huygens "corrobora ed amplifica galileo"

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MENTE
HUYGENS
che "CORROBORA ED
AMPLIFICA GALILEO"
PARTE II
Roberto Renzetti
2.1 - COSA SI CONSERVA, mv o mv2 ?
Abbiamo già visto che Huygens iniziò con grande ammirazione per Descartes. Poi
riconobbe che era stata la sua gioventù a portarlo fuori strada e che le elaborazioni di
Descartes, particolarmente per ciò che riguardava la conservazione della quantità di
movimento, gli risultavano in alcun modo sostenibili. Da qui egli iniziò ad elaborare una
teoria alternativa che, come suo solito, era accompagnata da abbondante
sperimentazione. Alla fine dei suoi lavori pubblicò un trattato in 13 Proposizioni, De
motu corporum ex percussione(1) (pronto nel 1667 ma pubblicato postumo nel 1703), in
cui erano raccolti tutti i risultati delle sue elaborazioni teoriche e sperimentali sui
problemi d'urto tra corpi (oggi diremmo masse) perfettamente duri (oggi diremmo
perfettamente elastici).
Dice Westfall:
Huygens dimostrò l'errore di Cartesio sulla base degli stessi principi
cartesiani. Per Cartesio, quiete e moto erano termini relativi; non esistendo
spazio alcuno salvo i corpi, si può solamente dire che un corpo si muove o
rimane fermo in rapporto ad un altro corpo. Le sue regole sull'urto purtroppo
davano risultati diversi a seconda dei presupposti teorici. Un corpo minore
in moto rimbalza da uno maggiore in quiete mantenendo intatta la sua
velocità, mentre il corpo maggiore non subisce cambiamenti di sorta.
Cambiando però i presupposti teorici e considerando il corpo minore in
quiete, quello maggiore lo mette in moto, perdendo tanto moto quanto ne dà
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al corpo minore, e dopo l'urto i due corpi si muovono insieme. Ovviamente
il secondo risultato non concorda con il primo se moto e quiete sono termini
relativi, come voleva Cartesio. Huygens accettò la relatività del moto [anche
se Huygens ebbe a scrivere - Oeuvres completes, Vol. VI, pag. 213 -, a
proposito della contrapposizione di moto assoluto con moto relativo: Non è
un argomento matematico difficile, ma fisico, iperfisico ...; ndr]. Il problema
era allora di rivedere le regole dell'urto.
A questo fine, immaginò un esperimento teorico quale soltanto un olandese
avrebbe potuto pensare(2). Una barca costeggia tranquillamente un
tranquillo canale olandese, e sulla barca un uomo compie esperimenti
sull'urto tra i corpi. Huygens immagina i corpi sospesi a corde che l'uomo
tiene in mano; congiungendo le mani, fa cozzare i corpi tra loro. Tutto ciò
naturalmente va inteso come il tentativo di eliminare anomalie come la
frizione e di realizzare il moto ideale di Galileo. Le corde hanno il vantaggio
di permettergli di mettere a riva un secondo uomo che stringe le mani al
primo quando passa la barca. Due uomini insieme svolgono il medesimo
esperimento.
Per sviluppare i suoi ragionamenti, Huygens parte da alcune assunzioni di grande
rilievo [per questo argomento mi rifaccio a Mach]. Si afferma il principio d'inerzia
enunciato così:
1 - Un corpo mosso continua a muoversi, se non ha impedimenti, con la
stessa velocità costante e lungo una linea retta
e quindi si danno per buone le seguenti regole:
2 - I corpi elastici che abbiano massa uguale, quando si urtano con velocità
uguali ed opposte acquistano, dopo l'urto, le stesse velocità che avevano
prima ma in verso opposto
3 - Tutte le velocità sono da considerarsi come relative
4 - Quando un corpo più grande ne urta uno più piccolo che è in quiete gli
comunica parte della sua velocità
5 - Se uno di due corpi che si urtano conserva la propria velocità, anche
l'altro la conserva.
Dopo queste ipotesi si iniziano a discutere le differenti possibilità di urto. Per
discutere il tutto, in termini relativistici, Huygens discute le sue esperienze da due punti
di osservazione, quello di chi si trova sulla barca in moto con velocità v e quello di chi si
trova sulla riva. Le esperienze consistono in urti di pendoli, sostenuti dai due osservatori.
Ciascun osservatore fa la medesima esperienza. Vediamo le più significative cose che
Huygens discute.
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La figura che compare nella Prima pagina del De motu corporum ex percussione
Huygens inizia nella Proposizione I a discutere di un corpo fermo urtato da un altro
corpo uguale. Egli mostra che, dopo l'urto, il corpo che era in moto resterà fermo mentre
il corpo che era fermo acquisterà la velocità che aveva il corpo in moto. Nella
Proposizione II egli passa a discutere l'ipotesi 2, tenendo conto della 3, facendo anche
qui riferimento alla figura, riprodotta più in alto, che compare nella prima pagina del De
motu ... . Egli immagina, come accennato, che il fenomeno in discussione abbia luogo su
una barca in movimento con velocità v, barca che Mach schematizza con il disegno
seguente:
Si hanno così due osservatori per lo stesso fenomeno, quello fermo a terra e quello
in moto con velocità v sulla barca. Per colui che si trova sulla barca il fenomeno va così
come è descritto nel punto 2; per colui che si trova invece a terra le velocità dei due
corpi sono, prima dell'urto, rispettivamente 2v e 0 e, dopo l'urto, 0 e 2v. Per colui che si
trova a terra a descrivere tale urto elastico, accade che: un corpo che ne urti uno
immobile ed uguale(3) gli comunica tutta la sua velocità restando in quiete dopo l'urto.
Più in generale accade che la barca abbia una velocità qualunque u. In tal caso le
velocità per l'osservatore a terra sono, prima dell'urto, u + v ed u - v e, dopo l'urto, u - v
ed u + v. Da ciò si conclude facilmente che corpi elastici uguali si scambiano nell'urto la
loro velocità. Agendo sulla velocità della barca, Huygens fu in grado di esaminare tutti i
casi che comportavano corpi uguali. Per affrontare corpi diversi, ipotizzò anche che,
ogni qual volta un corpo ne colpisce uno più piccolo fermo, lo mette in moto e perde
quella parte del moto che trasferisce al corpo più piccolo. Mediante la barca, aveva
rovesciato lo stato di quiete e di moto. Sulla base dei nuovi presupposti teorici, il moto
perduto dal corpo grande per muovere quello piccolo appare come moto comunicato a
quello grande dall'urto del corpo piccolo. La questione è affrontata nella Proposizione
III, sempre tenendo conto dell'ipotesi 3, prendendo le mosse su una strada aperta da
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Galileo.
Un corpo in quiete, per quanto grande, è messo in moto da un corpo più piccolo che
lo urta ed Huygens mostra che l'avvicinamento dei corpi prima dell'urto e
l'allontanamento dopo l'urto avvengono con la stessa velocità relativa. Seguiamo Mach:
Un corpo m urta contro un altro in quiete di massa M (vedi figura), al quale
nell'urto comunica la velocità w, non determinata. Per dimostrare il suo
teorema Huygens suppone che il fenomeno abbia luogo su una barca che si
muove da M verso m con la velocità w/2. Le velocità iniziali sono dunque v
- w/2, - w/2, le velocità finali x, + w/2. Poiché M non muta il valore della
velocità ma solo il segno, anche m, se non ha perduto forza viva nell'urto
elastico, cambia soltanto il segno della sua velocità. Di conseguenza le
velocità finali sono - (v - w/2), + w/2, cioè la velocità relativa di
avvicinamento prima dell'urto è uguale alla velocità relativa di
allontanamento dopo l'urto. Qualunque sia il cambiamento di velocità,
sempre, come in questo esempio della barca, il valore della velocità prima e
dopo l'urto non cambia se non tiene conto dei segni. Il teorema acquista così
valore generale.
A questo punto è indispensabile un'osservazione. Huygens introduce il teorema
delle forze vive solo nella Proposizione XI ma lo usa già a partire dalla Proposizione
VIII. Il fatto si spiega nella logica della cronologia di redazione delle sue opere. Infatti il
teorema delle forze vive era stato ricavato da Huygens in relazione al moto pendolare
che aveva studiato a partire dal 1657 e questo lavoro sugli urti, anche se pubblicato
postumo nel 1703, era stato redatto nel 1667. E' plausibile che, nella redazione del De
motu, Huygens applicasse cose che dava per scontate in quanto già ricavate in Lavori
diversi di statica e dinamica del 1661(5). Fatta questa premessa, passo ad occuparmi
della Proposizione VIII che, come detto, introduce l'applicazione del teorema delle forze
vive, per passare subito dopo ad illustrare il modo con cui Huygens ricava quest'ultimo
teorema. Continuo con Mach:
Se due masse M e m si urtano con la velocità V e v inversamente
proporzionali alle masse, M rimbalza dopo l'urto con velocità V e m con
velocità v. Supponiamo che le velocità dopo l'urto siano V1 e v1; in base al
precedente teorema abbiamo V + v = V1 + v1, e per il teorema delle forze
vive:
Supponiamo che V1 = v + w; allora necessariamente V1 = V - w; in questo
caso la somma sarà:
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Questa uguaglianza può essere valida solo se si pone w = 0, e con ciò il
teorema sopra esposto è dimostrato. Huygens ha raggiunto la prova
mediante il confronto, compiuto con l'aiuto di una costruzione geometrica,
fra le altezze a cui possono salire i corpi prima e dopo l'urto. Se le velocità
dei corpi che si urtano non sono inversamente proporzionali alle masse, si
può ottenere questo diverso rapporto immaginando un conveniente
movimento della barca. Il teorema allora include ogni caso possibile.(4)
In questo modo, studiando ogni possibilità relativa a corpi elastici, Huygens
fornisce tutte le leggi degli urti con una completa trattazione relativistica. Questi
importanti risultati saranno ripresi da Newton e resi in forma più moderna e
comprensibile al nostro modo di affrontare tali problemi, tra l'altro, con l'introduzione
accennata della massa.
Per ciò che abbiamo potuto vedere, a fianco della grandezza mv che conosciamo
come quantità di moto, abbiamo introdotto la grandezza mv2 che è invece una energia
(anche se tale nome non era ancora utilizzato) chiamata forza viva. La comparsa di
quest'ultima grandezza fece nascere un lungo dibattito tra coloro che si erano messi sulla
linea di Descartes e Gottfried Wilhelm Leibniz (1646–1716). Il dibattito, che verteva su
quale delle due grandezze si conservasse e che ebbe anche sviluppi in ambito di premi
banditi su tale argomento, si protrasse per tutto il XVIII secolo, quando fu ancora
ripreso da Pierluigi Lagrange (1736–1813) nella sua Mécanique analytique del 1788. Il
problema comunque andava al di là della mera scelta di cosa si conservasse.
L'argomento è troppo lungo da trattare ed esula dai fini di questo lavoro ma chi è
interessato potrà leggere qui l'evoluzione della questione. Invece riporto ora il nocciolo
del problema della conservazione delle due grandezze, come riportato da Mach ed
alcune altre considerazioni:
La somma delle quantità di moto di un corpo in movimento si conserva
nell'urto, tanto se i corpi sono elastici quanto se non lo sono. Bisogna però
intendere qui la conservazione in un senso diverso da quello che le diede
Descartes. Nell'urto la quantità di moto di un corpo non diminuisce in
proporzione a quella che aumenta in un altro corpo. Quando, per esempio,
due masse uguali anelastiche si urtano con velocità uguali e opposte,
perdono entrambe la loro quantità di moto intesa in senso cartesiano. Al
contrario la somma di queste quantità si conserva se si dà segno positivo a
tutte le velocità che hanno una direzione e segno negativo a quelle di
direzione opposta. La quantità di moto così concepita resta costante in tutti i
casi.
