ACHAB Rivista Studentesca di Antropologia 2004 numero 1 Universita’ degli Studi di Milano-Bicocca Di tutto quanto è scritto io amo solo ciò che uno scrive col sangue. Scrivi col sangue: e allora imparerai che il sangue è spirito. (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Del leggere e dello scrivere) Editoriale Achab nasce dal desiderio e dalla passione. Il desiderio di essere parte attiva nella costruzione di un sapere critico, capace di sottoporre ad un'analisi profonda i presupposti della società in cui nasce e di estendere questa riflessione ai suoi stessi strumenti d'analisi in un processo retroattivo continuo che lo rende unico: il sapere antropologico. Achab è il desiderio di sperimentare e di mettersi alla prova in uno spazio di riflessione aperto ai contributi di chiunque abbia voglia di confrontarsi con questa disciplina e con i suoi temi, in uno scambio tra studenti, docenti e ricercatori che ci auguriamo proficuo. In Achab prendono forma le nostre passioni, per la scrittura innanzi tutto, ma anche per la scoperta e per quella "vitalità culturale" che sorregge gli studi antropologici Se è la capacità stessa dell'antropologia di riconoscersi come sapere critico a donarle un'aria incerta ed irrequieta (e che in fondo le garantisce la sua autorevole specificità), ci auguriamo che questa rivista possa, a sua volta, trasmettere un po' di questa "inquieta curiosità" ai suoi lettori. Desideriamo ringraziare tutti coloro che hanno contribuito a realizzare questo numero di Achab e, in particolare, Flavia Mammoliti e Donata Balzarotti per il loro prezioso aiuto. I Responsabili Achab - Rivista studentesca di Antropologia dell'Università Bicocca - Anno I , Numero I Responsabili: Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri Hanno collaborato: Barbara Caputo, Domenico Copertino, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Ugo Fabietti, Marzio Gatti, Lara Palazzo, Michele Parodi, William Pioltelli Grafica Interna: Niccolò De Giorgio, William Pioltelli, Amanda Ronzoni Grafica copertina: Lorenzo D'Angelo Responsabile del sito: Antonio De Lauri Tiratura: 500 copie Se desiderate collaborare al progetto della rivista con vostri lavori o commentare gli articoli, potete scrivere a: [email protected] oppure [email protected] La rivista è disponibile anche in versione elttronica scaricabile in formato pdf dai siti www.studentibicocca.it/achab e www.culturelab.it INDICE: Indice Queequeg Sul concetto di cultura di Lorenzo D’Angelo pag. 2 di William Pioltelli pag. 4 di Marzio Gatti pag. 8 di Michele Parodi pag. 13 di Lorenzo D'Angelo pag. 21 di Barbara Caputo pag. 25 Un viaggio tra le favole di Antonio De Lauri pag. 31 Della guerra. di Lorenzo D'Angelo e Antonio De Lauri pag. 41 Intervista a Ugo Fabietti Diplomazia di un terremoto di Lara Palazzo pag. 44 Storie di citta’ di Domenico Copertino pag. 46 di Antonio De Lauri pag. 51 La Conoscenza in Antropologia Frammenti e pensieri sparsi Uno sguardo al mondo classico La polis e la formazione del cittadino Arte, Religione, Medicina: il ruolo terapeutico e soteriologico dell’alterita’ presente Frazer il selvaggio Un percorso tra le Note sul Ramo d’Oro di Wittgenstein Bourdieu Spazio dei corpi e dominazione di genere La tradizione orale senegalese Chiapas Riflessione sulla situazione degli indigeni e sullo sfruttamento delle risorse 1 Queequeg "Sul concetto di cultura" work in progress a cura di Lorenzo D'Angelo "...Cosicché Queequeg era, nella sua stessa persona, un enigma da scoprire: un'opera straordinaria in un solo volume, i cui misteri, però, non poteva leggere nemmeno lui, quantunque il suo cuore vivo vi pulsasse sotto, e questi misteri erano perciò destinati, alla fine, a ridursi in polvere con la pergamena vivente su cui erano stati scritti, e a rimanere così insoluti in eterno. Doveva essere stato questo pensiero, forse, a suggerire ad Ahab quella disperata esclamazione volgendosi, una mattina, dall'osservare il povero Queequeg: "Oh, diabolico supplizio di Tantalo degli dei!"..." (H. Melville, Moby Dick, cap. CX)1 . Perché Queequeg? Queequeg è l'enigma dell'alterità, o meglio, il paradigma dell'alterità che si fa enigma. Un ramponiere polinesiano che vende teste imbalsamate e si comporta in modo bizzarro: riuscite ad immaginare qualcosa di più esotico? Queequeg compare già nel III capitolo ed è un personaggio importante in Moby Dick. A noi, tuttavia, non interessa tanto il personaggio letterario né, a dire il vero, il romanzo in sé (che pure è uno dei nostri favoriti). Moby Dick è il nostro pre-testo per provare ad osservare con gli occhi di Melville (e dei suoi personaggi) un'epoca2 in cui l'antropologia era appena un seme, seppure promettente, ma interrato. Vorremmo fare l'archeologia di questo stesso sguardo per parlare dell'"antropologia" prima dell'antropologia e capire meglio quest'ultima. Il breve passo citato in calce ci pare, da questo punto di vista, denso di temi dai quali trarre spunto per avviare una riflessione più sistematica. Ci auguriamo di poter coinvolgere quanti desiderino seguire questa traccia o indicarne delle altre. Questo lavoro è un esperimento di scrittura poli-grafica. Ismaele/Melville e Queequeg si incontrano per la prima volta in una locanda, precisamente, nella camera nella quale passeranno la notte a dormire. Ismaele, ingannato dall'oscurità della stanza, inizialmente scambia il suo compagno per un bianco con delle strane macchie sulla pelle. Poi, improvvisamente, "...ricordai la storia di un bianco, baleniere anche lui, il quale, capitando tra i cannibali, era stato tatuato. Conclusi che a questo ramponiere, nei suoi lunghi viaggi, doveva essere capitata un'avventura simile.." (p. 48). Poco dopo Ismaele si rende conto che il suo compagno di stanza non è semplicemente un'altro non-Io, un bianco baleniere che si avventura tra i selvaggi, ma è proprio un'altro. Questa semplice constatazione lo confonde. Stupore e orrore si mescolano nel suo animo. Ismaele ha paura e la ragione è semplice: "..non sono un codardo, ma farmi una ragione di questo rossastro briccone [Queequeg], venditore di teste, superava ampiamente i limiti della mia comprensione. L'ignoranza è madre della paura, ed essendo io completamente sconcertato e confuso a proposito dello straniero, confesso che 2 ho provato orrore di quell'uomo..." (p. 49). E, ancora, poco sotto: "...avevo tanta paura di lui che non avevo il coraggio nemmeno di rivolgergli la parola per avere una risposta soddisfacente a ciò che in lui mi pareva inesplicabile" (sottolineatura mia, p. 49). La paura di Ismaele origina da una ricerca di senso fallita. Conoscere per placare l'inquietudine del misterioso dunque, colmare una distanza per tradurre l'alterità in differenza, diremmo noi. Ma, ad Ismaele sembra mancare un traduttore/mediatore concettuale di "distanze"/differenze: il concetto di cultura. Accade allora che Queequeg, l'insondabile, sia un generatore di paradossi. Mistero a se stesso e agli altri, diventa agli occhi di Ahab un supplizio per gli dei, i veri detentori del sapere, che a loro volta avevano punito Tantalo per il suo affronto. L'altro , quando è così lontano e imperscrutabile o lo si combatte (Ahab vs Moby Dick) o se ne rimane rapiti ed affascinati (Ahab vs Queequeg). I due atteggiamenti sono opposti ma complementari [....]. NOTE 1 Le pagine delle citazioni che seguono fanno riferimento alla seguente edizione: Melville, Moby Dick, trad. it. di C. Minoli, Milano, A. Mondadori, 1998. 2 Moby Dick è stato pubblicato la prima volta nel 1851. Indicazioni su possibili tracce di lavoro : * critica al concetto di cultura / utilità concetto di cultura * cultura come testo * corpo/ in-corporazione della cultura * atteggiamenti verso l'alterità (etnocentrismo, razzismo, fascinazione, salvaguardia....) * (......) Meta tracce: Scrittura (mono/poli-grafia, dialogicità, polifonia...) Funzione autore. Coloro che desiderano partecipare al progetto possono scrivere e inviare le proprie riflessioni, critiche, suggerimenti a: [email protected] 3 La conoscenza in antropologia Frammenti e pensieri sparsi. di William Pioltelli I. E' difficile dare della conoscenza una definizione sintetica. Questo probabilmente perché si corre il rischio di non considerare molti aspetti referenziali e processuali che tutti i saperi, alcuni forse più di altri , hanno aggiunto ad essa progressivamente. Si possono utilizzare o distruggere schemi, in qualsivoglia campo disciplinare, considerando che la nostra attenzione ora pone un accento essenziale e processuale più che referenziale o espresso in termini di contenuto. Ma ci si accorgerebbe, come probabilmente già avviene, di alcuni limiti evidenti L'atto del conoscere è sempre rivolto, secondo una metafora visiva e cinetica, all'inglobamento di oggetti non-conosciuti, nella conoscenza specifica appunto, o comunque alla violazione del confine che separa il noto dall'ignoto, secondo uno schema di pensiero duale che sottilmente e strutturalmente accompagna ogni nostro processo conoscitivo quotidiano o accademico, anche quando si cerca di superare proprio questo strumento cognitivo. Se anche si intende la conoscenza in termini rigidamente ed esclusivamente processuali, ovvero la conoscenza intesa come la partecipazione diretta del conoscente ad un processo di comutazione con l'oggetto/processo, dove il piano processuale e referenziale sono intercambiabili, lo schema citato sembra scomparire ma, in realtà, diviene semplicemente più elaborato. Anche nel caso della conoscenza metafisica, rivolta al Tutto, all'intero, al processo di creazione-generazioneframmentazione delle singolarità numeriche, oggettuali, ecc.., è difficile non scorgere implicito il concetto di confine/limite, inteso prevalentemente in senso spaziale. L'idea stessa che il tutto possa frantumarsi, dividersi, condensare sé o espressioni di sé, mi sembra suggerisca, irrimediabilmente una confinazione, un limite (limes), un confine. Queste considerazioni sembrano valere anche per quanto riguarda la matematica e la linguistica. E ciò risulta evidente nel caso di concetti limite, indipendentemente che essi siano radicati in una visione relativa o assoluta, individuale o collettiva, interna o esterna, che abbia o non abbia un corrispondente concreto visibile/tangibile/esperibile nella realtà. Noi pensiamo/diciamo il mondo ponendo un confine tra il conoscente e il conosciuto, indipendentemente da altri aspetti. Tutto ciò è così profondamente radicato nell'uomo occidentale, che, con occhio antropologico, non scandalizza pensare come gli dei del mondo classico, piuttosto che i demoni della Cristianità, non fossero altro che tentativi, probabilmente anche riusciti, di confinare appunto esperienze dirette o indirette, mediate o immediate, di aspetti del vivere, processi di varia natura al fine, semplicemente, di poterli conoscere-inglobare, e dove possibile, gestire-determinare, dando loro una posizione e un ordine rispetto al sé conoscente individuale e collettivo. Bisogna però premettere che questo processo è stato possibile probabilmente perché la nozione di persona, di singolo, di individuo, maturata sia nel contesto ebraico (l'idea di creaturalità, dell'essere figlio di Dio, l'idea stessa di Messia), che in quello greco-romano (l'eroe, tutto il corpus del diritto elaborato nei secoli), lo ha permesso e sostenuto, quasi legittimandolo/postulandolo. Non è un caso, come afferma Reale, che il pensiero razionale sia frutto peculiare dei Greci. "Rilevare tutto ciò significa riconoscere, né più né meno, che… furono dei creatori, ossia che diedero alla civiltà qualcosa che essa non aveva, e che,… si rivelerà di tale portata rivoluzionaria da mutare il volto della civiltà medesima," in senso qualitativo. "…e chi non tenga ben presente questo non riuscirà a comprendere perché la civiltà di tutto l'Occidente abbia preso, sotto la spinta dei greci, una direzione completamente diversa da quella dell'Oriente; e non capirà perché la scienza abbia potuto nascere appunto solamente in Occidente e non in Oriente. Inoltre non capirà perché gli orientali abbiano dovuto, quando vollero beneficiare della scienza occidentale e dei suoi risultati, far proprie, in larga misura, anche le categorie o almeno alcune categorie essenziali della logica occidentale." (Cfr. G. Reale, 1992). Anche Marc Augè in Genio del Paganesimo sostiene che "l'affermazione dell-Io, che ha qualcosa della scommessa, non significa dunque ignoranza degli innumerevoli cammini e dei diversi declivi attraverso i quali l'identità si disperde o si divide, si perde o si ritrova. Ma l'attenzione prestata alla relativa autonomia dei momenti e delle qualità non ha niente a che vedere con lo spezzettamento feticistico del corpo al quale procede lo sguardo sadico da un lato, né con la teoria della persona e dell'ereditarietà, proprie di talune siciet, aventi l'effetto di relativizzare la nozione di identità". La logica fu dunque scelta come la via per accertare la misura della verità o della falsità, componenti entrambe della conoscenza. Logica, come logistica ha in se il senso e il significato del contare/calcolare, frantumare, mettere insieme frammenti. Logica, legato alla semantica del mondo interiore e logistica, legato alla semantica del mondo esterno, nascono dalla stessa parola greca. Possiamo quindi affermare che la conoscenza, nel suo senso contestuale, è intesa come la ricerca della verità, nel senso di una corrispondenza tra gli oggetti del mondo interiore e quelli del mondo esteriore o dell'esperienza di realtà, che porta il movimento indagatorio all'interno dei binari (principi) di 4 corrispondenza e di non contraddizione. Vi è in ciò una reminescenza certamente platonica, rimasta ingenuamente inalterata anche in Aristotele e fino ai tempi della filosofia moderna. Lo stesso J. Lacan sostiene che le dinamiche della vita psichica (interiore) sono riducibili a una dialettica tra verità e realtà: la prima abita nel discorso e operando di nascosto concorre a fornire un senso alla seconda (esteriore), fin ad allora muta. Con Aristotele si afferma che le verità logiche sono vere in tutti i casi, e che le falsità logiche sono false in tutti i casi, e che ogni verità che esce da questi assunti è considerata verità fattuale, necessitaria di una contestualizzazione. Per poter determinare la verità o la falsità di un'affermazione del tipo "Sta piovendo", devo, infatti, verificare le effettive condizioni meteorologiche ovvero il contesto. Anche nel caso della "verità pratica", dove l'azione ha come principio la scelta, la quale è il risultato dell'incontro tra il desiderio di raggiungere un certo fine ed il calcolo dei mezzi necessari a raggiungerlo, siamo in presenza di verità e falsità rispetto al calcolo per determinare i mezzi realmente necessari per conseguire il fine buono o non buono. Anche quando Bergson sostiene che se, per affermare "fatti" quali la libertà, l'estetica e simili, si usa l'introspezione allora non si può avere alcuna scienza (perché la scienza è "oggettiva" ed in questo caso l'io sarebbe contemporaneamente soggetto osservante ed oggetto osservato e che nessun fatto "oggettivo" è indagabile con il metodo scientifico), egli si pone nei confini del mondo interiore, cercando di non sostenere per tali oggetti, una corrispondenza, non tanto confutando il metodo oggettivo, quanto piuttosto cercando di soffocarne all'origine l'esigenza intellettuale. Gli Spiritualisti concordano con chi sostiene l'impossibilità di esaminare questi "fatti" col metodo sperimentale della fisica: per loro si tratta di fatti a cui, quindi, non è accessibile la "scienza" col suo metodo. Egli afferma, in un certo senso il diritto ad un'individualità creativa, "avalutabile" e "amisurabile" Dunque, la struttura dicotomica del pensiero occidentale è ancora fortemente presente. Soggetto e oggetto continuano a rimanere separati e poco importa se la separazione sia operata da una grande muraglia o da un impercettibile confine. Eppure già dal pensiero greco si nota come vi siano delle zone d'ombra nel movimento di conoscenza. Lo stesso Platone si rifiutava di scrivere, formalmente e referenzialmente, le sue dottrine più importanti, come quella dell'Uno, perché si rendeva conto di come certi oggetti/campi di indagine, fossero ampi e mutevoli, nel senso che andavano compresi in relazione al soggetto conoscente, non tanto nel senso di una interpretazione/opinione da parte di questi o di una loro modificazione di un qualche tipo, quanto piuttosto di una sua partecipazione in quanto parte inseparabile dell'intero movimento conoscitivo. Nel suo pensiero le dottrine erano meglio comprese nel rapporto individuale, nell'oralità. Scrivere significava dunque per Platone confinare, limitare, e soprattutto escludere una parte fondamentale del movimento indagatorio e della conoscenza. L'oralità, come la scrittura non formale e referenziale, sembravano garantire una sufficiente dose di sfumatura. Se consideriamo, ad esempio, il paradosso del mentitore possiamo portare alcune utili considerazioni. Se un bugiardo afferma di stare mentendo e ci viene chiesto se la sua affermazione è vera o falsa, incontriamo una contraddizione se la nostra analisi avviene esclusivamente sul piano formale e linguistico. Se, al contrario, un nostro amico o conoscente, notoriamente bugiardo nelle sue affermazioni, ci dicesse "Sto mentendo" noi potremmo intendere "in questa determinata situazione sto mentendo" oppure "Ora sto mentendo", oppure "al riguardo di quel o quell'altro argomento [a te noto e quindi sottointeso in questo nostro dialogo] sto mentendo, introdurremmo cioè la necessità della funzione indessicale, di un rimando immediato a parti non verbalizzate del discorso o del contesto previo o contingente. In mancanza di tali elementi referenziali, per dare un senso (stabilire la veridicità o la falsità) a quest'affermazione dovremmo ipotizzare alcuni scenari. Ma ciò ancora non sarebbe sufficiente a stabilire con un massimo grado di esattezza e di corrispondenza se quanto detto dal nostro amico sia effettivamente vero o falso. Non ne avremmo una conoscenza certa e inconfutabile, a meno naturalmente di introdurre nuovi elementi indagatori. Dovremmo introdurre nella nostra ricerca della conoscenza un elemento di tipo storico relazionale (probabilistico). In base alla pregressa osservazione/esperienza operata nella relazione storica con il nostro amico/conoscente, con i dati incerti della nostra memoria, potremmo stabilire con un grado di approssimazione se in questo caso contingente è più probabile che egli stia mentendo o meno. Potremmo allora stabilire che egli, al riguardo di quella o quell'altra questione, sta effettivamente mentendo e quindi nel momento in cui lo afferma nel dialogo con noi sta dicendo il vero. [Sto mentendo (a mia madre per quanto riguarda i voti degli esami sostenuti); [Sto mentendo ora quando ti dico che non amo Nicoletta (è vero che sto mentendo perché io la amo)] in ogni caso lo status o la condizione di bugiardo è una conseguenza e non un precondizione, a meno di non introdurre appunto l'elemento storico-relazionale-probabilistico, in altri contesti detto pregiudizio. Ma fatto anche questo genere di considerazioni, esse non possono che essere valide in relazione esclusiva a quel contesto. Non sarebbe possibile generalizzare la nostra conclusione, quel che è vero nella situazione considerata non lo è poi necessariamente in un contesto anche uguale e con le stesse persone. Esiste allora un tipo di conoscenza non legato necessariamente a leggi deterministiche o formali in senso forte e stretto, ma comunque valido ai fini dell'incremento della conoscenza. Tale tipologia di conoscenza è contingente pur utilizzando, se crede, strumenti formali, è relazionale perché include il soggetto e l'oggetto nel movimento di conoscenza; è storico perché implica l'utilizzo di un tempo la cui efficacia non si misura (come direbbe Bergson) con l'orologio atomico della fisica, ma è anche probabilistico e quindi con opportuni strumenti ed ad un certo grado di complessa attenzione misurabile ma non in modo esclusivo. Questo tipo di conoscenza non coincide con la misurazione anche se può decidere di adottarla. In fine la necessità della caratterizzazione ne 5 include l'uso della descrizione e del lavoro vis-a-vis nel contesto spazio-temporale, meglio se non differito o delocalizzato. Questo genere di conoscenza interpella quelle discipline, non esatte nel senso aristotelico, che operano dove le condizioni di relazione tra soggetto e oggetto sono al limite perché tale distinzione è arbitraria e non vi è lo spazio sufficiente affinché, senza ambiguità alcuna, il soggetto conoscente inglobi/incorpori l'oggetto conosciuto. Ci troviamo di fronte al limite stabilito da Gödel. Un esempio può essere la psicologia intendendola come una psiche che studia un'altra psiche, un sé che determina il concetto del Sé. Inevitabilmente in questa particolare tipologia di rapporto tra soggetto e oggetto, volendo mantenere tale distinzione, i contorni dell'oggetto sono inevitabilmente sfocati/sfumati. L'antropologia sembra porsi in questi contesti. E proprio in questi contesti ci sorge il dubbio che la conoscenza debba/possa uscire, per quanto possibile, da quella dicotomia di pensiero che regge, come un Atlante, le fondamenta del pensiero occidentale. Sorge anche il dubbio che esso poggi non tanto su un assunto vero o falso, ma su una semplice scelta dogmatica, una prassi consolidatasi in migliaia di anni di esercizio mentale e di esperienza. conoscenza del mondo, uomo compreso e che anzi essa sembra porsi come una forzatura all'interno della quale cerchiamo di mettere il mondo e la realtà. Essa è eccezione e non regola e il mondo è indagabile, con un maggior grado di conoscenza, non all'interno di una struttura dicotomica, ma graduata, sfumata, mediata, in un movimento conoscitivo e indagatorio che non distingue (almeno non nettamente e rigidamente) il soggetto e l'oggetto, perché questo è poco funzionale e lontano dal maggior grado di conoscenza acquisibile. Ciò che varia è il movimento tra i due, sono i processi di relazione che si vengono a creare. Ciò che intendiamo affermare non è l'inutilità o l'inadeguatezza della logica aristotelica, ma ci preme osservare come la sua funzionalità sia legata al contesto pratico/concreto e sia in tal senso una scelta arbitraria e quindi non necessariamente fondata. Logica che significa, anche, tecnica e calcolo. E' una questione molto concreta. Non è questione di metodo buono o non buono, ma di metodo adatto o inadatto allo studio di una porzione di universo/esperienza. Nessuno oserebbe affermare che la geometria euclidea non sia uno strumento adatto a stabilire il perimetro della casa che stiamo costruendo, ma, è altrettanto vero, che la stessa geometria non è uno strumento adatto a misurare lo stesso perimetro se questi si trovasse in prossimità del Sole o nell'orizzonte degli eventi di una singolarità (o buco nero). Lo stesso di potrebbe dire per la fisica classica e quella moderna. Gli studi di A. Einstein dimostrarono come la realtà, oltre ad esistere indipendentemente dalle menti degli uomini, potesse mutare, pur non diventando un'opinione, in relazione al soggetto conoscente, ovvero di come la conoscenza fosse oggettiva ma relativa al particolare punto di vista o rapporto tra i due termini del movimento di conoscenza all'interno di un determinato sistema di riferimento. Un cubo si presenterà "cubico" ad un osservatore in un determinato sistema (diciamo a bassa velocità). Lo stesso cubo si presenterà "sferico" contemporaneamente ad un altro osservatore in un altro sistema di riferimento (diciamo a velocità molto alte). Il cubo è contemporaneamente cubico e sferico e in questo non vi è contraddizione, ma semplicemente si evidenzia il rapporto vitale tra tutti i termini del movimento di conoscenza. La percezione, non a scapito dell'oggettività della realtà e delle sue unità, è dunque parte integrante del processo o del movimento di conoscenza; per avere un sapere è necessario che percezione e rappresentazione operino contestualmente. Se una percezione rimane tale, non è condivisibile e quindi, non vi è sapere, non vi è una condivisione, questo perché il nostro modo di percepire si riflette immediatamente nel modo di comunicare l'oggetto della nostra percezione, anche là dove questa avvenga nel "recinto" delle categorie culturali che hanno formato la nostra mente. La conoscenza antropologica acquista lo status di sapere in relazione all'arbitrarietà del modello aristotelico e si presenta come sapere di confine. Le sue caratteristiche, dunque, sono quelle di essere libera da tutti quei processi della retorica scientifica che implica "oggetti", "fatti", "descrizioni", "induzioni", "generalizzazioni", "verifiche", "esperimento", "verità" e concetti simili (cfr. Tyler, 1997). II. L'indagine moderna, a partire dal 1900 circa sembra essersene accorta. Furono W. Heisemberg e A. Einstein a porre indirettamente il dubbio. Entrambi fisici, lavorarono, com'è noto, prevalentemente nel campo delle particelle atomiche e subatomiche, pur con approcci e scuole di pensiero differenti. Il primo, con il principio di indeterminazione della meccanica quantistica mostrò come fosse possibile guardare più da vicino e vedere di meno, possedere l'informazione totale e non poter dire nulla con certezza assoluta. Se uno guida molto velocemente in autostrada, quindi solitamente in linea retta, e guarda il tachimetro, non può sapere, in quale punto dell'autostrada si trovi la sua autovettura in ogni istante. Se supponiamo invece che stia andando più veloce di quanto generalmente consenta la forza di gravità e le caratteristiche dell'auto, allora, conoscendo il punto in cui si trova la macchina in autostrada, non possiamo sapere a quale velocità sta andando (a meno di non avere, in questo caso, due cervelli e quattro occhi; ma cambierebbe poco poiché un eventuale marziano, come lo abbiamo immaginato, si troverebbe, ad un altro grado di complessità, e con un ben altro numero di variabili, nella nostra stessa identica situazione d'approssimazione, anche se rimane pur vero che la forma del nostro corpo determina il modo con cui conosciamo il mondo). In questo caso è utile osservare come gli strumenti di misurazione non alterano nulla ma si limitano semplicemente a misurare gli effetti di certe cause, che risiedono semplicemente nella natura delle cose, nel limite del nostro orizzonte, per quanto distante possa essere, nella struttura remota e profonda del nostro universo. Allora la conoscenza è strutturalmente fuzzy, sfumata. Possiamo tranquillamente affermare che la logica aristotelica non è uno strumento buono, né affidabile come pretende di essere per l'incremento della nostra 6 I fenomeni da lui studiati non sono più entità occulte che devono essere portate alla luce mediante procedimenti di tipo osservativoinduttivo-deduttivo. La sua fuzzytà strutturale, evidenziandone le caratteristiche di disciplina di confine, la rende simile ad un precipitato di percezioni organizzate che si depositano, solitamente, in una scrittura rappresentativa-evocativa, che incrementano la conoscenza principalmente per accumulo di "precipitati" e non per deduzioni (cfr. J.Goody, 1997). Ogni concetto in antropologia è questione di densità, e proprio la densità, soggettivamente-oggettivamente, stabilisce i confini dell'interesse contingente di quanto l'antropologo studia. Se è difficile parlare di un confine netto, che permetta, appunto di de-finire nettamente gli oggetti di studio dell'antropologia, la nozione di densità permette, senza contraddizioni, di mantenere in gioco oggetti e confini e molte di quelle dimensioni tanto care agli antropologi (spazio, tempo, etico, emico, ecc.), senza porsi il problema di stabilire, pena l'insuccesso conoscitivo, e la fondazione disciplinare, dove cominci e dove finisca (secondo quanto suggerito da Eububide) quanto di volta in volta è interesse di studio (famiglia, lingua, cultura, ecc.) (Cfr. L.Piasere, 2002). Possiamo allora intendere con U. Fabietti l'antropologia come un'esperienza pratica ed intellettuale con finalità conoscitive, che tenta di tra-durre dati ed esperienze asistematici e frammentari, e dove le dimensioni di tutti gli attanti sono complessamente, e non senza fatica, confuse, per ottenere dove è possibile una "serie di rappresentazioni, ipotesi e teorie più o meno ordinate…in un testo etnografico". Compito principale dell'antropologia è quello di esplicitare i significati (e la loro densità) che emergono come tali, generalmente in contesti di ricerca etnografica, ma non solo, nell'accordo che nasce tra attanti nel reciproco ideologico/dialogico processo-movimento di conoscenza. Sapere antropologico e scrittura etnografica sono inscindibilmente legati, pena la perdita del reciproco status. L'antropologia senza la scrittura, risulta essere un sapere "vuoto"; sarebbe, per dirla con le parole di Clifford Geertz, un'esperienza da cartolina. Anche se la scrittura dell'antropologo fa perdere inevitabilmente rappresentatività alle parole dell'altro, in ogni caso la sua scrittura non ha una semplice funzione mnemonica e traspositiva, ma essa è (seppure in tono minore) la riproposizione della sua esperienza sul campo dell'incontro con l'altro. Scrittura formale-referenziale e scrittura etnografica non sono sempre ed immediatamente sovrapponibili. BIBLIOGRAFIA Augè M., Genio del paganesimo, ed Bollati e Boringhieri, Torino, 2002. Duranti A., Antropologia del linguaggio, ed. Meltemi, Roma, 2000. Fabietti U., La scrittura etnografica, tratto da http://www.centroilse.it/Testi/Fabietti-4.htm Geertz C., Interpretazione di Culture, (Nuova traduzione Bologna 1998), ed. Il Mulino. Goody, J., Representations and Contradictions, Blackwell, Oxford, 1997. Kosko B., Il fuzzy pensiero. Teoria e applicazioni della logica fuzzy, ed. Baldini e Castoldi, Milano, 2002. Lacan J., A di là del principio di realtà, ed. Einaudi, Torino, 1974. Ong W. , Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, ed. Il Mulino, Bologna, 1986. Piasere L., L'etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia, Ed. Laterza, Roma-Bari, 2002. Platone, Fedro. Reale G., Storia della filosofia antica, vol I, ed. Vita e Pensiero, Milano, 1992. Stella S., Rossati A., Mondo interno e mondo esterno. Intersezioni e confini in psicologia dinamica, NIS, Roma, 1996. Tyler, S.A., L'etnografia post-moderna: dal documento dell'occulto al documento occulto, in Scrivere le culture di Clifford e Marcus, Meltemi, Roma, 1986/1997. 