PROPOSTE di PERCORSI INTERPRETATIVI (appunti di

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PROPOSTE di PERCORSI INTERPRETATIVI
(appunti di antropologia visuale)1
di Patrizia Marzo2
In questi dieci anni di vita di “Vista dal Basso”, gli autori e organizzatori, Teresa e Paolo,
hanno sempre evitato di offrire al pubblico le fotografie dei bambini in forma “organizzata”,
confezionandole secondo precisi ordini e categorie.
Mi hanno spiegato che, semmai, l’ordine e le categorie le “avevano in mente”, come utili
riferimenti per l’individuazione e la selezione delle foto da esporre, nel marasma delle centinaia di
scatti realizzati durante i laboratori.
Al pubblico, invece, le foto sono state volutamente esposte in dis-ordine, ovvero in forma
quasi casuale, per cercare di ricreare e restituire agli sguardi dei non barivecchiani l’autenticità del
clima della Città Vecchia.
Il mio, quindi, rischia di essere il ruolo antipatico di chi prova a dare una struttura alla
fantasia, di chi cerca di verbalizzare le emozioni, quasi a voler “ingabbiare” le percezioni, le
aspirazioni e i sogni dei piccoli …
Tuttavia - assumendomi il rischio – premetto un’ovvietà: noi tutti sappiamo bene che la
fotografia è anche un’arte, cioè una delle espressioni culturali della specie umana. E da molto
tempo sappiamo anche che la cultura (di una società, di una comunità o di un gruppo umano) è un
sistema complesso, costruito da “reti di significato”, come affermava Max Weber.
La cultura è composta da significati che ciascuno di noi cerca di decifrare e apprendere ogni
giorno; anzi, molto più spesso di quanto siamo in grado di accorgerci, visto che ogni “oggetto” che
rientra nella cultura è un elemento di distinzione in più fra gli uomini e le altre specie presenti in
natura.
Per questo è vitale occuparsi – a tutti i livelli - della cultura e delle sue diverse forme. Ed è
fondamentale rispettare tutte le culture, anche quelle che ci sembrano più incomprensibili.
Come si fa a decifrare i significati che impregnano le diverse forme culturali? A questo
“domandone” l’antropologia ha fornito una prima risposta: non possiamo dare significati “nostri”
alle culture degli “altri”, senza conoscere i significati che gli “altri” danno alla propria cultura.
L’antropologia e il suo fondamentale strumento operativo, ossia l’etnografia, ci
“attrezzano”, quindi, per leggere la sostanza culturale aldilà delle apparenze, delle raffigurazioni e
delle nostre convinzioni (che spesso si rivelano falsate, distorte dai nostri valori e sistemi di senso).
In altri termini, per entrare nello specifico, non possiamo dare alle foto dei bambini e delle
bambine di “Vista dal Basso” i significati che “noi” (visitatori, non barivecchiani, osservatori,
operatori, politici, …) vogliamo. Non possiamo vedere la felicità in tutti i sorrisi, la tristezza in tutti i
primi piani malinconici, la violenza in tutte le smorfie di alcuni adulti, il degrado in tutte le foto che
ritraggono i rifiuti, ecc.
Dietro queste foto c’è molto altro e molto più di quanto noi vogliamo attribuire loro, per
comodità, per convenienze … per stereotipi.
Per meglio comprendere questo approccio a “Vista dal Basso”, è importante ricordare che
(come in ogni relazione visuale) i protagonisti della mostra sono quattro: i bambini-Autori, gli
“oggetti” ritratti nelle foto e noi-spettatori. Sul quarto protagonista mi soffermerò in seguito.
1
Ho preferito contraddistinguere, in molti casi, i termini propri dell’antropologia culturale e dell’etnografia in corsivo.
Assistente sociale, specializzata in antropologia culturale, lavora nell’ambito della prevenzione delle patologie
comportamentali.
2
1
Ad ogni modo, siamo tutti protagonisti di un unico sistema di relazioni, tutti ugualmente
importanti. Nessuno può prevalere sugli altri.
È, questa, la distinzione antropologica fra l’approccio etico e l’approccio emico, che
consiste, appunto, nel tenere nella giusta considerazione le differenze fra il punto di vista
dell’osservatore e quello dell’osservato, più “interno” alla propria cultura.
