I. Il soffio dell`eresia

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No man’s land
I. Il soffio dell’eresia
1. Perché non possiamo non dirci “eretici”
L’accorto lettore avrà subito colto il rimando al celebre scritto di Benedetto
Croce risalente agli anni Quaranta del secolo scorso: “Perché non possiamo
non dirci ‘cristiani’”. È da notare che nel titolo del suo breve saggio il
filosofo e senatore partenopeo ! icona del pensiero laico e liberale ! ricorre
alle virgolette. La grammatica ci insegna che spesso si usa questo segno
d’interpunzione per mettere in rilievo un significato particolare o per prendere le distanze dalle parole che si stanno usando. E infatti la riflessione di
Croce non si rivolgeva al versante teologico o spirituale dell’esperienza
cristiana, ma l’attenzione era interamente tesa a cogliere le implicazioni
storico-culturali connesse a quell’esperienza. “Il Cristianesimo è stata la più
grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta”, troviamo scritto, in
quanto rappresenta un evento unico nella storia umana e le stesse rivoluzioni moderne “non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana”, sono
“in relazione di dipendenza da lei”.1
Perseguiamo qui analogo percorso. Il termine “eretico” non intende
riferirsi a una specifica dottrina o a una collezione di dottrine, né ci si vuole
cimentare in una rassegna più o meno sistematica delle varie correnti registrate
sotto tale dicitura, ma desideriamo provare a cogliere lo “spirito dell’eresia”
! se così si può dire ! per comprendere se possieda ancora qualche cosa di
1
Il testo apparve per la prima volta sulla rivista La Critica, nel 1942. In seguito fu raccolto
nei Discorsi di varia filosofia, vol. I, Laterza, Bari, 1945.
15
Federico Battistutta
vivo da comunicare all’uomo contemporaneo o, al contrario, se è cosa
buona e giusta consegnarlo alla polvere, all’oblio del tempo, agli archivi e
agli scantinati delle biblioteche.
La parola “eresia” viene dal greco airèo, che significa, a seconda dei
casi, “prendere” o “scegliere”: possiamo trovare, nelle fonti classiche, aìresis
come “presa del potere” (Platone), oppure “conquista di una città” (Erodoto,
riferendosi a Babilonia). Invece, con l’accezione di “scelta” compare in
Eschilo, Demostene, Tucidide e ancora Platone. Nel Fedro platonico significa
invece “ricerca”, mentre nella Politica di Aristotele assume il significato
assai più specifico di “scelta, elezione di magistrati”. Proseguendo, la voce
aìresis acquista anche il significato, fondamentalmente neutro, di “dottrina”,
“scuola”, “setta”. Per esempio Sesto Empirico, esponente dell’approccio
detto scettico, per ribadire il pensiero (caro al suo maestro Pirrone) che lo
scetticismo non può essere considerato sic et simpliciter come una scuola
filosofica, userà la parola aìresis, definendola come “una propensione a
molti dogmi” (Pyrrhoneae hypotyposes).2 Qui “eresia” è sinonimo di adesione
a una dottrina, intesa come sistema dogmatico: vale a dire, l’esatto contrario
di quel che significa oggi!
In ambito neotestamentario (ma non evangelico) sono riscontrabili un
paio di passaggi dove compare il termine aìresis: negli Atti degli apostoli,
in un’accusa rivolta all’apostolo Paolo da parte di Tertullo, un legale esperto
in arte oratoria (At 24,5), e nella Lettera ai Galati, dove è lo stesso Paolo
ad adoperare il termine (Gal 5,20); ma comunque siamo ancora ben distanti
dal significato che assumerà successivamente.
Ora, con la schematizzazione che consente questa ricostruzione dall’andamento rapsodico, possiamo individuare la data, il luogo e la circostanza
in cui è avvenuta l’inversione e la riduzione di significato di questa parola:
eresia come dottrina contraria a una verità rivelata e confermata da una
tradizione. La data è il 325; il luogo è Nicea, in Asia Minore (oggi Turchia);
la circostanza é la convocazione del primo Concilio Ecumenico Cristiano,
voluto dall’imperatore romano Costantino I, detto il Grande. Egli aveva
2
Il riferimento a Pirrone e allo scetticismo non è casuale, in quanto costituisce forse il primo
esempio tangibile dell’incontro fra il pensiero occidentale e quello orientale, di cui si parlerà
in più luoghi di questo volume. Su questo v. le considerazioni contenute nella premessa e nel
commento al volume Pirrone. Testimonianze, a cura di Fernanda Decleva Caizzi, Bibliopolis,
Napoli, 1981.
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compreso l’importanza della nuova religione cristiana e il contributo che
poteva offrire per rafforzare la coesione culturale e politica dell’impero,
rispetto alla tradizionale religione pagana che col tempo aveva perso sempre
più consenso e credibilità. Lo stesso Costantino, in precedenza, nel 313,
aveva emanato l’Editto di Milano, con cui riconosceva la libertà di ogni
culto religioso, ponendo così fine alle persecuzioni contro i cristiani.3
L’intenzione del Concilio era quella di rimuovere le divergenze presenti
nella nuova religione cristiana, in quanto le divisioni presenti al suo interno
non permettevano a Costantino di realizzare il suo piano politico; c’era
bisogno di unificare le litigiose comunità esistenti all’interno di un’unica
organizzazione e con un solo sistema di credenze alla base. A tale scopo,
meramente pragmatico, rispondeva l’indizione del Concilio.
È indispensabile a questo punto ricordare che la giovane e vivace
religione cristiana presentava a quel tempo notevolissime differenze al suo
interno, costituendo una sorta di galassia di fedi, a volte in conflitto l’una
con l’altra quanto a principi generali, interpretazioni teologiche, organizzazione, rituali e testi di riferimento. Ognuno dichiarava di seguire gli insegnamenti
del rabbi di Nazareth e dei suoi apostoli, basandosi su scritti ritenuti di
pugno dei seguaci stessi di Gesù. Probabilmente oggi è quasi impossibile
comprendere e apprezzare fino in fondo la portata di quel periodo gravido
di novità. C’è un fondo plurale e polimorfo all’origine del cristianesimo
primitivo, le conoscenze a nostra disposizione sono parziali, tanto è andato
smarrito, e non a caso si è parlato a tal proposito di cristianesimi perduti.4
Per questi motivi appaiono prive di senso le interpretazioni pour épater le
bourgeois secondo cui, di fronte alla necessità di scendere a compromessi
con i poteri esistenti per permettere a una forma di pensiero di affermarsi,
gli eretici sono i veri ortodossi, coloro che rifiutano di addivenire a qualsiasi
compromesso per restare fedeli al messaggio originario.5
3
Merita segnalare che risale proprio a questo periodo lo sviluppo del monachesimo cristiano; in
diversi casi la scelta del deserto nasceva come rifiuto dell’abbraccio costantiniano. Con le parole,
leggere ma inesorabili, di una nostra contemporanea, amante perduta di quegli antichi maestri:
“mentre i cristiani di Alessandria, di Costantinopoli, di Roma, rientravano nella normalità dei
giorni e dei diritti, alcuni asceti (…) ne uscivano correndo.” Cristina Campo, Gli imperdonabili,
Adelphi, Milano, 1987.
4
Bert D. Ehrman, I cristianesimi perduti, Carocci, Roma, 2005.
5
Cfr. Slavoj "i#ek, Credere, Meltemi, Roma, 2005.
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Federico Battistutta
Al Concilio di Nicea vennero invitati i vescovi di tutte le comunità.
Avrebbero dovuto essere presenti all’incirca milleottocento rappresentanti.
