L`euro, la strategia per l`innovazione dell`UE el

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SPEECH/03/509
Romano Prodi
Presidente della Commissione europea
L’euro, la strategia per l’innovazione
dell’UE e l’allargamento dell’Unione
europea
Economic Club of New York
New York, 3 novembre 2003
Signore e Signori,
Sono particolarmente felice di rivolgermi a questa platea di eminenti operatori del
mondo finanziario ed imprenditoriale.
Questa sera voglio soffermarmi sull’economia. Non soltanto perché la materia vi sta
- e mi sta - particolarmente a cuore, ma anche perché, come forse saprete, sono
stato professore di economia industriale per 25 anni prima di diventare presidente
del Consiglio italiano e più tardi presidente della Commissione europea. Quindi, in
un certo senso, parlare di economia mi riporta indietro negli anni.
In questa occasione, desidero concentrarmi su tre argomenti che hanno avuto e
continueranno ad avere grande impatto sull’economia dell’UE, sul futuro delle
relazione transatlantiche ed anche sulla nostra vita professionale: l’euro, la strategia
dell’UE per l’innovazione nel prossimo decennio e l’imminente allargamento
dell’Unione europea a 10 nuovi Stati membri.
L’euro
Una moneta unica è stata da lungo tempo il sogno di molti Europei -- un sogno
cominciato oltre 50 anni fa, al termine della guerra che ebbe inizio in Europa, si
diffuse in tutto il mondo e lasciò il nostro continente in uno stato di devastazione.
Dalle follie del nazionalismo e del protezionismo che avevano condotto alla guerra
si fece strada una nuova determinazione. Gli statisti europei decisero di assicurare il
progresso economico e sociale dei loro paesi eliminando le barriere che dividevano
il continente.
La stessa determinazione di coordinare gli sforzi degli Stati membri nella
ricostruzione delle loro economie e delle loro società -- anche grazie al Piano
Marshall -- ha portato infine all’istituzione della Comunità europea nel 1958. L’ideale
ispiratore era semplice, quanto potente: “pace attraverso la prosperità”.
Gli Europei erano fortemente convinti che la prosperità potesse realizzarsi tramite
gli scambi tra gli Stati membri. Tuttavia, l’eliminazione delle barriere al commercio
non è mai stata considerata una condizione sufficiente per incrementare gli scambi
e creare un autentico mercato comune in Europa. Molti hanno sempre ritenuto che
anche la stabilità dei tassi di cambio fosse un requisito importante per l’espansione
commerciale.
Dal 1944 i tassi di cambio erano rimasti piuttosto stabili in Europa ed in altre parti
del mondo grazie agli accordi di Bretton Woods. Assieme alla liberalizzazione del
commercio, tale situazione ha permesso una rapida espansione del commercio in
Europa ed altrove.
Fintantoché il sistema di Bretton Woods ha funzionato bene, non si è avvertita la
necessità dell’unificazione monetaria in Europa. Tuttavia, alla fine degli anni ‘60,
quando il sistema di Bretton Woods cominciò a mostrare le prime crepe, l’idea
dell’unione monetaria si rifece strada in Europa.
Nel 1971, il sistema sorto dalla conferenza di Bretton Woods crollò e, nel 1978, i
governi della CE convenirono di istituire un sistema monetario europeo allo scopo di
instaurare una “zona di stabilità monetaria”.
In effetti, il Sistema monetario europeo era una specie di sistema di Bretton Woods
in scala minore. Il tasso di cambio del franco francese, della lira italiana e di altre
valute europee partecipanti al sistema fu fissato essenzialmente in rapporto al
marco tedesco, che fluttuava nei confronti del dollaro USA, dello yen e di altre
monete mondiali.
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Tale sistema funzionò a meraviglia per quasi tutti gli anni ‘80, nonostante alcuni
gravi periodi di crisi dell’economia europea. Ad ogni modo, quando i diversi mercati
nazionali dei beni, dei servizi, dei capitali e della manodopera cominciarono ad
integrarsi nel mercato unico nel 1986, il Sistema monetario europeo divenne
insostenibile.
