Franco Ponseggi, “Lèžar e scrìvar in Rumagnôl”, Aggiornamento Pag. 6 in fondo aggiungere: “o che per “non ci si prende mai” si scriva unsi ciapa mai, invece di u n (o u-n) s’i ciapa mai: u (egli) n (non) s (si) i (ci) ciapa mai. E questo non solo per la gente comune, ma anche per importanti poeti romagnoli del passato e del presente, in cui si può leggere (si dice il peccato, ma non il peccatore): amstir ‘d n’à’ völta anziché amstir d ‘na vôlta (‘na è l’abbreviazione di una), o sin ma det …, invece di s’i n m’à det: s (se) i (essi) n (non) m (mi) à ( hanno) det (detto).” Pag 7, dopo undicesima riga, inserire: “Al di là delle regole di grafia, non ha neanche lo scopo di insegnare il romagnolo: chi leggerà quest’opera, nella stragrande maggioranza dei casi, conosce il romagnolo fin dalla nascita. Avrà modo però di notare aspetti e regole, che ha applicato da sempre in modo naturale, ma a cui non aveva mai fatto caso e di cui non si era reso conto, e gli capiterà talvolta di stupirsi della loro precisione e direi anche della loro bellezza.” Pag. 8, aggiungere alla fine della prefazione: “E, nella stesura di questa parte, non sono mancate le sorprese. Succede spesso che parole, che esistono solo in romagnolo, abbiano una corrispondenza diretta nel latino, altre volte che abbiano un’origine germanica. La sorpresa è che a volte capita che una parola romagnola deriva da una parola germanica, la quale ha una corrispondenza con una parola latina e/o greca, senza derivare l’una dall’altra, ma con radice presente nel sanscrito, con una comune parentela nel substrato indoeuropeo. Questo induce ad allargare il pensiero, dal fatto puramente linguistico, a considerazioni sulla comune origine dei popoli, a un’idea di fratellanza, pensando ai nostri lontani progenitori che, sollevatisi dalle loro origini scimmiesche nell’Africa orientale, migrarono verso est attraverso il Sinai e la penisola arabica, suddividendosi poi in flussi che raggiunsero, verso oriente, attraverso la Mesopotamia e l’Iran, l’India, e verso nord, attraverso il Caucaso e l’Anatolia, le grandi pianure della Russia e l’Europa occidentale.” Pag. 21 nota 9: prima dell’ultima riga, inserire: “Nelle forme verbali l’inserimento di una vocale eufonica iniziale comporta il cambiamento del pronome personale: e’ vnéva, l’avnéva, e’ vnirà, l’avnirà, e’ vléva, l’avléva, e’ vlè, l’avlè (egli veniva, egli verrà, egli voleva, egli volle), ecc. Esiste anche il fenomeno contrario: nel parlato, in verbi di tre sillabe che iniziano per vocale seguita da una sola consonante, si tende, a volte, in alcuni modi/tempi, ad omettere la vocale iniziale che è atona, per rendere in discorso più fluido (ciò comporta anche il cambiamento del pronome personale): arivê’: l’ariva, e’ ‘riva, l’arivarà, e’ ‘rivarà, l’arivè, e’ ‘rivè, ecc. (arrivare: egli arriva, arriverà, arrivò); ascultê’: l’ascólta, e’ ‘scólta, l’ascultéva, e’ ‘scultéva, ecc. (ascoltare, egli ascolta, ascoltava); ecc.” Pag. 40 in nota 7 in alto, dopo “Norme”, inserire: “Ricordiamo poi che, senza mettere la m o la n, si avrebbe un’incongruenza con la stessa parola, alterata o coniugata, in cui si perde il suono nasale, che avrebbe la m o la n pronunciata: e’ cãpa, campẽ’, a campẽn, a campì; e’ cõta, a cuntẽn, a cuntì, cuntê’; blãza, blanzẽn; ecc. (per la modifica delle vocali toniche per perdita di accento o per flessione interna nelle alterazioni o nella coniugazione si veda 2.5, 5.1.2 e 2.4.1.” Pag. 36 sesta riga dall’alto: dopo “pazzo” aggiungere: “dazio, vizio” Pag. 40 nota 7: dopo “Norme” aggiungere: “Ricordiamo poi che, senza mettere la m o la n, si avrebbe un’incongruenza con la stessa parola, alterata o coniugata, in cui si perde il suono nasale, che avrebbe la m o la n pronunciata: e’ cãpa, campẽ’, a campẽn, a campì; e’ cõta, a cuntẽn, a cuntì, cuntê’; blãza, blanzẽn; ecc. (per la modifica delle vocali toniche per perdita di accento o per flessione interna nelle alterazioni o nella coniugazione si veda 2.5, 5.1.2 e 2.4.1.” Pag. 50 nota 2 prima riga: correggere “j diacritica” (errato) in “j eufonica”; settima riga dopo “sostantivi” inserire “femminili”. Pag. 55 paragrafo 2.3 dalla terza riga modificate dieci righe fino a “Nei nomi terminanti con le nasali con n muta”: “I nomi o aggettivi con l’accento sulla penultima sillaba che terminano in –tar (minèstar, mèstar, ciclèstar, farmazèstar, sucialèstar, nöstar, mòstar, êtar: ministro, maestro, ciclista, farmacista, socialista, nostro, mostro, altro) o in –ran, o –ral, o –rum (intéran, mudéran, méral, férum: interno, moderno, merlo, fermo), e in generale in tutti i casi in cui c’è una a (o una u) eufonica, , come in tutti i superlativi e in alcuni numerali ordinali (màsum, grandèsum, bunèsum, zantéšum, miléšum: massimo, grandissimo, buonissimo, centesimo, millesimo)) prima di aggiungere la desinenza a finale perdono la vocale eufonica (3): minestra, mestra, ciclestra, farmazestra, sucialestra, nöstra, mostra, êtra, intérna, mudérna, mérla, férma, masma, grandesma, bunesma, zantéšma, miléšma.” Pag. 56 nota 3: aggiungere dopo “mèstar; ”: da maximus si ha masm, che prende una u eufonica diventando màsum.” Pag 67 sesta riga dal basso: dopo “sonnellino” aggiungere: “; pe diventa pinẽn (piede, piedino).” Pag. 89 nota 11 aggiungere: “agli an s’arves” Pag. 117 decima riga di 5.1.2.3, dopo “mètar” aggiungere: “ (4)” Pag. 123 seconda riga dal basso prima di Note aggiungere: “part. passato mes, šmes”. Pag 124 nota 4 aggiungere: “Anche il verbo mètar presenta qualche significato particolare nell’espressione mètar insẽn (“mettere insieme”), col senso di acquisire, ottenere, aggiungere, accumulare: l’à mes insẽn una pöta!, una parlantẽna!, un curag! (ha messo su un’alterigia!, ha acquistato una parlantina!, un coraggio!) e simili; l’à mes insẽn fameja (ha messo su famiglia, ha partorito); l’à mes insẽn tri sid (ha accumulato tre poderi), ecc.” Pag. 124 nota 5 aggiungere: “Crédar si usa nella forma pseudoriflessiva crédas in espressioni come chi (o cus’) a-s crédal d rësar?: (chi o cosa crede di essere?); cus’a-s crédal d’avé’fat (cosa crede di aver fatto?), espressioni in cui si stigmatizza la vanagloria di qualcuno che si stima più di quello che è o si vanta di un’azione di cui si dovrebbe invece vergognare.” Pag. 126 terza riga di 5.1.4, dopo “mi, ti, si, ci, vi, si” aggiungere: “All’infinito si elimina la r finale, se presente, prima di aggiungere il pronome: lavês, avdés, stèndas, finis.” Pag. 127 dieci righe dal basso: inserire: “Per crédas vedi nota 5 in 5.1.2.3.” Pag. 128 Par 5.1.5: Verbi impersonali, quarta riga, aggiungere: “D’altra parte in altre lingue è normale l’uso del pronome personale (neutro, dove esiste): in francese, inglese tedesco: il pleut, il faut; it’s raining, it’s necessary; es regnet, es ist nötig (piove, bisogna), mentre spagnolo e portoghese si comportano come l’italiano.” Pag. 141 dodicesima riga, dopo “analogamente a quella degli infiniti aggiungere: ”(10)” ; dopo “Il Il verbo tu tu(r) (r) (prendere, togliere)” sostituire “(10)” con “(11)”. Pag. 143 inserita nota 10 (la precedente è diventata 11): La forma con la r finale è molto comune nella forma interrogativa: a pêral?, a pêrla?, a pêri?, a pêrli?, più che a pêl?, a pêla?, a pêj?, a pêli? : pare (lui/lei)?, paiono (essi/esse)?. Pag. 143 nota 7: aggiungere:” L’imperativo vero e proprio sa e savì si usa, per il verbo savé’, solo in unione con particelle pronominali m, t , j, ecc.: esempio: sam / savim / saj / savis / savij di’…. (sappimi / sappiateci / sappigli / sappiateci / sappiategli dire….), sat rigulê’ (sappiti regolare), savil fê’ cum ch’u-s dév (sappiatelo fare come si deve), ecc. Pag. 161 ottava riga inserire: “l’è (u-s met) in šdé” Pag. 164 terza riga dal basso di nota 4 dopo “della” inserire: “e ancor più con l’articolo indeterminativo: in tun, in tuna, a meno di non scrivere in t’un, in t’una.” Pag. 165 Tabella avverbi di luogo: aggiungere:” d sóra, d cióra, d sota, d ciota”. Pag. 167 ottava riga dopo “niente);” inserire: “ u-n s’i ciapa mai (non ci si prende mai)” Pag. 167 ultima riga prima di Avverbi di tempo prima