INFORMAZIONE
FILOSOFICA
Rivista
bimestrale
a cura di:
Istituto
Italiano
per gli
Studi
Filosofici
Istituto
Lombardo
per gli Studi
Filosofici
e Giuridici
Via Monte di Dio 14,
80132 Napoli
Viale Monte Nero 68,
20135 Milano
Edizione
Edinform. Informazione e Cultura
Società Cooperativa a r.l.
Viale Monte Nero, 68
20135 Milano
Reg. n. 634 del 12/10/90
Tribunale di Milano.
Sped. abb. post. gruppo IV/70.
Prezzo: L. 10.000
Copie arretrate L. 15.000
Abbonamento annuale
(5 numeri): L. 45000
studenti L. 35000
estero (Europa) L. 66000
(Paesi extraeuropei) L.156000
Redazione, direzione,
amministrazione:
Edinform. Informazione e Cultura
Società Cooperativa a r. l.
Viale Monte Nero, 68
20135 Milano
tel. (02) 55190714
fax (02) 55015245
ccp 17707209 - intestato a:
Cooperativa Edinform
Informazione e Cultura s.r.l.
Milano
Per l'invio di articoli e materiale
informativo indirizzare a:
Informazione Filosofica
Viale Monte Nero, 68
20135 Milano
DIRETTORE RESPONSABILE
COMITATO SCIENTIFICO
Sergio De Mari
Mario Agrimi
Remo Bodei
Giuseppe Cantillo
Franco Chiereghin
Girolamo Cotroneo
Jacques D'Hondt
Hans Dieter Klein
Domenico Losurdo
Giovanni Mastroianni
Aldo Masullo
Vittorio Mathieu
Adriaan Peperzak
Roberto Racinaro
Enrico Rambaldi
Paul Ricoeur
Paolo Rossi
Pasquale Salvucci
Hans-Jörg Sandkühler
Livio Sichirollo
Franco Volpi
Giuseppe Cospito
Flavio Cuniberto
Eleonora de Conciliis
Maurizio Ferraris
Antonio Iodice
Raffaella Ioimo
Stefania Longhetti
Livio Miccoli
Massimiliano Pagani
Giuseppe Patella
Carlo Penco
Lucia Russo
Franco Sarcinelli
Giuseppe Ventrone
In copertina:
Cittadini di Weimar vengono
condotti dalle truppe alleate
a visitare il campo di concentramento
di Buchenwald, 1945.
DIRETTORE EDITORIALE
Riccardo Ruschi
COMITATO DI REDAZIONE
Antonio Gargano
Lorenzo Giacomini
Riccardo Ruschi
SEGRETERIA DI REDAZIONE
Mariangela Giacomini
Paola Grilli
Anna Malafarina
RELAZIONI ESTERNE
Daniela Bolsi
REDAZIONE
Flavio Cassinari
Silvia Cecchi
Riccardo Lazzari
Massimo Mezzanzanica
Elio Nasuelli
CONSULENZA GRAFICA
CORRISPONDENTI
FOTOLITO
Alfonso Freire (Barcellona)
Josef Früchtl (Francoforte)
Fosca Mariani Zini (Parigi)
Fotolito Milanese
Via Fiume 37,
20099 Sesto S. Giovanni (Milano)
COLLABORATI
STAMPA
Gianluca Barbaro
Stefania Basso
Stefania Battaglia
Nino Biccari
Filomena Rita Casale
Monica Celi
Stabilimento Grafico Morreale,
Via Bezzecca 5, 20135 Milano.
Gianluca Poletti
IMPAGINAZIONE
Alessandro Confetti
DISTRIBUZIONE
Joo Distribuzione
Via G. Alessi 2, 20133 Milano
12
Gentili lettori,
al significato del ricordo e delle parole nel lavoro dello
storico è dedicato il saggio di apertura di questo numero,
che presenta uno scritto inedito di Enrico Rambaldi,
rielaborazione di un suo intervento all’Università di Bari
in occasione della presentazione del libro di Paolo Rossi,
Il passato, la memoria, l'oblio (Il Mulino, Bologna 1991).
E’ indubbio che lo storiografo, nel suo sforzo di ricostruzione e interpretazione del passato, si trovi assai spesso
di fronte a “oggetti dimenticati”, sotterrati, sepolti dal
divenire degli eventi storici. La metafora dello “scavare
nel passato”, sovente utilizzata per caratterizzare l’operare dell’ “arte della memoria”, ben si addice al lavoro
dello storico. Solo che qui interviene una sorta di “necessità morale”, poiché lo storiografo, calato in una tale
situazione, non si sente semplicemente chiamato al recupero del documento, ma avverte il bisogno di porre
rimedio alla dimenticanza, di dar voce al ricordo, di far
sì che le parole parlino al presente dell’uomo e indichino
un futuro, un destino.
Nella storia di questo secolo vi è una vicenda, non molto
nota, che si presta forse più di ogni altra a esprimere,
anche in modo emblematico, il significato morale che
investe lo storiografo nella sua opera di recupero del
passato. Si tratta del ritrovamento, nel settembre del
1946, e in seguito nel dicembre del 1950, dei cosiddetti
“Diari di Ringelblum”, a cui si deve la storia del Ghetto
di Varsavia e dello sterminio degli ebrei dall’epoca
dell’invasione della Polonia (1939) da parte dei soldati
nazisti fino alla completa distruzione del Ghetto (1943).
Ciò che in particolare colpisce di questo ritrovamento,
oltre al fondamentale valore storico del documento, è che
Emmanuel Ringelblum, ebreo del Ghetto di Varsavia,
autore dei “Diari”, agì nella compilazione della sua
cronaca prefigurando, da storiografo, il compito morale
che si sarebbe posto lo storico di fronte alla scoperta dei
“Diari”. Egli volutamente scrisse la sua cronaca con
l’intenzione di farne un “oggetto dimenticato”, analogamente a quanto i nazisti intendevano fare sistematicamente del Ghetto e degli ebrei. Una prima parte dei
“Diari” fu infatti ritrovata nel Ghetto sotterrata in due
casse, una seconda parte nascosta in due recipienti da
latte sigillati in gomma. L’emblematicità del ritrovamento, pensato innanzitutto per preservare il documento
dall’inevitabile distruzione, non sarebbe sfuggita allo
sguardo dello storico, che all’interpretazione della testimonianza scritta e infalsificabile degli eventi avrebbe
per sempre legato nella memoria dei contemporanei il
ricordo inestirpabile di ciò che era accaduto.
“Passato, memoria, oblio”: sono dunque questi i contorni che segnano il lavoro dello storico alle prese con la
vicenda umana. Di questa connessione problematica ci
offre un’ampia traccia di riflessione il sopracitato studio
di Paolo Rossi, di cui riportiamo qui un brano significativo:
«La storiografia non coincide con la spontaneità della
memoria individuale e collettiva: è una forma di conoscenza che deve «passare al vaglio della critica» gli
apporti della memoria. Fra storia e memoria si dà tuttavia
un rapporto assai stretto perché la storia si nutre di
memoria e la memoria «si impregna di tutta una serie di
nozioni e di sentimenti che sono prodotti e veicolati dalla
storiografia».
La crescita del sapere storico sembra principalmente
affidata alla capacità di individuare nel passato nuovi
oggetti e di prospettare in modi nuovi relazioni e rapporti
individuali. Anche nella storiografia i manuali vengono
continuamente riscritti e vengono abbandonati come non
più utilizzabili o oggetti di semplice curiosità. La novità,
si dice, consiste principalmente in un «nuovo taglio». Ma
quest’ultimo, a guardar bene, coincide spesso con la
capacità di individuare e rammemorare oggetti trascurati
o dimenticati che emergono, come si suol dire, «in primo
piano». La loro presenza fa crescere o diminuire il significato e la rilevanza di altri oggetti, consente di individuare nuove relazioni, mette soprattutto in crisi consolidati
paradigmi interpretativi. Com’è per esempio accaduto,
relativamente alla storia delle idee, nel caso del potere
taumaturgico dei Re, dei modi della vita materiale, della
nozione di crescita e di crisi economica, delle immagini
degli dèi degli antichi, dei processi alle streghe, dei
selvaggi americani.
Nel caso della storiografia i processi di rammemorazione, che la costituiscono nella sua essenza più profonda,
sembrano guidati da intenzioni precise: porre rimedio
alla dimenticanza naturale degli esseri umani affaccendati nel loro quotidiano presente; conservare e consentire
che venga utilizzato un grande e ricco patrimonio di
tradizioni, di istituzioni, di idee; creare un legame fra le
diverse generazioni; dar luogo a forme di memoria collettiva che possono riguardare piccole o grandi comunità (i
Tifernati, gli Scozzesi o gli Europei) o, addirittura, l’intero genere umano. Quella memoria collettiva, alla quale
l’attività degli storici e degli antropologi dà un contributo
notevole, è in genere intesa come possibilità di far riferimento ad un passato dotato di senso: qualcosa che può
porre solidi argini ai processi di sfaldamento, frantumazione, isolamento, sradicamento dal loro ambiente e dal
loro passato dei singoli e delle comunità.»
Si ringrazia il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC)
per il materiale iconografico gentilmente messo a disposizione.
SOMMARIO
5 SAGGIO
42 NOTIZIARIO
5 Ricordo e parole in storiografia
43 CONVEGNI E SEMINARI
15 INTERVISTA
43 Neoantico contro neoetnico
15 Ritratto d’autore: le immagini del mio nome:
44 Schlegel e la filosofia della storia
intervista a Yves Hersant e Louis Marin
44 Orfeo e orfismo
45 Continuità e mutamenti nella scienza
23 AUTORI E IDEE
45 Linguaggi della mente
23 Veracità della conoscenza
47 Introduzione alle scienze cognitive
23 I luoghi della memoria
48 Fonosimbolismo e linguaggio poetico.
24 L’ultimo francofortese
48 Il sistema filosofico
24 Axel Honneth e il progresso sociale
49 Ri-pensare l’Antropologia.
26 Derrida: le interviste
53 Fondamenti della geometria
26 La debolezza dell’Io
53 Aspetti filosofici della letteratura russa
27 Utopia: il paese che non c’è
54 Fenomenologia del politico
29 La politica di Hegel
55 L’eresia gnostica
29 tendenze e dibattiti
55 Omaggio a Pareyson
30 Tendenze provinciali
57 Jean Paul: per una estetica della conoscenza
30 Sociologia della conoscenza e civiltà moderna
58 Ermeneutica del dolore
31 La morale ineffabile
31 Il paradosso del pensiero occidentale
59 CALENDARIO
32 Filosofia della mente
32 Coerenza di Nietzsche
60 OPINIONI A CONFRONTO
33 Marxismo ed ecologia
34 Diritto di replica:
Sulla “Volontà di potenza” di Nietzsche
61 DIDATTICA
61 Nuovi manuali di filosofia
63 Convegni
39 PROSPETTIVE DI RICERCA
39 La logica di Ockham
65 RASSEGNA RIVISTE
39 Emil Lask: la logica della filosofia
40 Il viaggio in Italia dei Goethe
40 ‘Il Candelaio’ di Bruno
41 Herder: la filosofia e il linguaggio
41 Max Weber negli Stati Uniti
71 NOVITÀ IN LIBRERIA
SAGGIO
“Diari di Ringelblum”:
recupero della prima parte (Varsavia, settembre 1946);
contenitori in cui era nascosta la seconda parte (Varsavia, dicembre 1950); prima pagina
4
SAGGIO
In occasione della recente pubblicazione gini (“abbi coscienza delle tue origini”) scienza e memoria a lungo termine. L’ogdel volume di Paolo Rossi, Il passato, la come elemento di potenza nell’agire. Dal- getto della scienza ha come oggetto la
memoria, l’oblio (Il Mulino, Bologna 1991), l’altro lato, il ricordare è assunto dagli storia stessa, mentre l’oggetto della scienza
l’Istituto di Filosofia e Storia di Bari ha scienziati, dopo Galileo, spesso con una non ha storia. La scienza si definisce come
organizzato il 19 gennaio 1993, presso l’Au- valenza negativa: si pone la necessità del capacità inglobativa del passato.
la Magna del Palazzo Ateneo di Bari, una saper dimenticare per poter cancellare, del- La relazione di Giorgio Cerboni Baiardi
tavola rotonda sul tema: “La memoria e la scelta dell’oblio, del “dovere di saper ha messo in evidenza sia la problematicità
l’occidente”, alla quale hanno partecipato dimenticare”. Questa duplice valenza pre- dell’appartenenza alla propria storicità Davide Bigalli, Enrico Rambaldi, Mauro suppone una diversificazione semantica del mediante il richiamo alle istanze nietzscheDi Giandomenico, Giorgio Cerboni Baiar- ricordo: da un lato esso ha un aspetto pre- ane della Seconda Considerazione inattuadi, Paolo Rossi.
gnante, anche emozionale, e dall’altro una le. Sull’utilità e il danno della storia per la
Introducendo i lavori, Davide Bigalli ha connotazione cognitiva (memoria). L’iden- vita -, sia il nesso tra storicità e memoria
individuato, nell’atteggiamento di reazio- tificazione delle due sfere imporrebbe il letteraria. La parola letteraria denota un
ne negativa di Erasmo nei confronti del problema del cancellare. La cancellazione legame con l’istante e un radicamento con
proliferare dell’arte rinascimentale della del passato è sempre stato un segno distin- il passato. La memoria, intesa come apparmemoria, un momento storico determinato tivo dell’oppressione. E’ stata sottolineata, tenenza alla propria storicità, ha una dinell’ambito di quel processo di “parabola inoltre, la diversità del ruolo del ricordo nei mensione immediatamente produttiva neldella memoria” esaminato da Paolo Rossi. vari ambiti disciplinari.
l’esperienza artistica tanto del produttore
L’avversione di Erasmo nei confronti del- Mauro Di Giandomenico si è soffermato quanto del fruitore: essa offre possibilità
l’arte mnemotecnica è stata sviluppata in- sul nesso scienza e oblio. La scienza si istantanee. Tutta la tradizione letteraria vietorno a due argomentazioni: 1. la conside- presenta come un insieme di risultati abba- ne considerata come un complesso gioco
razione della parola da parte
tra memoria e oblio.
delle arti rammemorative; 2.