Infatti, come molti economisti capirono ben presto, l'Europa non poteva avere, allo
stesso tempo, tassi di cambio stabili, la libera circolazione dei capitali e politiche
monetarie indipendenti. Con la stretta integrazione dei mercati europei dei beni e
dei servizi e la piena liberalizzazione dei movimenti dei capitali, non era
semplicemente più possibile accettare ampie fluttuazioni dei tassi di cambio.
Mantenere la libera circolazione dei capitali richiedeva pertanto una politica
monetaria comune.
In termini semplici: un mercato unico europeo richiedeva una moneta unica europea
stabile. Il programma che avrebbe permesso all'Europa di arrivare ad una moneta
unica europea -- il nome “euro” fu deciso soltanto nel dicembre 1995 -- fu tracciato
dal trattato di Maastricht del 1992.
Tale tracciato era inteso a garantire stabilità di prezzi e finanze pubbliche sane in
tutti i paesi dell'Unione che partecipavano all'euro. Dall’entrata in vigore del trattato
di Maastricht, la stabilità dei prezzi è costantemente migliorata ed i livelli di
inflazione e dei tassi d’interesse sono ora giunti ai minimi storici. Anche le finanze
pubbliche hanno registrato considerevoli progressi e la “cultura della stabilità
fiscale” è diventata una componente intrinseca dell'economia dell'UE.
Il 1° gennaio 1999, 11 paesi dell’UE hanno fissato permanentemente i loro tassi di
cambio bilaterali e l'euro è diventato la moneta ufficiale di tali paesi. Il 1º gennaio
2002 il sogno è diventato finalmente realtà e le monete e le banconote in euro sono
entrate nelle tasche di 300 milioni di Europei residenti in dodici diversi paesi dell’UE.
In un paio d'anni soltanto, l'euro si è imposto sui mercati finanziari mondiali come la
seconda moneta più importante dopo il dollaro statunitense.
A seguito dell'introduzione della moneta unica, si è registrata una crescita
vertiginosa delle emissioni di obbligazioni e di effetti denominati in euro. Alla fine del
1998, le obbligazioni e gli effetti denominati nelle valute esistenti prima dell'euro
rappresentavano appena il 28% delle emissioni a livello mondiale, rispetto a una
percentuale di obbligazioni ed effetti denominati in dollari statunitensi pari al 45%.
Verso la metà del 2003, il divario tra il dollaro e l'euro in questo settore era diventato
relativamente modesto: la quota delle emissione in dollari era scesa al 43% mentre
la percentuale rappresentata dall'euro era salita al 41%.
Sviluppi persino più spettacolari si sono registrati sul mercato monetario. Alla fine
del 1998, gli strumenti del mercato monetario denominati nelle valute esistenti
prima dell'euro rappresentavano appena il 17% delle emissioni a livello mondiale,
rispetto a una percentuale del 58% per gli strumenti denominati in dollari
statunitensi. Entro la metà del 2003, la percentuale di emissioni in dollari era scesa
al 30%, mentre la quota di emissioni in euro era salita al 46%.
Nel complesso, quindi, si è osservato un incremento straordinario delle emissioni
obbligazionarie denominate in euro in un lasso di tempo molto breve.
La stessa fiducia nell'euro è anche riscontrabile nel settore pubblico, e l’euro viene
già ampiamente utilizzato come valuta di ancoraggio o di riferimento dei regimi di
cambio dei paesi che non fanno parte dell'Unione europea. Più di 50 paesi
dispongono di un regime di cambio con un riferimento all'euro, talvolta in
associazione con altre valute di riserva.
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I regimi adottati dai paesi terzi, situati principalmente in Europa ed in Africa, variano
dai cosiddetti currency board ai regimi di fluttuazione gestita. I principali fattori che
motivano la scelta dell'euro come valuta di ancoraggio o di riferimento da parte di
paesi terzi sono gli ampi legami commerciali e finanziari con l’area economica
dell'euro.
In qualità di valuta di riserva, l'euro rappresentava nel 2002 quasi il 15% delle
riserve mondiali ufficiali. È evidente che la moneta unica ricopre tuttora un ruolo
secondario rispetto al dollaro statunitense, la cui percentuale nello stesso periodo
era pari al 65%. Il fatto che la stessa Banca centrale europea detenga ampi
quantitativi di dollari contribuisce al ruolo dominante della moneta statunitense
quale valuta ufficiale di riserva.
