orizzonte motivazionale che possono essere colti soltanto
attraverso una conoscenza di ciò che significa sacrificio, comunità
sacrificale, comunità-vittima che si sente oppressa e che trova
quindi un riscatto attraverso il sacrificio di un proprio membro il
quale nel suo gesto coinvolge il nemico che a questo punto
diventa lui stesso vittima sacrificale. Probabilmente, dico una
battuta, se studiassimo di più Robertson Smith e la sua teoria del
sacrificio, capiremmo meglio lo spirito che spinge certi individui,
sia uomini che donne, a morire per la propria comunità. Questo
fenomeno non può essere risolto quindi "liquidando" i "martiri"
musulmani considerandoli dei kamikaze. Attraverso una lettura di
tipo antropologico possiamo coglierne la complessità e la
specificità. Comprendere non significa giustificare, ma è chiaro
che, da parte di molti non c'è alcun desiderio di mettere in atto
un'analisi antropologica di tali fenomeni, poiché devono essere
considerati come semplici atti di barbarie, di sabotaggio, di
assassinio etc. In realtà si potrebbe quasi dire che c'è più
"umanità" nel martire musulmano che si uccide uccidendo il suo
"nemico", che siano soldati o civili - atto orrendo chiaramente che non nei missili sparati dagli aerei israeliani contro le case dei
palestinesi……. Gli innocenti muoiono anche in questi ultimi casi
ma, con un atto di deliberata violenza, che tiene l'aggressore al di
fuori del rischio dell'atto stesso che compie.
Possiamo allora esaminare certe forme di guerra attuali mediante
gli strumenti dell'antropologia, per uno sforzo di comprensione
che vada al di là delle immagini trasmesse alla televisione.
Su un piano più generale, l'antropologia può dare un contributo
per costruire un discorso di pace e ciò deriva più che altro dalla
vocazione fondamentale dell'antropologia, che è un sapere
fondato sul dialogo, l'incontro, la comprensione del punto di vista
dell'altro e il riconoscimento dei diritti dell'altro. Ciò non
corrisponde a quella sinistra deviazione del giudizio chiamata
impropriamente relativismo culturale poiché quest'ultimo non è
una dottrina ma è un modo di avvicinarci alle diverse situazioni.
Vuol dire che se vogliamo capire qualcosa dobbiamo cercare di
contestualizzare i fenomeni nella loro giusta portata. Ciò non
significa giustificare qualunque cosa, tutt'altro. In realtà
l'atteggiamento relativista spinto è proprio di coloro che non
sentono le ragioni degli altri, che pensano che gli altri siano
prigionieri della loro cultura e che quindi non ci sia
comunicabilità tra universi culturali distanti o differenti.
L'antropologia insegna che tale comunicabilità non solo è
possibile, ma anche auspicabile. Naturalmente le culture non sono
trasparenti le une alle altre, ma ciò non esclude che ci possa essere
una comunicazione finalizzata alla comprensione. Teorie come
quelle dello "scontro tra civiltà" tendono in qualche modo a
privilegiare gli elementi della differenza, della separazione e della
radicale opposizione, di solito per scopi che noi antropologi non
condividiamo.
NOTA
1
Geertz, C., Antropologia e filosofia, Il Mulino, Bologna, 2001.
43
Diplomazia di un terremoto
di Lara Palazzo
Il 26 dicembre 2003 la terra trema nell'Iran sud orientale. Un
terremoto, dell'entità di 6,7 gradi di magnitudo secondo la
scala Richter, sconvolge il sistema culturale e ambientale di
questa antica porzione di mondo.
Un'area sismica ad alto rischio dove però non vi sono, tutt'oggi
e nonostante i continui segnali di rischio, infrastrutture
adeguate per affrontare un evento calamitoso di tale entità.
Case fragili d'argilla e paglia. La cittadella antica, gloria di
Bam dichiarata patrimonio dell'umanità dall'UNESCO, rasa al
suolo come tutte le abitazioni della zona.
Innumerevoli i morti, migliaia i feriti, un esodo interminabile
a ridosso d'ogni mezzo di locomozione. La strada che conduce
da Bam verso i centri a nord (da Kerman a Isfahan, fino alla
capitale Tehran) rimane un unico immenso ingorgo, per
svariati giorni. Lo stesso vale per quella che va a sud, in
direzione Zahedan, nei pressi del confine con il Pakistan.
Scenario apocalittico: nel giro di pochi secondi millenni di
storia, cultura e tradizione svaniscono nella memoria.
Una tragedia che segna il territorio in maniera indelebile,
perdita umana e perdita di un'identità inscritta nello spazio.
Chi sopravvive ad una tragedia di tale portata deve imparare a
sopravvivere al ricordo di un'identità sospesa, la propria
famiglia, la propria casa, il sistema sociale in cui erano
radicate. Chi resta non si sente più fortunato di chi è rimasto
sotto le macerie, sentimenti di smarrimento, senso
d'impotenza e impossibilità di guardare al futuro, in un luogo
dove non è rimasto più nulla. Gli psicologi la definiscono
sindrome da disastro , la perdita fisica, economica, materiale,
funzionale, sia sul piano personale sia sociale, va a sommarsi
con la perdita delle persone care, più che un lutto, l'abisso.
Flussi migranti, trasportano culture che per millenni si sono
radicate e riconosciute in un territorio, in un'architettura, in
una rete di spazi delimitati dal significato che nel tempo si è
stratificato.
Se da sempre l'uomo ha dovuto misurarsi con la forza della
natura, capire il proprio limite e rielaborare il costrutto sociale
anche sulla base dei rimandi concreti che la natura stessa
fornisce, rimane difficile da giustificare l'attuale
diseguaglianza esistente tra le risorse in possesso dei diversi
Paesi. Una diseguaglianza che si traduce in termini di
sopravvivenza d'interi sistemi sociali e culturali.
I terremoti di quest'entità, infatti, sono molto frequenti in
diverse parti del pianeta, ma il gap economico e tecnologico,
esistente fra Paesi con risorse adeguate per far fronte a
calamità naturali e Paesi senza alcuna risorsa, fa sì che essere
terremotati in USA o in Giappone ed esserlo in Iran produca
effetti totalmente diversi. Retorica di un mondo globalizzato?
Forse sì ma 50.000 vite umane, stritolate nel vortice di un
evento che altrove sarebbe stato prevedibile nonché
controllabile, forse meritano una riflessione più approfondita.
Infatti, pur considerando la diversità culturale circa la
concezione della morte e partendo dall'idea che l'elevato
numero di vittime può avere una connotazione negativa per gli
occidentali che mal si coniuga con la concezione di morte
elaborata da altri sistemi culturali, intesa come percorso
continuo di un unico ciclo esistenziale, pare doveroso un
approfondimento circa la prevenzione.
Geograficamente, infatti, l'Iran è una zona ad alto rischio
sismico. La geologa Daniela Pandolfi spiega che: "Il sistema
è molto complesso. Ci sono due placche, quella arabica e
quella eurasiatica, che si stanno scontrando: in
corrispondenza dell'impatto è sorta la catena montuosa del
Caucaso. Ma questo scontro provoca in realtà anche un
secondo effetto: come un tubetto di dentifricio che viene
schiacciato nel centro, una parte dell'energia e della crosta
viene spinta ai lati della faglia. Un fenomeno chiamato delle
estrusioni tettoniche. La penisola anatolica tende quindi a
svicolare verso ovest, mentre l'Iran subisce una deformazione
interna arricciandosi. In generale le zone sono poco abitate,
ma verso sud, dove ricominciano le montagne, la densità
abitativa ricomincia a crescere. Il problema sono le
costruzioni: sia quelle moderne che quelle antiche sono
assolutamente fatiscenti, quindi questi terremoti finiscono per
essere sempre molto distruttivi. Esiste un centro di ricerca
internazionale di buon livello promosso dall'Unesco,
l'International Institute of Earthquake Engineering and
Seismology. Ma il problema è che se in paesi come la Turchia,
che ha problemi analoghi all'Iran - e che condivide con
quest'ultimo il motore alla base dei terremoti - gli americani
hanno spinto la ricerca ottenendo buoni risultati, qui gli
americani se ne sono andati dopo la chiusura dell'ambasciata
nel 1979. E non hanno più collaborato a progetti importanti,
come l'istituzione di una rete sismica seria".
Un evento non solo controllabile ma assolutamente
prevedibile, come spiegare, quindi, alle famiglie delle migliaia
di vittime che si poteva evitare una catastrofe di simile
portata?
Volendo tralasciare per un attimo approcci che facilmente
possono riversarsi in dietrologia, può essere interessante
sottolineare come si muove la macchina della diplomazia
internazionale, in situazioni d'emergenza.
In occasione del tragico evento il governo Bush ha deciso di
sospendere, temporaneamente (90 giorni) e con riserve
particolari, l'Iran dalla cerchia dei "cattivi" per elargire il
proprio aiuto.
Immagini sorridenti del Presidente che sciolinava il suo bel
discorso sulla bontà degli americani (come se ne fosse così
rappresentativo), hanno invaso i nostri schermi durante le
festività natalizie, un bel regalo per l'amministrazione Bush in
termini di ritorno d'immagine.
44
Del resto il Presidente Khatami ha ammorbidito i duri toni,
mantenuti con costanza sinora, nei confronti degli USA,
accettando il presente natalizio di Bush (come se potesse farne a
meno) pur giustificandosi con arzigogolati salti di parole circa lo
strano fatto secondo cui gli aiuti americani 'si' e quelli israeliani
'no'.