Non vi è accordo sul numero effettivo di quanti vi presero parte, ma si va
da un numero di duecentocinquanta partecipanti a un massimo di trecentoventi. Provando a fare una sintesi di quanto venne discusso, nel corso del
Concilio venne elaborata quella professione di fede, nota poi come credo
niceno, che rappresenta ancora oggi un punto centrale della dottrina cattolica;
al contempo vennero a vario titolo condannate come eretiche, quindi come
false ed errate, una serie di posizioni (non solo quella di Ario, come si tende
per lo più a pensare). La dottrina nicena venne successivamente ratificata
da Costantino, e l’imperatore avrebbe affermato che chiunque si fosse opposto
al giudizio del Concilio doveva prepararsi a prendere immediatamente la via
dell’esilio. Se da un lato erano state poste le fondamenta per l’edificazione
della Chiesa, era al contempo iniziata l’età della condanna e della persecuzione nei confronti degli eretici e dei dissidenti che, attraverso le trasformazioni
e gli adattamenti che il tempo produce, giunge sino ai nostri giorni.6
2. Peripezie del dissenso
Esistono oggi numerosi studi sui vari movimenti ereticali che possiamo
incontrare nel corso delle varie epoche; molti di questi sono confinati nel
campo dell’erudizione o delle ricerche accademiche. Spesso sono studi da
cui non si può prescindere, pur tuttavia soffrono per loro stessa natura di
una luce spenta che non riesce a illuminare fino in fondo le parole e le azioni
degli uomini e delle donne che nel passato hanno saputo sostenere pagando
un altissimo prezzo per le proprie idee e le proprie passioni. C’è allora la
necessità di riuscire a coniugare lo studio rigoroso delle eresie con la
domanda di senso radicale (che va cioè alla radice della questione) che da
sempre e in ogni dove muove e alimenta la ricerca dell’essere umano, dall’età
delle caverne al cyberspazio. Si tratta in fondo di rispondere in prima persona
al quesito: perché non possiamo non dirci “eretici”?
6
Per una rassegna, rapida ma esemplificativa, dell’ampio spettro delle correnti ereticali cfr.
Michel Théron, Piccola enciclopedia delle eresie cristiane, Il Melangolo, Genova, 2006. Per
uno sguardo più mirato e ponderato sull’argomento: Eretici dimenticati. Dal Medioevo alla
modernità, a cura di Corrado Mornese e Gustavo Buratti, Derive Approdi, Roma, 2004.
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Fra gli autori contemporanei che si sono occupati di eresie, Raoul
Vaneigem è uno di quelli che risponde maggiormente ai criteri sopraindicati.
Vaneigem nasce negli anni Trenta del Novecento a Lessine, una piccola
cittadina del Belgio, patria del pittore surrealista Magritte. La località è nota
anche per le cave di porfido, da cui si ricavano i pavé delle strade. (Ironia
sintomatica della storia e del destino: colui che sarebbe diventato una delle
figure di punta di quel movimento di critica radicale che sul finire degli
anni Sessanta iniziò a infiammare, in nome di un desiderio incontenibile di
vivere, le strade della Francia come il resto del mondo, è nato proprio sotto
il doppio segno del pavé e del surrealismo). Dopo aver frequentato i corsi
di Filologia romanza presso l’università di Bruxelles, coronando i suoi
studi con una ricerca su Lautréamont7 (il poeta autore dei celebri Chants de
Maldoror, tanto ammirati da Breton e dai surrealisti), nel 1960, tramite
Henri Lefebvre ! uno dei maggiori studiosi marxisti francesi, noto soprattutto per le analisi intorno alla critica della vita quotidiana ! Vaneigem
entra in contatto con Guy E. Debord, il quale, insieme ad altri, aveva fondato
nel 1957, in Italia (ai tavoli del retrobottega di una trattoria di un paesino di
montagna, tra il Piemonte e la Liguria), l’Internazionale Situazionista, un
movimento destinato a far parlare di sé a lungo. Il sociologo e teologo protestante Jacques Ellul (per citare una voce sensibile anche al piano religioso)
definirà l’Internazionale Situazionista come il solo movimento nato negli
anni Sessanta in cui la critica della società e della vita quotidiana sia stata
formulata nella forma più coerente e articolata, ponendola nella prospettiva
di un superamento ininterrotto e irriducibile.8
I due, Vaneigem e Debord, saranno gli elementi di spicco del movimento
fino al momento della rottura definitiva avvenuta negli anni Settanta.9 A
testimoniare la ragion d’essere dell’intera esperienza rimangono i dodici
numeri della rivista che reca il medesimo nome del movimento, Internationale
7
Raoul Vaneigem, Isidore Ducasse e il conte di Lautréamont nelle Poesie, L’Affranchi,
Salorino, 1991.
8
Jacques Ellul, Autopsia della rivoluzione, SEI, Torino, 1974. Peraltro i rapporti tra Ellul e i
situazionisti saranno tutt’altro che idilliaci proprio per l’esplicita scelta religiosa del primo. Ne
accenna lo stesso Ellul nel suo Anarchia e cristianesimo, Elèuthera, Milano, 1993.
9
Cfr. Guy Debord, Gianfranco Sanguinetti, I situazionisti e la loro storia, Manifestolibri,
Roma, 1999, in cui è contenuta la lettera di dimissioni di Vaneigem e il comunicato di risposta da
parte dell’Internazionale Situazionista.
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Situationniste, usciti nell’arco di undici anni: superamento dell’arte, teoria
critica della società, ruolo della soggettività radicale nella rivoluzione sociale,
sono le parole chiave che costellano le pagine e i fascicoli del periodico.
Ma soprattutto vi sono due libri, entrambi usciti nel 1967, che esprimono
nella loro integrità l’approccio e lo stile situazionista: il Trattato di saper
vivere a uso delle giovani generazioni di Vaneigem e La società dello
spettacolo di Debord.10 Dopo essere stato rifiutato da diverse case editrici,
il testo di Vaneigem verrà pubblicato da un importante editore, Gallimard,
il quale rivedrà la negativa opinione iniziale grazie anche agli auspici di
Raymond Queneau, considerando parimenti i fermenti e i moti sociali che
cominciavano a manifestarsi nelle strade.
Nella ricca produzione saggistica di Vaneigem (fra l’altro, è stato curatore
di svariate voci enciclopediche) occupano una posizione tutt’altro che marginale le riflessioni in materia di religione, e più in particolare riguardo proprio
i movimenti ereticali. Questi temi sono trattati non solo in volumi ad hoc,
ma in qualche modo percorrono in maniera trasversale e sotterranea numerosi scritti, al punto da costituire uno dei motivi ricorrenti e uno dei suoi
interessi costanti. Ad esempio, nel Traité du savoir vivre, seppure in forma
rapsodica, vi sono riferimenti all’esperienza religiosa, citando i manichei e i
catari, Jacob Boheme e i Fratelli del Libero Spirito, gli studi di Norman
Cohn, oltre al ricordo di diverse altre figure riconducibili all’arcipelago eretico.
