Novembre 2012 Newsletter E-Tax – Un monitoraggio delle novità

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Novembre 2012
Newsletter E-Tax – Un monitoraggio delle novità societarie e fiscali di
particolare interesse per l’ICT a cura di RSM Tax & Advisory Italy
Indice:
1. Flash delle novità fiscali e legali
1.1 IMU – pubblicazione modello di dichiarazione ed ulteriore rinvio del termine di presentazione
1.2 Pagamenti entro 30 gg dalla PA
2. Approfondimenti generali di carattere fiscale e legale
2.1 Conseguenze della mancata iscrizione nell’archivio VIES
2.2 Al via il regime Iva di cassa
3. Approfondimenti specifici per il settore IT di carattere fiscale e legale
3.1 Open data” secondo la definizione fornita dal legislatore (D.L. 179/2012), evoluzione italiana
3.2 Corte di Giustizia Europea –lLa tutela del diritto d'autore on line
3.3 Agevolazioni per le start-up in attesa di definizione
4. Giurisprudenza e prassi
4.1 Detraibilità dell’IVA in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti
4.2 Estinzione di società e rapporti con l’Erario
4.3 Il centro prevalente di interesse economico come criterio per la determinazione della
residenza fiscale
4.4 Procedimento di accertamento con adesione e sospensione dei termini per ricorrere
4.5 L’Agenzia che ritarda l’autotutela va condannata alle spese
5. RSM Tax & Advisory Italy
1. Flash delle novità fiscali e
legali
1.1 IMU – pubblicazione modello
di dichiarazione ed ulteriore
rinvio
del
termine
di
presentazione
Con Decreto dello scorso 30 ottobre
è stato pubblicato il modello di
dichiarazione ai fini IMU e le relative
istruzioni.
È attualmente in fase di recepimento
una ulteriore proroga del termine di
presentazione della dichiarazione
IMU valevole per il 2012: dall’attuale
scadenza del 30 novembre si
dovrebbe infatti passare al termine
del 4 febbraio 2013, fatte salve le
variazioni avvenute nell’ultima parte
dell’anno, per le quali rimane valido
il termine di presentazione entro 90
giorni dalla data della variazione.
In base alle istruzioni sono da
comunicare, in linea di principio, le
variazioni intervenute rispetto alle
dichiarazioni ICI già presentate per
gli anni pregressi, che determinano
un diverso carico di imposta e che
non
risultano
conoscibili
dal
Comune: tra le fattispecie più
rilevanti è da segnalare il caso in
cui, in base alla delibera dello
specifico Comune di interesse,
l’immobile gode di una riduzione di
aliquota rispetto a quella ordinaria.
Tra le casistiche non note ai Comuni
ed oggetto, quindi, di dichiarazione,
si
evidenziano,
le
seguenti,
tipicamente riferite ad imprese:
 concessione dell’immobile in
locazione finanziaria;
 fabbricato classificabile nel
gruppo catastale “D”, non
iscritto in Catasto , ovvero
iscritto ma senza attribuzione
di
rendita,
interamente
posseduto da imprese e
distintamente contabilizzato.
La dichiarazione deve essere
inoltrata al Comune di riferimento
mediante consegna diretta, invio di
raccomandata senza ricevuta di
ritorno ovvero via PEC.
1.2 Pagamenti entro 30 gg dalla
PA
La direttiva 2011/7/UE del 16
febbraio 2011 rafforza le tutele delle
imprese contro i ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali. Tra le
novità, si segnala l’obbligo da parte
delle pubbliche amministrazioni
all’interno dell’UE di provvedere ai
pagamenti nei confronti delle
imprese entro un termine massimo
uniforme di 60 giorni. La direttiva
dovrà essere recepita dagli Stati
membri entro il 16 marzo 2013 e
sostituirà
così
la
direttiva
comunitaria 2000/35/CE.
Quella dei ritardi nei pagamenti è da
sempre un'emergenza nel nostro
paese, soprattutto in questa fase in
cui le imprese sono a corto di
liquidità. In particolare, a essere
penalizzate sono le piccole aziende,
costrette ad aspettare in media circa
180 - 190 giorni per essere pagate,
con punte record al Sud dove si
superano anche i 1.500 giorni.
Tempi molto lontani rispetto a tutti
gli altri paesi comunitari.
In quest’ottica il Governo il 31
ottobre 2012 ha approvato lo
schema del Decreto Legislativo per
l’attuazione della direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio
del 16 febbraio 2011 (2011/7/UE)
“relativa alla lotta contro i ritardi di
pagamento
delle
transazioni
commerciali”. In particolare con lo
stesso si è voluto dare un impulso
più incisivo a quanto già previsto
dal D. Lgs. 231/2002.
Dal
primo
gennaio
2013,
anticipando quindi il termine previsto
a livello comunitario, la pubblica
amministrazione dovrà pagare i
propri fornitori entro 30 giorni. Al più
si potrà arrivare a 60 giorni solo in
casi ben individuati. Lo stesso limite
riguarderà anche le transazioni
azienda-azienda, ma in questo caso
il tetto potrà essere superato nel
caso ci siano accordi tra le parti.
Intese che comunque non dovranno
essere inique per il creditore.
Per le amministrazioni pubbliche
che non rispetteranno i tempi
scatterà la "sanzione" degli interessi
legali di mora.
Quindi, quella del primo gennaio
2013
diventa
una
data
fondamentale, in quanto tutte le
pubbliche amministrazioni dovranno
pagare i loro fornitori entro 30 giorni
dal ricevimento della fattura o, a
seconda delle specificità, dalla data
di ricevimento delle merci o di
esecuzione della prestazione dei
servizi.
E’ stata prevista una proroga a 60
giorni per ASL e ospedali nonché
deroghe a 2 mesi per le imprese
pubbliche e per gli enti pubblici che
forniscono assistenza sanitaria.
Anche le altre PA potranno pagare a
60 giorni in casi eccezionali,
giustificati
«dalla
natura
o
dall'oggetto del contratto».
A differenza delle transazioni tra
imprese e PA, nei pagamenti tra
aziende, possono anche essere
superati i 60 giorni, purché i termini
di
pagamento
non
siano
“gravemente iniqui per il creditore”,
e “pattuiti espressamente”.
In caso di pagamento oltre i limiti
sopra indicati, gli interessi moratori
decorrono automaticamente dal
giorno successivo alla scadenza dei
termini.
L’applicazione
degli
interessi moratori (circa l’8% - 7
punti percentuali da aggiungere al
tasso della Bce che oggi si aggira
intorno all'1%) avverrà in modo
automatico senza la richiesta scritta
al debitore di adempiere all'obbligo
ovvero senza la cd. costituzione in
mora.
Tra
imprese
si
può
concordare un tasso diverso, ma
non iniquo per il creditore.
Il creditore ha anche diritto al
rimborso dei costi che ha sostenuto
per il recupero delle somme che non
sono state corrisposte in tempo.
Anche in questo caso il diritto scatta
indipendentemente dalla richiesta
scritta al debitore di adempiere
all'obbligo.
La
soglia
minima
dell'importo è di 40 euro.
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and the consequences hereof. Nothing in this publication may be multiplied without prior consent of RSM Tax & Advisory Italy. © RSM Tax &
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2. Approfondimenti generali di
carattere fiscale e legale
2.1 Conseguenze della mancata
iscrizione nell’archivio VIES
È stato introdotto, con il D.L.
78/2010, l’obbligo di dichiarazione di
volontà per i soggetti che intendono
effettuare
operazioni
intracomunitarie. Lo scopo è di
garantire un monitoraggio continuo
dei soggetti che hanno espresso la
volontà di porre in essere operazioni
intracomunitarie e che sono stati
conseguentemente
inseriti
nell’archivio dei soggetti autorizzati
alle operazioni intracomunitarie
(cosiddetto VIES).
L’inclusione
nell’Archivio
VIES
costituisce
presupposto
indispensabile per essere identificati
dalle controparti comunitarie come
soggetti passivi IVA e, dunque, per
qualificare correttamente le cessioni
o prestazioni come effettuate o
ricevute da contribuente italiano
avente lo status di soggetto passivo
IVA
ai
fini
degli
scambi
intracomunitari.