Personalmente, mi sembra piuttosto chiaro che il sostenuto rafforzamento dell'euro
negli ultimi 18 mesi è il riflesso, tra l'altro, della fiducia che gli operatori privati e
pubblici pongono nella moneta europea.
Crescita, riforme economiche e strategia dell’UE per l'innovazione
Benché l'Europa goda attualmente di un'invidiabile stabilità grazie all'euro, esistono
settori in cui l'Unione non ha compiuto progressi in misura corrispondente al
successo dell'euro.
Il principale di tali settori è quello della crescita economica. L'Europa non può
essere soddisfatta della crescita che ha registrato negli ultimi anni e deve
incrementare la sua crescita potenziale negli anni a venire.
La convergenza del reddito pro capite rispetto agli Stati Uniti si è fermata nel 1970.
Da allora, il livello del reddito pro capite nell’UE si è attestato al 70% circa di quello
statunitense. Nella prima metà degli anni ‘90, la ristrutturazione ha portato ad una
pesante perdita di posti di lavoro e ad un forte incremento di produttività nonostante
una modesta crescita generale. Nella reazione innescatasi nella seconda metà del
decennio il forte aumento dell'occupazione è stato conseguito a detrimento della
maggiore produttività del lavoro.
Nel frattempo, sull’onda di una riuscita transizione verso l'economia basata sulle
conoscenze, gli Stati Uniti hanno registrato negli anni ‘90 un tasso di crescita
superiore ai precedenti due decenni. L'offerta di manodopera negli USA è
aumentata considerevolmente sia per ragioni demografiche sia grazie a più elevati
tassi di partecipazione.
Ma la crescita degli USA è stata anche stimolata da un forte aumento della
produttività del lavoro. Per la prima volta in 30 anni, la crescita statunitense sotto
quest’aspetto ha sorpassato quella dell’UE, una performance straordinaria per un
paese che si trova al limite più avanzato della frontiera delle possibilità di
produzione.
Avverto nella bassa crescita economica dell’UE il sintomo di un malessere
economico ed il segnale della necessità di riforme strutturali. In occasione del
Consiglio europeo di primavera del marzo 2000 i capi di Stato e di governo dell’UE
hanno stabilito un obiettivo per l'Europa: incrementare la competitività ed il
dinamismo economico con l'integrazione delle conoscenze e dell'innovazione, pur
assicurando la sostenibilità ambientale e sociale a lungo termine. Tale obiettivo
richiedeva di sostenere il quadro macroeconomico dell’UE con una strategia
coordinata di riforme micro-economiche e sociali e con un monitoraggio regolare
della loro effettiva attuazione.
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La finalità della citata strategia di riforme micro-economiche e sociali consiste nel
migliorare il funzionamento dei mercati -- di tutti mercati -- incrementando in tal
modo la flessibilità dell'economia della zona dell'euro e aumentandone, di
conseguenza, il potenziale di crescita e riducendo la disoccupazione strutturale.
Dopo tre anni di crescita deludente, l'economia dell’UE mostra ora segnali di
recupero. Confidiamo che tale tendenza sarà confermata nel 2004 e nel 2005, anno
in cui ci auguriamo che l’UE sarà nuovamente in grado di conseguire pienamente il
suo potenziale di crescita economica.
I progressi nelle riforme strutturali rientrano tra i principali fattori che sostengono
tale prospettiva positiva. La strategia dell'Unione per l'innovazione - il secondo tema
del mio intervento di oggi - è una componente essenziale della strategia per le
riforme strutturali.
La strategia dell'innovazione dell’UE comprende un'ampia gamma di misure. Mi
soffermerò dapprima sul lato dell'offerta di innovazione -- la creazione di
conoscenza -- per passare successivamente al lato della domanda di innovazione -la commerciabilità di prodotti innovativi.
Creare conoscenza significa investire in primo luogo sul capitale umano. La
conoscenza è la chiave dell'innovazione. L'Europa investe attualmente nella ricerca
e sviluppo meno degli Stati Uniti. Nel 1999, gli USA hanno destinato
complessivamente alla R&S il 2,6% del PIL nazionale, tasso superiore di oltre un
terzo alle spese sostenute dall’UE nello stesso settore. Negli Stati Uniti il settore
pubblico ha contribuito per un quinto dell’aumento delle spese di R&S tra il 1996 ed
il 2000. In Europa, i bilanci destinati alla ricerca pubblica sono diminuiti.