Il ministro degli interni Mussavi Lari (rappresentante religioso
con la carica di hojatoleslam, grado che nella gerarchia del clero
sciita precede quello di ayatollah discendente diretto dal profeta)
a tal proposito dichiara in un'intervista: "Quello di Israele non è
un governo legittimo, ma una forza d'occupazione illegale che si
è appropriata di un paese che non le appartiene. Non crediamo
che gli israeliani possano venire qui con obiettivi veramente
umanitari. Basta vedere quello che fanno tutti i giorni ai
palestinesi: come è pensabile che, chi distrugge case, uccide
impunemente donne e bambini innocenti, possa avere un reale
slancio di solidarietà? [……]. A differenza di quello israeliano,
quello statunitense è un governo legittimo. Noi non condividiamo
la politica estera aggressiva dell'amministrazione Bush, ma
riconosciamo al popolo americano la sensibilità umanitaria
dettata da una situazione così drammatica".
Quindi s'ipotizza che la sensibilità del popolo americano sia
superiore alla sensibilità del popolo israeliano al di là dei loro
rappresentanti politici?
Riflettendo sulle strumentalizzazioni dei dirigenti che
rappresentano i diversi Paesi, viene spontaneo chiedersi quanti
cittadini si riconoscono nelle decisioni dei propri rappresentanti
politici, eletti in maniera più o meno democratica. Perché la
diplomazia sarà necessaria per i politici ma i suoi tempi, in
situazioni d'emergenza, sono deleteri per i cittadini che pagano
con la vita i ritardi degli interventi internazionali e per i loro
sistemi sociali che si sgretolano.
Gli aiuti esterni, infatti, sono giunti solo a cinque giorni
dall'evento catastrofico. Quante vite si sarebbero potute
risparmiare se la Mezzaluna Rossa (consorella islamica della
Croce Rossa), non fosse stata lasciata sola per gli interminabili
primi cinque giorni, là dove sarebbe stato essenziale intervenire
tempestivamente e con tutti i mezzi adeguati alla situazione? Ma
ancora più importante cosa ne sarà nel futuro immediato e a lunga
durata di questa gente, in un Paese che pur possedendo il 9% delle
riserve mondiali di petrolio e il 15% del gas del pianeta, ha il tasso
di disoccupazione al 18%?
Secondo la giornalista e storica iraniana Farian Sabbahi il disastro
di Bam, unirà, per ora, la società iraniana "…Ma sotto le macerie,
cova la profonda, irrimandabile, crisi sociale. A due mesi dalle
elezioni legislative previste per venerdì 20 febbraio il terremoto
che ha colpito la regione sud orientale dell'Iran distoglie
l'attenzione dai problemi che affliggono la repubblica islamica.
Negli ultimi mesi, i turbanti hanno giocato bene le loro carte,
accogliendo a braccia aperte la diplomazia dell'Unione europea
e firmando il protocollo aggiuntivo del Trattato di non
proliferazione nucleare, accettando le ispezioni a sorpresa nei
loro arsenali atomici. E ora nell'emergenza terremoto, gli
ayatollah giocano ancora una volta la carta della diplomazia
aprendo le porte agli aiuti umanitari dell'Occidente".
Un ulteriore punto di vista che mette in luce la complessità della
gestione della diplomazia interna ed estera di un Paese che
ammicca ad una "apertura", ma che al contempo mantiene alcune
rigidità strutturali e politiche, dove la modernità si sviluppa su
canali direzionali spesso di difficile comprensione per il mondo
cosiddetto occidentale, forse anche per il suo grado di spessore e
complessità.
Sapranno queste diplomazie, superata l'emergenza, dare un
adeguato sostegno ai sopravvissuti all'evento, nel rispetto della
loro condizione psicologica, culturale e delle reali necessità che si
concretizzano in un luogo in cui pare non esserci più nulla, ma
dove rimane uno spazio identitario della memoria inscritta nel
territorio? E soprattutto che ruolo avranno quelle Nazioni che
elargiranno i loro generosi interventi umanitari per la
ricostruzione, sulla scacchiera dei delicati equilibri geopolitici del
Medio Oriente? Riecheggiando Gramsci forse si tratta
semplicemente di una questione di negoziazione dell'egemonia
culturale dei paesi coinvolti.
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Storie di città
di Domenico Copertino
Per amministrare una città bisogna innanzi tutto capirla.
Capire una città significa capire la gente che ci vive,
conoscerne le narrazioni e il mondo immaginario, ossia le
idee, le ideologie, le religioni, le concezioni dell'universo
sociale. Oggetti di studio propri dell'antropologia.
Puglia, come nel resto dell'Italia meridionale, sin da tempi
remoti e mitici; la loro presenza ad Altamura è testimoniata
durante le dominazioni sveva, angioina, aragonese e spagnola,
ossia dal XIII al XVI secolo.
Pare che la città sia nata per volere di Federico II, che fece
convenire sul luogo gente addetta ai lavori di costruzione della
Cattedrale, che sarebbe dunque l'edificio più antico della città.
Diverse erano le provenienze e origini di questi lavoratori; col
tempo attorno ad essi si sarebbero costituiti vari gruppi con
interessi comuni di vario genere, non ultimo la fede comune.
Esisteva un gruppo di Cristiani fedeli al papa ed uno di
Cristiani vicini all'Imperatore e decisi a sottrarsi al controllo
pontificio, un gruppo ebraico, un gruppo legato al rito grecoortodosso. Questi gruppi presero a vivere secondo il sistema,
diffuso nell'area del Mediterraneo, del vicinato; si andarono
così organizzando zone cittadine influenzate da un certo stile
di vita: la gente di fede cristiano-ortodossa prese a vivere nei
pressi della chiesa di San Nicola; gli Ebrei si riunirono in
alcune strade e, col passare del tempo, si stabilirono in una
"giudecca".
La microstoria di questa gente fa riflettere sui concetti di
identità e alterità. In una società come quella medievale, in cui
la vita quotidiana era influenzata in maniera preponderante
dall'onnipresenza del messaggio religioso, il principale fattore
identitario per i gruppi era proprio la particolarità della
religione.
Per quanto concerne la relazione identità/alterità tra la società
cristiana e il gruppo ebraico, la distinzione religiosa fu l'unica
possibile: in mancanza di elementi utili all'immediato
riconoscimento della differenza (quali il colore della pelle,
particolari tratti fisici, la lingua parlata, eccetera), si insistette
proprio sulla differenza del credo. Tale insistenza fu quanto
mai necessaria per la maggioranza cristiana nel mantenimento
dei suoi steccati identitari, in quanto le somiglianze tra le due
fedi erano tali da creare pericolose mescolanze: il pericolo era
rappresentato dalla possibilità di smarrire la percezione di sé
in rapporto all'Altro. L'indifferenziazione è pericolosa perché
l'ordine sociale si fonda proprio sulla differenza e sul ruolo
che ognuno ricopre in questo ordine.
Dalla distinzione di ordine spirituale derivavano alcune
differenze in certi aspetti della vita quotidiana, quali
l'alimentazione e, in misura minore, l'abbigliamento.
Si può affermare che tali elementi non sarebbero bastati da
soli a radicalizzare la percezione dell'alterità ebraica; se tale
radicalizzazione si verificò, questo fu dovuto essenzialmente
al particolare atteggiamento delle autorità (da Federico II a
Ferdinando il Cattolico) che, per fini di protezione o di
persecuzione, e comunque di controllo sociale, introdussero
legislazioni atte ad approfondire la distinzione dell'elemento
Tra i particolari dello stile di vita di un Paese mediorientale da
me recentemente visitato c'è la pacifica convivenza, nella città
più grande di questo Paese, di gente di fede diversa. In un
contesto in cui predominano sottocomunità di fede
musulmana, le sottocomunità di fede cristiana possono non
solo praticare in libertà il proprio culto, ma anche proiettare la
loro specificità religiosa nell'organizzazione dello spazio. Nel
grande quartiere di Bab Tuma, a Damasco, è possibile trovare
chiese, monasteri e conventi appartenenti a varie sette
cristiane a pochi metri di distanza da moschee e scuole
coraniche. Le minoranze cristiane, insomma, nella capitale
siriana non sono costrette a praticare la loro fede in sordina,
dentro garage o sottoscala. La domenica mattina gli abitanti di
Bab Tuma e delle zone limitrofe vengono svegliati dal suono
delle campane, mentre gli altri giorni a scandire i momenti
della giornata sono i moetsin, che invitano i musulmani alla
preghiera. Nella stessa area vivono anche diverse famiglie di
fede ebraica.
Le città italiane offrono diversi "racconti del territorio", storie
che permettono di capire come la vita della gente cambia nel
tempo. Recentemente mi sono interessato a una delle storie o,
meglio, "microstorie" raccontate dalle strade, dalle piazze, dai
documenti e in parte dagli attuali abitanti: la storia degli Ebrei
vissuti ad Altamura, in Puglia.
Due parole sul metodo. Dal momento che la microstoria da cui
vorrei partire si svolge nei secoli dal XIII al XVI, il contributo
degli attuali abitanti é stato naturalmente molto limitato.
Questa è senz'altro una pecca per chi si interessa di una
scienza del "qui ed ora" come l'antropologia. Sia
l'antropologia che la storia raccontano storie. Ma la peculiarità
dell'antropologia rispetto alla storia consiste nel non sapere
come queste vanno a finire, perché le storie dell'antropologia
finiscono nel futuro. È dunque legittimo dubitare della validità
ermeneutica di una ricerca antropologica che si occupi di cose
lontane nel passato. Probabilmente è più corretto dire che mi
sono occupato di una microstoria del passato applicando ad
essa categorie d'analisi proprie della riflessione antropologica
e, in parte, metodi propri dell'indagine etnografica.