L’introduzione del regime con il
decreto 78/2010, ha comportato che
i soggetti passivi nazionali per
effettuare
operazioni
intracomunitarie tassabili a destinazione,
secondo il principio proprio di tali
operazioni “b2b”, devono essere
iscritti nell’archivio del VIES.
Se non si è compresi nell’elenco,
secondo la relazione del dl 78/2010,
non sussiste soggettività passiva
per le operazioni intracomunitarie e
di conseguenza, ove fossero
effettuate
ugualmente,
non
potrebbero essere assoggettate al
regime loro proprio, ma le
operazioni
attive
(cessioni
e
prestazioni
verso
soggetti
comunitari) sarebbero assoggettate
all'Iva in Italia, mentre le operazioni
passive (acquisti di beni e servizi
fatti da soggetti nazionali presso
fornitori
comunitari)
sarebbero
assoggettate all'Iva nel Paese di
origine, come se il destinatario fosse
un privato consumatore, con la
preclusione,
tra
l’altro,
della
possibilità di chiedere il rimborso
dell’Iva pagata nello stato membro
di origine. Preclusione motivata
dall’Agenzia delle Entrate, in
considerazione della carenza di
soggettività passiva nell’operazione
intracomunitaria.
Con la risoluzione n. 42/E del 27
aprile 2012, l’Agenzia delle Entrate
è tornata nuovamente sulla tematica
di cui sopra (cfr. circolare n. 39/E del
1°
agosto
2011),
ribadendo
l’assoluta
impossibilità
per
il
soggetto che non risulta iscritto al
VIES di:
 effettuare
acquisti
intracomunitari
in
Italia
procedendo
all’applicazione
dell’imposta
mediante
il
meccanismo
dell’inversione
contabile;
 ricevere prestazioni di servizi
generici da parte di fornitori
comunitari
applicando
l’imposta con il medesimo
sistema
dell’inversione
contabile.
Sostanzialmente
l’acquisto
effettuato da una società italiana
presso un’azienda con sede in un
altro Stato Ue, senza iscrizione al
VIES, non si considera una
transazione intracomunitaria. Di
conseguenza
l’operazione
è
rilevante, ai fini dell’Iva, nel Paese
del fornitore e non risulta applicabile
il regime dell’inversione contabile.
L’Agenzia ha sottolineato altresì il
fatto che, nei suddetti casi, non
essendo dovuta l’imposta in Italia
non è possibile procedere alla sua
detrazione, anzi ciò comporta il
recupero
della
stessa
con
applicazione della sanzione prevista
dall’art. 6, comma 6, del D. Lgs. n.
471 del 18 dicembre 1997, vale a
dire per un ammontare pari alla
detrazione
illegittimamente
effettuata
In pratica secondo l’Agenzia delle
Entrate all’acquisto intracomunitario
effettuato da un operatore italiano
non iscritto al VIES non risulta
applicabile il “reverse charge” ex art.
47, D.L. n. 331/93, pertanto
l’operatore italiano, ricevuta la
fattura “senza IVA”, non dovrà
effettuare la doppia annotazione
della stessa nel registro IVA degli
acquisti
e
delle
fatture
emesse/corrispettivi,
con
conseguente indetraibilità dell’IVA in
acquisto. L’ASSONIME con la
circolare n. 21 del 26 luglio 2012 ha
esternato la sua non condivisione di
tale tesi, in quanto porta a
conseguenze
gravose
per
il
contribuente. Accadrebbe, infatti, in
buona sostanza, che la stessa
operazione sarebbe assoggettata a
IVA più volte, non rispettando il
principio generale di neutralità del
tributo, in quanto l’operazione - che,
secondo
la
stessa
Agenzia,
dovrebbe comunque essere tassata
come operazione interna dello Stato
del cedente - sarebbe in tal modo
assoggettata a imposta anche in
Italia alla successiva cessione del
bene. Secondo l’ASSONIME la
soluzione ottimale sarebbe quella di
consentire al soggetto passivo
nazionale di operare una variazione
in diminuzione dell’IVA a debito, a
norma dell’art. 26 del D.P.R. n. 633,
evitando così di dover versare
l’imposta.
Si ricorda infine come l’Agenzia
abbia precisato che le sanzioni
derivanti
dall’effettuazione
di
operazioni
intracomunitarie
da
soggetti che non sono regolarmente
iscritti al VIES, non si applicano a
condizione che tali operazioni siano
state
commesse
prima
dell’emanazione della circolare n.
39/E del 1° agosto 2011.
Ulteriori considerazioni che è
possibile evidenziare sono che (i) il
regime sanzionatorio richiamato
dall’Agenzia delle Entrate (Art. 6,
comma 6, del D. Lgs. n. 471 del 18
dicembre 1997), potrebbe sembrare
eccessivo se si considera il fatto
che, in molti Stati membri della UE
la circostanza che la controparte,
cessionario o committente, non sia
iscritto al VIES non pregiudica
l’applicazione del regime previsto
per le operazioni comunitarie; (ii) è
lecito
domandarsi
se
l’inadempimento di cui si dibatte non
possa farsi rientrare nel novero di
quelli
disciplinati
dalla
cd.
“remissione in bonis” ovvero da
quella particolare procedura (una
sorta di “ravvedimento operoso”)
con cui è riconosciuto ai contribuenti
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che non abbiano ottemperato agli
obblighi formali di preventiva
comunicazione/opzione
all’uopo
previsti dalle norme disciplinanti
specifici istituti, di evitare la
decadenza da un beneficio o da un
regime fiscale, ponendo in essere,
anche
se
tardivamente,
l’adempimento omesso entro il
termine di presentazione della prima
dichiarazione utile e pagando,
contestualmente,
la
sanzione
minimale edittale.
2.2 Al via il regime Iva di cassa
Con l’entrata in vigore dell’art. 32-bis
del Decreto Legge n. 83/2012
(convertito dalla Legge n. 134/2012)
è stata sensibilmente ampliata la
portata del regime IVA cd. “di
cassa”, modificandone al contempo i
tratti caratteristici.
La normativa si propone, in buona
sostanza, di non fare anticipare il
versamento dell’IVA al cedente di
beni/prestatore di servizi nell’ipotesi
di ritardato pagamento da parte del
cessionario o committente che sia a
sua volta soggetto passivo IVA.
La
disposizione
introdotta
rimandava, per la sua concreta
applicazione, all’emanazione di
apposito Decreto: quest’ultimo è
stato emesso lo scorso 11 ottobre.
Di seguito si propone, pertanto, una
prima sintesi della disciplina.
Cos’è l’IVA di cassa
La caratteristica primaria del regime
consiste
nel
definire,
quale
momento di esigibilità dell’imposta,
relativamente alle operazioni attive
effettuate da coloro che aderiscono
all’IVA di cassa, quello in cui viene
ricevuto il pagamento delle relative
prestazioni.
In modo del tutto speculare per
coloro che optano per il regime IVA
di cassa il diritto alla detrazione
dell’IVA concernente gli acquisti
sorge solamente al momento del
pagamento del corrispettivo.
Non si registrano effetti, invece, su
coloro che risultano controparti di
transazioni con soggetti che hanno
aderito a tale regime ma che non
hanno a loro volta, aderito a tale
regime:
per
tali
permangono le regole
sull’esigibilità dell’IVA.
soggetti
ordinarie
Esempio
A opta per il regime IVA di cassa;
B non opta (o non può optare) per il
regime IVA di cassa;
A cede a B beni mobili,
consegnando gli stessi il giorno 20
gennaio;
B paga A il giorno 20 aprile.
Per A l’IVA sulla cessione diviene
esigibile all’atto del pagamento di B
(mese di aprile o II trimestre),
mentre per B l’IVA sull’acquisto
diviene esigibile (detraibile) all’atto
della consegna dei beni.
Nel caso inverso (il cedente A
applica le regole generali, e B opta
per il regime IVA di cassa), l’IVA
sulla cessione diverrà esigibile per A
all’atto della consegna dei beni,
mentre B non potrà detrarre
l’imposta fino al pagamento, da
parte sua, della fornitura.
