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“La ragione della causa del contratto”
Dott. Alessandro Ceci
Sommario: Premessa: la rilevanza del fenomeno causale; §1 La causa: analisi normativa; §2 La
causa: analisi dottrinale; §3 L’evoluzione pretoria dell’istituto e le nuove “prospettive causali”.
Premessa: la rilevanza del fenomeno causale
“Oggetto vago e misterioso”. Così un illustre Autore 1 definiva la causa del contratto,
palesando immediatamente le difficoltà cui si va incontro studiando questo istituto.
Infatti, analizzare la causa è impresa assai ardua. Tutti i grandi Maestri della dottrina
civilistica italiana vi si sono cimentati, fornendone una struttura concettuale cangiante e multiforme.
La ragione della sua rilevanza all’interno dell’ordinamento giuridico risiede non solo, e non tanto,
nella naturale propensione dell’ermeneuta ad interpretare e a collocare le norme all’interno di un
sistema, quanto piuttosto in ragioni di carattere gnoseologico. Inoltre, essa assume un ruolo chiave
all’interno del sistema contrattuale giacché, dalla sua analisi in sede processuale, discendono
conseguenze in punto di interpretazione, qualificazione e adeguamento del contratto.
Dunque, quando ci si accinge a discettare della causa, in primo luogo occorre comprendere
che essa è collegata logicamente alla tematica del fondamento dell’autonomia negoziale,
rappresentando la giustificazione dell’attribuzione ai privati del potere di creare effetti giuridici.
L’art. 1321 cod. civ. getta le fondamenta per la costruzione dell’intero sistema del diritto dei
contratti. Il presente contributo analizzerà, dapprima, la macro-categoria del negozio giuridico e le
ricostruzioni offerte dalla dottrina (da quella giusnaturalista fino ad arrivare a quella precettiva,
passando per quella storicista), per procedere successivamente con l’indagine in merito alla causa.
Infine, saranno oggetto di trattazione le moderne prospettive causali salite “alla ribalta” in virtù dei
nuovi interessi economici tipici dell’era moderna.
1
FERRARA, F. jr, Teoria dei contratti, Napoli 1940, p. 127.
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La ragione della causa del contratto
Intanto, però, ci sia concessa una precisazione: la causa, benché non palesata nella norma
cardine del diritto dei contratti, è comunque esistente. E, per ragioni che saranno analizzate in
seguito, diversamente non potrebbe essere.
Dunque studiare ancora oggi questo istituto, nonostante la stratificata elaborazione dottrinale
e giurisprudenziale, benché a primo acchito possa apparire superfluo, invero ha ancora un senso: le
vicende causali degli atti di autonomia privata sono assurte a vero e proprio baricentro delle
moderne contrattazioni, e sempre più spesso la giurisprudenza deve misurarsi con operazioni
economiche assai più complesse rispetto a quelle divisate dal legislatore del ’42 e cristallizzate nei
tipi contrattuali contenuti nel vigente codice civile.
Invero, sempre più di frequente l’autorità giudiziaria deve valutare operazioni negoziali i cui
interessi sottesi assumono una morfologia “eccentrica”: basti pensare, a mero titolo esemplificativo,
alla tematica dei negozi a causa familiare mediante i quali le parti, i nubendi, intendono regolare
aspetti patrimoniali del sodalizio. Contratti, questi, fino a pochi anni fa ritenuti alieni alla nostra
cultura giuridica (al contrario degli ordinamenti di common law che ben conoscono l’istituto degli
accordi pre-matrimoniali) e che invece, attualmente, dapprima grazie alla vis ermeneutica della
giurisprudenza, e successivamente anche in virtù del riconoscimento legislativo (è al vaglio della
commissione giustizia della Camera dei deputati una proposta di legge in tal senso2), hanno
acquisito diritto di cittadinanza anche nel nostro ordinamento.
Sullo sfondo si pone la tematica della valorizzazione dei diritti della persona
costituzionalmente sanciti e tutelati, i quali rilevano non solo in virtù della loro violazione e del
conseguente risarcimento del danno che da essa deriva, ma anche, in ottica evolutiva, in virtù della
loro attitudine a fungere da giustificazioni causali di operazioni economiche.
Con i limiti, evidentemente, della liceità e della meritevolezza degli interessi perseguiti.
2
Cfr. la proposta di legge n. 2669 del 2014 d’iniziativa dei deputati Morani e D’Alessandro.
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§1 La causa: analisi normativa
Prima di procedere all’analisi delle teorie dottrinali succedutesi negli anni è d’uopo
soffermarsi sul diritto positivo, giacché tutte le dottrine, in relazione a qualunque istituto giuridico,
muovono dalle norme.
I referenti normativi che guideranno la nostra analisi sono contenuti negli artt. 1321, 1325,
1343, 1344, 1345 e 1418 II comma cod. civ. Da una lettura piana delle norme emerge con
immediatezza l’assenza di una definizione di causa del contratto. Infatti, l’art. 1321 cristallizza la
definizione di contratto e non di causa; l’art. 1325 si limita ad affermare che essa è uno dei requisiti
essenziali del contratto; gli artt. 1343, 1344 e 1345, invece, nonostante siano collocati nella sezione
II, intitolata “Della causa del contratto”, sono destinati a stabilire quando essa è illecita (o quando
deve considerarsi tale, ovvero quando sono i motivi a determinare l’illiceità dell’intero contratto).
Infine, il II comma dell’art. 1418, regolante le cause di nullità del contratto – in particolare le
cosiddette “nullità strutturali” – dispone che la mancanza di causa ne determina, appunto, la nullità.
Ciononostante, dalla collocazione topografica dell’istituto appare evidente, che, sebbene il
legislatore codicistico abbia consapevolmente omesso di offrire all’interprete una nozione compiuta
di causa del contratto, tuttavia essa riveste un ruolo fondamentale all’interno del sistema
privatistico, tanto che la sua mancanza determina la nullità dell’atto di autonomia negoziale. Ed è
noto che essa è la sanzione più grave che l’ordinamento civile commina.
Allora, occorre ricercarne nel tessuto normativo una definizione logicamente accettabile e
conforme ai principi che informano la materia. In primo luogo muovendo dall’art. 1321 cod. civ.,
norma di capitale importanza per il prosieguo dell’indagine. Essa, definendo il contratto come “(...)
l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico
patrimoniale”, si pone come la naturale “erede” della categoria del negozio giuridico, ovverosia
dell’accordo finalizzato alla produzione di effetti giuridici. Resta il fatto, però, che la norma non
cita la causa, né tantomeno ne offre una definizione.
Per trovarne la prima traccia occorre spostarsi sull’art. 1325 cod. civ. il quale la inserisce, in
uno con l’accordo, l’oggetto e la forma (laddove prevista per legge), tra i requisiti essenziali del
contratto, affermazione, poi ribadita nell’art. 1418 II comma.
Anche in questo caso, però, la norma tace, lasciando l’interprete senza appigli di diritto positivo.
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La ragione della causa del contratto
Apparentemente.
L’ermeneusi delle norme, spesso, si avvale più delle cose “non dette” o comunque non palesate
espressamente, piuttosto che delle evidenze, costringendo quindi l’interprete a spingersi ben oltre
l’apparenza.
Da un lato il codice fornisce una definizione di contratto avvalendosi di una relazione di identità
con l’accordo, per cui il contratto è l’accordo per costituire, regolare o estinguere una rapporto
giuridico patrimoniale; dall’altro l’art. 1325 cristallizza i requisiti essenziali del contratto indicando
l’accordo, la causa, l’oggetto e la forma. Orbene, è evidente che la causa intesa come istituto
giuridico non è quella menzionata nell’ultima norma analizzata, giacché essa viene valutata dal
codice come uno dei requisiti essenziali, cioè in una fase dell’indagine logicamente e
cronologicamente successiva alla sua definizione.
Parimenti occorre escludere anche gli artt. 1343, 1344, 1345, posto che tali norme affermano come
la causa non deve essere, e non già come essa è. Idem dicasi per l’art. 1418 II comma che, come
visto precedentemente, si limita a sanzionare il contratto sfornito dei requisiti essenziali fissati
dall’art. 1325.
