ELEONORA PITTALIS* ESERCIZI DI ANTROPOLOGIA DELLA NARRAZIONE IN UNA CLINICA NEUROPSICHIATRICA ROMANA ANTHROPOLOGICAL EXERCISES OF NARRATIVE IN A NEUROPSYCHIATRIC CLINIC IN ROME RIASSUNTO L'articolo ripercorre i risultati di una ricerca etnografica intrapresa all'interno di una Casa di cura romana a indirizzo neuropsichiatrico. All'interno della clinica sono state ascoltate e raccolte le storie di vita di alcuni pazienti in essa ricoverati. La ricerca si interroga sulle potenzialità degli strumenti antropologici in un contesto clinico attraverso la sperimentazione del dispositivo di mediazione etnoclinica. L'esercizio etnografico dell'ascolto permette di indagare il rapporto tra la costruzione diagnostica della vita dei pazienti e la narrazione come pratica di decostruzione nosografica. L'analisi delle testimonianze raccolte restituisce informazioni sulle interpretazioni e il senso che i soggetti attribuiscono all'esperienza di malattia in relazione al radicamento con il proprio tessuto culturale e con le pratiche medicopsichiatriche. Vengono prese in rassegna, inoltre, le modalità attraverso le quali la sofferenza psichica si radica e interagisce con lo spazio sociale, con il mondo produttivo, normativo e relazionale. SUMMARY The article analyzes the results of an ethnographic research conducted in a neuropsychiatric clinic located in Rome, by collecting the life stories of some patients in care. * Dottore magistrale in Discipline Etnoantropologiche (Università degli Studi "Sapienza" di Roma Dipartimento di "Storia, Culture, Religioni"), perfezionata in Mediazione Etnoclinica presso il Centro Studi Sagara, l'autrice si occupa di etnopsichiatria, antropologia della narrazione, salute, malattia e politiche globali. 69 Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2015 The research questions the potentiality of anthropological tools within a clinical context by experimenting the ethnoclinic mediation. The ethnographic exercise of listening allows the investigation of relationship between the diagnostic construction of patients' life and the narrative as practice of nosographic deconstruction. The analysis of the interview provides information about the interpretations by people and the sense that they attribute to the experience of illness in connection with their cultural roots and the medical- psychiatric practices. Therefore, this article reviews the ways in which mental disease is rooted and interacts with the social space, with the productive, normative, relational world. Introduzione Il tema della salute mentale sembra essere oggi di competenza esclusiva degli ambiti scientifici, dei reparti clinici e ospedalieri oppure dell'intimità e della solitudine dei soggetti che si ritrovano a convivere e combattere con il peso che la sofferenza psichica assume. Il clamore della riforma apportata dalla Legge 180 è stato ormai da tempo silenziato e i temi concernenti la salute mentale, le modalità di presa in cura - e tutto ciò che vi è naturalmente connesso - non appaiono all'ordine del giorno né dell'opinione pubblica né, tantomeno, degli ambiti politicamente e criticamente più attivi. Il disagio psichico per i "non addetti ai lavori" sembra avvolto da una nebulosa di interrogativi e viene spesso rifiutato o semplificato poiché appare spaventoso e difficilmente decifrabile. Tuttavia, il lessico della "follia" continua a costellare il linguaggio corrente e, instancabilmente, a creare immaginario, descrivere personalità, mettere in guardia-da, mentre, nella progressiva esposizione a fattori di rischio e tensione che caratterizza le società odierne, il malessere psichico e psicologico trova sempre più radicamento, prende nomi differenti e si mostra sotto inaspettate spoglie. Sembrerebbe dunque che non esista alternativa possibile ai dispositivi istituzionali che conosciamo, ovvero che "i matti", i "depressi", gli "psicotici" e i "disturbati" siano affare esclusivo delle strutture di salute mentale, restando confinati in una vera e propria alterità interna alla nostra società. In un tale contesto, inoltre, due processi tra loro connessi appaiono consolidarsi in modo allarmante, rapido e incrociato, su ciò che concerne la salute mentale e, più in generale, il benessere della popolazione: da un lato l'allargamento esponenziale dei criteri diagnostici e della nosografia medico-psichiatrica per cui un numero sempre maggiore di esperienze vengono categorizzate come patologiche; dall'altro la proliferazione di vite sempre più precarie e incerte che pone fortemente in crisi le stesse 70 Pittalis E. Esercizi di Antropologia della Narrazione... possibilità di esistenza e di condurre una vita qualitativamente dignitosa e "in salute". In queste congiunture le istituzioni medico-psichiatriche finiscono per essere convocate in modo quasi esclusivo a una formalizzazione patologica di tali esperienze, a una sorta di nosografia d'urgenza di alcune forme del comportamento umano, alla riconfigurazione in sintomatologie "riconoscibili" delle più disparate (quando non disperate) esperienze individuali e collettive. Lo spaesamento dei soggetti appare così avanzare incessantemente, minando la possibilità per sempre più persone di collocarsi all'interno del tessuto sociale e produttivo, trovare "il proprio posto nel mondo" e riconnettersi agli altri. Da questo punto di vista le