Posso così sostenere di essermi occupato di "storia
antropologica", secondo una definizione di Marc Augè.
Gente influenzata nello stile di vita dalla fede ebraica visse in
46
ebraico dal resto della società, e dunque a facilitarne la
discriminazione.
Infatti, i rapporti quotidiani tra gente di fede diversa ad Altamura,
come si può desumere dai documenti che ho studiato, era fatta di
rapporti di amicizia, unioni matrimoniali, rapporti commerciali,
clientelari e di buon vicinato. A mantenere in vita il senso della
diversità furono per lo più provvedimenti quali l'obbligo per gli
Ebrei di indossare certi segni distintivi o la loro identificazione
come categoria sociale omogenea a cui affidare certe mansioni
lavorative e precluderne altre.
Così, se le misure discriminatorie di Federico II miravano alla
protezione dei sudditi di fede ebraica, cionondimeno esse
facilitarono la violenta azione di sovrani angioini antigiudaici;
similmente, molti sovrani aragonesi, pur dichiarandosi amici
degli Ebrei e proteggendoli contro le violenze antigiudaiche,
mantennero alto il senso della distinzione tra gruppi ebraici e altri
gruppi affidando ai sudditi di fede giudaica particolari compiti
quali il prestito a interesse e invitandoli ad abitare tutti insieme in
certi quartieri; i sovrani e viceré spagnoli, cattolici, non ebbero
difficoltà, nella prima metà del XVI secolo, a identificare, tra i
sudditi del Regno di Napoli, quelli di fede ebraica e ad espellerli
quasi tutti dai propri domini dopo aver tollerato le violenze
antigiudaiche in molte località. A partire dagli anni Dieci del
Cinquecento spariscono le tracce di Ebrei ad Altamura.
Le città, secondo Robert Mc Adams, non sono degli insiemi
isolati ma flussi complessi di persone, sistemi d'autorità, simboli
culturali, innovazioni. La ricerca antropologica contemporanea
che si svolge in ambito urbano ha come oggetto le forme sociali
presenti nelle cittá, ossia quelle forme dalla cui interazione risulta
lo svolgimento ordinato della vita cittadina: famiglie, matrimoni,
clan, associazioni, formazioni politiche, amministrazione
pubblica, gruppi religiosi e così via. Inoltre un oggetto
fondamentale dell'antropologia urbana è costituito dalle
percezioni culturali che danno sostanza a quelle forme sociali: si
studiano cioè i discorsi che le persone fanno a proposito della
propria organizzazione.
Alcune percezioni culturali relative al modo in cui gli individui
interagiscono, in altre parole alcune nozioni culturali dell'ordine
sociale, non danno necessariamente forma a classi o a gruppi
sociali organizzati, ma si manifestano nelle percezioni e nell'uso
che la gente fa dello spazio. Così diventano oggetti della ricerca
antropologica abitazioni, palazzi e quartieri.
Un insieme di strade, piazze e costruzioni può essere definito
quartiere in maniera diversa a seconda di chi parla. Non sempre
due persone diverse definiscono con lo stesso nome una zona
della città. Questo è particolarmente vero per le cittá
mediorientali. Una sera mi è toccato accompagnare per chilometri
un'amica, che mi aveva detto di abitare nel mio stesso quartiere,
Bab Tuma. In realtà abitava in una zona che avevo sentito definire
in altri modi.
Addirittura una strada può essere chiamata in modi diversi: a
Damasco è usuale che uno straniero chieda a un tassista di andare
in una strada il cui nome ha letto sulla mappa della città, ma che
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il tassista conosce con un altro nome. Come scrive Dale
Eickelman, nelle città mediorientali è possibile orientarsi in certe
zone solo se ci si è già stati.
Secondo George E. Marcus la ricerca antropologica
contemporanea va situata in un contesto "multilocale".
All'osservazione partecipante della vita dei nativi va sostituito un
"attivismo circostanziale". In altre parole l'antropologo deve
prendere parte man mano alle attività svolte dalle gente che
studia. In contesti complessi come le città contemporanee la gente
svolge solitamente diverse attività, e dunque un solo individuo,
lungi dall'essere interessante solo come elemento di un sistema
che lo sovradetermina, riveste un interesse multidimensionale,
come dire "multilocale" - dove per luogo si intende azione,
attività, elaborazione intellettuale. Un tassista può essere
interessante perché è un conoscitore dei luoghi di una città e
anche perché magari è un attivista politico e religioso e un attore
di una compagnia teatrale che si riferisce a una certa corrente
artistica.
Richard Sennet richiama l'attenzione degli studiosi dei contesti
urbani su questa particolare qualità dell'abitante della città, ossia
di poter essere diverse cose contemporaneamente. Uno nessuno e
centomila. Un compositore contemporaneo, Marco Castoldi,
definisce questa qualità il "sovrappensiero". Sovrappensiero si
possono fare tante cose contemporaneamente, raggiungere alti
livelli di concentrazione, assistere ad una spiegazione e alterarne
il contenuto. Un soggetto interessa a chi studia la città perché
partecipa a matrimoni e funerali di propri familiari, va alle
processioni o a un concerto, percorre certe strade mentre magari
pensa all'amore, alle proprie ossessioni, alle immagini e visioni
che ha in mente.
Un classico dell'antropologia della contemporaneità, "Non
luoghi" di Marc Augè, parla proprio di quei luoghi delle nostre
città che si percorrono sovrappensiero. Si tratta di luoghi urbani
come i centri commerciali, oppure delle strutture che permettono
gli spostamenti rapidi; di luoghi in cui si è fatto scomparire ogni
riferimento al contesto locale. Questo è stato sacrificato
all'esigenza economica ed estetica della funzionalità dell'eccesso.
Si tratta, infatti, di luoghi in cui si assiste a un eccesso di spazio,
dovuto essenzialmente - paradossalmente - al suo restringersi:
infatti gli aerei collegano in fretta i luoghi più lontani del pianeta;
inoltre in questi luoghi ci sembra di trovare la stessa familiarità
che proviamo nel guardare serial televisivi o film che ci mostrano
la vita quotidiana negli Stati Uniti o nelle metropoli indiane.
Anche le strade dei centri cittadini delle città occidentali tendono
all'uniformità: gli stessi negozi, gli stessi colori, le stesse offerte
promozionali, gli stessi messaggi culturali.
Al contempo, però, emerge l'esigenza di una caratterizzazione
identitaria del luogo: accade così che negli aeroporti
internazionali si installino cose come pub di stile scozzese o caffè
italiani. Anche questi sono non-luoghi: sono luoghi nati in
conseguenza dei processi postmoderni di dislocazione (di
messaggi, capitali, ecc.) e deterritorializzazione (di persone). Lo
scopo di questi non-luoghi con pretese fortemente identitarie è di
richiamare allo spirito sensazioni di localizzazione in contesti
fortemente delocalizzati.
E un altro tipo di non luoghi emerge dagli stessi processi di
dislocazione e deterritorializzazione: i campi profughi, collocati
spesso nelle vicinanze di o dentro altri non luoghi come porti o
aeroporti, come nel caso di Bari-Palese. Strutture nate da
un'esigenza di identificazione a priori, esigenza in base a cui la
differenza viene stigmatizzata prima ancora di essere conosciuta
e viene rinchiusa in ghetti fisici.
Pretendere di conoscere una cultura a priori, prima ancora di
interpellare gli individui che reclamano la propria appartenenza
ad essa, è un fenomeno che in antropologia si chiama
"essenzializzazione": in uno dei tratti anche più superficiali di una
cultura si pretende di vedere la sua essenza.
L'essenzializzazione produce ghetti fisici. In Italia un esempio
lampante di ghettizzazione derivata da essenzializzazione sono i
campi per i rom e i sinti. Leonardo Piasere sottolinea come queste
zone ghetto nascano dall'essenzializzazione del carattere
"nomade" dei Rom e Sinti: le autorità prestano fede a priori al
luogo comune che vuole questa gente "nomade", quindi incapace
o disinteressata a vivere stabilmente in una città o in una casa.
L'essenzializzazione non produce solo questi non-luoghi fisici:
produce anche quelli che - con Pier Paolo Pasolini - potremmo
definire "ghetti mentali". Secondo Pasolini i ghetti mentali della
società tollerante sono quei confini dell'immaginazione e del
pensiero entro cui forme di pensiero e di cultura divergenti dalla
media vengono inscritte e, appunto, tollerate. Una volta superati
quei confini, tali forme di pensiero vengono represse e la società
in cui ciò accade trova più difficile autodefinirsi "tollerante" e
democratica. Superare quei confini significa avanzare istanze che
possono risultare scomode e destabilizzanti per la società.
Un esempio di quanto facilmente una società "tollerante" possa
diventare intollerante è offerto dall'analisi dei mass-media nel
mondo occidentale proposta da Noam Chomsky: le voci più
disparate, nel panorama dei mezzi di informazione occidentali,
vengono democraticamente tollerate solo fintanto che non
cominciano a modificare il comportamento quotidiano della
gente; una volta superata questa soglia, esse vengono più o meno
delicatamente ostacolate, boicottate o represse in quanto
"massimaliste" e "sovversive".