Per questo motivo i capi di Stato e di governo dell’UE si sono prefissati l'obiettivo di
aumentare gli investimenti europei per la R&S, portandoli entro il 2010 al 3% del
PIL, e due terzi dei quali dovrebbero provenire dal settore privato.
Lo sviluppo di nuove idee e la ricerca di frontiera traggono il massimo vantaggio
dalla concentrazione delle attività di ricerca. Tutti noi beneficeremmo di una
situazione in cui i molti scienziati di prim’ordine che lavorano nell'Unione potessero
condurre le loro ricerche in “centri di eccellenza” europei.
Attualmente, l’assegnazione dei fondi pubblici nazionali per le scienze è tuttora in
gran parte determinata dai confini nazionali. Dobbiamo instaurare un autentico
spazio europeo della ricerca. Ma possiamo fare anche di più. Potremmo
immaginare di istituire una “Agenzia europea per la ricerca”. Un buon esempio in
proposito ci viene dalla National Science Foundation degli USA.
Le istituzioni dell’UE possono e debbono fare la loro parte per mobilitare le risorse
finanziarie disponibili allo scopo di promuovere la crescita e l'innovazione. Ciò può
avvenire sia attraverso il bilancio centrale dell’UE sia attraverso prestiti gestiti dalla
Banca europea per gli investimenti (BEI).
Alla Commissione, abbiamo avviato un dibattito sul futuro quadro finanziario del
bilancio centrale dell’UE. A nostro avviso il bilancio dell’UE deve rispecchiare meglio
le sue priorità -- ad esempio investire di più nella R&S e nell'istruzione -- che i capi
di Stato e di governo dell’UE si sono impegnati a realizzare.
La Commissione ritiene inoltre che l’affluenza di risparmi ed il top rating dei prestiti
BEI dovrebbero essere utilizzati meglio per assicurare la redditività finanziaria degli
investimenti orizzontali a lungo termine. In effetti la BEI ha concesso considerevoli
prestiti negli ultimi anni a favore delle attività di istruzione e di formazione.
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Ma tutto questo non è ancora abbastanza. Dobbiamo assicurarci che le imprese
europee siano disposte a cogliere le opportunità offerte da una manodopera
qualificata. Dobbiamo assicurare che gli imprenditori siano disposti a trasformare la
creatività dei ricercatori in eccellenti opportunità di investimento -- cioè in prodotti
innovativi e commerciabili.
In sintesi, dobbiamo assicurarci che ci sia una domanda di innovazione e che il
mercato riceva i giusti incentivi per fornire il finanziamento necessario
all'innovazione. Soltanto così la crescita di produttività si tradurrà in crescita
occupazionale.
Vorrei ora illustrare alcuni esempi delle nostre politiche relative al lato della
domanda di idee innovative.
In primo luogo, il settore del capitale di rischio nell'Unione sta crescendo. Il divario
con gli Stati Uniti sotto questo aspetto è tuttora ampio, ma sta diminuendo. In
Europa gli investimenti in capitale di rischio nel 2002 sono stati pari allo 0,1% del
PIL, percentuale che negli USA era pari al doppio, ossia dello 0,2%. Tre anni prima,
tuttavia, negli USA la quota di capitale di rischio rispetto al PIL era quattro volte
superiore alla quota europea.
Nell'Unione europea possiamo sostenere il settore del capitale di rischio con alcune
misure legislative. Ad esempio, i capi di Stato e di governo hanno invitato la
Commissione ad analizzare gli ostacoli che impediscono ai fondi pensione di
investire nel mercato del capitale di rischio.
In secondo luogo, gli investitori privati in imprese non quotate sono disposti a fornire
più capitali se dispongono di buone opportunità di “uscita”. Come saprete, i mercati
borsistici europei destinati alle imprese a forte espansione sono più piccoli (e più
giovani) della controparte USA, ma spero che a seguito della riorganizzazione di
alcune borse europee i valori mobiliari quotati in borsa diverranno uno strumento
accettato ed affidabile per finanziare le imprese emergenti in Europa.
