Circuits Martedì 24 Gennaio 2006 ■ ■ Lo sceriffo del web Fase di verifica per la nuova tecnologia di sicurezza Riconoscimento facciale, parte il test negli aeroporti Meglio delle impronte digitali e della scansione dell’iride, è a prova di hacker, che possono rubare solo un’immagine di Umberto Rapetto S ono passati poco più di tre anni dalla «New Orleans Resolution» e, viste le funeste sorti della cittadina georgiana, è fuori luogo dire che ne è passata di acqua sotto i ponti. È proprio alla foce del Mississippi che, sotto gli auspici di un’agenzia delle Nazioni Unite, l’International civil aviation organization (Icao), è stato varato il provvedimento che ha individuato il riconoscimento della riproduzione del volto come tecnologia biometria di identificazione per i passaporti. La ricerca di valore aggiunto per i documenti di viaggio vedeva sul podio più basso, damigelle d’onore, le impronte digitali e la scansione dell’iride cui veniva comunque attribuito un ruolo di importante complementarità. Turisti o persone d’affari, una volta sottoposti a una scan facciale, vengono controllati automaticamente con un confronto tra il risultato dell’operazione al varco di frontiera e le immagini memorizzate nel microchip del passaporto elettronico ed eventualmente anche in un database centralizzato. La tecnologia dei microprocessori in questione è più sofisticata dei normali meccanismi Rfid (Radio frequency iden- tification). Questi ultimi sono rilevabili anche a distanza di parecchi metri, mentre il raggio di diffusione del segnale dei passaporti hi-tech è limitato a una decina di centimetri, con minori rischi di intercettazione o di altri scherzi correlati all’imperante furto di identità. Ma la vera differenza di qualità è data dal livello di elaborazione crittografica che è intrinseco nei chip dei cosiddetti e-passport. Anche se un pirata informatico riuscisse mai ad acquisire fraudolentemente il flusso di dati cifrati, la traduzione in informazioni con senso compiuto sarebbe operazione di estrema difficoltà. Nel caso dei passaporti l’hacker più bravo riuscirebbe solo a sgraffignare l’immagine digitale di qualcuno. Il test di questi documenti a prova di briganti cibernetici è scattato domenica 22 all’aeroporto internazionale di San Francisco, al Changi Airport di Singapore e allo scalo di Sydney. La verifica durerà fino al 15 aprile. Le tecniche di riconoscimento facciale sono comunque alla ribalta anche in altri contesti. È sempre di questi giorni la notizia del ciclopico progetto della polizia britannica, che sta lavorando per inserire un software di facial-recognition al- l’interno degli archivi in cui sono stoccate le immagini dei soggetti con precedenti penali. Una procedura automatizzata, è ovvio, permetterebbe di individuare criminali e soggetti pericolosi con maggiore celerità. L’agguerrita struttura della Police information technology organization è già al lavoro su Find, il cui acronimo, oltre a significare trova, sta per Facial images national database, per rilasciare nel più breve tempo possibile un archivio fotografico per le forze dell’ordine operanti in Inghilterra, Scozia e Galles. Nel primo trimestre di quest’anno è pianificato l’avvio dell’iniziativa pilota, che vedrà interessate le forze dell’ordine dell’area settentrionale inglese. L’iniziativa ha riverberazioni non trascurabili nello scenario del business tecnologico e l’Authority per l’informatica d’Oltremanica, particolarmente interessata agli sviluppi che questa può avere per l’imprenditoria del settore. L’esperienza pratica sarebbe necessaria per sedare ogni dubbio in ordine all’effettiva attendibilità di questo genere di tecnologia, contestata dai fautori di altri sistemi biometrici che, preso atto del progetto Find, non hanno davvero fatto… una bella faccia. (riproduzione riservata) Aleph 57 di Edoardo Narduzzi Il mercato del software è pronto per il low cost S e gli effetti Skype iniziano a farsi