Nei confronti di coloro che hanno
optato per il regime di cassa
eventuali incassi/pagamenti parziali
determinano, come conseguenza,
l’esigibilità/il diritto alla detrazione
dell’imposta nella proporzione tra il
corrispettivo incassato/versato ed il
corrispettivo complessivo.
È da evidenziare che l’operazione
rientrante nel regime IVA di cassa
diviene comunque esigibile decorso
1 anno dall’effettuazione della
stessa, salvo che prima del decorso
di tale termine il cessionario o
committente sia stato assoggettato
a procedure concorsuali.
Chi può usufruire del regime IVA di
cassa
Possono in via generale aderire al
regime IVA di cassa coloro (sia
imprese che professionisti) che
nell’anno solare precedente hanno
realizzato un volume di affari non
superiore a 2 milioni di euro: in
precedenza il limite era fissato a
200.000 euro.
In caso di avvio dell’attività in corso
d’anno il regime è usufruibile da
coloro che prevedono di non
superare
nell’anno
l’anzidetto
volume d’affari.
Il decreto attuativo precisa che nel
computo del volume di affari
rilevante rientrano sia le operazioni
che vengono assoggettate al regime
IVA di cassa che quelle escluse (di
cui oltre).
Operazioni escluse dal Regime IVA di
cassa
Rimangono escluse dal regime IVA
di cassa le seguenti operazioni
attive:
 cessioni di beni/prestazioni di
servizi effettuati nei confronti di
consumatori finali;
 operazioni
effettuate
nell’ambito di regimi speciali
IVA: in tal senso il decreto
precisa che il regime IVA di
cassa può essere adottato per
le operazioni effettuate da
coloro che, previa separazione
delle attività ai sensi dell’art. 36
del D.P.R. n. 633/72, applicano
sia regimi speciali IVA sia il
regime ordinario;
 operazioni
effettuate
nei
confronti di soggetti che
assolvono l’IVA mediante il
meccanismo
del
“reverse
charge”;
 le operazioni soggette al
regime dell’IVA “differita” di cui
all’art. 6, quinto comma,
secondo periodo, del Decreto
IVA (cessioni nei confronti di
enti pubblici).
Sul fronte delle operazioni passive
rimangono escluse dal campo di
applicazione del regime IVA di
cassa le seguenti:
 gli acquisti di beni/servizi
assoggettati ad IVA mediante
meccanismo
del
“reverse
charge”;
 gli acquisti intracomunitari di
beni;
 le importazioni di beni;
 le estrazioni di beni dai depositi
IVA.
Adempimenti da osservare
Per quanto concerne le operazioni
attive, il cedente che opta per il
regime
IVA
di
cassa
deve
innanzitutto annotare sulle fatture
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emesse che trattasi di operazione
con IVA per cassa ai sensi dell’art.
32-bis del Decreto Legge n.
83/2012, convertito dalla Legge n.
134/2012: l’eventuale inosservanza
di tale prescrizione costituisce,
comunque, un mero errore formale.
Ai fini della determinazione del
volume di affari e del pro rata di
detrazione ex art. 19-bis del Decreto
IVA, le operazioni rilevano in base al
momento di effettuazione e non di
esigibilità dell’imposta.
Esempio
A opta per il regime IVA di cassa;
A
cede
un
bene
mobile,
consegnandolo in data 20 dicembre
2012;
A riceve il pagamento della fornitura
a febbraio 2013.
In questo esempio l’IVA sulla
vendita è esigibile nel mese di
febbraio 2013/I trimestre 2013, ma
l’operazione concorre a formare il
volume di affari del 2012.
Modalità di esercizio dell’operazione
Il decreto di attuazione rimanda
all’Agenzia delle Entrate il compito
di disciplinare le modalità di
adesione (e quelle di revoca) al
regime IVA per cassa.
Il recente provvedimento n. 165764
del 21 novembre 2012 prevede che
l’opzione per la liquidazione dell’IVA
per
cassa
si
desume
dal
comportamento concludente del
contribuente ed è comunicata nella
prima dichiarazione annuale ai fini
dell’imposta sul valore aggiunto da
presentare successivamente alla
scelta effettuata.
Il Decreto Legge n. 83/2012 aveva
già
stabilito
che
l’esercizio
dell’opzione varrà comunque a
partire dal 1° gennaio dell’anno di
adesione ovvero, in caso di inizio
dell’attività nel corso dell’anno, dalla
data di inizio dell’attività, e per
espressa previsione del decreto, le
operazioni
che
hanno
già
partecipato
alle
liquidazioni
periodiche effettuate fino al 31
dicembre precedente non rientrano
nel suddetto regime. Al riguardo il
provvedimento
dell’Agenzia
ha
precisato che limitatamente all’anno
2012, primo anno di applicazione
del
nuovo
regime,
l’opzione,
comunicata con la dichiarazione
annuale ai fini dell’imposta sul
valore aggiunto per l’anno 2012, ha
effetto per le operazioni effettuate a
partire dal 1° dicembre 2012.
In merito alle possibilità di revoca, il
provvedimento
dispone
che
l’opzione al regime IVA per cassa
vincola il contribuente almeno per
un triennio, salvi i casi di
superamento della soglia dei due
milioni di euro di volume d’affari, che
comportano la cessazione del
regime.
Trascorso il periodo minimo di
permanenza nel regime prescelto,
l’opzione resta valida per ciascun
anno successivo, salva la possibilità
di revoca espressa, da esercitarsi,
con le stesse modalità di esercizio
dell’opzione,
mediante
comunicazione
nella
prima
dichiarazione
annuale
ai
fini
dell’imposta sul valore aggiunto
presentata successivamente alla
scelta effettuata.
Il provvedimento precisa che, ai fini
del computo del triennio, se
l’opzione è esercitata a partire dal 1°
dicembre 2012, l’anno 2012 è
considerato
primo
anno
di
applicazione del regime.
Termine dell’opzione ed effetti
Una volta esercitata, l’opzione al
regime può venire meno per:
 revoca del contribuente (in
base alle regole che verranno
stabilite
dal
menzionato
provvedimento);
 superamento del limite di
volume di affari; in tal caso il
soggetto fuoriesce dal regime
a partire dal mese successivo
a quello in cui è superata la
soglia rilevante dei 2 milioni di
euro. Nella liquidazione relativa
all’ultimo mese in cui si è
applicata l’IVA per cassa dovrà
essere imputato a debito
l’intero ammontare di IVA
riferita alle operazioni i cui
corrispettivi
non
risultano
essere ancora stati incassati.
Specularmente, potrà essere
esercitato
il
diritto
alla
detrazione
dell’IVA
sugli
acquisti
per
i
quali
il
corrispettivo non è ancora
stato incassato.
Decorrenza del regime
Il regime è applicabile a partire dalla
operazioni
effettuate
dal
1°
dicembre 2012: ciò significa che in
caso di adesione già a valere per il
2012 rientreranno nel regime le sole
operazioni effettuate a partire dalla
suddetta data del 1° dicembre.
3. Approfondimenti specifici di
carattere fiscale e legale
3.1 “Open data” secondo la
definizione fornita dal legislatore
(D.L.
179/2012),
evoluzione
italiana
Il 19 ottobre 2012 è stato pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto
Legge n.179/2012 (detto anche Dl
Crescita 2.0) in vigore, quindi, dal 20
ottobre 2012.
Il testo, composto da dieci sezioni e
trentanove articoli, oltre a contenere
misure fiscali volte ad agevolare la
realizzazione di opere strutturali,
favorire la creazione di nuove
imprese innovative, attrarre gli
investimenti e procedere con le
liberalizzazioni
di
settore
(in
particolare assicurativo), prevede
misure volte a dare impulso alla
ricerca
ed
alle
innovazioni
tecnologiche, oltre che misure volte
a favorire la crescita, lo sviluppo e la
cultura digitale mediante l’attuazione
dell’Agenda digitale italiana.
Il Decreto Legge modifica, infatti, il
CAD 1 (Codice dell’Amministrazione
Digitale - decreto legislativo 7 marzo
2005, n. 82) fornendo una chiara
definizione di “Dati aperti” chiamati
più
comunemente
con
la
denominazione inglese “Open data”.