riflessioni "storicamente profonde" di Ernesto De Martino risultano particolarmente calzanti: le esperienze di sofferenza psichica rappresentano una crisi, un vero e proprio «crollo del soggetto rispetto al tessuto culturale» (De Martino 1977) al quale appartiene, e proprio in conseguenza dei tentativi di adeguamento e radicamento ad esso. La sofferenza emerge, allora, piuttosto, come un fatto prettamente sociale «che ribadisce la necessità di andare contro natura, di cogliere i processi costitutivi di ciò che più diamo per scontato, per dato e dunque normale» (Quaranta 2006: 5). In questa direzione, le questioni chiamate in causa dalla salute mentale non si presentano più né come ambito esclusivo d'indagine e radicamento della scienza biologica o neuropsichiatrica, né come fatto individuale e privato. Esse costituiscono, altresì, parte della più generale e complessiva esperienza umana, intima quanto collettiva, culturalmente e storicamente determinata. Lo "spazio" della mediazione etnoclinica In questa prospettiva, poiché le condotte psicopatologiche sono in relazione con la cultura entro la quale si inscrivono, l’incontro tra studi antropologici e mondo della psicopatologia e della psichiatria può risultare molto fecondo e, del resto, l’etnopsichiatria ne rappresenta senza dubbio uno degli esiti più significativi. Come è noto, infatti, alla base della disciplina etnopsichiatrica vi è il principio metodologico del complementarismo il quale prevede l'utilizzo dei due discorsi (quello antropologico e quello psichiatrico/psicoanalitico) in maniera non simultanea per leggere e analizzare un fenomeno psichico e comportamentale. Gli strumenti propri dell’antropologia permettono dunque, nel quadro delle pratiche psichiatriche, di poter esplorare e de-costruire con il paziente le esperienze a partire dalle rappresentazioni culturali di appartenenza. 71 Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2015 C’è da evidenziare, dunque, che il filone dell’etnopsichiatria si è riversato soprattutto sulle complesse modalità di esperire e trattare le situazioni di sofferenza e di malessere interculturali e alloculturali, tentando di popolare lo spazio vuoto tra due letture radicalmente altre della realtà, quella occidentale e quella della cultura d’origine del paziente. I pazienti beneficiano in tal modo di una “presa in carico terapeutica” agita a partire da quello che potremmo chiamare un dispositivo di mediazione etnoclinica. La mediazione, in questo senso, rappresenta la possibilità di prevenire un conflitto o di ristabilire dei legami tra delle persone o dei gruppi o, più frequentemente e in particolare, tra istituzioni e persone/gruppi. Si tratta infatti di aprire uno spazio di relazione, un luogo d’ascolto e di interfaccia tra due diversi universi. La sfida e l’intento del lavoro che tenterò di descrivere nelle pagine che seguiranno muovono, dunque, da presupposti simili ma dalla volontà di ricercare sul campo un dispositivo di mediazione etnoclinica “at home”, che faccia riferimento particolarmente ai soggetti formati in uno stesso ordine culturale di matrice occidentale. In particolare, la ricerca si soffermerà sulle esperienze e i vissuti di alcune persone ricoverate presso una Casa di cura romana ad indirizzo neuropsichiatrico nella quale nell'anno 2013 ho svolto una ricerca etnografica di circa cinque mesi. Se, dunque, appare innegabile la stretta relazione tra psichiatria e antropologia riguardo la propensione alla ricerca di codici interpretativi per decifrare il comportamento, le attitudini, le infinite strategie di (r-)esistenza e risposta psichica e culturale che gli individui singolarmente e collettivamente producono, è altrettanto evidente anche quanto entrambe le discipline siano sempre esposte al rischio e all'eventualità di un incontro potenzialmente destabilizzante con l'"alterità". L'alterazione psichica non richiede, infatti, uno sforzo di decifrazione simile a quello necessario nell'incontro con l'alterità culturale radicale? Le manifestazioni di disagio e sofferenza psichica che caratterizzano lo stato di (cattiva) salute della nostra società occidentale fanno parte anch'esse, pertanto, della molteplice trama di adattamento e risposta che l'individuo mette in atto nella relazione con la specificità culturale da cui proviene. L'universo culturale occidentale non è infatti certamente scevro e immune da meccanismi di riduzione e naturalizzazione profondamente consolidati nella loro apparenza di fatti a-storici, naturali e ordinari e, anch'essi, generati all'interno di un preciso dispositivo etnico. La questione che ha motivato la mia ricerca è stata così ispirata dalla possibilità di immaginare e sperimentare le potenzialità di un dispositivo di 72 Pittalis E. Esercizi di Antropologia della Narrazione... mediazione etnoclinica come apertura di uno spazio intermedio che permetta di facilitare un incontro e, possibilmente, una diversa alleanza terapeutica. In questo senso ritengo che la mediazione, operata attraverso l’intermediazione degli strumenti antropologici in seno a una struttura psichiatrica, possa davvero rappresentare una risposta originale alle difficoltà provocate dall’incontro tra il paziente e le istituzioni della sua presa in carico, nonché avere un ruolo importante nella possibilità di restituire queste esperienze particolari