La somma delle forze vive di un sistema di masse varia nell'urto se si tratta
di masse anelastiche; invece si conserva per le masse perfettamente
elastiche. È possibile misurare la diminuzione delle forze vive che si
determina nell'urto di masse anelastiche, o, in generale, quando i corpi si
muovono dopo l'urto con velocità comune. [...] La perdita di forza viva
nell'urto è equivalente al lavoro prodotto dalle forze interne, cioè dalle
cosiddette forze molecolari.
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La disputa quindi non poteva avere vincitori. Sarà necessario attendere gli sviluppi
della Termodinamica e l'affermazione del Primo Principio di essa.
Vi è comunque un dato da registrare. Nel 1692 Huygens scriveva a Leibniz a
proposito di suoi articoli inviati alla Royal Society affermando che
in essi ho fatto uso, tra l'altro, di questa conservatio virium aequalium, e
della deduzione del moto perpetuo, vale a dire dell'impossibile [Oeuvres
completes, Vol. X, pag 303]
Inoltre, nel caso di collisioni perfettamente elastiche, egli aveva dimostrato in due
articoli al Journal des Sçavants e nelle Philosophical Transactions of Royal Society
(ambedue scritti nel 1686 e pubblicati postumi nel 1699) che la somma dei prodotti delle
masse e dei quadrati delle rispettive velocità, calcolata prima dell'urto, è uguale
all'espressione corrispondente calcolata dopo l'urto. Questo teorema si era presentato
anche a Leibniz sempre nel 1686. Di esso aveva scritto ad Huygens preparando anche un
articolo pubblicato nel 1686 negli Acta eruditorum dal titolo Demonstratio erroris
memorabilis Cartesii. E' in tale articolo che Leibniz chiama forza viva il prodotto di una
massa per il quadrato della sua velocità (quasi quella che noi chiamiamo energia
cinetica; diventerà proprio l'energia cinetica quando Coriolis - 1792-1843 - introdurrà
per essa il fattore moltiplicativo 1/2) mentre chiama forza morta la stessa cosa che non è
in moto, quella che noi chiamiamo oggi energia potenziale. A tal proposito dice Gliozzi
(in Abbagnano):
Ora, Leibniz proponeva di valutare la « forza » (noi diremmo l'energia) di
un corpo in caduta libera dall'altezza alla quale questo corpo potrebbe
risalire, se fosse rilanciato verso l'alto con la velocità acquisita, sicché si
avrebbe in ogni caso eguaglianza tra forza viva e forza morta. Se la «forza»
si valuta così, dalle leggi della meccanica risulta che essa è eguale al
prodotto del «corpo» per il quadrato della sua velocità, sicché un corpo
dotato di velocità doppia possiede una «forza» quadrupla. Ciò che si
conserverebbe nell'urto dei corpi non è la quantità di moto, come affermava
la terza regola di Descartes, ma la somma delle forze vive dei corpi urtanti:
è questo, secondo Leibniz, l'errore di Cartesio.
Ma i cartesiani si levarono contro Leibniz in difesa di Descartes ... [Essi]
facevano osservare che i corpi rilanciati verso l'alto risalivano alla stessa
altezza in un tempo doppio e produrre un effetto quadruplo in un tempo
doppio non significa avere una «forza» quadrupla, ma semplicemente
doppia. Non è il caso di seguire nei particolari tecnici la polemica. Ci
basterà dire che essa fu risolta nel 1728 da Gian Giacomo De Mairan (16781771) e meglio ancora da Giovanni d'Alembert (1717-1783) nel discorso
preliminare del suo Traité de dynamique (1743). Tutta la polemica s'era
fondata su un equivoco relativo alla definizione delle quantità di
movimento. I cartesiani s'erano fermati alla definizione scalare data da
Descartes; De Mairan mostrò che tutti gli esempi d'urto addotti nel corso
della polemica obbedivano alla legge di conservazione delle quantità di
moto, purché questa si considerasse, com'è, un vettore. In definitiva,
nell'urto elastico si ha tanto conservazione di quantità di moto quanto
conservazione di forze vive.
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2.2 - UN DIBATTITO CON LEIBNIZ SULLA RELATIVITA' DEL
MOTO
Ma il dibattito con Leibniz riguardava anche altre questioni, in particolare la
relatività del moto, che era diventato problema centrale da quando erano stati pubblicati
i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (in breve: Principia) di Newton, nel
1687. In quest'opera, che ho discusso altrove, si affermavano varie cose di grandissimo
rilievo che fecero discutere per moltissimi anni. Tra queste l'affermazione di spazi e
tempi assoluti, con la conseguenza di una definizione precisa di moti relativi.
Naturalmente sia Huygens che Leibniz intervennero su quanto era sostenuto da Newton
con varie perplessità ma anche con disapprovazione. La cosa ebbe conseguenze nella
corrispondenza che Huygens intratteneva con Leibniz (riporto di seguito ciò che in
proposito scrive Jammer in Storia del concetto di Spazio).
Nel 1692 aveva visto la luce un'opera di Leibniz (scritta nel 1676), la Critica ai
Principia Philosophiae di Descartes. Alcune cose qui sostenute, dettero origine allo
scambio di opinioni tra i due scienziati. Tra l'altro, in questa Critica, si sosteneva
Se il moto non è altro che il cambiamento di un contatto o di una vicinanza
immediata, ne segue che non può essere mai stabilito quale oggetto viene
mosso. Infatti, come in astronomia i medesimi fenomeni sono presentati
sotto differenti ipotesi, così è sempre possibile attribuire il moto reale
all'uno o all'altro di quei corpi che mutano fra loro la vicinanza o la
situazione; per modo che avendo arbitrariamente scelto uno di questi corpi
come in quiete, o in moto, per una determinata ragione, lungo una linea
data, può venire determinato geometricamente quale moto o quiete deve
essere attribuito all'altro così che possa apparire il fenomeno dato. Di qui
segue, che se non c'è in moto nient'altro che questo reciproco mutamento,
allora non c'è in natura alcuna ragione perché il moto debba essere
attribuito all'uno piuttosto che agli altri. La conseguenza di ciò sarà che
non vi è alcun moto reale. Perciò, perché si possa dire che una cosa è
mossa, si richiede non solo la sua situazione rispetto alle altre, ma anche
che la causa del cambiamento, la forza o l'azione, sia in se stessa.
A queste righe si riferisce Huygens nella sua lettera a Leibniz del 29 maggio
1694. Egli si oppone all'asserzione "che sarebbe sconveniente che non
esistessero moti reali ma soltanto relativi" ("absonum esse nullum dari
motum realem sed tantum relativium"). Non importa che la citazione da
Leibniz di Huygens sia inesatta. Huygens vi esprimeva la propria intenzione
di attenersi alla sua teoria - forse per via del contrasto fra la propria
fermezza e l'indecisione di Leibniz - e diceva che non avrebbe permesso a se
stesso di restare influenzato dagli esperimenti dei Principia, convinto
com'era che Newton fosse in errore. Al tempo stesso sperava che nella
prossima edizione dei Principia, che pensava sarebbe stata edita da David
Gregory, Newton avrebbe ritratto la sua teoria. L'istinto di Huygens nei
confronti della propria teoria era giusto, sebbene sbagliasse per quanto
riguarda la seconda edizione dei Principia, che di fatto fu preparata da
Roger Cotes, come sbagliava quanto alla sua possibile revisione da parte di
Newton.
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La speranza di Huygens appare nella sua prima lettera a Leibniz, in cui si
legge:
Vi dirò soltanto che nelle vostre annotazioni su Descartes, ho rilevato che
voi credete che sarebbe sconveniente che non esistessero moti reali, ma
soltanto relativi. Cosa che, malgrado tutto, tengo per ferma, senza
occuparmi dei ragionamenti e delle esperienze di Newton nei suoi Principia
philosophiae, che conosco essere in errore; e desidero vedere se nella
nuova edizione di questo libro, che farà David Gregory, egli si ritratterà.
La replica di Leibniz a questa lettera (22 giugno 1694) è estremamente
interessante:
Quanto alla differenza tra movimento assoluto e relativo, credo che se il
moto o piuttosto la forza motrice dei corpi è qualcosa di reale come sembra
si debba ammettere, occorrerà pure che abbia un soggetto. Poiché se a e b
vanno l'uno verso l'altro, ammetto che tutti i fenomeni si verificheranno
nella medesima maniera, qualunque sia quello in cui si sarà posto il moto o
la quiete; e quand'anche ci fossero 1000 corpi, rimango d'accordo sul fatto
che i fenomeni non sapranno fornire a noi (e nemmeno agli angeli) una
ragione infallibile per determinare il soggetto del moto o del suo grado; e
che ciascuno potrà essere pensato a sé come in riposo, che è proprio quello
che voi chiedete; ma non neghereste, credo, che ciascuno ha veramente un
certo grado di moto o, se volete, di forza, nonostante l'equivalenza delle
ipotesi. È vero che ne ricavo la conseguenza che nella natura v'è qualche
altra cosa che la geometria non riesce a determinare. E fra le numerose
ragioni di cui mi servo per provare che oltre all'estensione e alle sue
variazioni che sono cose puramente geometriche, bisogna riconoscere
qualcosa di superiore, ossia la forza, questa non è fra le minori. Newton
riconosce l'equivalenza delle ipotesi nel caso dei moti rettilinei; ma per i
moti circolari egli crede che lo sforzo compiuto dai corpi ruotanti per
allontanarsi dal centro o dall'asse del moto circolare riveli il loro moto
assoluto. Io, però, ho ragioni che m'inducono a credere che niente rompa la
legge generale della equivalenza. Mi pare, tuttavia, che voi stesso, signore,
foste già, riguardo al moto circolare, dello stesso avviso di Newton.
Come mostra questa lettera, Leibniz si trova in una situazione precaria, in
quanto da un lato abbraccia il principio logico della relatività cinematica e
dall'altro il fenomeno del moto circolare che richiede l'esistenza dello spazio
assoluto. Il suo "moto vero" che differisce concettualmente dal puro moto
geometrico, è ovviamente un tentativo di compromesso.
Ma Huygens è contrario ad ogni compromesso. Così, in una lettera datata 24
agosto 1694, scrive:
Per ciò che riguarda il moto assoluto e relativo, ammiro la Vostra memoria,
in quanto vi siete ricordato che, al riguardo del moto circolare, in altri
tempi ero dell'avviso del signor Newton. Il che è vero, infatti è solo da 2 o 3
anni che ho trovato una teoria più verosimile, dalla quale sembra che voi,
per lo meno adesso, non siate più lontano se non per il fatto che voi volete
che, quando piu corpi hanno fra di loro un movimento relativo, ciascuno di
essi abbia un certo grado di moto reale, o di forza, cosa su cui non sono
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affatto della vostra opinione.
La replica di Leibniz del 14 settembre 1694 - replica che mise fine a questo
scambio di idee estremamente interessanti, essendo morto Huygens nel
1695 - mostra il suo grande interesse per la soluzione di Huygens circa il
problema del moto circolare. Egli approva che nessuno speciale privilegio
venga assegnato al moto circolare rispetto al moto rettilineo uniforme e che
tutti i sistemi di riferimento siano trattati come equivalenti. Secondo
l'opinione di Leibniz soltanto il principio di semplicità conduce
all'attribuzione di certi moti a certi corpi. Senza dubbio questo principio fu
preso in prestito da Leibniz dal campo dell'astronomia, dove per molti anni
giocò un .ruolo importante nella controversia tra i copernicani e i loro
oppositori. Leibniz comprese non soltanto la naturale somiglianza del
problema in discussione con quello della preferibilità del sistema tolemaico
o di quello copernicano, ma compose anche un trattato, Tentamen de
motuum coelestium causis, la cui intenzione era di mostrare come gli
argomenti fondati sulla relatività meccanica del moto suggeriscano
l'equivalenza dei due sistemi cosmologici antagonisti. Sembra che da
principio egli intendesse pubblicare questo lavoro a Roma durante la sua
visita alla Città Santa. Ma prevalse la cautela ed egli stesso sottomise al
giudizio solo un Promemoria, la cui parte teorica inizia con la proposizione:
Per comprendere più esattamente l'argomento, si deve sapere che il moto è
assunto in modo tale da comportare qualcosa di relativo e che non esistono
fenomeni dei quali si possano determinare in assoluto il moto e la quiete; il
moto infatti consiste nel mutamento di sito o luogo.