Non resta quindi che l’art. 1321.
Preliminarmente alla sua analisi occorre cogliere un dato di primaria importanza, ovverosia la sua
collocazione nell’ordito normativo: non sfugge all’interprete, infatti, che l’art. 1321 è la norma di
apertura del titolo II, “Dei contratti in generale”, capo I “Disposizioni preliminari”.
Ciò significa che, insieme alla manciata di norme che chiudono il capo I (dall’art. 1321 all’art.
1324), è la disposizione strutturalmente più rilevante, poiché destinata a scolpire l’essenza logica
del contratto. A conferma di quanto detto è sufficiente riflettere su un dato: in tutto il codice civile
esiste solo un altro micro-complesso normativo il cui capo è intitolato “Disposizioni preliminari” –
trattasi della disciplina dell’obbligazione, in particolare delle sue fonti e delle caratteristiche delle
prestazioni che ne formano l’oggetto (artt. 1173-1175) – mentre negli altri casi il legislatore ha
optato per la formula “Disposizioni generali”. Ciò non è il frutto della casualità o dell’utilizzo poco
accorto della lingua italiana ma di una precisa scelta, giacché il lemma “preliminare” indica qualche
cosa che ha “carattere, valore, funzione di preparazione, introduzione, premessa necessaria a ciò
che sarà detto, fatto o svolto”, mentre “generale” indica ciò “che si riferisce a tutto un insieme di
persone o abbraccia tutto un ordine di fatti”3. Di conseguenza, le norme relative al contratto
collocate in questo capo assurgono a baricentro dell’intera struttura normativa, esse delineando le
basi logico-concettuali della categoria (parimenti a quanto accade per la disciplina
dell’obbligazione).
3
Definizioni tratte dal dizionario online Treccani, consultabile sul sito http://www.treccani.it/vocabolario/.
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Sotto il profilo eminentemente linguistico la norma in esame definisce il contratto attraverso
una relazione di identità con l’accordo, che a sua volta si pone come primum movens degli effetti
giuridici voluti dalle parti. Tra le due entità – l’accordo e gli effetti costitutivi, regolativi o estintivi
– vi è la preposizione semplice per, che indica una relazione di strumentalità, o ancor meglio una
relazione causale. In altri termini, l’accordo si pone come causa della produzione degli effetti
giuridici. Allora, il quesito che deve porsi l’interprete giunto a questo punto della riflessione è se,
per la produzione di tali effetti, sia sufficiente l’accordo ovvero se l’ordinamento esige anche che
esso abbia determinate caratteristiche.
Il tema si intreccia a doppio filo con la teorica del negozio giuridico e con il fondamento del
potere attribuito ai privati di produrre effetti giuridici.
Tradizionalmente con il sintagma negozio giuridico, la cui etimologia deriva dal latino nec otium
(affare), si intende, secondo la definizione tramandata dalla dottrina pandettistica, l’atto di volontà
autorizzato dall’ordinamento a perseguire un suo scopo rilevante per l’ordinamento giuridico4.
In via preliminare occorre analizzare quali sono tali manifestazioni di volontà e come esse vengono
catalogate dalla dottrina.
In generale i fatti umani oggetto di interesse da parte dell’ordinamento si dividono in fatti giuridici,
in atti giuridici in senso stretto e in negozi giuridici. Il discrimen risiede nell’elemento della volontà
dell’uomo o, per meglio dire, nella rilevanza della volontà dell’uomo nella causazione del fatto e
degli effetti giuridici che ne conseguono.
Così, i fatti giuridici sono eventi la cui causazione è del tutto indipendente dalla volontà umana e ai
quali comunque l’ordinamento giuridico riconosce degli effetti (si pensi all’evento morte che,
eccetto ipotesi patologiche, prescinde dalla volontà dell’uomo, ma al quale l’ordinamento collega
determinanti effetti in materia successoria); gli atti giuridici in senso stretto sono invece
manifestazioni di volontà dell’uomo caratterizzate dall’esplicazione della stessa in relazione al
comportamento tenuto, ma i cui effetti sono sottratti alla sfera dispositiva del soggetto (si pensi al
fatto illecito da cui originano le conseguenze risarcibili ex art. 2043 cod. civ., al cui verificarsi
l’ordinamento ricollega l’insorgere della obbligazione risarcitoria).
4
Sul tema la letteratura è sconfinata. A mero titolo esemplificativo: F. Santoro Passarelli, “Dottrine generali del diritto
civile”, Casa editrice Dott. Eugenio Jovene, Napoli, 2002, IX ristampa; E. Betti, “Teoria generale del negozio
giuridico”, Utet, Torino, 1960; E. Gabrielli, “Trattato dei contratti”, Utet giuridica, Torino, 2006; G. Stolfi, “Teoria
del negozio giuridico”, Cedam, Padova, 1961; C.M. Bianca, “Il contratto”, Giuffrè editore, Milano, 2000.
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6
La ragione della causa del contratto
I negozi giuridici, invece, sono caratterizzati dal ruolo preminente che la volontà riveste all’interno
della dinamica di produzione degli effetti giuridici, giacché anche questi ultimi sono oggetto della
volizione dell’essere umano. Ne consegue che il negozio giuridico è atto mediante il quale i soggetti
dispongono della propria sfera giuridica soggettiva.
La categoria in esame - risultato dell’elaborazione dogmatica della pandettistica tedesca5 non ha avuto un espresso riconoscimento di diritto positivo, poiché il legislatore codicistico, ispirato
dalla compilazione del Code Napoleon, ha optato, in luogo della generale categoria del negozio
giuridico alla stregua del BGB tedesco (§ 104), per la normativizzazione del contratto sia nei suoi
aspetti generali sia in quelli “speciali”, disciplinando i tipi contrattuali maggiormente utilizzati nella
realtà dei traffici commerciali. Le ragioni della scelta sono metodologiche: i compilatori del codice
italiano non hanno inteso rinnegare la valenza assiomatica della categoria del negozio giuridico ma,
piuttosto, hanno voluto sottolineare la nozione di contratto in quanto negozio giuridico al centro
della vita e degli affari, giacché strumento concreto conforme alle esigenze del privato e alla “nuova
economia”6.
Quindi, tirando le fila del discorso, si può affermare che il negozio è atto di volontà
mediante il quale i privati fanno entrare nell’universo giuridico le loro pattuizioni, al fine di elevare
i loro accordi al crisma della giuridicità. Ciò soprattutto per quanto riguarda la vincolatività delle
promesse.
In tal senso il brocardo pacta servanda sunt è solo il punto di partenza della riflessione. Occorre
infatti interrogarsi sulla latitudine di potere che l’ordinamento riconosce alla volontà del privato,
posto che essa riceve il “sigillo di nobiltà” che le consente di elevarsi da semplice dichiarazione a
“legge tra le parti” (secondo l’enfatico disposto dell’art. 1372 cod. civ.). In altri termini, e con
maggior sforzo esplicativo, l’accordo tra i privati è ex se sufficiente a giustificare la creazione di
effetti giuridici, ovvero è necessario anche l’intervento in funzione di controllo dell’ordinamento?
A tale quesito le dottrine hanno dato risposte diametralmente opposte, a seconda della
corrente filosofica di appartenenza. Muovendo dalla concezione di marca giusnaturalistica, per cui
il centro propulsore della vicenda contrattuale è il consenso che si autolegittima non avendo
bisogno di un riconoscimento esterno, si è elaborata la cosiddetta “teoria della volontà”
5
La scuola pandettistica, sviluppatasi in Germania alla fine del XVIII secolo, promuove uno studio della scienza
giuridica basato sui testi di diritto romano, in particolare le Pandette di Giustiniano. L’approccio metodologico è
fondato su un’analisi rigorosamente scientifica del diritto, depurata dalle “scorie” giusnaturaliste che ne avevano
caratterizzato fino ad allora lo studio ed è finalizzato alla rielaborazione di un sistema di diritto privato chiuso e privo di
antinomie.