alla trama culturale entro cui sono immerse. È bene, tuttavia, precisare che la mediazione, di per sé, non costituisce certamente un dispositivo terapeutico, né forse pretende di esserlo, in quanto, appunto, la pratica del mediatore si sforza semmai di analizzare le possibili risposte nella direzione di un ancoraggio a un nuovo tipo di pratica e di ascolto. Ed è nondimeno importante sottolineare che un lavoro di questa natura è possibile solo nella direzione di intraprendere una «sfida multidisciplinare ai dispositivi di "normalizzazione" della sofferenza» (Faranda - Pandolfi 2014: 17), attraverso un lavoro di decostruzione critica delle proprie categorie. Operare tale (ardua) decostruzione è a mio avviso possibile a partire dalle dimensioni micro-, dall'osservazione attenta e partecipe dei più variegati campi del vivere sociale e individuale e dalle testimonianze concrete dei vissuti individuali e collettivi. La possibilità di intraprendere la ricerca presso una struttura di riabilitazione psichiatrica mi ha offerto infatti l'occasione di lasciare affiorare, in primo luogo, la voce e il vissuto dei diretti interessati, in quanto è direttamente ai pazienti della clinica che mi sono rivolta. In particolar modo, sin dai primi approcci ho cercato, attraverso la pratica dell'intervista e il metodo dell'ascolto antropologico, di elaborare una modalità di raccolta delle singole storie di vita delle persone che avrei incontrato, tesa a recuperare le interpretazioni e le ragioni sui percorsi che possono condurre a un ricovero psichiatrico e, al contempo, a non ridurre la complessità esistenziale di una vita intera agli eventi di malattia e alla patostoria dei narranti. Oltre la costruzione diagnostica della vita All'interno dei contesti medici, generalmente, le storie e le esperienze personali vengono raccolte e ascoltate in funzione di uno scopo sostanzialmente tecnico. L'antropologia, soprattutto statunitense, ha riflettuto a lungo su questo particolare aspetto della clinica. Come spiega Byron Good, la compilazione della cartella e le modalità attraverso cui essa viene indicizzata sembrano 73 Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2015 organizzare «il paziente in forma di documento, di un progetto su cui lavorare, scritto per un uditorio particolare». L'insieme di informazioni raccolte rappresentano, in itinere e nella loro forma finale, la storia dei processi di malattia strutturati in modo tale che «la persona, il soggetto della sofferenza, viene rappresentato come il luogo della malattia piuttosto che come agente narrante» (Good 2006: 121, 125). Robert Laing si chiedeva a tale proposito come sia possibile comprendere il significato umano e le ragioni della persona se «le parole che si debbono usare sono state inventate apposta per isolare e circoscrivere in una entità clinica particolare il senso della vita del paziente» (Laing 2001: 6). A lungo gli indirizzi antropo-fenomenologici si sono dunque posti la domanda su quale sia il ruolo e il posto, all'interno di tali pratiche, assegnato all'esperienza e ai molteplici significati (soggettivi e collettivi) che gli individui attribuiscono alla propria storia. Sottovalutando l'importanza del significato che i pazienti attribuiscono alle loro esperienze di malattia, non si corre infatti il rischio di non cogliere la rilevanza di altre dimensioni che, a fronte della complessità e della varietà delle esperienze umane, non possono essere ridotte a mera patologia? Non si rischia così di astrarre le esperienze dal loro tessuto composito, indeterminato, storico, collettivo? Liberare la narrazione dalle restrizioni nosografiche della medicina - che costringono il soggetto a identificarsi unicamente con la patostoria e con le coordinate diagnostiche - può allora aprire spazi inediti di agibilità in cui riraccontarsi e ascoltarsi: cioè luoghi del possibile, liberi da giudizi di valore disciplinarmente e politicamente costituiti. É all'interno di questo incontro sempre possibile e cangiante, infatti, che la narrazione dispiega tutte le potenzialità e l'antropologo può forse configurarsi come medium attraverso cui il racconto può prender forma e trasformarsi in un ponte tra esistenza e clinica, esperienza e malattia, bisogni e cura, sé e altro. Da questo punto di vista, il lavoro è stato immaginato, mutuando un'espressione di Faranda, come un'«etnografia dei momenti di crisi» (Faranda - Pandolfi 2014: 61], nel tentativo di ri-significare, attraverso lo scambio diretto e la pratica della narrazione, una sofferenza che da esperienza intima e abominevole può trasformarsi in strumento attivo di incontro tra persone e mondi vissuti ed essere riavvicinata così alla dimensione umana e culturale da cui è originata. Incontro necessario, poiché, come ricorda Bruno Callieri, l'altro è fonte di memorie, esperienze, scoperte, ed è solo co-essendoci che è possibile trasformare la «relazione oggettivante della medicina classica e di quella scientifica in un incontro interumano» (Callieri 2007: 25). A fronte di 74 Pittalis E. Esercizi di Antropologia della Narrazione... un'esperienza umana troppo vasta e varia per essere confinata e interpretata rigidamente, lo psicopatologo antropo-fenomenologicamente orientato non smette di ricordarci, infatti, che solo attraverso l'incontro, nell'esserci reciprocamente con l'altro e