7 Uno sguardo al mondo classico La polis e la formazione del cittadino di Marzio Gatti spazio pubblico fino a completarlo nel corpo civico 5. Nelle Oscoforie in onore di Dioniso, i giovani sfilavano in processione portando rami di vite ricchi di grappoli ed indossando abiti femminili: l'abbigliamento rappresentava la realtà infantile, "femminile", che veniva abbandonata. Dello stesso tenore il rito officiato durante le Apaturie, nel quale i giovani, all'età di sedici anni, dopo che avevano assistito al giuramento del padre sulla loro legittimità, si tagliavano ciocche di capelli da consacrare ad Artemide, simboleggiando la presa di distanza da una condizione superata. Il bambino era sottoposto ad un percorso educativo, paideia, che lo vedeva impegnato già dai sette anni, età a partire dalla quale iniziava l'istruzione elementare 6 impartitagli da maestri privati, presso edifici collettivi destinati dalla polis ad uso scolastico. Ogni individuo che partecipava attivamente alla vita delle istituzioni democratiche - siano esse l'assemblea, il Consiglio dei cinquecento od i tribunali - doveva possedere una sufficiente conoscenza delle lettere. Veniva infatti richiesta ai cittadini che avevano ricoperto le magistrature, una volta terminato il mandato, una relazione scritta sul proprio operato e le cause del tribunale richiedevano la redazione di un fascicolo processuale, dal momento che, a differenza di altre società antiche, non esisteva un corpo di funzionari a cui demandare questa competenza. Il grammatistès sottoponeva all'attenzione degli allievi i grandi testi della tradizione culturale greca, dai quali uscivano "le grandi figure degli eroi, dei "palaioi andres," che "sono proposti all'imitazione e all'emulazione", in modo da permettere un processo mimetico7. A ciò si aggiungeva una preparazione musicale, impartita dal kitharistès , ritenuta fondamentale come mezzo per raggiungere un'armonia psichica ed indispensabile, insieme alla danza, nei momenti pubblici rappresentati dalle feste della polis. Non era trascurato neanche l'avviamento all'attività sportiva affidata al paidotribes e consistente nella corsa, nel lancio del giavellotto, nel salto in lungo, nella lotta e nel pugilato. Sono questi momenti funzionali all'attività militare, dal momento che il ruolo di oplita non richiedeva una conoscenza tecnica elevata ma requisiti fisici quali forza fisica ed agilità e, soprattutto, un forte senso morale. Raggiunta l'età di sedici anni, il ragazzo poteva frequentare un luogo peculiare della città, il ginnasio, alle cui attività partecipavano anche i cittadini adulti e liberi. Esso era stato istituito nel VI secolo ed aveva un ruolo culturale, oltre che militare: era infatti un luogo di conversazione, di socialità e di cultura. Era anche luogo di iniziazione erotica. Il rapporto omosessuale tra adulto (amante attivo) e fanciullo (amato passivo) aveva infatti come finalità la trasmissione dei valori della città da In questo articolo verranno analizzati alcuni momenti significativi e necessari, nei quali la città di Atene si caratterizzava come complesso educativo ed ideologico, in grado di svolgere quell'opera di formazione e conformazione pubblica del cittadino, in modo che tutti fossero partecipi dei medesimi valori morali, basati sul modello antropologico dominante maschile che costituiva l'asse portante della città. Questi momenti erano rappresentati dall'investitura del padre nel ruolo del capofamiglia, al quale la città delegava la funzione di selezione del corpo civico con il riconoscimento dei figli e l'importanza nelle scelte educative di questi, l'iter educativo al quale si dovevano sottoporre i giovani ateniesi per una piena integrazione nella città, dalla paideia all'istituto dell'efebia, la frequentazione di alcuni luoghi simbolici, ma anche la partecipazione agli agoni sportivi, a quelli teatrali ed alle feste religiose, al fine di interiorizzare il messaggio educativo. Si cercherà infine di evidenziare lo stretto legame tra l'essere cittadino e l'essere guerriero. Nella polis classica di Atene per esercitare il proprio dirittodovere di partecipare alla vita politica della città1 erano richieste: status sociale di cittadino, riservato solo a coloro che erano nati nella condizione di liberi2 , alfabetizzazione e preparazione ginnica e musicale. La cittadinanza si otteneva per diritto di sangue. La figura del capofamiglia svolgeva un ruolo determinante come primo passo d'ingresso nella polis, in quanto era a lui che si demandava il compito di riconoscere la legittimità del figlio ed il conseguente inserimento nel suo lignaggio. Tale inserimento avveniva attraverso un rituale di integrazione, le Anfidromie, che cadevano nei primi dieci giorni di vita del bambino. Il rituale vedeva il padre correre intorno al focolare, tenendo in braccio l'infante e così sancendo la sua integrazione nello spazio familiare. Al decimo giorno si operava un sacrificio e si organizzava un banchetto, durante il quale al bambino veniva imposto il nome. Una pratica opposta era quella dell'esposizione3, che comportava l'abbandono del bambino non riconosciuto in uno spazio esterno all'oikos4. Al terzo anno di vita, durante le Antesterie, feste in onore di Dioniso, i bambini potevano partecipare alla gara di bevuta, con l'assaggio del vino nuovo in un piccolo boccale. Si trattava di un gesto significativo, un momento che segnava il primo passo verso il mondo maschile degli adulti. Infatti, l'infanzia nella realtà greca era intesa come un periodo transitorio nel quale il bambino, privo di ragione, considerato alla pari della donna e dello schiavo, viveva nello spazio chiuso dell'oikos: solo attraverso i riti simbolici ed iniziatici, che accompagnavano le feste pubbliche ed i momenti educativi, iniziava un percorso graduale d'inserimento nello 8 parte dell'amante, che ricopriva il ruolo di modello e di maestro. Si trattava di una pratica propria del mondo greco, che prevedeva rituali di iniziazione omosessuale come forme di accesso allo statuto di adulto e di guerriero. L'omosessualità aveva un ruolo più formalizzato nelle città doriche 8 , dove era più radicato il culto della figura del guerriero. Il termine "ginnasio" deriva da "gymnos" che significa "nudo": l'addestramento avveniva infatti indossando quella sorta di uniforme costituita dalla nudità. Tale pratica è un'altra peculiarità tipicamente greca e diviene un elemento distintivo, di superiorità, nei confronti dei barbari, ossia dei popoli limitrofi. Ad introdurre questo uso furono per primi gli Spartani9 instaurando una vera e propria frattura con il mondo degli eroi omerici, che non lo praticavano. Nei poemi omerici l'individuo nudo è povero e vulnerabile e la nudità è segno d'infamia e di vergogna. A proposito di questa doppia rappresentazione della nudità, emblematico è l'episodio di Tersite tratto dall'Iliade 10. Nel II libro Tersite attacca verbalmente Agamennone, che viene rappresentato bello e forte, mentre Tersite viene descritto come "l'uomo più brutto", "camuso e zoppo d'un piede, le spalle eran torte, curve e rientranti sul petto; il cranio aguzzo in cima, e rado il pelo fioriva." (215-220). Le caratteristiche che vengono messe in evidenza hanno una connotazione negativa: brutto, pelato (il capello è segno distintivo) e gobbo (segno di maledizione divina). L'intervento di Odisseo lo riduce al silenzio e lo minaccia: "ti spoglio delle tue vesti, mantello e tunica, che le vergogne ti coprono" (260-265) e lo percuote. La nudità è intesa come segno di umiliazione: mostrare le parti sessuali è venire meno al decoro. Significativo è l'atteggiamento dell'assemblea "gli altri scoppiarono a ridere di cuore di lui" (270): il riso si associa alla bruttezza e all'infrazione del decoro. Vi sono dunque due atteggiamenti mentali diversi, che rimandano a due giudizi opposti: la vergogna della nudità e l'onore di esercitarsi nudi, segno distintivo e privilegiato del cittadino e rappresentazione estetica della virtù del coraggio. La nudità viene infatti associata all'omogeneità civica, all'egualitarismo dei cittadini. Mentre l'abbigliamento privato è simbolo della disuguaglianza e della ricchezza, la nudità diventa simbolo dell'interscambialità nella polis. Il colorito della pelle dell'uomo, segno dell'addestramento ginnico, si oppone, svalorizzandolo, al pallore che contraddistingue le donne chiuse all'interno dell'oikos. Tale pallore viene anche riferito al gruppo degli artigiani, i quali, come sostiene Senofonte nell'Economico (4.2), svolgono la loro attività all'interno della casa, divenendo vili e deboli, simili alle donne. La nudità, per coloro che sono esclusi dall'omogeneità politica, conserva la sua connotazione negativa. La nudità femminile, associata alla vergogna, resta un momento privato e non prevede un'estensione pubblica. L'educazione ginnica e quella musicale preparavano inoltre alle competizioni presenti nelle feste, che erano innumerevoli nel calendario civico. La partecipazione alla festività era parte integrante dello status di cittadino e rivestiva una rilevanza tale da interrompere, oltre alle attività lavorative, anche quelle politiche. La festa, che si poneva come momento di autocelebrazione della città, svolgeva un ruolo educativo ed aveva il compito di plasmare l'identità del cittadino. Le Panatenee in onore di Atena Poliade, dea tutelare della città, erano ritenute la festa per eccellenza. Venivano celebrate dal 27 al 30 di Ecatombe (primi giorni di agosto) e vedevano donare ad Atena un peplo11, portato solennemente in processione dalle zone periferiche della polis sino al tempio sull'acropoli. Tutta la comunità ateniese partecipava alla processione, quale simbolo della coesione politica, intonando canti che esaltavano i valori morali di cui era espressione la loro città. Di grande valenza culturale erano gli agoni musicali, ginnici ed ippici, che arricchivano la festa. I ricchi premi e la fama ottenuta nel primeggiare nei grandi agoni attiravano partecipanti da diverse zone della Grecia. Strettamente riservati ai cittadini ateniesi erano invece i piccoli agoni12, che si dividevano in lampadedromia, euandria, pirriche e regata. La lampadedromia, la corsa con le fiaccole, era contrassegnata da un grande valore simbolico. La corsa-staffetta, che precedeva la processione, vedeva gareggiare tra loro squadre di giovani delle dieci tribù attiche ed aveva come finalità l'accensione di un nuovo fuoco sacro sull'altare della dea Poliade: tale gesto rappresentava la continuazione della comunità, il suo perpetuarsi. Altra gara riservata strettamente ai giovani ateniesi era l'euandria, nella quale la competizione si basava esclusivamente sulla valutazione di elementi estetici: la statura e la prestanza fisica, ritenute qualità distintive dell'uomo ateniese. Un agone significativo era sicuramente la pirriche, una danza armata che aveva come protagonisti concorrenti provenienti dalle diverse tribù attiche e di età diversificata: fanciulli, adolescenti ed uomini. Significativo era soprattutto il suo valore rievocativo: la danza eseguita era infatti quella con la quale Atena aveva celebrato la vittoria sui Giganti. Infine si svolgeva la regata che vedeva come campo di gara le acque del Pireo e come concorrenti cittadini in rappresentanza delle tribù di appartenenza. L'aspetto fondamentale che emerge da questi agoni, fossero essi piccoli o grandi, è il fatto che la città stessa con il suo apparato politico ed educativo incentivava il confronto nella competizione, quale momento funzionale alla tipizzazione dell'uomo ideale. Era nel confronto che si manifestava l'arete, la superiorità, l'eccellenza, tanto nell'ambito ginnico-sportivo quanto in quello politico. Un altro dato rilevante è che ogni gara prevedeva, come gratificazione per il raggiungimento della vittoria, la fama ed un premio che poteva essere simbolico o materiale. Altro momento educativo era la rappresentazione teatrale. Il teatro era un altro edificio significativo. Si trattava di un luogo cruciale all'interno della dimensione politica della città, come mostra la remunerazione13 della partecipazione del cittadino. L'allestimento di uno spettacolo tragico era inoltre una importante liturgia ed il servizio era a carico dei cittadini più facoltosi. La disposizione dei cittadini riproduceva quella dei cittadini nell'Assemblea, secondo l'ordine delle tribù. La giuria che assegnava il premio era stabilita con il meccanismo politico del sorteggio. Il giudizio espresso era più etico che estetico. Prima della rappresentazione teatrale vi era la sfilata dei giovani, orfani di guerra, vestiti da opliti, e 9 l'esibizione del tributo versato dagli alleati ad Atene: erano questi momenti autocelebrativi della città. Anche il coro era visto come metafora della comunità, quale collettività. La polis era allo stesso tempo finanziatrice ed oggetto della riflessione compiuta dalle rappresentazioni. Le tematiche affrontate negli spettacoli riflettevano i nodi nevralgici dei problemi della comunità politica, costituendo pertanto un momento educativo. Il teatro svolgeva un'opera importante nel rafforzare la coesione del corpo civico, agendo sull'omologazione del singolo ai valori della città. Ultimo passo di avvicinamento verso lo status di adulto era rappresentato dall'istituto dell'efebia. Raggiunta l'età di diciotto anni, i giovani erano inseriti nelle liste compilate annualmente dai demi di appartenenza dei padri. La procedura costituzionale prevedeva che tali nominativi fossero sottoposti alla revisione della Boulè, che doveva verificare il reale diritto di cittadinanza e che abilitava l'individuo a svolgere per due anni il servizio militare 14 . Infatti solo i figli legittimi di cittadini, di qualunque condizione sociale, erano obbligati a sottoporsi all'addestramento militare, delle cui spese si faceva carico la città. I giovani idonei apprendevano l'uso delle armi oplitiche basilari per la battaglia, del tiro con l'arco, del lancio del giavellotto e della catapulta, da maestri eletti dall'assemblea. Nella festa di Artemide Agrotera, i ragazzi svolgevano una parte attiva partecipando alla processione che aveva come meta il santuario di Aglauro, nel quale giuravano fedeltà alla patria, alla difesa dei suoi confini e delle sue istituzioni. Terminato il giuramento, i giovani si avviavano verso il Pireo e qui svolgevano servizio di guardia. Nel secondo anno si presentavano di fronte all'assemblea a dare dimostrazione di quanto avevano appreso, ricevendo lo scudo e la lancia che rappresentavano i simboli del passaggio all'età adulta e l'immissione nella falange degli opliti. Questo, insieme all'istituzione del matrimonio, era considerato un momento fondamentale dell'aggregazione completa al corpo civico. Vi era quindi una stretta connessione tra la funzione militare e l'essere cittadino: la funzione guerriera era parte integrante della posizione che quest'ultimo ricopriva. Protagonista dell'attività militare era l'hoplites, il fante, il cui armamento era costituito da gambali, elmo e corazza di bronzo e da uno scudo circolare, hoplon, che copriva l'avambraccio sinistro permettendo al braccio destro di maneggiare la lancia. La sua posizione sul campo di battaglia era all'interno della falange, che si disponeva su più file, permettendo la protezione del fianco destro, ed affrontando frontalmente il nemico. Ciò che veniva richiesto durante il combattimento all'oplita, differenziandolo dall'eroe omerico in cui prevaleva il thymos15 , era la sophrosyne, il sentimento di solidarietà ed autocontrollo che vietava gli eccessi di virtù eroica e di viltà, esecrabili e dannosi, in quanto mettevano in pericolo l'esito positivo della battaglia e la vita del proprio compagno. Per inculcare tale atteggiamento psicologico, che non poteva certo essere trasmesso attraverso un percorso di tecnica militare, era quindi necessaria un'attività educativa costante e capillare, in grado di plasmare il bambino secondo gli scopi della comunità. L'immissione nella falange degli opliti insieme all'istituzione del matrimonio, era considerato un momento fondamentale dell'aggregazione completa al corpo civico. Inoltre la costruzione della polis , come ambito di razionalità che produceva l'omogeneità del corpo civico maschile, prevedeva l'esclusione della donna e ne metteva in luce l'immaturità psicologica. La ragione, logos, costituisce una delle prerogative essenziali del cittadino ed è assunta come l'elemento caratteristico e distintivo che seleziona i greci dai barbari. L'ampia gamma di significati che può avere il termine "logos" - parola, discorso, pensiero, razionalità - mostra come prerogative del cittadino, polites, la capacità di comunicare e di utilizzare le facoltà razionali, elementi che esercita nello spazio della città. La ragione diviene il coefficiente che regola l'accesso al potere. Questo modello di organizzazione della polis, in cui la gerarchizzazione ha come discriminante la maggiore o minore efficienza dell'elemento deliberativo, troverà una sistemazione teorica nel I libro della Politica di Aristotele. L'adulto cittadino pienamente razionale è abilitato al potere, mentre sono esclusi, per carenza di razionalità, gli schiavi, le donne e bambini. Lo schiavo "non possiede in tutta la sua pienezza la parte deliberativa" (13, 1260 a) "partecipa di ragione in quanto può apprenderla, ma non averla" (5, 1254 b) perché il corpo prevale sulla ragione. Il bambino "la possiede ma non sviluppata" (13, 1260 a) e, quindi, la sua natura lo legittima all'obbedienza. La donna, moglie di un cittadino, ha la razionalità, ma "senza autorità" (13, 1260 a) e deve obbedire, in quanto, sopraffatta dalle emozioni e dalle passioni, non è in grado di interiorizzare la legge. E' quindi naturalmente caratterizzata da una forma inconcludente di razionalità. La conformità della società al progetto di razionalità doveva produrre l'eunomia, il buon ordine realizzato dalla legge. 10 NOTE 1 Si veda in proposito S. Campese- S. Gastaldi, Immagini e pratiche educative della città antica, "Quaderni della fondazione G. Feltrinelli", 23, 1983, p. 15. 2 Per la trasmissione della cittadinanza ai figli, che avveniva iure sanguinis, l'elemento determinante era il padre fosse ateniese. Con il decreto di Pericle nel 451-450 a.C., il diritto venne limitato ai figli di genitori che godevano entrambi della cittadinanza. Si veda E. Cantarella, L'ambiguo malanno, Roma 1981, p 78. 3 In riferimento alla pratica dell'esposizione dei neonati ed alla sua funzione politico sociale, si veda E. Cantarella, L'ambiguo malanno, Roma 1981, pp.66-67; G. Cambiano, Diventare uomo, in J. P. Vernant (a cura di), L'uomo greco, Bari-Roma 1974, pp 87-88-89. 4 Il termine ha tre aree di significato: l'abitazione, la famiglia e la proprietà. Infatti con oikos si intende ciò che è di pertinenza della casa, che è contemporaneamente un luogo affettivo e patrimoniale. La funzione primaria della casa era quella di unità produttiva. In questo senso il termine viene esteso alla casa, al terreno, ai depositi, alle capanne, ai pastori ed alle bestie. Insomma a tutto ciò che fa parte della produzione. In questo caso il significato viene inteso comprendere tutta la proprietà che appartiene al domestico, attività agricola ed allevamento. L'oikos designa l'infrastruttura di proprietà che è sottesa alla dimensione politica 5 Si veda G. Cambiano, Diventare uomo, in J. P. Vernant (a cura di), L'uomo greco, Bari-Roma 1974, pp. 101-102. 6 Su questa problematica si veda M.Vegetti, La città educa gli uomini: polis classica e formazione del cittadino, in E. Becchi (a cura), Storia dell'educazione, Firenze 1987, p. 40; S. Campese-S. Gastaldi, Immagini e pratiche educative della città antica, "Quaderni della fondazione G. Feltrinelli", 23, 1983, pp. 14-15. Per un quadro completo dell'educazione nell'antichità H. I. Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità (1950), tr. it. Roma 1971. 7 Si veda in proposito S. Gastaldi, Paideia/mythologia, in M. Vegetti (a cura di), Traduzione e commento della Repubblica di Platone, libri II-III, Pavia 1995, pp, 339-340. 8 Il rituale cretese prevedeva il rapimento del ragazzo da parte dell'amante solo dopo che questi, informati gli amici del giovane tre giorni prima del ratto, riceveva il loro consenso. Quindi, accompagnato dagli amici del prescelto, lo portava fuori città in campagna e per due mesi si dedicavano alla caccia ed ai banchetti. Questa prima tappa segnava un periodo di segregazione dai compagni e di separazione dalla comunità, terminato il quale, ricevuta in dono un'armatura, avveniva il ritorno in città, che segnava l'acquisizione di un ruolo sociale diverso: quello dell'adulto e guerriero. A Sparta i momenti che segnano una forte separazione tra la comunità maschile e quella femminile, come le mense in comune, i sissizi, e la pratica di dormire insieme, erano ritenuti essenziali per l'interiorizzazione, da parte dei giovani, dei valori trasmessi dalla frequentazione e dai rapporti omoerotici con gli adulti. Si veda a proposito G. Cambiano, Diventare uomo, in J.P. Vernant, L'uomo greco, Bari-Roma 1974 p 100. 9 Si veda S. Campese, Nudità, in Vegetti M. (a cura di), Repubblica. Traduzione e commento, vol. IV, libro V, Napoli 2000, pp. 197207. 10 I passi sono tratti da Omero, Iliade, tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Milano 1977. 11 Alla consegna del peplo, atto che chiudeva la processione venivano officiati due sacrifici diversi per carattere: quello presso l'Eretteo e la grande Ecatombe. Al primo i soli magistrati politici, religiosi e militari potevano partecipare alla liturgia ed alla spartizione della carne delle bestie sacrificate, mentre agli altri venivano distribuiti i resti, espressione di un momento non pubblico ma che richiamava i caratteri e le gerarchizzazioni arcaiche. Il secondo sacrificio, la grande Ecatombe, riveste un carattere fortemente partecipativo e pubblico. Veniva officiato sul grande altare di fronte al Partenone in uno spazio aperto e, con la distribuzione delle carni per sorteggio, veniva affermata l'omogeneità del corpo civico e, con il banchetto a conclusione del rito, veniva espressa la sua coesione comunitaria. Si veda S. Campese - S. Gastaldi, Festa ed educazione del cittadino, in E. Becchi (a cura di), Storia dell'educazione, Firenze 1987, pp.106-146, in particolare p. 132. 12 Erano composti dalla corsa dello stadio, dal pentathlon, dalla lotta, dal pugilato, dal pancrazio e dalla corsa con i cavalli. 13 Il fondo del theorikon era la cassa per pagare il biglietto del teatro. 14 Per quanto riguarda l'efebia ateniese e al confronto con Sparta e Creta si veda G. Cambiano, Diventare uomo, in J.P. Vernant (a cura di), L'uomo greco, Bari-Roma 1974, pp. 87-119; O. Murray, La città greca, Torino 1993, pp.132-134. 15 La figura dell'eroe omerico era contraddistinta dai valori culturali associati al modello etico-comportamentale del combattimento, portato ad assumere significato fine a se stesso: individualismo ed autoaffermazione al fine della gloria. L'ira, caratteristica del guerriero aristocratico, era il primo impulso che lo spingeva a gettarsi nella mischia ed era strettamente legato all'onore personale. 11 BIBLIOGRAFIA Aristotele, La Politica, traduzione a cura di R. Laurenti, Bari 1966, pp.17, 42. Ehrenreich B., Riti di sangue, Milano 1998 Barker E., Greek Political Theory (1918), London 1970, pp. 252-62. Cambiano G., Diventare uomo, in J. P. Vernant (a cura di), L'uomo greco, Bari-Roma 1974, pp. 101-102. Campese S. - Gastaldi S., Immagini e pratiche educative della città antica, "Quaderni della fondazione G. Feltrinelli, 23, 1983. Campese S., Nudità, in Vegetti M. (a cura di), Repubblica. Traduzione e commento, vol. IV, libro V, Napoli 2000, pp. 197-207. Campese S., La cittadina impossibile. La donna nell'Atene dei filosofi, Palermo 1997, p. 127-128 Campese S. - Gastaldi S., Festa ed educazione del cittadino, in E. Becchi (a cura di), Storia dell'educazione, Firenze 1987, pp.106146, in particolare p. 132. Cantarella E., L'ambiguo malanno, Roma 1981, p 78. G. De Sanctis, Storia dei Greci, Firenze 1975, vol. I. G. De Sanctis, Storia dei Greci, vol. II pp 186-188. Finley M.I., L'economia degli antichi e dei moderni, tr. it. Bari, Laterza, 1974, p. 190 Garlan Y., L'uomo e la guerra, in J. P. Vernant (a cura di), L'uomo greco, Bari-Roma 1974, pp 55-86. Gastaldi S., Paideia/mythologia, in M. Vegetti ( a cura di ), Repubblica. Traduzione e commento, libri II-III, Napoli 1998, pp, 339-340. Gastaldi S., Storia del pensiero politico antico, Roma-Bari 1998. Marrou H. I., Storia dell'educazione nell'antichità (1950), tr. it. Roma 1971. Murray O., La città greca, Torino 1993, pp. 75-82; Sissa G., La famiglia nella città greca, in AA.VV., Storia universale della famiglia (1986), tr. it. Milano 1987, vol. I, pp. 165-196. Vegetti M., Il dominio e la legge, in AA.VV., L'ideologia della città, Napoli 1977, p. 31 Vegetti M., La città educa gli uomini: polis classica e formazione del cittadino, in E. Becchi (a cura di), Storia dell'educazione, Firenze 1987. Vegetti M., L'etica degli antichi, Roma-Bari 1989. Vegetti M., Polis e economia nella Grecia antica, Bologna 1976. Vegetti M., Repubblica. Traduzione e commento, vol. II, libri II-III, Pavia 1995. Vegetti M., Repubblica. Traduzione e commento, vol. III, libri IV, Pavia. Vegetti M., Repubblica. Traduzione e commento, vol. IV, libri V, Pavia. Vernant J.P., Hestia-Hermes. Sull'espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci, contenuti in J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, 1965, tr. it. Torino 1970, pp. 85-127. pp. 141-165. Vernant J.P., Spazio ed organizzazione politica nella Grecia antica, contenuti in J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, 1965, tr. it. Torino 1970, pp. 141-165. 12 Arte, Religione e Medicina: il ruolo terapeutico e soteriologico dell'alterità presente di Michele Parodi L'arte esiste universalmente, anche al di fuori dei nostri confini culturali? Per superare questa domanda (che a me pare insolubile e labirintica) propongo la definizione semiotica di testo estetico, quale insieme di strumenti concettuali in grado di connettere tra loro diversi discorsi. Ciò ci permetterà di costruire un oggetto di riflessione, "produttivo" e "aperto", capace di evidenziare alcuni tratti comuni che percorrono trasversalmente l'arte, la religione e la medicina, mostrando l'essenziale ambiguità, autoriflessività, creatività costitutiva di tali pratiche e il loro fondamentale valore simbolico, terapeutico e soteriologico1. Francis Bacon Study of a nude, 1952-3 1. Il testo estetico Secondo Eco2 il testo estetico implica una manipolazione dell'espressione che provoca un riassestamento del contenuto e quindi produce un mutamento di codice3. Rappresenta un reticolo di atti comunicativi che mirano a sollecitare risposte originali. In definitiva il testo estetico si pone come asserto metasemiotico. Da ciò deriva sia l'aspetto poietico del testo estetico sia il suo carattere ambiguo. Il mutamento di codice che propone implica, infatti, un processo interpretativo che cerca di riorganizzare ciò che inizialmente appare irriconoscibile e straniante. La violazione del codice obbliga a riconsiderare le regole che lo definiscono, trasformando il testo estetico in un testo autoriflessivo4. Infatti il destinatario, mentre avverte un mutamento nella forma del contenuto, è invitato a ritornare al messaggio stesso, come entità fisica, per osservare le alterazioni della forma dell'espressione. Le nostre attese sono tradite e ciò induce a cercare nuovi percorsi di senso, nel tentativo di superare la situazione di improbabilità che l'opera esibisce rispetto ai codici soggiacenti. E' chiaro che questo processo dinamico avviene continuamente in ogni fenomeno interpretativo. Ma il testo 13 estetico sembra opporre una resistenza maggiore che aumenta la durata e la difficoltà della percezione. Si verifica una dilatazione del tempo, una violazione del ritmo percettivo in un ritmo che non è più prevedibile. Il testo estetico si può allora pensare come "procedimento ostacolo", come "trappola per lo sguardo" capace di attivare l'attenzione. La disposizione delle forme (forme deformanti) e dei simboli, guida l'occhio attraverso percorsi paradigmatici e sintagmatici, segni mutevoli che s'intrecciano all'interno della cornice, nella trama del testo. La dinamica cognitiva multisensoriale che sostiene la percezione, attivando processi interpretativi multipli, rende semioticamente rilevanti le microstrutture che compongono il continuum della materia 5 e che il codice nel lavoro di segmentazione non aveva considerato. Diventano così significanti anche le sfumature tonali, l'intensità dei colori, le sensazioni tattili e sonore, la superficie materica e, nel caso del testo letterario, le forme dell'intreccio narrativo, le ricorrenze tematiche, le strutture temporali. Elementi i cui effetti anche l'autore non sa ciò che produrranno, ma che "pre-vede" lavorando come se esistesse un'effettiva correlazione segnica tra essi e un significato ancora da scoprire. Ma qualcosa di più accade nell'esperienza estetica attraverso la sensazione. Nella sensazione si annulla lo spazio teatrale che l'opposizione soggetto/oggetto presuppone: l'Io diviene problematico. L'oggetto diventa l'oggetto nella sua formazione, evento, vibrazione, modulazione, risonanza, materialità energetica in movimento. Si attua così una forma di empirismo dove l'esperienza estetica si dà come esercizio trascendentale 6. Una forma di illuminazione, di estasi contemplativa prodotta dall'intensità cognitiva di fenomeni interpretativi in atto. Seguendo le indicazioni di Benjamin possiamo allora dire che il valore estetico, la bellezza, si rivela veramente solo nel suo svanire, come apparenza che si spegne. La bellezza raggiunge il suo massimo di luminosità nel suo tramontare7 . Infatti, nel momento esatto in cui il senso delle sue forme è colto, l'esperienza estetica, in quanto intensità interpretativa in atto, s'interrompe, svanisce8 . Ciò che rimane è solo una vaga sensazione, la nostalgia e il ricordo del suo apparire seducente che però fugge l'intelletto. La bellezza, come già in Platone, è dunque forza mediatrice, il frutto elusivo di un processo erotico. Proviamo però ora a cambiare scenario. La nudità degli indigeni, tutti gli attributi negativi di cui sono fatti oggetto (nudi, senza legge, senza morale, senza proprietà, senza regni e senza re...) non rappresentano differenze, ma piuttosto il nascondimento di un'identità mancante, un nulla semantico, negazione astratta di un'assenza. Una differenza spingerebbe a parlare, a descrivere, a proseguire un discorso testimone di una continuità; l'esitare indecidibile segna invece una frattura, una rottura di piani. 2. L'alterità presente Venerdì 12 Ottobre. (..). Alle due dopo la mezzanotte apparve la terra dalla quale erano lontani due leghe circa. Ammainarono tutte le vele (..) e si misero in panna, temporeggiando fino al nuovo giorno, venerdì9 . Nella sua distanza assoluta l'alterità, in quanto sorgente primordiale del senso, superficie oscura e insondabile del fluido e caotico continuum originario, diviene luogo di emersione del sacro, luogo creativo dove il mondo venendo alla luce prende o riprende forma. Il primo sguardo di Colombo sulle Americhe converge sull'altro senza sostegno referenziale. L'altro emerge come dal nulla, nel sorgere del nuovo giorno. La descrizione della scoperta si compie allora attraverso l'uso di una prolusione di indici qualitativi, privi però di alcuna efficacia semantica. Si percepisce una frattura tra il voler dire e il poter dire. E' un nuovo tipo di lingua. Il linguaggio arriva ai suoi confini, ai limiti del silenzio e del panico. Ecco così lo sbalordimento, la meraviglia, il piacere, la figura superlativa o, all'opposto, il disgusto, l'orrore: I pesci di qui sono talmente diversi dai nostri che ci si resta sbalorditi. Ce ne sono alcuni che si direbbero dipinti coi più bei colori del mondo. Domenica 21 Ottobre. (..). C'è una tale moltitudine di uccelli, grandi, piccoli, e così diversi dai nostri, il che desta meraviglia. E gli alberi mandano tutti un tale buon odore che fa davvero piacere (..)10 . Nell'interruzione della possibilità di paragonare si può soltanto contemplare, scrutare. Le parole non riescono a rendere la ricchezza di una natura ancora "irreale". La lingua non possiede più significanti efficaci. Si vaga in uno spazio dove non si può dire tutto ciò che si vede. La lingua diventa allora oculare. Ma la vista stessa si confonde, delira. Si vede dove non c'è nulla da vedere e non si vede ciò che c'è da vedere. Henri Rousseau il Doganiere: L'incantatrice di serpenti, 1907 Domenica 16 dicembre. (..) gli alberi erano così belli da vedere che il loro fogliame sembrava essere non più verde e che si avvicinasse quasi al nero, per il suo rigoglio…11 L'altro diventa nel contempo reale e trascendente, empirico e universale. Così come i cristiani sono parsi divini agli indiani, nello stesso modo, ma in un convincimento inconfessabile, gli indiani sono sentiti come sacri 13. Ed ecco infine l'acme, l'ammissione stessa della propria impotenza: Sacri poiché mediatori di uno spazio ancora deserto, troppo remoto perché si possa stabilirne il contorno. Il tempo della scoperta assume allora una durata profetica, diventando tempo dell'annunzio, della promessa, del presagio14. Sabato 5 gennaio: (..). Tutto questo è così perfettamente bello…che non credeva di poterne riferire pur la millesima parte 12. Come di fronte ad un quadro astratto, le espressioni che descrivono la bellezza e il colore divengono operatori enigmatici, simbolo di una perfezione che non trova parole. La lingua si caratterizza allora come atto compulsivo e performativo, dire "era orribile", "era bellissimo" è importante per se stesso come evento ma non dice nulla di ciò che si percepisce. In questo senso possiamo porre quindi l'analogia tra esperienza estetica e alterità presente 15. Si comprende così il panico, l'orrore, o l'estasi, che si manifesta nel contatto contaminante con ciò che si oppone all'uomo finito come trascendenza assoluta. Ripartiamo dunque da qui. 14 sottrae, possibilità che non presuppone ma che si costituisce in desiderio, attesa, prospettiva messianica di salvezza. Si lasciano allora dei vuoti con la speranza che possa essere la redenzione dal male, la guarigione, il successo a colmarli e colonizzarli nuovamente. In tale possibilità inespressa può prendere forma un futuro di prosperità, salute, felicità (sia che si incarni in una vita terrena o in un al di la ultramondano), una risposta alle domande universali sulla natura della sofferenza, della morte, dell'ingiustizia; oppure a domande anche più elementari e dirette sulle cause della sventura: "perché io?", "perché a me e non a lui?". Ma anche nel processo di riassorbimento di questi vuoti ci si lascia sempre una porta aperta, un non spiegato che costituisce un potenziale creativo, una risorsa disponibile per comprendere e curare l'alterità presente. Hans Holbein Il corpo di Cristo deposto nella tomba, 1521 3. Il valore soteriologico dell'esperienza estetica Secondo Lowie nell'arte religiosa si osserva un occultamento, un suggerire piuttosto che un rappresentare esplicito; un illustrare in modo oscuro ed enigmatico ciò che potrebbe essere mostrato più facilmente. Nel porre la questione della relazione tra arte e religione, Lowie fa riferimento alle sue ricerche etnografiche tra gli indiani Crow. 4. La malattia come crisi della presenza Sfruttando le analisi fenomenologiche di Alfred Schutz possiamo descrivere le esperienze di malattia grave, di lutto o di altre situazioni estreme, come momenti critici in cui avviene un mutamento dei presupposti che fondano "l'atteggiamento naturale" dell'individuo con il proprio Sé, il proprio corpo e con il mondo esterno 21 . Questo mutamento passa attraverso una fase liminare di crisi, che utilizzando la terminologia di De Martino possiamo anche chiamare "crisi della presenza", crisi dell'esserci, cioè della possibilità di "dare orizzonte formale al patire, [di] oggettivarlo in una forma particolare di coerenza culturale"22. Secondo Schutz, nell'atteggiamento naturale è in opera una specifica epoché, che non consiste nella husserliana sospensione del giudizio, ma invece nel sospendere il dubbio sull'esistenza di un mondo della vita condiviso: "l'atteggiamento naturale di ogni giorno, io accetto come "scontati" a) l'esistenza corporea degli altri uomini, b) che questi corpi sono dotati di coscienza che è, per principio, simile alla mia, c) che le cose del mondo esterno sono, nel mio ambiente e in quello dei miei contemporanei, le stesse e hanno, per noi, fondamentalmente, lo stesso significato; d) che io posso entrare in rapporto reciproco, con i miei contemporanei, e di reciproca influenza; e) che io posso intendermi con loro (...)".23 Nelle loro pitture secolari (..) gli Indiani della Prateria sono capaci di rappresentazioni vivide di gesta militari: ora il proprietario è raffigurato mentre si porta via un branco dei cavalli del nemico, ora mentre colpisce un avversario con una lancia piumata (..). Tuttavia nell'arte religiosa di queste tribù, avventure che pure sono facilmente padroneggiabili dall'abilità dell'artista nativo, non vengono riprodotte ma solo suggerite16 . Su uno scudo sacro un combattimento a fuoco è simbolizzato allora solo con una serie di linee, le traiettorie dei proiettili; attraverso cioè una modalità ermetica. Come suggerisce Boas, citato da Lowie, la "sacralità dell'idea rappresentata può indurre l'artista a oscurarne intenzionalmente il senso allo scopo di proteggere il significato del disegno da occhi profani"17. Ma questa spiegazione troppo semplice non sembra convincere. Per quanto detto nel primo paragrafo il testo estetico è sempre concepibile come "arte religiosa", ha cioè sempre dei legami col sacro e con la liminarità. L'estetico e il religioso si configurano quindi come esperienze essenzialmente simili. Invece le rappresentazioni naturalistiche appartengono ad un altro ordine dell'espressività, più vicino alle scienze strumentali, delineandosi come trasmissione, ricezione d'informazioni utili per determinati scopi. L'esperienza estetica, anche se presente, non è qui cruciale. Cerchiamo ora di comprendere le funzioni dell'ermeticità nel testo estetico-religioso. Se, come già detto, l'ambiguità come ostacolo cognitivo è la fonte stessa delle forme percettive dell'esperienza e della sensibilità estetica (che si manifesta come tensione abduttiva 18, come "orgasmo interpretativo"19, l'apertura e il carattere di indeterminatezza inscritto in essa acquista anche un valore soteriologico e divinatorio20. Infatti, è proprio il carattere virtuale del testo estetico a costituirlo come stimolo d'interpretazioni immaginarie che lo trascendono. L'estetico, se da un lato si presenta come vuoto, assenza, negatività, dall'altro appare come complessità strutturale che resiste all'analisi ma che non vi si Nell'atteggiamento naturale l'Io si rapporta alle cose secondo un orientamento all'azione che implica un organizzarsi della vita quotidiana per "ordini di realtà": ..mondi reali quando vi si partecipa, vi si è per così dire immersi, che scompaiono con lo spostamento dell'attenzione del soggetto nella direzione di un'altra "presa" sulla realtà, o "immersione" in essa. E' quindi la modalità dell'orientamento (all'azione) che configura il rapporto del soggetto con la realtà.24 La realtà si articola dunque in "realtà multiple", ambiti di senso chiusi caratterizzati da uno specifico stile cognitivo, una specifica tensione della coscienza, a loro volta organizzati nei tratti caratteristici di: 1) una specifica forma di attenzione alla vita, 2) una specifica epoché, 3) uno specifico ordine di rilevanza, 4) una 15 specifica forma di socialità, 5) una specifica prospettiva temporale. La malattia grave (ad esempio la malattia cronica) si configura, a questo punto, come l'irrompere di un'esperienza "strana", non riconducibile a nessuna delle risorse disponibili, che spinge il sofferente a revocare la "fede" nella realtà del mondo "così com'è". Ciò che emerge è qualcosa di totalmente estraneo, un demone, un mostro che erompe in varie parti del corpo e quindi invade anche il mondo esterno. Il dolore diventa un tutto, un'esperienza totalizzante. interessi che prima organizzavano la vita di ogni giorno non hanno più alcuna rilevanza. Il tempo stesso assume un senso diverso, sembra dilatarsi. Il tempo interiore si amplifica, non corrisponde più al tempo esteriore e questo sfasamento fa perdere al tempo il proprio potere organizzativo. Di fronte a questa trasformazione spaventosa del proprio Sé, del proprio corpo, il malato, come direbbe De Martino, ingaggia una lotta drammatica per continuare ad esistere: il tentativo angoscioso di riaffermare una presenza di fronte al rischio di non esserci. Se il primo emergere della malattia si mostra come liminarità, come incontro con un'alterità spaesante, il resto del percorso di cura e di guarigione si costituisce invece come terapia simbolica, come rito di aggregazione27. 