Per tornare alla microstoria degli Ebrei in Italia meridionale e ad
Altamura, si è notato come la loro essenzializzazione come gente
con determinate caratteristiche sia stata un fenomeno
particolarmente carico di conseguenze nei periodi di crisi
economica e sociale dei Regni, quando le istanze avanzate da
persone che praticavano uno stile di vita influenzato dalla fede
ebraica potevano essere destabilizzanti. Il senso della diversità era
diffuso e latente in una società così eminentemente multiculturale
come quella altamurana da organizzare il proprio spazio urbano in
base alle diverse provenienze della gente: la sensazione di avere a
che fare con gente diversa emerse e si trasformò in azione violenta
in tali circostanze critiche.
È possibile senza spocchia proporre queste microstorie come
48
esempio da cui partire per pensare diversamente la società
contemporanea? L'ideale progressista del multiculturalismo è
destinato a fallire sia come strumento concettuale per interpretare
la realtà urbana contemporanea, sia come strumento d'azione su di
essa. La realtà non è fatta da compartimenti a tenuta stagna
separati l'uno dall'altro da linee di confine; le città non sono
costituite da comunità separate, chiuse nella loro identità (o
cultura o etnia). Ovunque, invece, ci sono frontiere. Si può
sostenere che la realtà contemporanea è una realtà di frontiera.
Le frontiere, secondo Michel Wiewiorka, sono i luoghi in cui
quotidianamente persone diverse - più che separarsi - si
incontrano per dar vita a emergenze inedite, forme nuove di
socialità, di arte, di spiritualità, di fisicità. Si tratta dei luoghi difficili da analizzare in quanto in continuo cambiamento - in cui
il fermento creativo propone in tempo reale narrazioni e istanze di
cui non si conosce la fine, ma di cui si può tentare di comprendere
l'evoluzione costante.
Tale compito, particolarmente stimolante nei contesti delle città
contemporanee,
spetta
all'antropologia.
Comprendere
l'evoluzione della vita urbana è il punto da cui deve partire chi è
addetto all'amministrazione delle città. Che lo si accetti o meno, il
sistema globale è penetrato nei contesti locali, in ognuno dei quali
sono reperibili tracce del sistema-mondo.
La modernità è andata in polvere: pensare di comprendere e
amministrare la realtà con criteri moderni è fuorviante.
Viviamo in una realtà postmoderna, uno dei cui aspetti è il
carattere diffuso di frontiera. Leonardo Menegola sostiene che
dire frontiera significa dire vita.
L'individuo postmoderno, che vive in questa realtà, è percorso al
suo interno dalle frontiere che sperimenta nel quotidiano. Il
carattere più comune del cittadino postmoderno non è
l'isolamento culturale, ma neppure l'egoistico cosmopolitismo o
l'ibridismo collezionistico. Il suo carattere più evidente è, secondo
Wiewiorka, il suo essere meticcio, ossia il suo essere espressione
di una realtà frontaliera fatta di fermento e trasformazione
costanti, in cui identità e appartenenze che si ritenevano stabilite
una volta per tutte convergono per dar vita a nuovi caratteri ed
espressioni culturali.
Se partiamo dal considerare la nostra società una realtà "meticcia"
diventa possibile analizzare in un modo inedito una delle
questioni che emerge con prepotenza nelle città globali: la
questione del riconoscimento identitario di una serie di
minoranze, prodotte all'interno dell'Occidente - principale
autore/attore della globalizzazione economica e culturale - oppure
attratte dall'esterno dei suoi confini.
"L'uscita dall'era industriale s'è rivelata onerosa, e, per molti,
brutale, depositando molti scarti lungo i bordi del proprio
percorso. […] La questione sociale ha cessato di essere la
questione dello sfruttamento nei rapporti di produzione per
diventare la questione dell'esclusione e della precarietà"
(Wieviorka 2002, 37).
Uno dei più significativi accordi internazionali in materia di
immigrazione, l'Accordo generale sulle tariffe doganali e il
commercio (GATT), intende favorire la mobilità sotto il controllo
di entità sovranazionali indipendenti dai governi come il WTO; in
altre parole, affida alcuni aspetti della regolamentazione del
lavoro transfrontaliero al settore privato. In particolare, vengono
privatizzati i settori più redditizi: come sottolinea Saskia Sassen,
infatti, questo accordo riguarda le sole componenti della politica
di immigrazione caratterizzate da: 1) un alto valore aggiunto cioè persone dotate di un alto livello di istruzione o di capitale; 2)
flessibilità - persone che hanno la possibilità di essere migranti
temporanei, che lavorano nei settori di punta dell'economia,
quindi immigranti visibili, identificabili e sottoposti a un controllo
effettivo; 3) profitto - grazie alla nuova concezione liberale degli
scambi e degli investimenti.
I governi statali, in questo modo, conservano solo la gestione
degli elementi "problematici" e "a basso valore aggiunto"
dell'immigrazione: poveri, lavoratori non specializzati a basso
costo, profughi, famiglie dipendenti, donne, bambini, gruppi
razzializzati, handicappati, popolazione a rischio, religioni
minoritarie e, tra i lavoratori specializzati, solo quelli suscettibili
di provocare tensioni di natura politica. Questa selezione tra chi si
sposta in cerca di lavoro ha una forte influenza sulle categorie dei
cosiddetti "immigrati" ed "extracomunitari".
Su simili categorie si possono applicare logiche di
inferiorizzazione, di dominio, di esclusione, di discriminazione e
segregazione utili a sfruttare una manodopera ridotta a forza
lavoro, oppure a sbarazzarsi di manodopera industriale divenuta
superflua.
In una società timorosa o diffidente dell'alterità conviene stabilire
quali siano i connotati dell'Altro: così il potere si sforza di
stigmatizzarne i tratti inconciliabili con la cultura e la civiltà della
maggioranza. La differenza culturale viene trasformata in
gerarchia e si crea la subalternità.
I più comuni tratti dell'Altro sono oggi quelli
dell'extracomunitario, tanto meglio se clandestino. Si stabilisce
un'equazione tra la clandestinità e la criminalità; il principale
capro espiatorio per i fatti delittuosi diviene l'immigrato. Nel
nostro Paese diventa così possibile emanare leggi lesive dei diritti
umani e civili elementari: in nome della "tolleranza zero" si
prendono le impronte digitali delle persone che chiedono il
permesso di soggiorno in Italia; si dà facoltà alla polizia e alla
marina militare di fermare, perquisire e dirottare navi "sospette"
nelle acque territoriali e limitrofe; si complicano le regole per
ottenere permessi di soggiorno. Si lede il principio di uguaglianza
dei cittadini nei confronti della legge, introducendo pene
differenziate per lo stesso reato a seconda che il colpevole sia
italiano o extracomunitario. Tramite i centri di permanenza
temporanea si introduce, solo per gli immigrati, la detenzione
amministrativa.
Contemporaneamente, tuttavia, la domanda di lavoro aumenta e
spesso resta insoddisfatta, per la pesantezza delle mansioni o la
modesta entità dei salari: così si ricorre a persone che giungono
dall'estero e che si accontentano di poco. La soluzione migliore è
quindi proprio il clandestino, che per la sua subalternità non può
reclamare diritti o scioperare. Lo straniero deve restare ospite
perpetuo: costante è la minaccia della revoca del permesso di
49
soggiorno.
La discriminazione e i plateali provvedimenti mirati a
inferiorizzare l'extracomunitario servono dunque a un duplice
scopo: da una parte si placa la paura della società maggoritaria,
dall'altra si soddisfa con la minor spesa e responsabilità la
domanda di lavoro.
Così l'Europa e l'Occidente chiudono le porte principali
all'immigrazione, lasciando aperte contemporaneamente quelle
secondarie, per le quali si entra affrontando rischi e umiliazioni.
Le minoranze aumentano e vengono ghettizzate socialmente e
culturalmente. Per queste la globalizzazione comporta il
delinearsi di due fenomeni complementari: da una parte
l'omogeneizzazione definita attraverso la generalizzazione del
consumo e della comunicazione di massa, dall'altra una
polverizzazione in cui tutti i particolarismi identitari si chiudono
in difesa e si rinsaldano.
Le diaspore si moltiplicano. Che sorgano da un impatto rilevante
quale un genocidio o un'espulsione violenta - come nel caso degli
Armeni, dei Palestinesi, dei Curdi - o da scelte volontarie, come
la decisione di emigrare in Paesi che offrono più possibilità, esse
creano nei luoghi ospiti minoranze culturali spesso facilmente
identificabili.
In certi casi, infatti, un impatto rilevante può avere un valore
fondante e fare della terra perduta un luogo mitico, un riferimento
ossessivo. Ciò conduce a rinnovare gli interrogativi relativi alla
propria identità e alla capacità di mantenerla nel nuovo contesto
di vita. I soggetti collettivi che si pongono tali interrogativi sono
immediatamente identificabili come gruppo etnico-culturale.
Nel caso dell'emigrazione voluta, poi, non è escluso che restino
legami forti con i luoghi d'origine. Così alcune diaspore, come
quella cinese, funzionano secondo il modo dell'"etnia-nazione":
esse si specializzano in attività che associano la loro visibilità
culturale a una determinata pratica economica, evolvendosi nella
modalità modo dell'"ethnic business" (Wieviorka 2002, 44).
