IL MESSAGGERO SARDO 14 OTTOBRE 2003 F a notizia, in Sardegna come oltre Tirreno, Ballo a tre passi, un film “sardo”, o più semplicemente ambientato nell’isola e diretto da un regista di Dorgali, Salvatore Mereu. Selezionata per il festival di Venezia, la pellicola vince la Settimana della critica (sorta di passaporto internazionale per i giovani cineasti) e ottiene una menzione speciale della giuria. La storia potrebbe chiudersi qui – e già sarebbe un trionfo – ma i produttori del film non si accontentano: usano bene i soldi del premio (da investire in pubblicità) e programmano un’uscita a tappeto in Sardegna (undici copie, praticamente tutte le località sarde provviste di cinematografo) e nelle principali città del Continente. Così, dopo l’ottima accoglienza critica, anche il pubblico risponde. Nell’isola Ballo a tre passi insidia i “blockbuster” americani. A Roma, Milano, Bologna, Firenze, la gente si mette in fila per vedere un film parlato in sardo con i sottotitoli italiani: mai successo. È un caso che, ovviamente, travalica l’appartenenza regionale, pur fortissima; ed anzi quest’appartenenza esibita motiva l’interesse nazionale e internazionale, tanto che il film viene invitato ai maggiori festival internazionali, in USA come in Europa o in Asia. (Infine, potenza del caso anche mediatico, Mereu e il suo attore Michele Casula vengono invitati ad una puntata speciale del Maurizio Costanzo Show dedicata al cinema italiano.) Inevitabile la discussione tra il pubblico, fino ad ora sommessa: Internet rivela pareri di spettatori comuni discordanti. Il film è bellissimo, poetico, legato ad una Sardegna reale ma quotidiana; no, è banale, noioso, senza storia, e pieno di luoghi comuni sulla Sardegna. Si scatenano i confronti tra Ballo a tre passi, e le ultime pellicole sarde di Pau, Columbu, Sanna, Grimaldi, e persino Cabiddu. Ottimo segno: prima d’ora, ogni dibattito sul cinema in Sardegna, persino nel versante intellettuale, rimaneva ancorato alla celebre, quanto discutibile, scomunica di Michelangelo Pira: “I Sardi non si sono mai riconosciuti nei film girati nell’isola”. Ma la modesta opinione di chi scrive – pur orgoglioso di questo meritatissimo exploit di Mereu – è che rinchiudere Ballo a tre passi entro i ristretti confini della riconoscibilità (o non riconoscibilità) sarda, equivale a soffocarlo. Che cosa racconta Mereu del proprio paese? Un gruppo di bambini si reca in una spiaggia e vede il mare per la prima volta. Un pastore che ha portato il suo gregge in montagna, scende sulla costa per vendere il suo formaggio ed ha un’effimera storia d’amore con una turista francese. Una suora di clausura torna al suo paese per partecipare al matrimonio della cugina. Un vecchio pensionato attende la CINEMA Successo del film di Salvatore Mereu regista di Dorgali premiato dalla critica al Festival di Venezia BALLO A TRE PASSI UNO SGUARDO SULLA SARDEGNA di Gianni Olla fine del mese, cioè la pensione, per concedersi un incontro con una prostituta un po’ speciale. L’epilogo onirico non va raccontato, ma chi conosce il cinema di Fellini… Non è propriamente un film ad episodi. Tempi (lo scorrere delle stagioni) e spazi (luoghi contigui, almeno sullo schermo) sono, in un certo senso, unitari, ed alcuni personaggi fanno da tramite tra i vari blocchi, veri e propri frammenti di una narrazione fissata in non molte sequenze e tante ellissi. Il significato è dato per accumulo: il viaggio esistenziale parte alla grande con l’ingenua festa dei bambini, prosegue con l’iniziazione erotica del pastore, si blocca nei pochi momenti di festa a cui partecipa la donna votata al distacco dal mondo. Infine, al vecchio, prima di morire, resteranno solo i ricordi. Anche se l’occasione di girarlo è partita da un cortometraggio a tema (il mondo dell’infanzia) e su commissione (l’Istituto Superiore Regionale Etnografico di SALVATORE MEREU: UN RACCONTO UNIVERSALE CHE PARTE DA SU CONNOTTU S alvatore Mereu, 38 anni, nato e vissuto a Dorgali, ha studiato alla Scuola Nazionale di Cinema diplomandosi nel 1998. Ha esordito con due cortometraggi, entrambi ambientati in Sardegna, Prima della fucilazione (saggio di diploma) e Miguel, premiato al festival del cortometraggio di Bologna nel 2001. Ballo a tre passi è il suo primo lungometraggio Il titolo del film è una semplice evocazione di un episodio. Durante una festa di matrimonio la pioggia costringe i partecipanti a rifugiarsi sotto il loggiato di una casa di campagna. Improvvisamente qualcuno attacca un altoparlante: a quel punto giovani e vecchi a ballare “su ballu tundu”. Tra loro c’è anche la cugina della sposa, una suora di clausura che ha lasciato il convento per qualche giorno. Se vogliamo è uno dei tanti contrappunti di felicità, magari effimera, che esplodono durante il film, e forse racchiude anche il significato generale, o almeno uno dei suoi temi. (...) (Il film) Io ho cercato di costruirlo come un unico percorso e spero che il pubblico lo percepisca così. D’altro