5. Narrare la malattia come esperienza estetica Come si è detto, l'esigenza più urgente del sofferente consiste nel cercare di ridare senso ad un mondo che la malattia continuamente mette in discussione. Ma di tale atteggiamento il sofferente non è l'unico soggetto. Anche i suoi familiari, i medici e le istituzioni a cui egli si affida sono impegnati attivamente in questo sforzo. Infatti, la sua anomia, il suo non esserci completamente, intacca anche l'esserci delle persone a lui vicine, mentre la sua devianza si pone come problema anche per la società. La malattia consiste quindi in una specie di lutto "anticipato" a cui corrisponde una specie di "crisi del cordoglio". Così, nel dare senso alla malattia, più voci interagiscono dialogicamente, ostacolandosi o collaborando, a seconda dei casi, secondo le relazioni di potere che ognuno incarna nel suo ruolo posizionale all'interno della rete dei correlati dell'afflitto. Francis Bacon - Head VI, 1949 Ho perso la mia vita (..) Non avrei mai scelto di ammalarmi a 25 anni (..) e all'improvviso tutto ti viene strappato via, come amputato dalla tua vita. 25 A volte, se dovessi visualizzarlo, è come se là ci fosse ah,… un demone, un mostro, qualcosa di orribile nascosto che squassa l'interno del mio corpo (..) io lo contengo, o cerco di contenerlo, dimodoché nessuno possa vederlo, e nessun altro possa esserne turbato (..) Ho come la sensazione che mi stia succedendo qualcosa di molto, molto terribile, che non riesco a controllare.26 Come l'alterità presente, il dolore acuto resiste al linguaggio esprimendosi nel pianto, nel grido, oppure in un silenzio quasi autistico, in un'apatia che manifesta una passività radicale, uno stato di anomia in cui ogni slancio della volontà sembra essere privo di una progettualità coerente. Se normalmente il Sé, come autore delle proprie attività, è considerato indiviso dal proprio corpo, nel sorgere della malattia il corpo progressivamente viene sentito come alieno, è investito da un'autonomia minacciosa che lo trasforma in un corpo nemico. Allo stesso tempo il mondo vasto e raggiungibile che ci circonda nella vita normale, nella percezione del sofferente è risucchiato via, non è più credibile e ciò che rimane è solo un mondo chiuso, ristretto, claustrofobico, un altro mondo. Il resto dell'umanità diventa estraneo alla sua esperienza, incapace di comprendere quello che egli realmente prova. Il dolore, per l'afflitto certezza assoluta, per gli altri è oscuro, impenetrabile. Nella malattia cronica ci si sente allora tagliati fuori. Il lavoro, il successo, gli Egon Schiele - Amanti, 1913 La malattia viene allora continuamente evocata, si cerca di colmare il vuoto di senso da essa generato imbrigliandola in una rete di simboli e di pratiche, cercando di localizzarla in una parte del corpo, di situarla nel tempo; gli si assegnano nomi e origini. 16 Questo percorso si compie principalmente attraverso le narrazioni della malattia. Ma ciò che si dice è sempre parte di una trama incompleta, essenzialmente indeterminata, provvisoria. La trama aperta di un testo virtuale, dinamico, errante, stratificato, ambiguo, cioè, secondo la definizione proposta nel primo paragrafo, di un testo estetico. Inoltre la narrazione, nel suo essere frammentata, multipla, "eteroglossa"28 , incerta e performativa, svolge anche delle performance che mette in scena nel tessuto sociale del sofferente. Da una parte la storia narrata dialogicamente si emancipa ben presto dal suo contesto discorsivo; i suoi effetti sfuggono all'autore (o agli autori) e in tale processo di "entestualizzazione"29 creano una realtà, naturalizzano la malattia (o meglio la incorporano culturalmente). La malattia diventa una sintesi di più voci, un dramma corale stratificato in una molteplicità di prospettive socialmente distribuite; essa, oggettivandosi, diventa anche luogo di discussione e di lotta, aggregazione in una trama comune di una molteplicità di visioni dialogicamente o conflittualmente interconnesse. Diventa il luogo dove l'individuale, il sociale e il politico si manifestano contemporaneamente.30 D'altra parte la similitudine tra estetico e religioso si riflette nella narrazione. Se la sofferenza rifiuta di oggettivarsi, di darsi un nome e un luogo, tale resistenza a manifestarsi può essere vinta con i mezzi simbolici dell'arte e della religione. La malattia diventa magica, ineffabile, creatura stratificata che si riproduce ermeneuticamente, afferrabile solo con logiche in grado di gestire la sua ambiguità, i suoi vuoti. Ed è proprio nelle lacune della sua rappresentazione che, come già osservato, si realizza la funzione soteriologica del testo estetico e quindi il valore essenzialmente terapeutico del narrare. La forma di narrazione così concepita, come protonarrazione in atto creata situazionalmente, non regge solo i racconti, ma il processo sociale stesso, il quale progredisce da una rottura nello stato presente verso una crisi e una riparazione. Per V. Turner i resoconti narrativi, insieme ai rituali, o anzi essendo essi stessi rituali, si organizzano in relazione alle contraddizioni strutturate nella società, ma anche in relazione all' "indeterminatezza assoluta" che emerge nei momenti di crisi, nell'impatto con ciò che abbiamo chiamato "alterità presente"31. La narrazione, come "forma simbolica", non solo rappresenta la malattia e il processo di guarigione ma costruisce entrambi come sintesi parziali di una configurazione estratta da una successione di ricordi, di percezioni corporee, di desideri e speranze che inglobano passato, presente e futuro; sintesi che si sviluppa appunto nell'interazione continua tra memoria e attesa, le tracce del tempo segnate nel corpo-mente32 e nel sociale. che esiste tra le narrazioni della malattia e il processo di costruzione della medesima, diventa dunque uno strumento metodologico fondamentale per l'antropologica medica. Se da un lato certifica la presenza dell'antropologo sul campo, l'essere stati là, osservatori partecipanti delle vicissitudini interpretative, coinvolti attivamente nella costruzione dei racconti medesimi che verranno inclusi nel testo etnografico, dall'altro, in quanto rappresentazione della narrazione provvisoria di un incontro, costituisce un'ermeneutica della vulnerabilità che mina l'autorità del ricercatore distribuendola polifonicamente su tutti i soggetti implicati33. Questo risultato - importante di per sé, nel mettere in crisi il modello ideologico di una pratica etnografica fondata sull'autorità di un'unica figura "affidabile", l'etnografo professionista, legittimante la scrittura della classica monografia etnografica - nel contesto dell'antropologia medica acquista anche un altro significato cruciale. Infatti l'esperienza di malattia e i fenomeni di espressività corporea ad essa associati sono spesso sintomi "ribelli", "anarchici", destabilizzanti, caotici, indici di un Francis Bacon - Portrait of Michel Leiris 35, 1976 malessere che non sempre trova soluzioni nel contesto sociale e culturale in cui si manifesta; indizi, in alcuni casi, di una vitalità disordinata che resiste al dominio che la vorrebbe silente, rituali di resistenza, forme di sabotaggio che agiscono secondo tattiche somatiche 34. 6. Scrivere storie narrate: una via dialogica al problema dell'autorità etnografica in antropologia medica La rappresentazione delle storie narrate, data la stretta dipendenza 17 Mentre allora un'antropologia sistematica, che cerca di organizzare i suoi dati in una configurazione stabile e coerente, finisce per ridurre ed annullare la critica culturale, sociale, politica, potenzialmente sovversiva, inscritta nella malattia, replicando in tal modo l'ideologia conservatrice delle opere dei primi antropologi-etnografi impegnati nell'antropologia medica36, un'antropologia dialogica e riflessiva non risolvendo le questioni, ma conservandole appunto dialogicamente, non cancella i sintomi37 , ma li agisce diventando catalizzatore capace di mostrarne il potere e le possibilità generative. Ma anche questa strategia etnografica, come ci fa vedere James Clifford non è priva di rischi in quanto le testualizzazioni dei racconti restano comunque delle rappresentazioni del dialogo, rappresentazioni controllate univocamente dall'autore. 38 Le soluzioni proposte da Clifford sono varie: 1) estendere le citazioni lasciando loro una sufficiente ampiezza in modo che l'etnografia sia letteralmente invasa dalla eteroglossia; 2) condividere con gli informatori lo status di autori creando testi realmente polifonici, basati su una collaborazione non coercitiva ma stimolata dai diversi interessi in gioco; 3) disseminare il testo etnografico di dati grezzi, dettagli apparentemente insignificanti, creando così un testo aperto, pieno di vuoti, di connessioni mancate, di questioni solo accennate e irrisolte suscettibili di successive reinterpretazioni.39 Ai fini del nostro discorso l'importante, al di là degli strumenti utilizzati, è riuscire a conservare nel testo etnografico il valore poietico della malattia nel suo emergere dal corpo, nel suo trascendere il mondo che essa stessa contribuisce a dissolvere; riuscire a custodire il valore creativo dell'alterità radicale che nella malattia si manifesta come speranza di vita, apertura di possibilità, utopia. L'obiettivo implicito è allora quello di praticare un'antropologia capace di costituirsi come parte integrante del processo di cura e di guarigione. 40 Infatti, se le narrazioni non rappresentano ma creano gli oggetti di cui parlano, anche la scrittura etnografica, per essere "fedele" all'intenzione che le ha suscitate e sfuggire al paradigma, sempre latente, che concepisce la cultura come dispositivo referenziale, deve assumere essa stessa un ruolo esplicitamente performativo, ricostituirsi come performance, come testo estetico che suscita delle forze, le forze ad esempio della guarigione di cui parla, e ciò attraverso un'empatia che non si limita al coinvolgimento nelle negoziazioni più o meno conflittuali dell'etnografia sul campo 41 , ma che s'inscrive nei testi prodotti come empatia testuale 42. Ed è allora proprio in questo atteggiamento, in questa "espèce de déclaration de foi dans la vie"43, che l'arte, ponendosi al di là del ri-conoscimento, indica alla filosofia (e all'antropologia) la via dell'abbandono della rappresentazione44. NOTE 1 Soteriologia: Dottrina religiosa basata sulla fede nella possibilità della redenzione; sapere impegnato a sviluppare i mezzi e le tecniche d'ascesi necessari a pervenire alla salvezza spirituale dell'uomo. Scienza dell'eterna salute. Composto, dal greco, di soterìa "salvezza" e -logia. Cfr. F. Sabatini - V. Coletti, Dizionario Italiano Sabatini Coletti, Giunti, Firenze, 1997; N. Zingarelli, Vocabolario della lingua Italiana, IX ed. 1965. 2 Cfr. U. Eco, Trattato di semiotica generale, edizioni Bompiani, Milano, XII ed. 1991 [I ed. 1975], cap. 3.7. Vedi anche U. Eco, Opera Aperta, Bompiani, Milano, 1993 [1962], pp. 291-306 3 Un insieme di correlazioni (o funzioni segniche) che connette elementi del piano dell'espressione (significanti) con elementi del piano del contenuto (significati). Cfr. ad esempio Eco 1991, op.cit. 4 La formulazione del carattere ambiguo e autoriflessivo del linguaggio poetico è dovuta ai formalisti russi e ai fondatori del circolo linguistico di Praga. In particolare a Jakobson (R. Jakobson, Linguistica e poetica, 1958). 5 Il continuum indifferenziato dell'espressione che precede la sua segmentazione in occorrenze (sostanze), inscrizione, di un materiale amorfo originario, in posizioni (forme) all'interno di un sistema strutturato di natura posizionale e opposizionale. Cfr. Eco 1991, op. cit., L. Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino, 1968 [1943]. 6 Cfr. Paolo Gambazzi, Pensiero pittura. A proposito del "Bacon" di Deleuze, in "aut aut", 277-278, 1997 pp. 93-125; pp. 100, 101; vedi anche M. A. Bonfantini, La semiosi e l'abduzione, edizioni Bompiani, Milano, 1987. In quest'ultimo testo si propone un'interpretazione del trascendentale kantiano quale apparato precategoriale di facoltà interpretative: "la facoltà semiosico-cognitiva, come capacità di dare senso all'esperienza (..); la facoltà progettuale del desiderio; la facoltà produttivo-trasformativa della prassi"(p. 32). Il trascendentale, secondo questa prospettiva, si pone nell'esperienza e nella percezione, non come già dato in partenza, ma come frutto dinamico di un'interazione. In questo senso, tale punto di vista, ricorda gli studi di epistemologia genetica di Piaget, in cui gli schemi cognitivi del bambino si sviluppano progressivamente seguendo una successione di fasi evolutive. Ma se per Piaget tali schemi ad un certo punto si irrigidiscono in forme compiute, le facoltà interpretative, di cui sopra, si caratterizzano, invece, per una dinamicità che non si riduce mai a schema. 7 Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, II ed. 1975 [1963], pp. 3-10. 8 Ciò che svanisce è "il procedimento ostacolo", ciò che rende effettivamente desiderabile l'oggetto del desiderio, ciò che rende tale oggetto oscuro e vuoto, generando il desiderio stesso indipendentemente dal suo fine. Cfr. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi Edizioni, Milano, 1983 [1978], Libro Terzo: Psicologia interindividuale. 9 Cristoforo Colombo, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle indie (1492-1493), in Gabriele De Rosa, Storia medioevale, Minerva Italica, III ed. 1982, p. 310. Corsivo nostro. 18 10 Cristoforo Colombo, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle indie (1492-1493), in F. Affergan, Esotismo e alterità, Ugo Mursia Editore, Milano, 1991 [1987], pp. 60, 61. Corsivi nostri. 11 Ibid., p. 61. Corsivi nostri. 12 Ibid., p. 61. Corsivi nostri. 13 Affergan 1991, op. cit., p. 68. 14 Cfr. Affergan 1991, op. cit., p. 67-68. In questa direzione potrebbero essere indagati i culti del cargo dell'oceania e anche i vari esotismi occidentali. Vedi P. Worsley, Les mouvements millénaristes de Mélanésie, The Rhodes-Livingston Journal 21, 1957, pp. 1831; E. Messina, Muse d'oltremare. Esotismo e primitivismo dell'arte contemporanea, Einaudi, Torino, 1993. 15 Anche l'alterità, come la bellezza (cfr. par. 1), sembra dissolversi nelle mani che cercano di afferrarla. Nel ricondurre l'alterità alla differenza essa si trasforma, incorporando lo sguardo che la illumina. E' qui in gioco un principio di indeterminazione, ciò che già Levy-Strauss aveva colto con geniale precisione al ritorno dai suoi primi viaggi, ma che forse egli non aveva saputo superare, rimanendo intrappolato nella nostalgia di una purezza paradossale: "Ed ecco davanti a me il cerchio chiuso (..). In fin dei conti sono prigioniero di un'alternativa: o viaggiatore antico, messo di fronte a un prodigioso spettacolo di cui quasi tutto gli sfuggiva (..) o viaggiatore moderno, in cerca di vestigia di una realtà scomparsa (..). Da tempo paralizzato da questo dilemma, mi sembra tuttavia che il liquido torbido cominci a decantare…" (C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1988 [1955], pp. 5051). 16 R. H. Lowie, Primitive Religion, New York, 1948, 2a ed. (1a ed. 1924) pp. 259-276, in Estetica e Antropologia, a cura di G. Carchia, 1980, pp. 98-110; cit. p. 100. 17 Ibid., p.102. 18 Peirce distingue tre forme di inferenza: 1) l'abduzione, il suo primo momento di assunzione o premessa, quale mossa inferenziale in cui l'ipotesi esplicativa congetturata non è sullo stesso piano dei fenomeni che deve spiegare; 2) la deduzione, il suo secondo momento di analisi o "mediazione esplicitativa" (M. A. Bonfantini 1987, op. cit., p. 45) del contenuto delle premesse, quale inferenza di conseguenze logiche che esprimono il risultato necessario dell'applicazione di una regola ad un caso; 3) l'induzione, il suo terzo momento, come generalizzazione di ipotesi e casi di ugual tipo. 19 U. Eco 1991, op. cit., p. 330. 20 Divinazione: Interpretazione di fenomeni naturali, di casuali combinazioni di elementi, di sogni ecc.; predizione, profezia, presagio. Cfr. Dizionario Italiano Sabatini Coletti, 1997, op. cit. 21 Cfr. B. J. Good, Narrare la malattia, Edizioni di Comunità, Torino, 1999 [1994], cap. 5. 22 De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Boringhieri, Torino, 1975 [1958], p. 15 23 A. Schutz, Th. Luckmann, Strukturen der Lebenswelt, 1979 [rielaborazione di Luckmann dei taccuini compilati da Schutz durante il 1958] , citazione riportata in: Mauro Protti, Alfred Schutz. Fondamenti di una sociologia fenomenologica, Ed. Unicopli/Cuesp, Milano, 1995, p. 170. 24 Mauro Protti 1995, op. cit. p. 172. 25 Ivo Quaranta, Costruzione e negoziazione sociale di una sindrome, AM Rivista della Società italiana di antropologia medica / 7-8, ottobre 1999, pp. 129-172; citazione di un'intervista dell'autore ad un afflitto da CFS (Chronic fatigue syndrome), p. 144. 26 B. J. Good 1999, op. cit.; citazione di un'intervista dell'autore ad un afflitto da dolore cronico, p. 185. 27 Secondo la terminologia di Van Gennep un rito post-liminare. 28 Termine proposto da Michail Bachtin nell'analisi dei romanzi di Dostoevskij, ove ne rileva il carattere "polifonico" e "dialogico". La nozione di "eteroglossia" prevede che differenti linguaggi non si escludano l'un l'altro ma piuttosto si intersechino vicendevolmente. 29 Termine dovuto a Ricoeur, citato da B. J. Good 1999, op. cit., p. 251. 30 E' interessante notare qui l'omologia (l'identità strutturale) tra i tratti che caratterizzano il testo estetico narrativo e quelli che contraddistinguono i sintomi di emersione della malattia nell'espressività del corpo. Entrambe le tipologie di forme sembrano inscrivere in sé una propria biografia fenomenologica fatta di rapporti sociali esistenzialmente vissuti, di una storia politica di conflitti e negoziazioni. Ciò che li accomuna è anche il carattere imprevedibile, provvisorio, incerto, caotico, situazionale, dinamico, creativo, stratificato, incompleto del loro manifestarsi. Tanto che alla fine sorge il dubbio che il corpo non sia che la sostanza materiale, il supporto biologico, corporeo, del cui appiglio non ci si riesce a separare. Un corpo mistico, ultimo baluardo soteriologico prima dell'abisso, del nulla dell'essere, del pre-linguistico, pre-categoriale, dell'indicibile, di cui invece la parola del narrare ci parla, anche se non è l'essere ciò di cui predica. Il corpo in questo senso assume lo stesso significato della cosa in sé di Kant. Ma come la cosa in sé, anche il corpo non sfugge allora al linguaggio, essendo già l'effetto del linguaggio, del limite che il Sé pone fuori di sé come proprio altro. Il corpo nascondendoci l'abisso ci nasconde la visione oscura del vuoto che ci fonda, l'orrore, l'orrore del cuore di tenebra che affiora ogni volta che un'alterità presente contamina le illusioni in cui crediamo più ciecamente. 31 Vedi ad esempio, di V. Turner, Il processo rituale (1966); La foresta dei simboli (1967). 32 Il body-self teorizzato da N. Scheper-Hughes; si veda ad esempio N. Scheper-Hughes, Il sapere incorporato: pensare con il corpo attraverso una antropologia medica critica, in R. Borofsky (a cura di), L'antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma, 2000 [1994]. 19 33 E' chiaro qui il riferimento a J. Clifford, in particolare al primo capitolo, Sull'autorità etnografica, nel volume J. Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino, I ed. 1993 [1988]. Sul carattere "autobiografico" e "biografico" della ricerca sul campo, quale working fiction, in cui antropologo e informatori sono reciprocamente coinvolti nella formulazione d'interpretazioni originali della propria cultura, vedi R. Malighetti, Dal punto di vista dell'antropologo. L'etnografia del lavoro antropologico, in U. Fabietti (a cura di), Etnografia e culture, Carocci, Roma, 1998, pp. 211-214. 34 Vedi N. Scheper-Hughes 1994, op. cit. e I. Quaranta 1999, (op. cit.). Se il corpo si manifesta come emersione dell'inconscio, dell'automatico (pensiamo ad esempio, nel campo dell'arte, al così detto automatismo psichico dell'Action Painting, all'arte dell'impulso e del caso di Pollock, di De Kooning, ecc.), e quindi anche delle forme incorporate del potere, tali manifestazioni, nel momento in cui diventano sintomi stranianti di un'umanità repressa e occultata, deutomatizzando il linguaggio svelano le ideologie che lo informano, trasfigurando così l'egemonia in ideologia e quindi capovolgendola in contro-ideologia. Cfr. ad esempio, J. Camaroff, Body of Power, Spirit of Resistance: the Culture History of a South African People, University of Chicago Press, 1985. Sul ruolo delle abilità tecniche incorporate, nel campo delle arti plastiche, vedi invece G. Bateson, Stile, grazia e informazione nell'arte primitiva, 1967, in G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1988[1972], pp. 160-192. 35 Di Leiris possiamo qui ricordare l'amicizia con Francis Bacon sul quale scrisse diversi lavori di critica dell'arte: Francis Bacon ou la vérité criante, 1974; Francis Bacon, 1987; Bacon le hors-la-loi, 1989. Riguardo a Leiris etnografo rinviamo invece alla nota seguente. 36 Ad esempio Frazer (1911-1915), Rivers (1924), Evans-Pritchard (1937), ecc. 37 Da un punto di vista epistemologico, i sintomi "irriducibili" della malattia rappresentano la presenza fuggitiva di un elemento estraneo ai modelli esplicativi disponibili al momento del loro emergere. In quanto non spiegabili tali sintomi risultano, teoricamente, dei prodotti che nonostante la propria presenza non possono venir visti. Questo invisibile si manifesta allora come lapsus, come mancanza, come sintomo anche teorico. Il discorso che abbiamo fin qui condotto, riguardo alla narrazione come testo in fieri, il cui senso sorge appunto in un'assenza, in un vuoto che presuppone la possibilità virtuale di essere riempito, trasposto nei termini di un'epistemologia delle pratiche teoriche, si può allora mettere in relazione alla lettura "sintomale" di Althusser, nell'ambito della quale il lettore, scoprendo ciò che si cela nel testo che ha di fronte, contemporaneamente lo correla a un altro testo presente come assenza necessaria nel primo (cfr. S. Tagliagambe, L'epistemologia contemporanea, Editori Riuniti, Roma, 1991); il secondo essendo il frutto dei silenzi, delle carenze concettuali, dei vuoti di rigore della formazione strutturale che lo ospita. 38 Cfr. J. Clifford 1993, op. cit.; per un'analisi dei limiti dell'etnografia post-moderna vedi anche R. Malighetti, 1998, op. cit., pp. 202205. 39 Un testo pioniere di queste strategie etnografiche, è L'afrique fantome di Leiris: "un diario di viaggio nel quale sono annotati alla rinfusa eventi, osservazioni, sentimenti, sogni, idee" (dalla prefazione di Leiris alla prima edizione di L'afrique fantome, in J. Clifford 1993, op. cit., p. 197). Leiris scrive appunti su se stesso, "su un'incerta esistenza", compilando i suoi taccuini durante la missione etnografica Dakar-Gibuti, organizzata da Griaule nel 1930. Possiamo notare però, che, in L'afrique fantome, l'ispirazione ad una totale autenticità e trasparenza, trascurando di mettere al centro dell'attività etnografica le proprie competenze analitiche disciplinari, finisce per non prendere in considerazione le modificazioni dei propri modelli concettuali. Per una rassegna di più recenti scritti etnografici sperimentali vedi Clifford e Marcus, Writing Cultures: The Poetics and Politics of Ethnography, Berkeley, 1986. 40 E' chiaro che qui per guarigione non si intende la neutralizzazione, narcotizzazione di sintomi medicalizzati, calmati, sedati, soppressi, né l'adattamento ad un ordine solo ritualmente negato (ad esempio nei riti di inversione, di travestimento,…). Vedi anche N. Scheper-Hughes 1994, op. cit. 41 Qui il termine empatia non va inteso come immedesimazione, ma come com-passione, condivisione di una stessa tensione vitale. Vi è qui una responsabilità particolare che significa riavvicinarsi al potenziale, alla situazione come potenza d'incontro. Sul tema della responsabilità cfr. F. Zourbabichvili, Deleuze e il possibile (sul non volontarismo in politica), in "aut aut", 276, 1996, pp. 79-87. 42 Queste osservazioni mi sembrano valide, non solo per gli studi antropologici che riguardano l'antropologia medica, ma anche per l'antropologia dell'arte, l'etnoestetica o l'antropologia delle religioni, le cui analisi non sempre riescono ad inscrivere e ad esprimere, nei testi che producono, il valore creativo e soteriologico delle realtà che indagano. Tali osservazioni riguardano infine anche le istituzioni accademiche che, nelle loro pratiche, dovrebbero essere in grado di sviluppare nuovi campi di possibilità, operando nel reale, piuttosto che parlando del reale. Sarebbe interessante, a questo punto, sviluppare un discorso più ampio che, interpretando le istituzioni come testi letterari o poetici (qui il riferimento è chiaramente geerziano..), porga ad esse il problema del modo con cui inscrivere, all'interno delle proprie strutture formali, delle lacune, degli spazi aperti non chiaramente definiti. Questo, del resto, è uno dei problemi cruciali, che continuamente anche le istituzioni democratiche pongono a se stesse (senza mai essere in grado di risolverlo compiutamente), vivendo le contraddizioni delle loro pratiche effettive. Probabilmente, l'esempio più appropriato, delle potenzialità inscritte nella dialogicità caotica, che affrontare tale problema impone, è la palabre dei villaggi africani (cfr. E. E. Evans-Pritchard, I Nuer: un'anarchia ordinata, Franco Angeli, Milano, 1991 [1940]; vedi anche S. Latouche, La sfida di Minerva, razionalità e ragione mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 2000 [1999], pp. 31-45). 43 G. Deleuze, Francis Bacon. Logique de le sensation, 1981, in P. Gambazzi 1997, op. cit., p. 118. 44 Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, il Mulino, Bologna, 1971 [1968]. 20 Frazer il Selvaggio Un percorso tra le Note sul "Ramo d'Oro" di Wittgenstein di Lorenzo D'Angelo Nel 1930 Wittgenstein chiese al suo amico Drury di procurargli una copia de "Il Ramo d'Oro" di Frazer e di leggergliela ad alta voce. Secondo quanto riferisce lo stesso Drury, la sua lettura di quest'opera non andò oltre il primo volume a causa dei continui interventi critici di Wittgenstein. Sta di fatto che, il 19 giugno 1931, il filosofo austriaco prese carta e penna per scrivere la prima delle sue note: "Io credo che ora sarebbe giusto cominciare il mio libro con alcune osservazioni sulla metafisica considerata come un tipo di magia". Wittgenstein, in realtà, non scriverà mai quel libro ma, delle 771 pagine dattiloscritte e variamente composite di riflessioni sugli argomenti più disparati, una decina di fogli venne in seguito pubblicata da Rhees nella rivista Synthese (1967). In quelle pagine sono contenute le osservazioni degli anni trenta e gli appunti del 1948 che Wittgenstein avrebbe desiderato inserire nella sua copia del Ramo d'Oro. L'edizione italiana dell'Adelphi intitolata "Note sul "Ramo d'Oro" di Frazer" fa riferimento a questa raccolta1. "Il modo in cui Frazer rappresenta le concezioni magiche e religiose è insoddisfacente perché le fa apparire come errori" (p.17). Così comincia, idealmente, l'attacco critico sferrato da Wittgenstein ad uno dei più famosi antropologi inglesi del suo tempo: James George Frazer. Wittgenstein legge The Golden Bough (1911-1915, 3aed.) in un periodo cruciale del suo percorso intellettuale. Sono gli anni, quelli tra il 1930 e il 1933, in cui il filosofo - tornato a Cambridge per occuparsi di filosofia - prende le distanze dal suo Tractatus logico-philosophicus ed elabora un nuovo metodo per fare filosofia. L'idea che il linguaggio possa rispecchiare la struttura logica della realtà e la verità, di conseguenza, debba essere concepita in termini puramente referenziali, non sembra convincerlo più. Il confronto con gli esponenti del Circolo di Vienna, che avevano fatto del Tractatus il loro manifesto, non fa che accentuare il senso di distacco intellettuale da quest'opera "giovanile". Così, mentre un neopositivista come Carnap auspicava il superamento della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio e liquidava come insensate tutte quelle proposizioni che non fossero empiriche o logico-matematiche, Wittgenstein da parte sua affermava, invece, di comprendere molto bene quel che certi filosofi intendono con termini come essere, angoscia 2 ... termini che non hanno una denotazione empirica immediatamente riconoscibile. Ecco, allora, che la prima nota di questi appunti, presi in parte nel 1931 e in parte nel 1948, è già una ricerca che risente di quel clima intellettuale e delle tensioni che animano il filosofo viennese: "Per convincere qualcuno della verità non basta constatare la verità, occorre invece trovare la via dall'errore alla verità" (p. 17). La verità non la si scopre. La verità è la ricerca stessa. Lasciamo però in sospeso per un momento questo problema che ci porterebbe ad affrontare prematuramente la questione del metodo e affrontiamo invece, la problematica che sembra 21 essere centrale, almeno in questa prima parte delle Note. E' appropriato riferirsi ad una pratica o ad un comportamento magico come ad un errore della ragione, così come sostiene Frazer nella sua opera più celebre? Frazer, lo ricordiamo, coerentemente con il paradigma evoluzionista (di cui è uno dei massimi esponenti), attribuisce alla magia un ruolo e un posto ben preciso nello sviluppo storico del pensiero umano: essa rappresenta uno stadio precursore della scienza e del pensiero razionale. In questa prospettiva, la magia esprime una conoscenza falsa della natura. Più precisamente, ad essere errate, sono le opinioni e le credenze che la sorreggono e non tanto i processi cognitivi che permettono agli uomini di agire coerentemente con le loro idee (per il principio di unità psichica del genere umano questi processi sarebbero gli stessi per tutti). Se è vero ciò che afferma Frazer, ci aspetteremmo però che tutta la vita dei "selvaggi" sia contrassegnata dall'errore e non solo quella porzione che (noi) riconosciamo essere propriamente magica. In altri termini, se assumiamo che il "selvaggio" si comporta in maniera coerente con le sue credenze implicite quando trafigge l'immagine del nemico pensando di recargli un danno, ci domandiamo come sia possibile, allora, che questo stesso "selvaggio", in altre circostanze, non commetta l'errore di mettere sullo stesso piano ontologico l'immagine e J. Frazer 1854/1941 ciò che essa rappresenta: "Il medesimo selvaggio che trafigge l'immagine del nemico, apparentemente per ucciderlo, costruisce realmente la propria capanna di legno e fabbrica frecce letali, non in effige". (p. 22) precedenza matura nel nostro filosofo l'idea che anche il linguaggio non scientifico possa essere sensato, purché non si riduca la "sensatezza" alla sola possibilità di raffigurare gli stati di cose del mondo. Come nota acutamente Sobrero, non è un caso che Wittgenstein, diversamente dal testo frazeriano, associa la parola "magia" alla parola "religione". Entrambe, magia e religione, si rifanno alle stesse illusioni e paure. Nella magia c'è inoltre un sentimento religioso che Frazer, prigioniero del suo "perbenismo", non può riconoscere, pena la confusione della religione moderna con la magia antica, del "civilizzato" con il "primitivo" (Sobrero, 1999). Del resto, si potrebbe ancora obiettare a Frazer, così come fa Wittgenstein in una delle note iniziali, non capita anche ad un innamorato dell'evoluta società inglese di inizio novecento di "baciare l'immagine dell'amata? Questo naturalmente non poggia su una credenza in un determinato effetto sulla persona rappresentata. Tende ad una soddisfazione e la raggiunge pure..." (p. 21). Sotto questa luce ecco che il primitivo di Frazer non appare più tanto distante da un "evoluto" intellettuale tardovittoriano. Anzi, tra l'ironia e il disprezzo intellettuale, Wittgenstein arriva ad affermare senza mezzi termini che: "...Agostino era in errore quando in ogni pagina delle Confessioni invoca Dio? Ma - si può dire - se non errava Agostino, errava però il santo buddista, o qualunque altro, la cui religione esprimesse concezioni affatto diverse. Nessuno di essi invece sbagliava, se non quando enunciava una teoria" (p. 17-18). "Frazer è molto più selvaggio della maggioranza dei suoi selvaggi, perché questi non potranno essere così distanti dalla comprensione di un fatto spirituale quanto lo è un inglese del ventesimo secolo. Le sue spiegazioni delle usanze primitive sono molto più rozze del senso di quelle usanze stesse" (p. 28). Per Wittgenstein vi sono esperienze e distinzioni che noi come gli altri dobbiamo saper fare per poterci riparare, nutrire... in una parola, per sopravvivere. Tra un "selvaggio" e un'inglese la differenza di conoscenze è molto meno marcata di quanto possa apparire ad una sommaria rassegna di fatti che solo superficialmente possono sembrare bizzarri ed esotici. E, infatti, "se [i "selvaggi"] mettessero per iscritto la loro conoscenza della natura, essa non si distinguerebbe in modo fondamentale dalla nostra. Solo la loro magia è diversa" (p. 37). Considerato sotto un'altra prospettiva l'atteggiamento di Frazer verso la magia è criticabile in quanto ci preclude la comprensione di quella dimensione profonda delle cose che la spiegazione scientifica - inevitabilmente - trascura nel momento stesso in cui ha la pretesa di essere esaustiva, quando ha la pretesa di dire, insomma, l'indicibile. Per comprendere il senso di tale questione bisogna ricordare le proposizioni del Tractatus dedicate al tema del "Mistico". Senza entrare nel dettaglio (per cui si rimanda alle innumerevoli introduzioni dedicate al pensiero del filosofo austriaco) in quest'opera troviamo due coppie di contrapposti che sono di nostro interesse: la contrapposizione tra filosofia e scienza e quella tra dire e mostrare. In sintesi, secondo il Tractatus, la filosofia non è una dottrina bensì un'attività che mostra i limiti stessi del dicibile e dunque della scienza. Tutto ciò che non è esprimibile in modo chiaro ed esaustivo attraverso un linguaggio rigoroso confluisce nel territorio del silenzio mistico ("Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere"). Tra il dicibile e l'indicibile il confine è netto, l'uno è campo della scienza, l'altro della filosofia. Il Tractatus segnala quindi un limite. Il rispetto che Wittgenstein nutre per la magia, così come per la religione, nasce proprio dalla consapevolezza di quei limiti evidenziati nella sua prima opera. Una spiegazione scientifica non può sostituire una "spiegazione" magico-religiosa perché è "insensata", o meglio, non dà un senso capace di esprimere, ad esempio, le inquietudini della vita. Come si accennava anche in 22 E' chiaro che, mentre il riduzionismo evoluzionista di Frazer spiega le procedure e i comportamenti magici alla luce del sapere scientifico del suo tempo e li fa apparire come errori, la tesi che Wittgenstein sostiene è che possiamo parlare