di “ecc.” inserire: “: truvèndsi” Pag 169 nona riga dal basso dopo “bẽn” inserire “(17)” Franco Ponseggi, “Lèžar e scrìvar in Rumagnôl”, Aggiornamento Pag. 174 aggiunta nota 17: “In frasi esclamative esiste l’esoressione d’un bẽn (proprio bene, così bene): e’ va d’un bẽn! (va, funziona proprio bene!), a sò andê d’un bẽn (sono andato, mi sono trovato così bene!)” Pag. 175 seconda casella a destra: correggere nenc con nẽnc. Pag. 176 quarta e quinta casella dall’alto a destra: correggere a pens con a pẽns, ta m’è con ta m’é. Pag. 183 seconda e terza riga della tabella: correggere amigh con amig; sesta riga correggere cösa con côsa. Pag. 185 dopo la quattordicesima riga aggiungere: “A ciò si può aggiungere che spesso anche l’aggettivo che fa da predicato nominale e il participio che forma il verbo composto concordano con il pronome generico maschile anziché col soggetto posposto: l’è piò bõn (bõna) la ciculêta acnè al caramël (è più buona la cioccolata che le caramelle); l’è ariv (ariva) la curira (è arrivata la corriera); ël avnù (avnuda) nẽnc tu surëla? (è venuta anche tua sorella?). Pag. 198 quarta riga dal basso, inserire: “Potrebbe derivare anche dal greco πιθάριον (pithàrion), diminutivo di πίθος (pìthos): piccolo vaso di terracotta, orcio, giara, in genere dal collo stretto cui corrisponde, con lo stesso significato, il latino medioevale pitharia o pittarium.” Pag. 198: a bêlz aggiungere: “Non mi sembra neanche tanto azzardato supporre che da balteus e dal latino medioevale balteare (cingere, legare) abbia avuto origine anche baldinê’ (raffazzonare, aggiustare sommariamente) e baldinêda (sommaria aggiustata alla meno peggio), che sarebbe quindi in origine legare, ossia aggiustare con lo spago, quindi in modo rozzo e provvisorio.” Pag 212: la seconda riga diventa: “Romagnolo esiste anche šgaf, che, più che dispari, vale spaiato: si usa per” Pag. 238: sotto gnöc: il riferimento non è alla nota 14, ma alla 15. Pag. 249 ottava riga dal basso sotto “gnegna” aggiungere: “da cui anche l’italiano ghigno. La stessa origine potrebbe avere ghignóš (antipatico), riferito a cose o persone: un lavor ghignóš è un lavoro antipatico, difficoltoso, ingrato; una persona ghignóša è una persona antipatica, smorfiosa, che non è mai d’accordo, che si lamenta sempre (d’altra parte anche il termine italiano smorfioso si ricollega a smorfia, che è sinonimo di ghigno).” Pag. 253 settima riga dal basso, prima di “Bulê”, inserire: “Ch’e’ mura e’ strölg!” è l’invettiva contro lo iettatore che paventa il verificarsi di possibili ostacoli o difficoltà in ciò che si vorrebbe compiere.” Pag. 256: schel: aggiungere: “Di una persona particolarmente magra si dice mêgar còma un schel. Pag. 279 aggiunta nota 25: “Giovanni Petrolini, “Per indizi e per prove: indagini sulle parole: saggi minimi di lessicologia storica italiana”; Pietro Delprato, Luigi Barbieri: “La mascalcìa di Lorenzo Rusio volgarizzamento del secolo XIV”, 1867; Pietro Fanfani, Vocabolario della lingua italiana; Johann Christian Reil: “Della cognoscenza e della cura della febre …”, 1809. Aggiunte le seguenti etimologie: Zalapê’: mangiare in modo disordinato, facendo rumore e risucchiando con la lingua, in modo simile ai cani. Potrebbe essere un rafforzamento, forse anche onomatopeico, del disusato italiano lappare: bere risucchiando con la lingua, tipico dei cani. Di origine germanica (antico tedesco läppern, dalla stessa radice del latino lambere, greco λάπτειν (làptein) (lambire, leccare), labium o labrum (labbro). Grêd: profumo, sentore: l’à e’ grêd da….: sa di…., ha odore di….; senza specificazioni vale cattivo odore, odore strano, diverso da quello che ci si aspetta: se dico di un cibo l’à de’ grêd, significa che sa di muffa, o di rancido, o di guasto, ecc; se è un vino, sa di tappo, o di acido, ecc. Si può pensare al latino gratus (gradito, piacevole), come l’italiano gradire, gradevole, ecc., riferito all’odore: (odor) gratus, quindi in origine solo odore piacevole. Agunghês: deformarsi, incurvarsi, incavarsi, detto di una superficie