canto, sul piano generale c’è un’eviden- te coesione temporale e i protagonisti di ogni vicenda appaiono di scorcio anche nelle altre; infine tutti i personaggi ricompaiono nel finale, creando una contiguità anche spaziale. (.) Che cosa significa “etnico”? Uno cerca di raccontare quello che conosce. Io sono nato lì, a Dorgali, vicino a Nuoro, in quelle terre dove è ambientata parte del film. (...) Personalmente sono convinto che si possa raccontare bene solo ciò che si conosce davvero. (La lingua sarda usata nel film) Non è un manifesto politico (...) C’è stato un approdo naturale. Ho provato a raccontare gente della mia terra, la faccio parlare così come si esprime naturalmente. Non c’è un piano in questo senso, né c’era la volontà di confrontarsi con i professionisti dell’identità (...) La scena d’amore può risultare persino provocatoria, magari perché va ad infrangere un luogo comune che vede un personaggio come il pastore Michele risoluto in situazioni come queste, persino “macho” ed invece si racconta di una persona alle prime armi. (...) Questo non vuol dire che quel personaggio e tante altre storie che vengono raccontate nel film debbano diventare un simbolo o assurgere a paradigma. (...) Gianni Amelio ha detto che l’ebbrezza di mischiarsi ai personaggi, di vivere con loro l’avventura del film, è di gran lunga più importante del decidere il tipo di inquadratura o il movimento di macchina. È certo una provocazione, ma dà il senso della coralità, e soprattutto della contiguità con i personaggi che ho cercato di realizzare: catturare volti e suoni, atteggiamenti, modi di dire. Certo l’approccio locale non esclude la metafora universale e, a sua volta, nel realismo ambientale e caratteriale s’innestano motivi onirici e surreali che credo siano ben visibili. Ma, alla fine, i due aspetti sono comunque indivisibili, e io spero che Ballo a tre passi sia giudicato dal pubblico, anche quello sardo, prima di tutto come un film. Poi si potranno anche sottolineare la provenienza geografica e la visione del mondo sardo contemporaneo di Salvatore Mereu, ma questo vale per tutti i registi, compreso Fellini: senza le radici riminesi sarebbe stato un artista diverso. Vale ancora, insomma, il detto di Tolstoj: “racconta il tuo paese e sarai universale.” Nuoro), la riuscita del film si può misurare proprio dalla capacità di far avanzare una sorta di apologo esistenziale seguendo le stagioni reali e quelle della vita, senza nessuna sovrapposizione filosofica. Basta la quotidianità della gente comune. La Sardegna che c’è. Gli spettatori si possono accomodare: tante le specificità isolane, ma certo non esclusive. Due luoghi ricorrenti, montagna e mare, cioè isolamento e modernità, segni di opposizione anche formale che percorre tutto il film. E ancora la “balentia” presumibilmente alcolica degli adulti che insegnano a sparare ai bambini, durante la festa di nozze: la morte contro la vita, altro tema centrale. Infine il contrasto tra la bellezza di “Pischina Urtadala”, luogo di un amplesso “selvaggio” alla “Padre padrone”, e il gesto del pastore che pesca (si fa per dire) le trote nel laghetto con i cavi elettrici. La libertà di raccontare le contraddizioni e persino le brutture della propria terra fa parte della forza di un autore, come hanno già dimostrato Giovanni Columbu con «Arcipelaghi» e Piero Sanna con «La destinazione». Antropologia e favola. Fino ad ora, la più bella e sintetica definizione critica del film, appartiene a Tullio Kezich: “ha radici nell’antropologia, ma rami e foglie nella favola”. L’antropologia di Ballo a tre passi è quasi un dato naturalistico (o forse Zavattiniano, cioè neorealista): si vede una Sardegna che c’è, al di là di ogni impossibile ricerca archetipa che la possa rappresentare per intero. L’universalismo della favola (amara, leopardiana, intessuta di esaltazioni erotiche infantili e rimpianti della maggior età) rientra in quella celebre frase di Tolstoj, usata spesso dal poeta scrittore Francesco Masala: “racconta il tuo paese e descriverai il mondo”. Negli ultimi anni, gli spettatori italiani più curiosi e avvertiti hanno visto altre pellicole che potrebbero essere accostate, anche in termini formali e stilistici, a Ballo a tre passi: provenivano dalla Cina, dall’Iran, dai Balcani, dalle repubbliche ex sovietiche, luoghi che, in passato, hanno comunicato ben poco con il resto del mondo in termini cinematografici e culturali. Alcune di queste opere, firmati da autentici maestri (Kusturica, Zhang Yimou, Kiarostami) hanno sbancato i festival di tutto il mondo. Per lo spettatore europeo o americano, quelle visioni erano appunto radicate nell’antropologia o nella storia locale, e contemporaneamente universali, favolistiche o meno. Anche per Ballo a tre passi occorrerebbe uno sforzo di “distanziamento”: vederlo come un film arrivato da un “paese lontano” che non siamo sicuri di conoscere interamente, ma di cui apprezziamo la straordinaria potenza evocativa, tipica del buon cinema.