di errore solo laddove vi siano opinioni, credenze, teorie, in altri termini, solo laddove abbiamo a che fare con una conoscenza (Piana, 2001). Frazer crede invece di poter spiegare certi rituali supponendo l'esistenza di opinioni o credenze che il "primitivo" assume tacitamente. Ma, quelli descritti da Frazer sono innanzitutto esempi di comportamenti, azioni che non è necessario far derivare da un'errata credenza o teoria implicita così come non attribuiamo a qualcuno che colpisce la terra con il bastone quando è arrabbiato "la credenza che la colpa sia della terra o che colpirla possa servire a qualcosa" (p. 34). Va sottolineato che con ciò Wittgenstein non intende negare l'esistenza di quelle credenze che ruotano intorno ai rituali, così come non nega ad esempio la superstizione, semmai, ciò che egli rifiuta è l'idea che questi stessi rituali possano essere spiegati ri(con)ducendoli nei termini di opinioni o di (errate) concezioni delle cose (p. 26-27). E' nella natura della pratica scientifica ricercare concatenazioni causali che abbiano un valore esplicativo dei fenomeni considerati. Ma sappiamo anche che la scienza muove da ipotesi. Accade allora che Frazer, nel tentativo di applicare un modello di spiegazione scientifica che esplori l'origine stessa dei rituali, finisca con il presupporre quel legame tra le cose e gli eventi (passati e presenti) che dovrebbe invece "spiegare". E' nell'origine storica, insomma, che l'autore del Ramo d'Oro cerca la profondità delle cose e lo fa, appunto, attraverso spiegazioni storico-ipotetiche. "Quando Frazer, all'inizio, ci racconta la storia del re della foresta di Nemi, lo fa con un tono che indica che qui avviene qualcosa di strano e terribile. Ma alla domanda "perché questo avviene?" si risponde è poi così: perché è terribile. Vale a dire che proprio ciò che in questo evento ci pare terribile, enorme, pauroso, tragico, ecc., tutto tranne che banale e insignificante, proprio questo ha dato origine all'evento". (p. 19) una rappresentazione perspicua "designa la nostra forma di rappresentazione, il modo in cui vediamo le cose" (p. 29) e che l'antropologo può ottenerle cercando di rendere "visibili le connessioni", ossia, mostrando le relazioni di somiglianza di una qualche usanza praticata da una società con pratiche culturali e comportamenti della sua cultura, quel che emerge è una prospettiva incentrata sul versante del "Noi" (contrapposto ad un "Loro"). Siamo Noi a mettere ordine ai fatti cercando uno dei possibili modi di vederli che permetta di renderli significativi; e siamo ancora Noi ad ottenere una serie di analogie e differenze concatenate a partire da una somiglianza con la Nostra cultura. Come ci ricorda la Andronico, questo "Noi" non si identifica con una soggettività empirica (questa o quella società specifica) e nemmeno con una soggettività trascendentale. "Il Noi di Wittgenstein sembra piuttosto rinviare alla soggettività dell'analisi filosofica: una soggettività aperta, che si costituisce nell'accordo che via via incontra o suscita tra gli interlocutori" (Andronico, 1997). Wittgenstein sembra qui porre le basi per superare quella concezione della verità e dei rapporti tra linguaggio e realtà a cui è in un qualche modo legata l'antropologia evoluzionista di Frazer. L'attacco a Frazer è un attacco mediato ad una concezione della verità di tipo referenziale, quella stessa concezione che il Tractatus sosteneva esplicitamente. Il cerchio su Frazer si stringe sempre più ma, nel contempo, si apre una nuova prospettiva, un nuovo modo di intendere le cose e i rapporti con e tra di esse. Dunque, perché, si domanda Wittgenstein nella seconda parte delle Note, ci sono riti che, ancora oggi, possiamo comprendere o addirittura rievocare partecipandovi con una "sinistra" inquietudine? La Festa di Beltane, ad esempio, simbolizza l'atto di bruciare un uomo sorteggiato tra i presenti. Per come Frazer ci presenta i fatti si potrebbe dire che abbiamo a che fare con una sopravvivenza di un rito antico nel quale un uomo veniva bruciato veramente. Questo nesso storico per Frazer spiegherebbe il fatto che lo spettatore moderno possa rimanere particolarmente impressionato da questa usanza. Detto in altri termini, la violenza evocata dal ricordo dell'immagine originaria proietterebbe la sua ombra cupa e carica di irrazionalità direttamente sul presente disturbando così la nostra sensibilità moderna ed evoluta. Wittgenstein ribalta la prospettiva: "Siamo noi che proiettiamo questa luce sinistra da un'esperienza nell'intimo di noi stessi" (p. 45) e proprio per questo possiamo comprenderla e sentirla persino familiare. Ciò che qui è in gioco non è tanto il pericolo di proiettare sull'Altro dimensioni ad esso sconosciute distorcendone così la comprensione. Ad essere in gioco è la modalità di un approccio che vada effettivamente nella direzione dell'altro. A questo proposito non è un caso che quel che Wittgenstein rimprovera di più a Frazer è di mancare di immaginazione: "Quale ristrettezza della vita dello spirito in Frazer! Quindi: quale impossibilità di comprendere una vita diversa da quella inglese "La spiegazione storica, la spiegazione come del suo tempo! ipotesi di sviluppo è solo un modo di raccogliere L. Wittgenstein 1889 / 1951 Frazer non è in grado di immaginarsi un i dati - della loro sinossi. E' ugualmente possibile sacerdote che in fondo non sia un pastore inglese del nostro vedere i dati nella loro relazione reciproca e riassumerli in una tempo, con tutta la sua stupidità e insipidezza" (p. 23). immagine generale che non abbia la forma di un'ipotesi sullo Comprendere forme di vita differenti dalla propria è innanzitutto sviluppo cronologico" (p. 28). uno sforzo di immaginazione. Infatti, l'immaginare concetti, giochi o forme di vita differenti consente di ripensare, a partire da E' solo dal raffronto continuo di somiglianze e differenze che può un serrato confronto, i propri concetti o le regole dei giochi scaturire una qualche comprensione dell'altro. L'importanza di linguistici usati solitamente e spesso inconsapevolmente. Se trovare quelli che il filosofo viennese definisce "anelli l'antropologo non è in grado di immaginare forme di vita intermedi" consiste proprio nel "richiamare l'attenzione sulla differenti dalla propria e di liberarsi dai propri pregiudizi correrà somiglianza, sul nesso tra i fatti" (p. 29). Si costruiscono così sempre il rischio di non comprendere veramente i possibili modi catene d'esempi legati l'uno all'altro come i fili intrecciati di una di essere nel mondo alternativi al proprio e cadrà facilmente nella corda; per vedere connessioni illuminanti; istituire analogie che trappola etnocentrica, così come capita a Frazer. "[affinino] il nostro occhio a cogliere la natura metamorfica del Nessuna immedesimazione e nessuna proiezione sostengono la reale" (Fabbrichesi-Leo, 1997); per vedere le stesse cose sotto comprensione dell'altro: quel che si può fare è descrivere. A tal altri aspetti e scoprirne così di nuovi. In questo consiste il metodo proposito le Note sono alle volte talmente lapidarie da risultare, di Wittgenstein. per certi versi, fuorvianti ("Qui si può solo descrivere, così è la vita umana"). Tuttavia, è chiaro che, per Wittgenstein, descrivere non significa accostare semplicemente delle rappresentazioni "fedeli ai fatti" come se questi possano avere un senso di per sé. Il metodo che Wittgenstein propone è un "metodo descrittivo" che ha lo scopo di produrre rappresentazioni perspicue. Chiarito che 23 NOTE 1 2 L'edizione a cui si riferiscono le pagine delle citazioni è: Note sul "Ramo d'Oro" di Frazer, Milano, Adelphi, 1975. Il riferimento esplicito è ad Heidegger (v. Marconi, 1997). BIBLIOGRAFIA Andronico, M. (1997), Giochi linguistici e forme di vita, in Marconi, D. (a cura di), Wittgenstein, Laterza, Bari, 1997, p. 241-289. Fabbrichesi Leo, R. (2000), Vedere connessioni, descrivere forme di vita, illustrare esempi. Wittgenstein legge Frazer, in: Sini, C. (a cura di), Terra e storia. Itinerari del pensiero contemporaneo, Cisalpino, Milano, 2000, p. 13-39. Piana, G. (2001), Wittgenstein lettore di Frazer , in: http://filosofia.dipafilo.unimi.it/piana/frazer/frazidx.htm Sobrero, A. (1999), L'Antropologia dopo l'antropologia, Meltemi, Roma. LETTURE CONSIGLIATE Per un'introduzione generale al pensiero di Wittgenstein: Kenny, A. (1984), Wittgenstein, Bollati Boringhieri, Torino. Marconi, D. (1997), Wittgenstein, Laterza, Bari. Per saperne di più sulla complessa personalità di Wittgenstein e sulle sue tormentate vicissitudini, una biografia interessante è quella di Monk: Monk, R. (2000), Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, Bologna. J. M. W. Turner - Il Ramo d’Oro, 1819 ca 24 Bourdieu. Spazio dei corpi e dominazione di genere di Barbara Caputo Uno dei maggiori contributi teorici di Bourdieu é stato nel campo degli studi sul genere. Il sociologo-etnologo francese, a partire dal suo lavoro di campo in Kabylia, ha dedicato una parte significativa della sua riflessione ad analizzare il modo in cui la dominazione di genere - asimmetria sociale fondamentale - e i generi maschile e femminile vengono costituiti, attraverso un sistema di classificazioni inserito in uno schema cosmologico, nello spazio pubblico e domestico. Questo sistema di classificazioni, rafforzato non solo dalle iscrizioni spaziali, ma anche da detti e discorsi quotidiani, si iscrive profondamente nei corpi sessuati, incarnandosi in movimenti, posture, pensiero e azioni, attraverso quel potente veicolo di dominazione che é l'habitus. A differenza che nel termine latino originario, il concetto di habitus di Bourdieu non designa "una condizione tipica o abituale, uno stato o apparenza; in particolare del corpo" (Jenkins 1992: 74, cit. in Farnell 2000). E, a differenza che in altre teorie sul corpo (che possono anche non utilizzare il termine di habitus ma, di fatto, ne contemplano il concetto), esso non riguarda il modo in cui ogni cultura crea forme di umanità segnando e incidendo i corpi, in forme che possono essere superficiali o profondamente impresse nella carne (Remotti 1993, 2000), oppure una domesticità appaesante che si costituisce attraverso una corrispondenza tra luoghi, memorie familiari e gesti d'uso (De Martino 1977). Con il termine habitus, Bourdieu intende schemi generativi di percezione, valutazione e azione, che si traducono in disposizioni e stati abituali inconsci, e nella predisposizione ad agire in modi già preordinati a seconda delle situazioni. L'habitus costituisce per lui (prendo a prestito il termine, cambiandone il senso, da Alexander) un "cavallo di Troia" per l'esercizio del potere nei corpi, consentendo il passaggio delle regole sociali da minuziose rappresentazioni cosmologiche e da spazi concreti ai corpi e alle menti. Spazi, corpi e classificazioni di genere Per Bourdieu lo spazio - spazio immaginato e concreto si intersecano e si confondono - é, come già in Mauss e Durkheim, supporto di sistemi di classificazione, cioè, nel nostro caso, di valori e simboli che vengono raggruppati e assegnati a diverse porzioni di spazio (nord, sud, est, ovest, alto, basso, destra, sinistra) e che a loro volta permettono la riproduzione delle strutture e diseguaglianze sociali. Poiché ogni porzione di spazio reca inscritti valori e regole, l'esposizione a tale spazio e ai valori che in esso sono 25 incorporati e raggruppati, e da esso riaffermati, e l'assegnazione e collocazione dei corpi in questi spazi, l'incorporazione, sono uno dei principali veicoli di inculcazione e perpetuazione di un sistema di potere e di ordine sociale, attraverso quella che da Bourdieu viene definita violenza simbolica, "violenza dolce, insensibile, invisibile alle sue stesse vittime", che consiste in un'adesione spontanea delle vittime stesse all'ordine simbolico incorporato nelle strutture di trasmissione del potere, tra cui lo spazio. Tale adesione assume l'aspetto di un ordine naturale, (Bourdieu 1998: 7), e cioè una doxa, un "credo", una "convinzione", un "riconoscimento che sfugge alla messa in discussione" (Bourdieu 1992: 68) del gioco sociale e che comporta una illusio, un investimento nel gioco stesso, esperito non come sottomissione ad una serie di regole arbitrarie, ma come adesione spontanea ad uno stato di cose percepito come naturale da tutti gli agenti sociali. Gli schemi cognitivi spaziali, a detta di Bourdieu, si imprimono sul corpo proiettandovi e riproducendovi cosmologie sociali e sistemi di classificazione spaziali, mediante segni esteriori ma anche dettando gesti, movimenti e posture, cioè producendo habitus. Gli schemi classificatori si trasformano in atti corporei mediante una mimesi pratica, traducendosi in un sapere cinetico che è allo stesso tempo un senso pratico, una conoscenza anticipatoria delle mosse da compiere in virtù della conoscenza delle regole del proprio gioco. La divisione dei generi per spazi costituisce essa stessa una forma di classificazione, cioè il "disporre in uno stesso raggruppamento fenomeni caratterizzati da certi tratti comuni, distinguendoli, nel contempo, da fenomeni appartenenti a raggruppamenti diversi", e dando luogo a "rapporti di inclusione/esclusione" e alla "istituzione/registrazione di somiglianze e differenze" (Fabietti, Remotti 1997: 171). Si raggruppano "cose" per separarle nel distinguerle. Bourdieu ci mostra come creare classificazioni e gruppi non è solo una presa d'atto dell'esistenza di differenze e regole sociali. Qui egli sembra avere ben presente il concetto foucaultiano di dislocazione, che designa l'atto di assegnare determinati corpi a determinati spazi, come precisa modalità di esercizio del potere e di controllo dei corpi. Modalità di configurazione territoriale "definita dalle relazioni di prossimità tra punti o elementi" (Foucault 1994: 127), la dislocazione è al tempo stesso strumento panoptico mediante il quale ogni potere persegue e pone in essere le sue strategie di controllo delimitando e ripartendo, assegnando ogni individuo ad una precisa casella, e potendo così agevolmente eseguire un minuzioso controllo sociale (Foucault 1967)1. Dall'applicazione del concetto di dislocazione ai generi maschile e femminile derivano alcune significative conseguenze teoriche. Secondo Bourdieu, la lettura analitica dello spazio non si può limitare alla ricostruzione di una griglia schematica di significati e opposizioni, dotata di una coerenza logica autonoma. Per completarne il senso si ha bisogno di tener conto dei corpi che vi si muovono dentro, destinatari dei messaggi iscritti negli spazi, e allo stesso tempo agenti che, con le loro azioni, conferiscono allo spazio un significato che è ad esso intimamente legato e che lo eccede, in una relazione di reciprocità che si struttura in accordo con le opposizioni cosmologiche mitico-rituali (Bourdieu 1977: 89). Vero é che i significati generati dai corpi in Bourdieu sono leggibili soprattutto su di una serie di posizioni significative cristallizzate, isolate l'una dall'altra, rese statiche dalla discontinuità dei significati e dalla necessità di leggerle in una sorta di fermo immagine. I corpi mancano qui di movimento. Bourdieu stabilisce inoltre un'importante differenziazione interna relativamente all'accesso agli spazi nell'ambito di una medesima cultura, mostrando come le regole spaziali non siano uguali per tutti gli individui, in quanto portatori di identità di genere, oltre che di classe (Bourdieu 1995), e di conseguenza come gli spazi stessi diventino, alla fine, diversi, in quanto diversamente connotati e agiti. La consuetudine, la frequentazione dello spazio che conferisce sicurezza ai corpi non è dunque necessariamente, automaticamente data per tutti gli abitanti del luogo ad uno stesso modo. Una parte di esso, sottratto alla legittimità e alla consuetudine della frequentazione (un discorso valido più nel caso delle donne che degli uomini), si configura come spazio non appaesante, reso estraneo, luogo "proprio" di un potere, che può ispirare sentimenti e stati del corpo traducenti ed esprimenti tutto il senso dell'estraneità e del timore ad essa associato. Si tratta di un modo di essere "fuori luogo", non però in un caos ignoto, ma in uno spazio che in qualche modo si conosce, perché fa parte di un sistema sociale di appartenenza, e che però in quanto inappropriato a chi non vi è legittimamente assegnato, suggerisce sottomissione o insicurezza, corporeamente espressi. Il corpus di regole culturali non garantisce così istruzioni per l'uso atte ad impadronirsi di ogni parte del luogo abitato, ma può, nell'esercizio di un potere, trovare molteplici modi, su vari piani tra i quali esiste una corrispondenza, di escludere le persone dagli spazi, mediante un'operazione di classificazione che non è completa se non comprende le posture e le pratiche permesse e vietate al corpo, collegate quasi per corrispondenza naturale a determinati luoghi e non ad altri, e che nella non corrispondenza rivelano la non appartenenza. L'insostenibile incoscienza del soggetto Se Bourdieu ha elaborato una efficace teoria sulla dominazione sociale -in questo caso di genere- che tiene conto degli spazi e dei corpi, non l'ha tuttavia dotata di molte uscite. Uno dei problemi insiti nel suo sistema teorico è che, trattandosi di un'incorporazione inconscia di regole di dominazione, sembra 26 non esserci via di uscita, di reazione da parte dei soggetti stessi2 . E' stato rimproverato all'etnologo-sociologo francese di mancare di un'adeguata teoria dell'agency (Farnell 2000), di trattare l'inconscio come un "marmo immobile" (De Certeau 1980) privo di creatività e capacità di resistenza, di usare l'habitus come "cavallo di Troia per il determinismo" (Alexander 1995) oltre che di non riuscire in tal modo a spiegare il mutamento delle strutture sociali e degli habitus stessi. L'unico cambiamento sarebbe possibile, da quanto si può evincere dai suoi lavori di teoria sociale, o mediante un cambiamento delle strutture di potere stesse, o con l'intervento del ricercatore sociale che porta allo stato di coscienza strutture inconsce. La possibilità di una iniziativa da parte del soggetto parte dallo sganciamento da una dimensione di radicale inconsapevolezza, dalla riconduzione ad uno stato, per quanto potenziale o parziale, di coscienza. A tale proposito Giddens distingue due forme di coscienza, una pratica e una discorsiva, assimilando la prima a quella sorta di consapevolezza sensoriale cieca posseduta par corps, la seconda ad una consapevolezza scaturita dall'attenzione ai propri atti da parte dei soggetti, e tradotta in "monitoraggio riflessivo della condotta". "Nella coscienza discorsiva l'agente deve pensare ciò che sta facendo, e ciò presuppone la capacità di descrivere coerentemente le proprie attività e le loro ragioni, esprimere le cose con parole. (Giddens 1990: 45) Bourdieu stesso nega la possibilità che le pratiche consistano di meri atti meccanici (Bourdieu 1977: 73). Gli habitus sembrano comportare una "invasione della coscienza" (Bourdieu 1988a: 47) che prevede gradi differenti di strutturazione e di limitazione delle sue capacità di esercizio, ma se questa coscienza ha la possibilità di riflettere la via al cambiamento e all'iniziativa individuale sembra essere aperta. "Bourdieu sostiene che per tutto il tempo in cui gli agenti agiscono sulla base di una soggettività che è l'interiorizzazione dell'oggettività, essi rimangono necessariamente "soggetti apparenti di azioni che hanno per oggetto la struttura". Al contrario più prendono coscienza del sociale che si trova dentro di loro, garantendosi un controllo riflessivo sulle loro categorie di pensiero e di azione, meno probabilità avranno di essere agiti dall'esteriorità che li abita" (Wacquant 1992: 37). Sistemi di classificazione e dinamiche di cambiamento La corporeità in Bourdieu non deve niente al caso. In un mondo dove ogni strutturazione spaziale e ogni oggetto sono minuziosamente esaminati per il ruolo occupato nella struttura dei rapporti di potere, ogni settore dello spazio reca una serie di indicazioni coerenti con gli altri settori, e ogni atto del corpo è sottoposto ad una scrupolosa motivazione. L'apparente effetto di completezza è ottenuto attraverso una selezione attenta delle pratiche coincidenti con la struttura di omologie del sistema simbolico, o con una messa in evidenza degli aspetti corrispondenti, svolta contemporaneamente ad una messa in ombra di eventuali altri significati (De Certeau 1980). Così come accade per lo spazio strutturato, quanto viene escluso dal sistema rientra in una zona oscura che sembrerebbe appartenere alla sfera della non-significazione, entrando però in contraddizione con una logica sottesa ad un sistema di dominazione che non dovrebbe lasciare nulla al caso. Si pone quindi il problema di reintrodurre le azioni di resistenza e l'iniziativa del soggetto, oltre che le sue narrazioni. Bourdieu infatti non fa parlare i corpi ma parla dei corpi, apparendo come l'unico soggetto del discorso (Farnell 2000). Sebbene Bourdieu cerchi inoltre di accordare la sua teoria con le specifiche situazioni locali, considerando le invarianti strutturali e inconsce della dominazione di genere come categorie storicamente costituite, che prendono forma in modi diversi in diverse formazioni storico-culturali, questo tuttavia non si rivela sufficiente3, e la sua teoria continua, per diverse ragioni, a sottrarsi al flusso storico e ai mutamenti culturali, nonostante abbia origine da uno specifico contesto. La teoria della dominazione di genere in Bourdieu si basa sugli schemi strutturali elaborati in base agli studi etnografici sui Kabyli. Qui la dominazione di genere ruota intorno alle due concezioni di onore maschile e femminile che prescrivono minuziosamente i comportamenti appropriati. La concezione dell'onore maschile, nif, corrispondente all'est, settore dello spazio legato alla luce, alla religione ufficiale, al secco, alla destra, a tutto ciò che é diritto e allo spazio aperto, comporta quali corollari la forza e la relazionalità, e prevede una postura eretta, un passo sicuro e deciso, il dover far fronte agli altri uomini con sguardo dritto. Le posture del corpo rimandano ad una sicurezza nello spazio esterno, ad una sua appropriazione che è anche sensoriale. Tutto, nelle tecniche del corpo, suggerisce l'apertura allo spazio mediante il movimento, persino il modo di prendere il cibo a bocca aperta. Nella donna il movimento, l'abbigliamento, la collocazione nello spazio rimandano al basso, al curvo, al contenimento, alla chiusura, regole di una "buona tenuta, inseparabilmente corporea e morale" (Bourdieu 1980: 33) che la ricollegano allo spazio che le è stato assegnato. Camminando per strada, spazio a lei estraneo e carico di pericolosità, il suo sguardo, di cui le è interdetto l'uso pubblico (1998a: 23) e il suo corpo devono essere costantemente rivolti al suolo, il passo esitante, traduzione e inculcazione allo stesso tempo di uno stato d'animo appropriato allo spazio che attraversa. "In breve, la virtù specificamente femminile, lahia, modestia, ritegno, riservatezza, orienta l'intero corpo femminile verso il basso, la terra, l'interno, la casa, mentre l'eccellenza maschile, nif, è affermata nei movimenti verso l'alto, l'esterno, gli altri uomini" (Bourdieu, 1977: 94). Ogni gesto femminile è metafora di una chiusura e contrattura nello spazio, operata anche quando le donne accedono a spazi aperti, e che si traduce in clausura dei movimenti: inibita apertura del corpo, presa del cibo in punta di labbra. La donna, simbolo e incarnazione visibile del principio dell'onore femminile, lo haram (termine che indica tutto ciò che è sacro e proibito, e richiede rispetto, ihtiram), è permanentemente rinchiusa, contenuta, 27 limitata da una serie di confini visibili e simbolici. E' rinserrata nel suo abbigliamento, che deve coprirla in modo da non rivelarne i capelli o il corpo, dalla sua cintura, segno di virtù e castità (Bourdieu 1998a: 21). Per Bourdieu le classificazioni simboliche legate al femminile si trovano iscritte nel settore ovest, che include lo spazio domestico, il buio e il tramonto, i principi legati alle funzioni riproduttive, dell'umidità e del gonfiare, il lato sinistro, negativamente connotato, e con esso tutto ciò che é "storto", curvo, contorto, come la magia che si pone al posto della religiosità ortodossa. In virtù del principio di integrazione tra spazio corporeo, cosmico e sociale il movimento della donna è centripeto, orientato verso la casa, specchio della cosmologia intera ma spazio assegnato principalmente alla donna - richiamando la sua funzione di accumulazione dei beni, mentre quello maschile, centrifugo, diretto verso i campi ed il mercato, ricorderebbe il compito di produzione e circolazione dei beni. (Bourdieu 1980: 130) Assume tale significato anche la ripartizione delle posture drittocurvo, che per Bourdieu viene utilizzata in molte società quale segno e strumento visibile sul corpo di rapporti di potere, e che si riproduce nella suddivisione dei lavori: nella raccolta delle olive è l'uomo, dritto con un bastone in mano, che le fa cadere dall'albero, mentre la donna le raccoglie da terra (Bourdieu 1980: 119). L'aperto, il dritto, l'alto, costituiscono piani simbolici paralleli e corrispondenti che rimandano a un principio di maggiore quantità e qualità, traducentesi, in termini spaziali, non solo nell'ampiezza dello spazio, ma in una grandezza simbolica oltre che effettiva, che trova corrispondenza nelle dimensioni del corpo, prescriventi la grandezza per l'uomo, la piccolezza per la donna. Nel gioco relazionale ed analogico delle opposizioni simboliche, come il "davanti" è associato al maschile e allo spazio esterno, all'andare verso est o verso la luce, il "dietro" corrisponde al femminile ed agli spazi chiusi, interni, e per trasposizione a ciò che è privato, intimo e segreto. Ma si tratta ancora una volta di un'associazione asimmetrica, nella quale il valore maggiore viene assegnato alla parte frontale del corpo. Il modello cosmologico kabylo tracciato da Bourdieu, nel quale sono iscritte le opposizioni di genere, viene utilizzato ai fini di una comparazione puntuale con l'analogo modello di differenziazione di genere occidentale, in base ai presupposti che esso da una parte costituisca una via per l'oggettivazione del gioco sociale di appartenenza del ricercatore, dall'altro che i due sistemi simbolici siano strettamente apparentati, costituendo il modello kabylo "una forma paradigmatica della visione fallonarcisistica e della cosmologia androcentrica che sono comuni a tutte le società mediterranee e che sopravvivono, ancora oggi, ma allo stato parziale e come frammentato nelle nostre strutture cognitive e sociali" (1998a: 12). Egli applica dunque molte delle opposizioni simboliche rilevate in Kabylia, legate allo spazio e alla "topologia corporea" dei corpi sessuati alle "società euro-americane", allo scopo di cogliere i modi in cui la dominazione maschile vi si perpetua. Ciò in base all'assunto che "seppure le condizioni "ideali" che la società kabyla offre alle pulsioni dell'inconscio androcentrico siano state in gran parte abolite e che il dominio maschile abbia perso qualcosa della sua evidenza immediata, alcuni dei meccanismi che fondano tale dominazione continuano a funzionare, come la relazione di causalità circolare che si stabilisce tra le strutture oggettive dello spazio sociale e le disposizioni che esse producono tanto negli uomini quanto nelle donne" (Bourdieu 1998a: 63) Nel compiere questa operazione di ampliamento del paradigma kabylo, Bourdieu modifica la sua concezione di memoria par corps. Inizialmente, quando studia la società kabyla, egli ritiene che la memoria corporea/incorporata risponda ad un'esigenza di trasmissione del sapere propria delle società senza scrittura, mentre in quelle letterate si assisterebbe ad una progressiva "disincarnazione", un "disimpegno" del corpo (Bourdieu 1980: 124). In seguito però egli mostra, seppur non del tutto dichiaratamente, di abbandonare tale concezione. Anche in Occidente, in un contesto sociale "ormai socialmente ed economicamente differenziato" (Bourdieu 1998a: 63) la logica pratica delle strategie di potere troverebbe una sua convenienza a strutturare, mediante una perpetuazione delle divisione fondamentale in generi, un ordine sociale classificatorio e asimmetrico degli spazi e dei corpi quanto delle destinazioni, dei compiti e delle connotazioni ad essi attribuiti. In tal modo la memoria sociale e corporea affermerebbe una sua permanenza al di là della presenza o meno di scrittura, proprio in virtù della sua clandestinità e della sua pervasività, configurandosi in senso ampio quale memoria eidetica, che in parte coincide con le mnemotecniche classiche di derivazione latina (cfr. Yates: 1972): 28 le regole sociali sono dislocate in parti di spazio o di corpo, in immagini corporee, posturali o cinetiche4 . Così come anche negli spazi strutturati dell'Occidente la condizione di dominazione della donna vedrebbe in modo analogo il confinamento allo spazio domestico, effettivo o simbolico, o relativo ai compiti svolti, qui l'analogia corporea si traduce nella sua conseguenza logica, che è la limitazione del movimento. Anche nelle donne occidentali, seppure secondo modalità dissimili, essa mirerebbe a produrre, sia attraverso le posture che l'abbigliamento una chiusura in un recinto invisibile (Bourdieu 1998: 34-35). Vi è tuttavia da chiedersi se sia del tutto lecito utilizzare il paradigma simbolico kabylo, associato non solo ad un preciso sistema di riferimento religioso e di regole sociali, a un modo specifico di produzione, e a specifiche pratiche quotidiane, per spiegare e chiarire un sistema di rapporti di genere, qual'è quello occidentale, e la cui formazione storica e culturale scaturisce spesso da origini differenti, estendendo peraltro tale rete di somiglianze dal bacino mediterraneo all'intero ambito occidentale5. Si rischia così di trasporre dei significati simbolici e forme pratiche della dominazione da un ordine culturale all'altro, riscontrando analogie tra due modi culturali di porle in essere, e senza interrogarsi, ad ogni modo, sulla loro specificità simbolica, e di conseguenza sul loro collegamento con le logiche di produzione sociale e culturale più ampia in cui essi sono inseriti. In tal modo, se l'operazione di rinvenimento di una serie di somiglianze nei modi simbolici e pratici della dominazione serve ad uscire dalla illusio pertinente alla società di appartenenza del ricercatore, la mancanza di un approfondimento delle sue peculiarità simboliche impedisce di cogliere logiche e modalità più specifiche, ma anche manifestazioni discordanti. Così accade d'altra parte nel caso dell'assimilazione degli spazi domestici occidentale e kabylo (che in alcuni sociologi per estensione é divenuto quello musulmano), che fa perdere di vista la differenza di alcune pratiche effettuate in essi e legate a differenti riferimenti, e che porta a ignorare i motivi sottesi ad una differenza fondamentale, quale la destinazione della donna occidentale ai compiti di relazione sia in ambito domestico che successivamente lavorativo, rispetto all'analoga esclusione dai compiti relazionali della donna in ambito islamico. In tal modo, Bourdieu si assegna come compito primario non quello di ricostruire una struttura di relazioni, ma di risalire alle opposizioni simboliche fondamentali che fondano tale struttura, e il cui significato alla fine, deprivato del suo contesto, rischia di passare in secondo piano, senza compiere peraltro quell'operazione di storicizzazione dell'inconscio che viene messa in campo. Al rinvenimento di opposizione simboliche in un contesto occidentale non fa riscontro un quadro simbolico di riferimento, ma solo le sue ipotetiche conseguenze. Manca inoltre quell'universo del discorso che nel sistema kabylo contribuisce a spiegare, a legittimare e rafforzare la strutturazione sociale e quella del sistema simbolico, manifestazione di un sapere che è diffuso sia tramite le rappresentazioni scritte che il senso comune. Bourdieu, dunque, non espone la sua teoria alla prova delle situazioni storiche concrete e di un mutamento, che sia decretato dall'alto o dal basso. Un'altra questione da affrontare criticamente è quella della netta dicotomizzazione dello spazio sessuato, di sapore strutturalista ma anche richiamantesi a molte teorie di antropologia del Mediterraneo. La teoria del legame tra genere, corpo e spazio si riallaccia, in Bourdieu, a quella di una dicotomia tra gli spazi pubblici e privati, e che a suo dire si estenderebbe a tutto l'occidente, seppure in forme più articolate, con una "domesticizzazione" di alcuni spazi pubblici e lavorativi. Tale divisione corrisponderebbe all'assegnazione del principio dell'onore femminile, lo haram, soprattutto allo spazio privato, e quello dell'eccellenza maschile, che comporta il far fronte, al mondo esterno, agli spazi pubblici, e consentirebbe di perpetuare un sistema di potere. Tale concezione, che in fondo nemmeno in Bourdieu appare così categorica (le donne kabyle in fondo possono uscire nei campi, e quelle arabe hanno sempre potuto andare allo hammam o ai mausolei) va rianalizzata alla lice dei mutamenti culturali e delle lotte delle donne per la conquista degli spazi pubblici. Tanto per fare un esempio, citerò la progressiva conquista da parte delle donne tunisine del diritto di sedersi in un caffè, o di andare al mercato, considerati prima dell'indipendenza spazi radicalmente maschili, connotati di forte sessualità e del tutto sconvenienti per le donne. Vi é poi il problema di mettere in relazione gli habitus dei corpi di genere con quelli dei corpi di classe, argomento affrontato da Bourdieu in La distinction. Critique sociale du jugement (1972), aprendo la prospettiva di un comportamento differenziato per classe dei corpi sessuati, del potere dipendente dal loro ammontare di capitale, e di un rapporto con gli spazi differente, e rompendo (almeno per quanto riguarda l'Occidente) con la concezione implicita di un'unica cultura, intesa come unico sistema simbolico di riferimento che riunisce in sé valori opposti, introducendo un insieme differenziato di sottoculture che trovano il loro corrispettivo nei gusti di classe. Va esaminata anche la questione della memoria individuale. Per il sociologo francese il corpo socialmente e sessualmente informato è anche, come abbiamo visto, luogo depositario di memoria fatta corpo. Tale memoria rimanda però solamente alla incorporazione di un sistema di potere sia individuale che collettiva, che assume l'aspetto di una identità di genere (o di classe), più che a usi propriamente detti del corpo rimandanti ad uno stretto, immediato rapporto con lo spazio e con gli oggetti. Essa costituisce la "traccia incorporata di una storia collettiva e di una storia individuale che impone a tutti gli agenti, uomini o donne, il suo sistema di presupposti imperativi" (1998a: 62). Poco si scorge però di queste tracce storiche, mentre l'habitus sembra veicolare solo la memoria di un presente, ripetizione che costantemente riproduce se stessa di uno schema simbolico e cognitivo, costituito da "un piccolo numero di principi praticamente coerenti" e dalla "ridondanza infinita" (Bourdieu 1980: 125), che dura fin tanto che dura una determinata struttura di rapporti. Come un microcosmo sia simbolico che sociale, la cui geografia costituisce un "caso particolare della geografia o meglio della 29 cosmologia" (ivi: 132) il corpo esprime il campo6 di appartenenza nei movimenti, nelle posture e nell'abbigliamento, e in definitiva nell'hexis stessa, "nei muscoli e nella mente", costituendo continue operazioni di identificazione di tipo mimetico ed emotivo con esso. Credo che sia importante, quando nella ricerca antropologica, e non solo, si prendono ad oggetto privilegiato di analisi i corpi, utilizzare un concetto di habitus di ampio respiro, che contempli le strategie di potere, ma anche quelle abitudini che dichiarano uno stretto legame tra determinati corpi e luoghi, un modo di abitare il mondo che si traduce in un rapporto armonioso con lo spazio circostante, con uno stare a suo agio della persona e del corpo, che ha anche a che fare con memorie affettive tramandatesi nel tempo. Mi ricollego in questo caso a Francesco Remotti e Ernesto De Martino. Remotti collega il termine latino habitus all'abitudine, l'atteggiamento, ma anche alla forma del corpo, e la maniera di vestire. A questo circolo virtuoso di concetti Remotti aggiunge il legame operato da Dewey tra habits e to in-habit, tra le abitudini e l'abitare. Sono le abitudini che, consentendoci di instaurare un rapporto non meccanico ma creativo con il mondo, ci consentono di abitarlo. Per Remotti è la cultura, prima del potere, a segnare i corpi. Gli habitus di De Martino hanno a che vedere con una duplice forma di memoria. Da una parte i gesti che facciamo ci rimandano a generazioni passate. Dall'altra, lo spazio costituisce una forma di memoria dei nostri stessi gesti compiuti, e un sapere anticipatorio di quelli da compiere. Il mondo è un mondo abitato da una pluralità di soggetti, di comunità, di microcosmi locali, ed è questa coralità che si trasfonde attraverso la memoria di luoghi, corpi, gesti e sensi. Nel corpo si stratifica una memoria di usi sedimentatasi nel corso delle generazioni, e acquisita, incorporata (parola mai banale, ma da intendersi nel suo pieno significato) nell'abitudine al mondo che si traduce in un insieme composito di infinite abitudini. Le quali legano a quel mondo, non ad altri, permettendo di stabilire un'intima, rassicurante corrispondenza, una familiarità con il mondo stesso e con le piccole o grandi azioni che in esso si devono compiere, che riguardino l'indirizzo da dare alla nostra esistenza o più semplicemente una serie di semplici atti di uso del mondo. A seconda delle differenti circostanze, si dovranno utilizzare uno o più di questi concetti di habitus, non dimenticando, naturalmente, di rilevare quelle tattiche di uso del corpo e dello spazio che costituiscono atti di resistenza e mutamento, spezzando e modificando le routine, quando il rapporto tra i corpi e gli spazi, evidentemente, non é più armonioso. Saranno allora i percorsi individuali, atti di resistenza iscritti nello spazio mediante l'enunciazione di discorsi personali nello spazio, che scompaginano la maglia di classificazioni e i tentativi di dislocazione, a essere esaminati (De Certeau 1980). Così come dovranno esserlo quelle operazioni di resistenza e mutamento che partono dai corpi stessi. L'habitus, per quanto granitico o rassicurante, non è immutabile. NOTE Essa vale anche da strumento di produzione, secondo logiche razionali di perseguimento del massimo risultato, con l'obiettivo "di conoscere quali relazioni di prossimità, che tipo di stoccaggio, di circolazione, di approvvigionamento, di classificazione degli elementi umani, deve essere considerato primariamente in questa o quella situazione per conseguire un certo fine" (Foucault 1994: 12). 