Abbiamo menzionato l'ultima lettera di Leibniz a H,uygens. Ecco la parte
che ha a che fare col problema dello spazio assoluto:
... Quando un giorno a Parigi vi dissi che era difficile conoscere il vero
soggetto del movimento e voi mi rispondeste che ciò era possibile per mezzo
del moto circolare, ciò mi fermò; e me ne ricordai leggendo più o meno la
stessa cosa nel libro del signor Newton; ma ciò avvenne quando già io
credevo di vedere che il moto circolare non ha in questo alcun privilegio. E
vedo che voi siete del medesimo avviso. Personalmente ritengo che tutte le
ipotesi sono equivalenti e quando assegno certi moti a corpi determinati, io
non ho né posso avere altra ragione che la semplicità dell'ipotesi, ritenendo
che si possa considerare la più semplice (dopo aver tutto considerato) come
l'ipotesi reale. Così, non essendoci alcun altro segno di differenziazione,
credo che la divergenza fra di noi consista nel modo di parlare, che io, per
quanto posso, mi sforzo di adattare all'uso comune, salva veritate. Non
sono, però, molto lontano dal vostro modo di parlare e in un piccolo scritto
che inviai al signor Viviani, e che mi sembrò adatto a convincere i Signori
di Roma a permettere la teoria di Copernico, io me ne servii. Tuttavia se
sulla realtà del moto nutrite queste opinioni, immagino che sulla natura dei
corpi dobbiate averne di diverse da quelle che comunemente si hanno. Io ne
ho di molto singolari e che mi paiono dimostrate.
Qual è questa singolare concezione della natura dei corpi sulla base della
quale Leibniz può affermare di aver trovato la soluzione del problema del
moto circolare ? Non lo sappiamo. Leibniz, per quanto ci è noto, non spiega
la propria soluzione né qui né altrove. Quanto alla soluzione di Huygens del
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medesimo problema, siamo in una posizione più felice. Come può Huygens,
alla luce di certi efffetti dinamici come il sorgere delle forze centrifughe nel
moto circolare, mantenere il principio cinematico della relatività del moto, e
al tempo stesso fare a meno dell'esistenza dello spazio e del moto assoluti ?
Nel 1886 L. Lange attirò l'attenzione sulla possibilità di trovare la soluzione
di Huygens fra i suoi scritti postumi negli archivi di Leida. Fu, però, solo nel
1920 che D. J. Korteweg e J. A. Schouten, avendo trovato negli archivi di
Leida quattro fogli sciolti scritti da Huygens, e tutti concernenti il moto
circolare, pubblicarono la soluzione. Citiamo in parte il quarto foglio, in cui
Huygens riassume la soluzione:
A lungo ritenni che, a causa della forza centrifuga, il criterio del vero moto
risiedesse nel moto circolare. In verità, è identico, rispetto agli altri
fenomeni, che un disco circolare o una ruota ruotino intorno a me o che
intorno al disco fermo ruoti io. Ma se una pietra viene messa sulla
circonferenza sarà proiettata solo se il disco ruota e perciò ritenni si
potesse giudicare del suo moto di rotazione senza relazione ad altro. Ma
questo effetto mostra solo che le parti della ruota, a causa della pressione
esercitata sulla circonferenza, sono spinte con moto relativo fra di loro in
direzioni differenti. Il moto rotatorio è quindi solo un movimento relativo
delle parti, che vanno verso lati diversi, ma che sono tenute insieme da un
vincolo o da una connessione. Ora, è possibile che due corpi si muovano di
moto relativo fra loro senza che cambi la loro distanza ? In verità, ciò è
possibile solo se si impedisce un incremento della loro distanza. Nella
circonferenza esiste un moto relativo opposto. Parecchia gente ritiene che il
vero moto di un corpo consiste nel suo essere trasferito da un certo posto
fisso nell'universo. Ciò è sbagliato: infatti, se lo spazio è illimitato in ogni
direzione, quale può essere la definizione o l'immobilità di un luogo? Si dirà
forse che nel sistema di Copernico le stelle fisse sono realmente in quiete. E
siano pure mutuamente immobili l'una rispetto all'altra; ma prese insieme,
relativamente a quale altro corpo saranno dette in quiete o per che cosa si
distingueranno dai corpi che si muovono molto velocemente in qualche
direzione? È quindi impossibile stabilire se nello spazio infinito un corpo è
in quiete o in moto; perciò quiete e movimento sono soltanto relativi.
In tal modo Huygens pensa di aver scoperto che gli effetti dinamici dovuti
alla presenza di forze centrifughe siano una mera indicazione del moto
relativo delle differenti parti del disco. Inoltre il moto relativo di queste parti
può essere trasformato a distanza assumendo come sistema di riferimento
proprio quel sistema che ha la medesima velocità angolare (e la medesima
origine) del disco ruotante. In questo sistema di coordinate in rotazione le
parti del disco sono in quiete. Tuttavia, l'effetto dinamico riferito a questo
sistema, non svanisce: la "pressione" esercitata dalle forze centrifughe non è
stata, a distanza, trasformata, come avverrebbe se la forza centrifuga fosse
nient'altro che un effetto dinamico del moto relativo delle particelle. La
spiegazione di Huygens, quindi, non supera certamente la prova della
moderna critica scientifica. Nondimeno, è un \fatto storico che Huygens,
ispirato dalla sua corretta conoscenza scientifica, fu il primo fisico che
credette, duecento anni prima della moderna relatività, nella validità
esclusiva di un principio cinematico in quanto relatività dinamica.
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2.3 - IL CENTRO DI OSCILLAZIONE DI UN PENDOLO
COMPOSTO
Vediamo ora, sempre con Mach, il più importante dei risultati conseguiti da
Huygens nello studio dei pendoli, la determinazione del centro di oscillazione di un
pendolo reale (pendolo composto) e non più ideale come quello di Galileo. Come già
detto queste cose furono elaborate da Huygens nel 1661 in suoi appunti (Lavori diversi
di statica e dinamica) pubblicati poi nelle Oeuvres completes e riprese in modo più
completo ed articolato nella Parte IV dell'Horologium Oscillatorium del 1673(8).
Fino a quando in dinamica si considera un corpo solo, i principi di Galileo
sono sufficienti, ma la trattazione del moto di più corpi agenti gli uni sugli
altri costituisce un problema risolvibile solo con l'aiuto di un nuovo
principio. Questo nuovo principio fu appunto trovato da Huygens.
Sappiamo che i pendoli più lunghi oscillano più lentamente di quelli corti.
Immaginiamo ora che attorno a un asse ruoti un corpo pesante il cui centro
di gravità cada fuori dell'asse: un tale corpo forma un pendolo composto.
Ogni particella materiale di questo corpo, se fosse situata da sola alla stessa
distanza dall'asse, avrebbe una sua propria durata di oscillazione. Essendo le
parti del corpo vincolate tra loro, questo si muove come un tutto e la durata
della sua oscillazione ha un unico valore ben definito. Immaginiamo molti
pendoli di lunghezza diversa; i più corti oscillano più velocemente, i più
lunghi meno. Se li
uniamo in modo da formare un solo pendolo, avverrà che il movimento dei
pendoli più lunghi sarà accelerato, quello dei più corti sarà ritardato; ne
risulterà una durata media di oscillazione. Avremo così un pendolo semplice
di lunghezza intermedia fra la lunghezza dei più lunghi e quella dei più
corti, l'oscillazione del quale avrà la stessa durata di quella del pendolo
composto. Se confrontiamo la lunghezza di questo pendolo semplice con
quella del pendolo composto, troviamo un punto che, malgrado il legame
con gli altri punti, oscilla come se fosse solo. Questo punto è il centro di
oscillazione. Mersenne propose il problema della determinazione di questo
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punto. Descartes ne diede una soluzione che però era insufficiente.
Huygens per primo ha trovato una soluzione generale. Oltre a lui, quasi tutti
i maggiori scienziati del suo tempo si sono occupati di questo problema, e si
può dire che i principi fondamentali della meccanica moderna sono tutti
legati in qualche modo con esso.
Huygens partì da un'idea nuova molto importante. In tutti i casi, quali che
siano le variazioni reciprocamente apportate dalle masse del pendolo ai
rispettivi moti, le velocità acquistate nel moto di discesa del pendolo
possono essere soltanto tali che il centro di gravità delle masse (particelle)
possa risalire esattamente alla stessa altezza da cui è disceso [Principio di
Torricelli, vedi Nota 4; ndr]; questo vale sia che le masse restino vincolate
tra loro, sia che i vincoli siano tolti. Di fronte ai dubbi, espressi da suoi
contemporanei, sull'esattezza di questo principio, Huygens fece notare che
esso contiene solo l'affermazione che i corpi pesanti non si muovono da sé
verso l'alto. Supponiamo che il centro di gravità delle particelle materiali
vincolate tra loro nella caduta possa, per la soppressione dei vincoli, salire a
un'altezza maggiore di quella da cui queste particelle sono cadute; allora ne
seguirà che corpi pesanti in virtù del loro stesso peso possono salire a
qualsiasi altezza, purché l'operazione venga ripetuta un numero sufficiente
di volte. Se invece, dopo la soppressione dei vincoli, il centro di gravità può
innalzarsi solo a un'altezza minore di quella da cui è sceso, basterebbe
rovesciare il verso delle operazioni perché il corpo di nuovo si innalzi, per il
suo peso, a un'altezza qualunque. La legge di Huygens enuncia un fatto di
cui nessuno ha mai dubitato, e che anzi tutti conoscono istintivamente. Egli
però ha usato concettualmente questa conoscenza istintiva. Non mancò di
far notare l'inutilità delle ricerche intese a ottenere un moto perpetuo.
Possiamo dunque riconoscere nella legge ora esposta la generalizzazione di
un pensiero galileiano.
Vediamo ora quale ruolo ha questa legge nella determinazione del centro
d'oscillazione. Consideriamo per semplicità un pendolo lineare OA = r,
formato da un grande numero di masse indicate nella figura con punti [il
pendolo OA è cioè formato da tanti pendoli di diversa lunghezza legati tra
loro; ndr]. Se lo si lascia libero nella posizione OA, esso discenderà fino a H
e salirà fino ad A' dove AH = HA'. Il suo centro di gravità S salirà da una
parte tanto quanto è sceso dall'altra.
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La soluzione non può ancora essere trattata da questa osservazione. Se
liberiamo improvvisamente, nel momento in cui il pendolo si trova in OB, le
singole masse dal loro vincolo reciproco, esse, con le velocità acquisite a
causa del vincolo stesso, innalzeranno alla stessa altezza il loro centro di
gravità. Se fissiamo le masse, liberamente oscillanti, alla loro altezza
massima, i pendoli più corti restano al di qua della linea OA', i più lunghi al
di là di essa, ma il centro di gravità del sistema si trova in OA', nella
posizione precedente.
Osserviamo ora che le velocità impresse sono proporzionali alle loro
distanze dall'asse, e che quindi, data una di queste velocità, tutte le altre
sono determinate, ed è determinata anche l'altezza cui perverrà il centro di
gravità. Inversamente la velocità di qualsiasi massa è determinata quando
sia conosciuta l'altezza del centro di gravità. Se conosciamo in un pendolo la
velocità corrispondente a una distanza di caduta, conosciamo con ciò tutto il
suo movimento.
Fatte queste osservazioni, affrontiamo ora la soluzione del problema(5).