Con il termine Open data, già a
partire dal 2005, si sono individuati
1
Già
modificato
precedentemente
D.lgs.n.32/2010
(Direttiva
Inspire),
dal
D.lgs.n.150/2009 (Riforma Brunetta), dal
D.lgs.n.36/2006-Dir.2003/98/CE.
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tutti quei dati ed informazioni che
vengono messi a disposizione in
“forma aperta” ovvero che sono
liberamente
consultabili
ed
utilizzabili da tutti senza alcuna
restrizione (ad esempio di copyright
e privacy).
Partendo dalla norma sopra citata e
dalla definizione di Open data che
questa fornisce, si illustra in maniera
sintetica l’iniziativa italiana che
trova, in Europa e nel mondo,
molteplici confronti e spunti2.
Definizione
L’art.9
del
D.L.
n.179/2012
sostituisce i precedenti articoli 52 e
68 del D.lgs.n.82/2005 fornendo
alcuni importanti concetti:
 Tutti i dati e i documenti che le
amministrazioni
titolari
pubblicano,
con
qualsiasi
modalità, senza l'espressa
adozione di una licenza 3 , si
intendono rilasciati come dati
di tipo aperto, sulla base
della definizione del Codice.
L'eventuale adozione di una
licenza è motivata ai sensi
delle linee guida nazionali.
 Un formato di dati è di tipo
aperto se è reso pubblico,
documentato in maniera
esaustiva e neutro rispetto
agli
strumenti tecnologici
necessari per la fruizione dei
dati stessi.
 Sono dati di tipo aperto, i dati
che presentano le seguenti
caratteristiche:
1) sono disponibili secondo i
termini di una licenza che ne
permetta l'utilizzo da parte di
chiunque, anche per finalità
commerciali;
2)
sono
accessibili
attraverso
le
tecnologie
dell'informazione e della
2 In pochi anni si sono sviluppati molteplici
portali di dati aperti: il primo, e che ha fatto da
modello ai successivi, è stato Data.gov,
americano, voluto dal Governo Obama,
seguito da Data.gov.Uk, voluto e sponsorizzato
da Tim Berners-Lee “l’inventore del World
Wide Web”, a loro volta seguiti dal portale
australiano Data.gov.au, da quello canadese
Data.gc.ca,
da
quello
norvegese
Data.norge.no
e
da
quello
francese
Data.gouv.fr, e così via.
3 di cui all'articolo 2, comma 1, lettera h) del
decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36.
comunicazione in formati
aperti (come sopra definiti),
sono
adatti
all'utilizzo
automatico
da
parte
di
programmi per elaboratori e
sono
provvisti
dei relativi
metadati;
3) sono messi a disposizione
gratuitamente attraverso le
tecnologie dell'informazione e
della comunicazione oppure
sono resi disponibili ai costi
marginali sostenuti per la loro
riproduzione e divulgazione.
L'Agenzia per l'Italia digitale
può stabilire, con propria
deliberazione,
i
casi
eccezionali in cui essi siano
resi
disponibili
a
tariffe
superiori ai costi marginali
(secondo
criteri
oggettivi,
trasparenti e verificabili) .
Giova ricordare che ai contenuti
prodotti dal settore pubblico, escluse
le eccezioni previste dalla norma, si
applica la normativa in materia di
diritto d’autore (L.633/1941). In base
ai diversi diritti concessi a chi fruisce
di un’opera tutelata dal diritto
d’autore, nella prassi, si usa
distinguere tra due macro tipologie
di licenze: le licenze di tipo chiuso e
le licenze di tipo aperto. Le licenze
di tipo chiuso riservano tutti i diritti
utilizzando il simbolo ©, adoperato
per indicare il titolare del copyright
sull’opera. L’utente potrà fruire del
documento ma - senza il consenso
di colui che detiene i relativi diritti –
non potrà copiare, ripubblicare o
modificare i contenuti protetti dalla
licenza4.
Le licenze open garantiscono una
serie di diritti a chi entra in possesso
delle informazioni.
In base alla “Open Definition”, sopra
esposta, è scontato che le
Amministrazioni debbano scegliere
ed utilizzare licenze di tipo aperto,
prestando attenzione alla titolarità
delle informazioni che intendono
pubblicare (per evitare di ledere i
diritti di terzi).5
4 Fonte: Open data: mobile apps & green
solutions, Roma, 26/10/2012, Avv. Ernesto
Belisario.
5 La licenza “Italian Open Data License”
(IODL) è stata sviluppata (da Formez PA) per
In Italia, dal 2010 ad oggi, le funzioni
assolte dal CNIPA (centro nazionale
per l'informatica nella pubblica
amministrazione),
sono
state
attribuite prima alla DigitPa (Ente
nazionale per la digitalizzazione
della pubblica amministrazione) ed
ora, con la recente legge n.
134/2012, alla AID (Agenzia per
l'Italia Digitale).
L’Agenzia per l’Italia Digitale,
anticipando le previsioni contenute
nel DL 179/2012, ha previsto
un’architettura di riferimento per le
Comunità Intelligenti e un modello di
governance compatibile con quanto
previsto nel decreto all’interno di un
documento rivolto alle pubbliche
amministrazioni. Con riferimento ai
dati l’Agenzia ha poi previsto nelle
“Linee guida per l’interoperabilità
semantica attraverso i linked open
data” un modello di riferimento per i
dati aperti. Il modello permette, ad
esempio, che i dati aperti delle
nostre citta d’arte possano essere
utilizzati da sviluppatori di altri Paesi
interessati a fornire nella propria
lingua servizi a visitatori stranieri6.
Le
iniziative
d’apertura
del
patrimonio informativo avviate in
Italia 7 da parte di pubbliche
amministrazioni centrali e locali
sono molteplici:
 dati.piemonte.it è stato il primo
data store italiano (della
Regione Piemonte) all’interno
del quale sono catalogati dati
aperti riconducibili ai vari enti
regionali (comuni, province,…);
 dati.emilia-romagna.it
(della
Regione Emilia Romagna) è
nato dopo circa un anno dalla
nascita
del
data
store
piemontese, ad ottobre 2011, e
pubblica online il suo catalogo
di dataset.
 dati.gov.it (del Governo), il cui
lancio è avvenuto il 18 ottobre
2011, ha aperto una nuova
stagione per l’innovazione e la
trasparenza
nella
PA,
permettere a tutte le pubbliche amministrazioni
italiane di diffondere i propri dati, con lo scopo
di promuovere la “liberazione” e valorizzazione
dei dati pubblici secondo la linea tracciata dal
Codice dell’amministrazione digitale.
6 Fonte: www.digitpa.gov.it
7 Fonte: www.dati.gov.it
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and the consequences hereof. Nothing in this publication may be multiplied without prior consent of RSM Tax & Advisory Italy. © RSM Tax &
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“asfaltando” la strada verso
l’Open Data italiano.
L’evoluzione dei modelli di gestione
delle informazioni è continuo e per
consentire
il
costante
aggiornamento su tutte le iniziative
di Open Data avviate in Italia, la
redazione di dati.gov.it ha creato un
dataset che descrive i dati catalogati
e
ne
facilita
l’interpretazione
attraverso
un’infografica,
aggiornando altresì periodicamente
il dataset stesso.
3.2 Corte di Giustizia Europea –
La tutela del diritto d'autore on
line
La Corte di Giustizia Europea si è
recentemente espressa in relazione
alla necessità di protezione del
diritto d’autore di opere diffuse nel
web e del ruolo assunto nella
protezione del diritto d’autore da
parte degli Internet Service Provider.
Con le sentenze ai casi Scarlet e
Netlog, la Corte di Giustizia
dell’Unione
Europea
si
è
pronunciata
sul
tema
della
violazione del diritto d’autore on-line;
allo stesso tempo con la sentenza
Bonnier Audio, la Corte si è
espressa sul merito della legittimità
della legge di uno Stato membro
che impone a un operatore internet
di comunicare al titolare del diritto
l’identità di quegli abbonati e degli
utenti internet che abbiano violato,
attraverso sistemi informatici web, il
diritto d’autore.