Se è vero, come afferma Geertz, che:
“Fare etnografia è come cercare di leggere (nel senso di «costruire una lettura di») un manoscritto straniero,
sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti tendenziosi, ma scritto non in
convenzionali caratteri alfabetici, bensì con fugaci esempi di comportamento strutturato” 3,
allora è anche vero che qui vi sono più livelli di pratiche etnografiche.
Il primo – e principale – livello è quello dei bambini e delle bambine, che hanno ricevuto
dall’esperienza di “Vista dal Basso” una nuova opportunità di gioco e di creatività, ma anche
(inconsapevolmente) l’occasione di interpretare le “reti di significato” che costituiscono la cultura
di Bari Vecchia, cioè del proprio principale contesto ambientale e di vita.
I piccoli protagonisti hanno ritratto numerosi oggetti, alcuni particolarmente emblematici
delle sopravvivenze “barivecchiane”, altri meno; tutti riconducibili a categorie culturali
riconosciute.
Ad esempio:
1.
le reti parentali, le pratiche e i comportamenti domestici, come i ritratti con i fratelli
e i nonni; le bambine che “fanno le orechiette”; le donne che puliscono la casa, il rito estivo
della “salsa”;
2.
le relazioni con i luoghi esterni: la vita nelle corti, con vicini e parenti; i rapporti con i
beni architettonici, come le foto al Lungomare, alla Cattedrale e alla Basilica, e le
aggressioni ai monumenti; i luoghi intesi come spazi di relazioni condivise e di memoria
collettiva (le piazze, le fontane, i vicoli, …); i non luoghi: gli spazi abbandonati e dimenticati
dai circuiti del turismo (soprattutto eno-gastronomico); il rapporto con i rarissimi spazi
verdi e con gli animali domestici;
3.
il rapporto con il corpo: la fisicità (il gioco, il desiderio delle bambine di apparire
imitando i “modelli” televisivi, la tentazione dei bambini di atteggiarsi a leader); l’intensità
dei primi piani, spesso veri e propri codici di sentimenti interiori4 (ma mai maschere, poiché
anche i primi piani degli adulti sono frutto di immediatezza ed emotività); le percezioni
sensoriali suscitate da certi piatti tipici o dai paesaggi di mare o da certi colori, come il
rosso vivo - molto presente nelle foto - intorno al quale converge l’apprezzamento sociale,
attribuito dall’antropologo Ugo Fabietti alla definizione/selezione del colore in quanto
elemento “culturale”, condizionato dalle differenze di genere, di etnia, di posizione sociale,
ecc.; il rapporto con le emozioni, come l’amicizia (fra bambini ritratta molte volte,
soprattutto fra le bambine) e l’amore;
4.
il rapporto con la società e con le istituzioni: le (poche ed esterne) foto alla scuola;
le attività/le pratiche lavorative (soprattutto il commercio ambulante esercitato dai
commercianti “storici”, anche a domicilio; è interessante notare, in proposito, l’assenza di
scatti ai “nuovi” esercizi commerciali a sfondo eno-gastronomico e turistico, sviluppatisi
soprattutto a partire dall’attuazione del Piano Urban) gli adulti e gli anziani, i forestieri
(turisti e crocieristi, spesso giapponesi);
3
Cfr. Clifford Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1998, pag. 17.
Si vedano, in proposito, gli studi di antropologia visuale compiuti da Massimo Canevacci, come ad es. Antropologia
della comunicazione visiva, Costa &Nolan, Ancona – Milano, 2000.
4
2
5.
i richiami ai tratti culturali fondamentali, come i miti, il calciatore “Cassano” in testa,
essenza di barivecchiano ed emblema del riscatto sociale e del successo (sorta di self made
man locale); miti religiosi e laici, talvolta accostati in un unico richiamo alla dimensione del
soprannaturale e del sogno (come nella splendida foto di una bambola affiancata ad una
“Madonna col Bambino”… sorprendentemente somigliante), i simboli religiosi, come le
edicole votive e gli altarini dedicati alle giovani vittime mitizzate (della strada? della droga?
della malavita?), i riti sociali (e, fra i riti di passaggio, spiccano le diverse foto dei
matrimoni, mentre sono completamente assenti le feste per i diciotto anni, le feste di
laurea, espressioni di un altro tipo di affermazione sociale).