A conclusione delle relaziol’importanza attribuita da Erani, l’intervento di Paolo Rossmo alla stampa. Nelle arti ramsi ha ripreso il parallelismo,
memorative manca, per Erache, da sempre, contraddistinsmo, la consapevolezza delgue l’atteggiamento nei conl’evoluzione temporale della
fronti della memoria: la conparola: le parole sono piene di
vinzione dell’importanza deltempo, sono sedimentazioni
la memoria e la polemica contemporali. La pagina stampata
tro la memoria, polemica che
è supporto tecnologico per una
può presentarsi, anche, come
memoria non intesa più come
un’avversità al “sapere cose”.
tecnica separata. La stampa conE’ stata ripresa e approfondisente la riflessione sulla parola,
ta la doppia necessità di dila lettura, che non è ripetizione,
menticare e di ricordare. A
di Enrico I. Rambaldi
ma è la possibilità della riflesproposito del rapporto tra
sione. Con la stampa scompare
scienza e oblio, si è osservato
la necessità di avere tutto nella
come la consapevolezza che
memoria. Il venir meno di quesi costruisce in vista dell’ac«La mia immagine del passato
sta necessità comporta l’irrucantonamento o del superaè come una terra assetata d’acqua:
zione della soggettività nel temmento dei prodotti del provi cade una goccia e subitamente scompare;
po dello studio. In senso contraprio lavoro coincida con l’asvi scorre un torrente ed eccolo assorbito dal
rio per Erasmo non c’è sapere,
sunzione della propria mortasuolo.»
ma museografia. Erasmo è, così,
lità. In riferimento al ruolo
assunto come la prima pietra
della memoria nella letteratuSaul Friedländer
d’inciampo della parabola delra, è stata valutata l’imporla memoria, che ha un altro momento signi- stanza certi proprio in relazione al rapporto tanza delle emozioni come elementi delficativo nell’età di Leibniz, allorché si assi- che instaura con la memoria. E’ necessario, la memoria, che diventa, con Proust,
ste alla scomparsa definitiva della memo- per comprendere la relazione tra scienze e luogo di intrecci. F.R.C.
ria come tecnica separata.
memoria, ricorrere alla distinzione psicoEnrico Rambaldi ha posto il problema logica tra “memoria a breve termine” e
della memoria in relazione al valore del “memoria a lungo termine” e alla relazione
ricordo. Il ricordare, da un lato, investe il costituente, che si pone tra scienza militan- Presentiamo qui una rielaborazione delriconoscimento dell’importanza delle ori- te e memoria a breve termine e storia della l’intervento di Enrico Rambaldi alla ta-
Ricordo
e parole
in storiografia
«schiere di clandestini» ed inguaribili colporteurs che
sono gli storici dimostrano che essi somigliano più ad
«una membrana semimpermeabile» che non ad «un muro
di cemento» (pp. 179-183).
Anche per i più affezionati lettori di Rossi, questo libro
presenta tuttavia una peculiarità: un acuto senso, che ne
illumina e ravviva le pagine, delle aporie che investono il
lavoro di storico che si occupa di scienze sia umane, sia
naturali, cioè due ambiti nei quali l’atteggiamento verso
il passato è non solo differente, ma opposto. Negli studi
umanistici, scrive Rossi, regna la memoria, l’oblio in
quelli di scienze naturali. «Nessuno studente potrebbe
vola rotonda.
hi conosca, anche non per esteso, la produzione
scientifica di Paolo Rossi, già prima di leggere
quest’ultimo suo bel libro ha presente il taglio di
storiografia delle idee con cui tratta la storia e della
filosofia e della scienza. Il lettore ne conosce anche la
«spiccata predilezione» per il «mondo spesso ambiguo e
sfuggente» delle «metafore», dei «themata», degli «stili
di pensiero» (p.8) e lo sa avverso a troppo definiti confini
tra «le scienze della natura e le scienze cosiddette umane». Del resto, scrive Rossi, varcandoli e rivarcandoli, i
confini, «ogni giorno, alla piena luce del sole», quelle
C
5
SAGGIO
mai pensare di laurearsi in filosofia senza aver mai letto
un dialogo di Platone o un’opera di Descartes e di Kant»,
mentre, «al contrario, ci sembra del tutto ovvio e naturale
che un laureando in fisica o in biologia possa non aver mai
letto direttamente i Principia di Newton o le memorie di
Einstein o L’origine delle specie di Darwin» (p.155).
Di quest’aporia, che l’atteggiamento verso il passato in
quei due ambiti disciplinari sia tanto differente, ed anzi
opposto, Rossi, come mostra già il titolo del libro, è ben
conscio, e ciò contribuisce a render affascinanti le sue
pagine, tese a “viverlo” come ricercatore, quel paradosso. Non solo sulla memoria, ma anche sull’oblio scrive da
storico, ponendo il problema del suo dominio nelle scienze, che bandiscono la memoria: «Quando una scienza si
è saldamente costituita, gli specialisti di quella scienza
dimenticano il passato del loro proprio sapere» (p.157),
affondano nell’oblio non «solo le teorie invecchiate o
superate, ma anche la genesi delle singole scienze» (159).
Lo storico della scienza, quindi, va a scavare in un passato
che non è vissuto come costitutivo della loro identità da
coloro che pure esso identifica: è quel passato che fa del
cultore di quella disciplina scientifica ciò che egli è.
Come se esistessero palazzi, i cui inquilini non lasciassero mai l’attico; anche questa un’immagine di Blade
Runner, film che Rossi cita a proposito dei replicanti,
organismi artificiali ma «privi di memoria» (p.20). In
quei palazzi lo storico scende, invece, sin a scrutarne le
fondamenta, in sotterranei dei quali i superbi abitanti
sanno pur l’esistenza, se ogni giorno vi precipitano,
lungo cunicoli senza ritorno, bracciate di libri, riviste
scientifiche da annate intere.
Per chiarire i termini di queste osservazioni, preciso
d’intender qui le coppie memoria/oblio e ricordo/dimenticanza come opposti, ed i due termini di ciascuna coppia
con campi semantici coestesi. Considero cioè la memoria
(e l’oblio) come denotante capacità cognitive d’archiviare (cancellare) nozioni, ed anche così Rossi la caratterizzò in un libro importante, Clavis universalis: arti della
memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz1, e di
nuovo in questo libro la dipinge (“L’arte della memoria:
rinascita e trasfigurazioni”; pp. 59-94). Riprendendo
Kuhn, egli descrive, ad esempio, la pratica dell’oblio dei
«manuali» scientifici, che «non solo nascondono il ruolo,
ma l’esistenza stessa delle passate rivoluzioni [scientifiche] che hanno contribuito a generarli», e se ne riportano
«frammentarie» notizie storiche, è per eleggere alcuni
aspetti del passato ad «anticipazioni» e «precorrimenti»
di «verità» (p.160). Quest’aporeticità del lavoro dello
storico può allora esser delineata così: egli si occupa
(anche) di un contenuto diverso che non quello cognitivo
della coppia memoria/oblio, poiché cerca, nel passato,
ciò che costituisce il presente e lo apre anche al futuro. Lo
storico, cioè, potendo inviterebbe il demoniaco biologo
che abita l’attico del palazzo di Blade Runner a ricordarsi
del passato, a fondarvi il suo agire presente e futuro. E se
quell’arrogante dio minore l’avesse accettato, il ricordo,
ne sarebbero scaturite conseguenze non solo cognitive
(di memoria), ma anche morali: avrebbe forse compreso,
come alla fine il protagonista del film, Harrison Ford, che
i replicanti sono sì “privi di memoria”, ma solo nel senso
che non ebbero infanzia, e quindi non possono ramme-
morarne episodi né affetti, ma non nel senso che gli anni
della loro effettiva esistenza siano senza ricordi. Questi
ricordi vogliono anzi trasmetterli, saperli accolti e conservati come valore anche dagli uomini, e con ciò esprimono, da ultimo, l’esigenza di esser riconosciuti come
fini, non umiliati a mezzi. I replicanti di Blade runner,
che in pochi anni bruciano intensamente, come candele
che ardono ai due estremi, sono soggetti morali, capaci di
atti liberi, amano ed odiano, ed è di questo che chiedono
il riconoscimento: «Io ne ho viste cose», dice morendo
l’ultimo degli androidi ribelli, Rutger Hauer, «che voi
umani non potreste immaginarvi», ed all’uccisore dei
suoi compagni affida lampi di ricordo, delle battaglie
sostenute contro «navi da combattimento in fiamme al
largo dei bastioni di Orione». L’accoglierli, quei lampi di
ricordo, riscatta il suo persecutore: egli impedisce che
«quei momenti» precipitino nella dimenticanza, smarrendosi «nel tempo, come lacrime nella pioggia». Quegli
organismi artificiali diventano così, per Harrison Ford,
soggetti morali, ed il film si chiude con l’amore tra lui ed
una replicante, in una conquistata uguaglianza.