Se si considerano dei pendoli semplici di diversa lunghezza ed oscillanti con uguale
ampiezza, la loro velocità al punto più basso è proporzionale alla radice quadrata della
lunghezza. Riferendoci alla figura, ricordiamo che per un pendolo semplice si ha:
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1)
Se ora leghiamo questo pendolo ad altri di diversa lunghezza al fine di formare un
unico pendolo (composto) avremo per tutti una oscillazione unica con medesima
velocità. Consideriamo ora uno di questi pendoli (potrebbe essere ad esempio quello che
coincide con il baricentro) ed indichiamo con r e v rispettivamente la sua lunghezza e
b
b
velocità. Si avrà, evidentemente, che la lunghezza r e velocità v di un pendolo
qualunque (tra quelli legati) e la lunghezza rb e velocità v del pendolo considerato
b
stanno tra loro secondo la seguente proporzione:
2)
che vuol dire che la velocità di uno qualunque dei pendoli legati dipende dalla sua
distanza r dal punto di sospensione O. E vuol ancora dire che se si confrontano pendoli
liberi con i loro corrispettivi legati la velocità vL di questi ultimi sarà accelerata per i più
lunghi e ritardata per i più corti(6).
Quindi, sul pendolo composto, vi sarà lungo OA un pendolo di lunghezza rb che,
malgrado il legame con gli altri, oscilla come se fosse libero. E la lunghezza rb di tale
pendolo rappresenta, come detto, la distanza dal punto di sospensione O al centro di
oscillazione. Si tratta di calcolarsi il valore di rb e lo faccio con l'aiuto di Salvo
D'Agostino.
Riferiamoci al pendolo composto di figura formato da due masse uguali m1 ed m2.
Chiamiamo OB = r1 ed OA = r2 . La posizione del baricentro del pendolo, situata tra B
ed A, la possiamo indicare, come già fatto, con rb. Chiamiamo poi h1 ed h2 le altezze di
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caduta delle masse m1 ed m2 e con hb l'altezza di caduta del baricentro.
Avremo (vedi la relazione 1):
3)
poiché rb è il centro di massa (o baricentro o centro di gravità) del sistema, definito
come:
4)
Indicando poi con v la velocità istantanea di un qualunque punto del pendolo si avrà
(vedi la relazione 2):
essendo vb la velocità di caduta del baricentro.
Esprimiamo ora l'altezza a cui arriverebbe il baricentro delle masse m1 ed m2 se,
giunte nella posizione più bassa (corrispondente ad OM), si liberassero. Si tratta in
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pratica di trovare il centro di oscillazione di tale pendolo cioè quale dovrebbe essere la
lunghezza r* di un pendolo semplice (con caduta h* e velocità di caduta v*) per avere lo
stesso periodo di oscillazione del pendolo composto considerato (nel nostro caso
formato dalle due masse m1 ed m2). Utilizzando i dati fino ad ora forniti, per la
lunghezza del pendolo semplice equivalente, si trova(7):
5)
Trovato questo risultato per due masse che costituiscono un pendolo composto,
esso può essere generalizzato per un numero qualunque di masse m1, m2, m3, ... :
Il disegno di Huygens per la soluzione del pendolo fisico. La linea delle
palle AB rappresenta una sbarra solida che oscilla dalla posizione AG.
Immaginò che la sbarra si divida nelle due parti componenti quando è in
posizione verticale, e la linea delle palle CD rappresenta le parti separate.
Quindi immaginò che ogni parte venga deviata SI da salire diritta. La linea
retta AS mostra 1'altezza da cui scende ogni parte della sbarra. La linea
curva CE mostra le altezze cui possono salire le parti quando si separano le
une dalle altre. Poiché il centro di gravità delle parti dopo la separazione
non può essere più alto del centro di gravità della sbarra alla sua altezza
originale, l'area triangolare ABS deve essere uguale all'area curvilinea
CDE.
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2.4 - LA FORZA CENTRIFUGA
Abbiamo visto nella Parte I di questo lavoro che Huygens aveva scritto un trattato
sulla forza centrifuga, De Vi Centrifuga(9), pubblicato postumo nel 1703 negli Opuscola
Postuma ed aveva anche discusso di forza centrifuga nella Parte V ed ultima
dell'Horologium oscillatorium del 1673 ma solo presentando alcuni teoremi senza
dimostrazione. Un commento sul titolo è indispensabile: si introduce la parola forza e
quindi programmaticamente Huygens si pone sulla strada complessa della dinamica,
strada che aveva rifiutato quando si era occupato di urti. Probabilmente, con Westfall,
l'idea era di pensare questa forza come un peso statico e quindi del tutto accettabile nella
statica. L'interesse per questo problema gli nasceva dallo studio degli orologi a pendolo
e dalle oscillazioni ad arco di cerchio delle masse rigide pendolari. Egli osservò che un
corpo rigido che si muove di moto circolare uniforme ha la tendenza (il conatus) a
spostarsi verso la periferia e, tale tendenza, è del tutto simile a quella di un corpo in
caduta, e quindi dei corpi pesanti sospesi ad un filo. Per Huygens forza centrifuga e
peso, erano più che fenomeni simili; essi dovevano anche essere complementari.
Occorre solo aggiungere che si risente l'influsso di Descartes, non certo per le
conclusioni ma per l'essersi impegnato nell'esprimere in modo quantitativo il tentativo
(conatus) dei corpi di allontanarsi dal centro di rotazione. Cercherò ora di discutere i
risultati che egli ricavò su una grandezza, la forza centrifuga, che fu introdotta proprio
da lui.
Per trattare l'argomento, come diremmo oggi, Huygens si pone nel sistema di
riferimento in moto rotatorio. Occorre aggiungere che oggi la forza centrifuga è
considerata una forza fittizia poiché scegliamo sempre di studiare i fenomeni totatori da
un riferimento inerziale (o fermo o in moto rettilineo uniforme). Osservando da tale
riferimento noi possiamo solo dire che un oggetto in moto circolare ha la tendenza ad
andare verso il centro del moto, essendo soggetto così ad una accelerazione centripeta
(variazione della velocità non in modulo ma in direzione e verso)(10). Egli ipotizza una
grossa ruota in rotazione su un piano orizzontale ed imperniata su un asse verticale.
Prima di passare a discutere le elaborazioni di Huygens, leggiamo alcuni passi del De vi
centrifuga, riferendoci alla figura seguente (sovrapposizione di due figure, la 4 e la 6, del
De vi centrifuga).
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Sia una ruota BG orizzontale ruotante attorno al suo centro A. Una sfera
attaccata alla sua circonferenza, quando giunge al punto B, ha una
tendenza (conatus) a continuare il suo percorso secondo la retta BS
tangente alla ruota nel punto B: in effetti, se essa è staccata dalla ruota e se
sfugge, resterà sul percorso BS e non ne uscirà, a meno che la forza di
gravità non la tragga verso il basso o che l'incontro con un altro corpo non
impedisca il suo movimento. In verità, è difficile comprendere, a prima
vista, perché il filo AB sia teso come è quando il globo ha una tendenza a
procedere secondo BS, perpendicolare ad AB. Ma tutto diventerà chiaro
con il seguente ragionamento.
Immaginiamo, inoltre, che quest'uomo tenga in mano un filo che porti
attaccato alla sua seconda estremità una palla di piombo. Il filo sarà
dunque teso allo stesso modo e con la stessa energia (aeque valide) per
mezzo della forza di rotazione, sia che venga tenuto in questo modo, sia che
vada sino al centro A e che vi sia attaccato; la ragione per la quale è teso
può essere intuita molto chiaramente. Prendiamo degli archi uguali BE, EF,
molto piccoli in rapporto alla circonferenza intera ... L'uomo fissato alla
ruota percorre questi archi in tempi eguali, e negli stessi intervalli di tempo,
il piombo percorrerebbe, se venisse lasciato, dei percorsi rettilinei BK, KL
uguali a questi archi, e le cui estremità K, L, non cadono in verità
esattamente sui raggi AE, AF, ma, sono ad una piccolissima distanza da
queste linee dalla parte di B ... (Poiché queste estremità si allontanano un
poco dai raggi del lato di B), accade che il globo non tenda ad allontanarsi
dall'uomo seguendo un raggio, bensì una curva che tocca questo raggio nel
punto in cui si trova l'uomo. ( ... )
Di conseguenza, poiché il globo trascinato dalla ruota, tende a descrivere,
in rapporto al raggio nel quale si trova, una curva tangente a questo
raggio, si vede che il filo sarà teso da questa tendenza (conatus)
esattamente come se il globo tendesse a seguire il raggio stesso.
Ma gli spazi che percorrerebbe il globo sulla suddetta curva in tempi
crescenti per gradi uguali sono come la sequenza dei quadrati 1,4,9.,16, ...
di numeri interi, se si considera l'inizio del movimento e degli spazi molto
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piccoli. La figura mostra ciò nel caso in cui si
[Fig. 6]
siano presi, sulla circonferenza della ruota, degli archi uguali BE, EF, FM,
e sulla tangente BS dei segmenti BK, KL, LN, uguali a detti archi; poiché
essendo d'altra parte i raggi EC, FD, MS. Se il globo fosse staccato nel
punto B dalla ruota che gira, quando B giungesse nel punto E, il globo
sarebbe nel punto K e avrebbe percorso l'elemento EK della curva qui
sopra descritta; in capo ad un secondo intervallo di tempo uguale al primo,
quando B fosse arrivato al punto F, il globo si troverebbe nel punto L e
avrebbe percorso la parte di curva FL. .. Ma queste porzioni di curva
devono essere considerate all'inizio della separazione del globo e della
ruota come uguali alle rette EC, FD, MS che esse toccano, poiché si
possono prendere, a partire da B, degli archi sufficientemente piccoli
perché la differenza tra queste rette e gli archi stia, con la loro lunghezza in
un rapporto interiore ad ogni rapporto immaginabile.
Dunque gli spazi EK, FL, MN, devono essere considerati come crescenti
secondo la serie dei quadrati 1,4,9,16. E, conseguentemente, il conatus del
globo trattenuto sulla ruota in movimento, sarà lo stesso che se il globo
tendesse ad avanzare seguendo il raggio con un movimento accelerato nel
corso del quale percorrerebbe in tempi uguali degli spazi crescenti come i
numeri dispari... Da ciò trarremo la conclusione che le forze centrifughe di
mobili disuguali trasportati in cerchi uguali a velocità uguali stanno tra di
loro come le gravità dei mobili, cioè come le quantità solide ... Ci rimane da
trovare la grandezza o la quantità dei diversi conatus per le diverse velocità
della ruota [Tratto da Canguilhem].
Da questa presentazione del fenomeno occorre passare alla sua formalizzazione.
Intanto alcune osservazioni. La prima è relativa alla gravità che, come si può facilmente
apprezzare, è considerata una tendenza verso la caduta (il conatus). La seconda riguarda
come viene presentato il problema della misura della gravità: si deve misurare la velocità
dell'oggetto immediatamente dopo la rottura del vincolo. E da ciò prende le mosse
Huygens per discutere quantitativamente la forza centrifuga (seguirò D'Agostino).
L'uomo che si trova sulla ruota nel punto B rompe il vincolo (la corda) che teneva il
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corpo legato al centro A. Se questo corpo continua a muoversi con la medesima
velocità, allora arriverà successivamente in K, L, ... Per piccoli intervalli di tempo, tali
che il conatus non faccia in tempo a distruggersi, si
possono fare le seguenti approssimazioni: EK = EC; FL = FD. Osserviamo ora che EC
ed FD aumentano con i quadrati dei tempi e ciò vuol dire che il conatus si comporta
come un grave sospeso ad un filo per il quale già sappiamo che vi è una dipendenza dal
quadrato del tempo. Da qui si può trarre una prima conclusione: le forze centrifughe dei
corpi mobili ineguali, ma mossi secondo circonferenze eguali e con eguali velocità
stanno tra loro come la gravitas o quantità solide dei corpi(11), la stessa cosa deve
accadere per i corpi in rotazione, inoltre la forza centrifuga aumenta in proporzione con
il peso (o materia solida) del corpo.