Due brevissime battute sugli aspetti estetici delle fotografie, per la maggior parte di grande
suggestione. Va premesso che all’interno di “Vista dal Basso” alcuni scatti sono davvero bellissimi;
in alcuni casi (in certi sguardi, oggetti e prospettive,..) perfino poetici.
Sarebbe fin troppo facile percepire la bellezza guardando i primi piani e i ritratti (teneri e
simpatici, leggeri e solari) dei bambini e delle bambine, con i loro sorrisi, le smorfie, le pose.
Diventa molto più complesso riconoscere la bellezza in senso etnologico, ossia considerandola alla
luce dei condizionamenti culturali e ambientali che forgiano i piccoli foto-operatori nel proprio
ambiente di vita: ancora una volta “vale” l’approccio emico, secondo cui se per noi un oggetto è
brutto o “kitch”, ciò non vuol dire che questo valga per i barivecchiani! In realtà, possiamo provare
la percezione della bellezza anche negli accostamenti dei colori e delle luci, nei contrasti e nelle
prospettive, oltre che, naturalmente, negli oggetti e nei significati delle pose. La bellezza emerge
ogni volta che suscita in noi una reazione emotiva di stupore e ammirazione; e ciò accade spesso
nell’osservare queste foto!
Il “manoscritto straniero” citato da Geertz non è solo quello che i bambini cercano di
decifrare, individuando/selezionando gli oggetti della realtà che li circonda per poi fotografarli, ma
è anche quello che noi – organizzatori, operatori sociali, visitatori – dobbiamo cercare di
decodificare quando guardiamo le foto.
La nostra è un’operazione molto più complessa, anche perché può beneficiare solo di
documenti “di seconda mano”, realizzati da altri (i bambini, appunto). È un’interpretazione
dell’interpretazione: per parafrasare ancora Geertz, in questo caso siamo noi che sediamo “a
cavalcioni” sulle spalle dei bambini che osservano la realtà e che la interpretano (e non solo con i
loro occhi), abbiamo noi il compito di completare e arricchire la lettura offerta dalle foto con
ulteriori elementi.
È, dunque, questo il secondo livello di pratica etnografica, che non può che essere affidato
a noi adulti. Ed è in questo secondo livello che introduco il quarto protagonista (dopo i bambini, gli
oggetti e i visitatori) della relazione visuale: ossia il mezzo, che nel nostro caso, sono le macchine
fotografiche “usa e getta”.
Quando Marshall Mc Luhan affermava che il “mezzo è il messaggio”5, enfatizzava
l’importanza del mezzo di comunicazione, determinante, in un certo senso, “a prescindere” dai
contenuti veri e propri del messaggio stesso.
Pur non avventurandoci in un campo così complesso, che rinvia ai grandi temi della
comunicazione e delle comunicazioni di massa, noi adulti dobbiamo fare i conti con alcuni aspetti
che riguardano il mezzo.
Innanzi tutto bisogna tenere presente la mediocrità delle caratteristiche tecniche e
tecnologiche delle “macchinette usa e getta”. Ostacoli e limiti fisici, che condizionano non solo la
5
Si veda, in proposito, il testo ritenuto più famoso di M. Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, 2008.
3
riuscita delle fotografie, ma in alcuni casi anche la loro reale “fattibilità” (si pensi ai problemi di
questo tipo di fotocamera negli scatti ai contesti notturni, oppure a particolari dimensioni, colori,
prospettive).
E non è certo secondario il fatto che anche il numero degli scatti, possibili con queste
macchine, è limitato: un limite che, di fatto, riduce di molto la libertà di espressione di ogni
bambino, obbligandolo ad una selezione severa degli oggetti che lo interessano; sarebbe
decisamente più efficace (anche se più costoso, ma potrebbero essere sperimentate forme di
noleggio) affidare ai bambini piccole macchine digitali, dotate di memoria molto più ampia e,
quindi, della possibilità di trasformazione/archiviazione informatica degli scatti, anche ai fini di
contribuire alla realizzazione di un vero e proprio “Archivio permanente della Memoria” di Bari
Vecchia (che oggi, ancora non è strutturato).
Nel secondo livello di interpretazione e di pratica etnografica, che noi adulti operiamo con
i lavori dei bambini, dobbiamo, inoltre, considerare il fattore dei “tempi”.