So bene che memoria e ricordo sono, nel linguaggio, per
lo più sinonimi, come anche oblio e dimenticanza. Tuttavia, la distinzione tra aspetti prevalentemente cognitivi di
memoria/oblio, e morali di ricordo/dimenticanza (anche
per l’etimo, che contiene riferimento al cuore) non mi
pare irrilevante, pur nella ristrettezza di ogni uso definitorio delle parole. Quante non sono le persone di poca
memoria ma saldissimi ricordi, estremamente coscienti
della propria identità, radicate in tradizioni e costumi, ma
smemorate per date, ricorrenze, nomi ecc.? Rossi, opportunamente, discorre nel libro anche di Freud, e difatti
nell’ambito teorico della psicanalisi il ricordo è distinto
dalla memoria, e si assume come potentemente attiva la
presenza di ricordi dei quali non si ha, e spesso nemmeno
si può avere, memoria alcuna, e che pure costituiscono
l’identità più intima dell’individuo, contribuiscono a
plasmarlo come soggetto morale. V’è chi teorizza, in
ambito latamente freudiano, di ricordi latenti del trauma
della nascita e addirittura della vita fetale (differenze
caratteriali tra gemelli vengono, ad esempio, fatte risalire
anche alle diverse posizioni nel grembo materno, per
stabilire quale incombesse sull’altro). Nessuno ha memoria di sé poppante, ma ricordo sì, perché il suo tessuto
emozionale primario ancora contiene, ed attivissimo,
quell’obliato vissuto. Se quindi la memoria può esser non
illegittimamente descritta come una facoltà soprattutto
cognitiva, un archivio, riguardi essa un passato remoto,
recente o sin l’oggi, il ricordo può esser denotato, invece,
come un destino, che inscindibilmente abbraccia passato,
presente e futuro, e costituisce l’identità, il soggetto. E lo
storico, che si occupa di ricordi, tramite la storia tenta di
comprendere e le origini stesse, per quanto umbratili, e la
presente identità, per quanto incerta, e l’orizzonte del
futuro, per quanto precario. Così infatti Rossi: «la memoria è di uomini e animali, la reminiscenza è solo dell’uomo» (p.13). Il fatto che Rossi sviluppi quest’aporia e
ritenga che si possa (debba) far storia anche di ambiti nei
quali (come le scienze) regna l’oblio, dà spessore alle sue
pagine e, più in generale, al suo profilo di studioso, ed io
ho ancora oggi viva nell’animo una citazione ch’egli fece
6
SAGGIO
nella relazione conclusiva di un convegno torinese degli
anni Sessanta; citazione che gli è cara, se qui la riprende,
e che è tratta da un romanziere nero americano, James
Baldwin, il quale richiama il proprio popolo alla sua
identità presente come pegno di riscatto futuro, e quindi
al ricordo come destino: «Abbi coscienza delle tue origini: se conosci le tue origini, allora non ci saranno limiti ai
quali tu non possa spingerti» (p.21).
morale dell’identità, ma per «rimettere a posto la propria
memoria, e riaggiustarla con, documenti scritti», e poi
distruggere il ricordo perfino di quel delitto: «dimentichi di averlo fatto»! Descrizione romanzesca di una
pratica attuata dal XX secolo in misura superiore,
forse, che non quelli trascorsi, e che un autore citato da
Rossi , Yerushalmi, descrive come «invenzione di un
passato mitico», costruito «per servire il potere delle
tenebre» dagli “agenti dell’oblio”, che obliterano “i
documenti”, li riducono “a brandelli”. «Soltanto lo
storico -scrive Yerushalmi- con la sua rigorosa passione per i fatti, per le prove e le testimonianze, può
realmente montare la guardia [...] contro gli assassini
della memoria e i revisori delle enciclopedie, contro i
cospiratori del silenzio» (pp.27-28).
uesta distinzione tra memoria e ricordo, oblio e
dimenticanza solleva altre aporie. Ad esempio
in Bacone, autore caro a Rossi, troviamo invocato l’oblio come rifiuto della sudditanza agli Antichi e
difesa della dignità dei Moderni. “L’augmentum delle
scienze” richiederebbe non solo la critica, ma anche
l’oblio de “la antiquatio theoriarum”, giuste sia la sentenza che «Scientia ex naturae lumine petenda, non ex
antiquitatis obscuritate repetenda» (p.166), sia l’invocazione de «la formula mediante la quale io possa consacrarli all’oblio», i «falsificatori delle cose» (p.25). Se
l’oblio dell’errore antico è indispensabile alla nascita
della modernità, fino a che punto il perseguimento della
verità scientifica lo giustifica? E’, l’oblio, atteggiamento
del tutto neutro, che possa legittimamente applicarsi in
ambito scientifico, come semplice opposto della memoria (qui intesa come stracco nozionismo di obscuritates),
o non contiene invece, perché insieme alla memoria
fatalmente cancella il ricordo, un intrinseco pericolo
morale? Se l’oblio occulta, interpola, elegge, come nei
manuali scientifici, “notizie frammentarie” del passato
ad “anticipazioni” della “verità” del presente, allora tal
modo di procedere, praticato innocentemente dagli scienziati, troppo somiglia, e come una goccia d’acqua, alla
perenne pratica del Potere. Cancellare, emendare, è difatti il mezzo con cui il Potere da sempre mente, falsifica,
opprime. Inutile ricordare esempi di come sovente esso
abbia proibito sin l’uso della lingua materna degli oppressi, cioè le loro parole, per spegnerne l’identità,
negarne il carattere di soggetto politico-morale, il diritto
all’uguaglianza.
L’oblio non pare una tecnica neutrale, se è l’arma più
subdola della tirannia. Rossi ha presente quest’uso luciferino dell’oblio, e lo denuncia in pagine severe su «gli
assassini della memoria» (pp. 24-29). «Le emendationes
del ventesimo secolo -osserva amaramente- non hanno
nulla da invidiare a quelle dell’età della Controriforma»,
e sotto i nostri occhi «intere opere di storia sono state
riscritte cancellando i nomi degli eroi di un tempo»
(p.26). Un secolo, il nostro, carico di roghi di libri, di
censure, di lavaggi del cervello, di falsificazioni, menzogne di Stato, per cancellare non solo la memoria, ma
anche il ricordo. Rossi ricorda Koestler, Orwell, l’agghiacciante slogan di 1984: «C’è uno slogan del Partito
che riguarda il controllo del passato [...] “Chi controlla il
passato, controlla il futuro, chi controlla il presente
controlla il futuro”» e per raggiungere questa perfetta
malvagità occorre «una sorta di educazione della memoria» nella quale l’intreccio tra memoria, oblio, ricordo e
dimenticanza diviene veramente satanico: il servo del
Potere deve «ricordare che i fatti avvennero in quella
determinata maniera», usarne il ricordo non per la verità
Q
a letteratura sulla Shoah è oggi il luogo eminente
nel quale i difensori della memoria e del
ricordo si scontrano con gli agenti dell’oblio e
della dimenticanza, che, per «impedirne il ricordo»,
cercano d’impedire sin di «contare le vittime» (p.26).
Sono stati infiniti, durante la persecuzione e dopo, i
percorsi dell’oblio, a volte anche incruenti, ma sempre
intesi a spegnere l’identità, uccidendo il ricordo. Saul
Friedländer, nato a Praga appena prima della salita al
potere di Hitler ed oggi insegnante a Tel Aviv, ha raccontato in un libro, A poco a poco il ricordo2, la faticosa
riconquista della propria identità, lui che era scampato3
anche perché costretto a dimenticare la propria origine,
convertito al cattolicesimo, cancellato dal novero dei
bambini deportati dalla Francia perché ormai quasi non
più ebreo, non più lui; studiò persino da prete cattolico.
Poi, a poco a poco, venne il ricordo, e l’esergo del libro,
di Gustav Meyrink, recita: «Quando viene la conoscenza,
viene anche a poco a poco il ricordo. Conoscenza e
ricordo sono una sola e medesima cosa».
Ma proprio la Shoah solleva un’altra, drammatica aporia.
«E’ difficile non esser d’accordo con ciascuna di queste
affermazioni di Yosef Hayim Yerushalmi, non avvertire
la forza del suo appello contro gli “assassini della memoria”» scrive Paolo Rossi, che poi però osserva: «E tuttavia, ogni volta che tocchiamo il tema della memoria
siamo richiamati anche al tema della dimenticanza»
(pp.28-29). E ricordare, infatti? Non può annidarvisi il
pericolo di restar prigionieri del male subito, del risentimento? E il risentimento pare vicolo cieco, che preclude
di vivere nel presente ed aprirsi al futuro. Sembra dunque
di dover tornare sul problema dell’oblio, anche quello
non volto all’augmentum scientiarum, e riconoscerlo,
almeno talvolta, legittimo. Non solo: persino la dimenticanza, se ricordare (o ricordare troppo vivamente) fosse
motivo di disperare del presente e del futuro, persino la
dimenticanza potrebbe essere, almeno talvolta, giustificata. Paolo Rossi introduce qui l’opinione di uno studioso
che anch’io ebbi modo di conoscere, Yehuda Elkana,
deportato ad Auschwitz all’età di dieci anni e che oggi
vive a Gerusalemme. Militante, a quanto so, di Shalom
Ak’shav, il movimento israeliano di Peace now, con un
articolo del 1988 suscitò in Israele “polemiche feroci”,
contestando in sostanza l’ammonimento “Ricordati che
cosa ti fece Amalek” (Deuteronomio, 25:17) ed esortan-
L
7
SAGGIO
do a sradicare dall’identità politica d’Israele se non il
ricordo, quanto meno i suoi “eccessi”. «La storia e la
memoria collettiva -scrive Elkana nei passi che Rossi cita
- sono parte inseparabile di ogni cultura, ma il passato
non è e non deve diventare l’elemento determinante del
futuro di una società e di un popolo». Egli ritiene che un
eccesso di ricordo delle persecuzioni avrebbe «suscitato
la diffusa credenza che il mondo intero sia contro di noi»,
sicché «dalle ceneri di Auschwitz» sarebbero emerse
“due nazioni”, che nel suo testo sembrano potersi intendere come la destra e la sinistra ebraiche. Della destra,
allora maggioranza nel Knesseth, il parlamento israeliano, Elkana dà una descrizione infamante. Mentre infatti
la minoritaria “nazione” di sinistra s’ispirerebbe al principio che «ciò non dovrà accadere mai più», l’altra
“nazione”, «maggioranza terrorizzata ed ossessionata»,
affermerebbe: «ciò non dovrà mai più accadere a noi».
Ecco la conclusione della dicotomia: «una democrazia si
nutre di presente e di futuro, e un eccesso di dedizione al
passato mina i fondamenti di una democrazia», donde il
rimedio: «dobbiamo imparare a dimenticare», poiché «è
giunto il momento di sradicare dalle nostre vite l’oppressione del ricordo» (p.29).
Non è facile criticare riflessioni sulla Shoah svolte da chi
l’abbia patita. Ma credo che Elkana sbagli. Egli interpreta
il ricordo, o quanto meno il ricordo bruciante, che implica
il risentimento, come un fattore ostile a pace ed uguaglianza possibili: quel ricordo isolerebbe il popolo ebraico, lo renderebbe incapace di sentire l’identità dell’Altro.
E’ invece vero l’opposto: solo se Israele ricorda può
comprendere altri che ricordino; se dimentica, perde non
solo la propria identità, ma anche la possibilità di contatto
con l’identità dell’Altro, e quindi la via dell’uguaglianza,
che è valore morale e politico solo se tra differenti. Infatti
non perché Tu ed Io siamo entrambi ebrei, arabi o che
altro, non per questo siamo moralmente uguali, ma perché ci diamo reciproco riconoscimento delle nostre differenze naturali e storiche come di valori che costituiscono
le nostre identità. E’ questa la condizione perché possiamo distribuirci uguaglianza: a meno di non infingerci
titani impegnati in una seconda creazione, è evidente che
l’uguaglianza vada perseguita a muovere da esistenti ed
insopprimibili disuguaglianze naturali. L’uguaglianza
morale e politica è un atto di libertà che quelle differenze
naturali riplasma, come scrisse Rousseau: «Io vedo nel
genere umano due tipi di ineguaglianza; la prima che
chiamo naturale o fisica, perché è stabilita dalla natura, e
che consiste nella differenza dell’età, della salute, delle
forze fisiche e delle qualità dello spirito o dell’anima;
l’altra, che si può chiamare ineguaglianza morale o
politica, perché dipende da una specie di convinzione ed
è stabilita o almeno autorizzata dal consenso degli uomini». E, più radicalmente ancora, Marx non solo nega che
la disuguaglianza naturale abbia incidenza su quella
morale, ma sviluppa una concezione per cui le categorie
che costituiscono l’uguaglianza morale, «amore» e «fiducia» reciproci, presuppongono le differenze naturali, e
nulla hanno a che vedere con la «Nivellierungssucht»
(«brama di livellamento»). La disuguaglianza fisica, ad
esempio la bruttezza, è compatibile con l’uguaglianza
morale. L’uomo brutto, argomenta Marx, può, non meno
dell’uomo bello, conquistare l’amore di una donna, purché espliciti l’universalità umana presente nella sua empirica individualità, e scambi con la donna riconoscimenti universalmente umani, “amore” con “amore” e “fiducia” con “fiducia”. Se invece Io, “brutto”, pretendo di
“comprarmi la più bella donna”, e m’arrogo che in forza
del mio danaro “non sono brutto”, allora vengo meno
all’uguaglianza con me stesso, al mio Io, mi spoglio della
mia umanità, nego che bruttezza, amore e fiducia siano
compatibili nell’uguaglianza morale. Il bacio tra i due
amanti non esprime allora la comune umanità, perché il
danaro pietrifica le differenze in opposti irriducibili, ed è
esso che, contro natura, «li unisce» e «li costringe a
baciarsi». Marx ritiene dunque che l’uguaglianza tra
uomini sia in primo luogo uguaglianza di ognuno con se
stesso, ed egli e Rousseau, a diversi livelli di radicalità,
vengono a dir questo: che l’uguaglianza può esser costruita a partire da ciò che fa sì che ogni Io sia quell’Io che è4.