Le sentenze Scarlet (8) e Netlog (9)
Nella causa intentata presso il
Tribunale di prima istanza di
Bruxelles, avverso il fornitore di
accesso a internet Scarlet, la
società belga di gestione dei diritti
d’autore (SABAM), al fine di
contrastare l’utilizzo di reti peer-topeer per il download senza
autorizzazione
(e
senza
il
pagamento dei relativi diritti) di
opere protette di cui essa risultava
gestore,
ha
contestato
la
responsabilità del fornitore di
8 Causa C-70/10.
9 Causa C-360/10.
accesso a internet chiedendo la
condanna a far cessare le infrazioni
provvedendo, nella sostanza, al
rendere impossibile lo scambio di
dati mediante programmi peer-topeer.
La società Scarlet, condannata in
primo grado, ha proposto appello
sostenendo, tra l’altro, che un
obbligo
di
sorveglianza
sulle
comunicazioni
transitanti
sulla
propria rete avrebbe realizzato una
infrazione del diritto riconosciuto a
livello comunitario in materia di
tutela della privacy e del segreto
delle
comunicazioni,
nonché
sarebbe stata incompatibile con le
norme disposte dalla direttiva
europea sul commercio elettronico.
L’organo giudicante, dunque, ha
sottoposto la questione pregiudiziale
alla Corte di Giustizia Europea.
La stessa SABAM ha promosso
un’azione affinché, ai sensi della
legge belga sul diritto d’autore,
venisse imposto alla società Netlog,
gestore di una piattaforma per il
social networking, di cessare
qualsiasi messa a disposizione (non
autorizzata) di opere musicali o
audiovisive del repertorio della
dante causa.
Netlog ha contestato l’eventuale
accoglimento
della
domanda,
sostenendo che avrebbe comportato
un obbligo generale di sorveglianza,
vietato dalla direttiva europea
(recepita a livello nazionale) sul
commercio elettronico.
Principi normativi
Le due cause rinviate al giudizio
della Corte di Giustizia Europea
pongono questioni pregiudiziali simili
concernenti
l’attuazione
delle
direttive sul commercio elettronico e
sui diritti di proprietà intellettuale in
combinato disposto con le direttive
sulla Privacy 10.
In particolare la Direttiva sul
commercio elettronico impone il
bilanciamento tra la protezione
contro le violazioni sulla rete web e
l’eccessivo
onere
che
tale
10
Direttiva
2000/31/CE
(commercio
elettronico), Direttiva 95/46/CE e Direttiva
2002/58/CE (privacy), Direttiva 2001/29/CE e
Direttiva 2004/48/CE (diritto d’autore e diritti di
proprietà intellettuale).
protezione comporterebbe in capo ai
prestatori di servizi ivi operanti.
Si pensi innanzitutto all’articolo 12
della Direttiva del 2000 sul
commercio elettronico, ai sensi del
quale la società la cui prestazione di
servizio consiste nel trasmettere su
una rete di comunicazione di dati le
informazioni fornite da parte di un
beneficiario di tale servizio, ovvero
le cui prestazioni consistano nel
dare accesso a tale rete di
comunicazione, non è ritenuto
responsabile del contenuto delle
informazioni trasmesse a condizione
che
non
dia
origine
alla
trasmissione, non selezioni il
destinatario della stessa e non
selezioni o modifichi le informazioni
trasmesse11.
Il successivo articolo 14 della
Direttiva prende in esame la
regolamentazione dell’attività di
hosting, la cui prestazione consiste
nella
memorizzazione
di
informazioni
fornite
da
un
committente del servizio. In tale
ipotesi il prestatore del servizio non
è responsabile per il contenuto delle
informazioni memorizzate, purché
esso non sia effettivamente al
corrente che l’attività o che
l’informazione sia illecita e allo
stesso tempo non gli siano noti fatti
o
circostanze
che
rendano
manifesta tale illegalità; inoltre, per
vedersi riconosciuta l’esonero da
qualsiasi azione di responsabilità,
non appena venga al corrente di tali
fatti illeciti, il prestatore del servizio è
tenuto all’immediata rimozione delle
informazioni
o
alla
inibizione
dell’accesso, sebbene debba essere
sempre
tenuto
in
debita
considerazione il rispetto del
principio della libertà di espressione.
Nella disamina sintetica delle norme
della Direttiva sul commercio
elettronico, l’articolo 15 demanda ai
prestatori di servizi di semplice
trasporto, di caching e di hosting un
ruolo di garante delle informazioni,
11 Tuttavia l’articolo 12 lascia la possibilità agli
Stati membri di prevedere che un organo
giurisdizionale possa imporre al prestatore del
servizio l’interruzione o l’inibizione di una
violazione, anche attraverso la rimozione
dell’informazione illecita o la disabilitazione
dell’accesso alla stessa.
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laddove dispone che per essi vi sia
l’obbligo generale di sorveglianza
delle informazioni, dovendo in linea
generale “ricercare attivamente fatti
o circostanze che indichino la
presenza di attività illecite”.
Si deve inoltre considerare che tale
norma si affianca alla previsione
della Direttiva 2001/29/CE che
impone agli Stati membri di
riconoscere agli autori il diritto
esclusivo di autorizzazione o divieto
della comunicazione al pubblico
delle proprie opere, dovendo le
legislazioni nazionali contemplare
adeguate sanzioni e mezzi di ricorso
avverso le violazioni di tali diritti 12 ,
sempre
tenendo
in
debita
considerazione che le procedure e i
mezzi di ricorso devono rispondere
a criteri di lealtà ed equità, non
sfociando quindi in eccessiva
complessità tecnica e burocratica e
non dovendo avere un eccessivo
onere in termini economici e
temporali.
Il contesto normativo quivi descritto,
tuttavia, deve essere completato,
infine, con la più ampia tutela del
diritto alla tutela dei dati personali e
della vita privata riconosciuta ai
cittadini dell’Unione, nonché con il
principio della libera circolazione dei
dati personali.
Orientando l’attenzione dal generale
al particolare, la Corte di Giustizia,
nel caso Netlog, ha stabilito che
laddove un gestore di un social
network memorizzi le informazioni
fornite dai propri utenti (anche
relativamente al profilo personale)
deve essere qualificato come
gestore di servizi hosting, e pertanto
risulta soggetto alla norma di cui
all’articolo 14 della Direttiva sul
commercio elettronico.
Inoltre, i giudici della Corte di
Giustizia Europea, in entrambe le
sentenze in rassegna, hanno
sostenute che i titolari dei diritti di
proprietà
intellettuale
possono
tutelare la propria opera chiedendo
12 La Direttiva 2001/29/CE e la Direttiva
2004/48/CE prevedono, nello specifico, che i
titolari dei diritti di proprietà intellettuale
possano chiedere un puntuale provvedimento
di inibizione nei confronti di quegli intermediari
i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare il
diritto d’autore, ovvero altri diritti connessi
un provvedimento di inibizione nei
confronti degli intermediari i cui
servizi siano utilizzati da terzi per la
violazione del diritto degno di
protezione.
Tuttavia, la Corte ha precisato che
la
Direttiva
sul
commercio
elettronico vieta la promulgazione
da parte dei legislatori nazionali di
misure
che
impongano
agli
intermediari di servizi web un
obbligo generale di sorveglianza
sulle
informazioni.
L’organo
giudiziario comunitario ha dato
particolare enfasi sul tema con
specifico riferimento al divieto di
adozione di misure di vigilanza
generalizzata dei clienti perviste per
i fornitori di accesso a internet e ai
prestatori di servizi hosting.
Il sistema di filtraggio delle
informazioni richiesto dai giudici
nazionali nelle due cause, a parere
della Corte, richiederebbe una
sorveglianza preventiva e attiva
sulle comunicazioni elettroniche e
sui file memorizzati dagli utenti,
imponendo
dunque
proprio
quell’attività
di
vigilanza
generalizzata che sarebbe in
contrasto con le norme della
Direttiva sul commercio elettronico
(articolo 15).
Dati gli oneri imponenti che
comporterebbe, la previsione di tale
sistema di filtraggio, tra le altre cose,
causerebbe una grave violazione
della libertà di impresa del fornitore
di accesso a internet e del
prestatore di hosting, andando a
ledere anche il diritto alla tutela dei
dati personali e la libertà di ricevere
o comunicare informazioni in capo
agli
utenti,
in
quanto
aprioristicamente
e
sistematicamente oggetto di analisi
relativamente a tutti i contenuti
trafficati sulla rete e alle informazioni
relative ai profili generati dagli utenti.