Ma veniamo ai lavori specifici che Vaneigem ha dedicato alle eresie e al
fenomeno religioso. Che cos’è la religione rispetto alla vita degli uomini e
delle donne? La religione, dice Vaneigem, non esprime altro che l’inversione
del vivente in un mondo in cui la prospettiva economica determina la realtà
dominante. I principi su cui si regge il dominio religioso sono ancora attuali
e validi, anche se oggi il mito si è desacralizzato divenendo spettacolo, a
partire dal momento in cui l’economia terrestre ha revocato ogni incarico a
quella celeste. Ma il fanatismo, con le sue crudeltà, continua ancora a trionfare
nelle ideologie senza Dio, per questo ! afferma Vaneigem ! non si sconfiggerà
la superstizione universale senza distruggere ciò che la sostiene:
10
Raoul Vaneigem, Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni, Firenze,
Vallecchi, 1973; Guy Debord, La società dello spettacolo, Firenze, Vallecchi, 1979. In lingua
italiana esistono svariate traduzioni dei due testi, non tutte del medesimo pregio.
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la religione non vedrà la sua fine se non assieme alla fine di un’economia
che riduce l’uomo al lavoro, strappandolo al vero destino di creare se stesso
ricreando il mondo. 11
Anche se poi aggiunge che, al di là dell’adesione a un qualche sistema
di credenze religiose, sono ampiamente riscontrabili in molti credenti i tratti
della vitalità, della tenerezza, della comprensione, dell’apertura, assenti invece
in tanti pretesi laici o rivoluzionari, infagottati nelle loro ideologie; ragion
per cui, rispetto alla preoccupazione di écraser l’infame, è preferibile praticare
l’incessante aspirazione a vivere meglio. In fondo Vaneigem riprende qui il
tema marxiano dell’alienazione religiosa e del passaggio dalla “critica dell’al
di là” alla “critica dell’al di qua”: religione come sospiro della creatura oppressa, felicità illusoria in cui l’uomo si trova annientato, asservito, abbandonato.12
È dentro questa cornice che va situata e compresa l’esperienza eretica.
Ritorna la domanda: perché non possiamo non dirci “eretici”? Prendendo
visione dei testi di Vaneigem direttamente dedicati alle eresie, iniziamo a
scorrere un breve saggio titolato Les hérésies:13 si tratta di un volumetto
divulgativo, facente parte di una collana enciclopedica (“Que sais-je?” delle
Presses Universitaires de France). Ripercorriamolo insieme: in questa maniera
si avrà modo di ricordare, seppur di sfuggita, i nomi di quelle correnti troppo
facilmente affidate al dimenticatoio della storia.
Il periodo preso in considerazione spazia dal Concilio di Nicea al periodo
della Rivoluzione Francese, anche se vengono analizzati gli antecedenti
all’interno dello spazio religioso ebraico, in quanto il cristianesimo propriamente sorge come eresia giudaica; per questo nelle pagine iniziali ci imbat-
11
Cfr. Raoul Vaneigem, De l’inhumanité de la religion, Denoel, Parigi, 2000.
Cfr. Karl Marx, Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel, in Scritti
politici giovanili, Einaudi, Torino, 1950. Ma a proposito del testo marxiano e di una lettura
critica del rapporto tra il Marx e il cristianesimo non si può non rinviare a Ernst Bloch, Ateismo
nel cristianesimo. Per una religione dell’Esodo e del Regno, Feltrinelli, Milano, 1971. Bizzarre
sono le recenti posizioni espresse da S. "i#ek: riconoscendo l’esistenza di una parentela fra cristianesimo e marxismo, la interpreta in termini di pura realpolitik. Anziché “feticizzare” un
cristianesimo primitivo autentico contro la Chiesa istituzionalizzata dall’opera di S. Paolo, afferma lapidario che “non c’è Cristo al di fuori di San Paolo”, così come non c’è Marx al di fuori di
Lenin. Cfr. Slavoj "i#ek, La fragilità dell’assoluto, Transeuropa, Massa, 2007. Ma la “tradizione
degli oppressi” – per dirla con Benjamin – ci insegna che le cose stanno assai diversamente.
13
Raoul Vaneigem, Les hérésies, PUF, Parigi, 1994.
12
21
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tiamo in una rassegna delle diverse fazioni religiose ebraiche (sadducei,
farisei, zeloti, esseni, samaritani, nazirei, ecc.).
A proposito del cristianesimo delle origini l’analisi di Vaneigem si sofferma soprattutto per contestare la storicità della figura di Gesù Cristo,
riprendendo le tesi cosiddette mitiste che in Francia, tempo addietro, godettero di un certo seguito; come nel caso di Prosper Alfaric, in un primo
tempo sacerdote e docente presso seminari, che in seguito (siamo nella
prima metà del Novecento), scosso dall’atteggiamento intollerante di Pio X,
lasciò la Chiesa per dedicarsi a uno studio razionale del cristianesimo. In
breve: secondo questo approccio la definizione della persona di Gesù non
sarebbe altro che il risultato di un’elaborazione teologica tardiva, un mito
appunto, avente l’obiettivo di costruire un fondamento tangibile per assicurare la diffusione della una nuova religione. La questione mitista è oggi
risolta in favore del riconoscimento dell’esistenza storica di Gesù; semmai
la discussione si è spostata circa l’attendibilità o meno delle interpretazioni
ufficiali fornite dalla Chiesa su quella figura.14
Dopo aver parlato del cristianesimo primitivo, il testo di Vaneigem si
articola in due momenti: il primo procede dal concilio di Nicea al 1400,
mentre il secondo inizia con la riforma luterana per terminare con la
Rivoluzione Francese. La prima fase parte dalle polemiche nate all’epoca
del Concilio niceano (Ario e l’arianesimo, in primis, per procedere con altre
dottrine: il donatismo, il pelagianismo, i pauliciani, i bogomilli, per elencare
alcune correnti ereticali). Entrando nell’età medievale viene dedicato spazio ai
patarini, ai catari e ai valdesi, su su fino ai Fratelli del Libero Spirito.
Accanto a questo movimento, a cui Vaneigem ha dedicato, come vedremo,
uno studio specifico, incontriamo, fra gli altri, il beghinaggio, la comunità
degli apostolici di Gherardo Segalelli e fra Dolcino, gli ussiti e i taboriti, i
flagellanti e i fraticelli usciti dall’ordine francescano.
La seconda parte del libro si apre con Savonarola, a cui Lutero si ispirerà
per il suo programma di riforma; si passa poi alle diverse esperienze nate
sotto il clima del neonato protestantesimo, cominciando dallo stesso Lutero
14
Per un’interpretazione della persona storica di Gesù, dichiaratamente critica nei confronti
delle interpretazioni ufficiali (in particolare verso quella elaborata dall’attuale pontefice
Benedetto XVI), vedi il recente pamphlet di Paolo Flores d’Arcais, Gesù. L’invenzione del Dio
cristiano, Add, Torino, 2011.
22
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e da Calvino, i quali, dopo essere stati perseguitati come eretici, si trasformeranno a loro volta in persecutori. Seguono le figure di spicco dei riformatori
della Riforma: gli anabattisti, le tendenze messianiche scaturite dalla libera
interpretazione della Bibbia a opera di menti non conformiste, i libertini
spirituali (il termine “libertino” fu usato la prima volta proprio da Calvino
nei confronti di una corrente diffusasi in Francia che godette a Parigi dell’appoggio di Margherita di Navarra, sorella di Francesco I), con puntate
anche all’area cattolica, con il giansenismo e il quietismo.