Volendo scindere tra ricordo ed identità, Elkana sostiene
invece il contrario: sradichiamoci dalla nostra storia, e
saremo meno tentati dalla disuguaglianza. Una versione
morale della pax romana: desertifichiamoci!
na posizione ben più complessa esprime Jean
Améry, anch’egli sopravvissuto ad Auschwitz,
dove fu compagno di baracca di Levi, e che
Paolo Rossi ricorda subito dopo, ma troppo avvicinandolo ad Elkana: «Il breve articolo di Elkana ha suscitato
polemiche feroci. Ma credo che egli non volesse dire una
cosa diversa da quella alla quale faceva riferimento uno
dei più grandi testimoni dell’Olocausto: Jean Améry che,
senza alcuna pietà verso se stesso, si vedeva irrimediabilmente prigioniero di “quel risentimento che impedisce lo
sbocco verso il futuro, che è la dimensione più autenticamente umana”» (p.29). Nelle amarissime pagine di Intellettuale a Auschwitz5, Améry esamina con inaudito coraggio la presenza, nel ricordo, del risentimento, che non
solo accetta, ma rivendica e moralmente legittima.
«L’esperienza delle persecuzione era in ultima analisi
quella di un’estrema solitudine»(p.122), scrive, ed è da
quell’estrema e determinatissima miseria dell’Io che
inizia la sua analisi: da un evento preciso, la tortura, patita
il 23 luglio del 1943, quando il tenente delle SS Praust gli
fissò un gancio alle manette che gli stringevano i polsi
“dietro la schiena” e, per fustigarlo, lo sollevò un metro
dal suolo. «Avvertii uno schianto e uno scheggiarsi nelle
spalle che il mio corpo sino ad oggi non ha dimenticato.
Le teste degli omeri saltarono dalla loro sede. Il mio
stesso peso provocò una lussazione, caddi nel vuoto e mi
ritrovai appeso alle braccia slogate, sollevate da dietro e
chiuse sopra la testa in posizione rovesciata» (p.72). Ciò
che accadde quel giorno al suo Io, il ricordo della “prima
percossa” (p.64), ciò e molto altro ancora rimase da
allora inscindibilmente parte della sua individualità. Ma
ognuno, anche chi non abbia subito terrificanti oltraggi,
partecipa con Améry di una caratteristica dell’Io: di
essere «moralmente unico» (p.123). Da questa unicità di
ciascuno, dai ricordi che lo costituiscono così come
effettivamente sono (compresi i risentimenti) si deve
partire per vivere l’identità e l’uguaglianza.
Le riflessioni di Améry restano eroicamente fedeli al
U
8
SAGGIO
concetto d’individualità. Egli testimonia: «sin dalla pri- che il risentimento è una condizione non solo contro la
ma percossa, [l’Io del torturato] perde qualcosa che forse natura umana ma anche contraddittorio a livello logico.
possiamo definire in via provvisoria la fiducia nel mon- Inchioda ciascuno di noi alla croce del nostro passato
do», e che designa la fiducia che la propria specifica, distrutto [...] impedisce lo sbocco verso il futuro, la
irriducibile ed individuale identità sia riconosciuta come dimensione più autenticamente umana» (p.119; corsivo
valore. «L’elemento più importante della fiducia nel mio; Rossi, a p. 29, cita parte di questo passo, ma senza
mondo [...] è la certezza che l’altro, sulla scorta di analizzare a fondo la morale del risentimento). L’Io
contratti sociali scritti e non, avrà riguardo di me, più ricorda, e vuole ricordare, e non può non ricordare, ma
precisamente, che egli rispetterà la mia sostanza fisica e ricorda con il “character indelebilis” (p.74) dell’offesa
quindi metafisica. I confini del mio corpo sono i confini subita. Come superare quella contraddittorietà logica ed
del mio Io. La superficie cutanea mi protegge dal mondo impedire che il risentimento precluda il futuro e l’uguaesterno; se devo avere fiducia, sulla pelle devo sentire glianza? Anzi: come costruire futuro ed uguaglianza
solo ciò che io voglio sentianche sul risentimento?
re» (p.66). La tortura espriAméry risponde con una
me dunque «la violazione
acuta distinzione tra tempo
del confine del mio Io da
morale, interiore, e tempo
parte dell’Altro» (p.73), e
naturale (distinzione che,
per questo lascia «un marin altri termini, fa anche
chio indelebile» (74), che
Paolo Rossi; pp. 81-84). E’
s’imprime nel ricordo ridifficile stabilire qui, e del
sentito: «parlo da vittima e
resto non ne sarei capace,
analizzo i miei risentimenquanto pesino l’uno e l’alti», e «devo assumermi la
tro tempo, ed il loro intrecresponsabilità del mio ricio, nel lavoro dello storisentimento», legittimandoco. Ma la distinzione è inlo «come parte integrante
controvertibile: il tempo
della mia personalità»
naturale, ad esempio, ha ri(pp.112-113). A chi gli opsanato gli omeri di Améry,
pone che “i tratti caratteriama non la violazione morali” che determinano la perle dell’Io. «Chi è stato torsonalità del risentito sono
turato resta tale. La tortura
“distorti”, e quindi vanno
è un marchio indelebile ansradicati in nome del futuche quando clinicamente
ro, Améry risponde: «Sanon sono riscontrabili tracremmo, così si afferma, dei
ce oggettive» (p.74). Assi“distorti”. Di sfuggita rimilare il tempo morale, inpenso alle mie braccia conteriore, a quello naturale è
torte dietro la schiena duprofondamente immorale:
rante la tortura, e questa
«Il senso naturale del temmia realtà mi richiama a
po ha le sue radici effettive
“ridefinire il nostro essere
nel processo fisiologico del
distorti come forma di umarimarginarsi delle ferite ed
nità moralmente e storicaè entrato a far parte della
mente più elevata rispetto
rappresentazione sociale
alla sana dirittura» (p.119).
della realtà», ma quest’ireIl libro di Paolo Rossi è, da Classe di Talmud, Cecoslovacchia 1938 (foto di M. nismo naturalistico perverultimo, libro di uno storico
te il significato morale del
sul tempo. Ed è a proposito del tempo storico che Améry tempo: «quel che è stato è stato: questa espressione è
mette a nudo una aporia profonda: se il ricordo recupera tanto vera quanto contraria alla morale e allo spirito».
il passato, e quindi il tempo, allora è in contraddizione Ricordare con risentimento è quindi legittimo: «E’ diritto
con il risentimento, che il tempo pare voler negare: «Il e privilegio dell’essere umano non dichiararsi d’accordo
senso del tempo di chi è prigioniero del risentimento è con ogni avvenimento naturale, e quindi nemmeno con il
distorto, dissociato, se si preferisce, perché pretende ciò rimarginarsi biologico provocato dal tempo» (p.124). E’
che è doppiamente impossibile: il cammino a ritroso un suo diritto storico (fondato sul suo ricordo) individuaverso il già vissuto e l’annullamento di ciò che è stato» le, che non può esser annacquato nell’asserzione di
(pp.119-120). Ciò ha conseguenze sul futuro: «L’uomo Elkana che «una democrazia si nutre di presente e di
del risentimento non può unirsi a quell’inno alla pace che futuro e un eccesso di dedizione al passato mina i fondaci esorta a non guardare più indietro, ma in avanti, verso menti di una democrazia». L’esperienza individuale che,
un migliore e comune futuro», come pretende Elkana. in impensabile, tremenda solitudine, ogni singola vittima
Améry è ben conscio dell’aporia concettuale che ciò fece, solo ingannevolmente può esser riscattata da una
comporta: «Alle mie riflessioni non è rimasto nascosto società che si presenti, rispetto all’individuo, come sog9
SAGGIO
getto sublimato. Una tale società «pensa solo alla propria
continuità. La società si preoccupa della propria sicurezza, non di una vita lesa» (p.122), mentre lui, Hans Meyer,
al quale il nazismo ha strappato «identità e passato»6,
costringendolo a mutare persino il proprio nome7, è una
vita lesa. E’ qui, in questa verità individuale, ch’è da
scavarsi per trovare la soluzione, perché «se accetto i
miei risentimenti, se ammetto di essere “prevenuto” nel
considerare il nostro problema, so però anche di essere
prigioniero della verità morale di questo conflitto»
(p.121).
Nessuna soluzione, dunque? O il naturalismo di Elkana
o il risentimento “contraddittorio a livello logico”, che
impedisce “lo sbocco verso il futuro”? E’ il rigore con il
quale Améry spinge sino all’estremo l’analisi che ci
toglie dall’impasse: egli mostra come al fondo del risentimento giaccia la possibilità d’invertire il corso naturale
del tempo, di fondere ricordo e risentimento raggiungendo un’identificazione di sé come soggetto morale, che
consente di aprirsi non solo all’Altro, ma (nella giustizia)
anche all’offensore. Améry procede per eventi singolari,
e ricorda, ad esempio, il kapo Juszek, «un criminale
polacco di terrificante vigoria», che un giorno lo colpì.
Molto più debole fisicamente, Améry reagì e, prima di
crollare sotto le percosse, gli sferrò un pugno. Reagì,
testimonia, «perché avevo ben compreso che nella vita vi
sono situazioni in cui il nostro corpo è tutto il nostro Io e
tutto il nostro destino. Ero il mio corpo e null’altro [...].
Il mio corpo, nel momento in cui si tendeva per sferrare
il colpo, era la mia dignità fisica e metafisica [...]. Nel
colpo io ero me stesso: lo ero per me e per l’avversario»
(p.148; il corsivo è mio). Qui è dalla riaffermazione del
proprio valore nel “Zurückschlagen” (“rendere il colpo”)
che nasce l’intersoggettività, e Améry esige non di sradicare il ricordo perché esso è anche risentimento, ma di
costruire su esso come veramente è, ricordo risentito,
l’uguaglianza. Invoca non la dimenticanza, falso perdono alla deriva nel flusso del tempo naturale, ma la
giustizia, che consente l’inversione morale del tempo:
«L’uomo morale esige la sospensione del tempo; nel
nostro caso, inchiodando il misfattore al suo misfatto. In
questo modo egli potrà, avvenuta l’inversione morale del
tempo, essere accostato alla vittima in quanto suo simile»
(124). E Améry ci parla nuovamente di un individuo ed
un evento singolari, della “SS fiamminga Wajs”, “pluriomicida e torturatore”, che lo «colpiva alla testa con il
manico della pala». Anche Wajs era un Io, e «viveva
l’attrezzo come il prolungamento della sua mano», e di
fronte a quell’Io persecutore, scrive Améry, «solo io ero,
e ancora oggi sono, in possesso della verità morale delle
percosse che tuttora mi risuonano nella testa, e ho quindi
maggior diritto a giudicare non solo rispetto ai colpevoli,
ma anche alla società» (pp. 121-122), poiché «la remissione e l’oblio provocati da una pressione sociale sono
immorali» (123-124).
E’ nella punizione del colpevole che la vittima può
incontrare l’aguzzino, perché lo ritrova solo, come essa,
da allora, è sola. Il ricordo della vittima è risentimento
perché la sua “estrema solitudine” è «una condizione che
ancora perdura». Améry è depositario di questa verità
morale, e potrà riconoscere Wajs (ma solo lui; non anche,
attraverso di lui, i complici rimasti impuniti; il riconoscimento è tra individui) soltanto se anche Wajs sperimenterà, nella corporeità fisica e metafisica del suo Io, la
verità morale dei suoi misfatti. Wajs fu processato, condannato, fucilato. Ed eccola, l’amara ma profonda ed
umana soluzione: «Di fronte al plotone d’esecuzione la
SS Wajs sperimentò la verità morale dei suoi misfatti. In
quell’istante era con me: e io non ero più solo con il
manico della pala. Voglio credere che nell’istante della
sua esecuzione egli avrebbe voluto, al pari mio, invertire
il tempo, annullare quanto era accaduto. Nel momento in
cui era condotto sul luogo dell’esecuzione, da avverso
egli si era nuovamente ritrasformato in prossimo» (p.122).