mettendosi in ascolto, è forse possibile cogliere l'intimo progetto di ciascuno (e al tempo stesso dei "molti") e ricostruire i mondi vissuti "degli alienati". Poiché la psicopatologia altro non è che una distorsione di tale coesistenza, cioè dell'esserci-insieme-nel-mondo, Callieri invitava perciò a recuperare la capacità di sentire il noi, di applicare un'antropologia della relazione nei termini di un vero e proprio impegno morale. Provando a non lasciare inascoltato questo invito, nelle mie intenzioni lo strumento dell'intervista si è configurato come una sorta di meta-metodologia che mi consentisse al tempo stesso di raccogliere materiale, racconti e interpretazioni e di tentare una pratica alternativa alla compilazione dell'anamnesi, nella direzione di verificare – in primo luogo – le possibilità della narrazione come pratica di decostruzione nosografica. A fronte di esperienze tanto composite e difficili, cercherò di esplicitare, nelle pagine seguenti, gli esiti del mio esercizio volto a sperimentare le possibilità di un incontro, per l'appunto, antropo-fenomenologicamente orientato. Dialogare con la sofferenza La possibilità di svolgere la ricerca presso una determinata clinica di riabilitazione psichiatrica è stata a monte motivata dai precedenti contatti stabiliti con uno dei suoi psichiatri che conosceva (e riconosceva) esattamente il fondamento della mia proposta di lavoro. In principio, si era stabilito di farmi incontrare i possibili interlocutori, ovvero i pazienti che vi erano ricoverati, previa decisione e presenza del medico e che, solo dopo una breve introduzione del mio ruolo e dei miei intenti, saremmo stati lasciati soli per esplicitare infine le ragioni della mia ricerca e le modalità che avrei utilizzato. In caso di assenso da parte delle persone così incontrate, ci saremmo accordati sulla data in cui avremmo iniziato l'intervista. Successivamente ho stabilito invece un approccio più autonomo con i degenti e, previa richiesta al medico o alla riabilitatrice psichiatrica, ho potuto domandare direttamente, senza intermediazione in presenza, se avessero voglia di partecipare alla mia ricerca. Fin dal principio, più per ragioni logistiche e di tempo che per scelta metodologica, non ho preso visione delle cartelle cliniche né ho avuto una 75 Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2015 presentazione anamnestica delle persone con cui mi sono relazionata. Intervista dopo intervista, tuttavia, mi sono resa conto che ciò rendeva più semplice e spontaneo il dialogo e permetteva di andare al fondo delle questioni con una spontaneità che forse non avrei avuto se avessi conosciuto preventivamente le ragioni mediche dei vari ricoveri in clinica. L'univocità dell'inquadramento medico e la nosografia può infatti, non di rado, proporsi come vincolante non solo per i pazienti, ma anche per chi si relaziona con essi, e i racconti degli intervistati avrebbero potuto assumere un significato diverso se io non fossi stata "vergine" di interpretazioni e definizioni già accertate in sede clinica. In tal caso, probabilmente, la mia attenzione si sarebbe focalizzata sulla decostruzione di quelle interpretazioni e sul modo con cui i narratori si rapportavano alle proprie diagnostiche. Nonostante l'uso del registratore, dopo pochi minuti i miei interlocutori entravano nel vivo del racconto e procedevano, in molti casi, in autonomia e sicurezza. Alcuni di essi, pur essendomi stati presentati come poco loquaci o restii a sviluppare un racconto su tempi lunghi, si sono dimostrati invece molto disponibili e appassionati nel racconto, mostrando una imprevista volontà a raccontarsi a fronte di un approccio insolito rispetto a quello al quale erano abituati. Complessivamente ho cercato di lasciare che la narrazione scorresse liberamente, cercando di inserire le mie domande nei momenti ritenuti più opportuni. Tuttavia, nonostante specificassi ai miei interlocutori che non ero lì per raccogliere esclusivamente la loro storia di malattia e gli chiedessi, anzi, di raccontarmi la storia complessiva della loro vita, si è palesata, generalmente, una precisa tendenza: spesso, fin dalle primissime battute, il racconto prendeva la forma della loro patostoria. Pur nella etereogeneità delle diverse situazioni, nella maggior parte dei casi gli episodi esplicitati erano infatti direttamente concatenati allo sviluppo del malessere e agli eventi che avevano condotto ciascuno degli intervistati alla situazione attuale e al protrarsi della malattia. Appariva evidente, cioè, quanto essi si riconoscessero entro un preciso inquadramento medico e quanto desiderassero raccontare il proprio malessere, svelarne le cause e solo successivamente rielaborare il proprio passato. Prima di inoltrarmi nella restituzione dei contenuti delle interviste raccolte, è necessaria un'ulteriore premessa di contestualizzazione. Le narrazioni e i racconti che hanno dato corpo alla mia ricerca non possono che rappresentare una variante parziale di una storia di vita, legati come sono alle circostanze, al lavoro di selezione della memoria, alle condizioni dell'intervista 76 Pittalis E. Esercizi di Antropologia della Narrazione... e al rapporto tra intervistatore e intervistato. Le persone intervistate erano ricoverate, alcune da molto tempo, altre da meno, all'interno della clinica, e si trovavano, dunque, nel