Sarà per l’estrema concisione del saggio, ma non vediamo menzionati i
sociniani (o unitariani), che ebbero un ruolo di primo piano nella cosiddetta
“riforma radicale” del Cinquecento (a cui Delio Cantimori ha dedicato pagine
tanto rigorose quanto intense).15 Come non ricordare, ad esempio, Sébastien
Castellion, che visse nel Cinquecento, partecipando a pieno titolo al sogno
di quel gruppo di intellettuali eretici che nel pieno delle infestanti guerre di
religione tra cattolici e protestanti, rifiutarono di riconoscersi in alcuna delle
due correnti, affermando e propugnando invece il nesso inscindibile fra
religione e libertà. Per Castellion l’affermazione luterana “ecclesia semper
reformanda est” va riconosciuta nella sua radicalità, e rivolta contro lo stesso
Lutero. Proprio per questo egli propugnava un’arte di dubitare quantomai
necessaria in campo religioso, poiché
uno dei peccati più persistenti in cui capita agli uomini di cadere, è di
credere là dove bisogna dubitare e di dubitare dove bisogna credere.
Non a caso in un’opera dal suggestivo titolo De arte dubitandi et confidendi,
ignorandi et sciendi si può leggere:
Se i cristiani dubitassero un po’ di se stessi, non commetterebbero tutti
questi omicidi, di cui necessariamente dovranno pentirsi prima che sia passato
troppo tempo.
Questo movimento di pensiero religioso ! per tanti aspetti anticipatore
delle correnti che saranno chiamate “moderniste” o, in terra protestante, della
15
Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, a cura di Adriano Prosperi, Einaudi,
Torino, 2002.
23
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“teologia liberale” ! con la sua epistemologia fondamentalmente scettica giocherà un ruolo importante per la nascita del concetto di tolleranza in Europa.
Infine ! siamo ritornati a Vaneigem e al suo testo ! la Rivoluzione
Francese e il capitalismo moderno assesteranno un colpo fatale alle religioni,
sottraendo alla Chiesa il potere temporale e penale. In questo modo
cattolicesimo e protestantesimo si ridurranno un po’ alla volta alla condizione di ideologie. Non sfuggiranno, negli ultimi anni del XX secolo, al
destino dei totalitarismi e delle forme di pensiero monolitiche.
Giunti alla fine, quello che ricaviamo scorrendo le pagine del volumetto
vaneigemiano è che l’eresia risulta ineliminabile, è sempre esistita e sempre
esisterà, ogni epoca ha avuto la sua eresia, gli uomini e le donne hanno
sempre cercato un modo per esprimere il loro amore per la vita e per la
verità, anche nei momenti più infelici, in cui si è voluto imporre con il
terrore il sigillo della sopravvivenza e dell’inautenticità.
3. L’insurrezione della vita completa
Differente è lo stile e l’impianto generale del libro sul movimento del Libero
Spirito16 che precede di qualche anno il volumetto sulle eresie, che ! come
è stato detto ! intendeva inserirsi all’interno di una collana divulgativa, in
qualche maniera con pretese super partes. Invece, fin dalle prime pagine le
esigenze formali sono mutate, ed è facile cogliere richiami espliciti e impliciti
al Traité du savoir vivre e ad altri testi dello stesso autore. Basta ad esempio
confrontare l’incipit del libro in questione (“Tutto ciò che oggi si dice, si
scrive, si pensa comporta una quantità crescente di cose di nessuna importanza riguardo alla vita”) con quello del Traité (“Ciò che c’è di vissuto in
questo libro, non ho intenzione di renderlo manifesto a lettori che non si
apprestino in tutta coscienza a riviverlo”), per osservare che si può riscontrare
la medesima origine e tensione, e che, a distanza di vent’anni tra un testo e
l’altro, è ampiamente riconoscibile lo stesso lievito e il medesimo impasto.
16
Raoul Vaneigem, Il movimento del Libero Spirito, Nautilus, Torino, 1995.
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Il punto di partenza è la rivendicazione di uno studio sul Libero Spirito
ispirato dal partito preso dell’indagine soggettiva, e attivato dal piacere di
saper vivere meglio:
all’alleanza della lucidità e del piacere mi piace rendere omaggio liberando
dall’ombra e dal silenzio coloro che hanno celebrato la vita vera.
Il Libero Spirito viene letto con un riferimento esplicito al presente, a
partire dalla condizione attuale della religione, nell’età che si suole definire
del disincanto, della demitizzazione o della secolarizzazione:
Dio, così naturalizzato, venduto al ribasso da una religione che è soltanto ormai
un’ideologia tra le altre, è, nella sua paccottiglia, l’ultimo ricordo dell’ordine
celeste sotto il quale apparve per la prima volta il sistema di sopravvivenza.
E ancora:
Il mito si è dissacrato, è diventato spettacolo; il cristianesimo, relegato nel
portapillole delle ideologie, soccombe al discredito comune che oggi condanna
la medicina come un male peggiore della malattia.
Ma la stato in cui versa la religione è al contempo la cifra che denuncia
la generale condizione umana. Vi è sottesa in tutta la riflessione di Vaneigem
l’idea della storia come tendenza regressiva dell’umanità rispetto a una
originaria condizione di benessere all’interno di un mondo naturale che non
era necessario né sfruttare, né violentare, in cui predominava
l’unità in cui si radica la diversità degli elementi minerale, vegetale, animale e
umano, un’evoluzione il cui senso differisce radicalmente dall’orientamento
sociale imposto dal neolitico in poi.
Non siamo certo al mito del “buon selvaggio”, la contemporanea civiltà
del disincanto non permette di elaborare simili fughe nel passato e nell’esotico, ma non si può non associare questo approccio all’idea di uno stato di
natura come ipotesi euristica o paradigma valutativo, come c’è in Rousseau
(cfr. Discours sur l’origine et les fondaments de l’inégalité parmi les hommes),
né può essere estraneo un riferimento al pessimismo etnografico di Lévi25
Federico Battistutta
Strauss (“il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui. Le
istituzioni, gli usi e i costumi (…) sono un’efflorescenza passeggera d’una
creazione in rapporto alla quale essi non hanno alcun senso”);17 anche se ci
troviamo più vicini a tesi radicali di critica del concetto di progresso come
quelle “primitiviste” recentemente esplorate da Zerzan,18 esplicito debitore
nei confronti di Vaneigem.
La storia va conosciuta, va scovato il suo filo d’Arianna, ma è sommamente pericoloso amarla. Suggerisce Vaneigem:
Ciò che è stato chiamato la Storia è solo la storia della merce e degli uomini
che la producono disumanizzandosi (…) [per questo] l’espansione economica
è stata non una vittoria dell’uomo, ma il blocco imposto all’espansione della
vita umana, cui essa si è parassitariamente sostituita.
“La storia disprezza chi la ama”, afferma lapidario Canetti.19 Fare storia
della religione allora, storia del cristianesimo nel caso specifico, significa
operare in termini di kriminalgeschichte, di storia criminale, nella spietata
consapevolezza che
colui che non scrive la storia dell’uomo in termini di storia criminale si rende
suo complice
come ha affermato Karlheinz Deschner.20 Le istituzioni religiose non possono certo vantare una posizione privilegiata all’interno di questo quadro,
ritenendosi esonerate da un esame in tale direzione: tutt’altro. Il richiamo
qui a Deschner e al suo monumentale lavoro sul cristianesimo non è casuale,
in quanto sotto più di un aspetto vi è intesa quasi puntuale con le riflessioni
di Vaneigem.
Ma la critica del cristianesimo, della religione e della storia non possono
essere disgiunte da una critica del linguaggio che vuole dire e denunziare
17
Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano, 1960.
Cfr. John Zerzan, Primitivo attuale, Stampa Alternativa, Viterbo, 2004.
19
Elias Canetti, La provincia dell’uomo, Adelphi, Milano, 1978.
20
Cfr. Karlaheinz Deschner, Storia criminale del Cristianesimo, vol. I, Ariele, Milano, 2000.