Così, nel ricordo, anche il risentimento diviene elemento
di identità, di valore, di uguaglianza, di un’autentica
apertura al futuro. A ciò non conducono la dimenticanza,
l’oblio, il perdono naturalistico-sociale.
e testimonianze sulla Shoah sono piene di episodi
di vittime che disperatamente tentavano
di lasciare tracce al ricordo, e di carnefici che le
cancellavano. Un passo di Simon Wiesenthal, citato da
Paolo Rossi, mostra quanto fosse impari quella lotta: non
solo perché le vittime erano inermi e i carnefici avevano
il Potere, ma soprattutto perché l’orrore pareva troppo
grande per la mente umana, ed elevava una barriera
metafisica contro il ricordo: «I prigionieri dei Lager -ha
scritto Simon Wiesenthal- venivano così ammoniti dai
loro aguzzini: “In qualunque modo questa guerra finisca,
la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi
rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno
scampasse, il mondo non gli crederà”» (p.27). Era questa,
ritengo, la “estrema solitudine” di cui testimonia Améry.
In un filmato che molti hanno visto, Shoah, di Claude
Lanzmann, questa solitudine è resa visibile. Le immagini
si chiudono con le parole di un resistente di Varsavia, che
si ricorda solo tra quelle rovine di morte, e testimonia
(anche nel tono della voce, nelle espressioni del viso) una
solitudine tanto ampia e profonda e di così intensa e ricca
moralità, da non esser quasi più esprimibile come disperazione: «E mi ricordo di un momento - in cui ho provato
una specie di quiete, - di serenità, - in cui mi sono detto:
- «Sono l’ultimo degli ebrei, - aspetterò il mattino aspetterò i tedeschi”»8.
Vittime che per testimoniare usavano fragilissime parole: nomi, date, eventi scritti su fogli che sigillavano in
scatole di latta e seppellivano, che qualcuno, un giorno,
li ritrovasse; parole incise su muri di morte, vergate e
gettate da treni di morte, scambiate tra esseri umani che
abitavano la morte, che un sopravvissuto le ricordasse.
Migliaia e migliaia e ancora migliaia di parole scritte e
dette da milioni di vittime: quindi, letteralmente, miliardi
e miliardi e ancora miliardi di parole, affidate all’oceano
del tempo, nella speranza che qualcuna giungesse a noi e,
dopo di noi, ai posteri. E carnefici che costringevano
quelle stesse vittime a sbiancarli e risbiancarli, quei muri,
a pulire e ripulire le camere a gas, che facevano saltare
con la dinamite, al momento di abbandonarli, i forni,
che... Sterminate quantità di eventi opposti: gli uni per il
ricordo, gli altri per stendere l’oblio e la dimenticanza.
Una lotta impari, che Primo Levi ricorda in frasi asciutte:
L
10
SAGGIO
«Il bisogno di raccontare agli “altri”, di fare gli “altri” di francese» e non ha ancora imparato che, per tentare di
partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione sopravvivere, bisogna lavorare il più lentamente possibie dopo, il carattere di un impulso immediato e violento»9. le, «fare economia di tutto, di fiato, di movimenti, perfino
E il timore di non esser ascoltati, che il valore della di pensiero». “Pas si vite, idiot!”, impreca Gounan. Kraus
propria testimonianza non fosse accolto, era come un non capisce, ed allora il francese, attingendo anche al
incubo, diffuso tra i deportati: «Sentivo un bisogno così patrimonio della propria storia di ebreo d’origine polacprepotente di raccontare, che raccontavo a voce. Allora, ca: «Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden?»,
nel lager, facevo spesso un sogno: sognavo che tornavo, ch’è un ibrido di tedesco ed jiddish e significa, parola per
rientravo nella mia famiglia, raccontavo, e non ero ascol- parola, «Piano tu stupido uno, piano, capito?»”. Levi (nel
tato. Colui che mi sta davanti non mi sta a sentire, si volta 1946, a ridosso della persecuzione) l’aveva trascritta
e se ne va. Ho raccontato questo sogno, in lager, ai miei “tale e quale”, credendo però che fosse solo tedesco12,
amici, e loro hanno detto: «Capita anche a noi»10.
lingua che lo stesso Levi conosceva ancora malamente.
Anni più tardi, quando Se
Qui l’aporia dello storico si
questo è un uomo viene trafa acutissima, e traluce neldotto in tedesco, dopo una
le pagine di Paolo Rossi
lunga discussione epistolaladdove egli riesamina la
re con il traduttore, che non
differenza tra la funzione
si raccapezza con quel “du
del ricordo e della testimoblöder Einer”, espressione
nianza nelle Lettere e nelle
che in tedesco suona scorScienze. La fragilità delle
retta, Levi accetta quella
parole, veicolo principale
che i filologi definiscono
del ricordo, pare infatti tale,
una lectio facilior: Il trache sembra doversi dispeduttore lo convince che
rare della possibilità di traquella frase è da emendarsi
mandare ciò che principalin «Langsam, du blöder
mente alimenta le Lettere:
Heini...», dove Heini è il
passioni, emozioni, giudizi
diminutivo di Heinrich,
morali, credenze, speranze
Enrico. «Dovevo aver senecc. Per la stessa aleatorietito o ricordato male», amtà di poter esser affidati solo
mette Levi, e l’edizione tea parole (le arti visive, aldesca del libro esce con il
meno sino al XX secolo,
testo che pare emendato,
hanno molta minor rilevaned invece è corrotto. Passaza da questo punto di viti altri anni, Levi legge un
sta), i fatti riguardanti le
libro sullo jid-disch, e si
umane sorti paiono più faavvede di aver ricordato
cilmente falsificabili. La tegiusto: l’espressione “du
stimonianza di Améry può
eyner” era jiddisch, e Gouesser contraddetta, e non
nan, franco-polacco, aveva
solo nel senso maledetto dei
attinto alla comune tradipersecutori e della storiozione askenazita per farsi
grafia revisionista, ma anintendere da Kraus, ebreo
che da chi, suo amico e
ungherese. Quindi, vivente
compagno di sventura, inil testimone e con i fatti
terpreti e viva gli stessi
Manoscirtto in lingua jiddish
eventi in modo differente. sotterrato nel KL. di Auschwitz da un Sonderkommando ancora prossimi, le parole
mostrano una straordinaria
Primo Levi, ad esempio,
non condivise il risentimento di Améry, suo “compagno precarietà: al momento della traduzione tedesca di Se
ed antagonista”, e questi a sua volta lo chiamò, in una questo è un uomo mutarono lingua, lezione ed anche il
lettera privata, “il perdonatore”, definizione che Levi destinatario del libro, poiché Levi si avvide solo allora
respinse: «Non la considero né un’offesa né una lode, che «i [...] destinatari veri, quelli contro cui il libro si
bensì un’imprecisione»11. Comunque, siamo innegabil- puntava come un’arma, erano loro, i tedeschi»13. E, come
mente davanti ad una drammatica differenza tra le inter- vedremo in Spinoza, lingua, lezione e destinatario sono
pretazioni dei ricordi di due testimoni degli stessi eventi. elementi decisivi nella trasmissione di un monumento
La precarietà di affidarsi prevalentemente a parole era letterario, composto di parole.
resa ancora più acuta dal fatto che i Lager erano una Nella trasmissione del teorema di Pitagora, ad esempio,
babele di lingue, ove le parole venivano spessissimo questa dipendenza dalla lingua, dalla lezione, dal destinafraintese, storpiate, o restavano indecifrabili. In Se questo tario ecc. è assente, ed è con una citazione da Spinoza che
è un uomo, Levi racconta di un ebreo francese di origine Paolo Rossi esamina quest’ulteriore differenza tra lo
polacca, Gounan, che ne apostrofa uno ungherese, Kraus, scienziato (il “filosofo naturale” secentesco) ed il letterail quale «capisce assai male il tedesco e non sa una parola to; ulteriore perché il tema dell’oblio si presenta qui non
11
SAGGIO
solo come atteggiamento soggettivo dell’autore di manuali scientifici, ma anche come dato oggettivo: matematica ed esperimento non abbisognano di testimonianze, e
lo scienziato s’erge indipendente di fronte alla tradizione.
«Galilei -scrive Rossi- contrappone i filosofi naturali agli
“istorici” o “dottori di memoria”. La mentalità di questi
ultimi è caratterizzata dal continuo bisogno di richiamarsi ad una guida. L’immagine che Galilei contrappone a
questa mentalità è quella di ricercatori che, a differenza
dei ciechi, non hanno bisogno di guida alcuna [...]. Le
testimonianze di altri non hanno alcun valore di fronte al
criterio del vero e del falso: “Addurre tanti testimoni non
serve a niente”» (162). Dunque le testimonianze di chi
vuol tramandare non verità scientifico-matematiche, ma
eventi umani, passioni, giudizi morali ecc. paiono condannate, per loro natura, ad essere non solo falsificabili,
ma intrinsecamente ambigue; implicano dizione ed ascolto
corretti, la conoscenza del contesto, ecc., come si è visto
per “du eyner”. Altrimenti nelle scienze, scrive Rossi:
«Le verità della geometria, il suo rigore appartengono per
Spinoza ad un mondo che non dipende dall’approvazione degli ascoltatori o dalle vicende temporali» (p.163), ed
è più facile raggiungere la verità quando si ha «assoluta
irrilevanza dei contesti» storici, «delle vicende che si
svolgono nel tempo», delle testimonianze umane. La
veridicità degli Elementi di Euclide, scrive Spinoza nel
passo che Rossi cita, è indiscussa perché non contiene «se
non cose semplicissime e quanto mai intelligibili», indipendenti dalla lingua in cui primieramente furono scritte;
dalla conoscenza approfondita de “la vita, gli studi, i
costumi dell’autore”; dal “destinatario”; dalla “fortuna”
e “varie lezioni” del libro; dalla “deliberazione” con cui
il suo contenuto é stato “approvato”. Nelle matematiche,
dunque, vi sarebbe motivo d’ottimismo quanto a poter
discorrere di cose certe e vere. D’altra parte, vien da
osservare, sotto questo profilo ottimismo e inutilità vanno, dal punto di vista storiografico, di pari passo: lo scavo
nelle fonti e nei contesti pare servire poco o punto, ed anzi
confonderebbe inutilmente le acque, se la materia stessa
della Proposizione 47a del libro I degli Elementi, il
teorema di Pitagora, non fosse per natura al di sopra di
ogni fraintendimento possibile.
Il passo spinoziano citato da Rossi è nel capitolo VII, “De
interpretatione Scripturae”, del Trattato teologico-politico14. Stando a solo quel passo, e paragonando sotto quel
riguardo la Scrittura e gli Elementi, l’attendibilità della
prima come monumento storico pare pressoché nulla,
proprio per la precarietà dei discorsi non scientificomatematici. Spinoza spiega infatti nel VII capitolo ed in
quelli successivi che per interpretare la Scrittura occorre
conoscere la lingua ebraica e gli ebraismi dei libri neotestamentari dei quali non abbiamo l’originale ebraico; la
vita, l’indole e la cultura dei (presunti) autori; il contesto
nel quale scrissero; la situazione storica, politica, culturale e morale dei destinatari; la fortuna dei singoli libri; le
diverse lezioni; come, quando e da chi ne venne deliberata la canonizzazione, ecc. Operazioni tutte impossibili
per la Scrittura, dato che non abbiamo né grammatiche,
né trattati di retorica, né dizionari coevi; che moltissimi
sono gli apax legomena, le lezioni incerte, i testi incompleti ed interpolati, a volte grammaticamente e sintattica-
mente scorretti; che i veri autori sono sovente ignoti; le
motivazioni delle lezioni marginali incerte; che nella
lingua ebraica le lettere labiali sono tra loro spesso
intercambiabili, e così le linguali, dentali, palatali e
gutturali; le forme verbali assimilabili a nomi e prive di
molti tempi; le congiunzioni e gli avverbi con significati
spesso opposti; inoltre il testo mancava, in origine, di
segni d’interpunzione, accenti, vocali, che vennero aggiunti secoli e secoli più tardi da dotti per i quali la lingua
della Scrittura era ormai antichissima. Dal punto di vista
linguistico e della lezione delle parole (che è quello che
qui più preme), è dunque evidente che nella Scrittura
come monumento letterario, in forza di «questa costituzione e natura della lingua ebraica debbano nascere tante
ambiguità che non vi è metodo in grado di risolvere» (p.