Inoltre, l’UE ha aggiornato e unificato le sue norme sui prospetti. Ciò faciliterà
l'uscita del capitale di rischio. L'approvazione da parte di una singola autorità di
regolamentazione in un unico Stato membro sarà ora sufficiente ad immettere valori
sul mercato a dimensione europea. Abbiamo denominato tali obblighi iniziali di
informazione il “passaporto unico per gli emittenti”.
Terzo, la distribuzione operata dal mercato dei fondi ai progetti ad alta crescita non
avviene, naturalmente, soltanto attraverso il capitale di rischio e le IPO (Offerte
pubbliche iniziali). I mercati finanziari che funzionano correttamente convogliano in
genere i fondi verso il loro uso più produttivo e sono pertanto fondamentali ai fini
della nostra performance di crescita economica.
Superare la frammentazione del mercato dei capitali in Europa rimane una priorità
al fine di diminuire il costo del capitale per le imprese europee. Un recente studio
condotto per la Commissione europea ha calcolato che, nel lungo periodo, un
mercato europeo integrato dei capitali potrebbe innalzare dell’1,1% il livello del PIL
nell’UE.
Ma l'integrazione dei mercati dei capitali costituisce un enorme compito legislativo e
regolamentare. Gli Stati Uniti sono formati da 50 Stati, ciascuno dei quali ha
competenza ad adottare le leggi sui valori mobiliari e sulle società. Ma tali Stati
hanno tutti la medesima tradizione giuridica e le leggi sono scritte nella stessa
lingua.
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In Europa abbiamo 15 diversi ordinamenti giuridici e undici lingue -- che diverranno
ben presto 25 sistemi giuridici in 20 lingue -- e le nostre tradizioni giuridiche sono
molto diverse. Naturalmente, tutto ciò si riflette nei diversi sistemi finanziari
dell’Europa.
La strategia della Commissione non può consistere nella piena unificazione
dell'ambiente giuridico e regolamentare dei mercati finanziari in Europa. Piuttosto,
essa mira a promuovere la concorrenza al di là dei confini nazionali, consentendo
agli investitori di effettuare scelte consapevoli e offrendo loro al contempo
protezione dagli abusi.
Ciò aumenterà l’ammontare dei fondi che il mercato potrà assegnare alle
opportunità di investimento. E consentirà inoltre ai prezzi di mercato di convogliare
tali fondi verso i progetti più produttivi.
Abbiamo stabilito norme comuni sulla divulgazione e sugli abusi di mercato e stiamo
lavorando in materia di compensazione e regolamento, di governo societario e di
controllo dei conti.
Inoltre abbiamo adottato lo statuto della società europea che offre alle imprese
un'alternativa alle disposizioni nazionali. Nel 2005, adotteremo i principi IAS -International Accounting Standard. Stiamo altresì lavorando alla legislazione intesa
ad agevolare le riorganizzazioni transfrontaliere. Naturalmente, per ridurre al
minimo le frizioni transatlantiche siamo impegnati in un dialogo in materia
regolamentare con gli USA.
Il quarto esempio della strategia per l’innovazione che vorrei illustrare riguarda le
opportunità di mercato dell'innovazione. A questo proposito, le applicazioni
basate sul brevetto costituiscono la più importante voce di costo.
Da decenni esiste in Europa un Ufficio europeo dei brevetti, con sede a Monaco,
ma in tutti questi anni non è stato rilasciato nemmeno un brevetto!
Un’impresa che presentava domanda di brevetto all'Ufficio europeo dei brevetti
poteva decidere se far valere tale documento in altri Stati europei. Ma per poter
beneficiare di tale opzione il brevetto doveva essere tradotto integralmente. Ed in
caso di controversia, la causa era di competenza dei giudici nazionali. Per questo
motivo, molte imprese non hanno optato per un brevetto valido in tutti i paesi.
Quest'anno, i capi di Stato e di governo si sono accordati su un brevetto unico.
Esso sarà rilasciato dall'Ufficio europeo dei brevetti e un'eventuale controversia
sarà risolta dinanzi ad un collegio giudicante. Il certificato di brevetto sarà tradotto
soltanto in parte. Stimiamo che tali adeguamenti ridurranno del 50% il costo di una
domanda di brevetto.