Si tratta del primo volume di un’opera enorme formata da dieci tomi. L’intera opera è stata
per lo più ignorata in ambito cristiano, a parte alcune commendevoli eccezioni, come nel caso
della teologa tedesca (ma scomunicata dalla Chiesa) Uta Ranke-Heinemann.
18
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tutto ciò. Lo si sa, la lingua che adoperiamo non è neutrale, eredita tutto un
mondo e un senso che in essa stanno racchiusi, dichiarando già nel suo
manifestarsi una dualità, una separazione:
non esiste un linguaggio radicale, ma soltanto, al massimo, un linguaggio
che, sottolineando il più precisamente possibile la sua linea di separazione
dalla vita, lascia a essa il compito di cancellarlo imponendosi dappertutto.
Questo tema è presente nel Traité, in cui Vaneigem evoca anche la possibile manifestazione del “linguaggio sensuale” ! sensualische Sprache !
di Jacob Boheme, in cui tutti gli spiriti conversano tra loro attraverso il comune
linguaggio della natura.
Proprio per queste ragioni le parole adoperate da Vaneigem mantengono
sempre una sferzante vena caustica, in sintonia con l’approccio tendenzioso
esplicitamente dichiarato. Come in queste proposizioni:
Gesù Cristo batte Mitra e Mani sul traguardo perché esprime al meglio
l’avvenire dell’economia (…) Il Medioevo è stato cristiano come i Paesi
dell’Est erano comunisti.
Sebbene di parte, forse proprio per questo il libro di Vaneigem sul Libero
Spirito è un importante contributo alla conoscenza di questo movimento
abitualmente poco considerato anche dagli addetti ai lavori (oltre alle fonti
originali, Vaneigem ha attinto a studi rigorosi già compiuti da altri ma scarsamente noti, come quelli di Romana Guarnieri).21 Per fare un esempio, la
grande Storia delle religioni curata e diretta da H.-Ch. Puech, divisa in ventuno
volumi nell’edizione italiana, dedica al Libero Spirito poche pagine, annegandolo all’interno dei numerosi altri movimenti religiosi non conformisti.22
Dalla conoscenza che se ne trae, emerge l’immagine di un movimento
tutt’altro che monolitico, attraversato da contraddizioni, ricco e variegato al
suo interno, capace di insinuarsi in tutti gli ordini religiosi, coinvolgendo,
oltre ai chierici, uomini e donne laici, pronto inoltre ad assumere le più
21
Romana Guarnieri, Il movimento del Libero Spirito. Testi e documenti, Edizioni di Storia
e Letteratura, Roma, 1965.
22
Cfr. Jean Séguy, Non-conformismi religiosi d’Occidente, in AAVV, Storia delle religioni,
a cura di Henri-Charles Puech, vol. 12, Laterza, Roma-Bari, 1977.
27
Federico Battistutta
svariate sembianze e tonalità ma con un denominatore comune. Soprattutto
vediamo all’opera una realtà perennemente allo stato nascente, in grado di
immunizzarsi dalla tendenza a tramutarsi in istituzione e gerarchia:
L’elemento più radicale del Libero Spirito appartiene a un’alchimia della
realizzazione individuale in cui la creazione di uno stadio superiore di
esistenza (la famosa perfezione) si ottiene attraverso il graduale spogliarsi
del condizionamento economico dominante.
È questo il testimone lasciato in eredità per i tempi a venire dalla corrente
del Libero Spirito e che Vaneigem a sua volta raccoglie e personalizza, chiudendo il libro con un appello:
Niente mi impedirà di distinguere, all’ombra dei patiboli, delle prigioni, delle
fabbriche, nella clandestinità delle città e di quelle foreste da cui spuntano
un bel mattino i Papageno e le Papagena, la folla insolita di coloro che hanno
vissuto e che tentano di vivere in rottura con gli imperativi della sopravvivenza.
Basta sentirli al di sopra del vano gridio della morte.
È la scelta (ed eresia, come abbiamo visto, vuol dire appunto “scelta”)
del primato della vita di fronte alle minacce della morte.
Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione;
scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza (Deut, 30, 19).
Poiché la vita, come dice l’eretico Vaneigem in uno dei lavori più recenti,
è un reticolo di comunicazione, una religio, nel senso che nulla la può separare
da lei.23
4. Eresie d’Oriente
Perché non possiamo non dirci “eretici”. Lasciamo Vaneigem e il Libero
Spirito, spostando l’argomento, anche se in modo repentino, in un ambito
che consegni un respiro più ampio, più consono anche ai segni dei tempi,
vale a dire collochiamo l’indagine in un contesto interculturale e interreligioso.
23
Raoul Vaneigem, Le Chevalier, la Dame, le Diable et la mort, Gallimard, Parigi, 2005.
28
No man’s land
Per iniziare: una citazione, tratta da un libro di un buddhista occidentale,
in cui l’autore racconta la sua decisone di aderire alla via del Buddha:
Nell’uso convenzionale “eresia” ha un’accezione negativa: la negazione di
una tradizione; mentre etimologicamente la sua accezione è positiva: il
compiere una scelta. Dedicarsi al dharma del Buddha è eretico in entrambi i
sensi. Infatti è la scelta di praticare qualcosa di estraneo alla tradizione
ellenico-giudaico-cristiana. Vuol dire scegliere come proprio qualcosa che
storicamente è stato considerato estraneo.24
Come abbiamo visto l’autore ha utilizzato il duplice significato della
parola: eresia come scelta ed eresia come perseguimento di una dottrina
considerata falsa rispetto a una tradizione data. A ben vedere la questione è
più complessa: possiamo dire che riconoscere nella propria vita il valore della
via del Buddha non implica necessariamente abbandonare e disconoscere il
valore dell’insegnamento testimoniato dai Vangeli: è il tema della doppia
(o plurima) appartenenza religiosa, vale a dire la possibilità per una persona
di partecipare a pieno titolo a due o più tradizioni religiose nello stesso tempo,
o anche a nessuna; un tema oggi poco conosciuto, ma che sicuramente si
farà sentire con forza negli anni a venire grazie alle contaminazioni culturali
in corso.25
Ma la questione è complessa anche per un’altra ragione. La conoscenza
dello slittamento semantico e dell’ampiezza di significati relativi al lemma
“eresia”, di cui si è parlato sopra, in realtà non è stato esaurito: il discorso
va ripreso e ricollocato lungo altre coordinate geografiche e culturali. La
domanda allora è questa: fuori dal mondo occidentale e del cristianesimo la
dicotomia eresia/ortodossia mantiene il medesimo valore? Cerchiamo una
24
Stephen Batchelor, Il risveglio dell’Occidente. L’incontro del buddismo con la cultura europea,
Ubaldini, Roma, 1995.
25
Cfr., ad esempio, Raimon Panikkar, Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi, 1988, in
cui vi è la proposta di oltrepassare i limiti del dialogo interreligioso per spostarlo all’interno
della persona stessa, liberandosi delle maschere della propria tradizione religiosa: “Il dialogo
genuino inizia col mettere sinceramente in questione tutte le mie certezze”. Vedi anche il
volume Vivre de plusieurs religions, a cura di Dennis Gira e Jacques Scheuer, Editions de
l’Atelier, Parigi, 2000. Il testo raccoglie gli interventi della “Seconda assise pastorale europea”
tenutasi a Bruxelles nel 1999 su iniziativa della rivista Voie de l’Orient. Il contributo del
gesuita indiano Michaël Amaladoss, “Una doppia appartenenza religiosa”, è apparso sulla rivista
La stella del mattino, n.1/2001 (da me tradotto).