vedere nei numeri dei bilanci e nei corsi di borsa degli operatori storici (ne sa qualcosa France télécom crollata in borsa nei giorni passati), il mondo dei prodotti e dei servizi informatici sembra indifferente alla rivoluzione del low cost. Sarà forse perché è troppo concentrato sul comprendere come fare tutto gratis con il codice libero, anche detto open source nel gergo planetario, o perché gli acquirenti sono ancora deboli nel far valere le proprie ragioni, fatto sta che i margini lordi dei produttori di software sono ancora stratosferici. Si viaggia tranquillamente tra il 40 Fra l’open source e il 50% di ebitda sulle vendite: e i pacchetti a roba da monopolio naturale. E sono margini che tengono da un pagamento ventennio e più. di oggi c’è una Eppure i dati industriali segnalano via di mezzo un’industria ormai in piena maturità. Le vendite medie dei da cogliere colossi americani sono cresciute nel 2005 a una cifra e, nettate dell’inflazione, in termini reali sono intorno al 3%. Valori distanti anni luce dagli incrementi a doppia o tripla cifra di qualche lustro fa. Wall Street se ne è accorta e comincia a richiedere a viva voce la restituzione dei ricchi cash flow parcheggiati nei bilanci dei giganti del software: perché lasciarli a disposizione di imprese ormai attive in un mercato statico meglio recuperarli sotto forma di dividendi o di riacquisto di azioni per destinarli altrove. Non si può certo dire che le vacche siano già magre per l’It, di certo i prati non sono più verdi e tendono a un giallino preoccupante. In questo scenario è del tutto naturale che prima o poi (più prima che poi ritengo personalmente) qualcuno inizi a mettere a punto modelli di business low cost per sostituire parte delle quote di mercato degli offerenti tradizionali. Si tratta di prendere atto che la gratuità dell’open source è affascinante ma industrialmente insostenibile e che nel mezzo, tra il tutto gratis e il software pagato scontando margini del 50% in favore del produttore, ci sono spazi enormi per sviluppare un’offerta originale e competitiva di prodotti e servizi acquistabili a prezzi inferiori a quelli di oggi. Come? Semplicemente andando a studiare, come hanno fatto Ryanair o Wal-Mart in altri settori, dove si trova il grasso da inutile intermediazione che può essere restituito ai consumatori e sostituire questo grasso con nuove tecnologie e rinnovati processi. Certo nel caso del software è più complesso perché ci sono di mezzo licenze e diritti immateriali. Sap e Oracle, per esempio, hanno un diritto esclusivo di commercializzare Bisogna studiare le funzionalità garantite dalle dove si trova rispettive tecnologie, ma ciò non vuol dire che ripensando l’inutile il modello di business non si intermediazione possano offrire tecnologie da restituire analoghe con margini lordi del 15%. Delocalizzando, per ai clienti esempio, in un paese a basso costo unitario del lavoro la produzione di un software alternativo e commercializzando una offerta chiavi in mano per il cliente finale che includa per intero i costi di integrazione tenuti assolutamente su valori sfidanti. Ma di possibilità ce ne saranno decine e il mercato presto inizierà a testarle. Del resto, è naturale per i meccanismi dell’economia di mercato, eliminare ogni forma di arbitraggio o di extraprofitto. I cosiddetti rents che solo monopolisti e oligolisti dominanti possono permettersi, sono la preda più ambita dell’innovazione di business capitalistica. Nel software entrato nella fase della maturità industriale ci sono ancora troppi rents difficili da difendere e ambiti dai cacciatori di guadagni. È solo questione di tempo, quello necessario a sperimentare e far conoscere una modalità originale di commercializzare servizi e prodotti per l’informazione. È la logica del low cost, già sovrana in molti servizi un tempo ricchi di rents, pronta a fare il suo ingresso sul palcoscenico dell’It. Benvenuta, a nome dei consumatori.