2 Certo, Bourdieu ha in seguito avuto modo negli ultimi lavori di apportare chiarimenti o modifiche alla sua concezione teorica, precisando che i soggetti possono prendere coscienza dei meccanismi che perpetuano la loro dominazione, e che tanto più ciò avviene, tanto più diviene possibile il cambiamento sociale (cita rif). Ciò non toglie, tuttavia, che egli dia unicamente spazio ad un'analisi della perpetuazione dei meccanismi di potere, 3 Tale affermazione viene postulata senza una ricaduta effettiva, e resta prevalente una visione strutturalista: "Étonnant constat en effet que celui de l'extraordinaire autonomie des structures sexuelles par rapport aux structures économiques, des modes de reproduction par rapport aux modes de production: le même système de schèmes classificatoires se retrouve, pour l'essentiel, par-delà des siècles et le différences économiques et sociales, aux deux extrêmes de l'espace des possibilités anthropologiques, chez les paysans montagnards de Kabylie et chez les grands bourgeois anglais de Bloomsbury". (Bourdieu 1988: 89) 4 Hall (1972: 88) suggeriva la presenza di caratteristiche iconiche nella prossemica. 5 Lo stesso bacino mediterraneo, che da Bourdieu viene considerato relativamente alle regole di differenziazione di genere, apparentando paesi quali ", Italia, Spagna, Egitto, Turchia, Kabylia" (Bourdieu 1998: 12) comprende realtà differenti tra loro, o differenze al loro interno. Se per alcuni di essi le vicende storiche testimoniano di una diffusione di un modello di ispirazione musulmana di divisione dei generi e del concetto di onore femminile, per altri questo discorso rischia di cancellare altri apporti storici, magari precedenti. Bourdieu ricusa tuttavia la validità del ricorso al corpus mitico e storico greco, quale quello operato da Vernant, che presenterebbe a suo dire il rischio di "sincronizzare artificialmente stadi successivi, e differenti, del sistema, e soprattutto di conferire lo stesso statuto epistemologico a dei testi che hanno sottomesso il vecchio sostrato mitico-rituale a rielaborazioni più o meno profonde" (ibidem). L'approssimazione del paradigma mitico greco, cui però vengono aggiunti dati storici, non cancella però quella del paradigma simbolico kabylo, i cui significati sono pensati per una stretta corrispondenza tra significati simbolici e strutture sociali, spaziali, cognitive, incorporate, in virtù di una rielaborazione egualmente operata dal ricercatore. 6 Bourdieu intende come "campi" i microcosmi sociali che compongono una società, ognuno dotato di una logica e di regole proprie ed autonome da quelle degli altri campi, ognuno con le sue poste in gioco per le quali gli agenti del campo sono oltre che in relazione anche in lotta tra loro. 1 BIBLIOGRAFIA Bourdieu P. (1977), Outline of a theory of practice, Cambridge University Press, (ed. or. Esquisse d'un théorie de la pratique, précédé de trois études d'ethnologie kabyle, Librairie Droz, Suisse, 1972). -(1980), Le sens pratique, Minuit, Paris. -(1992), Risposte. Per un'antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino, (ed. or. 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Antropologia dello spazio, del tempo e del potere, Bollati Boringhieri, Torino. Remotti F., (2000) Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari. Yates F., 1972: L'arte della memoria, Einaudi, Torino. 30 La tradizione orale senegalese Un viaggio tra le favole di Antonio De Lauri Si spendono grandi quantità di tempo e molto denaro nel raccogliere frammenti di sculture in legno e in pietra, resti di tessuti e schegge d'avorio, e nel misurare antiche costruzioni… Tuttavia, quanto più vicine all'identità vera, al pensiero e alla vita sono le parole degli uomini che le esprimono nella loro lingua. Daniel Brinton1 INTRODUZIONE C'è qualcosa nella memoria di ognuno, qualcosa che lo collega all'infanzia, alla fantasia, a mondi ideali: i racconti, le favole, i ricordi di un tempo passato che ritorna in alcuni miti, in alcune figure o semplicemente in alcune parole. In queste pagine approfondirò alcuni aspetti della tradizione orale, l'importanza delle favole, del raccontare; affronterò un viaggio magico alla scoperta delle fiabe senegalesi e dei mondi che raffigurano. In questo viaggio mi accompagnano tre uomini senegalesi (prima parte), immigrati in Italia, che con gentilezza mi hanno svelato i loro ricordi, le loro paure e i loro sogni. Nella seconda parte presenterò alcune favole senegalesi che hanno particolarmente attirato la mia attenzione, mi soffermerò inoltre sui rischi e i problemi legati alla traduzione, sul parlare come pratica sociale e sui significati del racconto e della narrazione. Obiettivo di questo lavoro non è quello di spiegare in maniera precisa l'enorme varietà e complessità della tradizione orale senegalese, è piuttosto un piacevole soggiorno nei luoghi creati dall'immaginario, un soggiorno nel regno degli animali, nelle terre dalle sabbie gialle, un soggiorno che ha lo scopo di evidenziare la bellezza e l'importanza delle favole, attraverso una parte della tradizione fiabesca del Senegal dei wolof. <<La scoperta del mondo senegalese è stata affascinante sia per la sua cultura sia per il suo popolo. Si tratta di un mondo in transizione fra "tradizione" e "modernità", pur mantenendo ben vive certe radici2 >>. È emerso un panorama ricco e complesso, una modalità d'espressione, le favole, in continuo movimento con la necessità di ricostruirsi uno spazio in un contesto caratterizzato da profonde trasformazioni. Per molto tempo l'Occidente ha letto nelle pratiche culturali africane significati tenebrosi, e anche quando una certa dignità è stata restituita ai vari aspetti delle culture africane, queste sono state private di una storia, relegate ad un'immobilità e ad una chiusura senza tempo, come segno di un'anima "primitiva", come prodotto di una "tribalità" destinata alla decadenza3. È in un'altra prospettiva, invece, che vogliamo "ascoltare" le favole senegalesi ed è da un altro punto di vista che vogliamo coglierne le specificità. La tradizione non può essere vista come qualcosa di statico, al contrario vive un mutamento 31 continuo in un processo di incontro con culture diverse, in un percorso di ri-definizione delle proprie peculiarità e dei propri significati. Nel parlare di favole non si può non tenere in considerazione l'aspetto fondamentale di tale forma culturale: l'oralità. Spesso l'oralità è stata vista come uno strumento "primitivo", come un modo di comunicare proprio delle culture definite "selvagge", le quali, prive di scrittura, affidano tutto il loro sapere alla tradizione orale, incapace di conservarlo. Oggi questa immagine si può dire superata, in una prospettiva di "rivalutazione dell'oralità" si riconoscono la complessità e il valore delle tradizioni orali, basate su determinate "pratiche di conservazione" e non solo, vi sono anche i modi in cui la parola viene tramandata, che naturalmente variano a seconda dei contesti e delle popolazioni. Il confronto tra oralità e scrittura <<viene impostato per lo più come se fosse una questione di tecniche differenti, opposte, da un lato la scrittura, dall'altro l'oralità, laddove andrebbe sottolineato che sono entrambe pratiche di comunicazione, in quanto tali inserite in un contesto>> [Matera 2002: 62]. In quanto pratiche culturali, le narrazioni orali mostrano una parte essenziale della propria cultura, una parte che non si svela negli scritti o nelle descrizioni; attraverso tali narrazioni gli individui riflettono e modificano l'esperienza quotidiana della realtà. Bisogna quindi <<considerare le narrazioni orali ben più di semplici antenati primitivi della narrazione scritta>> [Tedlock 2002: 183]. I racconti, le favole, le storie hanno un grande valore non solo in quanto espressione di una certa tradizione, ma anche come prodotti e rappresentazioni di una determinata cultura. <<Un racconto non è semplicemente un genere letterario come gli altri, ma assomiglia molto di più a una complessa performance in miniatura, e include aforismi, declamazioni, dichiarazioni solenni, atti linguistici, preghiere ed esortazioni, persino inserimenti di altre narrazioni>> [ivi: 29]. Queste pagine dedicate alle favole senegalesi vogliono essere un inno all'oralità, alla fantasia e un incentivo per una pratica sempre meno utilizzata, resa inerme dalle innovazioni tecnologiche e dagli "eroi globali". C'è sempre meno tempo per ascoltare una nonna che racconta una favola e sempre di più per guardare cartoni animati giapponesi. Non si ha più voglia di inventare storie perché è più comodo guardarle alla televisione, il regno degli animali è stato ormai scalzato dalle basi dei Robot. Non ritengo che la produzione fantastico-scientifica di oggi sia un aspetto negativo all'interno di un contesto artistico-culturale, quello che può destare preoccupazione però è immaginare un futuro in cui favole e racconti siano uguali dappertutto. Per quanto possa credere che ogni cultura negozi i propri significati e le proprie forme di espressione in modo diverso, una certa percentuale di rischio rimane se non si guida tale "produzione dell'immaginario". Per mantenere vivi determinati aspetti della culturalità di ogni società bisogna conservare uno sguardo critico e attento ai processi di cambiamento: <<la portata del cambiamento e delle sue implicazioni ci richiede nuove capacità di conoscenza non per un esercizio accademico, ma per guidare la nostra vita4>>. PRIMA PARTE In questo viaggio5 tra le favole senegalesi ho incontrato tre persone che mi hanno aiutato notevolmente ad affrontare l'incontro con una parte della tradizione wolof; ma prima di proseguire è forse utile approfondire alcuni aspetti della società senegalese per poter contestualizzare quanto viene detto. <<Il Senegal è forse uno dei paesi in cui in maniera più evidente si è sviluppata la forza delle confraternite: il mondo sufi (devozionale) con le sue strutture "ecclesiali". L'Islam della umma è molto meno evidente e quindi l'aspetto sociale e religioso prevale su quello politico. Questo spiega la relativa tolleranza del mondo islamico senegalese abituato a una lunga tradizione di "unità nella diversità">> [Schmidt 1994: XI]. Il Senegal è composto, e lo era in passato, da varie e multiformi popolazioni che fin dal dodicesimo secolo si sono dovute confrontare con l'espansione islamica diffusasi con i mercanti arabi e i nomadi berberi. Un aspetto importante della religione in Senegal è relativo al muridismo, recente espressione del sufismo: la muridiya è nata intorno agli anni ottanta del diciannovesimo secolo ad opera dello serign (lingua wolof) Ahmadu Bamba Mbacke. La particolarità sta nella visione del lavoro, da alcuni studiosi definita "mistica del lavoro": <<tale situazione è legata al tipo di predicazione proposta dal fondatore che, ritenendo contemplazione e ascetismo non alla portata di chiunque, introdusse il concetto di "lavoro" come "redenzione", come "preghiera", incorporando così nella propria dottrina uno degli elementi fondamentali della cultura tradizionale africana, appunto il lavoro trasformato per l'adepto in prova di fede6>>. In Senegal si parlano una ventina di lingue tra cui sei sono le più importanti e utilizzate per l'alfabetizzazione: wolof 70,9% della popolazione; pulaar, sereer, mandingo, joola, soninke sono le altre lingue più parlate. La lingua ufficiale è il francese nonostante sia una minoranza la parte di popolazione che lo conosce7. Di seguito riporto sinteticamente i "frutti" degli incontri con queste tre persone, non ho effettuato delle interviste strutturate, ho scelto di fare delle interviste non direttive, delle interviste narrative, poiché <<i racconti autobiografici sono un mezzo eccellente per comprendere come le persone vedono la propria vita, le proprie esperienze e le proprie interazioni con gli altri 8>>. Non esporrò i 32 racconti in modo lineare attraverso una griglia precisa, presenterò piuttosto il flusso di parole e di significati così come l'ho percepito per fornire un'immagine più libera da scansioni "proposizionali" e schemi rigidi 9. 1.1 Papkhouma Pap, come si fa chiamare, è nato a Dakar, vive in Italia da diversi anni con la sua famiglia e lavora in una libreria di Milano, ha pubblicato in Italia un libro "Io venditore di elefanti". Pap ha cominciato il suo "racconto" dicendomi che in passato le storie venivano raccontate in particolar modo dai griots 10 ritenuti i custodi della tradizione orale: oggi i griots sono rari e il loro ruolo è notevolmente cambiato. <<…Il problema della scrittura…gli arabi hanno portato anche la scrittura…la lingua più parlata è il wolof…il Senegal faceva parte del Regno del Mali…esisteva la scrittura ma si è diffusa di più la tradizione orale>>. Gli argomenti variano, si confondono, ma piano piano entriamo in un'atmosfera di confidenza, interrotti ogni tanto da suo figlio, Pap ricorda che quando era piccolo era sua zia che raccontava le fiabe ai bambini. I nipoti portavano anche gli amici, il momento del racconto era circondato da un'atmosfera di gioia e suspance, le fiabe si raccontavano di sera, dopo cena, con il buio e solo i bambini che durante il giorno si erano comportati bene potevano stare lì ad ascoltare. Anche il luogo del racconto era importante, chi raccontava si metteva su una sedia e tutti i bambini si sedevano per terra, ascoltare una favola era un premio e durante il racconto si poteva mangiare qualcosa di buono. Inoltre i bambini non si limitavano ad ascoltare, durante il racconto potevano intervenire, interrompere con delle domande e scherzare, il narratore a volte coinvolgeva i bambini chiedendo alcune cose, o dicendo qualche battuta o facendoli cantare. In questa prospettiva l'immagine che Tedlock ci offre di narrazione come performance è ideale, il racconto non è un semplice scambio di parole, è anche partecipazione, costruzione di significati, interpretazione, prestazione, giudizio, emozione. Oltre alla zia c'era anche un'altra donna che raccontava le fiabe, era la mamma più giovane della via, ma nei suoi ricordi un posto particolare è riservato alle favole della zia. Gli animali venivano usati come metafore <<l'elefante è saggio…la iena è cattiva… la lepre è furba e spesso è la protagonista>>. Le fiabe erano raccontate da donne perché gli uomini rappresentavano l'autorità, dunque non potevano mettersi ad inventare delle storie e poi raccontarle ai bambini perché altrimenti avrebbero perso credibilità. Poi Pap mi ha descritto i sistemi di parentela dei wolof: <<i figli di due fratelli sono fratelli, uguale per i figli di due sorelle… i figli di un fratello e una sorella sono cugini… i fratelli non si possono sposare, i cugini si… la famiglia si allarga oltre il legame di sangue… un figlio chiama padre anche il fratello del padre…vale anche per due sorelle, quella che qui è la zia viene chiamata mamma… prima c'era un sistema matrilineare, tramite il fratello della madre si passava l'eredità… il nipote di zii si chiama giarbat…il nipote di nonni set… i miei genitori venivano dalla campagna>>. Mi ha spiegato il legame tra nonno e nipote, quest'ultimo ha un rapporto d'amicizia con il nonno, può anche <<insultarlo>>, non deve avere un atteggiamento riverenziale nei suoi confronti e nessuno può intromettersi tra di loro. Il nonno non deve educare quindi può mantenere questo tipo di rapporto informale e confidenziale con il nipote. Pap ricorda che a scuola dovevano studiare fiabe francesi <<le fiabe a casa erano un premio, a scuola un compito>>; quindi passa a descrivermi lo svolgimento di un racconto. <<Il narratore dice léébóón (c'era una fiaba), i bambini rispondono lippón (una fa-fiaba); poi il narratore dice amoon nafi (c'era una volta) e i bambini rispondono daan na am (espressione ironica per dire: come c'è sempre stato)… il narratore comincia a raccontare…i bambini cantano, prendono in giro il narratore... quando finisce la fiaba il narratore dice fi la leb geche nao nao ba danu gheg bachen bu ka ngk fon tabi agiana (e così finisce la storia, il primo naso che l'annusa finirà in paradiso - non nel senso di paradiso post mortem ma di luogo paradisiaco - …vola vola nel mare)… i bambini annusano con il naso puntato verso l'alto e urlano per dire chi è stato il più veloce…durante l'ultima frase i bambini tengono il fiato, poi quando dice agiana si respira e si torna alla realtà… prima di concludere il narratore può fare anche degli scherzi, per esempio dice: il primo che annusa finirà… nella stalla… i bambini ridono e si preparano nuovamente…>>. Infine Pap mi ha parlato dei mondi paralleli, degli spiriti che possono passare da un mondo all'altro; questi argomenti potevano rientrare nei racconti e i bambini avevano tutti paura, qualcuno decideva persino di andarsene. 1.2 Mbacke Mbacke ha lasciato l'Africa nell'86, ha abitato in Francia e da qualche anno vive in Italia, lavora per un giornale e ha pubblicato una raccolta di favole "Numbelan" e "Lo spirito delle sabbie gialle". Fin da piccolo è stato educato alla fede musulmana ma poi è diventato animista e ci tiene molto ad esplicitare questa sua fede nell'anima, che si trova ovunque, nelle persone, negli animali o negli oggetti 11. <<Molta importanza è data alla parola… la parola viene da ogni cosa, anche dagli oggetti… bisogna parlare ai bambini altrimenti altre cose possono parlargli e dirgli cose sbagliate>>. Anche Mbacke conferma che le storie si raccontavano di sera, era sua nonna che conosceva le favole e le raccontava a tutti i bambini della zona, <<l'oralità è legata alla vita della comunità, che viene prima dell'individuo…gli anziani hanno la capacità della parola, sanno cioè raccontare nel giusto modo… i racconti sono sia storici che fiabeschi… la fiaba è un aspetto importante dell'animismo… animali, oggetti, uomini non sono divisi gerarchicamente… c'è un'armonia dell'universo, auspicata anche nelle favole…>>. Le persone anziane, dice Mbacke, hanno anche il compito di tenere unito il gruppo sociale e i racconti in questo hanno la loro parte, in un certo senso servono a riportare equilibrio, costituiscono un esempio di buona condotta attraverso la morale e possono segnare la fine di un litigio o di una disputa. <<Il momento della favola è vissuto come un momento magico, 33 di felicità… la tradizione orale sta sparendo, schiacciata dalla scrittura sulla base del modello occidentale… ci sono pochi anziani oggi che raccontano le favole… l'evangelizzazione, l'islamizzazione hanno influito molto nel venir meno della tradizione orale nelle comunità>>. Le favole che scrive Mbacke sono quelle che gli raccontava sua nonna, egli riconosce il paradosso che vive personalmente nello "scrivere l'oralità", ma lo vive come un contributo al mantenimento di un certo tipo di favola, di determinati personaggi, in altre parole di una specifica tradizione. <<Nella tradizione animista non c'è una fine… si vive per portare qualcosa all'umanità… dopo la vita terrena si diventa spirito, sempre comunque al servizio della vita, in un campo però più ristretto, per esempio: spirito delle piogge, delle sabbie etc... per diventare spirito si affronta un percorso che per ognuno è diverso, si può passare attraverso altre persone o animali… il carattere, le capacità vengono trasmesse nella reincarnazione… un bambino che prende il nome di un suo antenato eredita le sue sette migliori caratteristiche>>. Secondo Mbacke le favole locali hanno subito diverse contaminazioni dalle altre culture: Cristianesimo e Islam hanno segnato in maniera indelebile le pratiche culturali delle comunità locali. Dalla città alla campagna le favole cambiano notevolmente, <<in passato era tutto uguale, poi il racconto si è adattato all'ambiente e si sono distinti i diversi tipi di favole…>>. I processi di ibridazione, le contaminazioni tra diverse culture sono da sempre presenti nella storia umana. Nell'incontro, che in molti casi si rivela come scontro, tra culture si mettono in moto meccanismi di ri-definizione di se stessi e delle proprie pratiche sociali e culturali. Questo fenomeno è spiegato chiaramente da Gruzinski con riferimento all'occidentalizzazione dell'America pre-ispanica: <<essa animò processi più profondi e determinanti: l'evoluzione della rappresentazione della persona e dei rapporti tra gli esseri, la trasformazione dei codici figurativi e grafici, dei mezzi d'espressione e di trasmissione del sapere, il cambiamento della concezione del tempo e del modo di credere, e infine la ridefinizione dell'immaginario e del reale all'interno dei quali gli indios furono costretti a esprimersi e a sussistere, costretti o affascinati12>>. Le efficaci parole di Gruzinski mettono bene in luce ciò cui Mbacke accennava, <<il rapporto con la natura per esempio è cambiato in peggio con l'arrivo delle culture dominanti>>. Le favole che scrive Mbacke sono legate alla tradizione animista, <<anche gli animali hanno la loro organizzazione sociale… Numbelan 13 è il regno degli animali di una volta… ci sono degli episodi in cui ci sono degli scambi tra uomini e animali…>>. Poi Mbacke torna ad esprimere il suo pessimismo sul futuro della tradizione orale senegalese: <<intorno al racconto c'è un rituale che oggi non può essere fatto…nella povertà se una cosa non è indispensabile alla sopravvivenza viene buttata via… sono i borghesi che mantengono la tradizione orale, la povertà ha reso difficile la continuazione tra tutti… tra le persone povere vengono raccontate sempre meno favole…>>. La preoccupazione di Mbacke sembra tutt'altro che infondata, torniamo quindi alla questione del mantenimento e della perdita di tratti culturali significativi di una società e alla necessità di guidare le trasformazioni del nostro tempo. 1.3 Mamadou Mamadou vive in Italia da molti anni, è impiegato presso gli uffici della Regione Lombardia e si occupa degli immigrati a Milano. Mamadou non ricorda molto delle storie che gli raccontavano, quando vuole dirle ai suoi figli infatti deve andare a rileggerle, comunque quando gli presento il mio lavoro comincia a parlarmi di urbanizzazione, dell'impatto della produzione letteraria etc. (mi ha prestato anche dei libri). Le favole, dice, hanno diverse funzioni <<hanno una morale… esprimono i cambiamenti culturali della società… conservano i valori del gruppo… rappresentano i miti… hanno una funzione storica: ricordare un passato prosperoso…>>. Secondo Mamadou le favole che raccontano nelle campagne rimandano maggiormente alla cultura del passato, nelle città invece sono più evidenti fenomeni come l'avvento della scrittura o come quello delle "favole alla tv": <<oggi non ascoltano più le favole di una volta… preferiscono guardare Harry Potter>>. Tuttavia Mamadou non è pessimista, <<più che ricordare un passato felice e gioioso bisogna guardare alla realtà e adeguare i nostri modelli con i tempi che cambiano… come si possono riprodurre le favole del passato?>>. Nella prospettiva ottimista di Mamadou la nuova produzione di miti e leggende non è negativa, è semplicemente segno dei tempi che cambiano, inevitabilmente e senza pause. SECONDA PARTE 2.1 Favole e traduzioni In questa parte trascriverò alcune favole, in lingua wolof, in francese e in italiano. Bisogna però tenere conto, sulla base di quanto detto finora, che la scrittura non rende giustizia alle favole che seguiranno, attraverso la scrittura non si possono trasmettere gli aspetti essenziali e caratteristici che emergono solo nella fase della narrazione. <<Il fatto che parlare sia parte di un insieme più vasto di attività viene attualmente formulato grazie all'uso del concetto di partecipazione. Si tratta di una nozione che sottolinea il carattere intrinsecamente sociale, collettivo e distribuito di ciascun atto linguistico: in quest'ottica parlare una lingua significa essere in grado di far uso di suoni che ci consentano di partecipare ad interazioni con altri, evocando un mondo che di solito è più vasto di qualunque cosa possiamo vedere o toccare in un momento dato. Il rapporto con questo mondo più vasto, sia esso reale o immaginario, è in parte creato dalla possibilità di far cose con le parole - cioè dal potere performativo di queste ultime - a sua volta reso in parte possibile dalla possibilità che le parole hanno di puntare qualcosa al di là di se stesse - cioè dalle loro proprietà indessicali 14>>. Un racconto è ancora di più. La gestualità, l'espressione del viso, lo sguardo, la posizione del corpo, la distanza tra chi narra e chi ascolta, l'ambiente, sono tutti elementi che giocano un ruolo importante nella narrazione, elementi che le donano inoltre gran parte del suo fascino.La prima fiaba che riporto è tratta dal libro di Mbacke 15 . In questa sede non è possibile approfondire i contenuti delle favole che presento, non è possibile misurarne la datazione e l'originalità, la precedente fiaba è un ricordo di Mbacke dei racconti di sua nonna, tuttavia egli ha rivisitato personalmente alcuni aspetti: la citazione di La Fontaine16 non è un ricordo del racconto originale ma un' aggiunta alla trascrizione da lui realizzata. La prossima favola è tratta dal sito www.insenegal.org che riporta diverse favole tra cui quella che segue. La tartaruga e il leopardo "La ragione del più forte è sempre la migliore", diceva il poeta francese La Fontaine; questa teoria sembra condivisa dal popolo di Numbelan, dove un giorno un temibile leopardo, dopo aver seminato zizzania per anni fra le prede, decise di confrontarsi con la tartaruga. Quest'ultima è l'unica presenza, in una giungla effervescente e piena di sorprese, che brilla per la sua discrezione e la sua pacifica natura. Un giorno come gli altri, un avvoltoio incrociò su un ramo alto di baobab un leopardo che sembrava annoiarsi a morte. "Oh grande carnivoro delle pianure di Numbelan, perché stai appollaiato da giorni in cima a questo albero? Gli impala, le zebre, gli gnu e compagni non ti gustano più?". "Proprio così, sono vecchio, ho dominato queste vaste distese per anni; la tua tribù ne è testimone, avete sempre saziato il vostro terribile appetito con i resti delle mie vittime, nessuna carne mi è estranea, ora non so più chi e cosa sfidare". "Hai mai mangiato la carne di tartaruga?". "Che cos'è la tartaruga?". "Non saprei dirtelo, so tramite un mio cugino, il marabù, che ha la carne più tenera che la natura abbia mai riservato ad un abitante di Numbelan". "Vuoi dire che è uno di noi e non lo conosco?". "Certo è difficile da trovare e altrettanto da combattere". "Tu l'hai mai mangiata questa tartaruga?". "…e come avrei potuto?…se tu non l'hai mai cacciata, io non ho mai trovato i suoi resti". "Da oggi annuncio ufficialmente una sfida alla tartaruga, fate passare la notizia". L'avvoltoio andò a raccontare personalmente la notizia a suo cugino, il marabù, uno dei più grandi predatori delle tartarughe. Quest'ultimo che si trovava alle prese con una di loro, dopo un ennesimo vano tentativo di ingannare l'animale ritirato nel suo guscio, le annunciò rassegnato: "Se non sarò io a mangiarti ci penserà il leopardo ad ucciderti". Sempre dentro il guscio la tartaruga ribadì: "Che cos'è questa storia del leopardo che mi cerca?" "Ah! Lo sai già! Sarebbe allora meglio per te lasciarti mangiare da me; con lui la tua morte sarà crudele e finirai nello stomaco dell'orribile avvoltoio". "A Numbelan nessuno ha bisogno di suicidarsi, la morte vive qui 34 come noi: oggi la provvidenza mi ha risparmiato il tuo becco assassino, domani chi lo può sapere?… E poi se i piedi sono destinati a calpestare il suolo, prima o poi incroceranno il serpente". Fu così che la saggia tartaruga liquidò la questione. Lei che non aveva mai fretta, ne aveva ancora meno di morire. Il leopardo e la tartaruga si incontrarono un giorno in un luogo della giungla dalla fitta vegetazione. Dopo uno scambio di cortesie il leopardo riconobbe il nemico del suo momento. "Sei la tartaruga, bassa statura?". "Si, temibile leopardo cosa vuoi?". "Niente di straordinario, è giunto il tuo momento di morire". "Che la sfida avvenga in un posto più accessibile" suggerì allora la tartaruga. "Come vuoi tu", acconsentì il leopardo. I due si diressero verso un corso d'acqua dove la vegetazione era meno fitta, e quando lo raggiunsero il leopardo chiese alla tartaruga quale fosse il suo ultimo desiderio. "Chiedo cinque minuti per compiere un mio rito", rispose la vittima designata ad un destino più che certo, e si allontanò. La tartaruga cominciò a scavare di qua e di là nel terreno, si rotolò sul suolo con balzi frenetici finché esaurite le forze, tornò davanti al suo sfidante e si dichiarò pronta. Il leopardo, che sembrò turbato, chiese all'avversario: "Che hai fatto?