D'altro canto, tutte queste alterità, oggi ancora più che in passato,
non rimangono più chiuse su di sé, impermeabili agli incroci
culturali. La grande sfida che gli Stati occidentali dovrebbero
assumere, secondo Wieviorka, è il riconoscimento politico e
amministrativo dei processi di mescolanza delle culture, nei quali
ciascuna di esse è passibile di alterazione, senza necessariamente
giungere all'assimilazione. Orientamenti politici anche tra i più
progressisti - senza considerare quelli che mirano direttamente
all'assimilazione o, al contrario, alla ghettizzazione della
differenza -, nel momento in cui intraprendono il cammino per il
riconoscimento culturale, politico e giuridico delle minoranze,
rinunciano a considerare la fondamentale dinamica della
trasformazione di una cultura in rapporto alle altre. I promotori di
questi orientamenti hanno bisogno di delimitare in partenza i
connotati della differenza irrigidendo così l'identità interessata. È
da questo atteggiamento "multiculturalista" che deriva, nel
migliore dei casi, l'offerta di trattamenti particolari e mezzi
preferenziali alle minoranze; nel peggiore dei casi la pratica
multiculturalista comporta schedature e discriminazioni
istituzionalizzate.
Per la mescolanza, il metissaggio, è difficile elevarsi al livello
politico e giuridico. Si tratta di un processo che mescola culture
dotate di storia, tradizioni, memoria; è un processo che parte dal
basso, che destabilizza le culture creandone di inedite, che
produce differenze senza limitarsi a ri-produrle. Si tratta di una
dinamica che non pietrifica le differenze: al contrario, essa invita
a rivolgere l'attenzione non tanto alle zone centrali dell'identità,
quanto invece alle frontiere, dove tutto si mescola e tutto si
trasforma.
La società che accoglie assume così un ruolo di grande rilevanza:
essa diventa il luogo privilegiato per la mescolanza culturale. Ma
la società non si limita ad essere un passivo teatro dei fenomeni di
trasformazione: essa si trova ricreata, rinnovata da queste
dinamiche.
Politiche che riconoscano il metissaggio devono essere
necessariamente flessibili e complesse. Esse devono considerare
le diverse identità non più come sfide o minacce: la riflessione
sulle differenze può e deve diventare un lavoro della società su se
stessa.
Raccontare storie e microstorie del territorio può essere utile,
certo, per edificare "luoghi della memoria" e monumenti a ciò che
non siamo più, o ad elaborare fantasiose radici e appartenenze
culturali, ma non è questo lo scopo di uno studio antropologico di
un contesto urbano. Una ricerca antropologica sottolinea la natura
parentetica della storia che racconta: aprendo e chiudendo
parentesi si inscrive nel contesto più ampio di una storia
regionale. L'utilizzo che si fa di questa storia parentetica può
sfuggire all'antropologo. Quello che qui voglio suggerire è di
utilizzare questo tipo di racconti (come quello degli Ebrei di
Altamura, o quello - recentemente narrato da Paolo Cottino - della
vita degli stranieri clandestini nelle baraccopoli, nei campi rom e
nei mercati "etnici" di Milano, o ancora quello, tutto da scrivere,
degli abitanti di via Padova a Milano) come esempio delle
conseguenze che possono verificarsi qualora le categorie di
identità e alterità vengano considerate con eccessiva rigidità;
voglio suggerire di prendere queste storie come punti di partenza
per concepire e progettare diversamente le città in cui viviamo.
PER APPROFONDIMENTI
MICHEL WIEVIORKA, La differenza culturale. Una prospettiva sociologica, Roma-Bari, Laterza, 2002 (Balland, 2001);
SASKIA SASSEN, Città globali, UTET, Torino, 2002 (Princeton University Press, 1991);
ULF HANNERZ, Flussi, confini e ibridi, in Aut Aut n. 312, novembre-dicembre 2002;
DAVIDE ZOLETTO, Gli equivoci del multiculturalismo, in Aut Aut n. 312, novembre-dicembre 2002;
DALE F. EICKELMAN, The Middle East and Central Asia, Pearson Education, Upper Saddle River, New Jersey, 2002;
RICHARD SENNET, Le città nell'era della flessibilità, in Le monde diplomatique, febbraio 2001;
RICHARD SENNET, L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano, Feltrinelli, 2002 (Norton
& Co. 1999);
SASKIA SASSEN, Ma perchè emigrano?, in Le monde diplomatique, novembre 2000;
GEORGE E. MARCUS, Ethnography in/of the world system: the emergence of multi-sited ethnography, in Annual Review of
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MARC AUGÈ, Non luoghi, Milano, Elèuthera, 1993 (Seuil, 1992);
EUROPEAN ROMA RIGHTS CENTER, Il paese dei campi. La segregazione razziale dei Rom in Italia, Roma, Carta, 2000;
PIER PAOLO PASOLINI, Lettere luterane,
NOAM CHOMSKY, Capire il potere, Milano, Marco Troppa Editore, 2002;
ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001 (University of Minnesota Press, 1996);
PAOLO COTTINO, La città imprevista, Milano, Elèuthera, 2003.
50
Chiapas
Riflessione sulla situazione degli indigeni e sullo sfruttamento delle risorse
di Antonio De Lauri
C'era una volta un pappagallo che sapeva dire solamente "vittoria".
Ebbene, cari lettori, i giorni passavano e in uno di questi capitò che il
nostro povero pappagallo se ne stava tutto distratto sul suo trespolo;
uno sparviero gli mise addosso gli occhi e se lo portò via con sé nei
cieli del Signore. Il poveretto, vedendosi perduto in balia dei suoi artigli,
cominciò a lamentarsi, ma riusciva a pronunciare soltanto l'unica parola
che conosceva a memoria. A ogni morso che gli dava lo sparviero, il pappagallo
gridava:"vittoria"; gliene dava un altro e lui: "vittoria"!
Gli strappava una zampa e lui:"vittoria"; e così pezzo dopo pezzo, gridando
sempre"vittoria"!
Josè Joaquin Fernandez de Lizardi
La vittoria del pappagallo,
in "El Pensador Mexicano",
11 Ottobre 1823
INTRODUZIONE
della popolazione; sono presenti tuttavia minoranze di fede
protestante, in crescita negli ultimi anni.
Nonostante la ricchezza naturale molte persone sono
disoccupate e vivono in condizioni di povertà, ciò è dovuto
anche al modello di sviluppo economico che si caratterizza, a
livello generale, per una spiccata tendenza all'esportazione, ed
un utilizzo della forza lavoro con salari molto bassi. Vi è
inoltre un eccessivo utilizzo di mezzi per la lavorazione della
terra, i quali provocano una decomposizione del terreno: molti
contadini sono costretti ad emigrare dalla campagna alla città.
Durante gli anni '70 si registrò una crescita economica nel
paese, con uno sviluppo massiccio dell'attività petroliera ed
energetica, mentre negli anni '80 si svilupparono
particolarmente i settori primario e terziario. La popolazione,
tuttavia, non ebbe nessun miglioramento della qualità di vita.
Tutt'oggi nelle classi rurali i problemi si fanno sempre più
gravi; la popolazione indigena è la più colpita dalla miseria e
dall'isolamento socio-economico1 .
Circa il 26% della forza lavoro è impiegato nell'agricoltura;
molte persone lavorano negli ejidos che sono le cooperative di
peones, fondate nel 1905 dopo la grande riforma agraria
messicana. Agli inizi degli anni '90 il governo ha abolito un
gran numero di ejidos per poter privatizzare le terre: tale
provvedimento espropriò milioni di contadini provocando un
enorme disagio socio-economico. Questo momento della
storia del Chiapas è alla radice delle rivendicazioni sociali
dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN).
L'agricoltura rimane un settore piuttosto arretrato, trascurata a
favore del settore industriale e svantaggiata dalla siccità: i
Una popolazione che da anni vive il dramma di politiche che
ignorano il rispetto dei fondamentali diritti umani, una terra
ricca di risorse ma sfruttata in modo tale da rendere sempre
più poveri coloro che la lavorano e sempre più ricchi gli
sfruttatori: così possiamo descrivere il Chiapas. Naturalmente
non si limita a ciò la complessità delle vicende che si
verificano nello Stato chiapaneco: la questione indigena, gli
accordi internazionali tra Messico e USA e ora anche tra
Messico ed Europa, lo sfruttamento delle risorse, la situazione
ambientale così come quella politica meritano un
approfondimento attento per essere comprese in maniera
corretta. In queste pagine svilupperò alcune riflessioni su
aspetti economici e politici, sui rischi ambientali e sulle
violazioni subite dalla popolazione indigena.
Il 1821 è l'anno della dichiarazione d'indipendenza messicana,
nel 1824 il Chiapas si costituisce stato autonomo.
Il Chiapas è uno stato dell'area sud-orientale del Messico, ha
una popolazione di circa 3.654.000 abitanti divisi in numerosi
gruppi etnici. Possiamo distinguere al suo interno nove
regioni: Centro, Altos, Costa, Soconusco, Fronteriza,
Frailesca, Sierra, Selva e Norte. Queste regioni comprendono
111 municipi, in 58 di questi più del 30% della popolazione
parla una lingua indigena. La lingua ufficiale è lo spagnolo,
ma sono altresì diffusi gli idiomi amerindi come il il nahua del
ceppo azteco e il maya, praticati rispettivamente nel nord del
paese il primo e nel sud il secondo.
La religione più diffusa è il cattolicesimo, praticato dall'89,7%
51
prodotti agricoli non riescono a coprire il fabbisogno nazionale
nonostante siano stati attuati programmi di valorizzazione del
suolo e progetti di irrigazione. A seconda delle zone vi sono
prodotti più diffusi, in generale le colture principali sono quelle
del grano, frumento, riso, orzo, fagioli, caffè patate, cotone, canna
da zucchero; la frutticoltura è un settore ampio ed importante2.
Il 23% circa del territorio è coperto da foreste; a causa
dell'eccessivo sfruttamento del governo precedente, l'attuale
governo ha emesso severi provvedimenti per regolamentare il
settore.