198). Per questi ed altri motivi si può concludere che la
lezione della Scrittura è inguaribilmente corrotta dal
tempo, dagli uomini, dalle circostanze di trasmissione
ecc. Per di più, la narrazione è zeppa di miracoli, il
linguaggio figurato, Dio descritto in modi contraddittori
e spesso antropomorfici, le proposizioni naturali enunciate da ignoranti per ignoranti (Giosué, al quale viene
attribuito il miracolo del Sole che s’arresta nel cielo, era
uomo d’arme ignorante di scienze naturali); le cronologie
contraddittorie, le profezie manifestamente dipendenti
dall’indole e dalla cultura del profeta: Daniele cupo, Isaia
aulico, Geremia rustico; Salomone affatto sapientissimo,
ignorando egli l’incommensurabilità tra raggio e circonferenza, ecc.
E se, pur con molte riserve, la Scrittura può essere
assimilata ad altri monumenti letterari che non esprimano
le verità semplicissime e perfettamente intelligibili degli
Elementi, allora la difficoltà pare investire l’intero universo di quel veicolo di testimonianza che sono le parole.
L’aporeticità, a questo punto, pare anzi insuperabile
anche per lo storico della scienza, che si occupa di
monumenti letterari contenenti proposizioni scientifiche, e quindi di parole, non direttamente di verità scientifico-matematiche. Ogni testimone ed ogni storico pare
quindi condannato all’errore, all’incertezza radicale, e
somigliare piuttosto a un viaggiatore, come scrivono
Cartesio e Malebranche in passi citati da Rossi, «troppo
curioso di cose del passato» e «molto ignorante di quelle
presenti»; interessato «alle cose rare e lontane», non a «le
verità più necessarie e più belle» (p. 163).
o sforzo di ricostruire il passato, salvare il ricordo,
costituire l’identità del presente e l’apertura sul
futuro pare dunque vana fatica di Sisifo, e che
questo sia già oggi, ed ancora più nei decenni e secoli a
venire, il destino degli storici della Shoah: scriveranno in
un contesto nel quale il Terzo Reich «sarà semplicemente
storia, non migliore e non peggiore di quanto non lo siano
in genere tutte le epoche storiche drammatiche», osserva
Améry, e Hitler apparirà come una sorta di Napoleone,
anch’egli sconfitto dalle gelide steppe russe. Il conto
delle vittime, già oggi contestato per la quasi totalità dalla
storiografia revisionista, sarà ridotto in modo ancor più
tracotante da studiosi tedeschi cresciuti con «il ritratto del
bisnonno con l’uniforme delle SS [...] ben in vista nel
salotto buono» (p.134). Quegli agenti delle tenebre sa-
L
12
SAGGIO
ranno ancor più numerosi che non gli odierni assassini
della memoria, perché proverranno dall’immenso stuolo
dei «né caldi, né freddi». Le fragilissime parole, cancellate a miriadi già quando venivano scritte e pronunciate,
e per di più spesso fraintese dagli stessi testimoni, paiono
veramente impotenti ad impedire l’oblio e la dimenticanza della verità fondamentale della Shoah.
Ma non è mai mancato chi, come Bayle, Hume e molti
altri, negasse che le verità matematiche detengano il
primato nella conoscenza. Chiare e distinte quanto si
voglia le loro premesse, constano tuttavia di proposizioni
difficili da dimostrarsi, ardue da ritenersi, pressoché
ininfluenti sulla vita quotidiana, e l’esistenza di Cicerone
appare più indiscussa e viene più facilmente ricordata che
non l’equazione del cerchio. Proprio Spinoza ci dice, in
una pagina di quello stesso VII capitolo che va accostata,
credo, a quella citata da Rossi, che in verità non vi è
motivo di disperare della trasmissione certa e veritiera
dei contenuti morali. Egli argomenta ampiamente l’impossibilità di falsificare le parole. «Le cose che sono
percepite facilmente per natura», come anche che Améry
fu torturato, «non si possono mai dire in modo così oscuro
da non poter essere facilmente comprese», e ciò vale non
solo per Euclide, ma anche per la Scrittura, per quanto
attiene al suo contenuto morale fondamentale (e quindi,
più in generale, per i monumenti letterari della storia).
«Noi possiamo facilmente comprendere la Scrittura e
essere certi del vero significato del suo insegnamento
morale», che si esprime “con parole usatissime”. E le
parole non sono falsificabili: «In verità è difficilissimo
mutare il senso di una parola, perché colui che tentasse di
farlo, sarebbe costretto contemporaneamente a spiegare
secondo l’indole e l’intenzione di ciascuno tutti quanti gli
scrittori che scrissero in quella lingua e che usarono
quella parola nel senso comunemente accettato; oppure a
travisarla con estrema cautela. E poi, a conservare la
lingua concorre con i dotti anche il volgo, mentre il senso
dei discorsi e i libri sono conservati unicamente dai dotti,
i quali, come facilmente possiamo comprendere, hanno
potuto bensì modificare o alterare il senso di un passo di
un libro rarissimo in loro possesso, ma non quello delle
parole; senza contare che chi volesse modificare il significato usuale di una parola, non potrebbe poi senza
difficoltà mantenere tale modifica nel parlare e nello
scrivere» (pp.194-195).
Lo storico, in ultima analisi, potrà sempre fare il suo
lavoro, che ha carattere anche morale, con attendibilità.
Egli, che conserva le parole, è per natura, come dice
Yerushalmi, un testimone della verità. E pur nelle discre-
panze di giudizio tra Améry e Levi, la verità morale di che
cosa sia stata la Shoah emerge incoercibile. Vi è un
aspetto, in cui questa comune verità dei due ex compagni
di baracca fa rabbrividire di spavento, nella sua crudele
semplicità. Ne I sommersi e i salvati, Levi registra con
fermezza un dissenso da Améry e, ricordando l’episodio
del pugno sferrato al kapo polacco, critica la morale del
risentimento, la «morale del Zurückschlagen, del “rendere il colpo”», e ad essa riconduce il destino estremo del
compagno, quasi egli avesse infine dovuto soccombere al
risentimento. Di quella morale di Améry, Levi scrive:
«La ammiro: ma devo constatare che quella scelta, protrattasi per tutto il suo dopo-Auschwitz, lo ha condotto su
posizioni di una tale severità ed intransigenza da renderlo
incapace di trovar gioia nella vita, anzi di vivere: chi “fa
a pugni” col mondo intero ritrova la sua dignità ma la
paga ad un prezzo altissimo, perché è sicuro di venire
sconfitto. Il suicidio di Améry, avvenuto nel 1978 a
Salisburgo, come tutti i suicidi ammette una nebulosa di
spiegazioni, ma, a posteriori, l’episodio della sfida contro
il polacco ne offre un’interpretazione» (pp.109-110).
Un dissenso sull’intrerpretazione degli eventi testimoniati, dunque. Ma la comune verità morale del vissuto di
Améry e di Levi si conferma, in modo spaventevole, nel
suicidio scelto, anni dopo, anche da Levi: nessuno potrà
mai dire quale sia stata, e per l’uno e per l’altro, la
“nebulosa di spiegazioni” della loro scelta estrema. Pure
certo entrambi testimoniarono, da punti di vista differenti, con storie differenti, ma anche con l’estremo gesto
comune, della mostruosità della Shoah, della solitudine
dei sopravvissuti. Le parole di entrambi loro sono fragilissime, ma infalsificabili. Sta a noi, destinatari del loro
messaggio, riuscire ad avvertire ciò che hanno di comune.
Infalsificabili, e frutto della libera scelta di testimoniare. Al di là di ogni possibile aporia, ciò basta a fare
della storia una disciplina anche morale, senza che si
debba ricorrere alla finzione che sia magistra vitae. Si
può esser tranquillamente pessimisti che lo storico
possa migliorare il corso degli eventi rammemorando
il passato, ma tuttavia certi che il passato sia, nel suo
insieme, infalsificabile, e dunque non rassegnarsi all’oblio. Proprio Paolo Rossi, commentando Leopardi,
scrive: «Tra pessimismo e rassegnazione non esiste
alcun rapporto necessario»15. La pedagogia morale
che lo storico esercita non pare retorico-persuasiva,
ma piuttosto testimonianza dell’identità, e quindi
d’uguaglianza e di libertà. Testimoniare, e scrivere di
storia, è anzitutto una libera scelta. E’ questo il senso
Note
ultimo, mi pare, delle aporie che
percorrono e ravvivano il libro ed il
pensiero storiografico di Paolo Rossi, e di questo gli siamo grati.
1
Ricciardi, Milano-Napoli 1960; nuova ed. rivista
presso Il Mulino, Bologna 1983.
2
Trad. it. Einaudi, Torino 1990.
3
La letteratura sulla Shoah testimonia anche il
dramma degli scampati. Giuliano Della Pergola, figlio di matrimonio misto, educato nella fede cattolica, scampato che solo con gli anni scoprì d’essere
ebreo, scrive: «Io non faccio parte dei sopravvissuti,
ma degli scampati» che «non solo non vogliono
dimenticare, ma che cercano di trasformare quel
ricordo in una particolare moralità storica» (Giuliano
Della Pergola, Un bambino nato due volte. L’enfant
qui naquit deux fois, Jouve, s.l., 1993, pp. 30,14).
4
Per le considerazioni su Rousseau e Marx, rinvio al
mio Natura e costrizione. Per una riflessione sull’uguaglianza nei «Manoscritti del 1844» di Marx, in
AA.VV., I filosofi e l’uguaglianza, relazioni al XXX
Congresso Nazionale della Società Filosofica Italiana,
Messina, 21-24 aprile 1989, Sicania, Messina 1991,v.
I pp. 101-148.
5
Trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1987.
6
C. Magris, “Presentazione” a Intellettuale a Auschwitz, p. 11.
7
Jean Améry è anagramma e francesizzazione di
13
Hans Mayer.
8
C. Lanzmann, Shoah, trad. it. Rizzoli, Milano 1987,
p. 239.
9
P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino
1963, p. 8.
10
P. Levi, Autoritratto, “Nord-Est” N. 2, Padova
1987, p. 50.
11
P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino
1986, pp. 114, 110.
12
«Gounan [...] si ricorda di tradurre in tedesco»,
scrive Levi, che difatti usa la maiuscola e la vocalizzazione germanica, trascrivendo non “eyner”, ma
“Einer” (cfr. Se questo è un uomo, p.167; il corsivo è
mio)
13
Per i passi citati cfr. Se questo è un uomo, p. 167;
I sommersi e i salvati, pp. 79, 138.
14
Mi avvalgo della trad. it. a cura di A. Droetto ed E.
INTERVISTA
Albrecht Dürer, Evangelista Marco, Kupferstichkabinett di Berlino
14
INTERVISTA
Chi è il soggetto del ritratto? Chi è attore o
autore della rappresentazione di sé? Come
e in che momento ritrarre un uomo? Il
ritratto di qualcuno “vale” per costui? In
quali termini? Queste alcune delle domande che possono sorgere ingenuamente di
fronte a un ritratto e che nolens volens
bussano alla porta degli artisti e si presentano come problema filosofico. In altri termini: quali significati e valori antropologici sono posti in gioco dall’esperienza del
ritratto? Quale modello di uomo e di humanitas viene messo in opera?
Tali interrogativi corrono lungo l’asse problematico della rappresentazione e sono
recentemente al centro in Francia di numerosi studi, differenti per approccio e finalità, ma sorprendentemente convergenti verso un oggetto privilegiato d’indagine: il
volto e il suo ritratto. In particolare, all’Ecole des Hautes Etudes, nel quadro delle
ricerche sulla rappresentazione
e sul linguaggio, alcuni studiosi, Louis Marin, Yves Hersant, George Didi-Huberman,
hanno focalizzato le loro ricerche sul problema del ritratto.
Marin si è interessato alla rappresentazione del politico nell’Europa del XVI/XVII, concentrandosi in particolare sul
processo e sugli effetti politici e
estetici della rappresentazione
del re. Hersant si è preoccupato
di analizzare i dispositivi letterari, pittorici, retorici della rappresentazione dell’uomo nella
cultura rinascimentale. DidiHuberman ha perseguito invece un progetto di storia e di
antropologia del ritratto considerato come mito e rito dell’immaginario occidentale (tra le sue
pubblicazioni, ricordiamo: Devant l’image. Question posée
aux fins d’une histoire de l’art,
Minuit, Paris 1990; Fra Angelico -Dissemblance et figuration, Flammarion, Paris 1990; Le cube et le visage.
Autour d’une sculpture d’Alberto Giacometti, Macula, Paris 1992).