Prendiamo ora in considerazione il triangolo rettangolo BAD. Da esso si ricava:
AB2 + BD2 = AD2
osservando che AD = AF + FD e che AF = AB, si ha:
AF2 + BD2 = (AF + FD)2
sviluppando e semplificando:
BD2 = FD2 + 2.AF.FD
Se FD è, come nelle ipotesi, piccolo, allora FD2 è trascurabile:
BD2 = 2.AF.FD =>
1)
Si devono ora fare delle osservazioni relativamente alla fisica del problema. La
lunghezza BD è quella percorsa dall'oggetto che si allontana di moto uniforme, si avrà
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pertanto:
La lunghezza AF è il raggio r della ruota, la lunghezza FD è la lunghezza che il corpo
percorre soggetto alla gravitas e quindi percorsa di moto uniformemente accelerato:
Sostituendo le ultime due espressioni nella 1) si trova:
2)
che è l'espressione nota per l'accelerazione centrifuga. Quando sarà affermata la
definizione newtoniana di forza (F = ma), basterà sostituire ad a questa espressione per
avere la relazione che fornisce la forza centrifuga(12). Occorre osservare che la 2) non fu
data esplicitamente da Huygens ma che era completamente implicita nelle sue
proposizioni.
Questo brillante studio di Huygens era finalizzato a realizzare pendoli sempre più
perfezionati ed in particolare i pendoli conici, quelli costretti ad oscillare non su di un
piano ma nello spazio. In un tale pendolo acquista importanza la forza centrifuga perché
assume un valore che supera il peso del bilanciere e perché tale forza mantiene il
pendolo non lungo la naturale linea verticale. Dice Westfall:
Quando la corda faceva un angolo di 45° con la verticale, intuitivamente
sembrava che la forza centrifuga dovesse essere uguale al peso del
bilanciere. In questo pendolo conico, il raggio della circonferenza descritta
dal bilanciere era uguale all' altezza verticale del cono, e di conseguenza (in
base alla sua analisi del moto circolare) la velocità del bilanciere era uguale
a quella che acquisterebbe un corpo cadendo lungo metà dell' altezza del
cono. Mediante quest'equazione, poté anche paragonare il tempo di caduta
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di un corpo lungo 1'altezza del cono al periodo del pendolo conico. Aveva
dimostrato che tutti i pendoli conici con la medesima altezza verticale hanno
lo stesso periodo e che tra pendoli che hanno diverse altezze verticali il
periodo varia secondo la radice quadrata dell'altezza verticale (AB). Galileo
aveva mostrato che il periodo di un pendolo normale varia secondo la radice
quadrata della sua lunghezza e Huygens comprese che nel caso singolo di
un'oscillazione minima il pendolo conico diventa uguale al pendolo
normale. Il periodo di un pendolo conico quindi è uguale al periodo di un
pendolo normale la cui lunghezza sia uguale all' altezza verticale del cono
(AB). Poi, con una serie di semplici rapporti, utilizzando la propria analisi
sul pendolo conico e la cinematica della caduta di Galileo, stabili che il
rapporto tra il periodo di un pendolo ed il tempo di caduta lungo la sua
lunghezza è uguale a π√2. Ma il periodo di caduta è √2l/g. Di conseguenza
il periodo di un pendolo è 2π√l/g. Per Huygens, l'incognita dell'equazione
era l'accelerazione di gravità, g. Riuscì a misurare il periodo e la lunghezza.
A partire dal tempo di Galileo, moltissimi studiosi avevano cercato di
misurare g misurando la distanza che un grave cadendo copre in un secondo.
La maggior parte dei risultati dava g = circa 24 piedi/sec2; il gesuita Riccioli
aveva trovato un dato di 30 piedi/sec2. Con il pendolo, Huygens stabili che
g = 32,18 piedi/sec2, alla latitudine dei Paesi Bassi, un dato che corrisponde
alla migliori misurazioni odierne.
2.5 - LA CAUSA DELLA GRAVITA'
E' d'interesse osservare che alcune note di Huygens scritte a margine del De vi
centrifuga nel 1659 ed alcune proposizioni dell'Horologium oscillatorium mostrano che
Huygens aveva compreso che la forza centrifuga facesse equilibrio alla forza
gravitazionale che il Sole esercita sui pianeti, in modo da mantenerli sulle loro orbite (la
gravità, ipotizzata da Newton, controbilancia così bene le forze centrigughe dei pianeti e
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produce esattamente l'effetto dei movimenti ellittici di Kepler). Huygens, da seguace di
Galileo, non indugiava spesso a speculazioni che non potesse poi sottoporre ad
esperienza. Sta di fatto che rifiutava (insieme a molti altri scienziati) la concezione
newtoniana di azione a distanza (a me pare assurda) poiché sembrava un cedere il passo
a qualità occulte (in nota 12 vi sono altre considerazioni in proposito).
Sulla questione della gravità Huygens tornò nel 1686, nei suoi Pensées privées,
scrivendo:
I pianeti galleggiano nella materia. Se così non fosse cosa impedirebbe
infatti ai pianeti di fuggirsene via, e cosa li farebbe muovere ? Keplero
assegna, erroneamente, questa funzione al sole [Oeuvres completes, Vol
XXI, pag. 366].
e due anni dopo appuntò:
Vortici distrutti da Newton. Vortici di movimento sferico al loro posto.
Rettificare l'idea dei vortici.
Necessità dei vortici: la terra fuggirebbe via lontano dal sole; ma assai
distanti l'uno dall'altro e non come quelli di Descartes, l'uno contiguo
all'altro [Oeuvres completes, Vol. XXI, pagg. 437-439]
e quindi scrisse:
Il famoso Newton ha spazzato via tutte le difficoltà [relative alle leggi di
Kepler] insieme ai vortici di Descartes; ha dimostrato che i pianeti sono
mantenuti nelle rispettive orbite dalla loro gravitazione verso il sole. E che
gli eccentrici diventano necessariamente ellittici [Oeuvres completes, Vol.
IX, pag. 190].
Finché, nel 1690, pubblicò il suo Discours de la cause de la pesanteur, che era
un'elaborazione di una conferenza che tenne alla Royal Society di Londra nel 1689, nel
quale espone ampiamente le sue visioni che contrastano nettamente con quelle di
Newton (seguirò qui la discussione che fa Koyré).
Questo lavoro di Huygens inizia con queste parole:
La Natura agisce attraverso delle vie così segrete ed impercettibili,
portando a Terra tutti i corpi che chiamiamo pesanti, che per quanta
attenzione o industria s'impiega i sensi non riescono a scoprire nulla. E ciò
ha obbligato molti Filosofi del secolo passato a non cercare la causa di
questo effetto mirabile che dentro i corpi medesimi e di attribuirla a
qualche qualità interna e inerente che li faccia tendere in basso e verso il
centro della Terra dove c'è una tendenza delle parti ad unirsi al tutto. E ciò
non ci fa cogliere le cause ma supporre dei Principi oscuri e non capiti. [...]
Mediante autori e studiosi moderni della Filosofia, molti hanno giustamente
affermato che occorrerebbe trovare qualcosa all'esterno dei corpi che
causasse le loro attrazioni ed i fenomeni che, in relazione ad esse, uno
osserva [Oeuvres complètes, vol. XXI, pag 445].
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Ed Huygens propende per questa seconda possibilità, rifacendosi in qualche modo a
Descartes con delle sostanziali modifiche alla teoria dei vortici. Egli affermava:
Credo che se l'ipotesi principale, sulla quale io mi baso, non è quella vera,
vi siano poche speranze di poterla trovare, restando nei limiti della vera e
sana filosofia.
e così scriveva:
Se ci limitiamo ai corpi, senza (considerare) quella qualità che è chiamata
gravità, vediamo che il loro movimento è naturalmente rettilineo o
circolare; il primo è proprio dei corpi che procedono senza incontrare
resistenza, il secondo di quelli che vengono trattenuti intorno a qualche
centro o proprio intorno a questo centro ruotano. Conosciamo abbastanza
la natura del movimento rettilineo e le leggi osservate dai corpi, quando si
scontrano, nel trasmettere il loro movimento. Ma per quanto si ci sforzi di
analizzare soltanto questo tipo di movimento e le reazioni che è capace di
determinare nelle parti della materia, non si scoprirà tuttavia la necessità
del loro tendere verso un centro. Diviene quindi indispensabile volgersi alle
proprietà del moto circolare per vedere se ve ne siano alcune che possano
servire al nostro scopo.
So bene che Descartes ha già tentato, nella sua Fisica, di spiegare la
gravità con il movimento di una certa materia che ruota intorno alla terra;
e torna a suo grande merito l'aver avuto per primo quest'idea. Ma,
attraverso le osservazioni che svilupperò nel resto di questo Discorso,
vedremo in che cosa la sua soluzione è diversa da quella che io proporrò, e
anche da che punto di vista la consideri [Oeuvres complètes, vol. XXI, pag
455]
Sono le forze centrifughe, le cui proprietà egli qui ricorda, che lo aiutano sulla strada
della sua interpretazione:
Lo sforzo di allontanarsi dal centro è, dunque, un effetto costante del
movimento circolare e sebbene questo effetto possa sembrare direttamente
opposto a quello della gravità, e sebbene si sia obbiettato a Copernico che,
a causa della rotazione diurna della terra, le case e gli uomini verrebbero
scagliati in aria, dimostrerò tuttavia che proprio quello sforzo che
compiono i corpi che si muovono di moto circolare per allontanarsi dal
centro è motivo del convergere di altri verso il medesimo centro [Oeuvres
complètes, vol. XXI, pag 452]
Per spiegare ciò egli introduce un'esperienza con la quale egli credeva di poter
spiegare la gravitazione mediante il moto molto veloce delle parti di un mezzo. Pose in
un vaso chiuso pieno d'acqua dei pezzetti di ceralacca (cera spagnola), che essendo un
po' più pesanti dell'acqua si depositano sul fondo del vaso. Se si fa ruotare il vaso, la
ceralacca si dispone ai bordi esterni del vaso; se si fa cessare improvvisamente la
rotazione, l'acqua continua a girare, mentre i pezzi di ceralacca, che stanno sul fondo e il
cui moto è di conseguenza frenato con maggiore rapidità, sono ora spinti verso il centro
del vaso. Huygens vide in questo fenomeno una copia esatta dell'effetto della
gravitazione oltre a vedervi anche i vortici cartesiani che comunque dovevano essere
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pensati in modi diversi da quanto aveva fatto Descartes. Scrive egli dunque:
Supporrò che nello spazio sferico che comprende la terra e i corpi che la
circondano fino a grande distanza si trovi una materia fluida, formata da
piccolissime particelle, che, in diversi modi, viene agitata in tutte le
direzioni con grande velocità. Dico che il movimento di tale materia, poiché
non può abbandonare questo spazio, dato che è circondato da altri corpi,
deve divenire parzialmente circolare intorno al centro; non in modo tale,
comunque, che le sue particelle ruotino tutte nello stesso modo, ma piuttosto
in modo che la maggior parte dei suoi movimenti si compia su superfici
sferiche intorno al centro di questo spazio che diviene, per casi dire, il
centro della Terra [Oeuvres complètes, vol. XXI, pag 455]
ed allora le particelle che costituiscono il vortice non ruotano più, come Descartes aveva
supposto, tutte in un'unica direzione e su piani paralleli, ma in tutte le direzioni e su tutti
i piani pensabili passanti per il centro della Terra. Inoltre tali vortici dovevano essere
pensati molto più piccoli di quelli ipotizzati da Descartes e costituiti da particelle in
moto rapido in tutte le direzioni; pensò che, in uno spazio chiuso, il moto circolare di
queste particelle prevalga su quello rettilineo, e si stabilisca da se stesso. Conseguenza di
ciò è che:
Non è difficile spiegare come, da questo movimento, venga generata la
gravità. Poiché, se in mezzo alla materia fluida che ruota nello spazio, come
abbiamo supposto, si trovano delle parti più grosse di quelle che
compongono la materia fluida, o anche corpi formati da fasci di piccole
particelle strettamente aderenti, e [se] questi corpi non seguono il rapido
movimento della suddetta materia [fluida], saranno necessariamente spinti
verso il centro del movimento e li formeranno il globo terrestre, se si
suppone che la terra ancora non esista. E la ragione è la medesima che, nel
sopracitato esperimento, costringe la cera spagnola ad ammassarsi al
centro del recipiente. È dunque probabilmente in questo [effetto] che
consiste la gravità dei corpi, e si può dire che essa [cioè la gravità] è lo
sforzo che la materia fluida compie per allontanarsi dal centro e per
spingere al suo posto i corpi che non seguono il suo movimento. Adesso, il
motivo per cui i gravi che si vedono discendere nell'aria non seguono il
movimento sferico della materia fluida è abbastanza chiaro; infatti, poiché
v'è movimento in ogni direzione, gli impulsi che un corpo riceve si
succedono l'un l'altro così rapidamente che nessuno di essi viene esercitato
per un periodo di tempo sufficiente a fare acquistare al corpo un movimento
sensibile [Oeuvres complètes, vol. XXI, pag 456]
In definitiva, messa a punto qualche altra questione, ha in mano la sua teoria della
gravità e può quindi concludere su Newton:
Non ho dunque niente contro la «Vis Centripeta», come la definisce il
signor Newton, che ne fa la causa del gravitare dei pianeti verso il Sole e
della Luna verso la Terra; al contrario, non trovo difficoltà a dichiararmi
completamente d'accordo: infatti l'esperienza c'insegna non soltanto che
esiste in natura un'attrazione o impulso di questo genere, ma anche che esso
si può spiegare con le leggi del movimento, come si vede da quanto ho
scritto supra a proposito della gravità. Niente impedisce infatti che la causa
di questa «Vis Centripeta» verso il Sole sia simile a quella che costringe i
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gravi a muoversi verso la Terra. È passato ormai molto tempo da quando si
immaginò che la figura sferica del Sole potesse esser prodotta dalla
medesima [causa] che, secondo me, produceva quella della Terra; ma non
avevo esteso l'azione della gravità a distanze così grandi come quelle che
separano il Sole dai pianeti, o la Terra dalla Luna; questo perché i vortici
di Descartes, che in un primo momento mi apparvero assai verosimili, e che
tenevo ancora presenti, le superavano. Neppure immaginavo, a proposito
del regolare diminuire della gravità, che esso fosse inversamente
proporzionale al quadrato delle distanze dai centri: una nuova ed
importante qualità della gravità di cui mette conto di indagare la causa. Ma
vedendo adesso, con la dimostrazione del signor Newton, che, se si suppone
una simile gravità verso il Sole e che diminuisce secondo detta proporzione,
essa controbilancia così bene le forze centrifughe dei pianeti e produce
esattamente l'effetto dei movimenti ellittici supposti e dimostrati con
osservazioni di Keplero, non posso dubitare né della verità di queste ipotesi
riguardanti la gravità, né del sistema di Newton in quanto vi si fonda [...]