6
Si legge al §604 della Relazione del Ministro Guardasigilli al codice del 1942: “Nella redazione del nuovo codice, in
conformità alla nostra tradizione giuridica, non si sono dettate norme per disciplinare il negozio giuridico; invece si è
regolato quel negozio giuridico, centro della vita e degli affari, che si chiama contratto, e, con una disposizione
generale (art. 1324), si sono dichiarate applicabili le norme dettate per i contratti agli atti unilaterali tra vivi aventi
contenuto patrimoniale”.
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(willensdogma) secondo la quale la sorgente vitale del negozio giuridico è proprio la forza creatrice
della volontà dell’individuo. Si intravede in filigrana la tensione tra forza dell’individuo e forza
dell’ordinamento che sarà il leit motiv di tutte le teorie sul negozio giuridico.
E’ evidente, in questo caso, per il ruolo preponderante che assume la “forza creatrice” della volontà,
che nel rapporto individuo-ordinamento, si predilige il primo polo della relazione.
La “teoria della volontà” affonda le proprie radici nello storicismo e nella scuola storica (il cui
fondatore fu Savigny, precursore della Pandettisca), secondo cui il fondamento dello Stato è da
rinvenirsi non già nelle leggi di natura (lo ius naturale che aveva influenzato le elaborazioni
giusnaturalistiche), bensì negli usi e nelle consuetudini del popolo.
Muovendo da questo presupposto le conclusioni cui si giungeva erano nel senso di riconoscere alla
categoria del negozio giuridico una pre-esistenza rispetto all’ordinamento stesso, di talché il ruolo
di quest’ultimo doveva essere di mero riconoscimento dell’autonomia privata (e non già di
autorizzazione).
La trasposizione di questo assioma nel binomio volontà-norma si traduce nell’esclusiva rilevanza
della prima rispetto alla seconda sotto il profilo della produzione dell’effetto giuridico. In altri
termini, l’ordinamento rileva in quanto consente il riconoscimento di quanto voluto dalle parti (e già
creato a prescindere dall’ordinamento stesso).
Altra parte della dottrina, non riconoscendo nella volontà il ruolo di forza creatrice
assegnatole dalle teorie suesposte, riteneva che essa da sola non fosse in grado di modificare e
plasmare la realtà naturale senza l’intervento delle forze naturali dell’uomo. Solo attraverso l’agere
fisico la volontà da inafferrabile entità si trasformava in qualcosa di tangibile e produttivo di
conseguenze (id est effetti giuridici).
Questi i presupposti concettuali dai quali è sorta la “teoria della dichiarazione” secondo cui
l’interno volere non può avere nessuna rilevanza giuridica, fintanto che non trovi un’espressione
“(...) grazie alla quale soltanto la volontà, acquistando importanza sociale, diventa un fenomeno
giuridico”7. Espressione che trova la sua forma nella dichiarazione in quanto strumento mercé il
quale la volontà si oggettivizza e si materializza nella realtà empirica, assurgendo a primum movens
della produzione degli effetti giuridici.
7
F. Santoro Passarelli, op. cit., p. 145.
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La ragione della causa del contratto
Naturalmente, dichiarazione e volontà non possono viaggiare su binari paralleli, insensibili l’un
l’altro, non potendo ammettersi che, per la validità e l’efficacia del negozio, sia sufficiente la mera
dichiarazione anche se difforme dall’interno volere8.
Per sanare le ipotesi in cui non vi è corrispondenza tra dichiarazione e volontà la dottrina segue i
solchi teorici tracciati dal principio dell’affidamento e dal principio della responsabilità in base ai
quali, intanto la dichiarazione assume rilevanza strutturale in quanto generi, da un lato, in capo alla
parte da cui proviene, la responsabilità per quanto dichiarato, e dall’altro, specularmente, un
affidamento in capo alla controparte.
Più specificamente la situazione apparente prevale su quella reale tutte le volte in cui la volontà
manifestata all’esterno, anche se difforme da quella reale, abbia determinato l’affidamento
incolpevole del destinatario. Tuttavia, non ogni affidamento è tutelato dall’ordinamento giuridico,
ma solo quello caratterizzato dalla buona fede, fermo restando in capo al destinatario della
dichiarazione un obbligo di diligenza nell’acquisizione delle informazioni9.
Così, al contrario, se l’affidamento in concreto non sorge o sorge colpevolmente per imprudenza o
negligenza del destinatario, verrà meno la ragione della prevalenza del momento dichiarativo
rispetto a quello volitivo.
Ne deriva in tal modo il recupero dell’elemento della dichiarazione del classico binomio
“dichiarazione di volontà”, formula icastica attraverso la quale si forniva una definizione esaustiva
di negozio giuridico. La dichiarazione, quindi, assume il ruolo di limite alla mutevolezza,
all’incertezza, alla volubilità della mera volontà umana.
Elevando il profilo dell’indagine si può indubbiamente asseverare come, la teoria in parola, abbia
recuperato la funzione di razionalizzazione delle relazioni umane, ontologicamente connaturata alla
natura dell’ordinamento quale sistema convenzionale di regole “ordinanti”, che era stata
“annacquata” con la teoria della volontà (che esponeva le relazioni e i traffici economici ai capricci
dell’essere umano).
In particolare, tale funzione razionalizzatrice si dipana lungo due linee direttrici: per l’ordinamento
stesso, imponendo non più la strenua ricerca del voluto (oggetto di indagine spesso evanescente e
non pienamente intelligibile); per i soggetti che all’ordinamento appartengono, imponendo loro di
conformarsi a quanto da essi stessi dichiarato.
8
F. Santoro Passarelli, op. cit., p. 146, afferma con ineguagliabile efficacia linguistica che “Una tale veduta (n.d.a.
della autosufficienza della dichiarazione rispetto alla volontà) ridurrebbe il negozio giuridico a un manichino senza
vita, contro la realtà, la quale ci insegna che nella sua genesi storica e nella sua figura normale il negozio è un atto di
volontà”.
9
Un’applicazione empirica del principio è rinvenibile nella disciplina della simulazione ex artt. 1414-1417 cod. civ. che
esclude l’opponibilità della simulazione ai terzi acquirenti in buona fede.
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9
La forza dell’autonomia della volontà resta integra, potendo gli individui realizzarla attraverso il
negozio giuridico, con la precisazione, però, che tale realizzazione avverrà mediante il necessario
filtro della dichiarazione.
Risulta così reciso il nesso, imperante per i sostenitori del willensdogma, tra volontà ed effetto
giuridico, giacché quest’ultimo dovrà essere considerato alla stregua di un obbligo per il dichiarante
di conformarsi e di rispettare il decisum espresso nella dichiarazione di volontà.
Alle due teoriche accennate se ne affianca un’altra – la teoria precettiva10 – che, partendo
dalle medesime premesse concettuali da cui muove la teoria della dichiarazione, se ne discosta
profondamente poiché “smantella” il ruolo della volontà all’interno della struttura del negozio
giuridico.
La dottrina precettiva sostiene che la volontà “come fatto psicologico meramente interno, è
qualcosa di per sé inafferrabile e incontrollabile” 11 e che la sua rilevanza giuridica deriva
imprescindibilmente dalla circostanza che essa si traduca in un fatto sociale. Di conseguenza la
nozione di contratto non consiste né nell’elemento psicologico della volontà, né in quello materiale
rappresentato dalla dichiarazione: esso è prima di tutto un fenomeno sociale.
Fenomeno che viene identificato nella disposizione attraverso la quale il soggetto regola da sé i
propri interessi in rapporto ad altri, e cioè appunto nell’autoregolamento. Regola che diviene
comando (precetto) al seguito del suo riconoscimento da parte dell’autorità statuale12.
Dunque, si scorge in nuce un diverso equilibrio nella relazione individuo-stato, con prevalenza del
secondo sul primo, giacché è l’ordinamento che recepisce gli interessi dei singoli e li “filtra”
attribuendogli rilevanza giuridica (qui vengono in rilievo gli “interessi meritevoli di tutela” ex art.
1322 comma 2 cod. civ. che saranno oggetto di approfondimento nel prosieguo della trattazione).
Pertanto l’ordinamento statuale riconosce l’autonomia degli individui e la funzionalizza al
raggiungimento anche di fini ulteriori rispetto a quelli perseguiti dai singoli con la singola
contrattazione, o quantomeno non in contrasto con essi (appare evidente il sostrato logico-giuridico
che caratterizzerà le successive teorie oggettive sulla causa).