29
Federico Battistutta
possibile risposta indagando il mondo orientale, quello indiano in particolare,
dal cui albero sono nati quei frutti e quei semi che si sono propagati dentro
e fuori il subcontinente indiano, giungendo sino alle terre dell’Estremo Oriente,
per arrivare, più recentemente, fino a noi.
Se consultiamo un dizionario sanscrito troveremmo diversi termini che,
con accezioni e sfumature diverse, traducono la parola “eresia” (aupadharmya,
apatha, mithyadrsti, ecc.). Ma la questione non è strettamente linguistica: si
tratta di comprendere il ruolo e il peso che gioca all’interno della sensibilità
religiosa indiana l’opposizione eresia/ortodossia.
Cominciamo col dire che il termine corretto che designa ciò che noi per
abitudine (o per ignoranza) siamo soliti chiamare induismo è san"tana
dharma (all’incirca “legge eterna”), il quale è più un modo di vivere e di
pensare che una religione organizzata e strutturata. È prima di tutto una
maniera di essere nel mondo che include la maniera di nutrirsi, vestirsi,
amare, lavorare, morire; è una costellazione di abitudini quotidiane che
vengono tramandate da millenni da una civiltà che intende rimanere fedele
al proprio passato. Può essere considerato come una insieme di correnti a
sfondo devozionale, metafisico o speculativo tra loro eterogenee, pur avendo
un comune nucleo di riferimento. Tali indirizzi sono differenti tra loro a
seconda del modo in cui interpretano il sapere tradizionale (custodito dalle
scritture vediche) e a seconda di quale aspetto viene considerato oggetto
di focalizzazione.
Detto questo, appare presto evidente che l’asse preferenziale perseguito
all’interno dell’induismo risiede, più che nell’affermazione del valore indiscutibile di un’ortodossia, nel perseguimento dell’ortoprassia, di un corretto agire,
rispettoso delle norme in vigore. Dal punto di vista delle dottrine c’è poi
posto (quasi) per tutti i culti e le divinità. Queste ultime vengono descritte
come rappresentazioni diverse dell’assoluto, dell’elemento onnipervadente ed
esistente in sé (brahman). C’è davvero spazio per (quasi) ogni interpretazione.26
Mentre i monoteismi hanno solitamente risposto con una reazione di
chiusura nei confronti delle istanze religiose diverse dalle proprie,27
l’induismo si è comportato diversamente. Non le ha perseguitate, mostrando
26
Cfr. José Pereira, Manuale delle teologie induiste, Ubaldini, Roma, 1979. Si tratta di una
ricca raccolta commentata dei documenti più rilevanti dei sistemi religiosi hindu.
27
Cfr. il breve ma denso saggio di Jan Assmann, Non avrai altro Dio, Il Mulino, Bologna, 2007.
30
No man’s land
un atteggiamento ben diverso, tendente all’assimilazione, all’inglobamento di
quelle istanze, fino alla loro annessione nel corpus hindu. Si è parlato di
tolleranza, ma è una tolleranza tutt’altro che disinteressata, bensì agita in
funzione della neutralizzazione di posizioni divergenti e considerate potenzialmente pericolose per la stabilità del sistema nel suo complesso.
Il caso del buddhismo e del suo rapporto con l’induismo è, da questo
punto di vista, esemplare. Nato in India a partire dal VI secolo a. C., diffusosi rapidamente, in particolare con il sostegno dell’imperatore Ashoka (il
Costantino dei buddhisti), finì per scomparire dal suolo indiano dopo le
invasioni musulmane approssimativamente intorno al XIV secolo, in gran
parte assorbito dall’induismo. Svuotato dagli elementi che lo rendono incompatibile con la visione hindu, a un certo punto, Buddha fa la sua ricomparsa in India all’interno dell’induismo. Ma, questa volta, è proprio una
comparsa: è diventato una manifestazione, una (la nona di dieci, a simboleggiare l’evoluzione spirituale dell’uomo) fra le discese o apparizioni (avat"r)
di Vishnu, una delle più importanti divinità hindu.
Un’interpretazione comune a molti studiosi contemporanei indiani circa
la scomparsa del buddhismo dal suolo in cui è nato è che, col tempo, il
divario fra l’induismo e l’insegnamento di Buddha sia andato colmandosi,
al punto da non aver più alcun senso che le due religioni operassero separatamente. Quella che era un’eresia sorta sul suolo indiano a un certo punto
scompare, non attraverso persecuzioni o guerre sante, si badi bene, bensì
viene lentamente e progressivamente assorbita all’interno dell’induismo,
snaturando al contempo gli elementi pregnanti che fino ad allora la contraddistinguevano. Ecco cosa dice in merito S. Radhakrishnan, forse il maggiore
storico della filosofia dell’India contemporanea:
Il Buddha utilizzò il patrimonio hindu per correggerne alcune delle espressioni (…). Mentre gli insegnamenti del Buddha assunsero un aspetto particolare
negli altri Paesi del mondo (…) qui, nella sua terra natia, esso è penetrato e
divenuto parte integrante della nostra cultura (…). In un certo senso, il Buddha
è l’artefice del moderno induismo.28
28
Sarvepalli Radhakrishnan, “Foreword”, in B. V. Bapat (a cura di), 2.500 years of buddhism,
Dehli, Publications Division, Government of India, 1959.
31
Federico Battistutta
Un altro autore, proveniente dall’area indiana, A. K. Coomaraswamy,
anche lui conosciuto in Occidente, sarà più esplicito; ecco cosa dirà circa il
rapporto tra le due vie religiose:
Il buddhismo, se lo si studia superficialmente, sembra differire dal brahmanesimo da cui deriva; ma se se ne approfondisce lo studio, diventa difficile
distinguerli e stabilire per quali aspetti il buddismo non sia ortodosso.29
Fin qui per quello che riguarda l’induismo; ma, dal canto suo, il buddhismo
come si è posto circa la questione dell’eresia? Il nobile ottuplice sentiero,
che segue la rivelazione delle quattro nobili verità ! quindi, uno dei capisaldi della via indicata da Buddha ! si apre con l’enunciazione di samm"
dhitti, termine che è stato variamente reso: retta visione, retto intendimento,
retta opinione, retta intenzione, retta fede. Se ne parla all’interno del discorso
che viene comunemente ricordato come “la predica di Benares” (Varanasi):
Questa è, o monaci, la via che conduce all’estinzione del dolore, questo è il
nobile ottuplice sentiero, cioè: retta visione, retta intenzione, retto parlare,
retta attività, retti mezzi di sussistenza, retto sforzo, retta attenzione, retta
concentrazione (cfr. Samyutta Nik"ya, LVI, 11).
Come considerare questa samm" dhitti? Che gioco svolge all’interno del
discorso che qui si sta sviluppando? Cito, a questo proposito, da una monografia dedicata al buddhismo, scritta ! è bene sottolinearlo ! da uno dei più
competenti studiosi italiani del mondo religioso orientale:
La retta fede consiste nel credere nelle quattro sante Verità, ossia nella
dogmatica buddhista.30
Ma davvero è questione di fede e di adesione a una serie di dogmi?
Davvero samm" ditthi va inteso come sinonimo di ortodossia? Certamente
per molti il buddhismo significa questo, la ricerca di nuovi dogmi, rassicuranti e consolatori, sebbene ritenuti più morbidi rispetto a quelli cristiani.
29
30
Ananda K. Coomaraswamy, Induismo e buddismo, Rusconi, Milano, 1973.
Oscar Botto, Buddha e il buddhismo, Mondadori, Milano, 1984.