…invece di risparmiare le tue forze, cosa ti sei affannata a fare?". "Non c'è tempo per spiegartelo caro leopardo, passiamo pure all'atto finale". Il leopardo alzò una zampa e la tartaruga si spense senza soffrire. Aveva accettato il suo destino senza troppe difficoltà dopo una vita vissuta nel miglior modo possibile. Per non passare da essere insignificante ed incapace, forse la tartaruga aveva ritenuto giusto lasciare delle tracce riconoscibili di una sua resistenza prima di soccombere al potente leopardo? "Per forza" dice il saggio, "se apparire conta più di essere". In questa sede non è possibile approfondire i contenuti delle favole che presento, non è possibile misurarne la datazione e l'originalità, la precedente fiaba è un ricordo di Mbacke dei racconti di sua nonna, tuttavia egli ha rivisitato personalmente alcuni aspetti: la citazione di La Fontaine16 non è un ricordo del racconto originale ma un'aggiunta alla trascrizione da lui realizzata. La prossima favola è tratta dal sito www.insenegal.org che riporta diverse favole tra cui quella che segue. Tra cane e gatto Il cane e il gatto si trovavano spesso al servizio dello stesso padrone e ciascuno pretendeva di essere il suo beniamino. - Sono io il preferito - diceva il gatto - Prova ne è che il padrone ama prendermi sulle ginocchia, coccolarmi e accarezzare il mio soffice pelo. - No! - replicava il cane - Il padrone preferisce me, infatti quando va a caccia mi prende con sé e tu resti a casa. - Appunto - rispondeva il gatto - Il padrone mi lascia a casa per il servizio insostituibile che gli rendo: senza di me i suoi granai sarebbero preda dei topi. - Sono io il più utile. Chi abbaia quando arriva un estraneo oppure un ladro? Chi snida la selvaggina quando andiamo a caccia? - Sei ingenuo - ribadiva il gatto - Come può il padrone amare te che sbraiti per ogni passante giorno e notte, sei pieno di zecche e sporchi dove capita? - Insomma - insisteva il cane ormai spazientito - Tu credi che il padrone preferisca esseri ipocriti come te, che non fanno festa al suo ritorno e che, se non sta in guardia, gli rubano i bocconi migliori sulla tavola o i pulcini in cortile? La disputa durò a lungo, molto a lungo, ma nessuno dei due riuscì a convincere l'altro. Alla fine il cane drizzò le orecchie. - Ho un'idea - disse - Oggi, dopo pranzo, andiamo insieme a stenderci sulla sedia del padrone, quando verrà per la siesta vedremo finalmente quale dei due preferisce. - Ottima idea - rispose il gatto. Quando il padrone vide i due "signorini" comodamente allungati sulla sua sedia, afferrò una bacchetta e si avventò su di loro gridando: - Via di qua, bestiacce! Tu cane rognoso e tu gatto pieno di pulci, che non vi veda più qui, banda di fannulloni! I poveri diavoli si trovarono in giardino gemendo per i colpi ricevuti. - Allora - miagolò il gatto con voce ironica - Chi di noi due è il preferito? - Credo che sia tu - azzardò il cane. - Eh, no! - ribatté il gatto - Penso proprio che sia tu. E ricominciarono a litigare. Da quel giorno il cane e il gatto non andarono più d'accordo. È proprio vero che è impossibile far intendere ragione a chi non vuol capire… 35 Ora, possiamo solo immaginare l'atmosfera che si creava quando si raccontava una favola, Pap ricorda con estremo piacere quei momenti, così anche Mbacke e Mamadou. Le formule di apertura e chiusura avevano un compito molto importante: con le frasi iniziali il narratore creava l'ambiente, permetteva ai bambini di immergersi in quel clima magico; con le formule finali poi <<i bambini prendevano possesso della favola>> [Mbacke], si rideva e si tornava alla realtà. La prossima favola17 è riportata in lingua wolof, tradotta poi in francese e tradotta infine da me in italiano. Trascriverò tutte le versioni, bisogna però tenere in considerazione il fatto che la favola abbia subito una triplice traduzione (dalla forma orale a quella scritta in wolof, la seconda traduzione in francese e poi quella in italiano) con tutti i rischi che ciò comporta. <<Il contenuto e la forma sono uniti da un nesso inscindibile, e solo la comprensione di questo stretto rapporto può far cogliere il punto centrale di ogni traduzione 18>>. Cosaanu Ndombo As soxna dafa amoon doom ju jigéén. Bi doom ji matee sëy mu maye ko. Yàllah def xale ba ëmb. Bi mu demee ba ci juróóm ñeenti weeram, am bès, mu nekk ag yaayam; ba ñu añee ba sottal, yaay ji woo nag ñetti morooman. Mu daldi né moroom yi: - Dama bëggoon ngeen àndal maag sama doom ji nekk ciw mat, yóbbu ko mu doxantu ndax yaramam wi nàyyi. Moroom yi daldi ànd ak xale bi doxantuji ba ci tàkku dex ga, taxanaale fa. Bi ñu taxanee bay ñibbi, ñu ñów ba ci taatu dàqaar gi, yenneeku fa, di naan ci dex gi. Mat wi daldi jàpp foofu xale bi, mënatula def dara. Mu tëdd ci ag taatu daqaar, ñi mu àndaloon né ko: - Xaaral ñu dow ca dëkk ba woowi sa yay. Bi àndandoo ya demee, xale bi des fa, moom donn ag jaljaleem. Jinné ji dëkkoom ci dàqaar gi daldi génn fekk ko ci taatu daqaar gi, moom rekk. Mu dimmali ko ba mu wasin daldi ko jël moog liir ba, yóbbu ko ci biir garab gi (këram). Bi àndandooy xale bi wootejee ba dellusi, gisatuñu kenn ci taatu garab gi ñu ko bàyyiwon! Bi ñu wutee ba tàyyi gisuñu kenn, ñu yaakaar né rabu àll dafa lekk xale ba. Booba xale baa nga kër jinné ja. Jinné ji ngénté na ko ba ba santale liir bi santam; xale bi toog na lu tollu ni ñetti weer kër jinné ji; bés bu ne jinné ji dina dem ca dëkk ba seet lu xew kër yaayu xale bi, xamal ko ko. Ben bés mu ñów né xale bi: - Yërëm naa sa yaay ndax bi ma la jëlee ba léégi, guddi ag bëccëg mu ngiy jooy. Dinaa la bàyyi nga ñibbi ngir moom. Bi mu ko waajalee, wutal ko yéré ag wurus wu bare, daldi woo doomam yépp ñu teewe, mu né xale bi : - Man, Maymuna laa Tudd, sant jóób. Duma sa yaay waaye mel na ni maa la jur ; ndax dëkk ci daqaar gi. Dinaa la booleeg suma doom yii, ñu gungé la ba ca sa kër yaay. Noonu mu jekki ba guddi daldi ko génné, dellu woo jinné yépp ñu teewe, mu dindi benn ndombo jox ko, wax ko xam-xam ndombo gi, teg ca né : - Joxuma la fas gi, yow ci sa bopp, sa doom laa ko jox. Su ko takkee dina yàgg ci àddina. Boo demee seen dëk na nga fexe dëkksi yaag sa yaay ag sa jëkkër ci taatu dex gi. Dëkk bi ngeen nekkoon daañu toxusi, fekksi leen, boo defee li ma la wax, - sa doom - cosaanam ag lu bokk ci giiram ñoo di moom dëkk bi. Bi xale bi ñibbee, fexe ba toxu ca taatu dex gi, waa dëkk ba wàccsi ci taatu dex gi, fekksi leen. Doomu xale bi nekk buuru dëkk bu bees bi, bi mu màgge. Le Mythe de fondation de Ndombo Une vieille femme avait une fille. Quand elle an eut l'âge, elle fut donnée en mariage. Allah fit que la fille fut enceinte. Un jour après le repas, alors que fille en était à son neuvième mois, sa mère causant avec trois de ses amies leur dit : - Je Voudrais que vous alliez avec ma fille enceinte pour une promenade qui lui dégourdirait les jambes. Les amies emmenèrent la fille jusqu'au bord du fleuve. Elles profitèrent de l'occasion pour ramasser du bois. Quand elles eurent fini elles boire au fleuve. A ce moment la fille ressentit les premières douleurs de l'accouchement. Elle ne pouvait plus bouger, elle s'étendit à l'ombre d'un tamarinier. Ses compagnes lui dirent alors : << Attends ici, nous allons au village appeler ta mére>>. Quand elle se furent éloignées, la fille demeura seule avec ses maux. C'est alors que la Djinné qui habitait le tamarinier, en sortit et trouva la fille ; elle l'aida, elle l'aida à accoucher, puis, elle emporta la fille avec le nouveau-né à l'intérieur de l'arbre, sa demeure. Quand revinrent les trois amies, il n'y avait plus personne au pied de l'arbre où elles avaient laissé leur compagne. Elles eurent beau chercher, elles ne trouvèrent personne et crurent que les bêtes de la brousse l'avaient dévorée. Pendant ce temps la fille se trouvait chez la Djinné ; celle-ci vait baptisé le bébé et lui avait donné un nom. 36 La fille au village, voir ce qui se passait chez la mère de la fille, afin de l'en informer. Un jour la Djinné en revint et dit à la fille : - J'ai pitié de ta mère, car depuis je t'ai enlevée elle pleure nuit et jour. Je te laisse rentrer à cause d'elle. Elle l'apprêta pour son retour et lui offrit or et vêtements en abondance. Ensuite elle convoqua ses enfants, en témoins, et parla ainsi à la fille : - Mon prénom est Maimouna, mon nom est Diop. Je ne suis pas ta mère. Mais c'est tout comme, car je suis la djinné protectrice de ton village d'origine, Je suis reine des Djinns de ce tamarinier. Je te ferai accompagner par mes enfants jusqu'au logis de ta mère. (Maiomouna Diop la Djinné fit sortir la fille à la tombée de la nuit). Après quoi elle reconvoqua l'assemblée des génies. Devant eux, elle sortit une amulette qu'elle confia à la fille et dont elle lui révéla le secret ; elle ajouta ceci : - Ce n'est pas à toi que j'offre ce talisman, j'en fais cadeau à ton fils, s'il le porte sur lui, il vivra longtemps. - Quand tu rentreras à ton village, que personne ne change jamais le nom que j'ai donné à ton enfant. - Quand tu retourneras les tiens, tente de les convaincre de venir habiter, toi, ta mère et ton mari, au bord de ce fleuve. - Les gens du village que vous quitterez déménageront et viendront vous retrouver. - Si tu fais ainsi, ton fils et sa descendance seront toujours les maîtres du nouveau village. Quand la fille rentra chez elle, elle réussit à venir s'installer au bord du fleuve. Les habitants de l'ancien village descendirent les y retrouver. Alors le fils de la jeune femme, quand il eut grandi, devint chef du nouveau village, (Ndombo). Il mito della fondazione di Ndombo Una vecchia donna aveva una figlia. Quando questa fu in età da marito fu data in sposa. Allah fece sì che la ragazza rimanesse in cinta. Un giorno, dopo pranzo, quando la ragazza era al nono mese di gravidanza, la madre parlando con le amiche disse loro: - vorrei che voi usciste con mia figlia per una passeggiata, per farle sgranchire le gambe. Le amiche portarono la ragazza fino al bordo del fiume. Approfittando dell'occasione si misero a raccogliere della legna. Quando ebbero finito, deposero i loro fagotti all'ombra dei tamarindi, per andare a bere al fiume. In quel momento la ragazza sentì i primi dolori del parto. Non poteva muoversi e si stese all'ombra di un tamarindo. Le altre donne allora le dissero: - aspetta qui, noi andiamo al villaggio a chiamare tua madre. Quando si furono allontanate la ragazza restò sola con i suoi dolori, fu allora che la djinné 19 che abitava il tamarindo uscì e trovò la ragazza; la aiutò a partorire, poi la portò, insieme al suo nuovo nato, all'interno dell'albero che era la sua dimora. Quando le tre amiche tornarono non c'era più nessuno ai piedi dell'albero dove avevano lasciato la ragazza, cercarono più volte ma non trovarono nessuno e credettero che le bestie della savana l'avessero divorata. Ma la ragazza si trovava dalla djinné; questa aveva battezzato il neonato e gli aveva dato un nome. La ragazza restò dalla djinné circa tre mesi. Ogni giorno la djinné andava al villaggio per vedere cosa succedeva dalla mamma della ragazza e per informarla. Un giorno la djinné ritornò e disse alla ragazza: - provo tanta pena per tua mamma poiché da quando sei qui piange giorno e notte. Ti lascio tornare da lei. La preparò per il ritorno e le offrì oro e vestiti in abbondanza, infine convocò i suoi bambini, in qualità di testimoni, e parlò così alla ragazza: - il mio nome è Maymuna, il mio cognome è Diop. Io non sono tua mamma ma è come se lo fossi poiché sono il djinné protettore del tuo villaggio d'origine. Io sono la regina dei djinné di questo tamarindo, ti farò accompagnare dai miei bambini da tua mamma. (Maymuna Diop fece uscire la ragazza al tramontare del sole). Dopo di che convocò l'assemblea dei geni, davanti a loro tirò fuori un amuleto e disse: - non è a te che offro questo talismano, ma a tuo figlio. Se lo porterà con sé vivrà a lungo. Quando rientrerai nel tuo villaggio che nessuno cambi mai il nome che ho dato al tuo bambino. Quando sarai dai tuoi, la tua famiglia, convincili a trasferirsi ai bordi di questo fiume. Le persone del villaggio si sposteranno e verranno con voi. Se tu farai così tuo figlio e i suoi discendenti saranno sempre i capi del villaggio. Quando la ragazza rientrò a casa sua convinse la sua famiglia ad installarsi sul bordo del fiume. Gli abitanti del villaggio li seguirono a loro volta, allora il figlio della ragazza quando divenne grande, divenne capo del nuovo villaggio (Ndombo). 37 Se la traduzione è una strategia che, come dicevamo, non rende giustizia al valore del racconto e a tutti quei meccanismi che si mettono in atto nella fase della narrazione, rimane tuttavia uno strumento necessario per rendere conoscibili certi aspetti delle culture, o di alcune pratiche culturali, che si studiano. L'obiettivo è cioè quello di <<ricondurre le esperienze culturali umane a un orizzonte di senso […] in cui tali esperienze possano essere comprese20 >>. Ciò non significa che i lavori di traduzione debbano essere immuni da critiche o da analisi attente, anzi, è necessario mantenere uno sguardo critico unito alla consapevolezza che traducendo si sta "inventando" qualcosa di diverso, una nuova storia nel nostro caso. 2.2 Parlare e raccontare <<Le parole possono essere non solo simboli ma anche azioni>> [Duranti 2000: 194]. Il linguaggio non ha solo il compito di esprimere o rappresentare qualcosa, riveste anche un ruolo pragmatico, non è solo un modo per nominare le cose, al contrario, mediante il linguaggio le cose prendono vita ed esistono <<Le parole hanno con sé una miriade di possibilità per metterci in rapporto con altri esseri umani, altre situazioni, eventi atti […] la lingua è in grado di descrivere il mondo e al tempo stesso di metterci in relazione con gli individui che lo abitano, gli oggetti, i luoghi, i tempi che lo scandiscono>> [ivi: 51]. Ciò di cui parliamo qui è un tipo particolare di azione che, come abbiamo visto, non è solo linguistica: il racconto, la narrazione, <<una delle forme di discorso più diffuse e più potenti della comunicazione umana21>>. In una prospettiva che vede la narrazione come importante strumento di coesione sociale, è implicito lo spostamento, sull'asse delle priorità, dell'attenzione dalle strutture materiali a quelle discorsive dell'azione umana. <<La narrazione ha una specifica capacità di stabilire legami tra l'eccezionale e l'ordinario22>>, in questo senso può essere intesa come uno strumento in grado di rendere conoscibile il mondo e come un sistema di mediazione tra la realtà e l'immaginario. <<In ogni narrazione noi raccontiamo a noi stessi, prima di tutto, e raccontiamo noi stessi; poi raccontiamo agli altri e raccontiamo gli altri>> [Melucci 2000: 114]; ciò significa che con ogni storia, con ogni racconto noi "ritualizziamo" la nostra esistenza, la rendiamo esplicita e condivisibile. <<Il racconto è una preziosa forma di conoscenza, un sistema di costruzione del significato, che permette di capire cos'è unico per alcuni e universale per altri, e di come sia l'unico che l'universale facciano parte di un tutto dinamico e interattivo>> [Atkinson: 114]. In quest'ottica il racconto non può essere inteso come un aspetto marginale della vita socio-culturale di un popolo, tutt'altro, è un elemento essenziale per rapportarsi al mondo, in altre parole <<si tratta di fare della narrazione non solo un'esperienza privata, ma uno spazio pubblico dove la diversità della parola possa essere contenuta e ascoltata>> [Melucci: 118]. Il mondo vive in noi, non il contrario, tu sei il mondo stesso… 38 sei sempre esistito come me e come tutto, magari in stati diversi, ma sempre… non c'è vita al di fuori del mondo, non esiste mondo al di fuori della vita…23 Le società creano i loro miti e attraverso le storie, i racconti, le favole, tracciano il loro tragitto verso mondi immaginari e ripensano il loro passato cercando le risposte alle domande che da sempre occupano i vuoti dell'uomo: da dove veniamo? Verso dove stiamo andando? Chi siamo? Ogni società, quindi, crea il proprio orizzonte simbolico in cui riflette se stessa, orizzonte che è soggetto a continui cambiamenti di forma e significato. <<I miti e le leggende popolari assolvono tradizionalmente quattro funzioni classiche, finalizzate a sintonizzarci maggiormente con noi stessi, gli altri, il mistero della vita e l'universo che ci circonda>> (Atkinson: 16). William Blake, I want! I want! IO VORREI NON CONCLUDERE! Vorrei non smettere mai di ascoltare favole, vorrei continuare a sognare mondi meravigliosi, vorrei volare a Numbelan, vorrei raccontare fiabe ai più piccoli e anche ai più grandi, vorrei che Mbacke non temesse la fine di una tradizione, continuamente vorrei vivere la magia delle favole. <<Leggendo queste fiabe africane, la prima nostra curiosità va non tanto al dibattuto problema della loro storia e origine quanto al loro futuro 24 >>. C'è ancora spazio in questo mondo per le favole? Abbiamo ancora bisogno di viaggiare con l'immaginazione in luoghi incredibili, magari per parlare con leoni e zebre? <<L'uomo che non ha fantasia non ha ali per volare>> diceva Muhammad Ali, vorrei aggiungere che l'uomo che non sogna di volare resterà incatenato alla fragile lotta per la sopravvivenza, senza poter cogliere la meraviglia del desiderio, della creatività, della diversità. Coltivare l'immaginario è dunque l'esercizio che dobbiamo imporci di eseguire, coltivare l'immaginario e raccontare, ascoltare, inventare, sognare e persino volare. Infine vorrei dedicare le ultime righe di questo mio "elogio alla favola" al racconto di un re e di sua figlia, un favola come tante, una favola che, come tutte le favole, ha qualcosa da insegnarci. Prova d’amore C'era una volta un re che aveva una figlia ammirata da tutti per la sua bellezza e bontà. Molti venivano a offrirle gioielli, stoffe preziose, noci di kola, sperando d'averla come sposa. Ma la giovane non sapeva decidersi. - A chi mi concederai? - Chiese a suo padre. - Non so - disse il padre - Lascio scegliere a te: sono sicuro che tu, giudiziosa come sei, farai la scelta migliore. - Facciamo così - propose la giovane - Tu fai sapere che sono stata morsa da un serpente velenoso e sono morta. I membri della famiglia reale prenderanno il lutto. Suoneranno i tam-tam dei funerali e cominceranno le danze funebri. Vedremo cosa succederà. Il re, sorpreso e un po' controvoglia, accettò. La triste notizia si diffuse come un fulmine. Nei villaggi fu un gran parlare sottomesso, spari di fucile rintronavano in segno di dolore, mentre le donne anziane, alla porta della stanza mortuaria, sgranavano le loro tristi melopee. Ed ecco arrivare anche i pretendenti della principessa. Si presentarono al re e pretesero la restituzione dei beni donati. - Giacché tua figlia è morta, rendimi i miei gioielli, le stoffe preziose, le noci di kola. Il re accontentò tutti, nauseato da un simile comportamento. Capì allora quanto sua figlia fosse prudente. Per ultimo si presentò un giovanotto, povero, come appariva dagli abiti dimessi che indossava. Con le lacrime agli occhi egli disse: - O re, ho sentito la dolorosa notizia e non so come rassegnarmi. Porto queste stoffe per colei che tanto amavo segretamente. Non mi ritenevo degno di lei. Desidero che anche nella tomba lei sia sempre la più bella di tutte. Metti accanto a lei anche queste noci di kola perché le diano forza nel grande viaggio. Il re fu commosso fino al profondo del cuore. Si presentò alla folla, fece tacere ogni clamore e annunciò a gran voce: - Vi do una grande notizia: mia figlia non è morta. Ha voluto mettere alla prova l'amore dei suoi pretendenti. Ora so chi ama davvero e profondamente mia figlia. E' questo giovane! E' povero ma sincero. Dopo qualche tempo si celebrarono le nozze con la più bella festa mai vista a memoria d'uomo. I vecchi pretendenti non c'erano e non si fecero più vedere25. NOTE Tedlock, Verba manent, 2002, L'ancora, Napoli, p. 29. Fasana, "Prefazione" in Schmidt, Islam, solidarietà e lavoro, 1994, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, p. IX. 3 Bargna, Arte africana, 2003, Jaka Book, Milano. 4 Melucci, Culture in gioco, 2000, Il Saggiatore, Milano, p. 23. 5 L'espressione viaggio è usata nel senso cliffordiano del termine come esplorazione, ricerca, incontro trasformatore... in Clifford, Strade, 1999, Bollati Boringhieri, Torino. 6 Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, 2002, Einaudi, Torino, p. 255. 7 www.insenegal.org 8 Atkinson, L'intervista narrativa, 2002, Cortina, Milano. 9 Sull’argomento si veda Block, Linguaggio, antropologia e scienze cognitive, in Borowsky, L'antropologia culturale oggi, 2001, Meltemi, Roma. 10 I Griots sono una sorta di poeti e musici ambulanti; la comunità li considerava dotati di particolari poteri. 11 Animismo: forma religiosa che considera tutte le cose governate da un'entità spirituale o anima, Nuova Enciclopedia Universale Rizzoli Larousse (1994) . Il termine animismo, come prima forma di religiosità, fu introdotto da Tylor, Primitive culture, 1871. 12 Gruzinski, La colonizzazione dell'immaginario, 1994, Einaudi, Torino, p. 360. 13 Senghar, Abduliye e Sadji sono stati i primi a parlare di Numbelan 14 Duranti, Antropologia del linguaggio, 2000, Meltemi, Roma, p. 29. 15 Gadji, Numbelan, 1999, Dell'Arco, Milano. 16 La Fontaine, poeta francese (1621-1695). Nei dodici volumi delle Favole rinnovò la tradizione esopica rappresentando la commedia umana; utilizzando animali simbolici ironizzò sulla vita della società dell'epoca. 17 Kesteloot, Mbodj, Contes et Mithes wolof, 1983, La Nouvelles Editions Africaines, Dakar. 18 Matera, Biscaldi, Introduzione all'edizione italiana in Tedlock, op.cit , p. 9. 19 Considerato una sorta di spirito. 20 Fabietti, Antropologia culturale, 2000, Laterza, Roma-Bari, p. 227. 21 Bruner, La mente a più dimensioni, 1993, Laterza, Roma-Bari, p.81. 1 2 39 Piasere, L’etnografo imperfetto, 2002, Laterza, Roma-Bari, p.170. Lo spirito guardiano parla a Mor in una notte insonne, Gadji, Lo spirito delle sabbie gialle, 1999, Dell’Arco, Milano. 24 Calvino, Prefazione in Radin Fiabe africane, 1955, Einaudi, Torino, p. VII. 25 www.insenegal.org 22 23 BIBLIOGRAFIA Atkinson, L'intervista narrativa, 2002, Cortina, Milano. Bargna, Arte africana, 2003, Jaca Book, Milano. Bloch, Linguaggio, antropologia e scienze cognitive, in Borowsky, L'antropologia culturale oggi, 2001, Meltemi, Roma. Bruner, La mente a più dimensioni, 1993, Bollati Boringhieri, Torino. Clifford, Strade, 1999, Bollati Boringhieri, Torino. Diagne, Contes sérère du Sine, 1978, Nouvelles Editions Africaines, Dakar. Duranti, Antropologia del linguaggio, 2000, Meltemi, Roma. Fabietti, Antropologia culturale, 2000, Laterza, Roma-Bari. Gadji, Lo spirito delle sabbie gialle, 1999, Dell'Arco, Milano. Gadji, Numbelan, 1996, Dell'Arco, Milano. Geertz, Interpretazione di culture, 1998, Il Mulino, Bologna. Gruzinski, La colonizzazione dell'immaginario, 1994, Einaudi, Torino. Kesteloot, Mbodj, Contes et mithes wolof, 1983, Nouvelles Editions Africaines, Dakar. Melucci, Culture in gioco, 2000, Il Saggiatore, Milano. Matera, Etnografia della comunicazione, 2002, Carocci, Roma. Piasere, L'etnografo imperfetto, 2002, Laterza, Roma-Bari. Radin, Fiabe africane, 1955, Einaudi, Torino. Schmidt, Islam, solidarietà e lavoro, 1994, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino. Sow, Chroniques et récits du Fouta-Dialon, 1968, Kincksieck, Parigi. Tedlock, Verba manent, 2002, L'ancora, Napoli. Tylor, Primitive culture, 1871, UK. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, 2002, Einaudi, Torino. Willemin, Le confraternite nell'Islam: il muridismo" www.insenegal.org 40 Della guerra. Intervista a Ugo Fabietti a cura di Lorenzo D'Angelo e Antonio De Lauri Frederic Brown La Sentinella "Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra, e la gravità, doppia di quella cui era abituato, faceva d'ogni movimento una agonia di fatica. Ma dopo decine di migliaia d'anni quest'angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell'aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo schifoso pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c'era arrivato anche il nemico. Il nemico, l'unica razza intelligente della Galassia... crudeli, schifosi, ripugnanti mostri. Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra, subito; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie. Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo, e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale. Stava all'erta, il fucile pronto. lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l'avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle. E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più. I l verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s'erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d'un bianco nauseante, e senza squame". (Da Solmi-Fruttero, Le meraviglie del possibile, Torino, Einaudi, 1973) I. Nel racconto di Brown emerge come ci sia una naturale tendenza ad identificare il protagonista come umano e l'avversario come alieno. Solo alla fine del racconto il lettore scopre di essersi inconsapevolmente messo nei panni dell'Altro. Si può affermare che ogni guerra presuppone una "naturale" tendenza a de-umanizzare l'altro, a considerare "scimmie di terra" o "uova di pidocchio" quanti vivono appena al di là del fiume1? Qual è la sua opinione in proposito? F. Questo è sicuramente vero, in parte perché sappiamo che i nemici sono tratteggiati con caratteristiche disumane e si comportano attraverso una serie di atteggiamenti che rovesciano i valori accettati della bontà, della solidarietà, fraternità... Il nemico è sempre quello che rovescia i valori su cui si fonda il gruppo sociale. Certo, ci sono anche delle eccezioni. Alle volte il nemico, in contesti particolari, può diventare colui che solidarizza con l'avversario. Ci sono dei momenti di fraternità, di mutuo riconoscimento attraverso un generico "siamo tutti sulla stessa barca" perché siamo tutti in guerra, oppure a livello di classe. In un celebre romanzo di Emilio Lussu, Un anno sull'altipiano, emerge proprio questa problematicità dei due schieramenti dove, però, ci sono delle differenze di classe e non si capisce perché i proletari italiani debbano sparare contro i proletari austriaci nel corso della prima guerra mondiale. In generale c'è - anche attraverso uno studiato sistema di propaganda - un tentativo di far apparire il nemico come colui che non crede, come colui che non rispetta, come colui che sovverte. Ci sono diversi esempi in questo senso, casi in cui avviene una stigmatizzazione di certi tratti culturali tipici di una particolare popolazione: lo abbiamo visto in Afghanistan, in Iraq etc. I. In certi dibattiti uno degli assunti di fondo sembra essere quello che la guerra sia una conseguenza naturale dell'aggressività umana... F. Penso di interpretare abbastanza il sentire comune della maggioranza dei miei colleghi se dico che, per gli antropologi, quando si comincia a parlare di cose innate, di risposte a stimoli... si va su un terreno che ci piace poco. Allora tanto varrebbe dire che l'uomo è figlio dei propri istinti e avremmo risolto tutto; avremmo spiegato tutto. Lo scopo dell'antropologia è sempre stato però quello di cercare di contestualizzare i comportamenti, gli atteggiamenti e le 41 disposizioni intellettuali dell'umanità, e questo comporta uno sforzo di distinzione cognitiva su oggetti specifici. Per cui non si può andare alla ricerca di spiegazioni generali o totalizzanti del tipo "la guerra c'è perché gli esseri umani sono aggressivi". E' chiaro che tra il randello dell'australopiteco e la bomba atomica c'è una bella differenza! La violenza, la guerra, l'aggressività trovano in certi contesti una particolare possibilità di sviluppo o di "applicazione". In altri, invece, vengono bloccate, tenute sotto controllo. Quindi, parlare di odio per l'altro, per il nemico, come qualcosa che è frutto di un nostro istinto non spiega niente. Se parliamo di alterità, bisogna dire che questa la si crea sempre. Se come esempio prendiamo lo stadio, succede che quelli della curva sud pensano che quelli della curva nord siano gli "altri" e viceversa; non è necessario che appartengano ad un'altra "cultura" a un'altra "etnia". L' "altro" lo si ri-crea sempre ogni volta che lo si vuole creare, magari non studiandolo a tavolino ma attraverso una serie di disposizioni e di atteggiamenti che tendono, nel momento in cui si vuole affermare una certa identità, a creare esclusione e quindi alterità. In generale il problema dell'alterità non può essere legato all'alterità culturale in senso stretto, a quella cioè che incontra l'antropologo sbarcando sulle isole della Polinesia. L'alterità è ovunque. I. Ci sono circostanze in cui attraverso uno studio sistematico, quasi scientifico, si cerca di dettare delle regole o dei criteri di alterità. Casi del genere hanno reso particolarmente violenti conflitti in passato e oggi... F. Certo, perché, come dice Renan, se l'etnografia, o quella che noi oggi definiamo antropologia, si mette al servizio della politica per costruire l' "altro" come diverso, per poterlo, come diremmo noi, dominarlo o controllarlo, renderlo "altro", allora sì che la questione dell'alterità diventa un problema grave. I teorici della "razza pura" si siedono a tavolino e stabiliscono criteri e giudizi per classificare gli uomini. Al museo di antropologia e di etnografia di Firenze, questo lo si dice poco per esempio, nel 1938 venne elaborata la teoria dell' "italiano puro" e quindi le basi teoriche delle leggi razziali che sarebbero state promulgate lo stesso anno contro gli ebrei, gli zingari etc. In questo caso appunto, c'è un'alterità studiata a tavolino. I. Quanto è cambiata l'idea di guerra dopo l'11 settembre? In che misura è possibile (se lo è) parlare di "scontro tra culture"? F. La percezione generale è che l'idea di guerra sia cambiata davvero dopo l'11 settembre, forse anche già prima, ma noi abbiamo sempre bisogno di date per scandire i nostri cambiamenti, i nostri modi nuovi di rappresentare il mondo che ci circonda. Sicuramente dopo quella data si è cominciato a parlare di guerra all'America e di guerra al terrorismo, e visto che questi diventano gli elementi dominanti della scena politica internazionale, è chiaro che hanno polarizzato su di sé il significato, la portata semantica, del termine guerra. In realtà le guerre si continuano a fare anche con metodi convenzionali, con gli eserciti schierati uno di fronte all'altro come è successo, almeno prima dell'ultima tregua, tra Etiopia ed Eritrea. Oppure quelle guerre endemiche, estenuanti che affliggono gran parte del globo. L'idea di guerra è cambiata perché è avvenuto un po' come per le culture, nel senso che non si pensano più le culture come lontane le une dalle altre, ma si pensano ormai come una dentro le altre. La guerra allo stesso modo viene pensata come qualcosa che penetra, anche nella pace, nel quotidiano di una vita tranquilla e pacifica. Quante volte ci viene ripetuto dai media "siamo in guerra". É certo che se dovessimo adottare il criterio classico per stabilire se siamo in guerra, diremmo che non è così. Di fatto siamo in guerra perché ogni tanto compare un ministro o un uomo politico, italiano e non, che ci dice che "ci sono minacce di attentati", "che dobbiamo mandare i soldati di qui e di là", "che bisogna controllare, fare operazioni di polizia": si genera un clima di guerra. Certamente non siamo al razionamento del pane e della carne, come nel ricordo di coloro che hanno vissuto altre guerre, per cui l'idea di guerra era associata a povertà, bombardamenti. Il nemico lo si riconosceva bene. Pensare alla guerra in termini di "guerra al terrorismo" o "guerra all'America", ci rimanda ad altre concezioni e altre immagini. Non so quanto questo cambiamento dell'idea di guerra sia connesso con quello che si definisce "scontro tra culture". Sicuramente all'epoca della prima e della seconda guerra mondiale non si parlava di scontro tra culture, semmai vi era uno scontro di ideologie. Oggi al termine cultura si dà un significato molto più pesante, antropologico direi. Non credo comunque che la guerra del terrorismo contro l'occidente, e dell'occidente contro il terrorismo sia oggettivamente una guerra tra culture. Direi che viene caricata di questi significati da parte di quanti vedono questo confronto, questa insorgenza del terrorismo, come un'occasione, un modo, un quadro entro cui perseguire un certo progetto politico; allora ecco che nella geopolitica dell'impero il mondo può essere diviso in culture in conflitto (penso anche che da parte dei terroristi vi sia una tendenza speculare). Qual'è il messaggio che può passare attraverso questa idea di scontro tra civiltà, tra culture, spesso ridotte a religione? Il messaggio è che gli interessi dell'Occidente devono essere difesi a tutti i costi contro questo nemico indefinibile, che non si capisce se si tratti di un mondo emergente o un mondo che sta precipitando e cerca di aggrapparsi a qualcosa, per non precipitare o per tirare giù con sé anche l'Occidente. Sicuramente la Cina è l'aspetto emergente di questa alterità. L'Africa, il mondo sub-sahariano sono l'aspetto naufragante di questa alterità. Quindi l'idea di questo "scontro tra culture" è non solo eticamente ed epistemologicamente scorretta dal punto di vista antropologico, ma è anche politicamente molto rischioso e azzardato un discorso di questo genere perché rischia di produrre grosse opposizioni, anche laddove fino a questo momento non ce ne sono state. Il problema quindi è capire in che misura certe "costruzioni dell'alterità" siano funzionali a un determinato disegno politico. In una prospettiva di questo genere la differenza culturale diventa uno strumento per legittimare una guerra. I. Quale contributo è in grado di fornire l'antropologia nel dibattito attuale sulla guerra? F. Secondo me ci sono due piani su cui si può situare, oggi, il 42 contributo dell'antropologia al ripensamento o alla comprensione del fenomeno "guerra". Uno è più strettamente tecnico, cioè i classici strumenti dell'antropologia messi al servizio di una comprensione di realtà particolari, specifiche. Il secondo è più generale ed ha una rilevanza più etico-politica e culturale, perché traduce in uno sguardo sulla situazione attuale, contemporanea, quelli che sono i presupposti della disposizione antropologica alla comprensione della diversità. Nel primo caso, su un piano strettamente tecnico, è chiaro che se utilizziamo il sapere antropologico per capire fenomeni attuali, abbiamo maggiori possibilità di comprendere la specificità di tali fenomeni. Prendiamo il caso dei cosiddetti kamikaze islamici: ricordo che quando vennero fuori i primi casi di questo tipo c'erano alcuni miei colleghi, non antropologi, che ritenevano assolutamente irrazionale e incomprensibili questi gesti. Ma, innanzitutto, abbiamo avuto anche noi numerosi esempi nella storia, dal mondo classico fino ad oggi, di coloro che si sacrificano per un ideale. Dobbiamo essere capaci di comprendere il significato del "martirio" (non del suicidio), perché noi li chiamiamo kamikaze ma in realtà non sono dei kamikaze. Il kamikaze era il soldato giapponese (aviatore, in genere di alto rango sociale) che si buttava con l'aereo contro le navi nemiche durante la seconda guerra mondiale. Applicava un codice d'onore che non era lo stesso di - tanto per fare un esempio di eroe sacrificale - Pietro Micca. Nel caso di questi martiri islamici, le cose sono ancora diverse: nei loro atti c'è una simbologia e un orizzonte motivazionale che possono essere colti soltanto attraverso una conoscenza di ciò che significa sacrificio, comunità sacrificale, comunità-vittima che si sente oppressa e che trova quindi un riscatto attraverso il sacrificio di un proprio membro il quale nel suo gesto coinvolge il nemico che a questo punto diventa lui stesso vittima sacrificale. Probabilmente, dico una battuta, se studiassimo di più Robertson Smith e la sua teoria del sacrificio, capiremmo meglio lo spirito che spinge certi individui, sia uomini che donne, a morire per la propria comunità. Questo fenomeno non può essere risolto quindi "liquidando" i "martiri" musulmani considerandoli dei kamikaze. Attraverso una lettura di tipo antropologico possiamo coglierne la complessità e la specificità. Comprendere non significa giustificare, ma è chiaro che, da parte di molti non c'è alcun desiderio di mettere in atto un'analisi antropologica di tali fenomeni, poiché devono essere considerati come semplici atti di barbarie, di sabotaggio, di assassinio etc. In realtà si potrebbe quasi dire che c'è più "umanità" nel martire musulmano che si uccide uccidendo il suo "nemico", che siano soldati o civili - atto orrendo chiaramente che non nei missili sparati dagli aerei israeliani contro le case dei palestinesi……. Gli innocenti muoiono anche in questi ultimi casi ma, con un atto di deliberata violenza, che tiene l'aggressore al di fuori del rischio dell'atto stesso che compie. Possiamo allora esaminare certe forme di guerra attuali mediante gli strumenti dell'antropologia, per uno sforzo di comprensione che vada al di là delle immagini trasmesse alla televisione. Su un piano più generale, l'antropologia può dare un contributo per costruire un discorso di pace e ciò deriva più che altro dalla vocazione fondamentale dell'antropologia, che è un sapere fondato sul dialogo, l'incontro, la comprensione del punto di vista dell'altro e il riconoscimento dei diritti dell'altro. Ciò non corrisponde a quella sinistra deviazione del giudizio chiamata impropriamente relativismo culturale poiché quest'ultimo non è una dottrina ma è un modo di avvicinarci alle diverse situazioni. Vuol dire che se vogliamo capire qualcosa dobbiamo cercare di contestualizzare i fenomeni nella loro giusta portata. Ciò non significa giustificare qualunque cosa, tutt'altro. In realtà l'atteggiamento relativista spinto è proprio di coloro che non sentono le ragioni degli altri, che pensano che gli altri siano prigionieri della loro cultura e che quindi non ci sia comunicabilità tra universi culturali distanti o differenti. L'antropologia insegna che tale comunicabilità non solo è possibile, ma anche auspicabile. Naturalmente le culture non sono trasparenti le une alle altre, ma ciò non esclude che ci possa essere una comunicazione finalizzata alla comprensione. Teorie come quelle dello "scontro tra civiltà" tendono in qualche modo a privilegiare gli elementi della differenza, della separazione e della radicale opposizione, di solito per scopi che noi antropologi non condividiamo. NOTA 1 Geertz, C., Antropologia e filosofia, Il Mulino, Bologna, 2001. 