pieno di un processo riabilitativo nel quale prende forma un lavoro continuo di ripensamento, analisi e confronto serrato della propria storia. Tra ascisse e ordinate del racconto, la clinica e la condizione di "pazienti" rappresentano, a queste condizioni, il grado zero del piano cartesiano che orienta le coordinate della storia. Il racconto è infatti sempre frutto dei processi di simbolizzazione e comprensione che i narranti mettono in atto per ricostruire e riappropriarsi di una certa storia, della propria storia. A partire dalle storie raccolte, ho cercato dunque di recuperare significati, segni, indizi, racconti ed esperienze da leggere singolarmente e comparare per costruire contestualmente dei paradigmi indiziari attraverso cui interrogarsi sul senso stesso di alcune idee radicate e costitutive del vivere (Ginzburg 2002]. A partire dagli aspetti più ricorrenti enunciati dai narratori è stato possibile rinvenire alcune tematiche principali che potrebbero essere racchiuse, sinteticamente, in quattro macro-aree, seppure tra loro inscindibili e strettamente connesse le une alle altre: -1. Senso del male e ordine del discorso. Si è cercato di leggere le testimonianze nel tentativo di decifrare i significati attribuiti all'esperienza della sofferenza nelle forme e nei modi in cui viene narrata, categorizzata, messa in forma e spiegata dai soggetti stessi che la esperiscono, alla ricerca di quel "senso del male" che gli studi di antropologia hanno tentato di sintetizzare (Augè e Herzlich 1986). Da questo punto di vista, nelle storie narrate, il linguaggio medico-psichiatrico risulta, senza dubbio, estremamente performativo. Le pratiche e il vocabolario della medicina rappresentano dei veri e propri regimi di significazione che forniscono le condizioni per poter attribuire significato a se stessi e alle proprie esperienze. Vissuti emotivi tra i più comuni, come la sensibilità e l'affettività, vengono riconosciuti come sinonimi di patologia e debolezza, attraverso geografie processuali estremamente lineari alle cui estremità si trovano, come ipotesi inconciliabili, l'idea di sanità e quella di malattia. In una società in cui i manuali diagnostici continuano ad accumulare tipi e comportamenti da patologizzare, la consapevolezza di esser patologicamente segnati viene esplicitata non solo rispetto all'oggi e all'incidenza del disagio, ma rinvenuta e collocata nelle proprie origini genetiche o attribuita, auto-colpevolizzandosi, alle proprie scelte e attitudini. Al contempo, in molti casi i pazienti sembrano non interrogarsi sulle cause del proprio malessere, delegando completamente il senso delle proprie 77 Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2015 esperienze ai medici specialisti e incorporando diagnosi decisamente radicali. E' come assistere a una sorta di processo di auto-invalidazione assistita, entro cui il nesso tra "sapere-potere" si mostra in tutta la sua efficacia, evidenziando quanto le sproporzioni di sapere tra gli uni (i pazienti) e gli altri (l'apparato medico-scientifico) incidano non solo sul modo di pensarsi e raccontarsi, ma sulle possibilità e potenzialità concrete degli individui (Foucault 2011). - 2. Delega: istituzioni e famiglia. Le testimonianze restituiscono continui paradossi sulla degenza, sui limiti e i benefici delle soluzioni terapeutiche, sulla contraddizione tra il bisogno di un'assistenza "ufficiale" e l'assenza di spazi di agibilità e cura al di fuori di essa. I soggetti che vivono in prima persona l'esperienza della malattia appaiono talvolta esposti a un progressivo processo di sottrazione di autonomia i cui unici ancoraggi e riferimenti possibili, anche quando ciò non aderisca esattamente ai loro desideri, diventano la famiglia e le istituzioni mediche. Entro queste dinamiche, seppur attraverso movimenti oscillatori e di rottura, si assiste a una vera e propria modalità di divenire "pazienti" a partire da una delega quasi totale della propria vita ai dispositivi clinici e medici. In questo processo, la vita sembra venir presa in una morsa che vincola gli individui a un'esistenza da "soggetto bisognoso", i cui tempi e possibilità sono mediati e trasformati irreversibilmente dalle istituzioni presso cui si rivolge e da percorsi codificati. I pazienti, infatti, pur riconoscendo in molti casi la necessità e l'importanza del processo riabilitativo presso la struttura clinica, ne rivelano al tempo stesso luci e ombre. Se da un lato essa rappresenta, nella sua chiusura rispetto al mondodi-fuori, un vettore di sottrazione di autonomia, dall'altra è un luogo "protetto" poiché le mura che la circondano, seppur contenitive, tengono a distanza i pericoli e le avversità del mondo esterno. Ugualmente, la degenza presso la clinica rappresenta un'importante opportunità per uscire dall'isolamento esistenziale e scoprire che altri condividono esperienze simili alle proprie. Tuttavia appare evidente anche la difficoltà a tollerare quotidianamente il peso delle altrui difficili esperienze e il desiderio di poter essere compresi anche al di fuori delle arene preposte alla riabilitazione. Entro questi processi, poi, il rapporto con la farmacoterapia riveste chiaramente un ruolo centrale. Le testimonianze mostrano come in molti casi i farmaci assumano una funzione ambivalente: strumento di cura quanto di blocco e