32
No man’s land
Ma non è questa la pista che ci interessa percorrere; per dirla tutta: il discorso
verso il quale siamo orientati è stellarmente distante.
Soffermiamoci ancora su samm" dhitti: secondo la legge della produzione
reciprocamente condizionata di ogni fenomeno (prat#tyasamutp"da), enunciata
anch’essa dal Buddha, quello che sono, io, adesso, è l’esito momentaneamente
terminale, ma tuttora in corso, di ciò che concorre a far sì che io sia proprio
così, come, al medesimo momento, io concorro a far sì che la realtà sia, ora,
proprio così com’è, ora. Io sono responsabile di quello che sono, di me e
delle mie scelte. Questo è lo statuto costitutivo del buddhismo ! il suo
dogma, se vogliamo ! ma a considerarlo da vicino è un assunto per sua
essenza anti-dogmatico, nel senso che va contro qualsiasi posizione che intenda costruire e sovrapporre schermi o filtri, è un invito a tenere costantemente
pulito lo specchio. Retta visione, allora, altro non è che la possibilità di
vedere il fondo di ciò che chiamiamo realtà così come esso è, senza intorbidarlo, senza modificarla con l’immaginazione, con il ragionamento, con
la dottrine: il dogma buddhista, se c’è, è che non ci sono dogmi.
Da questo punto di vista non solo è a-teo, nel senso che esprime una
sensibilità religiosa purificata da qualsiasi ombra di idolatria (vedi il capitolo
successivo), ma anche, secondo la prospettiva che stiamo seguendo, anarchico (su questo tema: vedi III capitolo). Nell’insegnamento del Buddha
incontriamo due parole-chiave: anicca e anatt": il primo termine significa
“impermanenza”, e afferma che non vi è condizione immutabile per ogni
essere e per ogni fenomeno, ma solo un flusso in continuo divenire; il
secondo indica l’inesistenza di un io individuale e permanente. Entrambi
sono la negazione di due principi fondanti ($%&'-arché) della tradizione
brahmanica dell’India, che l’hanno reso eretico rispetto a quella tradizione.
Sostenere l’impermanenza di ogni essere, sostenere l’inesistenza di un’anima
imperitura, sostenere la non rilevanza di una fondazione teologica, reca con
sé un’immediata conseguenza implicita, vale a dire la negazione di ogni
principio di autorità. Notiamo anche che le parole sopra riportate ! anicca e
anatt" ! presentano il prefisso an- (che noi chiamiamo “alfa privativa greca”).
La lettera “a” dell’alfabeto, assai prima di divenire il simbolo delle correnti
politiche e sociali anarchiche in Occidente, è un vero e proprio emblema
buddhista, al punto da essere descritta come “la saggezza suprema in una
sola lettera”: non è soltanto la prima lettera dell’alfabeto, che indica l’inizio
33
Federico Battistutta
della comunicazione linguistica, ma è soprattutto il prefisso privativo da
apporre a tutte le nozioni che vengono negate dalla perfetta saggezza della
visione di Buddha (prajñ"p"ramit"), in quanto considerate come parole che
rimandano a enti privi di una realtà propria. Negando ogni essenzialità alle
costruzioni concettuali, l’alfa privativa diviene così il simbolo della vacuità.
Qui c’è tutta la fertile matrice ereticale del buddhismo che costantemente
si rinnova. Viene enunciato in un altro celebre discorso del Buddha:
Siate luce a voi stessi, prendete rifugio in voi stessi e non in altro
(Mah"parinibb"nasuttanta, 2,33).
5. L’impossibile
A questo punto riannodiamo le tracce del discorso fin qui sviluppato.
Religione versus eresia: in questo modo può essere sintetizzato la lettura di
Vaneigem del rapporto tra istituzioni religiose e movimenti dissidenti. È in
fondo una declinazione tutta particolare di una più ampia differenziazione,
ampiamente tematizzata da vari autori, tra ciò che può essere definito il
piano aurorale del sentire religioso e quello della religione come istituzione,
chiesa. Si è parlato, di volta in volta: dello slancio creatore di una religiosità
dinamica da una parte e la funzione di stabilizzazione sociale dall’altra (H.
Bergson); di religiosità come categoria della vita e religione come struttura
oggettiva che la cristallizza (G. Simmel); di esperienza originale e personale,
intensa e ardente, da un lato, e religione rituale e costituita, ridotta a una
abitudine indifferente, dall’altro (W. James); di primitiva e immediata esperienza religiosa e di codificazione e trasformazione in riti e dogmi (C. G.
Jung); di religiosità come principio creativo e sentimento che si rinnova
perennemente, e di religione come principio normativo che vuole costringere
l’uomo in una struttura definita (M. Buber); della diversità fra l’esperienza
religiosa esistenziale, diretta, e le formulazioni metafisiche o teologiche elaborate da tali esperienze (R. Assagioli); della religiosità intesa come consapevolezza di essere immerso in un mistero che la ragione non può penetrare fino
in fondo, e della presenza di varie religioni che differentemente pretendono
di comprendere questo mistero (N. Bobbio); per citare alcuni contemporanei,
ma si potrebbe proseguire.
34
No man’s land
Ma simili problematizzazioni sono latitanti nei lavori che Vaneigem ha
dedicato alla religione e alle eresie. Il cerchio non si chiude, come sembrerebbe auspicare Vaneigem, il tema è troppo importante per venire frettolosamente
liquidato. Merita allora riprendere il filo del discorso intrapreso per completare
e arricchire la trama, in modo che possa emergere un disegno più ampio, più
vivido, come nei grandi arazzi artistici dei palazzi rinascimentali.
All’indomani del Sessantotto il teologo ortodosso francese Olivier Clément
pubblicò uno scritto di particolare interesse per la sua attualità, in un volume composto a più mani, teso a proporre una comprensione religiosa della
crisi contemporanea.31 L’intervento si situa all’interno di un’analisi critica
della società occidentale la cui ostentata opulenza (siamo nel pieno del boom
economico degli anni Sessanta) si rivela come sintomo di una mancanza,
laddove la ricerca mai sazia della comodità e della felicità diviene l’aspetto
palese di un vuoto di senso sempre più ampio. Tra le reazioni a questa
situazione Clément si sofferma a delineare i tratti di ciò che chiama “ateismo
mistico” e del quale la rivolta giovanile di quegli anni sarebbe l’espressione
collettiva più coerente.
Vaneigem viene largamente citato e acquisito come modello di riferimento.
Per Clément questo atteggiamento radicale di protesta non è altro che
l’insurrezione libertaria dell’homo absconditus, un soffio di libertà che
reagisce in maniera trasgressiva di fronte a un universo matematizzato, al
comando tecnologico che si insinua nelle pieghe del sociale. Nella prospettiva
odierna non c’è più alcun avvenire per il Dio di una speculazione teologica
razionalizzata: quel Dio è morto davvero, dice Clément. L’ateismo moderno,
da Feuerbach in poi, passando dalla triade Marx, Nietzsche e Freud, fino a
quello di Vaneigem, rappresenta la naturale reazione a una teologia e a una
religione imposte, la cui storia si confonde con gli abusi e le angherie dei
potenti di ogni epoca. Allora l’avvenire della religione, del cristianesimo in
particolare, per Clément sta proprio nella trasgressione sacra della pesantezza
quotidiana perché
soltanto nella gratuità della festa, dell’amore, della gioia, può far attecchire nell’essere – che è libertà luminosa creatrice – l’oscura libertà dell’uomo nascosto.
31
Olivier Clément, “Dioniso e il Risorto”, in AAVV, Vangelo e rivoluzione: nel cuore della
nostra crisi spirituale, Jaca Book, Milano, 1969.