43 Diplomazia di un terremoto di Lara Palazzo Il 26 dicembre 2003 la terra trema nell'Iran sud orientale. Un terremoto, dell'entità di 6,7 gradi di magnitudo secondo la scala Richter, sconvolge il sistema culturale e ambientale di questa antica porzione di mondo. Un'area sismica ad alto rischio dove però non vi sono, tutt'oggi e nonostante i continui segnali di rischio, infrastrutture adeguate per affrontare un evento calamitoso di tale entità. Case fragili d'argilla e paglia. La cittadella antica, gloria di Bam dichiarata patrimonio dell'umanità dall'UNESCO, rasa al suolo come tutte le abitazioni della zona. Innumerevoli i morti, migliaia i feriti, un esodo interminabile a ridosso d'ogni mezzo di locomozione. La strada che conduce da Bam verso i centri a nord (da Kerman a Isfahan, fino alla capitale Tehran) rimane un unico immenso ingorgo, per svariati giorni. Lo stesso vale per quella che va a sud, in direzione Zahedan, nei pressi del confine con il Pakistan. Scenario apocalittico: nel giro di pochi secondi millenni di storia, cultura e tradizione svaniscono nella memoria. Una tragedia che segna il territorio in maniera indelebile, perdita umana e perdita di un'identità inscritta nello spazio. Chi sopravvive ad una tragedia di tale portata deve imparare a sopravvivere al ricordo di un'identità sospesa, la propria famiglia, la propria casa, il sistema sociale in cui erano radicate. Chi resta non si sente più fortunato di chi è rimasto sotto le macerie, sentimenti di smarrimento, senso d'impotenza e impossibilità di guardare al futuro, in un luogo dove non è rimasto più nulla. Gli psicologi la definiscono sindrome da disastro , la perdita fisica, economica, materiale, funzionale, sia sul piano personale sia sociale, va a sommarsi con la perdita delle persone care, più che un lutto, l'abisso. Flussi migranti, trasportano culture che per millenni si sono radicate e riconosciute in un territorio, in un'architettura, in una rete di spazi delimitati dal significato che nel tempo si è stratificato. Se da sempre l'uomo ha dovuto misurarsi con la forza della natura, capire il proprio limite e rielaborare il costrutto sociale anche sulla base dei rimandi concreti che la natura stessa fornisce, rimane difficile da giustificare l'attuale diseguaglianza esistente tra le risorse in possesso dei diversi Paesi. Una diseguaglianza che si traduce in termini di sopravvivenza d'interi sistemi sociali e culturali. I terremoti di quest'entità, infatti, sono molto frequenti in diverse parti del pianeta, ma il gap economico e tecnologico, esistente fra Paesi con risorse adeguate per far fronte a calamità naturali e Paesi senza alcuna risorsa, fa sì che essere terremotati in USA o in Giappone ed esserlo in Iran produca effetti totalmente diversi. Retorica di un mondo globalizzato? Forse sì ma 50.000 vite umane, stritolate nel vortice di un evento che altrove sarebbe stato prevedibile nonché controllabile, forse meritano una riflessione più approfondita. Infatti, pur considerando la diversità culturale circa la concezione della morte e partendo dall'idea che l'elevato numero di vittime può avere una connotazione negativa per gli occidentali che mal si coniuga con la concezione di morte elaborata da altri sistemi culturali, intesa come percorso continuo di un unico ciclo esistenziale, pare doveroso un approfondimento circa la prevenzione. Geograficamente, infatti, l'Iran è una zona ad alto rischio sismico. La geologa Daniela Pandolfi spiega che: "Il sistema è molto complesso. Ci sono due placche, quella arabica e quella eurasiatica, che si stanno scontrando: in corrispondenza dell'impatto è sorta la catena montuosa del Caucaso. Ma questo scontro provoca in realtà anche un secondo effetto: come un tubetto di dentifricio che viene schiacciato nel centro, una parte dell'energia e della crosta viene spinta ai lati della faglia. Un fenomeno chiamato delle estrusioni tettoniche. La penisola anatolica tende quindi a svicolare verso ovest, mentre l'Iran subisce una deformazione interna arricciandosi. In generale le zone sono poco abitate, ma verso sud, dove ricominciano le montagne, la densità abitativa ricomincia a crescere. Il problema sono le costruzioni: sia quelle moderne che quelle antiche sono assolutamente fatiscenti, quindi questi terremoti finiscono per essere sempre molto distruttivi. Esiste un centro di ricerca internazionale di buon livello promosso dall'Unesco, l'International Institute of Earthquake Engineering and Seismology. Ma il problema è che se in paesi come la Turchia, che ha problemi analoghi all'Iran - e che condivide con quest'ultimo il motore alla base dei terremoti - gli americani hanno spinto la ricerca ottenendo buoni risultati, qui gli americani se ne sono andati dopo la chiusura dell'ambasciata nel 1979. E non hanno più collaborato a progetti importanti, come l'istituzione di una rete sismica seria". Un evento non solo controllabile ma assolutamente prevedibile, come spiegare, quindi, alle famiglie delle migliaia di vittime che si poteva evitare una catastrofe di simile portata? Volendo tralasciare per un attimo approcci che facilmente possono riversarsi in dietrologia, può essere interessante sottolineare come si muove la macchina della diplomazia internazionale, in situazioni d'emergenza. In occasione del tragico evento il governo Bush ha deciso di sospendere, temporaneamente (90 giorni) e con riserve particolari, l'Iran dalla cerchia dei "cattivi" per elargire il proprio aiuto. Immagini sorridenti del Presidente che sciolinava il suo bel discorso sulla bontà degli americani (come se ne fosse così rappresentativo), hanno invaso i nostri schermi durante le festività natalizie, un bel regalo per l'amministrazione Bush in termini di ritorno d'immagine. 44 Del resto il Presidente Khatami ha ammorbidito i duri toni, mantenuti con costanza sinora, nei confronti degli USA, accettando il presente natalizio di Bush (come se potesse farne a meno) pur giustificandosi con arzigogolati salti di parole circa lo strano fatto secondo cui gli aiuti americani 'si' e quelli israeliani 'no'. Il ministro degli interni Mussavi Lari (rappresentante religioso con la carica di hojatoleslam, grado che nella gerarchia del clero sciita precede quello di ayatollah discendente diretto dal profeta) a tal proposito dichiara in un'intervista: "Quello di Israele non è un governo legittimo, ma una forza d'occupazione illegale che si è appropriata di un paese che non le appartiene. Non crediamo che gli israeliani possano venire qui con obiettivi veramente umanitari. Basta vedere quello che fanno tutti i giorni ai palestinesi: come è pensabile che, chi distrugge case, uccide impunemente donne e bambini innocenti, possa avere un reale slancio di solidarietà? [……]. A differenza di quello israeliano, quello statunitense è un governo legittimo. Noi non condividiamo la politica estera aggressiva dell'amministrazione Bush, ma riconosciamo al popolo americano la sensibilità umanitaria dettata da una situazione così drammatica". Quindi s'ipotizza che la sensibilità del popolo americano sia superiore alla sensibilità del popolo israeliano al di là dei loro rappresentanti politici? Riflettendo sulle strumentalizzazioni dei dirigenti che rappresentano i diversi Paesi, viene spontaneo chiedersi quanti cittadini si riconoscono nelle decisioni dei propri rappresentanti politici, eletti in maniera più o meno democratica. Perché la diplomazia sarà necessaria per i politici ma i suoi tempi, in situazioni d'emergenza, sono deleteri per i cittadini che pagano con la vita i ritardi degli interventi internazionali e per i loro sistemi sociali che si sgretolano. Gli aiuti esterni, infatti, sono giunti solo a cinque giorni dall'evento catastrofico. Quante vite si sarebbero potute risparmiare se la Mezzaluna Rossa (consorella islamica della Croce Rossa), non fosse stata lasciata sola per gli interminabili primi cinque giorni, là dove sarebbe stato essenziale intervenire tempestivamente e con tutti i mezzi adeguati alla situazione? Ma ancora più importante cosa ne sarà nel futuro immediato e a lunga durata di questa gente, in un Paese che pur possedendo il 9% delle riserve mondiali di petrolio e il 15% del gas del pianeta, ha il tasso di disoccupazione al 18%? Secondo la giornalista e storica iraniana Farian Sabbahi il disastro di Bam, unirà, per ora, la società iraniana "…Ma sotto le macerie, cova la profonda, irrimandabile, crisi sociale. A due mesi dalle elezioni legislative previste per venerdì 20 febbraio il terremoto che ha colpito la regione sud orientale dell'Iran distoglie l'attenzione dai problemi che affliggono la repubblica islamica. Negli ultimi mesi, i turbanti hanno giocato bene le loro carte, accogliendo a braccia aperte la diplomazia dell'Unione europea e firmando il protocollo aggiuntivo del Trattato di non proliferazione nucleare, accettando le ispezioni a sorpresa nei loro arsenali atomici. E ora nell'emergenza terremoto, gli ayatollah giocano ancora una volta la carta della diplomazia aprendo le porte agli aiuti umanitari dell'Occidente". Un ulteriore punto di vista che mette in luce la complessità della gestione della diplomazia interna ed estera di un Paese che ammicca ad una "apertura", ma che al contempo mantiene alcune rigidità strutturali e politiche, dove la modernità si sviluppa su canali direzionali spesso di difficile comprensione per il mondo cosiddetto occidentale, forse anche per il suo grado di spessore e complessità. Sapranno queste diplomazie, superata l'emergenza, dare un adeguato sostegno ai sopravvissuti all'evento, nel rispetto della loro condizione psicologica, culturale e delle reali necessità che si concretizzano in un luogo in cui pare non esserci più nulla, ma dove rimane uno spazio identitario della memoria inscritta nel territorio? E soprattutto che ruolo avranno quelle Nazioni che elargiranno i loro generosi interventi umanitari per la ricostruzione, sulla scacchiera dei delicati equilibri geopolitici del Medio Oriente? Riecheggiando Gramsci forse si tratta semplicemente di una questione di negoziazione dell'egemonia culturale dei paesi coinvolti. 45 Storie di città di Domenico Copertino Per amministrare una città bisogna innanzi tutto capirla. Capire una città significa capire la gente che ci vive, conoscerne le narrazioni e il mondo immaginario, ossia le idee, le ideologie, le religioni, le concezioni dell'universo sociale. Oggetti di studio propri dell'antropologia. Puglia, come nel resto dell'Italia meridionale, sin da tempi remoti e mitici; la loro presenza ad Altamura è testimoniata durante le dominazioni sveva, angioina, aragonese e spagnola, ossia dal XIII al XVI secolo. Pare che la città sia nata per volere di Federico II, che fece convenire sul luogo gente addetta ai lavori di costruzione della Cattedrale, che sarebbe dunque l'edificio più antico della città. Diverse erano le provenienze e origini di questi lavoratori; col tempo attorno ad essi si sarebbero costituiti vari gruppi con interessi comuni di vario genere, non ultimo la fede comune. Esisteva un gruppo di Cristiani fedeli al papa ed uno di Cristiani vicini all'Imperatore e decisi a sottrarsi al controllo pontificio, un gruppo ebraico, un gruppo legato al rito grecoortodosso. Questi gruppi presero a vivere secondo il sistema, diffuso nell'area del Mediterraneo, del vicinato; si andarono così organizzando zone cittadine influenzate da un certo stile di vita: la gente di fede cristiano-ortodossa prese a vivere nei pressi della chiesa di San Nicola; gli Ebrei si riunirono in alcune strade e, col passare del tempo, si stabilirono in una "giudecca". La microstoria di questa gente fa riflettere sui concetti di identità e alterità. In una società come quella medievale, in cui la vita quotidiana era influenzata in maniera preponderante dall'onnipresenza del messaggio religioso, il principale fattore identitario per i gruppi era proprio la particolarità della religione. Per quanto concerne la relazione identità/alterità tra la società cristiana e il gruppo ebraico, la distinzione religiosa fu l'unica possibile: in mancanza di elementi utili all'immediato riconoscimento della differenza (quali il colore della pelle, particolari tratti fisici, la lingua parlata, eccetera), si insistette proprio sulla differenza del credo. Tale insistenza fu quanto mai necessaria per la maggioranza cristiana nel mantenimento dei suoi steccati identitari, in quanto le somiglianze tra le due fedi erano tali da creare pericolose mescolanze: il pericolo era rappresentato dalla possibilità di smarrire la percezione di sé in rapporto all'Altro. L'indifferenziazione è pericolosa perché l'ordine sociale si fonda proprio sulla differenza e sul ruolo che ognuno ricopre in questo ordine. Dalla distinzione di ordine spirituale derivavano alcune differenze in certi aspetti della vita quotidiana, quali l'alimentazione e, in misura minore, l'abbigliamento. Si può affermare che tali elementi non sarebbero bastati da soli a radicalizzare la percezione dell'alterità ebraica; se tale radicalizzazione si verificò, questo fu dovuto essenzialmente al particolare atteggiamento delle autorità (da Federico II a Ferdinando il Cattolico) che, per fini di protezione o di persecuzione, e comunque di controllo sociale, introdussero legislazioni atte ad approfondire la distinzione dell'elemento Tra i particolari dello stile di vita di un Paese mediorientale da me recentemente visitato c'è la pacifica convivenza, nella città più grande di questo Paese, di gente di fede diversa. In un contesto in cui predominano sottocomunità di fede musulmana, le sottocomunità di fede cristiana possono non solo praticare in libertà il proprio culto, ma anche proiettare la loro specificità religiosa nell'organizzazione dello spazio. Nel grande quartiere di Bab Tuma, a Damasco, è possibile trovare chiese, monasteri e conventi appartenenti a varie sette cristiane a pochi metri di distanza da moschee e scuole coraniche. Le minoranze cristiane, insomma, nella capitale siriana non sono costrette a praticare la loro fede in sordina, dentro garage o sottoscala. La domenica mattina gli abitanti di Bab Tuma e delle zone limitrofe vengono svegliati dal suono delle campane, mentre gli altri giorni a scandire i momenti della giornata sono i moetsin, che invitano i musulmani alla preghiera. Nella stessa area vivono anche diverse famiglie di fede ebraica. Le città italiane offrono diversi "racconti del territorio", storie che permettono di capire come la vita della gente cambia nel tempo. Recentemente mi sono interessato a una delle storie o, meglio, "microstorie" raccontate dalle strade, dalle piazze, dai documenti e in parte dagli attuali abitanti: la storia degli Ebrei vissuti ad Altamura, in Puglia. Due parole sul metodo. Dal momento che la microstoria da cui vorrei partire si svolge nei secoli dal XIII al XVI, il contributo degli attuali abitanti é stato naturalmente molto limitato. Questa è senz'altro una pecca per chi si interessa di una scienza del "qui ed ora" come l'antropologia. Sia l'antropologia che la storia raccontano storie. Ma la peculiarità dell'antropologia rispetto alla storia consiste nel non sapere come queste vanno a finire, perché le storie dell'antropologia finiscono nel futuro. È dunque legittimo dubitare della validità ermeneutica di una ricerca antropologica che si occupi di cose lontane nel passato. Probabilmente è più corretto dire che mi sono occupato di una microstoria del passato applicando ad essa categorie d'analisi proprie della riflessione antropologica e, in parte, metodi propri dell'indagine etnografica. Posso così sostenere di essermi occupato di "storia antropologica", secondo una definizione di Marc Augè. Gente influenzata nello stile di vita dalla fede ebraica visse in 46 ebraico dal resto della società, e dunque a facilitarne la discriminazione. Infatti, i rapporti quotidiani tra gente di fede diversa ad Altamura, come si può desumere dai documenti che ho studiato, era fatta di rapporti di amicizia, unioni matrimoniali, rapporti commerciali, clientelari e di buon vicinato. A mantenere in vita il senso della diversità furono per lo più provvedimenti quali l'obbligo per gli Ebrei di indossare certi segni distintivi o la loro identificazione come categoria sociale omogenea a cui affidare certe mansioni lavorative e precluderne altre. Così, se le misure discriminatorie di Federico II miravano alla protezione dei sudditi di fede ebraica, cionondimeno esse facilitarono la violenta azione di sovrani angioini antigiudaici; similmente, molti sovrani aragonesi, pur dichiarandosi amici degli Ebrei e proteggendoli contro le violenze antigiudaiche, mantennero alto il senso della distinzione tra gruppi ebraici e altri gruppi affidando ai sudditi di fede giudaica particolari compiti quali il prestito a interesse e invitandoli ad abitare tutti insieme in certi quartieri; i sovrani e viceré spagnoli, cattolici, non ebbero difficoltà, nella prima metà del XVI secolo, a identificare, tra i sudditi del Regno di Napoli, quelli di fede ebraica e ad espellerli quasi tutti dai propri domini dopo aver tollerato le violenze antigiudaiche in molte località. A partire dagli anni Dieci del Cinquecento spariscono le tracce di Ebrei ad Altamura. Le città, secondo Robert Mc Adams, non sono degli insiemi isolati ma flussi complessi di persone, sistemi d'autorità, simboli culturali, innovazioni. La ricerca antropologica contemporanea che si svolge in ambito urbano ha come oggetto le forme sociali presenti nelle cittá, ossia quelle forme dalla cui interazione risulta lo svolgimento ordinato della vita cittadina: famiglie, matrimoni, clan, associazioni, formazioni politiche, amministrazione pubblica, gruppi religiosi e così via. Inoltre un oggetto fondamentale dell'antropologia urbana è costituito dalle percezioni culturali che danno sostanza a quelle forme sociali: si studiano cioè i discorsi che le persone fanno a proposito della propria organizzazione. Alcune percezioni culturali relative al modo in cui gli individui interagiscono, in altre parole alcune nozioni culturali dell'ordine sociale, non danno necessariamente forma a classi o a gruppi sociali organizzati, ma si manifestano nelle percezioni e nell'uso che la gente fa dello spazio. Così diventano oggetti della ricerca antropologica abitazioni, palazzi e quartieri. Un insieme di strade, piazze e costruzioni può essere definito quartiere in maniera diversa a seconda di chi parla. Non sempre due persone diverse definiscono con lo stesso nome una zona della città. Questo è particolarmente vero per le cittá mediorientali. Una sera mi è toccato accompagnare per chilometri un'amica, che mi aveva detto di abitare nel mio stesso quartiere, Bab Tuma. In realtà abitava in una zona che avevo sentito definire in altri modi. Addirittura una strada può essere chiamata in modi diversi: a Damasco è usuale che uno straniero chieda a un tassista di andare in una strada il cui nome ha letto sulla mappa della città, ma che 47 il tassista conosce con un altro nome. Come scrive Dale Eickelman, nelle città mediorientali è possibile orientarsi in certe zone solo se ci si è già stati. Secondo George E. Marcus la ricerca antropologica contemporanea va situata in un contesto "multilocale". All'osservazione partecipante della vita dei nativi va sostituito un "attivismo circostanziale". In altre parole l'antropologo deve prendere parte man mano alle attività svolte dalle gente che studia. In contesti complessi come le città contemporanee la gente svolge solitamente diverse attività, e dunque un solo individuo, lungi dall'essere interessante solo come elemento di un sistema che lo sovradetermina, riveste un interesse multidimensionale, come dire "multilocale" - dove per luogo si intende azione, attività, elaborazione intellettuale. Un tassista può essere interessante perché è un conoscitore dei luoghi di una città e anche perché magari è un attivista politico e religioso e un attore di una compagnia teatrale che si riferisce a una certa corrente artistica. Richard Sennet richiama l'attenzione degli studiosi dei contesti urbani su questa particolare qualità dell'abitante della città, ossia di poter essere diverse cose contemporaneamente. Uno nessuno e centomila. Un compositore contemporaneo, Marco Castoldi, definisce questa qualità il "sovrappensiero". Sovrappensiero si possono fare tante cose contemporaneamente, raggiungere alti livelli di concentrazione, assistere ad una spiegazione e alterarne il contenuto. Un soggetto interessa a chi studia la città perché partecipa a matrimoni e funerali di propri familiari, va alle processioni o a un concerto, percorre certe strade mentre magari pensa all'amore, alle proprie ossessioni, alle immagini e visioni che ha in mente. Un classico dell'antropologia della contemporaneità, "Non luoghi" di Marc Augè, parla proprio di quei luoghi delle nostre città che si percorrono sovrappensiero. Si tratta di luoghi urbani come i centri commerciali, oppure delle strutture che permettono gli spostamenti rapidi; di luoghi in cui si è fatto scomparire ogni riferimento al contesto locale. Questo è stato sacrificato all'esigenza economica ed estetica della funzionalità dell'eccesso. Si tratta, infatti, di luoghi in cui si assiste a un eccesso di spazio, dovuto essenzialmente - paradossalmente - al suo restringersi: infatti gli aerei collegano in fretta i luoghi più lontani del pianeta; inoltre in questi luoghi ci sembra di trovare la stessa familiarità che proviamo nel guardare serial televisivi o film che ci mostrano la vita quotidiana negli Stati Uniti o nelle metropoli indiane. Anche le strade dei centri cittadini delle città occidentali tendono all'uniformità: gli stessi negozi, gli stessi colori, le stesse offerte promozionali, gli stessi messaggi culturali. Al contempo, però, emerge l'esigenza di una caratterizzazione identitaria del luogo: accade così che negli aeroporti internazionali si installino cose come pub di stile scozzese o caffè italiani. Anche questi sono non-luoghi: sono luoghi nati in conseguenza dei processi postmoderni di dislocazione (di messaggi, capitali, ecc.) e deterritorializzazione (di persone). Lo scopo di questi non-luoghi con pretese fortemente identitarie è di richiamare allo spirito sensazioni di localizzazione in contesti fortemente delocalizzati. E un altro tipo di non luoghi emerge dagli stessi processi di dislocazione e deterritorializzazione: i campi profughi, collocati spesso nelle vicinanze di o dentro altri non luoghi come porti o aeroporti, come nel caso di Bari-Palese. Strutture nate da un'esigenza di identificazione a priori, esigenza in base a cui la differenza viene stigmatizzata prima ancora di essere conosciuta e viene rinchiusa in ghetti fisici. Pretendere di conoscere una cultura a priori, prima ancora di interpellare gli individui che reclamano la propria appartenenza ad essa, è un fenomeno che in antropologia si chiama "essenzializzazione": in uno dei tratti anche più superficiali di una cultura si pretende di vedere la sua essenza. L'essenzializzazione produce ghetti fisici. In Italia un esempio lampante di ghettizzazione derivata da essenzializzazione sono i campi per i rom e i sinti. Leonardo Piasere sottolinea come queste zone ghetto nascano dall'essenzializzazione del carattere "nomade" dei Rom e Sinti: le autorità prestano fede a priori al luogo comune che vuole questa gente "nomade", quindi incapace o disinteressata a vivere stabilmente in una città o in una casa. L'essenzializzazione non produce solo questi non-luoghi fisici: produce anche quelli che - con Pier Paolo Pasolini - potremmo definire "ghetti mentali". Secondo Pasolini i ghetti mentali della società tollerante sono quei confini dell'immaginazione e del pensiero entro cui forme di pensiero e di cultura divergenti dalla media vengono inscritte e, appunto, tollerate. Una volta superati quei confini, tali forme di pensiero vengono represse e la società in cui ciò accade trova più difficile autodefinirsi "tollerante" e democratica. Superare quei confini significa avanzare istanze che possono risultare scomode e destabilizzanti per la società. Un esempio di quanto facilmente una società "tollerante" possa diventare intollerante è offerto dall'analisi dei mass-media nel mondo occidentale proposta da Noam Chomsky: le voci più disparate, nel panorama dei mezzi di informazione occidentali, vengono democraticamente tollerate solo fintanto che non cominciano a modificare il comportamento quotidiano della gente; una volta superata questa soglia, esse vengono più o meno delicatamente ostacolate, boicottate o represse in quanto "massimaliste" e "sovversive". Per tornare alla microstoria degli Ebrei in Italia meridionale e ad Altamura, si è notato come la loro essenzializzazione come gente con determinate caratteristiche sia stata un fenomeno particolarmente carico di conseguenze nei periodi di crisi economica e sociale dei Regni, quando le istanze avanzate da persone che praticavano uno stile di vita influenzato dalla fede ebraica potevano essere destabilizzanti. Il senso della diversità era diffuso e latente in una società così eminentemente multiculturale come quella altamurana da organizzare il proprio spazio urbano in base alle diverse provenienze della gente: la sensazione di avere a che fare con gente diversa emerse e si trasformò in azione violenta in tali circostanze critiche. È possibile senza spocchia proporre queste microstorie come 48 esempio da cui partire per pensare diversamente la società contemporanea? L'ideale progressista del multiculturalismo è destinato a fallire sia come strumento concettuale per interpretare la realtà urbana contemporanea, sia come strumento d'azione su di essa. La realtà non è fatta da compartimenti a tenuta stagna separati l'uno dall'altro da linee di confine; le città non sono costituite da comunità separate, chiuse nella loro identità (o cultura o etnia). Ovunque, invece, ci sono frontiere. Si può sostenere che la realtà contemporanea è una realtà di frontiera. Le frontiere, secondo Michel Wiewiorka, sono i luoghi in cui quotidianamente persone diverse - più che separarsi - si incontrano per dar vita a emergenze inedite, forme nuove di socialità, di arte, di spiritualità, di fisicità. Si tratta dei luoghi difficili da analizzare in quanto in continuo cambiamento - in cui il fermento creativo propone in tempo reale narrazioni e istanze di cui non si conosce la fine, ma di cui si può tentare di comprendere l'evoluzione costante. Tale compito, particolarmente stimolante nei contesti delle città contemporanee, spetta all'antropologia. Comprendere l'evoluzione della vita urbana è il punto da cui deve partire chi è addetto all'amministrazione delle città. Che lo si accetti o meno, il sistema globale è penetrato nei contesti locali, in ognuno dei quali sono reperibili tracce del sistema-mondo. La modernità è andata in polvere: pensare di comprendere e amministrare la realtà con criteri moderni è fuorviante. Viviamo in una realtà postmoderna, uno dei cui aspetti è il carattere diffuso di frontiera. Leonardo Menegola sostiene che dire frontiera significa dire vita. L'individuo postmoderno, che vive in questa realtà, è percorso al suo interno dalle frontiere che sperimenta nel quotidiano. Il carattere più comune del cittadino postmoderno non è l'isolamento culturale, ma neppure l'egoistico cosmopolitismo o l'ibridismo collezionistico. Il suo carattere più evidente è, secondo Wiewiorka, il suo essere meticcio, ossia il suo essere espressione di una realtà frontaliera fatta di fermento e trasformazione costanti, in cui identità e appartenenze che si ritenevano stabilite una volta per tutte convergono per dar vita a nuovi caratteri ed espressioni culturali. Se partiamo dal considerare la nostra società una realtà "meticcia" diventa possibile analizzare in un modo inedito una delle questioni che emerge con prepotenza nelle città globali: la questione del riconoscimento identitario di una serie di minoranze, prodotte all'interno dell'Occidente - principale autore/attore della globalizzazione economica e culturale - oppure attratte dall'esterno dei suoi confini. "L'uscita dall'era industriale s'è rivelata onerosa, e, per molti, brutale, depositando molti scarti lungo i bordi del proprio percorso. […] La questione sociale ha cessato di essere la questione dello sfruttamento nei rapporti di produzione per diventare la questione dell'esclusione e della precarietà" (Wieviorka 2002, 37). Uno dei più significativi accordi internazionali in materia di immigrazione, l'Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio (GATT), intende favorire la mobilità sotto il controllo di entità sovranazionali indipendenti dai governi come il WTO; in altre parole, affida alcuni aspetti della regolamentazione del lavoro transfrontaliero al settore privato. In particolare, vengono privatizzati i settori più redditizi: come sottolinea Saskia Sassen, infatti, questo accordo riguarda le sole componenti della politica di immigrazione caratterizzate da: 1) un alto valore aggiunto cioè persone dotate di un alto livello di istruzione o di capitale; 2) flessibilità - persone che hanno la possibilità di essere migranti temporanei, che lavorano nei settori di punta dell'economia, quindi immigranti visibili, identificabili e sottoposti a un controllo effettivo; 3) profitto - grazie alla nuova concezione liberale degli scambi e degli investimenti. I governi statali, in questo modo, conservano solo la gestione degli elementi "problematici" e "a basso valore aggiunto" dell'immigrazione: poveri, lavoratori non specializzati a basso costo, profughi, famiglie dipendenti, donne, bambini, gruppi razzializzati, handicappati, popolazione a rischio, religioni minoritarie e, tra i lavoratori specializzati, solo quelli suscettibili di provocare tensioni di natura politica. Questa selezione tra chi si sposta in cerca di lavoro ha una forte influenza sulle categorie dei cosiddetti "immigrati" ed "extracomunitari". Su simili categorie si possono applicare logiche di inferiorizzazione, di dominio, di esclusione, di discriminazione e segregazione utili a sfruttare una manodopera ridotta a forza lavoro, oppure a sbarazzarsi di manodopera industriale divenuta superflua. In una società timorosa o diffidente dell'alterità conviene stabilire quali siano i connotati dell'Altro: così il potere si sforza di stigmatizzarne i tratti inconciliabili con la cultura e la civiltà della maggioranza. La differenza culturale viene trasformata in gerarchia e si crea la subalternità. I più comuni tratti dell'Altro sono oggi quelli dell'extracomunitario, tanto meglio se clandestino. Si stabilisce un'equazione tra la clandestinità e la criminalità; il principale capro espiatorio per i fatti delittuosi diviene l'immigrato. Nel nostro Paese diventa così possibile emanare leggi lesive dei diritti umani e civili elementari: in nome della "tolleranza zero" si prendono le impronte digitali delle persone che chiedono il permesso di soggiorno in Italia; si dà facoltà alla polizia e alla marina militare di fermare, perquisire e dirottare navi "sospette" nelle acque territoriali e limitrofe; si complicano le regole per ottenere permessi di soggiorno. Si lede il principio di uguaglianza dei cittadini nei confronti della legge, introducendo pene differenziate per lo stesso reato a seconda che il colpevole sia italiano o extracomunitario. Tramite i centri di permanenza temporanea si introduce, solo per gli immigrati, la detenzione amministrativa. Contemporaneamente, tuttavia, la domanda di lavoro aumenta e spesso resta insoddisfatta, per la pesantezza delle mansioni o la modesta entità dei salari: così si ricorre a persone che giungono dall'estero e che si accontentano di poco. La soluzione migliore è quindi proprio il clandestino, che per la sua subalternità non può reclamare diritti o scioperare. Lo straniero deve restare ospite perpetuo: costante è la minaccia della revoca del permesso di 49 soggiorno. La discriminazione e i plateali provvedimenti mirati a inferiorizzare l'extracomunitario servono dunque a un duplice scopo: da una parte si placa la paura della società maggoritaria, dall'altra si soddisfa con la minor spesa e responsabilità la domanda di lavoro. Così l'Europa e l'Occidente chiudono le porte principali all'immigrazione, lasciando aperte contemporaneamente quelle secondarie, per le quali si entra affrontando rischi e umiliazioni. Le minoranze aumentano e vengono ghettizzate socialmente e culturalmente. Per queste la globalizzazione comporta il delinearsi di due fenomeni complementari: da una parte l'omogeneizzazione definita attraverso la generalizzazione del consumo e della comunicazione di massa, dall'altra una polverizzazione in cui tutti i particolarismi identitari si chiudono in difesa e si rinsaldano. Le diaspore si moltiplicano. Che sorgano da un impatto rilevante quale un genocidio o un'espulsione violenta - come nel caso degli Armeni, dei Palestinesi, dei Curdi - o da scelte volontarie, come la decisione di emigrare in Paesi che offrono più possibilità, esse creano nei luoghi ospiti minoranze culturali spesso facilmente identificabili. In certi casi, infatti, un impatto rilevante può avere un valore fondante e fare della terra perduta un luogo mitico, un riferimento ossessivo. Ciò conduce a rinnovare gli interrogativi relativi alla propria identità e alla capacità di mantenerla nel nuovo contesto di vita. I soggetti collettivi che si pongono tali interrogativi sono immediatamente identificabili come gruppo etnico-culturale. Nel caso dell'emigrazione voluta, poi, non è escluso che restino legami forti con i luoghi d'origine. Così alcune diaspore, come quella cinese, funzionano secondo il modo dell'"etnia-nazione": esse si specializzano in attività che associano la loro visibilità culturale a una determinata pratica economica, evolvendosi nella modalità modo dell'"ethnic business" (Wieviorka 2002, 44). D'altro canto, tutte queste alterità, oggi ancora più che in passato, non rimangono più chiuse su di sé, impermeabili agli incroci culturali. La grande sfida che gli Stati occidentali dovrebbero assumere, secondo Wieviorka, è il riconoscimento politico e amministrativo dei processi di mescolanza delle culture, nei quali ciascuna di esse è passibile di alterazione, senza necessariamente giungere all'assimilazione. Orientamenti politici anche tra i più progressisti - senza considerare quelli che mirano direttamente all'assimilazione o, al contrario, alla ghettizzazione della differenza -, nel momento in cui intraprendono il cammino per il riconoscimento culturale, politico e giuridico delle minoranze, rinunciano a considerare la fondamentale dinamica della trasformazione di una cultura in rapporto alle altre. I promotori di questi orientamenti hanno bisogno di delimitare in partenza i connotati della differenza irrigidendo così l'identità interessata. È da questo atteggiamento "multiculturalista" che deriva, nel migliore dei casi, l'offerta di trattamenti particolari e mezzi preferenziali alle minoranze; nel peggiore dei casi la pratica multiculturalista comporta schedature e discriminazioni istituzionalizzate. Per la mescolanza, il metissaggio, è difficile elevarsi al livello politico e giuridico. Si tratta di un processo che mescola culture dotate di storia, tradizioni, memoria; è un processo che parte dal basso, che destabilizza le culture creandone di inedite, che produce differenze senza limitarsi a ri-produrle. Si tratta di una dinamica che non pietrifica le differenze: al contrario, essa invita a rivolgere l'attenzione non tanto alle zone centrali dell'identità, quanto invece alle frontiere, dove tutto si mescola e tutto si trasforma. La società che accoglie assume così un ruolo di grande rilevanza: essa diventa il luogo privilegiato per la mescolanza culturale. Ma la società non si limita ad essere un passivo teatro dei fenomeni di trasformazione: essa si trova ricreata, rinnovata da queste dinamiche. Politiche che riconoscano il metissaggio devono essere necessariamente flessibili e complesse. Esse devono considerare le diverse identità non più come sfide o minacce: la riflessione sulle differenze può e deve diventare un lavoro della società su se stessa. Raccontare storie e microstorie del territorio può essere utile, certo, per edificare "luoghi della memoria" e monumenti a ciò che non siamo più, o ad elaborare fantasiose radici e appartenenze culturali, ma non è questo lo scopo di uno studio antropologico di un contesto urbano. Una ricerca antropologica sottolinea la natura parentetica della storia che racconta: aprendo e chiudendo parentesi si inscrive nel contesto più ampio di una storia regionale. L'utilizzo che si fa di questa storia parentetica può sfuggire all'antropologo. Quello che qui voglio suggerire è di utilizzare questo tipo di racconti (come quello degli Ebrei di Altamura, o quello - recentemente narrato da Paolo Cottino - della vita degli stranieri clandestini nelle baraccopoli, nei campi rom e nei mercati "etnici" di Milano, o ancora quello, tutto da scrivere, degli abitanti di via Padova a Milano) come esempio delle conseguenze che possono verificarsi qualora le categorie di identità e alterità vengano considerate con eccessiva rigidità; voglio suggerire di prendere queste storie come punti di partenza per concepire e progettare diversamente le città in cui viviamo. PER APPROFONDIMENTI MICHEL WIEVIORKA, La differenza culturale. Una prospettiva sociologica, Roma-Bari, Laterza, 2002 (Balland, 2001); SASKIA SASSEN, Città globali, UTET, Torino, 2002 (Princeton University Press, 1991); ULF HANNERZ, Flussi, confini e ibridi, in Aut Aut n. 312, novembre-dicembre 2002; DAVIDE ZOLETTO, Gli equivoci del multiculturalismo, in Aut Aut n. 312, novembre-dicembre 2002; DALE F. EICKELMAN, The Middle East and Central Asia, Pearson Education, Upper Saddle River, New Jersey, 2002; RICHARD SENNET, Le città nell'era della flessibilità, in Le monde diplomatique, febbraio 2001; RICHARD SENNET, L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano, Feltrinelli, 2002 (Norton & Co. 1999); SASKIA SASSEN, Ma perchè emigrano?, in Le monde diplomatique, novembre 2000; GEORGE E. MARCUS, Ethnography in/of the world system: the emergence of multi-sited ethnography, in Annual Review of Anthropology, n. 24, 1995; MARC AUGÈ, Non luoghi, Milano, Elèuthera, 1993 (Seuil, 1992); EUROPEAN ROMA RIGHTS CENTER, Il paese dei campi. La segregazione razziale dei Rom in Italia, Roma, Carta, 2000; PIER PAOLO PASOLINI, Lettere luterane, NOAM CHOMSKY, Capire il potere, Milano, Marco Troppa Editore, 2002; ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001 (University of Minnesota Press, 1996); PAOLO COTTINO, La città imprevista, Milano, Elèuthera, 2003. 