Tra le maggiori ricchezze del paese vi sono le risorse minerarie:
argento, ferro, rame, piombo e zinco, antimonio, grafite,
manganese, zolfo e tungsteno. Anche le risorse di gas naturale e
petrolio, la cui produzione è regolata dall'agenzia statale Petròles
Mexicanos, sono ingenti; da solo il Chiapas produce il 47% di gas
e il 28% di petrolio nazionali. Produce inoltre il 55% dell'energia
elettrica nazionale, grazie allo sfruttamento delle centrali
idroelettriche. Nonostante questa ricchezza del territorio, il
prodotto interno lordo pro capite, negli ultimi dieci anni, è
diminuito del 6.2% all'anno; il 60 % dei bambini in età scolare
non ha accesso diretto alla scuola; la durata media della vita della
donna è vicino ai 45 anni e c'è un'elevata mortalità infantile,
soprattutto nelle piccole comunità della selva 3 .
Nel Gennaio del 1994 un gruppo di nativi appartenenti
all'EZLN insorse contro le autorità locali nei pressi di San
Cristobal de las Casas, da lì conquistarono quattro città nella
zona meridionale del Chiapas. I leader del movimento
chiedevano l'attuazione di numerose riforme che riguardavano
i diritti di proprietà e l'autonomia delle comunità indigene, con
la concessione di terre da coltivare. Da allora si sono alternati
momenti di dialogo e di rottura tra EZLN e governo:
l'insurrezione contadina era guidata dal sub-comandante
Marcos, che si è fatto conoscere in tutto il mondo diffondendo
i suoi programmi rivoluzionari e i suoi messaggi attraverso
internet. Nel 1995 si intensificò la lotta tra zapatisti e governo
che inviò nel Chiapas l'esercito federale con lo scopo di
sconfiggere definitivamente l'esercito zapatista; l'impresa riuscì
solo in parte, i federali infatti ripresero il controllo di alcune
piccole città spostando le basi dei guerriglieri verso le foreste, ma
non riuscirono a catturare i capi del movimento che continuavano
la loro lotta al governo4 .
Nel 1996 venne siglato il primo di sei accordi di pace redatto a
tutela della cultura autoctona, conferendo maggior peso politico
alla popolazione indigena. Oggi la situazione resta precaria, parte
della popolazione indigena continua a rivendicare i suoi diritti e
vive sulla propria pelle la battaglia con l'esercito e i paramilitari,
ma vi è una parte meno "famosa", lontana dal vortice dell'Esercito
zapatista, che vive un isolamento che la costringe alla miseria.
infrastrutture nato per favorire le grandi imprese. Il PPP è stato
concepito sotto l'attuale amministrazione Fox, ma le radici si
trovano già nei piani della Banca Mondiale e della Inter-American
Development Bank (IDB). Ad aprire la strada alla volontà delle
multinazionali sono stati il NAFTA e il FTAA, il primo è un
accordo commerciale tra Messico, Canada e USA del 1994; gli
Stati Uniti stanno cercando di estendere il NAFTA a tutta
l'america in un accordo commerciale noto, appunto, come FTAA.
Quest'ultimo ha una rilevanza geopolitica di maggiore portata per
gli USA, creerebbe infatti un blocco dallo Yukon alla Patagonia,
sotto l'egemonia statunitense, in opposizione ai blocchi europeo
ed asiatico. <<Gli accordi commerciali (NAFTA e FTAA) sono
prerequisiti necessari per creare quel "clima adatto agli
investimenti" che le multinazionali stanno cercando. Il PPP fa un
passo in più, incanalando miliardi di fondi statali nello sviluppo
delle infrastrutture di cui si ha bisogno per interessare
ulteriormente le multinazionali5 >>. Ufficialmente il collegamento
tra sud-est del Messico e America Centrale avrebbe lo scopo di
combattere la povertà di questa area messicana; il presidente Fox,
sotto la pressione della Banca Mondiale e dell'IDB, intende
affrontare il problema della povertà creando posti di lavoro e
facendo "sviluppare" la zona. Il PPP può essere inteso come
San Antonio
un'articolazione regionale del più generale accordo ALCA, ossia
Asociacion de Libre Commercio de las Americas, il quale punta a
creare entro il 2005 un'area di libero scambio dall'Alaska alla
Patagonia. Il PPP si articola in otto parti che scandiscono in linea
generale il suo progetto, tali parti sono costituite da: 1) sviluppo
sostenibile; 2) sviluppo umano; 3) prevenzione e minimizzazione
dei disastri naturali; 4) promozione del turismo; 5) facilitazione
del commercio; 6) integrazione della rete stradale; 7)
allacciamenti energetici; 8) integrazione dei servizi di
telecomunicazione. I concetti di sviluppo sostenibile e umano
meriterebbero di essere approfonditi, in questa sede però mi
limiterò a dire che fino ad ora i programmi del governo e gli
accordi internazionali si sono concentrati sugli ultimi cinque punti
lasciando i primi tre in secondo piano. Il turismo è un aspetto che
suscita l'interesse del PPP, con la conseguente privatizzazione
delle rovine archeologiche e la nascita di alberghi e parchi.
Aspetti politico-economici e ambientali
La situazione politico-economica del Chiapas può essere
compresa meglio tenendo presente la serie di accordi neoliberisti
degli ultimi anni. Prendiamo in considerazione, ad esempio, il
Plan Puebla Panama (PPP), un esteso progetto di costruzione di
52
L'attuale amministrazione chiapaneca sta portando avanti diversi
progetti per la costruzione di strade e di linee ferroviarie, alcune
zone che solo qualche anno fa erano verdi ed incontaminate ora
sono squarciate da linee di cemento. Un esempio interessante, che
ho potuto constatare personalmente, è quello della strada che
collega Ocotepec a Coapilla nel nord del Chiapas; questi due
centri sono collegati da una sola strada che per qualche chilometro
attraversa le verdi terre della zona. Per anni quella strada è rimasta
in terra e sassi, macchine e camion passavano tranquillamente, ma
tre anni fa iniziarono i lavori per asfaltare la strada e da allora,
ogni volta che piove, la gente è costretta a camminare nel fango
perché i mezzi non riescono a passare. Innanzitutto i lavori
potevano essere terminati nel giro di un anno al massimo, vi sono
poi dei problemi relativi all'impatto ambientale e la truffa nei
confronti degli indigeni. Infatti per ottenere l'autorizzazione per
allargare la strada, i costruttori hanno pagato gli indios, che
vivevano ai margini del vecchio sentiero, dandogli una miseria.
Durante questi anni più volte si sono verificati cedimenti del
terreno a causa degli spostamenti ingenti di terra e
dell'abbattimento di alberi, aggravando la pendenza del terreno e
facilitando l'accumulo di acqua con la conseguenza di frane; in
una zona piovosa come Ocotepec questo rischio è ancora più
elevato. La lunga durata dei lavori inoltre provoca degli squilibri
faunistici a livello di comunicazione, di riproduzione e di
mantenimento della prole, portando anche a delle migrazioni
forzate. Un altro grande problema è rappresentato inoltre
dall'inquinamento dell'acqua: nell'intera zona l'acqua si può bere
solo se fatta bollire, ma anche in questo modo rimane
contaminata, molte persone infatti, soprattutto bambini, si
ammalano. La costruzione della strada, con il conseguente
aumento dell'inquinamento del suolo, aggrava la situazione,
tenendo in considerazione il fatto che non ci sono impianti di
depurazione dell'acqua6.
Un aspetto importante della questione ambientale, in relazione
alla situazione indigena, è quello della biodiversità, della
bioprospezione e della "politica del guadagno".
Successivamente all'affare delle maquillas e del turismo, il PPP si
è concentrato sullo sfruttamento delle piantagioni forestali7 con
l'utilizzo di grandi monoculture artificiali a favore della crescita di
un determinato tipo di albero, eliminando insetti e altre specie
animali, creando un <<deserto verde costruito dall'uomo 8>>. La
rincorsa al profitto porta a queste grandi monoculture, nemiche
della biodiversità e dannose per l'ecosistema locale. In diverse
aree del mondo i contadini si ribellano a questa
"industrializzazione" delle risorse ambientali con contestazioni
pacifiche e non. L'esempio del Chiapas rimanda alla generale
dicotomia tra globale e locale, le leggi che governano l'economia
mondiale non tengono conto delle particolarità locali, non
rispettano le "diversità" : <<oggi è l'economia a dettare le regole,
a dire alla società ciò che deve fare. Il compito che ci sta davanti
è quello di far si che la società ritorni a dettare le regole
all'economia>> [Susan George]. Non solo bisogna puntare ad una
società che sia capace di dettare le regole per una economia
sostenibile, ma nel far ciò bisogna anzitutto riconoscere e
53
rispettare le culture locali.
Vandana Shiva elenca sette punti per riassumere la sua critica nei
confronti del "sapere dominante", ossia quella logica dominante
di una parte del pianeta, l'Occidente, che si relaziona al resto del
pianeta con la violenza e l'inganno. Le sette caratteristiche
negative per la "vita" del pianeta sono:
1) "è profondamente imbevuto di economicismo e pertanto è
sicuramente insensibile ai bisogni umani", bisogna quindi opporsi
a questo sapere dominante poiché rappresenta un rischio per
l'umanità; 2) "le implicazioni politiche del sapere dominante non
garantiscono né l'uguaglianza né la giustizia. Esso rompe la
coesione delle comunità locali e divide le società tra quelle che
hanno accesso al sapere e al potere, e quelle che non ce l'hanno";
3) "essendo sostanzialmente frammentato e destinato
all'obsolescenza, il sapere dominante separa la saggezza dal
sapere e fa a meno della prima"; 4) si tratta di un sapere
colonizzante che nasconde il suo carattere colonizzatore dietro la
mistificazione; 5) "rifugge dalla concretezza, svalutando i saperi
concreti e locali; 6) essenzialmente è un sistema chiuso che nega
l'ingresso ad una pluralità di soggetti; 7) "trascura moltissimi
percorsi per conoscere la natura e l'universo: è una monocultura
della mente" 9.