trasformazione, sostanze inibitrici capaci di modificare completamente le capacità performative degli individui e la possibilità di reinserirsi nei canoni di "normalità" desiderati, poiché, cancellando il rapporto tra sintomi e vita esperienziale, si configurano come produttori di nuovi e potenti disagi. In tutte le storie narrate, nessuna 78 Pittalis E. Esercizi di Antropologia della Narrazione... esclusa, viene evidenziato il problema di prescrizioni e farmacoterapie agite da una "mala-psichiatria" che purtroppo è possibile incontrare sul proprio cammino. Difficilmente i pazienti appaiono pacificati rispetto agli effetti dei farmaci: essi si muovono allora tra momenti di resistenza, che si risolvono in un altrettanto problematica decisione di interrompere la cura, e la rassegnata accettazione della terapia nella speranza che possa in qualche modo lenire o scalfire la sofferenza di cui si è vittime. La quasi totalità dei pazienti incontrati mi ha rivelato che presso la clinica entro cui si trovavano al momento dell'intervista hanno finalmente potuto sperimentare un percorso di cura psichiatrico qualitativamente differente. Molti di loro, infatti, dopo anni di cure e percorsi medici, hanno rilevato, non senza frustrazione e stupore, di aver finalmente trovato una terapia adeguata grazie alla quale ricominciare a pensarsi in prospettiva e a immaginarsi al di fuori dello stigma della "malattia mentale". Ciò, invero, palesa un ulteriore paradosso: quando è possibile fare i conti con una buona psichiatria sembra che essa debba occuparsi di riparare i danni provocati dalle stesse istituzioni e paradigmi da cui essa proviene. 3. Microfisiche della solitudine. Il tema della solitudine sembra essere una sorta di costante che taglia trasversalmente le storie e i vissuti delle persone incontrate in clinica, in alcuni casi come fattore scatenante dei disturbi, in altri come conseguenza ineluttabile. Le storie mostrano come il rapporto con la sfera sociale e relazionale, e particolarmente con quella educativa e lavorativa, possano rivelarsi importanti produttori di situazioni di isolamento e disagio. In questo senso il semplice scarto rispetto alle norme o l'impossibilità di rispondere alle aspettative sociali danno forma alle idee di devianza, diversità e inadeguatezza che sembrano incollarsi agli individui come uno stigma indelebile. Le esperienze di sofferenza psichica risultano spesso come conseguenza di una sfida sul campo e di una battaglia per la costruzione della propria identità. Tale sfida è mediata dalla possibilità che gli individui hanno, all'interno di un determinato contesto, di corrispondere a gradi di adeguatezza e inadeguatezza pregiudizialmente previsti. Una pressante retorica centrata sul senso del dovere e della responsabilità sembra infatti abitare questi interstizi ponendo continuamente l'individuo di fronte a scelte da prendere soggettivamente e "responsabilmente", pena il proprio posto in società e la propria "dignità sociale". Sempre più, infatti, l'ordine sociale sembra iscriversi nelle condotte a partire da un meccanismo di auto-normazione e autodisciplinamento dettato da invisibili forme di controllo performativo e psicologico: la questione è strettamente legata alle dimensioni e alla pervasività 79 Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2015 con cui i principi neoliberali di efficienza (performativa, produttiva, relazionale) e di buona condotta, attraverso forme di controllo indirette e distanti agiscano come vettori e produttori di differenziazione ed esclusione sociale. Ciò avviene spesso all'interno di una situazione politico-economica precisa: disoccupazione giovanile drammaticamente in aumento, redditi vertiginosamente ridotti, accesso ai servizi sempre più limitato e annesse retoriche di austerity che vincolano gli individui a meccanismi di ricatto e dipendenza insolubili. Entro questo quadro, risulta chiaro quanto la condizione di precarietà che caratterizza la nostra contemporaneità non sia solo materiale, ma intimamente esistenziale. E la numerosa presenza di giovani e giovanissimi ricoverati presso la clinica, nonché le loro storie, sembrano confermare questa tendenza. In questo senso, la solitudine e la marginalità, in quanto fatti sociali, rappresentano il vero sintomo e il cardine intorno cui molto spesso prende il via il processo di incorporazione dell'esperienza sociale, e dunque il disagio e la malattia. In questa direzione, le forme di alienazione che il capitale produce nel continuo processo di messa a valore della vita sembrano risolversi in una sofferenza in espansione, in una sorta di «rigetto collettivo e organico verso condizioni di esistenza alla fin fine incompatibili con i bisogni, tempi e ritmi della specie» (Coppo 2005: 140). Cosicché in molti casi si assiste ad un progressivo processo di smondanizzione, come suggerito da Callieri (2007), nel quale la rottura totale con il mondo esterno sembra essere l'unica possibilità in campo. Relazione e comunicazione appaiono interdette e, se da un lato la scelta o la condizione di chiusura è in primo luogo vissuta e orientata soggettivamente, dall'altro il mondo esterno si mostra incapace ad accogliere un malessere che ha assunto proporzioni non più "tollerabili". - 4. Inabilità sociali. A fronte di esperienze apocalittiche, psicotiche, depressive, di "comportamenti