10
Tra i principali sostenitori della tesi si ricordano E. Betti, “Teoria del negozio giuridico”, Utet, Torino, 1960; R.
Scognamiglio, “Contributo alla teoria del negozio giuridico”, Jovene, Napoli, 2008.
11
E. Betti, op. cit., p. 52.
12
In questi termini G. Palermo, “L’autonomia negoziale”, Giappichelli editore, Torino, 2011.
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La ragione della causa del contratto
L’analisi delle norme conferma un dato già segnalato dalle teorie lato sensu oggettive: il solo
accordo non è sufficiente per la creazione degli effetti giuridici, poiché l’autonomia dei singoli non
è completamente auto-legittimante.
Si rende allora necessario un controllo delle pattuizioni dei singoli individui da parte
dell’ordinamento giuridico, la cui attuazione avviene principalmente per mezzo dell’istituto della
causa del contratto.
In tal senso basta analizzare brevemente la disposizione di cui all’art. 1322 II comma cod. civ.,
nella parte in cui attribuisce il potere alle parti di concludere contratti non appartenenti ai tipi
previsti “(...) purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento
giuridico”, e la sua legittimazione costituzionale ex post rinvenibile all’art. 41 Cost13.
Fissate, dunque, le principali “tappe” concettuali che hanno accompagnato il secolare
dibattito sul negozio giuridico e sul fondamento della dinamica della produzione degli effetti
giuridici, analizzato funditus l’imprescindibile dato positivo, confermata la necessità di un controllo
“eteronomo” sugli accordi conclusi dai singoli, si può procedere ora ad illustrare il concetto di
causa del contratto e le sue appendici teoriche.
13
Tra le più importanti pronunce del Giudice delle leggi sul tema si rinvia a Corte Cost., 21 marzo 1969, n. 37, la cui
prevalente opinione propende per la tutela costituzionale indiretta, di talché l’autonomia contrattuale è garantita nei
limiti previsi per le situazioni costituzionalmente protette che ad essa servono da base. Si rinvia per un approfondimento
a S. Rodotà, “Le fonti di integrazione del contratto”, Giuffrè, Milano, 2004 (rist.).
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§2 La causa: analisi dottrinale
Stabilito che il fondamento del potere attribuito ai privati non risiede nel nudo patto, ma in
un’entità in parte esterna che ne legittima l’ingresso nella struttura giuridica, occorre a questo punto
della trattazione indagare la natura e l’evoluzione storico-concettuale di tale entità.
Si tratta, con buona evidenza della causa, la cui definizione ha impegnato (e tuttora
impegna) le menti più brillanti della nostra dottrina.
Tradizionalmente lo studio dell’istituto in esame muove dalla contrapposizione tra concezione
analitica e concezione unitaria, di cui è opportuno fare dei cenni.
La prima, erede della tradizione giuridica francese – codificata poi anche nel Codice civile
del Regno d’Italia – riferisce la causa alle singole obbligazioni nascenti dal contratto,
individuandola ora nella controprestazione (teoria oggettiva classica), ora nello scopo ultimo del
creditore (teoria soggettiva). Il principale referente normativo della concezione analitica è
rinvenibile nell’art. 1119 del Codice civile del 1865 che stabiliva “L’obbligazione senza causa, o
fondata sopra una causa falsa o illecita, non può avere alcun effetto”. Emerge con nitore il cuore
pulsante di questa teorica, in quanto calibrata esclusivamente nella ricerca giustificativa del
fondamento dell’obbligazione, e non del contratto.
Storicamente la ragione di tale opzione derivava dalla circostanza per cui, nel vigore del codice del
Regno, non era concepibile una causa del contratto che non fosse causa dell’obbligazione, in quanto
l’effetto giuridico prodotto dal contratto dipendeva necessariamente dall’intermediazione di una
obbligazione.
Tale concezione mostrò i primi segni di debolezza con l’avvento dei contratti ad effetti reali,
giacché essa non riusciva a spiegare il trasferimento immediato del diritto per il tramite del solo
contratto e non di una obbligazione in funzione di intermediazione14.
14
Eventualità venuta meno con l’accoglimento del principio del consenso traslativo cristallizzato nell’art. 1376
dell’attuale codice civile, secondo cui il consenso è sufficiente a generare il trasferimento della proprietà di una cosa
determinata, di un diritto reale ovvero di un altro diritto. Secondo alcuni Autori, peraltro, anche nelle ipotesi di contratto
traslativo tra alienante e acquirente nascerebbe comunque un rapporto di natura obbligatoria, avente ad oggetto
l’obbligo per il primo di far acquistare il diritto al secondo, laddove tale effetto non sia immediato, cfr. R. Nicolò,
“Raccolta di scritti II”, Giuffrè, Milano, 1980. Contra F. Gazzoni, “Manuale di diritto privato”, Edizioni scientifiche
italiane, Napoli, 2011 XV ed., il quale afferma che trattasi non già di un’obbligazione quanto piuttosto di un mero
obbligo di natura strumentale.
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La ragione della causa del contratto
Inoltre, il congegno concettuale che stava alla base della concezione in esame mostrò il fianco
anche ad ulteriori critiche: in particolare essa venne superata dall’osservazione mossa dalla dottrina
pandettistica secondo cui l’obbligazione non costituisce la causa dell’obbligazione, bensì il titolo
della prestazione, di talché la sua mancanza non determina un giudizio di invalidità ma di indebito.
In altri termini, la prestazione è atto esecutivo del contratto la cui causa va evidentemente ricercata
altrove e non nell’obbligazione15.
La concezione unitaria, al contrario, individua il centro pulsante della dinamica di
produzione degli effetti giuridici nell’intera vicenda negoziale, riferendo la causa non
all’obbligazione ma al contratto.
È quindi il negozio, di cui la causa è giustificazione, ad essere fonte unitaria di effetti giuridici, le
cui prestazioni ne sono esecuzione, trovando legittimazione in esso.
L’attribuzione patrimoniale (la prestazione), quindi, trova il proprio titolo nel contratto e per essa
non si pone un distinto problema causale, giacché la sua causa coincide con quella del contratto
stesso.
Il codice civile del ’42 ha accolto quest’ultima concezione, dal momento che, come già visto nel
paragrafo precedente, riferisce la causa al contratto, elevandola a suo requisito essenziale la cui
assenza, illiceità, non meritevolezza ne determinano la nullità (artt. 1325, 1343, 1418 II comma cod.
civ.).
Entrambe le suddette concezioni, comunque, non riuscivano a rispondere all’interrogativo
circa il fondamento giustificativo dell’atto di autonomia negoziale posto in essere dai privati, e cioè,
se esso debba rinvenirsi in un quid promanante dai soggetti stessi, ovvero in un oggetto esterno alla
volontà dei paciscenti.
A questo proposito l’indagine intorno alla causa può essere convenzionalmente suddivisa in un
apparato dicotomico antitetico: teorie soggettivistiche da un lato, teorie oggettivistiche dall’altro16.
L’approccio soggettivistico, concettualmente sorto in seno alla concezione analitica, è il più
risalente, trovando le sue origini già nell’opera di Pothier, giungeva alla conclusione secondo cui
causa dell’obbligazione era lo scopo della parte, ovverosia la somma degli scopi perseguiti dalle
parti. Così, la causa della vendita era considerata quale la risultante dello scopo del venditore di
conseguire il prezzo e di quello dell’acquirente di avere la cosa.
Altra parte della dottrina, invece, inquadrava la causa nel motivo ultimo che aveva spinto le parti a
contrattare, così riecheggiando quella causa finalis cara ai commentatori (nel diritto intermedio,
15
C.M. Bianca, op. cit., pp. 456 ss.
Invero, accanto a questi due “blocchi” teorici, si affiancano anche le teorie anticausaliste le quali identificano la causa
con il consenso. Benché intellettualmente “affascinanti” esse non hanno il minimo appiglio positivo, giacché il codice
civile annovera la causa quale elemento essenziale del contratto. E l’interprete, nella sua opera ermeneutica, deve
necessariamente “fare i conti” con il dato legislativo.