La mia ultima osservazione potrebbe sembrare ovvia al pubblico statunitense, ma
non a quello dell’UE. La competitività è conseguenza di una concorrenza a livello
dell'Unione. Quando un prodotto è commercializzato, il primo test di mercato per le
imprese europee è il mercato unico a livello dell'Unione. In quel momento, si potrà
verificare se le imprese sono in grado di sostenere una concorrenza mondiale.
Siamo pertanto fermamente impegnati ad eliminare le rimanenti barriere al mercato
unico. Ciò è determinante se vogliamo aumentare il nostro tasso di crescita
potenziale ed aumentare i livelli occupazionali dell'Unione. Per questo motivo sono
molto importanti le dinamiche generate da un mercato unico composto da 25 paesi.
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L'allargamento dell'Unione europea
Una Unione europea a 25 Stati membri è infatti l'ultimo tema che vorrei affrontare
stasera. Il 1º maggio 2004 -- fra meno di sei mesi -- otto paesi dell'Europa orientale
e due paesi mediterranei diventeranno membri a tutti gli effetti dell'Unione europea.
Si tratta certamente di un avvenimento della massima rilevanza politica, che segna
la riunificazione dell'Europa dopo 50 anni di divisione.
Ma ho detto che stasera mi sarei attenuto al tema economico. Infatti parlerò
dell'economia in relazione all'allargamento dell'Unione europea.
In termini economici, l'allargamento significa l'integrazione di due zone che
presentano un ampio divario di reddito e di produttività. Gli Stati membri di prossima
adesione presentano una distribuzione interna del reddito relativamente simile -- se
non ancora più egualitaria -- a quella dei 15 Stati membri attuali. Ma il loro livello di
reddito medio è sensibilmente inferiore a quello degli Stati attuali.
I nuovi Stati membri rappresentano il 20% della popolazione degli attuali 15 Stati
membri, ma soltanto il 5% del loro PIL. Ciò significa che con l'allargamento le
disparità tra i paesi aumenteranno di oltre il 20% -- due volte tanto l'aumento di
disparità che si ebbe a seguito dell'adesione di Spagna, Portogallo e Grecia negli
anni '80.
In questo contesto, come fa l’economista che deve valutare opzioni contrapposte,
non posso astenermi dall'affermare che l'allargamento rappresenta allo stesso
tempo una formidabile sfida ed una opportunità economica senza precedenti.
L’enorme sfida consiste nel gestire un mercato unico paneuropeo composto da 25
o più Stati membri e nel far fronte alle acuite disparità che si registreranno
all’interno dell’Unione.
Per funzionare correttamente, il mercato unico ha bisogno di un insieme di norme e
politiche comuni in certo numero di settori. Infatti, uno dei criteri di adesione
all’Unione europea è che i nuovi Stati membri adottino e siano in grado di attuare
l'intero corpus della normativa comunitaria.
Naturalmente tale compito ha comportato un formidabile onere amministrativo per i
nuovi Stati membri e la sfida reale si avvertirà pienamente quando l’acquis
comunitario sarà pienamente applicabile, ovvero immediatamente all'atto
dell'adesione.
Ad ogni modo, per quanto grande sia il compito di dare piena attuazione al diritto
comunitario, sarà fondamentale che l'integrazione dei nuovi Stati membri nel
mercato unico avvenga senza scosse. Essa rassicurerà gli investitori ed i
consumatori sul fatto che, anche nell’Unione allargata, potranno fare affidamento,
fin dall'inizio, sullo stesso insieme di norme certe e sperimentate.
A seguito dell'allargamento, per la prima volta nella storia l'Unione europea
presenterà un divario complessivo leggermente maggiore di quello esistente tra gli
Stati degli USA. Promuovere la crescita nei nuovi Stati membri e ridurre, nel tempo,
le disparità rappresenterà un compito straordinario e impegnativo per l'Europa.
Ma la storia dell’integrazione europea contiene molti esempi di straordinaria
convergenza economica. L'Italia degli anni ‘60 e ‘70, la Spagna e soprattutto
l'Irlanda gli anni ‘90 hanno attraversato un periodo di crescita sostenuta derivante
da una combinazione delle forze di mercato e di riforme istituzionali nazionali ed
europee.