Anche qui balzano subito alla nostra attenzione i punti di debolezza collegati a quest’ultimo
aspetto: mi riferisco ai ristretti limiti di tempo che i bambini in questi anni hanno avuto per poter
“produrre” le foto (massimo un mese, anche se la gestione temporale degli scatti si è differenziata
molto da bambino a bambino) in un periodo dell’anno complessivamente compreso fra luglio e
ottobre.
Questa rigidità dei limiti temporali ha ridotto significativamente anche la possibilità di
fotografare oggetti di grande interesse etnografico, come, ad esempio, le cerimonie primaverili
della “prima comunione”, che nella Città Vecchia hanno un grande valore sociale e individuale, un
vero e proprio rito di iniziazione. O come la grande festa religiosa e popolare di San Nicola
(patrono della Città Vecchia e della Città intera) che si svolge a maggio e che costituisce la vetrina
più smagliante con la quale Bari Vecchia si presenta ai suoi concittadini degli altri quartieri e ai
“forestieri” e “pellegrini”. La Festa di San Nicola è un momento di grande solennità, che sintetizza
il rito religioso e la festa creativa, nel quale soprattutto i cittadini barivecchiani ritrovano il proprio
senso di appartenenza alla comunità locale: una delle ultime sopravvivenze storiche e culturali che
la città ancora conserva.
Pur considerando, tuttavia, i limiti oggettivi dell’esperienza di “Vista dal Basso” fin qui
rappresentati, propongo di tentare anche un altro tipo di categorizzazione delle foto, seguendo in
questo caso i parametri indicati da Arjun Appadurai6, cioè collocando gli oggetti fotografati nei
panorami (scape) dei flussi culturali contemporanei, relativi alla tecnologia, alla comunicazione di
massa, alla finanza/economia, alle idee e alle migrazioni.
Questa esercitazione ci offre una lettura alternativa e “utilitaristica”, che rinvia
all’integrazione del quartiere “nel mondo”, alla correlazione fra Bari Vecchia - globalizzazione e
glocalizzazione, al tema della frantumazione e della dispersione (della liquefazione, come direbbe
Bauman) dei tratti culturali tipici del contesto barivecchiano (che, poi, è quello della città
originaria).
Seguendo questo modello, si può riflettere sulla prospettiva di Bari Vecchia in quanto
“villaggio globale”, in quanto comunità-fulcro, custode (illusoria)7 dei tratti culturali originari della
città-area metropolitana di Bari, invasa in pochi decenni da fenomeni molto più grandi dei suoi
confini: come il consumismo e gli stravolgimenti del tessuto economico locale, il turismo (troppo
spesso “mordi e fuggi”), la criminalità, i condizionamenti dei mass-media, le trasformazioni
urbanistiche (non sempre accettabili e sostenibili),…
6
Si veda, in proposito, il testo dell’antropologo Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001.
Il riferimento è al famoso studio di Giandomenico Amendola, La comunità illusoria. Disgregazione e marginalità
urbana: il borgo antico di Bari; premessa di Ludovico Quaroni, Milano, Mazzotta, (Planning & Design), 1976
7
4
Si può anche approfondire il tema delle conseguenze di questi mutamenti antropologici nei
sistemi culturali locali (come le strutture e le relazioni familiari e parentali; il lavoro/i mestieri/le
professioni; le pratiche di cura e della solidarietà; la sicurezza/insicurezza reale e percepita dai
cittadini; i sistemi linguistici – gergali, dialettali - e di culto, ecc.).
E si può analizzare il grado di resilienza (di adattamento e di risposta) e i processi di
acculturazione/inculturazione/modernizzazione (trasmissione/apprendimento dei tratti culturali)
della comunità dei barivecchiani, dinanzi ai capovolgimenti culturali e urbani che sta
attraversando, oggi sospesa in un momento di profonda e velocissima transizione storica e sociale
dall’esito incerto (perché non sono mai prevedibili i risultati del rapporto di equilibrio fra
tradizione e modernità).
Il modello “Appadurai” consente di analizzare, nell’ottica comparativa tipicamente
antropologica, le analogie e le differenze dei tratti culturali e dei comportamenti, conducendo
quindi all’individuazione dei significati culturali peculiari ed universali.