Il rischio in tale ipotesi sarebbe il
blocco delle comunicazioni aventi un
contenuto lecito.
La massima delle sentenze in
commento è quindi la denegazione
dell’applicabilità di ingiunzioni che
costringano gli intermediari web a
predisporre sistemi di filtraggio delle
informazioni, che si applichino
incondizionatamente a tutti gli utenti,
senza limiti di tempo e attraverso
un’azione preventiva e interamente
a proprie spese, in quanto
irrispettosa dell’obbligo di garantire il
giusto equilibrio tra il diritto di
proprietà intellettuale e, d’altro lato,
le libertà d’impresa, di ricevere o di
comunicare informazioni, nonché il
diritto alla tutela dei dati personali.
La sentenza Bonnier Audio (13)
La controversia in dettaglio ha visto
opporre un gruppo di case editrici
titolari dei diritti di riproduzione e
edizione di talune opere in forma di
audiolibro, tra le quali la società
Bonnier Audio, e un operatore
internet reo, a detta delle danti
causa, di aver concesso la
diffusione delle opere protette
attraverso un server di file transfer
protocol.
Le case editrici, rivoltesi al tribunale
nazionale
competente,
hanno
proposto
una
domanda
di
ingiunzione per poter ottenere
dall’operatore
internet
i
dati
personali della persona utilizzatrice
dell’indirizzo IP dal quale parrebbero
essere stati trasmessi i file.
Avverso la sentenza di accoglimento
della domanda, l’operatore internet
ha proposto appello ritenendo
l’ingiunzione contraria alla Direttiva
2006/24/CE sulla conservazione dei
dati in ambito di fornitura di servizi
sulla comunicazione elettronica,
ottenendo
l’annullamento
dell’ingiunzione.
Da tale sentenza di appello, le case
editrici hanno preso le mosse per
promuovere il ricorso alla Corte di
Cassazione, la quale ha sottoposto
la
domanda
di
pronuncia
pregiudiziale alla Corte di Giustizia
Europea relativa alla disapplicazione
di una norma nazionale, introdotta
sulla
base
della
Direttiva
2004/48/CE, che consente al
giudice di emettere un’ingiunzione a
un operatore internet perché
fornisca al titolare del diritto d’autore
o all’avente causa di questi
informazioni
sull’assegnatario
dell’indirizzo IP utilizzato ai fini della
violazione del diritto.
13 Causa C-461/10.
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Secondo la Corte, la Direttiva
2006/24/CE risulta considerata fuori
della propria sfera di applicazione
rispetto alla normativa statale
oggetto di domanda pregiudiziale,
pertanto il riferimento fatto nel
giudizio è alla Direttiva 2002/58/CE
e alla Direttiva 2004/48/CE14.
L’articolo 15 della Direttiva del 2002
sulla tutela della privacy prevede
specifiche deroghe alla protezione
dei dati personali e della vita privata
in ipotesi in cui il trattamento dei dati
è consentito: è dunque consentito
agli Stati membri di adottare norme
che limitino i diritti e gli obblighi
previsti
dalle
norme
sulla
riservatezza delle comunicazioni e
sul trattamento dei dati sul traffico.
La deroga, tuttavia, deve essere
giustificata dalla necessità, dalla
opportunità e dalla proporzionalità
della
misura
rispetto
alla
prevenzione, tra le altre cose,
dell’uso non autorizzato del sistema
di comunicazione elettronica.
L’articolo 8 della Direttiva sul diritto
d’autore, invece, prevede che nei
procedimenti relativi alla violazione
di un diritto di proprietà intellettuale,
se il richiedente ha espresso una
domanda
giustificata
e
proporzionata, l’organo giudiziario
nazionale competente può imporre
che vengano fornite le informazioni
sull’origine e sulle reti che violano
un diritto d’autore.
La Corte ha ritenuto che la
comunicazione di carattere puntuale
al fine di garantire la tutela del diritto
d’autore
rientra
nell’alea
di
applicazione della Direttiva sui diritti
di proprietà intellettuale, in quanto
l’obbligo di trasmissione a soggetti
privati di dati personali per l’avvio di
procedimenti avverso violazioni del
diritto d’autore non è escluso dalla
potestà legislativa nazionale.
3.3 Agevolazioni per le start-up in
attesa di definizione
A completamento di quanto riportato
nell’articolo “Start-up innovativa ed
incubatore di start-up innovative
certificato”
pubblicato
nella
precedente Newsletter E-Tax del
14 Cfr. nota 3
mese di ottobre 2012, torniamo a
trattare delle start-up con particolare
riferimento all’applicabilità delle
agevolazioni fiscali.
Come già noto, il D.L. 179/2012
(Decreto Sviluppo 2.0), entrato in
vigore lo scorso 20 ottobre ma non
ancora convertito in legge, disciplina
le misure per le cosiddette imprese
start-up innovative.
Innanzitutto si tratta di novità che, a
meno di modifiche al testo in sede di
conversione, trovano applicazione
limitatamente per un periodo di
quattro
anni
dalla
data
di
costituzione della società start-up15,
ovvero per il più limitato periodo
previsto dallo stesso per le società
già costituite16.
Tuttavia un requisito fondamentale,
indispensabile per poter beneficiare
delle
disposizioni
(di
favore)
introdotte dal Decreto, è l’iscrizione
15 Relativamente alle società di nuova
costituzione, l’art. 31, comma 4, del D.L.
179/2012 prevede che “[…] in ogni caso, una
volta decorsi quattro anni dalla data di
costituzione,
cessa
l'applicazione
della
disciplina prevista nella presente sezione,
incluse le disposizioni di cui all'articolo 28,
ferma restando l'efficacia dei contratti a tempo
determinato stipulati dalla start-up innovativa
sino alla scadenza del relativo termine”.
Ne consegue che, decorsi 4 anni dalla data di
costituzione della start-up innovativa, non è più
possibile avvalersi della disciplina di favore
riconosciuta dal D.L. 179/2012 in ambito
societario, fiscale e occupazionale.
16 Con riguardo alle società già costituite alla
data di entrata in vigore del decreto (20 ottobre
2012) e in possesso dei requisiti, sono
considerate start-up innovative ai fini del
presente decreto se entro 60 giorni (ovvero
entro il 19 dicembre 2012) depositano presso il
registro delle imprese una dichiarazione
sottoscritta dal rappresentante legale che
attesti il possesso dei requisiti previsti al
comma 2 dell’art. 25 del decreto. La disciplina
della start-up innovativa trova applicazione
dunque anche a favore delle società già
costituite, tuttavia, in questo caso, è prevista
una durata variabile della disciplina di favore
collegata all’anzianità della società. Per tali
società la nuova disciplina si applica nei
seguenti limiti:
… a decorrere dal 20
Se la start-up
ottobre
2012
la
innovativa
è
disciplina
troverà
stata costituita
applicazione per un
entro …
periodo di …
i 2 anni
4 anni
precedenti
i 3 anni
3 anni
precedenti
I 4 anni
2 anni
precedenti
delle
start-up
innovative
in
un’apposita sezione speciale del
Registro delle imprese. Ricordiamo,
infatti, che l’articolo 25, comma 8,
del DL n. 179/2012 ha previsto
espressamente l’istituzione, da parte
delle Camere di Commercio, di
un’apposita sezione speciale del
Registro delle imprese, stabilendo
per le start-up innovative e per gli
incubatori certificati l’obbligo di
iscrizione alla predetta sezione e di
successivo aggiornamento delle
informazioni con cadenza periodica,
a pena di inapplicabilità delle
agevolazioni.
Pertanto, si sottolinea che, affinché
le norme diventino effettivamente
operative, sarà necessario attendere
ancora. Difatti, le disposizioni di
favore di tipo societario (come il
differimento di 1 anno degli
adempimenti obbligatori rispetto ai
termini ordinari – per perdite
superiori a 1/3 del capitale che
portano il capitale al di sotto del
limite
legale
o
meno)
e
occupazionale (come la possibilità di
stipulare
contratti
a
tempo
determinato, per un periodo di 4
anni dalla data di costituzione,
derogando al limite generale dei 36
mesi) non sono ancora operative,
proprio
perché
in
attesa
dell’istituzione dell’apposita sezione
nel Registro delle imprese.