La popolazione indigena del Chiapas conserva numerose
tradizioni relative al rapporto con la natura, dalle coltivazioni alla
conservazione dei prodotti etc. Il settore biologico, per i grandi
conglomerati farmaceutici e le varie multinazionali, rappresenta
un importante canale per incrementare il proprio mercato, anche a
costo di recare danno alle popolazioni locali. La bioprospezione,
<<ovvero quei programmi di ricerca e mappatura genetica delle
piante tropicali che vengono portati avanti dalle più grandi case
farmaceutiche del mondo ai danni dei paesi tropicali>>, è un
fenomeno diffuso in Chiapas. <<La bioprospezione cerca ciò che
viene già utilizzato in una società, impara il modo in cui questa
società la utilizza e se ne appropria per lanciarla sul mercato 10 >>.
"Rubare la ricchezza" degli indigeni è la conseguenza di questa
bioprospezione, che diventa quindi biopirateria, da una parte di
sostanze attive (proteine etc.), dall'altra delle conoscenze che
hanno gli indigeni della biodiversità e dell'uso di diverse specie in
vari campi. La brevettazione è un tentativo di appropriarsi di tali
conoscenze, in Messico questa si attua in due differenti processi:
la biopirateria selvaggia e il beneficering. La prima si manifesta
in maniera più violenta, un esempio è rappresentato dal fagiolo
giallo che è stato rubato ai contadini che per produrlo ora sono
costretti a pagare una tassa ai "nuovi proprietari". Il beneficering
è frutto del vertice di Rio de Janeiro del 1992, un esempio della
sua attuazione può essere quello della Novartis nella regione della
Sierra Juarez in Oaxaca, con la "collaborazione" degli indigeni al
progetto di ricerca per la cura del cancro e dell'AIDS11 .
Il PPP tra i suoi progetti prevede la privatizzazione di alcuni
bacini idrici e fiumi, tali progetti sono legati all'agricoltura e alla
produzione di energia elettrica, campi in cui le risorse idriche
sono essenziali; i progetti prevedono la costruzione di diverse
centrali idroelettriche, che rientrano nei piani degli accordi
internazionali. Un esempio può essere rappresentato dal progetto
messo in atto da USA, Messico e Guatemala per la
privatizzazione del Rio Simasinta, progetto a beneficio delle
multinazionali francesi ed inglesi. Il pericolo che corrono le
popolazioni indigene, a seguito della costruzione di impianti
idrici, è di vedere inondati migliaia di acri di terra abitati e
coltivabili e di perdere diversi siti archeologici e foreste antiche.
Attualmente sono in atto progetti sul fiume Usumacinta che
divide il Messico dal Guatemala.
A questo punto occorre aprire una parentesi sul lavoro delle
maquilladoras: il termine si riferisce all'industria di assemblaggio,
solitamente è formata da un salone con pochi macchinari e molti
lavoratori che devono assemblare apparati di microelettronica,
motori aerospaziali etc. Le maquilladoras sono piani produttivi di
delocalizzazione che utilizzano manodopera a basso costo; sono
imprese che possono spostarsi velocemente dove è più
conveniente produrre, con la conseguenza di rendere pressoché
impossibile qualsiasi tipo di organizzazione da parte dei
lavoratori, per rivendicare contratti salariali dignitosi e orari di
Festa dell’Indipendenza, Ocotepec
lavoro sostenibili 12 .
<<Bombardati dalle notizie che ruotano attorno alla New
Economy e alle sue produzioni immateriali, stiamo perdendo la
cognizione che la vita quotidiana è tuttora sostenuta, in larga
misura, da oggetti materiali. Acciaio, cuoio, piombo, mercurio,
amianto, giocattoli, utensili, computer, resine sintetiche e prodotti
agricoli chi li produce? E come? E con quali costi umani?13 >>.
Tra i piani del PPP le maquilladoras trovano il loro spazio.
L'obiettivo è quello di portare le regioni di attuazione del PPP ad
essere tra le prime del mondo nell'industria dell'assemblaggio.
Tali ambizioni tuttavia non coincidono con l'affermazione dei
diritti fondamentali per i lavoratori; nelle maquillas, infatti, la
manodopera è pagata poco, non vengono prese precauzioni per i
lavori pericolosi (capitano spesso incidenti ai lavoratori),
vengono maneggiate sostanze nocive senza le giuste protezioni
etc. Queste "pseudo-imprese" rappresentano l'attuazione di un
54
sistema economico basato sulla rincorsa al guadagno, che non
tiene in considerazione gli aspetti umani dei processi di crescita;
a farne le spese sono coloro che non hanno la possibilità di
appellarsi ad una qualche giustizia che possa rappresentarli di
fronte ai giganti dell'economia.
Attualmente per il PPP sono preventivati dieci milioni di dollari,
forse di più, che provengono principalmente dalla Banca
Mondiale, l'Unione Europea, l'Azienda per lo Sviluppo Andino, la
Central American Integration Bank e varie agenzie di sviluppo
americane, europee ed asiatiche. Secondo l'opinione di diversi
economisti neoliberisti, il PPP sarebbe in grado di provvedere ad
uno "sviluppo sociale" grazie alla privatizzazione ed al
conseguente aumento dei posti di lavoro. Tuttavia tale opinione
appare come una semplificazione un po' azzardata, risulta difficile
pensare che un progetto nato per favorire le grandi imprese porti
ad un miglioramento della qualità di vita delle popolazioni locali,
i problemi legati alla bioprospezione ne sono un esempio: le case
farmaceutiche si ingrandiscono a danno delle popolazioni
indigene.
Molti attivisti si oppongono al PPP per diverse ragioni,
principalmente per lo sfruttamento delle risorse a
beneficio delle multinazionali e per l'impatto ambientale
non sostenibile. Uno dei progetti di maggiore
importanza, in cui prende parte soprattutto la Banca
Mondiale, è il cosiddetto "Corridoio biologico mesoamericano", che ha l'obiettivo di collegare diverse parti
del territorio, ricco dal punto di vista biologico, in tutta
l'area del PPP. Nonostante sia formalmente dedito ad
assicurare riserve genetiche e proteggere il territorio con
la sua varietà di flora e fauna, il corridoio darà la
possibilità, alle industrie farmaceutiche e delle sementi,
di sfruttare la zona per brevettare nuove specie
biologiche. La Pulsar, una delle maggiori industrie nel
mondo della bioingegneria, ha già firmato accordi con la
Conservation International per lavorare insieme in
Chiapas, nella selva Lacandona. La Conservation
International è una Organizzazione non Governativa Ambientale
in stretta collaborazione con grandi multinazionali come la
Navigation Technologies Corporation, la Eagle River Inc., la
USA Networks etc. Il legame con le grandi multinazionali, che
possono utilizzare energia e risorse della regione, lascia
immaginare quanto poco il PPP abbia a che vedere con processi
di "sviluppo sostenibile" e azioni per combattere la povertà. È
vero che nell'attuazione del piano si apre la possibilità per nuovi
posti di lavoro, ma il lavoro nelle maquilladoras, per esempio, può
essere considerato una soluzione al problema della povertà? Le
maquilladoras non portano benefici al paese ospite in quanto non
utilizzano materie prime locali, non trasferiscono tecnologia e le
condizioni lavorative sono insopportabili, dunque gli unici
bisogni che soddisfano sono quelli delle multinazionali che le
hanno aperte.
A questo punto è possibile delineare gli obiettivi principali del
PPP: consentire alle multinazionali il libero accesso alle riserve
energetiche ed ecologiche; creare una zona di contenimento
dell'emigrazione clandestina messicana verso gli USA,
impiegando la manodopera messicana nelle maquilladoras.
Un esempio delle alternative al modello economico proposto dal
PPP è l'Alleanza Sociale Continentale 14 (ASC), formata da un
gruppo di organizzazioni civili provenienti dall'intero continente
americano. L'ASC ha formulato una proposta alternativa agli
accordi di libero commercio e alle regole che vorrebbe imporre
l'FTAA, trovando il sostegno di diverse organizzazioni come
Frontiere Comuni in Canada, Alleanza per un Commercio
Responsabile negli Stati Uniti etc 15 .
Per concludere questa parte vorrei citare Muhammad Yunus: <<la
mia esperienza in seno a Grameen mi ha infuso una fede
incrollabile nella creatività umana, che mi ha portato a pensare
che l'uomo non sia nato per patire le miserie della fame e
dell'indigenza; se oggi soffre, e ha sofferto in passato, è perché noi
distogliamo gli occhi dal problema…spetta a noi decidere dove
andare…se prendiamo sul serio i nostri compiti non potremo che
arrivare laddove abbiamo pensato16>>. Anche se diverso, il caso
di Yunus in Bangladesh, con l'istituzione del microcredito per
combattere la povertà in maniera attiva e razionale, può insegnare
che la gestione delle politiche economiche può essere attuata
secondo criteri differenti, in maniera più sostenibile ed
egualitaria. Il Chiapas è uno stato potenzialmente ricco, tuttavia le
condizioni di disagio della popolazione sono sempre più forti e le
risorse del territorio sono sempre più a rischio di contaminazioni
e violenze, ciò è dovuto ad una "politica del guadagno" senza
scrupoli.