Altro evento importante in questo contesto
è stata la mostra organizzata da Didi-Huberman a Jouy-en-Josas dal titolo: “A visage découvert”, e la pubblicazione dell’omonimo catalogo (Flammarion, Paris 1992):
ricca messe di immagini e preziosi interventi di studiosi da tempo interessati a
spiare da più angoli di visuale, se non da
dietro le quinte della faccia, i tratti e i
meccanismi che ne fanno un volto; ricordiamo, in quest’occasione, oltre ai già menzionati Marin, Hersant, Didi-Huberman,
gli interventi, fra gli altri, di Jean Clair, di
Xavier Grand. Di concerto questi autori
s’interrogano sui termini e sul piano rilevante su cui, , «si possa avvicinare - come
scrive Didi-Huberman - il problema del
viso in quanto problema posto all’immagine, e reciprocamente, il problema dell’im-
magine come problema posto al volto».
Domande incrociate, dunque, sullo specifico dell’uomo a partire da uno sguardo
storico attento alle procedure artistiche della
rappresentazione e, d’altro canto, sulle possibilità intrinseche ai sistemi di rappresentazione a partire da una riflessione filosofica sul significato e sul valore antropologici
del volto. E’ da sottolineare in questi autori, al di là delle differenze rilevanti, un
“comune stile di pensiero”, un condiviso
orizzonte di interessi e di pratica intellettuale: in primo luogo, una duplice formazione, filosofica e letterario-artistica, cioè
una competenza semiologica e un atteggiamento riflessivo coniugati (felicemente) a
una sensibilità educata dalla frequentazione assidua e competente con le opere d’arte. Gli interrogativi sono così posti su un
piano estetico nel duplice senso di teoria
della percezione (e relative valenze antro-
volto infatti non è a suo avviso solo “naturale”, bensì deve molto, per quanto riguarda la forma, i movimenti e l’apprezzamento degli altri, alla dimensione collettiva e
sociale (sul significato antropologico e socialmente “strutturato” del corpo si veda
dell’autore: Corps et société, Klincksieck,
Paris 1985; Sociologie du corps, PUF, Paris 1992). Il volto è sempre “una composizione”: in questo senso l’autore analizza
alcuni fenomeni salienti della vita di società relativi alla “messa in opera “del viso,
quali l’invecchiamento, la bruttezza, la sfigurazione (per accidente o per crudeltà),
ma anche gli effetti della “massificazione”
del corpo nelle società democratiche.
Uno dei punti di maggior interesse di questo dibattito riguarda la questione della
nascita del ritratto, in particolare dell’uomo. Per Le Breton il “sentimento” di avere
un volto è relativamente tardivo nella storia: nasce con lo spiccato senso
d’individualità che caratterizza
il Quattrocento italiano: «Differenziandosi dalla comunità,
distinguendosi dal cosmo, l’uomo colto rinascimentale comincia a considerare la propria incarnazione come luogo della
propria sovranità. Il corpo in
qualche modo interrompe e permette di affermare la differenza
individuale che il volto corona». L’individuo trova il suo
proprio posto alloggiando nel
proprio volto, ritagliandosi uno
spazio rispetto al cosmo, agli
altri e a sé nella misura in cui
anima e corpo, come gemelli
crudeli, tanto si cercano, quanto si distruggono a vicenda. In
questo senso il ritratto nasce
come celebrazione dell’uomo
colto e potente, dell’uomo che
si può guardare nello specchio
e, se può pagare, farsi ritrarre da
un pittore. Per converso, Hersant, attraverso un approccio congiunto
alla letteratura e alle arti plastiche, propone
un’interpretazione più nuancée della connessione fra emergenza dell’individuo e
ritratto. Non solo il Rinascimento è un
orizzonte culturale molto complesso, percorso dall’interno da più inquietudini e da
differenti visioni del rapporto fa uomo e
cosmo, ma anche l’idea di “ritratto” non è
assegnabile al solo “genere” della pittura.
Fra pittura e scrittura vengono stretti nodi
molto difficili da districare: concorrenza o
compresenza? Radice comune (nella tradizione retorica) o differenziata (nelle pratiche specifiche)? La riflessione storico-critica sul ritratto deve porre su un piano
filosofico le seguenti domande: è possibile
fare il ritratto di un uomo? Esiste forse una
natura specifica dell’uomo? Per Bruno, ad
esempio, è assurdo fare il ritratto di un
uomo, poiché questi partecipa di un’ “infinitudine” in atto e immanente, che rende
paradossale ogni “arresto” in immagine.
Ritratto d’autore:
le immagini
del mio nome.
Interviste a
Yves Hersant
Louis Marin
di Fosca Mariani Zini
pologiche) e di teoria dell’arte (e implicite
connessioni storiche). All’origine di questa problematica vi è una “passione predominante” per il dispositivo della rappresentazione artistica come piano di convergenza (ma non di fusione) fra ciò che vi è di più
“spontaneo” (la sensazione, il volto nudo
in particolare) e di più “artificiale” (la figuratività, il ritratto).
Il volto è stato oggetto, per così dire, anche
di altri approcci: David le Breton ha recentemente pubblicato lo studio: Des visages.
Essai d’anthropologie (Métaillié, Paris
1992). L’approccio è dunque antropologico, volto alla ricerca delle vie tramite cui
avvicinarsi (senza aggredire) il “segreto”
del volto, traccia visibile dell’unicità di
ogni avventura personale d’identità, scena
teatrale, la cui «ristrettezza non è certo un
ostacolo alla molteplicità delle combinazioni». Le Breton cerca di cogliere l’emergenza del volto come cifra dell’uomo nelle
scansioni delle vicende storico-culturali: il
15
INTERVISTA
Solo la scrittura è forse adeguata a tale
infinitudine, agli “eroici furori” dell’uomo: grazie al carattere infinito del discorrere, al carattere intellettuale e non sensibile della scrittura, alla mancanza di cornici e di chiusure come nei quadri o di
rigidità statuarie...
A seconda dei momenti storici e degli autori, il volto è stato inteso come superficie
“sincera” dell’animo, oppure luogo “menzognero” per eccellenza. Forse che, nel
primo caso, la rappresentazione “sveli” l’autenticità del volto? Oppure, è la seconda
ipotesi, raddoppia le ambiguità dell’originaria menzogna in un gioco vertiginoso in
cui il volto si cancella per far posto a una
maschera?
Marin ha molto lavorato sul nesso rappresentazione - politica, in particolare sulla
rappresentazione del re. Rifacendosi soprattutto ai ritratti regali del XVI secolo
(Trouvain, Rigaud, Le Brun), stabilisce un
nesso molto perspicuo fra “rappresentazione del re e re di rappresentazione”. Il re,
infatti, poserebbe come modello del “principe”, quale egli è, per acquisire, nella
contemplazione del proprio ritratto, l’immagine di sé come “monarca”, cioè la pienezza di una genericità assoluta, un grado
zero, l’immagine di nessuno, di un nessuno
che è pieno «della neutralità di una funzione il cui nome proprio è re.» Il principe
come modello è disposto a cedere un po'
della sua umanità, divenendo così “impassibilità contemplativa”, per avere in cambio l’ostensione di sé come monarca, indossare finalmente i panni del suo ruolo.
Ma ogni sistema di rappresentazione implica al suo interno delle falle, dei punti di
corrosione: nella rappresentazione di sé
come potere assoluto, il re contempla e
prende tutta la misura della distanza fra la
rappresentazione del suo potere e il suo
potere effettivo. Il ritratto risarcisce i danni
di un sogno di assoluto potere che non può
che rimanere parziale e affidato al ricordo:
il re guarda lo spettatore perché lo sguardo
di chi è fuori scena salvi, “salvaguardi”
nell’immagine, di un futuro mai abbastanza possibile, il potere che si vuole assoluto.
Ma il ritratto se può simulare ciò che non è,
ciò che un altro è, non si limita solo ai
giochi della rappresentazione, al contrario,
insiste Marin, non è solo cifra di una perdita
bensì strumento della conoscenza di sé e
dell’altro. Non c’è identificazione che non
passi per simulazione, si potrebbe dire:
incontrandosi, il mio Io e l’Altro entriamo
in una dinamica di simulazione reciproca,
di “simpatia allofagica”; ciascuno assume
sul proprio volto i tratti dell’altro, lo assimila, captandone il gioco “facciale”, e al
contempo tenta di mettersi a distanza dal
tentativo di assorbimento dell’altro. La simulazione dell’altro sul mio volto non è
mai perfetta e questo “tirarsi fuori” dall’assorbimento dell’altro è ciò che ci salva, che
c’impedisce di divenire una maschera. L’incontro fra due volti, il riflesso fra un volto
e un ritratto non è mai fusione o interscam-
bialità: dietro al proprio volto, nella solitudine perpendicolare dell’anonimato, resta
il luogo, il punto di fuga prospettico in cui
l’identità prende consistenza.
Ci sono strette connessioni fra la morte e il
ritratto. Le Breton sottolinea che solo in
un’interazione sociale e simbolica “gratificante” un volto può acquisire la propria
espressività. Senza una rete di tal genere
nessuno è in grado di dare un “luogo” ai
propri tratti, di dare al volto il suo ubi
consistam. Non a caso il bambino autista ha
un “viso socialmente incompiuto” e la persona i cui tratti sono stati sfigurati ha il
sentimento di aver perso se stessa. Peggio
ancora, quando l’odio trova i mezzi per
esercitarsi è sul volto che si accanisce, così
come i campi di concentramento, le inenarrabili sevizie di tutti i tempi, testimoniano.
Didi-Huberman, lavorando in una prospettiva antropologica sul significato del visuale/visivo, mette a punto una possibile convergenza fra ritratto e morte attraverso la
nozione di vestigia. Prendendo in contropiede le metafisiche della presenza, DidiHuberman considera il ritratto come un
sostituto della presenza nei termini di vestigia, ossia come quasi-presenza che «pone
la propria referenza solo per dire che ne è
privo, che qualcosa è stato distrutto e dunque allontanato definitivamente». Da un
punto di vista storico e genetico il ritratto è
nato come genere funerario quindi è vestigia anche nel senso di traccia lasciata sulla
sabbia. Infine è indice di una rovina, di una
procedura di morte di cui resta come sola
testimonianza il luogo della distruzione.
Didi-Huberman s’interroga allora sui nessi
fra perdita, traccia, luogo in relazione alla
funzione antropologica del ritratto. In particolare, nelle maschere funerarie come nel
processo di mummificazione, si conserva
l’impronta del viso morto, allorché il viso
“naturale” viene abbandonato alla cenere
di cui è fatto. Proprio perché il volto è
destinato a scomparire, nasce l’esigenza di
conservarne una traccia figurale che gli
sopravviva. Il ritratto metterebbe dunque
in opera non la rappresentazione di un
volto, quanto la sua “scomparsa presentata”. Il volto sparisce come rappresentazione (nella rappresentazione), ma la sua traccia esibita ne conserva l’aura, la sua visualità paradossale.
Marin, invece, soffermandosi sulle opere
di Philippe de la Campagne, s’interroga sul
significato paradossale del “volto universale”, sulla persona che non è nessuno
(personne), «volto universale di ciascuno
che la morte di ognuno realizza». Ogni
volto si annulla nel memento mori della
nostra ultima espressione: sguardo vuoto,
bocca aperta senza voce, “maschera di tutti”, ritratto che trova nell’anonimato della
morte un’immagine (forse la propria); in
altri termini, viso-ritratto di «una esistenza
temporale singolare che acquisisce nella
morte, nell’usura stessa del tempo sul corpo e sul viso morto, l’eloquenza muta e
irresistibile dell’universale ultima verità
16
della vita».
Quanto al “ritratto delle passioni, “ al di là
dei tentativi della fisiognomia e della patognomia, o grazie anche a questi tentativi,
come è incline a sostenere Hersant, la macchina pitturale, la grammatica delle passioni hanno valore conoscitivo. Non semplice
imitazione o riduzione, la scomposizione
geometrica del volto e l’artificiosa ricomposizione delle espressioni «ritracciano
come segno ciò che la natura ha tracciato
come indice», non riproducono ingenuamente somiglianze e analogie, bensì cercano attraverso l’artificio di tradurre e interpretare la natura nei suoi elementi essenziali. Precisa Hersant: «E’ per meglio rivelare la natura che nelle figure di Le Brun il
gesto “istituito” toglie di mezzo il gesto
“naturale”». Dal canto suo, Didi-Huberman rileva il carattere metamorfico, cangiante del volto e la sua inquietante “familiarità” con immagini ancestrali di voracità, di eccessiva prossimità e di attività vulcanica. Il volto, per eccellenza nudo, richiamerebbe ben altre nudità, altrettanto
“oscene” (nel senso di “davanti alla scena”): luogo che trasforma lo spazio in cui
compare, scena infernale di disordine e di
effetti violenti, superficie aperta come una
ferita o un frutto, aperta dalla voragine
della bocca, giù a perpendicolo in antichi
fantasmi dove l’alto e il basso si scambiano
in un “magma tellurico”.