50 Chiapas Riflessione sulla situazione degli indigeni e sullo sfruttamento delle risorse di Antonio De Lauri C'era una volta un pappagallo che sapeva dire solamente "vittoria". Ebbene, cari lettori, i giorni passavano e in uno di questi capitò che il nostro povero pappagallo se ne stava tutto distratto sul suo trespolo; uno sparviero gli mise addosso gli occhi e se lo portò via con sé nei cieli del Signore. Il poveretto, vedendosi perduto in balia dei suoi artigli, cominciò a lamentarsi, ma riusciva a pronunciare soltanto l'unica parola che conosceva a memoria. A ogni morso che gli dava lo sparviero, il pappagallo gridava:"vittoria"; gliene dava un altro e lui: "vittoria"! Gli strappava una zampa e lui:"vittoria"; e così pezzo dopo pezzo, gridando sempre"vittoria"! Josè Joaquin Fernandez de Lizardi La vittoria del pappagallo, in "El Pensador Mexicano", 11 Ottobre 1823 INTRODUZIONE della popolazione; sono presenti tuttavia minoranze di fede protestante, in crescita negli ultimi anni. Nonostante la ricchezza naturale molte persone sono disoccupate e vivono in condizioni di povertà, ciò è dovuto anche al modello di sviluppo economico che si caratterizza, a livello generale, per una spiccata tendenza all'esportazione, ed un utilizzo della forza lavoro con salari molto bassi. Vi è inoltre un eccessivo utilizzo di mezzi per la lavorazione della terra, i quali provocano una decomposizione del terreno: molti contadini sono costretti ad emigrare dalla campagna alla città. Durante gli anni '70 si registrò una crescita economica nel paese, con uno sviluppo massiccio dell'attività petroliera ed energetica, mentre negli anni '80 si svilupparono particolarmente i settori primario e terziario. La popolazione, tuttavia, non ebbe nessun miglioramento della qualità di vita. Tutt'oggi nelle classi rurali i problemi si fanno sempre più gravi; la popolazione indigena è la più colpita dalla miseria e dall'isolamento socio-economico1 . Circa il 26% della forza lavoro è impiegato nell'agricoltura; molte persone lavorano negli ejidos che sono le cooperative di peones, fondate nel 1905 dopo la grande riforma agraria messicana. Agli inizi degli anni '90 il governo ha abolito un gran numero di ejidos per poter privatizzare le terre: tale provvedimento espropriò milioni di contadini provocando un enorme disagio socio-economico. Questo momento della storia del Chiapas è alla radice delle rivendicazioni sociali dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN). L'agricoltura rimane un settore piuttosto arretrato, trascurata a favore del settore industriale e svantaggiata dalla siccità: i Una popolazione che da anni vive il dramma di politiche che ignorano il rispetto dei fondamentali diritti umani, una terra ricca di risorse ma sfruttata in modo tale da rendere sempre più poveri coloro che la lavorano e sempre più ricchi gli sfruttatori: così possiamo descrivere il Chiapas. Naturalmente non si limita a ciò la complessità delle vicende che si verificano nello Stato chiapaneco: la questione indigena, gli accordi internazionali tra Messico e USA e ora anche tra Messico ed Europa, lo sfruttamento delle risorse, la situazione ambientale così come quella politica meritano un approfondimento attento per essere comprese in maniera corretta. In queste pagine svilupperò alcune riflessioni su aspetti economici e politici, sui rischi ambientali e sulle violazioni subite dalla popolazione indigena. Il 1821 è l'anno della dichiarazione d'indipendenza messicana, nel 1824 il Chiapas si costituisce stato autonomo. Il Chiapas è uno stato dell'area sud-orientale del Messico, ha una popolazione di circa 3.654.000 abitanti divisi in numerosi gruppi etnici. Possiamo distinguere al suo interno nove regioni: Centro, Altos, Costa, Soconusco, Fronteriza, Frailesca, Sierra, Selva e Norte. Queste regioni comprendono 111 municipi, in 58 di questi più del 30% della popolazione parla una lingua indigena. La lingua ufficiale è lo spagnolo, ma sono altresì diffusi gli idiomi amerindi come il il nahua del ceppo azteco e il maya, praticati rispettivamente nel nord del paese il primo e nel sud il secondo. La religione più diffusa è il cattolicesimo, praticato dall'89,7% 51 prodotti agricoli non riescono a coprire il fabbisogno nazionale nonostante siano stati attuati programmi di valorizzazione del suolo e progetti di irrigazione. A seconda delle zone vi sono prodotti più diffusi, in generale le colture principali sono quelle del grano, frumento, riso, orzo, fagioli, caffè patate, cotone, canna da zucchero; la frutticoltura è un settore ampio ed importante2. Il 23% circa del territorio è coperto da foreste; a causa dell'eccessivo sfruttamento del governo precedente, l'attuale governo ha emesso severi provvedimenti per regolamentare il settore. Tra le maggiori ricchezze del paese vi sono le risorse minerarie: argento, ferro, rame, piombo e zinco, antimonio, grafite, manganese, zolfo e tungsteno. Anche le risorse di gas naturale e petrolio, la cui produzione è regolata dall'agenzia statale Petròles Mexicanos, sono ingenti; da solo il Chiapas produce il 47% di gas e il 28% di petrolio nazionali. Produce inoltre il 55% dell'energia elettrica nazionale, grazie allo sfruttamento delle centrali idroelettriche. Nonostante questa ricchezza del territorio, il prodotto interno lordo pro capite, negli ultimi dieci anni, è diminuito del 6.2% all'anno; il 60 % dei bambini in età scolare non ha accesso diretto alla scuola; la durata media della vita della donna è vicino ai 45 anni e c'è un'elevata mortalità infantile, soprattutto nelle piccole comunità della selva 3 . Nel Gennaio del 1994 un gruppo di nativi appartenenti all'EZLN insorse contro le autorità locali nei pressi di San Cristobal de las Casas, da lì conquistarono quattro città nella zona meridionale del Chiapas. I leader del movimento chiedevano l'attuazione di numerose riforme che riguardavano i diritti di proprietà e l'autonomia delle comunità indigene, con la concessione di terre da coltivare. Da allora si sono alternati momenti di dialogo e di rottura tra EZLN e governo: l'insurrezione contadina era guidata dal sub-comandante Marcos, che si è fatto conoscere in tutto il mondo diffondendo i suoi programmi rivoluzionari e i suoi messaggi attraverso internet. Nel 1995 si intensificò la lotta tra zapatisti e governo che inviò nel Chiapas l'esercito federale con lo scopo di sconfiggere definitivamente l'esercito zapatista; l'impresa riuscì solo in parte, i federali infatti ripresero il controllo di alcune piccole città spostando le basi dei guerriglieri verso le foreste, ma non riuscirono a catturare i capi del movimento che continuavano la loro lotta al governo4 . Nel 1996 venne siglato il primo di sei accordi di pace redatto a tutela della cultura autoctona, conferendo maggior peso politico alla popolazione indigena. Oggi la situazione resta precaria, parte della popolazione indigena continua a rivendicare i suoi diritti e vive sulla propria pelle la battaglia con l'esercito e i paramilitari, ma vi è una parte meno "famosa", lontana dal vortice dell'Esercito zapatista, che vive un isolamento che la costringe alla miseria. infrastrutture nato per favorire le grandi imprese. Il PPP è stato concepito sotto l'attuale amministrazione Fox, ma le radici si trovano già nei piani della Banca Mondiale e della Inter-American Development Bank (IDB). Ad aprire la strada alla volontà delle multinazionali sono stati il NAFTA e il FTAA, il primo è un accordo commerciale tra Messico, Canada e USA del 1994; gli Stati Uniti stanno cercando di estendere il NAFTA a tutta l'america in un accordo commerciale noto, appunto, come FTAA. Quest'ultimo ha una rilevanza geopolitica di maggiore portata per gli USA, creerebbe infatti un blocco dallo Yukon alla Patagonia, sotto l'egemonia statunitense, in opposizione ai blocchi europeo ed asiatico. <<Gli accordi commerciali (NAFTA e FTAA) sono prerequisiti necessari per creare quel "clima adatto agli investimenti" che le multinazionali stanno cercando. Il PPP fa un passo in più, incanalando miliardi di fondi statali nello sviluppo delle infrastrutture di cui si ha bisogno per interessare ulteriormente le multinazionali5 >>. Ufficialmente il collegamento tra sud-est del Messico e America Centrale avrebbe lo scopo di combattere la povertà di questa area messicana; il presidente Fox, sotto la pressione della Banca Mondiale e dell'IDB, intende affrontare il problema della povertà creando posti di lavoro e facendo "sviluppare" la zona. Il PPP può essere inteso come San Antonio un'articolazione regionale del più generale accordo ALCA, ossia Asociacion de Libre Commercio de las Americas, il quale punta a creare entro il 2005 un'area di libero scambio dall'Alaska alla Patagonia. Il PPP si articola in otto parti che scandiscono in linea generale il suo progetto, tali parti sono costituite da: 1) sviluppo sostenibile; 2) sviluppo umano; 3) prevenzione e minimizzazione dei disastri naturali; 4) promozione del turismo; 5) facilitazione del commercio; 6) integrazione della rete stradale; 7) allacciamenti energetici; 8) integrazione dei servizi di telecomunicazione. I concetti di sviluppo sostenibile e umano meriterebbero di essere approfonditi, in questa sede però mi limiterò a dire che fino ad ora i programmi del governo e gli accordi internazionali si sono concentrati sugli ultimi cinque punti lasciando i primi tre in secondo piano. Il turismo è un aspetto che suscita l'interesse del PPP, con la conseguente privatizzazione delle rovine archeologiche e la nascita di alberghi e parchi. Aspetti politico-economici e ambientali La situazione politico-economica del Chiapas può essere compresa meglio tenendo presente la serie di accordi neoliberisti degli ultimi anni. Prendiamo in considerazione, ad esempio, il Plan Puebla Panama (PPP), un esteso progetto di costruzione di 52 L'attuale amministrazione chiapaneca sta portando avanti diversi progetti per la costruzione di strade e di linee ferroviarie, alcune zone che solo qualche anno fa erano verdi ed incontaminate ora sono squarciate da linee di cemento. Un esempio interessante, che ho potuto constatare personalmente, è quello della strada che collega Ocotepec a Coapilla nel nord del Chiapas; questi due centri sono collegati da una sola strada che per qualche chilometro attraversa le verdi terre della zona. Per anni quella strada è rimasta in terra e sassi, macchine e camion passavano tranquillamente, ma tre anni fa iniziarono i lavori per asfaltare la strada e da allora, ogni volta che piove, la gente è costretta a camminare nel fango perché i mezzi non riescono a passare. Innanzitutto i lavori potevano essere terminati nel giro di un anno al massimo, vi sono poi dei problemi relativi all'impatto ambientale e la truffa nei confronti degli indigeni. Infatti per ottenere l'autorizzazione per allargare la strada, i costruttori hanno pagato gli indios, che vivevano ai margini del vecchio sentiero, dandogli una miseria. Durante questi anni più volte si sono verificati cedimenti del terreno a causa degli spostamenti ingenti di terra e dell'abbattimento di alberi, aggravando la pendenza del terreno e facilitando l'accumulo di acqua con la conseguenza di frane; in una zona piovosa come Ocotepec questo rischio è ancora più elevato. La lunga durata dei lavori inoltre provoca degli squilibri faunistici a livello di comunicazione, di riproduzione e di mantenimento della prole, portando anche a delle migrazioni forzate. Un altro grande problema è rappresentato inoltre dall'inquinamento dell'acqua: nell'intera zona l'acqua si può bere solo se fatta bollire, ma anche in questo modo rimane contaminata, molte persone infatti, soprattutto bambini, si ammalano. La costruzione della strada, con il conseguente aumento dell'inquinamento del suolo, aggrava la situazione, tenendo in considerazione il fatto che non ci sono impianti di depurazione dell'acqua6. Un aspetto importante della questione ambientale, in relazione alla situazione indigena, è quello della biodiversità, della bioprospezione e della "politica del guadagno". Successivamente all'affare delle maquillas e del turismo, il PPP si è concentrato sullo sfruttamento delle piantagioni forestali7 con l'utilizzo di grandi monoculture artificiali a favore della crescita di un determinato tipo di albero, eliminando insetti e altre specie animali, creando un <<deserto verde costruito dall'uomo 8>>. La rincorsa al profitto porta a queste grandi monoculture, nemiche della biodiversità e dannose per l'ecosistema locale. In diverse aree del mondo i contadini si ribellano a questa "industrializzazione" delle risorse ambientali con contestazioni pacifiche e non. L'esempio del Chiapas rimanda alla generale dicotomia tra globale e locale, le leggi che governano l'economia mondiale non tengono conto delle particolarità locali, non rispettano le "diversità" : <<oggi è l'economia a dettare le regole, a dire alla società ciò che deve fare. Il compito che ci sta davanti è quello di far si che la società ritorni a dettare le regole all'economia>> [Susan George]. Non solo bisogna puntare ad una società che sia capace di dettare le regole per una economia sostenibile, ma nel far ciò bisogna anzitutto riconoscere e 53 rispettare le culture locali. Vandana Shiva elenca sette punti per riassumere la sua critica nei confronti del "sapere dominante", ossia quella logica dominante di una parte del pianeta, l'Occidente, che si relaziona al resto del pianeta con la violenza e l'inganno. Le sette caratteristiche negative per la "vita" del pianeta sono: 1) "è profondamente imbevuto di economicismo e pertanto è sicuramente insensibile ai bisogni umani", bisogna quindi opporsi a questo sapere dominante poiché rappresenta un rischio per l'umanità; 2) "le implicazioni politiche del sapere dominante non garantiscono né l'uguaglianza né la giustizia. Esso rompe la coesione delle comunità locali e divide le società tra quelle che hanno accesso al sapere e al potere, e quelle che non ce l'hanno"; 3) "essendo sostanzialmente frammentato e destinato all'obsolescenza, il sapere dominante separa la saggezza dal sapere e fa a meno della prima"; 4) si tratta di un sapere colonizzante che nasconde il suo carattere colonizzatore dietro la mistificazione; 5) "rifugge dalla concretezza, svalutando i saperi concreti e locali; 6) essenzialmente è un sistema chiuso che nega l'ingresso ad una pluralità di soggetti; 7) "trascura moltissimi percorsi per conoscere la natura e l'universo: è una monocultura della mente" 9. La popolazione indigena del Chiapas conserva numerose tradizioni relative al rapporto con la natura, dalle coltivazioni alla conservazione dei prodotti etc. Il settore biologico, per i grandi conglomerati farmaceutici e le varie multinazionali, rappresenta un importante canale per incrementare il proprio mercato, anche a costo di recare danno alle popolazioni locali. La bioprospezione, <<ovvero quei programmi di ricerca e mappatura genetica delle piante tropicali che vengono portati avanti dalle più grandi case farmaceutiche del mondo ai danni dei paesi tropicali>>, è un fenomeno diffuso in Chiapas. <<La bioprospezione cerca ciò che viene già utilizzato in una società, impara il modo in cui questa società la utilizza e se ne appropria per lanciarla sul mercato 10 >>. "Rubare la ricchezza" degli indigeni è la conseguenza di questa bioprospezione, che diventa quindi biopirateria, da una parte di sostanze attive (proteine etc.), dall'altra delle conoscenze che hanno gli indigeni della biodiversità e dell'uso di diverse specie in vari campi. La brevettazione è un tentativo di appropriarsi di tali conoscenze, in Messico questa si attua in due differenti processi: la biopirateria selvaggia e il beneficering. La prima si manifesta in maniera più violenta, un esempio è rappresentato dal fagiolo giallo che è stato rubato ai contadini che per produrlo ora sono costretti a pagare una tassa ai "nuovi proprietari". Il beneficering è frutto del vertice di Rio de Janeiro del 1992, un esempio della sua attuazione può essere quello della Novartis nella regione della Sierra Juarez in Oaxaca, con la "collaborazione" degli indigeni al progetto di ricerca per la cura del cancro e dell'AIDS11 . Il PPP tra i suoi progetti prevede la privatizzazione di alcuni bacini idrici e fiumi, tali progetti sono legati all'agricoltura e alla produzione di energia elettrica, campi in cui le risorse idriche sono essenziali; i progetti prevedono la costruzione di diverse centrali idroelettriche, che rientrano nei piani degli accordi internazionali. Un esempio può essere rappresentato dal progetto messo in atto da USA, Messico e Guatemala per la privatizzazione del Rio Simasinta, progetto a beneficio delle multinazionali francesi ed inglesi. Il pericolo che corrono le popolazioni indigene, a seguito della costruzione di impianti idrici, è di vedere inondati migliaia di acri di terra abitati e coltivabili e di perdere diversi siti archeologici e foreste antiche. Attualmente sono in atto progetti sul fiume Usumacinta che divide il Messico dal Guatemala. A questo punto occorre aprire una parentesi sul lavoro delle maquilladoras: il termine si riferisce all'industria di assemblaggio, solitamente è formata da un salone con pochi macchinari e molti lavoratori che devono assemblare apparati di microelettronica, motori aerospaziali etc. Le maquilladoras sono piani produttivi di delocalizzazione che utilizzano manodopera a basso costo; sono imprese che possono spostarsi velocemente dove è più conveniente produrre, con la conseguenza di rendere pressoché impossibile qualsiasi tipo di organizzazione da parte dei lavoratori, per rivendicare contratti salariali dignitosi e orari di Festa dell’Indipendenza, Ocotepec lavoro sostenibili 12 . <<Bombardati dalle notizie che ruotano attorno alla New Economy e alle sue produzioni immateriali, stiamo perdendo la cognizione che la vita quotidiana è tuttora sostenuta, in larga misura, da oggetti materiali. Acciaio, cuoio, piombo, mercurio, amianto, giocattoli, utensili, computer, resine sintetiche e prodotti agricoli chi li produce? E come? E con quali costi umani?13 >>. Tra i piani del PPP le maquilladoras trovano il loro spazio. L'obiettivo è quello di portare le regioni di attuazione del PPP ad essere tra le prime del mondo nell'industria dell'assemblaggio. Tali ambizioni tuttavia non coincidono con l'affermazione dei diritti fondamentali per i lavoratori; nelle maquillas, infatti, la manodopera è pagata poco, non vengono prese precauzioni per i lavori pericolosi (capitano spesso incidenti ai lavoratori), vengono maneggiate sostanze nocive senza le giuste protezioni etc. Queste "pseudo-imprese" rappresentano l'attuazione di un 54 sistema economico basato sulla rincorsa al guadagno, che non tiene in considerazione gli aspetti umani dei processi di crescita; a farne le spese sono coloro che non hanno la possibilità di appellarsi ad una qualche giustizia che possa rappresentarli di fronte ai giganti dell'economia. Attualmente per il PPP sono preventivati dieci milioni di dollari, forse di più, che provengono principalmente dalla Banca Mondiale, l'Unione Europea, l'Azienda per lo Sviluppo Andino, la Central American Integration Bank e varie agenzie di sviluppo americane, europee ed asiatiche. Secondo l'opinione di diversi economisti neoliberisti, il PPP sarebbe in grado di provvedere ad uno "sviluppo sociale" grazie alla privatizzazione ed al conseguente aumento dei posti di lavoro. Tuttavia tale opinione appare come una semplificazione un po' azzardata, risulta difficile pensare che un progetto nato per favorire le grandi imprese porti ad un miglioramento della qualità di vita delle popolazioni locali, i problemi legati alla bioprospezione ne sono un esempio: le case farmaceutiche si ingrandiscono a danno delle popolazioni indigene. Molti attivisti si oppongono al PPP per diverse ragioni, principalmente per lo sfruttamento delle risorse a beneficio delle multinazionali e per l'impatto ambientale non sostenibile. Uno dei progetti di maggiore importanza, in cui prende parte soprattutto la Banca Mondiale, è il cosiddetto "Corridoio biologico mesoamericano", che ha l'obiettivo di collegare diverse parti del territorio, ricco dal punto di vista biologico, in tutta l'area del PPP. Nonostante sia formalmente dedito ad assicurare riserve genetiche e proteggere il territorio con la sua varietà di flora e fauna, il corridoio darà la possibilità, alle industrie farmaceutiche e delle sementi, di sfruttare la zona per brevettare nuove specie biologiche. La Pulsar, una delle maggiori industrie nel mondo della bioingegneria, ha già firmato accordi con la Conservation International per lavorare insieme in Chiapas, nella selva Lacandona. La Conservation International è una Organizzazione non Governativa Ambientale in stretta collaborazione con grandi multinazionali come la Navigation Technologies Corporation, la Eagle River Inc., la USA Networks etc. Il legame con le grandi multinazionali, che possono utilizzare energia e risorse della regione, lascia immaginare quanto poco il PPP abbia a che vedere con processi di "sviluppo sostenibile" e azioni per combattere la povertà. È vero che nell'attuazione del piano si apre la possibilità per nuovi posti di lavoro, ma il lavoro nelle maquilladoras, per esempio, può essere considerato una soluzione al problema della povertà? Le maquilladoras non portano benefici al paese ospite in quanto non utilizzano materie prime locali, non trasferiscono tecnologia e le condizioni lavorative sono insopportabili, dunque gli unici bisogni che soddisfano sono quelli delle multinazionali che le hanno aperte. A questo punto è possibile delineare gli obiettivi principali del PPP: consentire alle multinazionali il libero accesso alle riserve energetiche ed ecologiche; creare una zona di contenimento dell'emigrazione clandestina messicana verso gli USA, impiegando la manodopera messicana nelle maquilladoras. Un esempio delle alternative al modello economico proposto dal PPP è l'Alleanza Sociale Continentale 14 (ASC), formata da un gruppo di organizzazioni civili provenienti dall'intero continente americano. L'ASC ha formulato una proposta alternativa agli accordi di libero commercio e alle regole che vorrebbe imporre l'FTAA, trovando il sostegno di diverse organizzazioni come Frontiere Comuni in Canada, Alleanza per un Commercio Responsabile negli Stati Uniti etc 15 . Per concludere questa parte vorrei citare Muhammad Yunus: <<la mia esperienza in seno a Grameen mi ha infuso una fede incrollabile nella creatività umana, che mi ha portato a pensare che l'uomo non sia nato per patire le miserie della fame e dell'indigenza; se oggi soffre, e ha sofferto in passato, è perché noi distogliamo gli occhi dal problema…spetta a noi decidere dove andare…se prendiamo sul serio i nostri compiti non potremo che arrivare laddove abbiamo pensato16>>. Anche se diverso, il caso di Yunus in Bangladesh, con l'istituzione del microcredito per combattere la povertà in maniera attiva e razionale, può insegnare che la gestione delle politiche economiche può essere attuata secondo criteri differenti, in maniera più sostenibile ed egualitaria. Il Chiapas è uno stato potenzialmente ricco, tuttavia le condizioni di disagio della popolazione sono sempre più forti e le risorse del territorio sono sempre più a rischio di contaminazioni e violenze, ciò è dovuto ad una "politica del guadagno" senza scrupoli. La questione indigena Negli ultimi anni si è molto discusso delle problematiche che affliggono gli indigeni del Chiapas, molti di questi hanno acquisito un'identità collettiva ben salda, sono nati diversi movimenti per il riconoscimento dei diritti degli indios e le donne hanno potuto esprimere più consapevolmente la loro posizione. Gli indigeni del Chiapas, guidati spesso dall'EZLN e appoggiati da Organizzazioni non Governative, portano avanti la loro causa con l'occhio di tutto il mondo puntato su di loro (in ciò è stato fondamentale l'utilizzo di internet), in un continuo alternarsi di lotte e armistizi con i governi statale e federale. Tuttavia nel quadro appena dipinto non rientra l'intera popolazione indigena chiapaneca. Nella mia esperienza ad Ocotepec, nel nord dello stato del Chiapas, ho vissuto con gli indigeni dell'etnia Zoque, i quali non sono parte del calderone pubblicizzato dall'EZLN e dalle varie ONG. Se, infatti, bisogna riconoscere all'esercito zapatista il merito di aver fatto esplodere la questione indigena, ottenendo anche dei risultati, bisogna altresì tenere in considerazione quella parte di strumentalizzazione che sta dietro ai giochi di forza del caso. Gli indigeni del Chiapas sono quelli che lottano contro il governo? Certamente c'è una parte della popolazione locale che ha un ruolo assolutamente attivo nei conflitti per il riconoscimento dei diritti degli indios, questa è la parte che più si conosce, è la parte che affascina gli studenti che vanno in Chiapas a studiare l'identità 55 indigena, è la parte che interessa alle ONG, è la parte che viene più colpita dalle violenze dei militari e paramilitari che uccidono uomini e donne, rapiscono i bambini e saccheggiano i villaggi. Per questa parte di indigeni la lotta non cessa mai, ed il contributo degli organismi internazionali è di fondamentale importanza per giungere ad una soluzione più pacifica. Ma c'è anche un'altra parte di indigeni come per esempio gli zoque: per prevenire problemi anche ad Ocotepec c'è un distaccamento dell'esercito federale, ma fino ad ora non si sono verificati scontri diretti come in altre aree del Chiapas. Il dramma della popolazione zoque è da un lato di vivere un isolamento che la costringe ad un livello della qualità di vita molto basso, dall'altro lato di tendere sempre più alla perdita della propria identità, con le sue tradizioni e il suo sistema di vita. L'isolamento è dovuto alla posizione geografica, che rende difficili gli scambi commerciali, e all'amministrazione statale che non è in grado di "comunicare" con tutte le parti del suo territorio e di mettere in atto politiche specifiche che riconoscano la particolarità dei vari gruppi etnici. La popolazione di Ocotepec vive in condizioni di povertà, c'è un alto tasso di mortalità infantile e molte persone sono malate senza la possibilità di curarsi, l'ospedale più vicino è a cento chilometri di distanza, nella capitale Tuxtla. Se ci rechiamo in Chiapas ed andiamo a San Cristobal per esempio, incontriamo diverse ONG; in tutta l'area di Ocotepec, che conta migliaia di indigeni, ci sono solo una parrocchia e una missione di suore salesiane, che mi hanno ospitato durante la mia permanenza. Il fatto di essere distante dalla lotta attiva contro il governo, tiene fuori questa zona dall'interesse delle organizzazioni a scopo umanitario e dell'esercito zapatista: sono gli indigeni che stanno "dietro le quinte", gli indigeni che non hanno sviluppato una coscienza collettiva compatta e agguerrita, sono gli indigeni che stanno perdendo la propria identità e il proprio spirito. La povertà, prima ancora di uccidere materialmente l'uomo, distrugge il suo animo e gli nega la possibilità di conservare la particolarità che aveva precedentemente. La perdita dell'identità è legata al fatto di vivere una continua lotta alla sopravvivenza, ma è anche legata all'influenza della "società civile" che si allarga violentemente annullando le differenze culturali. L'espansione del modello di vita urbano è arrivata fino ai margini della selva, le popolazioni indigene vivono il disagio di trovarsi a metà strada tra il vecchio sistema di vita e il modello cittadino: la conseguenza è un senso di smarrimento che aggrava l'isolamento degli indios. Le missioni presenti sul territorio non sempre sono in grado di migliorare la situazione poiché, nonostante si interessino alle molte problematiche, economiche e sociali, rappresentano un sistema culturale lontano da quello indigeno, quindi si fanno inconsapevoli responsabili di un ulteriore allontanamento della popolazione locale dalle sue origini e dalle sue tradizioni. Gli zoque non hanno movimenti che si mobilitano per portare avanti degli ideali, le donne zoque non possono radunarsi e formare dei gruppi, i problemi relativi all'etnia zoque non possono essere compresi in un quadro generale che tratta la questione indigena; il primo passo per uscire dall'etnocentrismo con cui muoviamo le nostre azioni, di natura politica, sociale o economica, è di riconoscere la particolarità e la specificità di ogni gruppo etnico. Esistono molte realtà in Chiapas, non è possibile riassumere le problematiche della questione indigena all'interno della lotta zapatista. Il dramma delle popolazioni indigene è quello di non poter essere rappresentative della propria cultura in maniera pacifica, molti sono costretti a combattere, altri vivono condizioni di isolamento e povertà estreme, altri ancora sono stati ormai "ingoiati dalla società civile": quanti ancora vivranno questo dramma? Ocotepec NOTE Anuario de Cultura e Investigacion. Instituto Chiapaneco Departamento de Patrimonio Cultural, 1990 Maria Luisa Armendariz, Chiapas, una radiografia, 1994, Tuxtla Gutierrez (Chiapas). 3 Chiapas: economia e risorse, www.unimondo.org 4 Chiapas. www.comune.fe.it 5 L'ABC del Plan Puebla Panama, traduzione di Barbara Cervoni. www.zmag.org - www.ciepac.org 6 Smiraglia, Bernardi, L'ambiente dell'uomo. Introduzione alla geografia fisica, 1994, Patron, Bologna. 7 www.rainforestmovement.it 8 Plan Puebla Panama, www.romanordestsocialforum.org 9 Vandana Shiva: Biodiversità e monoculture della mente. www.peacelink.it 10 Sabina Morandi, Biopiraterie: il ritorno da Vandana Shiva - i giocolieri del dna, Associazione Orsa Minore. www.peacelink.it 11 Plan Puebla Panama, www.romanordestsocialforum.org 12 Andres Barreda, Plan Puebla Panama. www.ipsnet.it 13 Gianni Moriani, L'economia che uccide, Il Manifesto, 23 Giugno 2000 14 www.asc-hsa.org 15 L'ABC del Plan Puebla Panama, traduzione di Barbara Cervoni. www.zmag.org - www.ciepac.org 16 Yunus Muhammad, Il banchiere dei poveri,1998, Feltrinelli, Milano. 1 2 BIBLIOGRAFIA E LINK DI RIFERIMENTO Anuario de Cultura y investigacion. Instituto Chiapaneco Departamento de Patrimonio (1990). Armendàriz Maria Luisa, Chiapas, una radiografia, 1994, Tuxtla Gutierrez (Chiapas). Badini Alessandro, Gli uomini dal colore della terra, La voce della luna. www.sxpc.net Barreda Andrei, Plan Puebla Panama, www.ipsnet.i Chiapas, www.comune.fe.it Chiapas : economia e risorse, www.unimondo.org Cervoni Barbara (trad. di),L'ABC del Plan Puebla Panama, www.zmag.org - www.ciepac.org Morandi Sabina, Biopiraterie: il ritorno di Vandana Shiva - I giocolieri del dna, Associazione Orsa Minore, www.peacelink.it Moriani Gianni, L'economia che uccide, Il Manifesto, 23 Giugno 2000. Plan Puebla Panama, www.romanordestsocialforum.org Smiraglia, Bernardi, L'ambiente dell'uomo. Introduzione alla geografia fisica, 1999, Patron, Bologna. Vandana Shiva: biodiversità e monoculture della mente, www.peacelink.it Yunus Muhammad, Il banchiere dei poveri, 1998, Feltrinelli, Milano. www.asc-hsa.org www.rainforestmovement.it 56 Se volete collaborare con la Rivista con vostri articoli o commentare, proporre temi di discussione o suggerimenti, scrivete a: [email protected] oppure a: [email protected] La versione on line della rivista è disponibile su www.studentibicocca.it/achab e www.culturelab.it E' già stato raccontato come Achab fosse solito passeggiare sul ponte di comando, facendo voltate regolari ad ogni estremità, la chiesuola e l'albero maestro; ma, tra le tante cose richieste dalla narrazione, non si è mai aggiunto come talora, in queste passeggiate, quand'era più sprofondato nella sua tetraggine, egli avesse l'abitudine di trattenersi volta a volta in ognuno dei due luoghi, e rimanere là con l'occhio fisso all'oggetto che gli stava dinanzi. Quando si fermava davanti alla chiesuola, con l'occhio fisso all'ago appuntito dentro la bussola, il suo sguardo era penetrante come un giavellotto, per l'acuta intensità del suo proposito; quando, riprendendo la passeggiata, risostava davanti all'albero maestro, fissando quel medesimo sguardo inchiodato sulla moneta d'oro inchiodata là sopra, egli conservava il medesimo aspetto di ferrea determinazione, appena smossa da una specie di impeto selvaggio, se non fiducia. Ma una mattina, voltandosi per allontanarsi dal doblone, parve nuovamente attratto dalle strane figure e iscrizioni che vi erano incise, come se, per la prima volta, cominciasse a interpretare per se stesso, in qualche modo monomaniaco, qualunque significato vi si potesse nascondere. Un significato sicuro si nasconde in tutte le cose, altrimenti varrebbe ben poco, e lo stesso globo non sarebbe che una vuota sembianza, ........