La questione indigena
Negli ultimi anni si è molto discusso delle problematiche che
affliggono gli indigeni del Chiapas, molti di questi hanno
acquisito un'identità collettiva ben salda, sono nati diversi
movimenti per il riconoscimento dei diritti degli indios e le donne
hanno potuto esprimere più consapevolmente la loro posizione.
Gli indigeni del Chiapas, guidati spesso dall'EZLN e appoggiati
da Organizzazioni non Governative, portano avanti la loro causa
con l'occhio di tutto il mondo puntato su di loro (in ciò è stato
fondamentale l'utilizzo di internet), in un continuo alternarsi di
lotte e armistizi con i governi statale e federale.
Tuttavia nel quadro appena dipinto non rientra l'intera
popolazione indigena chiapaneca. Nella mia esperienza ad
Ocotepec, nel nord dello stato del Chiapas, ho vissuto con gli
indigeni dell'etnia Zoque, i quali non sono parte del calderone
pubblicizzato dall'EZLN e dalle varie ONG. Se, infatti, bisogna
riconoscere all'esercito zapatista il merito di aver fatto esplodere
la questione indigena, ottenendo anche dei risultati, bisogna
altresì tenere in considerazione quella parte di
strumentalizzazione che sta dietro ai giochi di forza del caso. Gli
indigeni del Chiapas sono quelli che lottano contro il governo?
Certamente c'è una parte della popolazione locale che ha un ruolo
assolutamente attivo nei conflitti per il riconoscimento dei diritti
degli indios, questa è la parte che più si conosce, è la parte che
affascina gli studenti che vanno in Chiapas a studiare l'identità
55
indigena, è la parte che interessa alle ONG, è la parte che viene
più colpita dalle violenze dei militari e paramilitari che uccidono
uomini e donne, rapiscono i bambini e saccheggiano i villaggi.
Per questa parte di indigeni la lotta non cessa mai, ed il contributo
degli organismi internazionali è di fondamentale importanza per
giungere ad una soluzione più pacifica.
Ma c'è anche un'altra parte di indigeni come per esempio gli
zoque: per prevenire problemi anche ad Ocotepec c'è un
distaccamento dell'esercito federale, ma fino ad ora non si sono
verificati scontri diretti come in altre aree del Chiapas. Il dramma
della popolazione zoque è da un lato di vivere un isolamento che
la costringe ad un livello della qualità di vita molto basso,
dall'altro lato di tendere sempre più alla perdita della propria
identità, con le sue tradizioni e il suo sistema di vita. L'isolamento
è dovuto alla posizione geografica, che rende difficili gli scambi
commerciali, e all'amministrazione statale che non è in grado di
"comunicare" con tutte le parti del suo territorio e di mettere in
atto politiche specifiche che riconoscano la particolarità dei vari
gruppi etnici. La popolazione di Ocotepec vive in condizioni di
povertà, c'è un alto tasso di mortalità infantile e molte persone
sono malate senza la possibilità di curarsi, l'ospedale più vicino è
a cento chilometri di distanza, nella capitale Tuxtla.
Se ci rechiamo in Chiapas ed andiamo a San Cristobal per
esempio, incontriamo diverse ONG; in tutta l'area di Ocotepec,
che conta migliaia di indigeni, ci sono solo una parrocchia e una
missione di suore salesiane, che mi hanno ospitato durante la mia
permanenza. Il fatto di essere distante dalla lotta attiva contro il
governo, tiene fuori questa zona dall'interesse delle
organizzazioni a scopo umanitario e dell'esercito zapatista: sono
gli indigeni che stanno "dietro le quinte", gli indigeni che non
hanno sviluppato una coscienza collettiva compatta e agguerrita,
sono gli indigeni che stanno perdendo la propria identità e il
proprio spirito. La povertà, prima ancora di uccidere
materialmente l'uomo, distrugge il suo animo e gli nega la
possibilità di conservare la particolarità che aveva
precedentemente. La perdita dell'identità è legata al fatto di vivere
una continua lotta alla sopravvivenza, ma è anche legata
all'influenza della "società civile" che si allarga violentemente
annullando le differenze culturali. L'espansione del modello di
vita urbano è arrivata fino ai margini della selva, le popolazioni
indigene vivono il disagio di trovarsi a metà strada tra il vecchio
sistema di vita e il modello cittadino: la conseguenza è un senso
di smarrimento che aggrava l'isolamento degli indios. Le missioni
presenti sul territorio non sempre sono in grado di migliorare la
situazione poiché, nonostante si interessino alle molte
problematiche, economiche e sociali, rappresentano un sistema
culturale lontano da quello indigeno, quindi si fanno
inconsapevoli responsabili di un ulteriore allontanamento della
popolazione locale dalle sue origini e dalle sue tradizioni. Gli
zoque non hanno movimenti che si mobilitano per portare avanti
degli ideali, le donne zoque non possono radunarsi e formare dei
gruppi, i problemi relativi all'etnia zoque non possono essere
compresi in un quadro generale che tratta la questione indigena; il
primo passo per uscire dall'etnocentrismo con cui muoviamo le
nostre azioni, di natura politica, sociale o economica, è di
riconoscere la particolarità e la specificità di ogni gruppo etnico.
Esistono molte realtà in Chiapas, non è possibile riassumere le
problematiche della questione indigena all'interno della lotta
zapatista.
Il dramma delle popolazioni indigene è quello di non poter essere
rappresentative della propria cultura in maniera pacifica, molti
sono costretti a combattere, altri vivono condizioni di isolamento
e povertà estreme, altri ancora sono stati ormai "ingoiati dalla
società civile": quanti ancora vivranno questo dramma?
Ocotepec
NOTE
Anuario de Cultura e Investigacion. Instituto Chiapaneco Departamento de Patrimonio Cultural, 1990
Maria Luisa Armendariz, Chiapas, una radiografia, 1994, Tuxtla Gutierrez (Chiapas).
3
Chiapas: economia e risorse, www.unimondo.org
4
Chiapas. www.comune.fe.it
5
L'ABC del Plan Puebla Panama, traduzione di Barbara Cervoni. www.zmag.org - www.ciepac.org
6
Smiraglia, Bernardi, L'ambiente dell'uomo. Introduzione alla geografia fisica, 1994, Patron, Bologna.
7
www.rainforestmovement.it
8
Plan Puebla Panama, www.romanordestsocialforum.org
9
Vandana Shiva: Biodiversità e monoculture della mente. www.peacelink.it
10
Sabina Morandi, Biopiraterie: il ritorno da Vandana Shiva - i giocolieri del dna, Associazione Orsa Minore. www.peacelink.it
11
Plan Puebla Panama, www.romanordestsocialforum.org
12
Andres Barreda, Plan Puebla Panama. www.ipsnet.it
13
Gianni Moriani, L'economia che uccide, Il Manifesto, 23 Giugno 2000
14
www.asc-hsa.org
15
L'ABC del Plan Puebla Panama, traduzione di Barbara Cervoni. www.zmag.org - www.ciepac.org
16
Yunus Muhammad, Il banchiere dei poveri,1998, Feltrinelli, Milano.
1
2
BIBLIOGRAFIA E LINK DI RIFERIMENTO
Anuario de Cultura y investigacion. Instituto Chiapaneco Departamento de Patrimonio (1990).
Armendàriz Maria Luisa, Chiapas, una radiografia, 1994, Tuxtla Gutierrez (Chiapas).
Badini Alessandro, Gli uomini dal colore della terra, La voce della luna. www.sxpc.net
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Chiapas, www.comune.fe.it
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Smiraglia, Bernardi, L'ambiente dell'uomo. Introduzione alla geografia fisica, 1999, Patron, Bologna.
Vandana Shiva: biodiversità e monoculture della mente, www.peacelink.it
Yunus Muhammad, Il banchiere dei poveri, 1998, Feltrinelli, Milano.
www.asc-hsa.org
www.rainforestmovement.it
56
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E' già stato raccontato come Achab fosse solito passeggiare sul ponte di comando,
facendo voltate regolari ad ogni estremità, la chiesuola e l'albero maestro; ma, tra
le tante cose richieste dalla narrazione, non si è mai aggiunto come talora, in
queste passeggiate, quand'era più sprofondato nella sua tetraggine, egli avesse
l'abitudine di trattenersi volta a volta in ognuno dei due luoghi, e rimanere là con
l'occhio fisso all'oggetto che gli stava dinanzi. Quando si fermava davanti alla
chiesuola, con l'occhio fisso all'ago appuntito dentro la bussola, il suo sguardo era
penetrante come un giavellotto, per l'acuta intensità del suo proposito; quando,
riprendendo la passeggiata, risostava davanti all'albero maestro, fissando quel
medesimo sguardo inchiodato sulla moneta d'oro inchiodata là sopra, egli
conservava il medesimo aspetto di ferrea determinazione, appena smossa da una
specie di impeto selvaggio, se non fiducia.
Ma una mattina, voltandosi per allontanarsi dal doblone, parve
nuovamente attratto dalle strane figure e iscrizioni che vi erano
incise, come se, per la prima volta, cominciasse a interpretare per
se stesso, in qualche modo monomaniaco, qualunque
significato vi si potesse nascondere. Un significato sicuro si
nasconde in tutte le cose, altrimenti varrebbe ben poco, e
lo stesso globo non sarebbe che una vuota sembianza, ........
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