antisociali" e bipolari, e più in generale di ciò che potremmo chiamare modalità peculiari di esserci nel mondo, le testimonianze mostrano quanto il malessere psichico assuma per sé e per gli altri l'aspetto di un insieme di radicate inabilità sociali (produttive e relazionali) e quanto desideri e prospettive siano in parte vincolati da tale condizione e dalla sua rappresentazione. Nel riconoscersi deficitari rispetto alle proprie possibilità, gli interlocutori hanno spesso restituito l'idea che la guarigione sia l'unica strada per tornare ad essere, in primo luogo, socialmente accettabili. Entro questo quadro il tema della produttività lavorativa si è rivelato estremamente importante. È intuitivo come ciò sia fortemente connesso alle idee di autonomia e responsabilità e più complessivamente ai temi del riconoscimento sociale, 80 Pittalis E. Esercizi di Antropologia della Narrazione... delle prospettive per il futuro e delle aspettative. Come ci ricorda Foucault in uno dei suoi studi archeologici sulla follia (Foucault 2011), il primo stigma di uno statuto generale di ciò che nel tempo si è delineato come "malattia mentale" si può rinvenire storicamente proprio nell'esclusione dal lavoro e dalla produzione economica. Tale esclusione è certamente ambivalente: necessità obbligata per il malato da un lato, spazio preclusogli dall'altro. La malattia, infatti, sembra inibire completamente la possibilità di essere, o tornare a essere, un soggetto produttivo (Macherey 2013) nei termini in cui è richiesto da una società a capitalismo avanzato come la nostra. In quest'orizzonte, all'interno di un'organizzazione sociale che non prevede una collocazione per la sofferenza psichica se non ai margini o nei dispositivi istituzionali di cura, la necessità del lavoro si configura spesso come unica prospettiva verso cui tendere per riscattarsi dall'anomalia e dalla solitudine. La lettura delle interviste sembra offrire, complessivamente, un condensato, un precipitato, e al tempo stesso una miniatura di quanto lo scollamento dalle reti sociali e la difficoltà a ricollocarsi nel mondo da parte dei soggetti che patiscono la sofferenza psichica sia il sintomo non solo delle proprie, ma anche e soprattutto delle inabilità di una società non predisposta o poco abituata a scorgere, curare e includere il malessere degli individui che vi appartengono. Storia egemone e storie particolari Nelle interviste da me raccolte e trascritte si incontrano storie vissute che portano con sé un ben più pesante fardello di quello della malattia, poiché la loro chiusura nell'intimità e nel confronto serrato con i medici elude la possibilità stessa di traslarle in un orizzonte condivisibile e narrabile. L'incontro diretto con una realtà clinica si inserisce, allora, nella precisa volontà di ri-collettivizzare e riabilitare quanto possibile le voci e le storie delle persone implicate direttamente in vissuti di questo tipo e di poterle pensare, in prima istanza, come un piccolo ma importante patrimonio conoscitivo. Per questo, nonostante la parzialità e l'insufficienza analitica del mio lavoro a fronte di un tema complesso come quello della salute mentale, la restituzione delle interviste rappresenta già di per sé un obiettivo concreto. A fronte delle grandi narrazioni "ufficiali" della scienza e della psicologia o di tutti quei saperi legittimati da un riconoscimento istituzionale o socialmente accreditato, le storie di vita singolari, in tale direzione, rappresentano un prezioso archivio di saperi e conoscenze mutuate direttamente dal mondo della vita e dall'esperienza 81 Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2015 dei soggetti intervistati. L'incontro diretto, l'ascolto e la pratica della narrazione più in generale, assumono rilevanza proprio nella possibilità di restituire "memorie" in contrasto con quelle accreditate ufficialmente e di rendere la voce a quei "saperi assoggettati" (Foucault 1977) che rimangono al di sotto del livello di conoscenza e scientificità richiesta. La peculiarità e la potenza decostruttiva di queste storie sta a mio avviso nel loro essere raccontate non "al di sopra" delle parti, ma dalle parti stesse. Foucault, in questo caso, torna in aiuto ricordando come le “grandi strutture della sragione” rimangono latenti nella cultura occidentale ed escluse dal sapere storico positivo. Per questo, il filosofo francese, ripercorrendo lo statuto storico della "follia", sottolinea come la forzata riduzione di un universo complesso e composito a malattia mentale abbia sottratto a tali esperienze individuali e collettive “profondità e potere di rivelazione” (Foucault 2006). Come a dire che «una vita di cui non si possa raccontare una storia rischia di rimanere una mera esistenza empirica» (Cavarero 2009: 76) E, dunque, «se vale il principio secondo il quale l'inesponibile è l'inesistente», l'unicità delle vite rimane parzialmente inesposta «per mancanza di una scena condivisa di comparizione, ossia di uno spazio politico vero e proprio» (Ivi: 77). Il lavoro antropologico, da questo punto di vista, si muove nella direzione di re-istituire questa scena con la consapevolezza della necessità di costituire uno spazio plurale e condiviso di esposizione, confronto, incontro, azione e narrazione. Raccontarsi può allora significare uscire dall'isolamento e riconnettersi