16
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1
3
infatti, si distingueva tra causa preterita e causa finalis, quali entrambi momenti costitutivi
dell’istituto).
Un siffatto approccio era però destinato a franare concettualmente, mostrando tutte le sue
lacune, allorquando ci si accingeva ad indagare la natura causale dei negozi diversi da quelli
corrispettivi, caratterizzati cioè dall’assenza di una controprestazione.
Uno dei punti deboli fu individuato in relazione al contratto di donazione giacché non si riusciva
spiegare quale fosse la “ragione negoziale” del donante, a meno di non volerla riconoscere
tautologicamente nell’interesse di arricchire l’altro (nell’intento di liberalità). A scapito,
evidentemente, della linearità della nozione.
Le teorie oggettivistiche muovono da un diverso presupposto: il fondamento del potere di
autonomia privata, la possibilità attribuita ai soggetti di farsi creatori di effetti giuridici, non può
risiedere nei loro scopi o nei motivi che li spingono a contrattare. Al contrario gli Autori che
aderiscono a queste tesi, in adesione alle teorie del negozio giuridico (in particolare quella
precettiva), sostengono la necessità di fissare all’esterno delle parti tale fondamento per recidere il
nesso tra volontà e causa.
Appartengono a questa categoria tutte le tesi che impiegano il termine “funzione” per tracciare la
nozione di causa.
Secondo questa visione essa si pone in una posizione di terzietà che è, appunto, quella
dell’ordinamento, non essendo ammissibile un’autolegittimazione della regola posta dalle parti,
regola che, ai sensi dell’art. 1372 cod. civ., ha tra di loro “forza di legge”.
Ne deriva che il fondamento giustificativo del potere dei privati deve situarsi in un’entità funzionale
ad essi esterna: la causa, quindi, da intendersi quale parametro di valutazione dell’operazione
negoziale ad esclusivo appannaggio dell’ordinamento statuale.
Uno dei maggiori esponenti dell’approccio oggettivistico è indubbiamente il Betti che elaborò una
nozione di causa intesa come funzione economico-sociale del contratto17.
Il successo di questa tesi (anche nota come teoria della causa in astratto), accolta in blocco dalla
giurisprudenza della Suprema Corte e ampiamente maggioritaria almeno fino a pochi anni fa, deriva
sostanzialmente dalla sua linearità, cogliendo in maniera cristallina il dato del controllo da parte
17
Il riferimento è alla monografia “Teoria generale del negozio giuridico”, cit., opera fondamentale nello sviluppo del
dibattito intorno alla causa del contratto.
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14
La ragione della causa del contratto
dell’ordinamento delle singole contrattazioni realizzate dai privati. Inoltre, essa era conforme anche
al trend politico dell’epoca di emanazione del codice, caratterizzato dal ruolo centrale che lo Stato
assumeva di sé, “piegando” l’autonomia privata verso finalità lato sensu pubblicistiche. E, infatti,
analizzando il sintagma funzione economico-sociale tale dato emerge con immediatezza: da un lato
si fa riferimento alle leggi economiche che guidano i soggetti nelle loro relazioni patrimoniali,
dall’altro però si aggiunge il riferimento a un’entità esterna, la società, ciò significando che l’homo
oeconomicus non può agire solo seguendo il proprio interesse a massimizzare il profitto, ma deve
servirsi del potere concessogli dall’art. 1321 (di costituire, regolare, estinguere rapporti giuridici
patrimoniali) in modo tale da favorire l’utilità sociale.
In definitiva, quindi, per l’Autore, la causa rappresenta il risvolto sociale dell’autonomia privata,
funzione tipica del negozio giuridico e ragione giustificativa dell’operazione posta in essere.
Questa, peraltro, la concezione accolta dai compilatori del codice (tra i quali figurava lo
stesso Betti, chiamato a redigere proprio il libro IV sulle obbligazioni), così come testimoniato dalla
Relazione al Guardasigilli nella quale si legge, al §613, che: “(...) un codice fascista, ispirato alle
esigenze di solidarietà, non può ignorare la nozione della causa senza trascurare quello che deve
essere il contenuto socialmente utile del contratto (...); (...) che la causa richiesta dal diritto non è
lo scopo soggettivo, qualunque esso sia, perseguito dal contraente nel caso concreto (ché allora
non sarebbe ipotizzabile alcun negozio senza una causa), ma è la funzione economico-sociale che il
diritto riconosce rilevante ai suoi fini e che sola giustifica la tutela dell’autonomia privata.
Funzione pertanto che deve essere non soltanto conforme ai precetti di legge, all’ordine pubblico e
al buon costume, ma anche, per i riflessi diffusi dall’art. 1322, secondo comma, rispondente alla
necessità che il fine intrinseco del contratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole di
tutela giuridica”18.
L’accoglimento di siffatta tesi comporta però delle problematiche di non poco momento,
sulla cui soluzione si baseranno le teorie successive ad essa contrapposte.
In particolare, affermare che la causa è funzione economico-sociale tipica di ogni contratto, implica
che tutti i contratti tipici ne abbiano una; il che logicamente conduce alla conclusione per cui un
problema di liceità della causa si pone solo in riferimento ai contratti atipici di cui all’art.1322 II
comma cod. civ.
In altre parole, la previsione legale del contratto sigilla irrefutabilmente la positiva valutazione
dell’ordinamento in merito a quella operazione economica. E allora, un problema di liceità della
18
Si
rinvia
alla
Relazione
del
Guardasigilli
liberamente
consultabile
http://www.consiglionazionaleforense.it/grandi/9-Libro_Quarto_delle_Obbligazioni.pdf.
a
questo
indirizzo
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5
causa per questi contratti non si porrebbe mai, al limite si potrebbe discettare di mancanza del tipo
legale19.
Questa, invero, una delle maggiori critiche mosse alla teoria della “causa in astratto”, giacché non si
riusciva a spiegare come il legislatore avesse potuto prefigurare un contratto tipico con causa
illecita; ciononostante, però, il dato positivo non lascia margine a dubbi: l’art. 1418 II comma, in
combinato con l’art. 1325 e 1343, prevedendo la nullità del contratto anche per illiceità della causa,
tratteggia con buona evidenza l’eventualità che essa, sebbene tipica, possa essere comunque illecita.
A conferma dell’assunto milita un’ulteriore proposizione normativa: l’art. 2126 cod. civ. stabilisce
espressamente che “La nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il
periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto
o della causa”, con il che viene configurato un contratto tipico (quello di lavoro subordinato) con
causa illecita.
Resta da capire come ciò sia logicamente possibile, atteso l’inquadramento e la cristallizzazione del
contratto da parte del legislatore all’interno dell’ordito codicistico.
A questo proposito giova riportare ancora una volta un passo della Relazione del
Guardasigilli al codice civile: “In ogni singolo contratto deve essere controllata la causa che in
concreto il negozio realizza, per riscontrare non solo se essa corrisponda a quella tipica del
rapporto, ma anche se la funzione in astratto ritenuta degna dall’ordinamento giuridico possa
veramente attuarsi, avuto riguardo alla concreta situazione sulla quale il contratto deve operare.
Tale controllo può rivelare che lo schema causale tipico non si può realizzare perché vi ostano le
circostanze oggettive peculiari dell’ipotesi concreta, le quali, essendo incompatibili con quello
schema, rendono illecito ciò che sarebbe astrattamente lecito”20.
Emerge dal passo citato che i compilatori avevano chiara la distinzione tra causa astratta e causa
concreta, sulla base della quale la dottrina successiva avrebbe focalizzato l’analisi e lo studio
dell’istituto.
19
Così F. Gazzoni, op. cit., pp. 810 ss. L’Autore inquadra le ipotesi tradizionalmente riportate di assenza della causa
(artt. 1876, 1895 e vendita di cosa propria) come contratti in cui non è configurabile il tipo legale e per quali, stante
l’assenza di significato economico, risulta impossibile ipotizzare l’impiego di uno schema atipico. Donde
l’impossibilità di qualificare positivamente il contratto stesso.
20
Cfr. §614 della Relazione consultabile al sito http://www.consiglionazionaleforense.it/grandi/9Libro_Quarto_delle_Obbligazioni.pdf.