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Dall’altro lato, l'opportunità consiste nell'instaurazione di un ampio spazio
economico che comprende circa 500 milioni di consumatori. Una volta realizzato
l’idoneo quadro giuridico, le opportunità industriali e commerciali derivanti dal
mercato unico di circa 500 milioni di persone saranno immense.
Soprattutto se sapranno realizzare gli obiettivi d'istruzione e di innovazione che ho
poc'anzi illustrato, gli Stati membri presenti e futuri disporranno delle risorse umane
e materiali per trarre il massimo beneficio dalle nuove opportunità.
Sono convinto, quindi, che l'imminente allargamento produrrà sostanziali vantaggi
macroeconomici in tutta l'Europa. I nuovi Stati membri rappresentano soltanto il 5%
del PIL degli attuali 15 membri, ma il loro tasso di crescita economica annuale è
doppio rispetto a quello degli attuali Stati membri dell'UE.
Non sorprende che la maggior parte degli studi economici preveda che la differenza
di dimensioni e dinamismo tra le due regioni comporterà vantaggi macroeconomici
maggiori nei nuovi Stati membri che negli attuali. Le stime indicano una
ripercussione positiva di circa 5-8 punti percentuali del PIL per i nuovi Stati dell’UE,
e poco meno di un punto percentuale del PIL per l’insieme degli attuali Stati membri
dell'UE.
Tuttavia, tali stime partono dal presupposto che le attuali politiche rimarranno
costanti. L’allargamento avrà altri -- possibilmente anche più importanti -- effetti
micro-economici. Mercati più estesi offriranno ai consumatori maggiori possibilità di
scelta e renderanno l'attività di R&S più vantaggiosa. L’allargamento fungerà
pertanto da catalizzatore della concorrenza sia tra i consumatori che tra i produttori
nella maggior parte dei mercati europei.
Una maggiore concorrenza potrebbe apportare lo stimolo necessario alle riforme
economiche e promuovere il cambiamento, comportando in ultima analisi una
migliore distribuzione delle risorse e quindi una maggiore crescita.
Inoltre, l’incremento di investimenti e di produttività derivante dall'allargamento
potrebbe portare alla creazione di una organizzazione industriale efficiente a livello
dell'intera Europa, alcuni esempi della quale sono già visibili.
L’allargamento non soltanto contribuirà a migliorare la distribuzione delle risorse,
ma ridurrà anche i rischi e le incertezze. Gli insegnamenti che traiamo dai mercati
finanziari sono particolarmente eloquenti.
In primo luogo, negli ultimi dieci anni i nuovi Stati membri hanno registrato un
costante miglioramento delle loro valutazioni dell'affidabilità creditizia man mano
che la prospettiva dell'adesione si avvicinava.
In secondo luogo, i nuovi Stati membri e gli altri paesi candidati (Bulgaria e
Romania) godono di un “premio di adesione”, giacché le loro obbligazioni si
negoziano con spread più ridotti rispetto a paesi con pari rating di altre parti del
mondo.
Terzo, questo “premio di adesione” è maggiore per i paesi con un’affidabilità
creditizia inferiore. Ciò significa, evidentemente, che gli investitori nutrono maggiore
fiducia nelle prospettive istituzionali e commerciali di tali paesi a motivo della loro
futura adesione.
Vorrei fermarmi qui per lasciare tempo alla discussione. Dopo la II Guerra mondiale
il nostro obiettivo era di assicurare la pace attraverso la prosperità e l'integrazione
economica. E ci siamo riusciti.
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Ci siamo impegnati ad istituire un mercato unico a livello dell’UE per i beni, i capitali,
i servizi e le persone. Questo processo non è ancora del tutto completato, ma si
trova in fase avanzata. La moneta unica doveva assicurare stabilità al mercato
unico e contemporaneamente rappresentare un progetto politico a sé stante.
L'introduzione dell'euro è pienamente riuscita ed ha portato stabilità economica
all'Europa.
Ma abbiamo ancora del lavoro da fare per rilanciare la crescita. Questa sera ho
tracciato due elementi chiave in tal senso: la nostra strategia dell'innovazione è
l'allargamento dell’UE nel maggio prossimo.
Il processo di riforma e di allargamento dell'Unione europea creerà senza dubbio
nuove opportunità di investimento. Un’Europa più dinamica sarà quindi un
vantaggio per tutti -- su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Vi ringrazio per la vostra attenzione.
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