Sarebbe diverso, naturalmente, se la supposizione fosse che la gravità è una
qualità inerente alla materia corporea. Ma non credo che il signor Newton
lo avrebbe ammesso perché una simile ipotesi ci allontanerebbe di molto
dai principi matematici e meccanici [Oeuvres complètes, vol. XXI, pag 472474] .
Altro punto di disaccordo con Newton ed in accordo con la sua teoria dei vortici, era
la supposizione di uno spazio vuoto (e non perché avesse obiezioni contro il vuoto ma
perché, come vedremo nel paragrafo che segue, era convinto che la luce si propagasse
per onde e ciò non andava d'accordo, nella sua concezione, con spazi vuoti. E' così che
su questo tema conclude:
V'è solo questa difficoltà, che Newton, respingendo i vortici di Descartes,
afferma che gli spazi celesti contengono soltanto una materia molto
rarefatta, tale da consentire ai pianeti e alle comete di procedere nella loro
rapida corsa incontrando un minimo di resistenza. Ma se si ammette questa
estrema rarefazione degli spazi celesti, pare non sia possibile spiegare
l'azione della gravità o quella della luce, almeno con i mezzi di cui mi sono
servito. Per esaminare questo problema, dico che la materia eterea può
considerarsi rarefatta in due modi: a) le sue particelle restano separate
l'una dall'altra da un vasto spazio; b) sono l'una contigua all'altra, in modo
però che la trama che ne risulta non sia eccessivamente compatta, ma
piuttosto cosparsa di un grande numero di piccoli spazi vuoti. Quanto al
vuoto, lo ammetto senza difficoltà e credo che sia indispensabile per il
movimento dei piccoli corpuscoli tra di loro, poiché non sostengo affatto
con Descartes che solo l'estensione costituisce l'essenza del corpo;
aggiungo bensì ad essa la perfetta durezza che lo rende impenetrabile e
impedisce che venga rotto o scalfito. Comunque, se si considera la
rarefazione nel primo modo non vedo come si possa arrivare a una
spiegazione della gravità; e, quanto alla luce, mi sembra del tutto
impossibile, ove si ammettano tali vuoti, spiegarne la prodigiosa velocità
che, secondo la dimostrazione del signor Roemer, da me riportata nel Traité
de lumière, deve essere seicento volte maggiore di quella del suono. Questo
è il motivo per cui ritenni che una tale rarefazione non poteva darsi negli
spazi celesti [Oeuvres complètes, vol. XXI, pag 473].
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2.6 - IL TRAITÉ DE LA LUMIÈRE
Nel 1691 vide la luce il Traitè de la lumière di Huygens(5). Ma l'opera era già stata
fatta conoscere al momento della sua definitiva redazione, nel 1678. Nella Prefazione
Huygens spiega il motivo dei 12 anni di ritardo nella pubblicazione: il breve trattato lo
aveva scritto in un cattivo francese ed egli lo avrebbe voluto in un buon latino per poi
inserirlo in una opera più completa (verrà pubblicato in latino nel 1728 con il titolo
Tractatus de Lumine). Ci informa poi che il lavoro è rimasto lo stesso di quando lo ha
scritto salvo alcune aggiunte: l’ipotesi sulla struttura dello spato d’Islanda e la scoperta
della birifrangenza del quarzo.
L'opera è ampiamente incompleta e lo stesso Huygens ce lo dice. Manca ogni
discussione sui colori della luce e sugli oggetti colorati e, soprattutto, non si entra a
discutere la natura della luce. Gli argomenti trattati sono: la propagazione della luce, la
riflessione, la rifrazione, la rifrazione da parte dell'atmosfera, la rifrazione dello spato
d'Islanda, questioni di ottica geometrica. Egli si mostra insoddisfatto di tutte le teorie
sulla luce fino ad allora costruite soprattutto perché sono poco chiare su questioni come
il cammino rettilineo della luce e sul fatto che raggi di supposte particelle non si
disturbano incrociandosi.
Per Huygens la luce è movimento, solo un movimento può eccitare la visione. E
poiché l'incontro tra due raggi di luce non origina disturbi, non è pensabile che la luce
sia costituita da particelle. Piuttosto deve trattarsi di vibrazioni, allo stesso modo del
suono. Quindi vibrazioni nel mezzo che sta in mezzo tra sorgente e ricevente e, ancora
come nel suono, senza trasporto del mezzo interposto. E' allora ad onde longitudinali,
quelle caratteristiche del suono (la vibrazione si ha nella direzione di propagazione
dell'onda), che pensa Huygens. Il suono poi cammina con velocità finita nell'aria, allo
stesso modo della luce, come ha mostrato Röemer. Ma in quegli anni si era scoperto
anche che, mentre la luce continua a muoversi in un ambiente in cui si era fatto il vuoto,
lo stesso non accade per il suono (Boyle, 1660). E' qui che subentra l'etere, questa
sostanza che deve riempire l'intero universo, compenetrare di sé ogni sostanza ed essere
tanto sottile da sfuggire all'aspirazione della pompa da vuoto. Ma, contemporaneamente
ed ancora in analogia con il suono che si propaga meglio in mezzi più densi, l'etere deve
essere uniformemente molto elastico e quindi ad elevatissima durezza per permettere le
elevate velocità della luce, e la cosa non è ulteriormente indagata anche se misteriosa.
Huygens passa quindi a discutere delle sorgenti di luce (radiazione) e del modo di
propagazione della medesima. Inizia con un disegno famoso che riporto:
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Secondo Huygens da ogni punto di una sorgente luminosa si dipartono delle onde
sferiche longitudinali:
«Ogni punto di un corpo luminoso, come il Sole, una candela o un carbone
ardente, emette onde il cui centro è proprio quel punto ...; i cerchi
concentrici descritti intorno ad ognuno di questi punti rappresentano le
onde che si generano da essi ... Quello che a prima vista può sembrare
molto strano e addirittura incredibile è che le onde prodotte mediante
movimenti e corpuscoli cosi piccoli possano estendersi a distanze tanto
grandi, come, per esempio, dal Sole o dalle stelle fino a noi ...».
Come è allora possibile che avvenga ciò ?
«Cessiamo però di meravigliarci se teniamo conto che ad una grande
distanza dal corpo luminoso una infinità di onde, comunque originate da
differenti punti di questo corpo, si uniscono in modo da formare
macroscopicamente una sola onda che, conseguentemente, deve avere
abbastanza forza, per farsi sentire».
Possiamo riconoscere in queste poche righe la formulazione della teoria ondulatoria
fino al principio di Huygens o dell'inviluppo delle onde elementari. Lo stesso Huygens
illustra questo principio con la figura seguente:
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e dice:
«se DCEF è una onda emessa dal punto luminoso A, che è il suo centro,
la particella B, una di quelle che si trovano all'interno della sfera delimitata
da DCEF, avrà fatto la sua onda elementare KCL che toccherà l'onda
DCEF in C, allo stesso momento in cui l'onda principale, emessa da A,
raggiunge DCEF; è chiaro che l'unico punto dell'onda KCL che toccherà
l'onda DCEF è C che si trova sulla retta passante per AB. Allo stesso modo
le altre particelle che si trovano all'interno della sfera delimitata da DCEF,
come quelle indicate con b e con d, avranno fatto ciascuna una propria
onda. Ognuna di queste onde potrà però essere solo infinitamente debole
rispetto all'onda DCEF, alla cui composizione contribuiscono tutte le altre
con la parte della loro superficie che è più distante dal centro A».
Quanto ora detto può essere riassunto da quanto già sappiamo e cioè che ogni
punto in cui arriva una vibrazione diventa esso stesso centro di nuove vibrazioni
(onde sferiche); l'inviluppo di un gran numero di onde elementari, originate in questo
modo, origina un nuovo fronte d'onda, con centro la sorgente, molto più intensa, delle
onde elementari che la compongono (principio di sovrapposizione o di Huygens).
Huygens proseguiva affermando che con questo modo di intendere le cose, e con
l'ammissione di minore velocità della luce nei mezzi più densi, si spiegherebbero tutti i
fenomeni ottici conosciuti passando poi a dare dimostrazioni della riflessione, della
rifrazione, della doppia rifrazione e della propagazione rettilinea della luce.
Huygens inizia con la riflessione offrendoci questo disegno:
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La radiazione luminosa proviene dalla sinistra ed è rappresentata dal fronte d'onda
AHHHC, che è una parte di retta, in quanto la curvatura di un'onda sferica con raggio
infinito è nulla. L'onda va ad incidere sulla superficie AKKKB. Il primo punto dell'onda
che si riflette è A e via via lo fanno tutti gli altri (ogni punto del fronte d'onda, al
momento della riflessione, diventa sorgente di una onda elementare). In figura è
riportata solo la riflessione di A che, da quel punto, ritorna ad essere un'onda sferica. Ciò
vale per tutti gli altri punti del fronte d'onda che, dopo essersi riflessi (ed essere tornati
onde sferiche) ricostituiscono l'inviluppo che origina il fronte d'onda BN.
Il disegno per la rifrazione è invece il seguente:
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e, con ragionamento analogo a quello di prima, il fronte AHHHC, proveniente dalla
sinistra, inizia a rifrangersi prima con il punto A e via via con tutti gli altri, finché non si
ricostituisce il fronte d'onda BN.
Le leggi che vengono trovate sono le stesse che si avevano nel caso corpuscolare,
come dimostrerò con linguaggio moderno nel paragrafo seguente. Ora basta dire che
Huygens dimostra, alla fine del capitolo dedicato alla rifrazione, che il principio di
Fermat (la luce impiega il tempo più breve per andare da un punto ad un altro) è in
accordo con la sua rifrazione di onde.