alla storia collettiva, recuperare l'autonomia e l'autodeterminazione che troppo spesso i vissuti di malattia, le pratiche medicopsichiatriche e gli apparati burocratici sottraggono alla capacità e alla consapevolezza degli individui. Porsi in relazione con un interlocutore che raccoglie una storia, ascolta e interagisce può significare rompere il binomio bisogno-cura, ovvero la relazione gerarchica medico-paziente che prevede, a causa di porzioni di sapere ineguale, un rapporto di subalternità. Il bisogno e la richiesta d'aiuto possono trasformarsi in altri termini in uno scambio vivace tra conoscenze ed esperienze, in un incontro che elimina il profilo della delega e della dipendenza e restituisce centralità alla condivisione e allo scambio interumano. Un tale metodo è alla base della tensione operativa e politica del mio lavoro etnografico, nonostante esso non riesca, in questa sede, a rendere conto di una parte importante di tale processo di restituzione. Una ricerca di questo tipo, infatti, non può dirsi ultimata (per quanto lo sarebbe sempre in modo provvisorio) fin quando il lavoro svolto non sia in qualche modo direttamente 82 Pittalis E. Esercizi di Antropologia della Narrazione... restituito agli attori che vi hanno preso parte. Se, come si è detto più volte, l'incontro e la narrazione sono postulati dalla relazione con l'altro, credo sia necessario ri-volgersi con la restituzione concreta della propria testimonianza a chi, attraverso il racconto, ha condiviso «un destino, una figura irripetibile» della propria esistenza (Cavarero 2009: 10). Questa attività è necessaria, dunque, anche per rendere concretamente operativi i tentativi intrapresi in direzione dello spazio condiviso di esposizione ed azione a cui si è precedentemente fatto riferimento. La restituzione della ricerca, tuttavia, comprende un orizzonte di interlocutori più vasto. Per fare solo un esempio, all'inizio della ricerca, il medico che ha mediato e introdotto la mia figura all'interno della clinica, ha prospettato la possibilità futura che le interviste raccolte potessero essere inserite all'interno della cartella clinica dei pazienti. Tale opportunità credo possa rappresentare una prima e importante possibilità applicativa del lavoro antropologico all'interno della dimensione clinica e terapeutica. Inoltre, a partire dalle interviste, ci sono fatti e problematiche sulle quali si ha sempre la tentazione di ritornare. In questa direzione, uno dei grandi temi che rimane aperto e su cui l'antropologia credo possa contribuire in modo radicalmente critico e politico mi sembra sia quello di continuare a interrogarsi su come le esperienze psicopatologiche e di sofferenza più in generale possano essere non solo arginate e prevenute ma incluse ed ascoltate nella dimensione sociale e collettiva, anche fuori, cioè, dalle istituzioni convenzionalmente predisposte a contenerle. L'attuale vivere sociale rende necessario, infatti, scorgere il limite di quel crinale che, di fronte al malessere e al comportamento culturale alieno, sembra separare la possibilità di essere sani da quella di essere malati, come fossero due opzioni inconciliabili. Michele Risso, tempo fa scriveva: «Quale cura, se il disagio di fondo rimane immutato? Quale intervento se la ben nota qualità dei rapporti tra gli esseri umani ne esce intoccata?» (Risso 1997). L'interrogativo di fondo resta lo stesso e il presente lavoro si muove nel fiducioso tentativo di tracciare qualche segno nel difficile percorso che può condurre a una risposta, nella possibilità di iniziare a riempire un abisso che ha la forma di una ferita. Forse, intraprendendo questa strada, gli "accidenti" psichici ed emotivi in cui siamo presi e incappiamo continuamente possono essere letti come un divenire che non sia un passaggio da una condizione a un'altra e non preveda il confinamento in identità e ruoli prescritti una volta per tutte «da una storia o una preistoria» egemone (il sano, il malato, il paziente, il curante, ecc.) (Deleuze, Guattari 2013: 387). Fuori dalle maglie di una Storia dominante, la solitudine e le "follie" degli individui potrebbero, allora, esser 83 Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2015 ascoltate in quanto forme di difesa e resistenza a fronte dell'invivibilità della società, come ricordava del resto Basaglia. Il "malato mentale", in questo senso, non rappresenterebbe esclusivamente la malattia, ma una crisi incompresa da una scienza che applica le sue regole e da una società che inibisce ai singoli destini di spiegare i loro mondi, di presentare la loro unicità e, al contempo, di creare spazi di condivisione reale. BIBLIOGRAFIA Auge M., Herzlich C. (1986). Il senso del male. Antropologia, storia e sociologia della malattia. Milano: Il Saggiatore. Callieri B. (2007). Corpo, esistenze, mondi. Per una psicopatologia antropologica. Roma: Edizioni Universitarie Romane. Cavarero A. (2009). Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione. Milano: Feltrinelli. Coppo P. (2005). Le ragioni del dolore. Etnopsichiatria della depressione. Torino: Bollati Boringhieri. Deleuze G., Guattari F. (2003). Millepiani. Capitalismo e schizofrenia. Roma: Cooper Castelvecchi. De Martino E. (1977). La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali. Torino: Einaudi. 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