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16
La ragione della causa del contratto
Occorre però intendersi sulle nozioni, giacché solo così facendo possono raggiungersi delle
conclusioni accettabili. In particolare è necessario comprendere la nozione di tipo contrattuale: con
questo sintagma si indica uno schema normativo atto a disciplinare una particolare operazione
economica, la cui funzione è sostanzialmente quella di fungere da punto di riferimento per le
contrattazioni dei privati. La giustificazione sistematica dell’utilizzo di tale meccanismo risiede
nell’opportunità di inquadrare le singole fattispecie contrattuali all’interno di categorie “ordinanti”
dalle quali far discendere conseguenze utili in termini di disciplina applicabile. A tutto vantaggio,
evidentemente, dei rapporti economici tra i privati21.
La definizione del tipo contrattuale è in genere contenuta nelle disposizioni di legge intitolate alla
nozione del contratto e viene “disegnato” sulla base della causa che quel negozio in astratto
possiede. Così, prendendo a guisa d’esempio il contratto di compravendita, il tipo legale contenuto
nell’art. 1470 (nozione) si fonda sul modello causale che esso esprime (nel caso di specie scambio
di cosa contro prezzo). Orbene, essendo il tipo un’astrazione concettuale, esso giocoforza non può
considerare tutte le specificità, tutta la vasta e multiforme gamma di interessi sottesi all’operazione
negoziale concreta.
È proprio nello spatium tra astrattezza del tipo e concretezza dell’operazione economica portata a
termine dai privati che può celarsi l’eventualità di una causa (tipica) ma illecita.
Altra dottrina, muovendo dalla critica circa la sovrapposizione tra causa e tipo alla quale
conduceva la tesi della causa in astratto, ha ricostruito l’istituto fornendone la definizione sintetica
di funzione economico-individuale (causa concreta).
La causa quindi, secondo l’Autore che elaborò questa teoria 22 , rappresentava il punto di
convergenza tra le due prospettive, quella individuale, propria dell’atto, e quella generale, propria
dell’ordinamento, recuperando così l’elemento della concretezza obliterato dalla precedente tesi.
Invero, sebbene la teorica di questo illustre Autore abbia avuto l’indubbio merito di aver colto il
limite connaturato alla teoria della causa in astratto, sottolineando la necessità che la pattuizione dei
privati venisse analizzata sotto il profilo dei concreti obiettivi cui essa era diretta, allo stesso tempo
cela una contraddizione di fondo: non si può ricostruire l’istituto ora ponendosi in posizione di
terzietà, ora in ponendosi dalla parte dei contraenti. In tal senso risulta contraddittoria proprio la
definizione sintetica di funzione economico-individuale.
21
E. Gabrielli, “Il contratto e le sue classificazioni”, in “Trattato dei contratti”, op. cit., il quale, dopo aver brevemente
ripercorso le classificazioni tradizionali, ne sottolinea l’attuale inadeguatezza in relazione alle nuove tipologie di
contratto. Anziché continuare a studiare il diritto dei contratti nella prospettiva dei tipi codicistici, afferma l’A., è
maggiormente conforme alla realtà analizzare l’autoregolamento dei privati interessi che i soggetti intendono
cristallizzare nel contratto o, in altri termini, la concreta operazione economica. Egli, infatti, a tale proposito, sostiene
che “E’ in tale contesto che l’operazione economica esprime, al di là delle formule e della raffigurazione esteriore
dello schema adottato, il significato più profondo del potere di autonomia riconosciuto ai privati”.
22
G.B. Ferri, “Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico”, Giuffrè, Milano, 1966.
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7
Con maggiore sforzo esplicativo: se la causa è lo strumento attraverso il quale l’ordinamento
ammette l’ingresso degli accordi dei privati all’interno dell’ordinamento giuridico, allora essa si
pone necessariamente “dal lato dell’ordinamento”. Al più, i concreti interessi delle parti
concorreranno a perimetrare l’operazione economica realizzata sulla base del raffronto con il tipo
negoziale cristallizzato dal legislatore.
Dunque, emerge in filigrana l’equivoco concettuale sotteso alla dicotomia causa astratta vs causa
concreta: i contratti tipici hanno sia una causa astratta (il modello causale tratteggiato dalla norma),
sia una causa concreta (gli interessi che le parti intendono raggiungere tramite l’impiego del potere
di autonomia loro riconosciuto dall’ordinamento).
Attualmente anche la giurisprudenza della Suprema corte, dopo aver accolto quasi acriticamente la
teoria della causa in astratto, ha mutato il proprio orientamento, adottando la definizione di causa
quale “concreto assetto di interessi che le parti intendono raggiungere attraverso il contratto”23.
Ciò che invece va indagato sono i livelli di cui si compone l’accertamento causale.
A questo proposito può parlarsi di giudizio di rilevanza, giudizio di meritevolezza e giudizio di
liceità.
Il primo livello – quello di rilevanza – indica se il contratto ha una causa, cioè se l’incontro delle
volontà dei soggetti è sorretto da una spiegazione razionale. A questo livello non è necessario che la
causa sia anche iusta, ma è sufficiente che essa vi sia, altrimenti si legittimerebbe l’ingresso di
pattuizioni folli nell’ordinamento giuridico. Il referente normativo è rinvenibile all’art. 1321 cod.
civ., in particolare nella relazione causale tra l’accordo e gli effetti voluti dalle parti. A questo
livello, pertanto, i privati intendono attribuire al loro accordo il crisma della giuridicità, elevandolo
dall’universo “irrazionale” dei rapporti di cortesia.
Ma ciò non basta.
L’art. 1322 II comma, infatti, offre all’interprete un’ulteriore importantissima indicazione: il
contratto, ancorché atipico, deve essere diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela, aprendo
così la strada al giudizio di meritevolezza.
Il parametro di un siffatto giudizio non coincide con il raggiungimento di finalità di marca
pubblicistica, tipico di una concezione dirigistica dell’economia, bensì si ritiene sufficiente che il
contratto non contrasti con l’utilità sociale di cui all’art. 41 Cost.
23
Vedi infra § 3.
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18
La ragione della causa del contratto
Ciò stabilito resta aperta un’ulteriore questione, ovverosia stabilire se il giudizio di meritevolezza si
applica ai soli contratti atipici24 o anche a quelli tipici. La norma riferisce il suo contenuto ai
contratti che non hanno una disciplina particolare. Con il che, apparentemente, essa sembra
escludere il giudizio di meritevolezza per i contratti tipici.
Tuttavia la disposizione successiva – l’art. 1323 rubricata “Norme regolatrici dei contratti” – offre
all’interprete un dato non secondario, atteso che stabilisce l’applicabilità delle norme generali sui
contratti (quelle contenute nel titolo II) a tutti i contratti: ne deriva, quale logico corollario, che la
latitudine applicativa dell’art. 1322 II comma in punto di meritevolezza degli interessi perseguiti si
estende a tutti i contratti, siano essi tipici o atipici.
Il legislatore, infatti, ha incluso anche i contratti atipici nel novero degli atti di autonomia negoziale
sottoposti al giudizio di meritevolezza, non escludendo perciò solo quelli tipici. Si tratta di una
fattispecie inclusiva, cioè di una norma che detta una disciplina particolare per l’oggetto in essa
previsto, senza escludere da tale disciplina ciò che essa non prevede.
Ciò che muta è il parametro: per i contratti tipici il giudizio di meritevolezza viene attuato dal
giudice in relazione al tipo legale disegnato dal legislatore attraverso l’opera di qualificazione; per
quelli atipici, attesa la mancanza del tipo, il giudice dovrà valutare se l’assetto di interessi divisato
dalle parti non si pone in contrasto con l’utile sociale ex art. 41 Cost.
Si pensi al caso della vendita di un immobile dal valore di 1 milione di € scambiato per 100.000 €.
In tale ipotesi l’assetto di interessi non può essere qualificato come contratto di compravendita ai
sensi dell’art. 1470 cod. civ. – scambio di cosa contro prezzo – dal momento che esso prevede che
vi sia un nesso di corrispettività.