In aggiunta a quanto specificato,
altre disposizioni di favore ad hoc
previste per le start-up (come si
vedrà più avanti) risultano essere
ulteriormente rallentate, poiché in
attesa dell’emanazione dei decreti
attuativi.
La norma prevede, infatti, anche
agevolazioni di carattere fiscale:
 Detrazione IRPEF del 19%
degli investimenti nel capitale
della start-up (25% per le start
up operanti in ambito sociale o
energetico);
 Deduzione IRES del 20%
degli investimenti nel capitale
della start-up (27% per le start
up in ambito sociale o
energetico);
 Detassazione
della
remunerazione
tramite
strumenti finanziari della startup
per
amministratori,
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


dipendenti
e
collaboratori
continuativi;
Non
applicabilità
della
disciplina delle società di
comodo;
Non
applicabilità
della
disciplina delle società “in
perdita sistematica per i tre
periodi
d’imposta
consecutivi”;
Esonero dal versamento dei
diritti di bollo e di segreteria,
nonché del diritto annuale
alla CCIAA.
In merito alle modalità attuative della
disciplina di favore prevista per le
start-up innovative, l’art. 29 del D.L.
179/2012, ai commi 8 e 9, prevede
che:
“Con
decreto
del
Ministro
dell'economia e delle finanze, di
concerto con il Ministro dello
sviluppo economico, entro 60 giorni
dalla data di entrata in vigore del
presente decreto, sono individuate
le modalità di attuazione delle
agevolazioni previste dal presente
articolo.
L'efficacia della disposizione del
presente articolo è subordinata, ai
sensi dell'articolo 108, paragrafo 3,
del Trattato sul funzionamento
dell'Unione
europea,
all'autorizzazione
della
Commissione europea , richiesta a
cura del Ministero dello sviluppo
economico.”
Ciò implica che, per quanto riguarda
la detrazione IRPEF (19%) e la
deduzione
IRES
(20%),
è
necessario un apposito decreto,
previsto entro 60 giorni dalla data di
entrata in vigore del D.L. 179/2012
(20 ottobre 2012), recante le
modalità
attuative
delle
agevolazioni.
L’efficacia
della
disposizione è peraltro anche
subordinata all’autorizzazione della
Commissione europea, secondo
quanto stabilito dall’articolo 108,
comma 3 del Trattato Ue.
Il risultato è quindi che le
agevolazioni di carattere fiscale di
cui ai punti 1) e 2), rimangono,
almeno per il momento, in stand-by.
4. Flash delle sentenze e delle
prassi
4.1
Detraibilità
dell’IVA
in
presenza
di
operazioni
soggettivamente inesistenti
(Cassazione sentenza n. 18009 del
19 ottobre 2012)
“In tema di IVA relativa ad
operazioni inesistenti, il committente
- cessionario, al quale sia contestata
la detrazione dell’IVA, versata in
rivalsa al soggetto, diverso dal
cedente-prestatore, che tuttavia ha
emesso la fattura, ha il diritto di
detrarre l’imposta soltanto se provi
che non sapeva o non poteva
sapere
di
partecipare
ad
un’operazione fraudolenta ed in
particolare se dimostri almeno una
di queste due circostanze e cioè di
non essersi trovato nella situazione
giuridica oggettiva di conoscibilità
delle
operazioni
pregresse
intercorse tra il cedente ed il
fatturante in ordine al bene ceduto,
oppure, nonostante il possesso della
capacità
cognitiva
adeguata
all’attività professionale svolta in
occasione
dell’operazione
contestata, non sia in grado di
abbandonare lo stato di ignoranza
sul carattere fraudolento delle
operazioni degli altri soggetti
collegati all’operazione.”
Questo è quanto è stato sancito
dalla Corte di Cassazione nella
sentenza 18009 depositata il 19
ottobre 2012.
In sostanza la sentenza è favorevole
al contribuente, al quale viene
riconosciuta la detrazione dell’IVA
relativa ad acquisti soggettivamente
inesistenti,
in
quanto
la
Commissione Tributaria Regionale
(giudice di merito) aveva già
accertato che la società non poteva
conoscere la natura di cartiera della
emittente
essendo
quest’ultima
dotata di struttura, personale, mezzi
di
trasporto
ed
uffici,
ed
“indipendentemente dalla questione
su quale fosse il soggetto cui
dovesse essere attribuito l’onere
probatorio in proposito”. Ma nella
sentenza in commento, su questo
specifico tema dell’onere probatorio,
la Suprema Corte ha comunque
ribadito il principio secondo cui in
tema di Iva relativamente ad
operazioni
soggettivamente
inesistenti, il committente al quale
sia
contestata
la
detrazione
dell’imposta ha diritto alla detrazione
se prova che non sapeva o non
poteva sapere di partecipare a
un’operazione fraudolenta.
La Suprema Corte in questa
sentenza non ha quindi ancora fatto
proprio l’orientamento della Corte di
Giustizia, secondo cui, dato che il
diniego del diritto alla detrazione è
un’eccezione all’applicazione di un
principio
fondamentale,
spetta
all’amministrazione
dimostrare
adeguatamente
gli
elementi
oggettivi
che
consentono
di
concludere che il contribuente era a
conoscenza della frode posta in
essere da terzi.
Per completezza segnaliamo che la
Corte di Cassazione, con la
sentenza 18446 del 26 ottobre
2012,
in
coerenza
con
l’orientamento
della
Corte
di
Giustizia sopra illustrato, ha sancito
che spetta in prima battuta
all’amministrazione provare che le
operazioni indicate in fattura non
sono state poste in essere. Solo se
l’Ufficio fornisce validi elementi per
affermare che alcune fatture sono
state emesse per delle operazioni
fittizie, allora, a questo punto, tocca
al contribuente dimostrare l’effettiva
esistenza delle operazioni.
4.2 Estinzione di
rapporti con l’Erario
società
e
(Cassazione sentenza n. 14880 del
5 settembre 2012)
Con la sentenza in esame, la
Suprema Corte è tornata sul tema
degli effetti della estinzione di una
società nei rapporti con l’Erario, con
specifico riferimento alla notifica di
atti impositivi.
L’oggetto del contezioso ruotava,
infatti, intorno alla legittimità della
notifica di un atto impositivo a mani
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del liquidatore di una società estinta
molti anni prima.
La Corte di Cassazione, ribadendo
principi
espressi
nel
recente
passato, ha evidenziato innanzitutto
che la cancellazione dal registro
delle
imprese di una società
determina l'estinzione del soggetto
giuridico e la perdita della sua
capacità processuale.
Nel caso di specie, quindi, l’atto
impositivo è stato erroneamente
notificato al liquidatore, dato che gli
obbligati sono i soci partecipi della
comunione dei beni residuati o
sopravvenuti alla estinzione: in
applicazione di tale principio, la
Corte ha chiarito che un contenzioso
tra una
Agenzia
fiscale ed il
liquidatore di una società estinta,
al quale sia stata erroneamente
notificata, come nella specie, una
cartella esattoriale per debiti della
società, ha ad oggetto una lite
sostanzialmente
"improponibile",
perché la cartella a suo tempo
notificata è priva
di efficacia a
cagione
della
già
avvenuta
estinzione del
soggetto passivo
dell'obbligazione afferente.
4.3 Il centro prevalente di
interesse
economico
come
criterio per la determinazione
della residenza fiscale
(CTR Liguria, Sez. I, sentenza n. 87
del 13 luglio 2012)
Con la pronuncia in esame la
Commissione regionale ligure si è
espressa in merito all’individuazione
della residenza fiscale dei soggetti
iscritti all’AIRE ed in particolare per
coloro che si sono stabiliti in Paesi
“a fiscalità privilegiata” (nel caso
trattato il Principato di Monaco): un
contribuente che ha spostato
all’estero il centro dei suoi interessi
sociali e personali, oltre che la
propria residenza anagrafica, deve
comunque considerarsi fiscalmente
residente in Italia se vi mantiene
interessi economici prevalenti.