piana. Il sostantivo corrispondente è gònga: incurvatura, depressione, ammaccatura: di una superficie che si è deformata, formando una depressione, o un’incurvatura, si dice l’à fat una gònga. Potrebbe avere la stessa origine dell’italiano concavo, dal latino concavus (con doppia lenizione c → g), formato dal prefisso con + cavus (incavato) o, secondo altri, da concha (conchiglia, poi conca, vaso, recipiente). In questo caso agunghê (deformato, incavato) sarebbe attinente al latino conchatus (a forma di conchiglia), con prefisso ad, che indica movimento. Spéra: (d sól) raggio di sole, breve intervallo di sole tra le nuvole; vale invece ombra in espressioni come : l’è mêgar ch’u-n fa la spéra: è magro che non fa ombra; l’à paura nẽnc dla su spéra: ha paura anche della sua ombra. Dal latino sphaera, a sua volta dal greco σφαίρα (sfaira), che significa sia sfera, palla, che sfera celeste, che globo, corpo celeste, quindi anche disco solare. Nel latino medioevale è spera, che vale sia oggetto rotondo, che specchio. Albaraz: pioppo bianco, gattice: dal latino albulus (bianchiccio), da albus (bianco), quindi non è il dispregiativo di albero (dal latino arbor, da cui arboreo, arborescente, ecc.). Pitar: in origine sorta di vaso dal collo stretto per attingere acqua. Oggi questo significato è ormai dimenticato e si usa solo nel senso di broncio (per similitudine con la bocca di tale vaso) nell’espressione avé e’ pitar: tenere il broncio, essere imbronciato, essere arrabbiato con qualcuno. Dal greco πιθάριον (pithàrion), diminutivo di πίθος (pìthos): piccolo vaso di terracotta, orcio, giara, cui corrisponde, con lo stesso significato, il latino medioevale pitharia o pittarium. Vedi pidariôl. Pepi: beccuccio (di una caraffa): dal latino pipio (piccione), a sua volta dal verbo latino pipire o pipiare (pigolare), greco πιππίζειν (pippìzein: pigolare) di origine onomatopeica (ancora oggi, o appena ieri, le massaie chiamavano a raccolta i polli col richiamo pi-pi, pi-pi). Si potrebbe anche far risalire alla stessa origine di pipa, di origine germanica e anglosassone (tedesco pfeife: canna, pipa; pfeifen: fischiare; inglese pipe: tubo, ma anche zampogna), da cui anche l’italiano piffero, per cui le due origini finiscono per unirsi. In senso figurato in romagnolo fêr e’ pepi significa fare il broncio. Cudroz: estremità inferiore delle reni, osso sacro: da *caudarium (italiano codione o codrione, codarozzo), da cauda (coda) Sturôl, usato di solito al plurale i sturul: specie di tenda, spesso avvolgibile, posta alle finestre, formata da sottili canne legate tra di loro: dal diminutivo storeolum del latino storea (stuoia), latino medioevale storia o storium. Sarnér: maestrale: si può far risalire a *serenarius, con lo stesso significato di serenator (che porta il sereno); questa ipotesi è tanto più plausibile se pensiamo che anche il nome greco di questo vento di nordovest, Aργέστης (Arghèstes), ha lo stesso significato: "che pulisce" o "che schiarisce", soffiando via le nuvole. Gajõn: (usato al plurale) orecchioni, parotite, gattoni: malattia infiammatoria delle ghiandole parotidi, che ingrossa la zona sotto le orecchie: deformazione di strangoglioni (dal latino stranguliare: strangolare), nome con cui questa malattia, specialmente nei cavalli, viene chiamata negli antichi trattati di veterinaria (25), in quanto tende a soffocare l’animale. Nel ferrarese quattrocentesco esiste già la forma gajoni. Esiste anche il nome gotoni, che deriva da gota, in quanto gonfia la guancia, deformato nel nome popolare gattoni (erroneamente riferita nell’Enciclopedia Treccani a una deformazione del viso, che può ricordare un gatto). Schichirê’: bere avidamente: da chicchera (sorta di tazza), a sua volta da jìcara, parola spagnola di origine messicana che ha origine dalla lingua nàhuatl o azteca: xicalli (vaso ricavato da una zucca). Più o meno è sinonimo di trinchê’, bere smodatamente, italiano trincare, tedesco trinken (bere). (Questo aggiornamento è anche disponibile sul sito www.dialettoromagnolo.eu)