35
Federico Battistutta
Questa è la festa interiore, il grande gioco della libertà, l’insurrezione
della vita completa; qui è la radura spaziosa, il luogo dell’incontro lungo il
cammino insondabile dell’uomo.
A tanti anni di distanza queste parole continuano a risuonare. Siamo
ancora agli inizi, in fondo, la pista tracciata da Clément costituisce una
preziosa premessa, un tracciato da seguire e approfondire. Nuovi territori
meritavano e meritano di venire esplorati: l’homo religiosus viene sempre
prima di qualsivoglia religione, è bene ricordarlo, e la domanda radicale di
senso propria di una via religiosa (vale a dire di un senso intimamente inscritto nelle viscere della realtà e non posto solo in termini soggettivi) non è
pertanto mero appannaggio delle religioni e dei loro ultimatum, secondo cui
chi non si uniforma a un determinato sistema di principi è de facto fuori
dalla dimensione religiosa.
Anzi: il cammino religioso, se è un autentico invito universale, può
accadere solo in una apertura fondante, continuamente rinnovata, al cui
interno nulla può essere trascurato per principio o escluso a priori, ben al di
là quindi della barriera fittizia e dogmatica eretta tra credenti e atei. Allo
steccato credenti/non credenti va preferito quello fra idolatri e non idolatri
(come è stato fatto notare da E. Bianchi), riconoscendo implicitamente che
l’idolatria può allignare su ogni terreno, compreso quello laico; o, meglio
ancora, vi è un’ulteriore sottile linea divisoria che passa fra pensanti e non
pensanti (qui il riferimento va a N. Bobbio e a C.M. Martini), tra chi continua
a interpellarsi sui grandi interrogativi dell’esistenza e chi, ritenendosi già
appagato, ha deciso di rinunciarvi. Del resto, né Dio né la stessa religione
sono da considerare dati scontati all’interno di un sincero dialogo religioso;
di fronte a ciò le istituzioni religiose non possono in alcuna maniera imporre
diktat rivendicando il monopolio in materia, non sono proprietarie esclusive
ma tutt’al più le depositarie provvisorie di insegnamenti universali.32 È su
questo piano del discorso che possiamo ritrovare l’attualità, sempre rinnovantesi, delle eresie e del loro rapporto con le religioni.
Non basta. Poniamo di nuovo la questione: perché non possiamo non
dirci “eretici”? Proviamo, giunti al termine, a trarre ulteriori seppur provvisorie
conclusioni. Non possiamo non dirci “eretici” significa riconoscersi non
32
Sono queste le premesse poste da Raimon Panikkar in L’incontro indispensabile: dialogo
delle religioni, Jaca Book, Milano, 2001, un testo fondamentale per questo genere di discussioni.
36
No man’s land
tanto nell’adesione agli enunciati, elaborati in un passato più o meno lontano
da questo o quel personaggio, più o meno ammirevole; anzi, molte di quelle
teorizzazioni ci paiono oggi improponibili. Sta invece nel personalissimo
approfondimento di quella tensione volta alla ricerca, alla mise en jeu dei
saperi costituiti, nella disposizione, se è necessario, a rischiare e a pagare in
prima persona.
Dicendo questo ci sentiamo davvero in buona compagnia. Cos’era, in
fondo, Gesù agli occhi della tradizione ebraica, oppure Buddha a quelli
della tradizione hindu? È stato il filosofo tedesco Ernst Bloch ad affermare
che “la cosa migliore nella religione è il fatto di creare eretici”,33 e tale
commento appare meno paradossale di quanto possa risultare a un primo
sguardo distratto e abitudinario.
Lo spirito dell’eresia, così inteso, vive e si esprime, come le acque di un
fiume carsico, dentro e fuori le singole confessioni religiose, perché non
rivendica uno spazio proprio, e soprattutto perché non ambisce a costituirsi
a sua volta in una religione. Quando ciò è accaduto, pensiamo a esempio ad
alcuni momenti drammatici della Riforma protestante, gli esiti sono stati
devastanti. Lutero e Calvino vengono scomunicati e condannati come eretici
dalla Chiesa di Roma, ma a loro volta si considerano come gli autentici
depositari dell’ortodossia cristiana, perseguitando gli oppositori fino alla
messa a morte.
Avevamo visto all’inizio che uno dei significati della parola greca aìresis
è “presa del potere, conquista”. Anche qui intendiamo operare un ribaltamento
rispetto al significato iniziale: lo spirito dell’eresia è sconfitta. Sembra duro
dirlo, ma le cose stanno in questo modo: l’eresia deve saper perdere e non
può accadere che così. Non per vocazione autodistruttiva, o per una supposta
carenza strategica rispetto ai piani dell’avversario, ma proprio per andare
oltre le categorie di amico e nemico, di vittoria e sconfitta, di guadagno e
perdita, per dimostrare l’intrinseca inconsistenza di queste dicotomie. Nel
mondo ma non del mondo. Proprio per questo il desiderio di autoconservazione e la tendenza a riprodursi, qualunque forme possano assumere,
diventano una tentazione e un pericolo da evitare.
Ultima, ma non ultima, questione: è ancora attuale l’eresia e il suo
spirito o siamo giunti in prossimità della sua obsolescenza? Ha ancora senso
33
Ernst Bloch, op. cit..
37
Federico Battistutta
dirsi “eretici” nella società attuale, con la sua tolleranza così tanto dichiarata
e ostentata, per lo più fraintesa con la libertà del mercato delle idee? Pare
che stiamo assistendo oggi a un’ulteriore caduta di significato (e di stile),
incappando addirittura in una sorta di simulazione del fenomeno ereticale,
con la produzione di un suo doppio, elaborando una specie di pseudo-eresia
innocua, adeguata ai canoni di una società incline a spettacolarizzare e
mercificare ogni possibile contenuto, confezionando, se è il caso, gli abiti
trasgressivi e anticonformisti di una qualche moda culturale, da produrre e
consumare in serie. Gli esempi abbondano ad nauseam e non serve citarli.
Non c’è più niente da fare, allora? Non esattamente, o non del tutto. C’è
ancora uno spazio, sebbene esiguo, anche se ci troviamo ai limiti stessi della
possibilità di definire qualche cosa: tale opportunità è nell’ordine dell’impossibile. Non è una battuta o un gioco di parole quello che si sta affermando.
Non ci inganniamo; l’impossibile è impossibile. A tutti i cristiani io direi:
perché l’impossibile è stato affrontato, Dio si è fatto uomo e l’uomo si
fa Dio. 34
Ecco: si vuole qui ribadire che lo spirito dell’eresia, se è espressione di
un novum radicale, non è pianificabile, prevedibile o identificabile. Quando
viene riconosciuto e identificato come tale vuol dire che è giunto il momento
di abbandonare quell’abito e andare da un’altra parte, lasciando alle proprie
spalle il simulacro di ciò che è stato. Ciò vale non solo in caso di minacce e
di persecuzione, ma anche di riconoscimento e successo (cfr. la parabola
del “servo inutile”, Lc 17, 10). Sarà questa la nostra fuga mundi. Lo spirito,
il soffio dell’eresia diviene un momento sempre sul punto di accadere, è
creatio continua, e tale eventualità è qui, nelle nostre mani, tutta da inventare.
Per questo continueremo il nostro cammino. Per questo non possiamo non
dirci “eretici”.
34
Raimon Panikkar, “Una spiritualità per il nostro tempo”, in La nuova innocenza, vol. III,
Servitium, Sotto il Monte, 1996.
38
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