Come accaduto a “Vista dal Basso” nel 2009, quando è stato possibile “gemellare” questa
esperienza con una analoga iniziativa realizzata nei campi-profughi libanesi, a Beirut, in
particolare. Osservando le foto scattate nei campi, è davvero sorprendente constatare quanto i
bambini e le bambine di Shatila e di Rashidieh, piuttosto che di Ain-el-Helweh o Nahr-el Bared,
abbiano in comune con i nostri piccoli barivecchiani: incredibili analogie nelle pose dei bambini,
nei ritratti e nelle pratiche domestiche, nei criteri di individuazione e di selezione degli oggetti da
fotografare (i prodotti della globalizzazione), nell’accostamento dei colori e nella scelta delle
prospettive, che rappresentano gli universali culturali contemporanei. Ma anche vistose
differenze, di natura economica, urbanistica, culturale, che invece costituiscono per entrambe le
comunità, le peculiarità, le specificità, le sopravvivenze del proprio popolo e della propria storia.
Tutto questo attiene ad un possibile terzo livello di interpretazione, che presuppone una
particolare attenzione e sensibilità delle istituzioni, dei decisori pubblici e dei portatori d’interesse
ai contenuti che emergono, non solo dalla fotografia sociale ed etnografica, ma anche, più in
generale, dalla ricerca qualitativa.
Il riferimento alla ricerca qualitativa non è casuale: su questa dimensione
dell’interpretazione della Città Vecchia (più programmatica ed operativa) ho una personale
convinzione che provo ad esplicitare, a conclusione di questa breve riflessione.
La gestione politico-amministrativa della città, negli ultimi anni, si è voluta
contraddistinguere dalle precedenti per i segnali di apertura e di ascolto nei confronti delle istanze
e delle indicazioni che provengono “dal basso” e dalla società civile, comprese quelle che
emergono dalle diverse indagini di carattere quali-quantitativo e statistico, sia a livello comunale
sia circoscrizionale.
Nonostante ciò, si registra ancora oggi una grave carenza di indagini di tipo etnografico a
livello di “quartiere” (termine che assume un’accezione molto diversa da “circoscrizione”, poiché
indica una dimensione comunitaria, più storica e sociologica) soprattutto se si pensa alla Città
Vecchia.
Non basta occuparsi dei temi della disoccupazione, della povertà, dell’illegalità diffusa. Le
chiavi della statistica e della sociologia non si rivelano sufficienti per leggere e interpretare un
contesto come Bari Vecchia, con le peculiarità, le contaminazioni e le problematiche che la
attraversano: si sente il bisogno di osservare Bari Vecchia dalla prospettiva olistica, di studiarla con
le metodologie comparative, con l’analisi delle differenze/somiglianze, nella sua dimensione
storica (sincronica e diacronica).
Ed è altrettanto importante utilizzare tecniche e metodi di ricerca specifici (come le
interviste in profondità e l’osservazione partecipante) che ascoltino davvero le persone di Bari
Vecchia: un tesoro a rischio di “estinzione” culturale, di cui l’“altra” Città sembra non accorgersi (o
5
intenzionata a riparare, limitandosi a rilasciare un numero spropositato di licenze commerciali di
tipo gastronomico e ricreativo).
Oggi più che mai è necessario indagare le qualità della cultura locale (l’arte, lo sport,
l’economia, il rapporto con l’ambiente, la gestione dei beni comuni e del patrimonio
architettonico, l’istruzione e l’educazione, i linguaggi, la religione).
È importante ricercare le espressioni emozionali (come si costruiscono, si gestiscono e si
trasmettono i sentimenti, e come questi influenzano le relazioni interpersonali) anche per
comprendere i rapporti fra la società “sana” del quartiere e le sue espressioni di illegalità e di
violenza. E’ importante approfondire le forme della creatività culturale e sociale, per valutare
meglio le potenzialità e le aspettative dei residenti. È importante comprendere la complessità
delle connessioni (non ultime le “reti” della comunicazione informatica) fra comunità e ambiente
che cambia, ad una velocità mai conosciuta prima nella storia della città e del mondo, come ci
indica l’antropologo svedese Ulf Hannerz.
Tutto questo non è compito dell’iniziativa “Vista dal Basso”, ma attiene alla volontà di
conservare con dignità e di promuovere al meglio non solo il quartiere–immagine, vetrina
artefatta, molto più triste e sterile, ma il quartiere-comunità, culla e cuore vivo e pulsante della
cultura cittadina.
Sempreché si senta la “necessità” di lavorare nella direzione indicata da questi bambini e
da queste bambine: che infatti sembrano consegnarci, con i loro “giochi” di immagini, una pista da
seguire con molta serietà.
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