Maria Zambrano Seneca

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Da Seneca di Maria Zambrano edizione Bruno Mondadori, Milano 1998
Tutti coloro che l’Antichità, cioè l’antichità anteriore al cristianesimo o quella
che affiancava il cristianesimo senza essere cristiana, chiama filosofi, sono
portatori di un’amara medicina. Ci offrono una cicuta che loro bevono fino in
fondo con coraggio. La filosofia antica a ancor di più quella stoica è una
medicina amara, fatta di veglia e di astinenza, è un risveglio a una verità che
richiede il nostro coraggio. Seneca appartiene a questa stirpe di antichi
filosofi destinati a portarci l’amaro risveglio della ragione, che ci scuote dai
nostri deliri e vagheggiamenti per farci “tornare alla ragione” come dicono
ancora gli spagnoli.
Vediamo in lui un medico, e più che un medico, un guaritore della filosofia
che senza attenersi troppo strettamente a un sistema, facendosi beffe del
pensiero eccessivamente rigoroso, con un’altra specie di rigore ed un’altra
specie di consolazione, ci porta il rimedio. Un rimedio meno rigoroso che più
che curare, vuole alleviare, più che svegliarci, consolarci.
Il tempo di Seneca
All’epoca di Seneca, nel secolo di Cristo, i filosofi riempivano le strade
dell’Impero. La filosofia di Platone e Aristotele attraversava una fase di stasi e
quasi di arresto, rinchiusa ancora in una scolastica che sembrava incapace di
attecchire nel cuore degli uomini. Era una filosofia che pretendeva la
schiavitù della mente e quasi una morte in vita. Aristofane si era burlato di
Socrate, dicendo che i suoi discepoli erano “mezzi morti”. Senza dubbio, il
burlatore non si rendeva conto di cosa stesse dicendo, giacché come sempre
succede, ogni burlatore viene superato dalle sue stesse burle. Perché così
doveva essere, infatti la filosofia che Socrate proponeva agli uomini come
strada per la salvezza e più ancora quella proposta in seguito da Platone e
Aristotele, esigeva quasi una morte in vita, porsi oltre i propri limiti era la
strada per la salvezza. Ma la “vita contemplativa” esigeva una tale rinuncia da
un lato e una tale attività dall’altro, che pochi, una scarsa minoranza
aristocratica, erano capaci di consacrarsi ad essa.
Per altre ragioni che non possiamo qui approfondire, questa filosofia
platonico-aristotelica, non avrebbe potuto diventare vigente, ossia
concretizzarsi, fino all’arrivo del cristianesimo. Solo con il sostegno del credo
cristiano che era nato al margine, avrebbe potuto scendere nel cuore
tormentato dell’uomo e acquietare la miseria umana.
Questi filosofi non riempivano le strade, i loro ascoltatori non fermavano il
traffico e nemmeno importunavano i giovani sulla via del Ginnasio come in
altri tempi aveva fatto Socrate. Lontani dalla confusione somigliavano molto
di più a quelli che, non molto tempo dopo, avrebbero realizzato la loro “vita
contemplativa” nella vita monastica. I filosofi che riempivano le strade erano
altri: stoici, epicurei, cinici e cirenaici. La figura del “maestro” si era scissa,
Platone e Aristotele lo avevano seguito nel pensiero, avevano perseguito la
sua dialettica, mentre gli altri sembravano avvicinarsi di più al suo stile di vita.
Vivevano la sua filosofia dispersa per le strade, mescolata alla vita,
pretendendo di digerirla e soprattutto praticando la pesca delle anime. Non
restavano in attesa, ma uscivano all’incontro. Una specie di filosofia dai
contorni leggermente vaghi e confusi che in molti aspetti assomiglia ad una
fede, ad un credo, ad una religione. Sono infatti queste a mettere tanto
impegno nella propria diffusione, la filosofia pura, in realtà, la Ragione, si
preoccupa di seguire il suo corso più che di diffondersi.
Mentre tutto ciò che è fede, credo religioso, anche se non prende questo
nome, cura innanzitutto e soprattutto la sua diffusione e sicuramente la
ottiene in misura molto maggiore del pensiero puro.
Ma stoici ed epicurei non solo praticavano sulla strada quella che abbiamo
chiamato pesca delle anime. Questa si addiceva in realtà più ai cinici che agli
stoici, che all’interno di tutte queste sette rappresentavano la più aristocratica.
Per più di un motivo perché era la più adatta a persone di elevata condizione
sociale, come Seneca e perché era, in mezzo a tutte queste sette vocianti, la
più silenziosa, la più riservata e prudente.
E mentre cinici e cirenaici andavano proclamando a squarciagola, gridando,
la desolante verità dell’uomo, il suo abbandono e la sua nudità, gli stoici lo
coprivano. Lungi dal proclamare l’abbandono, l’afflizione delle persone,
cercavano di consolarle. Il fiorire della letteratura “De consolatione” di stoici
ed epicurei tradisce questo affanno di consolazione, di sollievo che andava
esercitando questa filosofia.
Consolazione e sollievo per che cosa? Di fatto potremmo rispondere con
estrema facilità per la malattia, la morte di una persona cara, la perdita della
fortuna, l’esilio, l’assenza… ma quando una filosofia si preoccupa di tutto
questo che conosciamo tutti già così bene è davvero una filosofia? O sta
piuttosto occupando il posto di qualcosa che non è filosofico? Di chi fa le
veci? Che vuoto riempie? Che assenza colma? E, soprattutto, che malattia
nascosta in fondo a tante malattie cerca di rendere sopportabile? Perché la
filosofia non potrebbe distrarsi dal suo impegno fondamentale per far fronte a
queste singole disgrazie che ogni vita porta con sé. No non si è distratta anzi
è realmente questo il suo compito, la sua ragione d’essere. E’ la filosofia, la
ragione impietosita della condizione derelitta dell’uomo. E’ in un certo senso,
l’ingresso della misericordia e della pietà nella ragione antica.
La ragione abbandonata
Perché questi filosofi i cinici e soprattutto, gli stoici e gli epicurei, erano filosofi
per essere in realtà qualcos’altro, una specie di medici, di parroci o di frati
caritatevoli. Erano ricorsi alla ragione, ma non alla ragione più perfetta ed
evoluta quella platonico aristotelica, bensì ad una forma precedente più
ridotta e conveniente. Con il nome di filosofi vivano qualcosa di molto simile
alla religione.
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