Quando passava però a dare una spiegazione dei fenomeni
che oggi si spiegano con la polarizzazione egli, molto semplicemente, affermava che
non gli era stato possibile trovare nulla che lo soddisfacesse. Riguardo poi alla natura di
queste onde ed al loro modo di propagazione, Huygens diceva:
«Nella propagazione di queste onde bisogna considerare ancora che ogni
particella di materia da cui un'onda si diparte, deve comunicare il suo
movimento non solo alla particella vicina ..., ma lo trasmette anche a tutte
quelle altre che la toccano e si oppongono al suo moto».
E questa è una chiara enunciazione di quella che sarà la più grande difficoltà dell'ottica
ondulatoria fino a Maxwell: il fatto che le onde luminose risultavano onde di pressione
e quindi longitudinali. L'ammissione, inevitabile, di onde longitudinali e non trasversali
impediva di pensare a qualsiasi fenomeno di polarizzazione (e quindi questa difficoltà
era alla base quanto Huygens confessava di non saper spiegare). Questo punto era ben
presente a Newton che nell'Optiks lo cita e ne tenta una spiegazione ammettendo che i
raggi di luce abbiano dei «lati» ciascuno dei quali dotato di particolari proprietà. Se
infatti si va ad interpretare un fenomeno di polarizzazione mediante onde longitudinali,
non se ne cava nulla poiché "queste onde sono uguali da tutte le parti". E'
necessario dunque ammettere che ci sia una "differenza ... nella posizione dei lati
della luce rispetto ai piani di rifrazione perpendicolare." Come già accennato solo
la natura trasversale delle onde elettromagnetiche avrebbe potuto rendere conto,
fino in fondo, dei fenomeni di polarizzazione.
C'è un altro aspetto che differenzia radicalmente la teoria ondulatoria da quella
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corpuscolare e riguarda la spiegazione del fenomeno di rifrazione (nel passaggio, ad
esempio, da un mezzo meno ad uno più denso): come accennato, nella teoria ondulatoria
occorre ammettere che la velocità della luce sia minore nei mezzi più densi.
Anche questo quindi diventava un elemento cruciale per decidere sulla maggiore o
minore falsicabilità di una teoria. Se si fosse riusciti a determinare la velocità della
luce in mezzi di diversa densità si sarebbe stati in grado di decidere quale teoria fosse
più vera.
Huygens offre certamente molte novità ed lacune di estremo interesse passibili di
grandi sviluppi nell'Ottocento. Ma tutta la costruzione resta deludente. Si tratta di mere
deduzioni, non c'è l'accuratezza di Newton nel fare esperienze su esperienze. Non si
capisce poi perché ci si fermi proprio dove la teoria ondulatoria avrebbe potuto dare il
meglio di sé, nella diffrazione che non viene toccata.
2.7 - ALTRE CONCLUSIONI
Non v'è alcun dubbio che Huygens fu un vero gigante del pensiero scientifico. E,
come abbiamo visto, si muove su tutte le strade aperte da Galileo, con ogni curiosità su
argomenti che in quegli anni sorgevano da ogni parte. Dal punto di vista scientifico egli
era un perfetto laico che mai fece riferimenti ad un qualche Dio nel descrivere il
funzionamento del mondo. Passi in avanti se ne erano fatti molti rispetto a Descartes,
anche se alcuni suoi contemporanei (newton e Leibniz) rimisero Dio dentro le cose del
mondo.
Più in generale Huygens ebbe la ventura di fare da ponte tra Galileo e la cultura del
Sud Europa con Newton ed il nuovo mondo che si faceva strada. Anche se i suoi
contributi sono di una personalità eccezionale, egli non riuscì ad emergere come i suoi
meriti gli avrebbero permesso. Da una parte le guerre anche di religione e la transizione
dal latino alle lingue volgari locali che lo trovarono in difficoltà perché egli non era un
buon conoscitore né del francese né dell'inglese. Il suo olandese non era ancora lingua
diffusa ed il tedesco ancora non emergeva a livello scientifico. Così egli affastellò opere
che non furono pubblicate a tempo debito ed i suoi meriti non ebbero la risonanza che
sarebbe stata auspicabile.
Ancora oggi si trova poco in giro su Huygens, particolarmente nel panorama
provinciale italiano. Cose sparse, suoi contributi qua e là. Mai nulla di organico (a parte
il citato libro della D'Elia che però è introvabile). La tradizione esterna alla meccanica
newtoniana di uno dei seguaci del metodo di Galileo fu soffocata dall'emergere possente
della figura di Newton che, paradossalmente, congelò la ricerca scientifica per circa un
secolo: la sua opera era considerata dai più talmente ben fatta ed esaustiva che sembrava
impossibile dire qualcosa di nuovo e di più completo. Si dimostra ancora che
l'indeterminatezza logica delle teorie è un possente motore per progredire.
Su Huygens dice Mach:
Per quanto riguarda la forma dell'esposizione dell'Horologium
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oscillatorium, bisogna dire che Huygens divide con Galileo il merito di una
completa e nobile sincerità. Egli espone infatti apertamente i metodi di cui si
è servito nelle ricerche, permettendo così al lettore di arrivare a una perfetta
comprensione delle sue scoperte. Né vede alcuna ragione per tenerli
nascosti. Se fra mille anni il suo nome sarà ancora presente alla memoria
degli uomini, verrà ricordato come quello di uno scienziato di eccezionale
grandezza. Nella nostra esposizione dei lavori huygensiani dobbiamo
procedere in modo diverso da quello usato per Galileo. Infatti le trattazioni
di Galileo, nella loro classica semplicità, possono essere esposte senza
modificazioni, mentre questo non è possibile per Huygens, che studia
problemi più complicati, servendosi di notazioni e metodi matematici, per
noi insufficienti e lenti.
A ciò aggiunge D'Agostino:
In complesso, attraverso la lettura dei lavori di Huygens risalta il 1avoro
sperimentale che era stato fatto col pendolo in questi anni, lo scambio di
informazioni sui risultati, osservate anche in viaggi oceanici. Un contesto
veramente assai differente di quello presente a Galileo: la nuova fisica non è
più mediterranea, nello stesso senso in cui era mediterraneo il Rinascimento
e l'uomo del Rinascimento.
Ed è amaramente vero. Il baricentro della ricerca che ancora nella prima metà del
Seicento era localizzato in Italia, grazie alla distruttrice opera della Chiesa, si era
trasferito al Nord e si sente dall'apertura del dibattito che prescinde dal doversi
giustificare per ogni cosa detta e financo pensata. E' il clima che è indispensabile alla
ricerca, un clima di libero pensiero con la concessione dei soli condizionamenti che uno
vuol porre a se stesso. Dalla metà del Seicento l'Italia fornirà scienziati alle varie corti
europee. I nostri scienziati dovranno fare gli inventori per procurarsi il denaro che
serviva loro per qualche ricerca. Mentre a Roma si faceva la Fisica Sacra. Fino al
miracolo Fermi e scuola di Roma. Ma anche qui ci pensò Mussolini a fare di nuovo
tabula rasa. Meno male che un certo Amaldi ... Ma oggi, ormai da qualche anno, la
distruzione è ancora in atto. La Chiesa trionfa e la scienza deve sempre scontare qualche
suo peccato capitale.
NOTE
(1) Riporto la traduzione inglese del lavoro di Huygens, ON THE MOTION OF
BODIES RESULTING FROM IMPACT. Ad essa mi riferirò nel seguito.
(2) Una situazione sperimentale identica era stata immaginata in precedenza da
Giordano Bruno ne La cena de le Ceneri del 1584 (circa 90 anni prima) per introdurre il
problema della relatività del moto attraverso la discussa questione della deviazione dalla
verticale di un corpo in caduta. L'esperienza suggerita da Bruno era la seguente.
Teo. Or, per tornare al proposito, se dunque saranno dui, de' quali uno si
trova dentro la nave che corre, e l'altro fuori di quella, de' quali tanto l'uno
quanto l'altro abbia la mano circa il medesmo punto de l'aria, e da quel
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medesmo loco nel medesmo tempo ancora l'uno lasci e scorrere una pietra
e l'altro un'altra, senza che gli donino spinta alcuna, quella del primo,
senza perdere punto né deviar da la sua linea, verrà al prefisso loco, e
quella del secondo si trovarrà tralasciata a dietro. Il che non procede da
altro, eccetto che la pietra, che esce dalla mano de l'uno che è su stentato
da la nave, e per consequenza si muove secondo il moto di quella, ha tal
virtù impressa, quale non ha l'altra, che procede da la mano di quello che
n'è di fuora; benché le pietre abbino medesma gravità, medesmo aria
tramezzante, si partano (e possibil fia) dal medesmo punto, e patiscano la
medesma spinta. Della qual diversità non possiamo apportar altra
raggione, eccetto che le cose, che hanno fissione o simili appartinenze nella
nave, si muoveno con quella; e la una pietra porta seco la virtù del motore
il quale si muove con la nave, l'altra di quello che non ha detta
participazione. Da questo manifestamente si vede, che non dal termine del
moto onde si parte, né dal termine dove va, né dal mezzo per cui si move,
prende la virtù d'andar rettamente; ma da l'efficacia de la virtù
primieramente impressa, dalla quale depende la differenza tutta. E questo
mi par che basti aver considerato quanto alle proposte di Nundinio.
Tradotto in un linguaggio più comprensibile, ciò vuol dire quanto segue. Supponiamo
che una barca, trasportata dalla corrente di un canale, marci velocemente vicinissima alla
sponda. Sulla barca c'è un osservatore O e sulla riva un osservatore O'. Ambedue gli
osservatori tengono le braccia tese: O verso la riva ed O' verso la barca. Ciascun
osservatore tiene in una mano una palla di ferro (figura 1a). Appena la barca porta O ed
O' a sfiorarsi le mani (figura 1b), i due osservatori lasciano cadere la palla di ferro che
hanno in mano, in modo che ambedue le palle cadano sulla coperta della barca. Cosa
osserva O dalla barca? La palla che egli ha lasciato è caduta perpendicolarmente sulla
coperta della barca, mentre la palla lasciata da O' ha seguito, per O, una traiettoria
obliqua (figure 1e e 1d), tant'è vero che è caduta più indietro rispetto a quella lasciata da
O (la palla lasciata da O era dotata della velocità orizzontale della barca, mentre la palla
lasciata da O' cadeva con velocità iniziale nulla e la barca gli sfuggiva sotto). Le figure 2
e 3 riportano, rispettivamente, le traiettorie delle palle osservate da O e da O'.
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Con questa esperienza Bruno riesce, in modo eccellente, a ribaltare il problema:
cambiando punto d'osservazione, è sulla Terra che si hanno deviazioni dalla caduta
verticale; su una nave, invece, anche se essa è in moto, le cose vanno come se fosse
ferma (principio dinamico di relatività). È importante osservare che moto della Terra,
composizione dei movimenti, principio d'inerzia e relatività del moto si affermano come
un'unica problematica.
(3) Huygens come Galileo non ha un concetto chiaro di massa e quindi parla di
uguaglianza tra corpi. Nel seguito del testo parlerò anche io di masse. Dal contesto è
chiaro che il suo è un riferimento a masse uguali. il concetto di massa sarà definito
formalmente per la prima volta da Newton, non senza vari problemi di circolarità del suo
discorso. Per maggiori dettagli, si veda Roberto Renzetti, Massa e Peso.