Infatti, il tipo legale della compravendita è costruito sulla base delle leggi microeconomiche che
regolano questo tipo di operazione economica, ed è evidente che nessuna di esse può prevedere lo
scambio di un bene di valore cospicuo a fronte della corresponsione di un prezzo “vile”.
Dunque, tale accordo non potrà essere qualificato come vendita giacché non ne rispecchia la causa,
ma ciò non esclude che possano sussistere altre ragioni giustificative della transazione25.
L’ultimo livello di accertamento causale inerisce alla sua liceità, ovverosia alla sua
conformità con i precetti dell’ordinamento.
In particolare, l’apparato normativo di riferimento è contenuto nella sezione II del titolo II dedicata
proprio alla causa del contratto. Il micro complesso normativo di cui essa è composta, rappresentato
24
Per una breve analisi della categoria dei contratti atipici (misti e complessi), nonché in generale del fenomeno del
collegamento negoziale ci sia concesso un rinvio al nostro recente post “Il collegamento negoziale: come
riconoscerlo?” .
25
Il tema è quello degli interessi non patrimoniali idonei a giustificare il trasferimento della proprietà o di altro diritto
reale. La dottrina più recente in questi casi parla di “causa esistenziale” o, nelle ipotesi di prestazioni di fare estranee
alle logiche di scambio, di “causa di solidarietà”.
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dagli artt. 1343-1345, sancisce la nullità della causa – e per essa la nullità del contratto –
allorquando sia contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume; quando il
contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa; ovvero, infine,
quando le parti abbiano deciso di contrattare mosse da un motivo illecito comune.
Anche per quanto concerne il giudizio di illiceità si è posto il problema in merito alla sua riferibilità
ai soli contratti atipici, posto che, la coincidenza tra causa e tipo sostenuta dalla dottrina della causa
in astratto, sterilizza tale giudizio in relazione a quelli tipici. In altri termini, si sosteneva che non
era pensabile un contratto tipico contra legem.
Tuttavia, occorre precisare che, al di là dell’astratta definizione del tipo offerta dal legislatore, ciò
che va valutato è sempre il concreto assetto di interessi perseguito dalle parti attraverso l’utilizzo
del contratto. Pertanto, lo schema fornito dal tipo è suscettibile di essere applicato in maniera non
conforme ai precetti ordinamentali, venendo in rilievo le circostanze oggettive e soggettive legate a
tali concreti interessi.
La previsione di cui all’art. 1344 cod. civ., invece, si riferisce non alla causa ex se considerata, ma
al contratto finalizzato all’elusione delle norme imperative. In tal caso, essa viene considerata (e
quindi non è ontologicamente) illecita, in virtù della distorsione attuata dalle parti nell’utilizzo dello
strumento contrattuale.
La nullità per motivo illecito comune ci consente di introdurre brevemente la nozione di motivi e la
loro distinzione dalla causa.
La norma di cui all’art. 1345 commina la nullità del contratto, definendolo illecito, proprio quando
risulta che il potere di autonomia negoziale è stato “attivato” sulla base di un motivo illecito
comune. Da ciò si inferiscono diversi dati: in primo luogo che il motivo illecito “unilaterale” non è
sufficiente a determinare l’illiceità del contratto, essendo all’uopo necessario che esso coinvolga
tutte le parti della vicenda negoziale; in secondo luogo la disposizione offre all’interprete la
possibilità di discernere la differenza tra causa e motivi.
I motivi sono “gli interessi che la parte tende soddisfare mediante il contratto ma che non
rientrano nel contenuto di questo”26 e di regola sono irrilevanti (un’eccezione è proprio l’art. 1345).
Si tratta di finalità esterne al contenuto dell’autoregolamento privato che, in quanto tali, non
incidono sui diritti e sugli obblighi cristallizzati nel contratto.
26
C. M. Bianca, op. cit., pp. 461 ss.
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20
La ragione della causa del contratto
La loro irrilevanza è connessa al fatto che essi restano nel cd. foro interno delle parti, essendo di
fatto dei meri impulsi psichici che non confluiscono nella volontà. In definitiva si tratta di volontà
non oggettivizzata e perciò irrilevante ai fini dell’ordinamento giuridico.
Esemplificando: il contratto di trasporto può essere sorretto da diversi motivi (lavoro, famiglia,
svago etc. etc.) che restano sullo sfondo della vicenda negoziale. Cionondimeno, se il vettore è un
impresa del settore turistico e il viaggio è una crociera, allora nel contratto vi confluiranno anche gli
interessi turistici, determinando, in capo alla parte che contrae l’obbligazione, l’insorgenza
dell’impegno ad effettuare una prestazione idonea a soddisfare il suddetto interesse.
In altri termini tutti gli interessi che si inseriscono nell’economia dell’affare, ancorché estranei alla
funzione tipica del negozio, concorreranno a “colorare” la causa del sottostante contratto.
Allorquando essi siano illeciti e comuni alle parti allora scatterà la sanzione della nullità del
contratto prevista dall’art. 1345 cod. civ.
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§3 L’evoluzione pretoria dell’istituto e le nuove “prospettive causali”
La teoria della causa in astratto patrocinata dal Betti è stata accolta e ampiamente impiegata anche
dalla giurisprudenza incline ad utilizzare, spesso in tono declamatorio, la formula sintetica
“classica” secondo cui essa è la funzione economico-sociale del contratto.
Dopo oltre mezzo secolo, però, anche l’orientamento pretorio (della Suprema corte e di
conseguenza anche dei giudici di merito) ha subito delle modificazioni di cui occorre dare contezza
al lettore.
Il leading case che ha dato la stura all’evoluzione dell’indirizzo giurisprudenziale è stato
quello regolato dalla sentenza della Corte di cassazione, 8 maggio 2006, n. 10490, in cui i supremi
giudici hanno riconosciuto expressis verbis nella causa la “sintesi degli interessi reali che il
contratto stesso è diretto a realizzare”.
Il caso può essere riassunto così: Tizio stipula con la società Gamma due successivi contratti di
consulenza, attraverso i quali viene nominato membro del c.d.a. di alcune delle società facenti capo
a Gamma. Nel momento in cui chiede il pagamento del corrispettivo per la consulenza prestata
Gamma gli oppone un rifiuto ad adempiere, sulla scorta del fatto che le prestazioni professionali
svolte risultavano le stesse che Tizio avrebbe dovuto svolgere in qualità di amministratore delle
società collegate. Allora, Tizio, conviene in giudizio Gamma, risultando soccombente sia in primo
grado che in appello.
La Corte di cassazione dichiara la nullità del contratto di consulenza in quanto non sorretto da una
causa concreta, essendo privo di un ragione pratica (economica) poiché diretto ad assicurare
prestazioni già dovute da Tizio in adempimento dei propri doveri di amministratore e a tale titolo
già remunerate.
In tal senso, quindi, il supremo consesso giurisdizionale assevera la recisione della causa dal tipo
contrattuale, la prima essendo intimamente connessa allo specifico assetto di interessi delineato dai
paciscenti nel contratto. Con il che restano concettualmente e logicamente distinti i motivi dalla
causa, atteso che i primi, se non oggettivizzati (implicitamente o esplicitamente) e quindi non
assurti al rango di interessi, restano comunque al di fuori della dimensione funzionale del contratto.
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22
La ragione della causa del contratto
Su questa scia ermeneutica si pone un altro importante arresto della Suprema corte, la
sentenza 20 dicembre 2007, n. 26598, nella quale i giudici hanno dichiarato la nullità del contratto
per la sopravvenuta inutilità della prestazione del creditore.
La vicenda può essere riassunta come segue.
Due coniugi prenotano un soggiorno alberghiero in una località turistica ma, repentinamente, uno
dei due viene a mancare il giorno prima della partenza. Il coniuge superstite, allora, si vede costretto
ad annullare la vacanza e chiede all’albergatore la restituzione del corrispettivo già versato per il
periodo già pagato ma non goduto.