Il caso all'esame dei giudici regionali
scaturisce da un accertamento ex
art. 41 bis del DPR 600/72 nei
confronti di un contribuente, che, nel
2004, aveva omesso di dichiarare al
fisco italiano il reddito di alcuni
immobili e redditi assimilati a quelli
di lavoro dipendente.
A
seguito
dell’accertamento
dell’Ufficio, il contribuente ha
dapprima proposto ricorso in primo
grado. La Commissione tributaria
provinciale di Genova ha respinto il
ricorso
sostenendo
che
il
contribuente non aveva provato in
maniera sufficiente la residenza
all’estero in relazione all’esistenza di
domicilio fiscale in Italia, ove il
contribuente risultava intrattenere
regolari rapporti, quali la stipula di
contratti assicurativi, patrimoniali e
di lavoro dipendente.
Il contribuente ha successivamente
proposto riscorso in appello presso
la Commissione tributaria regionale.
In quella sede il contribuente
sottolineava di aver provato il
trasferimento della propria residenza
anagrafica nel Principato di Monaco,
affermando
di
essere
iscritto
all’AIRE e producendo una serie di
documenti relativi ad utilizzo di conti
correnti,
immatricolazione
di
automobili, utenze, onorificenze
ricevute che dimostravano la sua
effettiva presenza nel territorio
monegasco; ciò al fine di vincere la
presunzione ex art. 2 comma 2-bis
del TUIR, essendo il Principato
inserito nella “Black list” di cui al DM
4 maggio 1999.
La Commissione regionale ha,
tuttavia, ritenuto non fondati i motivi
dell’impugnazione
confermando
quindi il giudizio di primo grado e
respingendo l’appello promosso dal
contribuente.
In particolare, secondo i Giudici, il
contribuente
ha
effettivamente
provato di aver stabilito la residenza
anagrafica nel Principato di Monaco.
Tuttavia, tale aspetto secondo i
Giudici, deve essere valutato in
relazione alla presenza di un
prevalente centro di interessi in
Italia. In altre parole i Giudici
ritengono che il contribuente abbia
fornito valide prove in ordine alla
dimostrazione
della
residenza
all’estero limitatamente ai soli
aspetti di carattere sociale e
assistenziale; viceversa rimanendo
carenti le prove fornite in ordine alla
consistenza del centro di interessi
all’estero ovvero la presenza di
redditi tali da dimostrare la
prevalenza del centro di interessi
all’estero rispetto a quello esistente
in n Italia.
Il punto essenziale della sentenza in
commento è dunque la distinzione
tra gli interessi sociali e personali,
che di per sé non sono sufficienti ad
escludere la residenza o il domicilio
in Italia, da quelli economici,
quest’ultimi considerati come quelli
rilevanti ai fini fiscali.
4.4
Procedimento
di
accertamento con adesione e
sospensione dei termini per
ricorrere
(Cassazione sentenza n. 17439 del
12 ottobre 2012)
L’instaurazione del procedimento di
accertamento con adesione (ex D.
Lgs. n. 218/97) determina, in base
all’art. 6 del menzionato decreto, la
sospensione per 90 giorni dei
termini di impugnazione dell’atto di
accertamento.
Nel recente passato il principio di
intangibilità di tale sospensiva è
stato confermato anche dalla Corte
Costituzionale, che con ordinanza n.
140 del 15 aprile 2011 ha
evidenziato come la conclusione
negativa del procedimento non
incida comunque sul menzionato
termine.
A
tale
regola,
però,
la
giurisprudenza ha affiancato alcune
pronunce che mirano a disapplicare
tale principio in presenza di
situazioni nelle quali è ravvisabile un
utilizzo “non fisiologico” dell’istituto.
Con la sentenza n. 17439 dello
scorso 12 ottobre la Corte di
Cassazione ha analizzato un
procedimento di adesione nel corso
del quale, ad un certo punto, il
contribuente aveva espressamente
rinunciato a proseguire nel tentativo
conciliativo.
Per i giudici una siffatta rinuncia al
contraddittorio fa venire meno la
sospensione di 90 giorni in quanto si
ricade nell’ambito di applicazione
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dell’art. 6 comma 3 del D.
Lgs.218/97, in base al quale
l’impugnazione dell’atto comporta
rinuncia all’istanza.
È quindi da considerarsi tardivo il
ricorso laddove la somma dei giorni
decorsi prima dell'inizio della
procedura di accertamento con
adesione e di quelli decorsi dopo la
rinuncia alla stessa superi la somma
del
termine
ordinariamente
concesso (60 giorni oltre eventuale
sospensione feriale) più il periodo
tra la proposizione dell’istanza di
accertamento con adesione e la
data di rinuncia espressa, atteso
che la sospensione del termini
per
ricorrere,
connessa
alla
semplice
presentazione
della
domanda, viene meno allorché in
modo espresso o comunque
inequivocabilmente quella domanda
viene revocata, non essendo più
sorretta
dalla
volontà
del
contribuente
di proseguire le
trattative.
Sul tema è da segnalare, infine, che
con la recente sentenza n. 73 del
18 luglio 2012 la CTP di Treviso ha
statuito che la mera presentazione
dell’istanza di adesione, senza che
ad essa segua alcuna attività da
parte del contribuente, manifesta
una volontà meramente dilatoria dei
termini, e perciò a tale fattispecie
non è applicabile la sospensiva di
90 giorni.
4.5
L’Agenzia
che
ritarda
l’autotutela va condannata alle
spese
(CTR Milano, sentenza 85/30/12 del
26 marzo 2012)
Se l’Amministrazione finanziaria
ritarda
l’emanazione
di
un
provvedimento
di
autotutela,
costringendo
nel
frattempo
il
contribuente a difendersi innanzi alle
Commissioni Tributarie, deve essere
condannata al sostenimento delle
spese di giudizio.
Tale conclusione, raggiunta dai
giudici di II grado della Lombardia,
come
si
vedrà
riflette
un
orientamento
giurisprudenziale
sempre più consolidato, e si è
basata sul seguente caso.
Un contribuente riceveva la notifica
di un cd. “avviso bonario”, con il
quale l’Amministrazione finanziaria
pretendeva una somma ingente a
titolo di omesso versamento di
imposte.
Poiché i versamenti erano stati
regolarmente
eseguiti,
il
contribuente presentava istanza di
autotutela, la quale rimaneva però
inevasa, obbligando la parte ad
adire il contenzioso.
Come spesso accade, solo a
ridosso dell’udienza di primo grado
l’Agenzia delle Entrate riconosceva
l’errore, comunicando l’avvenuto
sgravio delle somme richieste: il
giudice di prime cure dichiarava
estinto il giudizio per cessata
materia del contendere, ed al
contempo dichiarava compensate le
spese di giudizio.
La parte appellava con riferimento
alla mancata condanna alle spese,
eccependo su tale aspetto la
mancanza di motivazione nella
sentenza di I grado, e sottolineando
l’inerzia
dell’Amministrazione
finanziaria,
che
aveva
colpevolmente ritardato l’emissione
del provvedimento di autotutela.
I giudici di II grado, accogliendo
l’appello della parte, hanno ricordato
che la compensazione può essere
disposta
solo
quando
vi
è
soccombenza reciproca o qualora
concorrano
altre
gravi
ed
eccezionali ragioni esplicitamente
indicate nella motivazione: nel caso
di
specie,
mancando
tale
motivazione e risultando evidente la
negligenza dell’ufficio, “con la
conseguente necessità ed aggravio
per la società contribuente di
instaurare un giudizio per ottenere la
declaratoria del proprio diritto”,
l’Amministrazione è stata così
chiamata a rifondere le spese di
giudizio.
La sentenza si allinea alle recenti
statuizioni
della
Corte
di
Cassazione, in base alle quali la
compensazione delle spese, nel
caso di cessazione della materia del
contendere, si traduce in un
ingiustificato privilegio per la parte
che
pone
in
essere
un
comportamento
di
regola
determinato dal riconoscimento
della fondatezza delle altrui ragioni
e, corrispondentemente, in un
ingiustificato pregiudizio per la
controparte, specie quella privata,
obbligata
ad
avvalersi
dell’assistenza
tecnica
di
un
difensore (si vedano le sentenze n.
21380/2006 e n. 5120/2011).
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