(4) A chiosa di questo lavoro di Huygens dice Westfall:
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Quando due corpi duri si scontrano, se uno di essi conserva dopo l'urto tutto
il moto che aveva, neanche 1'altro perde né guadagna alcun moto. Ed
Huygens dimostrò che ciò poteva verificarsi solamente quando le grandezze
dei corpi erano inversamente proporzionali alle loro velocità. Ma affermare
che ciò poteva avvenire solamente in tali condizioni significava dire anche
che ciò avveniva in ogni urto, perché la relatività del moto permetteva in
ciascun caso di scegliere un presupposto teorico secondo cui le loro velocità
avranno tale rapporto con le loro grandezze. Rispetto al loro centro di
gravità comune, le grandezze di due corpi nell'urto sono sempre
inversamente proporzionali alle loro velocità, e dopo l'urto i corpi si
separano alle medesime velocità con cui si sono avvicinati. Il centro di
gravità naturalmente non subisce cambiamento di sorta. Esiste, concludeva
Huygens, «un' ammirevole legge di natura» che appare valida per tutti gli
urti di tutti i corpi. È che il centro di gravità di due o tre o un numero a
piacere di corpi si muove sempre, prima e dopo il loro urto, uniformemente
in linea retta nella stessa direzione. Vale a dire, l'urto può essere risolto
applicando il principio di Torricelli ["Due gravi insieme congiunti non
possono muoversi da sé, se il loro comune centro di gravità non si
abbassa" (Torricelli, Opere geometriche, pag. 158); ndr]. Mentre questi
l'aveva applicato solamente al moto verticale nel caso di due corpi costretti a
muoversi insieme, Huygens l'applicò anche ai moti inerziali di corpi non
congiunti. Un sistema isolato di corpi può essere considerato come un corpo
singolo che sta intorno al loro centro di gravità comune. Da questo punto di
vista, era possibile una discussione puramente cinematica dell'urto, senza
fare riferimento di sorta alla forza della percossa. La parola «forza» non
compariva nel titolo del trattato di Huygens, De motu corporum ex
percussione. Nonostante correggesse ampiamente Descartes, la sua visione
dell'urto includeva aspetti fondamentali di quella cartesiana. Nell'urto non
avviene azione dinamica di sorta; dal punto di vista del centro di gravità, la
direzione del moto di ciascun corpo cambia istantaneamente, ma entrambi si
allontanano dall'urto mantenendo inalterati i loro moti originali.
Tuttavia, la base stessa della discussione di Descartes, una pietra miliare
della sua filosofia naturale, sembrava ora sbagliata. La quantità di moto non
si conserva in tutti gli urti - almeno non secondo qualunque presupposto
teorico. Poiché Huygens, come Descartes, distingueva direzione e velocità,
la quantità di moto di un corpo aveva sempre un valore positivo nella sua
meccanica, la grandezza di un corpo moltiplicata per la sua velocità. Era
cosa facile dimostrare che nei casi in cui un solo corpo muta direzione, la
quantità di moto non rimane costante. Tuttavia un' altra quantità rimane
costante nell'urto di corpi perfettamente duri. Se la grandezza di ciascun
corpo viene moltiplicata per il quadrato della sua velocità, la somma delle
due quantità prima dell'urto è sempre uguale alla somma delle due quantità
dopo l'urto. Per Huygens il risultato di questa operazione, la somma dei
prodotti della grandezza moltiplicata per il quadrato della velocità, era
semplicemente un numero, un numero il cui valore differiva a seconda del
presupposto teorico, ma che rimaneva costante all'interno di ciascuno nel
caso dell'urto di corpi perfettamente duri. Dunque poteva sostituire la
quantità cartesiana di moto che si era dimostrata errata. Altri avrebbero
scoperto più di un semplice numero nella quantità casi ottenuta, ed esso ha
assunto un ruolo sempre maggiore sia nella scienza della meccanica sia
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nella scienza naturale nel complesso.
(5) La dimostrazione di Huygens, nella sua traduzione francese, si trova in Huygens,
Oeuvres completes, Vol. XVI, pagg. 420-428 e si può consultare qui. Si trova in Lavori
diversi di statica e di dinamica ed è del 1661.
(6) Partendo dalla relazione 2) riportata nel testo, con semplici sostituzioni si trova:
da cui si vede che: se r < rg, la radice risulterà minore di uno; se r > rg allora la radice
risulterà maggiore di uno.
(7) Riporto, per il lettore che non volesse accettare il dato così com'è, i calcoli necessari
che sono lunghi ma elementari. Osservo che tutto questo oggi si risolve semplicemente
con il calcolo differenziale che, all'epoca, ancora non era stato sviluppato. In particolare
il centro di oscillazione r* viene introdotto nei moderni trattati di fisica, mediante le
equazioni cardinali della dinamica elaborate da Euler
Si parte dalla relazione 3) del testo, nella quale occorre inserire, in luogo di hb ed
rb, le nostre incognite h* ed r* e sviluppare con passaggi successivi.
a)
avendo ricordato, per l'ultimo passaggio, che vale la relazione 1) del testo. Sostituiamo
ora alle h1 ed h2 quanto ci è ancora dato dalla relazione 1) del testo.
b)
Fatto ciò, nell'espressione ottenuta, sostituiamo alle velocità v le espressioni che si
ottengono dalla 2) del testo.
c)
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Sostituendo le c) nelle b) si trova:
d)
Sostituendo queste ultime espressioni nella I) si ha:
e)
Ricordando ora la 1) del testo, si ha:
Sostituendo questa espressione nella e) si trova:
Da qui, semplificando, si ottiene il risultato finale per il centro di oscillazione di un
pendolo composto da due masse:
Nel caso più generale di pendolo composto da un numero di masse qualunque, vale
la relazione:
e la quantità che compare al numeratore sarà chiamata da Euler momento d'inerzia (un
concetto che Mach definisce di economia nella meccanica) mentre la quantità che
compare al denominatore prenderà il nome di momento statico della massa di un
pendolo.
(8) Riporto la traduzione inglese della Parte IV del lavoro di Huygens, divisa in due
HOROLOGIUM OSCILLATORIUM Parte IVa ed HOROLOGIUM
http://www.fisicamente.net/ (38 of 42)23/02/2009 17.25.14
http://www.fisicamente.net/
OSCILLATORIUM Parte IVb. Il resto della traduzione inglese dell'Horologium si può
trovare in http://www.17centurymaths.com/contents/huygenscontents.html.
(9) Riporto DE VI CENTRIFUGA nella sua traduzione inglese.
(10) Dice Mach in proposito:
Se si accetta il principio galileiano che la forza determina accelerazione,
necessariamente va attribuita a una forza ogni variazione di velocità, e
quindi ogni variazione nella direzione del moto (giacché la direzione è
determinata da tre componenti della velocità perpendicolari fra loro). Se
dunque un corpo sospeso a una corda, per esempio una pietra, è fatto ruotare
con moto circolare uniforme, la traiettoria curvilinea è spiegabile solo
supponendo che una forza costante faccia deviare il corpo dalla traiettoria
rettilinea. La tensione della corda è questa forza che fa deviare dalla linea
retta il corpo e lo tira verso il centro del cerchio. La tensione rappresenta
dunque una forza centripeta. D'altra parte la tensione del filo agisce anche
sull'asse o sul centro fisso del cerchio, e quindi si presenta come forza
centrifuga.
(11) Si osservi che l'espressione usata da Huygens, quantità solida, non può essere altro
che la massa. Si osservi anche che l'influenza della sua formazione cartesiana (teoria dei
vortici) faceva considerare ad Huygens il peso come una mancanza di forza centrifuga:
la caduta di una pietra avviene in corrispondenza ad una piccola quantità di materia che
si allontana dalla Terra.
(12) A commento della scoperta di Huygens dell'accelerazione centrifuga e delle
conseguenze che ne derivavano nella spiegazione della gravità, dice Dijksterhuis:
Fra le varie applicazioni per le quali Huygens fece uso della sua teoria del
moto circolare uniforme citiamo specialmente il pendolo conico, una
particella appesa a una corda priva di massa, che descrive un cono circolare
retto. Questo caso presentava per lui un interesse particolare in connessione
con la costruzione di orologi a pendolo. L'importanza della teoria della forza
centrifuga di Huygens per la meccanica teorica consiste principalmente nel
fatto che essa rendeva assolutamente chiaro che il mantenimento di un moto
curvilineo, anche se è uniforme, richiede l'azione costante di una forza (la
tensione esercitata lungo la corda è tale da neutralizzare la forza centrifuga).
Così una vecchia, ma mai completamente sradicata, concezione dell'inerzia,
la quale riteneva che una particella, una volta che si trovasse in moto lungo
un cerchio, avrebbe continuato a muoversi in questo moto circolare, qualora
fossero state eliminate tutte le influenze esterne, veniva così definitivamente
confutata. E' inoltre importante il fatto che un moto curvilineo uniforme
possiede un'accelerazione (giacché questo è, propriamente parlando, il
risultato a cui porta la linea di pensiero di Huygens, anche se egli non usa la
parola "accelerazione") si basa sul fatto che la variazione di una velocità (il
requisito per la presenza di una accelerazione) può anche consistere
esclusivamente in un mutamento di direzione; e ciò equivale al
riconoscimento del carattere vettoriale di una velocità.
Sullo stesso argomento dice Mach:
http://www.fisicamente.net/ (39 of 42)23/02/2009 17.25.14
http://www.fisicamente.net/
Con l'aiuto della sua teoria Huygens fu in grado di spiegare immediatamente
tutta una serie di fenomeni. Quando, per esempio, si scoprì che un orologio
a pendolo trasportato da J. Richer da Parigi a Caienna (1671-73) ritardava
nel suo movimento, Huygens osservò che la forza centrifuga dovuta alla
rotazione della terra è maggiore all'equatore, e ne dedusse la diminuzione
dell'accelerazione gravitazionale g, dando così la spiegazione del ritardo.
Ed in proposito aggiunge Dijkstheruis:
Huygens introduceva una nuova specie di materia dotata di un particolare
grado di sottigliezza ogni volta che ne avesse bisogno per la spiegazione di
un fenomeno. Così c'era una materia per la spiegazione dei fenomeni
magnetici, una per i fenomeni elettrici e una per render conto del fenomeno
- da lui scoperto - che un liquido che non contenga aria può rimanere in un
tubo barometrico a un livello molto più alto di quello che corrisponde alla
pressione atmosferica. Ma non sempre è chiaro se anche più tardi abbia
continuato a distinguere tra due tipi siffatti di materia. E nel Traité de la
lumière, per dare una spiegazione del fatto che vi sono corpi che non
trasmettono affatto la luce (i metalli) si suppone persino che tra le particelle
dure ve ne siano alcune molli, le quali ricevono gli impulsi di etere, ma non
li trasmettono. Ma allora questa mollezza avrebbe a sua volta dovuto venir
spiegata supponendo che queste particelle fossero composte da particelle
ancora più piccole, le quali avrebbero dovuto a loro volta essere dure. Ciò
mostra in maniera convincente come la concezione puramente
meccanicistica, la quale non riconosce altre qualità all'infuori della
dimensione, della forma e del movimento, coinvolgesse gli scienziati nelle
massime difficoltà non appena essi cominciavano a studiare i fenomeni in
maniera esaustiva. E tuttavia, accettando la durezza come una proprietà
originaria, Huygens si allontanava già dalla posizione strettamente
ortodossa.
E D'Agostino, per parte sua, conclude:
La pesantezza o peso è spiegata in questo lavoro come effetto dell'urto o
pressione nelle particelle dell'etere che circonda i corpi sui corpi stessi
ed in questo senso viene modificata la teoria di Descartes del trascinamento
(che, fra l'altro, non spiegava il moto retrogrado di alcune comete), Huygens
si chiede anche come i corpi possono essere ancora pesanti quando si
muovono con una velocità uguale a quella delle particelle urtanti di etere:
ma le particelle di etere sono accelerate ed in questo fatto Huygens crede di
trovare una spiegazione anche alla legge di. uguale accelerazione di caduta
dei gravi scoperta da Galilei. (vedi, in questi tentativi di spiegazione per
urto, oltre che un ritorno al quadro Cartesiano, anche un inizio di quei
concetti che saranno ripresi dalla teoria cinetica dei gas). Si accenna arche
all'esperimento eseguito dalla spedizione alla Caienna, un paese
dell'America centrale, sulle oscillazioni del pendolo: il fatto che le
oscillazioni in quel paese equatoriale sono più lente, cioè g è minore che a
Parigi, viene spiegato con la presenza della forza centrifuga (sic) senza tener
conto dello schiacciamento terrestre.
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