La domanda viene accolta sia in primo grado che in appello con motivazioni inerenti
all’impossibilità sopravvenuta (parziale) della prestazione ex art. 1463 cod. civ.: in altri termini,
posto che l’obbligazione dell’albergatore era diretta a soddisfare l’interesse di entrambi i coniugi e
dal momento che uno dei due era deceduto prima del periodo di soggiorno, allora l’albergatore non
avrebbe potuto adempiere eseguendo la prestazione oggetto del contratto.
L’organo di nomofilachia si pone nell’angolo prospettico della causa intesa come funzione concreta
del contratto e, nel caso di specie, afferma il principio per cui la sopravvenuta imparzialità della
prestazione per il creditore, incidendo sulla funzione concreta del contratto, determina l’automatica
risoluzione del rapporto contrattuale.
Dunque emerge un ulteriore profilo di assoluta rilevanza: la causa non solo come strumento di
controllo dell’autonomia privata in una fase genetica del rapporto, ma anche meccanismo dinamico
di riequilibrio delle prestazioni in una fase evidentemente successiva a quella di conclusione del
contratto.
Viene così a incidersi, in senso ampliativo, sulla latitudine di potere del giudice in punto di
sindacato sul contenuto contrattuale, non più limitato alla fase costitutiva del rapporto ma esteso
anche alla fase dinamica dello stesso.
La teoria della causa in concreto, inoltre, è stata impiegata dalla Corte anche in relazione
all’individuazione della natura onerosa o gratuita dell’atto di adempimento del terzo.
Con la sentenza a sezioni unite del 18 marzo 2010, n. 6538 la corte ha stabilito che, in tema di
revocatoria fallimentare di atti a titolo gratuito ai sensi dell’art. 64 L. Fall., la valutazione circa la
gratuità od onerosità di un negozio va valutata con esclusivo riguardo alla sua causa concreta, cioè
dalla sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare.
Il supremo consesso giurisdizionale ha così affermato che la classificazione (onerosa/gratuita)
dell’atto va analizzata non già sull’esistenza o meno di un rapporto sinallagmatico e corrispettivo
delle prestazioni sul piano tipico e astratto, bensì in relazione all’interesse sotteso all’intera
operazione da parte del solvens.
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In tal senso, pertanto, l’atto di adempimento del terzo, poi fallito, di un’obbligazione cui egli risulti
estraneo dovrà considerarsi gratuito solo allorquando sia dimostrato che il solvens non abbia tratto
dall’operazione nessun vantaggio patrimoniale, essendo mosso solo dall’intento di recare un
vantaggio al debitore; al contrario, quando dall’intera operazione valutata in concreto risulti che il
terzo abbia ricevuto un vantaggio per la prestazione effettuata, allora tale atto avrà necessariamente
natura onerosa.
Recentemente la Suprema corte ha confermato l’accoglimento della teoria della causa
concreta così come risulta dalla nota sentenza resa a sezioni unite, la n. 4628/2015.
In questo arresto, di particolare rilevanza perché involgente la tematica dell’ammissibilità del
“preliminare di preliminare”, la massima composizione della Cassazione ha impiegato come
“grimaldello” per scardinare il precedente orientamento negativo sul punto proprio la concezione
concreta della causa.
Tanto da arrivare ad affermare che: “Le Sezioni Unite della Corte intendono cogliere gli aspetti
costruttivi di quel moderno orientamento che vuole riconoscere la libertà delle parti di
determinarsi e di fissare un nucleo di interessi da trasfondere nei vari passaggi contrattuali.
Viene in primo luogo in risalto, come evidenziato dal più recente dibattito dottrinale, la tematica
della causa concreta. (...) L'indagine relativa alla causa concreta, - è stato evidenziato - giova sia
come criterio d'interpretazione del contratto sia come criterio di qualificazione dello stesso: "La
rispondenza del contratto ad un determinato tipo legale o sociale richiede infatti di accertare quale
sia l'interesse che il contratto è volto a realizzare". Questa chiave di lettura conduce a
riconsiderare gli approdi schematici ai quali sono pervenute in passato dottrina e giurisprudenza.
E' singolare, ma non casuale, che il profilo causale del contratto sia stato inteso in dottrina e
giurisprudenza come ricerca della utilità del contratto, cioè della sua "complessiva razionalità" ed
idoneità ad espletare una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti
attraverso quel rapporto contrattuale.
(...) La presenza della previsione di una ulteriore attività contrattuale può rimanere irrilevante, ma
va esaminata alla luce delle pattuizioni e dei concreti interessi che sorreggono questa seconda
fase negoziale”.
Emerge, in definitiva, l’accoglimento nel nostro sistema della teoria della causa concreta
quale effettiva chiave di lettura delle operazioni economiche realizzate dai privati in virtù del potere
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La ragione della causa del contratto
loro attribuito dall’ordinamento giuridico. Operazioni caratterizzate dal loro afflato dinamico
(dinamismo tipico della moderna economia), che mal si conciliano con la cristallizzazione degli
interessi offerta dai tipi contrattuali contenuti nel codice civile.
La moderna concezione della causa, peraltro, ha consentito di inquadrare e positivamente
qualificare talune operazioni prima tradizionalmente ritenute aliene ed escluse dal novero dei poteri
di autonomia privata.
Per esemplificare basti porre mente alla tematica, oggi attualissima, degli accordi prematrimoniali27
attraverso i quali ai nubendi è concesso di regolare, preventivamente, gli aspetti patrimoniali e
personali connessi all’eventuale crisi del matrimonio.
L’autonomia negoziale era tradizionalmente esclusa dal diritto di famiglia poiché si riteneva che
tale materia non fosse derogabile dalle parti: in altri termini la volontà dei soggetti aveva rilevanza
solo in relazione all’an dell’unione matrimoniale.
Soprattutto, era assolutamente inammissibile qualsivoglia tipo di accordo volto a regolare
preventivamente gli effetti di una crisi coniugale, giacché essa non era nella disponibilità delle parti.
Tuttavia, in virtù dell’accoglimento della concezione concreta della causa, la dottrina e la
giurisprudenza sono arrivate ad ammettere all’interno del diritto di famiglia l’esplicazione del
potere di autonomia privata.
Nella sentenza n. 23713/2012 la Corte di cassazione ha qualificato l’accordo tra due coniugi
come contratto atipico con condizione sospensiva lecita, espressione dell’autonomia negoziale degli
stessi diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela ex art. 1322 II comma cod. civ.
Sebbene non abbia espresso un giudizio di validità dei patti prematrimoniali all’interno del nostro
ordinamento – in ragione del fatto che la loro formale introduzione è pertinenza del potere
legislativo – il giudice della nomofilachia ha inquadrato l’accordo negoziale dei nubendi alla
stregua di un “(...) vero e proprio contratto caratterizzato da prestazioni e controprestazioni tra
loro proporzionali (…) libera espressione della loro autonomia negoziale (...)”.
Nel caso di specie la moglie si impegnava a trasferire al marito, in caso di fallimento dell’unione
coniugale, un immobile di sua proprietà, quale indennizzo delle spese sostenute per la
ristrutturazione di altro immobile adibito a casa coniugale, mentre il marito, a sua volta, si
impegnava a cedere alla moglie un titolo BOT di lire 20.000.000. Il fallimento del matrimonio è
stato considerato dalla Corte non la causa genetica del rapporto – giacché in tal caso il contratto
sarebbe stato nullo – ma un mero evento condizionale.
27
Ci sia concesso di rinviare a http://dirittoalpunto.com/2016/03/29/della-fine-dellamore-e-degli-accordiprematrimoniali/, ove viene commentata la proposta di legge che prevede l’introduzione nel nostro ordinamento della
figura degli accordi prematrimoniali.
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http://dirittoalpunto.com
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Dunque, autonomia privata e diritto di famiglia cessano di essere impermeabili l’uno all’altro, in
virtù della meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti dell’accordo28.
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Trend, questo, testimoniato anche dall’ingresso in subiecta materia dell’istituto della responsabilità aquiliana oramai
pacificamente riconosciuto, sotto il nome di illecito endofamiliare, dalla nostra giurisprudenza. Tra le altre segnaliamo
Cass. n. 5652/2012, nella quale la Corte ha affermato espressamente che “la violazione dei doveri familiari non trova
necessariamente sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, discendendo dalla natura giuridica
degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa
integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non
patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c.”.
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