Nel ritratto non si tratta tanto di stabilire chi
sia il modello, o se l’artista sia stato “fedele”, bensì dobbiamo chiederci: Chi è l’autore del ritratto? Chi ritrae chi? Come si
costituisce l’auctoritas? Marin si è a lungo
occupato di questo aspetto a proposito soprattutto dell’autoritratto letterario, dell’autobiografia. Come porsi, infatti, autore di
sé, della propria esistenza? Come scrivere:
“io sono nato” o “io sono morto”, se non
attraverso la machinerie della scrittura?
Macchinazione, congenio, “invenzione” di
figure di enunciazione che, nella loro artificiosità, innescano un dispositivo di auctoritas, dando cioè consistenza, spessore e
identità a colui che si cerca nel “luogo” in
cui stare come nome proprio. Molte figure
concorrono a dare immagini a questo nome
proprio, cercato in tutti gli umbratili profili
di noi e degli altri sul muro dell’esistenza.
L’ “io” diviene “me” solo attraverso l’incontro con l’altro, in incontri però di pura
casualità che non prevedono né progetto,
né riconoscimento dell’altro. Il soggetto
nasce in un incontro “inavvertito” con il
reale: «caso come incidente, accidente come
occasione, il reale che in un istante ci cade
addosso con tutto il suo peso». Ma solo
après coup, quando l’incontro sarà già stato mancato, e l’occasione risuonerà come
un’eco lontana, solo allora «il reale sarà
passato e il soggetto preso per sempre nella
rete dei segni». L’esperienza, e in particolare l’esperienza di sé come soggetto consistente, non si costituisce se non come eco,
risonanza, controchoc di un’occasione che,
persa nel reale, viene messa in forma nelle
INTERVISTA
“reti di segni”. E’ la voce dell’altro che mi
fa “me”, che apre in me un luogo in cui
possa “consistere” (e non riconoscermi).
Tutto il lavoro all’opera nell’autobiografia
è il tentativo di circoscrivere con i segni
l’emergenza di quel luogo dove il soggetto
ha risuonato per la prima volta come Me.
Hersant, dal canto suo, ha rivendicato la
relazione privilegiata fra ritratto e autorità
piuttosto che fra ritratto e espressione. In
altri termini, il ritratto (pittorico e/o letterario) metterebbe in forma non tanto una
rappresentazione del volto “naturale”, portandone in superficie gli “autentici” tratti,
quanto allestirebbe un congenio, una “mac-
chinazione” in grado di dare autorità, cioè
di costituire un “autore”. In particolare si è
soffermato sui rapporti fra scrittura e melanconia per far toccare con mano come
l’autore (anche come l’autore di sé) si costituisca solo a partire da montaggi, “collages” di immagini altrui e attraverso l’altrui.
Altri è sia la tradizione letteraria di referenza, la propria “biblioteca”, sia la scrittura
che costruisce, nel suo discorrere, nel corpo di un libro il corpo di un autore... E’
impossibile nominare se stessi se non passando per “travestimenti” successivi, impensabile consistere in un volto se non a
partire dai mille ritratti possibili che siamo
stati e che saremo: a partire, anche, da tutti
coloro a cui abbiamo “rubato” un’immagine, ricalcato un’impronta, per dimenticare
in fretta loro, per costruire, con calma, noi.
“Ritratti d’autore”, dunque, dove autore
non è sinonimo d’artista, bensì di attore/
agente implicato nella “fabbricazione” artificiosa della propria immagine “naturale”. Bizzarra “morale” del ritratto; morale,
ben inteso, par provision: l’elaborazione
dell’artificio verrebbe a “coincidere”, per
coincidentia oppositorum, con l’esibizione di un naturale mai esistito, ragion per cui
l’acuto Diderot rifiutava l’eventualità di
zione; la seconda riannoda le fila della modernità
all’ideale di una “nuova alleanza” fra domini differenti
delle
scienze.
“posare”.
Intervista
a:
Yves Hersant
L’allegoria: storicamente trae la sua forza
dalla religione e dalla retorica e si impone
tanto più queste sono vigorose. Geograficamente, estende il suo Impero su tutta Europa,
ma più nei paesi cattolici che a Nord. Culturalmente struttura tutte le rappresentazioni
immaginabili, iconique o verbali, decorative
o persuasive, con fini sia morali che cognitivi, politici e religiosi. Tecnica intellettuale
al servizio della vertià, quanto tecnica emotiva facendo presa sugli
affetti e le passioni, l’allegoria tende sempre a convertire, insegnare
o convincere. Sotto spoglie umili o raffinate, la nostra cultura le
assegna un ruolo eminentemente didattico: non perché semplifica bensì perché “intriga”; mettendo in opera una pedagogia del segreto,
l’allegoria fa presentire dei misteri. (Yves Hersant)
D: Ma questa “nuova alleanza” fra i domini del sapere
parrebbe dipendere da una visione unitaria del cosmo...
R: Per fugare ogni malinteso Le darò una risposta bruniana. Il cosmo non va pensato come una sfera: il cerchio,
durante il Rinascimento, si è aperto all’infinità dei mondi. In Bruno non c’è solo la formulazione dell’infinità dei
mondi come teoria cosmologica, bensì viene proposta
una nuova visione dell’uomo: in una parola, il rapporto
all’infinito va di pari passo con gli “eroici furori”, con
l’elevazione e l’affermazione del sé. E’ un rapporto che
decentra il mero io, ma che al contempo implica un’espansione autentica del soggetto, a condizione che sappia
“attirare” a sé l’infinità del tutto. In questa prospettiva, è
una logica dell'infinito che illuminerebbe la storia umana... Per contro, l’Umanesimo è stato da noi moderni
spesso banalizzato e ci siamo abituati a pensare le contraddizioni in modo dialettico e per esclusioni: o è A o è
B. La forza teorica del Rinascimento (e bisognerebbe per
questo ristudiare seriamente Cusano, Bruno...) risiede
nel tentativo di pensare insieme il problema del semplice
e del composto, dell’uno e del molteplice senza portare
soluzioni concettuali, dialettiche, mediatrici. E’ una cultura tesa al pensiero del cosmo nei termini di e... e, e non
di o... o.
D: Lei si definerebbe un intellettuale o un homme de
lettres, i cui molteplici interessi aperti a raggiera sull’attività retorico-letteraria, sulle modalità di rappresentazione artistica dell’uomo rinascimentale, sulla storia
della traduzione in Europa, e ancora sull’allegoria,
punterebbero a un ideale di completezza e organicità
culturale?
R: No di certo. Intellettuale è una parola “anacronistica”.
E’ una parola restrittiva e perfino arrogante: cara forse ai
“tuttologi” e forse agli ideologi ma l’intervento ideologico va bene solo come cittadino. Anche la figura dell’
“homme de lettres” è riduttiva. Sono figure, direi, nostalgiche. Preferisco avere come riferimento privilegiato la
cultura rinascimentale dove più che un ideale di organicità e di totalizzazione si tendeva a non porre cesure
profonde e arbitrarie fa le scienze e le arti, le pratiche e le
riflessioni teoriche. Il pensiero circolava liberamente fra
le discipline e sulle strade di Europa. Certo è evidente che
nella storia moderna si è prodotta una rottura tale che
nessuno oggi può prendersi per Pico della Mirandola. In
particolare nelle scienze esatte, dove la specializzazione
è la parola d’ordine.
D: Lei sta curando la traduzione francese delle opere di
Giordano Bruno e lei stesso è traduttore non solo di
Bruno, ma anche di numerosi autori antichi e moderni,
fra l’altro anche di scrittori contemporanei italiani come
Camon. Da dove ha origine quest’attività?
R: La traduzione ha a che fare con due grandi problematiche, l’alterità e la molteplicità, affrontate non solo in
termini astratti e teorici, ma anche nella “fatica” quotidiana della pratica e del mestiere. La traduzione è un lavoro
complesso, che esula al contempo sia dalla mera imitazione, sia dal trasformismo, dal travestimento: al contrario, è cruciale la questione che s’interroga sul fatto se
un traduttore sia a sua volta un autore, il che rinvia al
rapporto fra identità e alterità, medesimo e estraneo/
straniero. Ancora una volta, ritengo molto interessan-
D: Le rincresce di aver sbagliato epoca?
R: No. Ma da un decennio almeno nel campo delle
scienze umane si parla di un possibile neo-Rinascimento, o, per meglio dire, vi è un’attenzione crescente
verso alcuni temi centrali del Rinascimento. Due sono
le spinte principali: la prima è un rifiuto deciso del
ghetto disciplinare e dell’ipertrofia della specializza17
INTERVISTA
te la visione bruniana della traduzione. Premetto che
si tratta di un pensiero molto difficile da ricostruire
seguendone le tracce nei suoi scritti, così eterogenei
per lingua (italiana o latina) e per argomenti. In ogni
caso due punti mi paiono accertati: da un lato, per
Bruno esiste un rapporto molto perspicuo fra cosmologia e traduzione, dall’altro, la traduzione richiede
un lavoro inventivo non solo imitativo. La traduzione
implica dunque un particolare rapporto con il mondo:
in una formula si potrebbe dire, con Bruno, che poiché
il mondo è in perpetuo movimento, la traduzione deve
tradurre il cosmo infinito nella dimensione di una
pagina: deve coglierne gli
intrecci, gli intrichi per
meglio dire. Non c’è una
equivalenza fra le cose e
le parole per cui il traduttore non deve mirare a una
precisione formale e a
un’imitazione “pedante”.
Tradurre è ripetere il gioco del mondo, liberarne il
senso attraverso la sperimentazione: da un lato,
quindi il traduttore gravita attorno all’orbita dell’autore scelto, non ne indossa semplicemente i
panni, dall’altro, libera la
pagina dall’immobilità e
dalla rigidità stessa del testo. E’ un movimento di
va e vieni fra medesimo e
altro, una “caccia” se vuole, che non esclude una certa violenza.
un’attenzione tutta particolare ai dettagli, ai particolari,
sia nel campo delle ricerche storiche, che artistiche. Di
formazione sono un letterato e nel corso degli anni mi
sono sempre di più convinto che i romanzieri hanno
molto da dire sui problemi delle scienze umane. Ai miei
tempi, negli anni ’60, per chi studiava si presentava
questa frattura: da un lato le Belles lettres, dall’altro le
cose serie. In realtà la letteratura, pensi alla concezione
del romanzo di Kundera, ha dato un movimento particolare alle scienze umane.
D: Ma quale metodo adottare se si privilegiano gli
intrichi, i dettagli?
R: Le potrei dire che il metodo è “il cammino una
volta che è stato percorso”:
viene après coup. Il mio
fine nella ricerca non è tanto trovare un metodo quanto colpire un bersaglio, ossia fare centro, colpire al
cuore. Lo pseudo Aristotele scriveva che il «buon arciere è quello che tira da
lontano»: è una bella metafora per esprimere il lavoro
della ricerca. Ogni tema
implica più aspetti e variabili, così che per mirare giusto occorre porsi a distanza, aguzzare la vista, scorgere da lontano anche altri
arcieri, lo storico, il semiologo per esempio: darsi più
possibilità nella misura in
cui si gode di più punti di
vista. Chi sta troppo vicino
non ha che una possibilità.
D: Ma non teme che questa
gravitazione sia dispersiva, che sia un momento di
disgregazione dell’io?
D: Ed è così che si svolgono i suoi seminari sulla
R: Preferisco questo rischio
“Storia e critica dell’Umaa quello della chiusura, delnesimo”, in particolare
la rigidità: bisognerebbe
negli due ultimi anni dediesercitarsi a pensare fuori Giorgione, La vecchia, Galleria dell’Accademia, Vene- cati all’esame delle teorie
dalla logica binomica, ope delle pratiche del ritratto
positiva, in particolare per quello che riguarda le scienze (pitturale e letterario) nell’Europa del XV e del XVI?
sociali. Per quanto mi riguarda cerco, nell’avvicinarmi a
temi estremamente “densi” come l’allegoria o la malin- R: Spero. Il seminario sul ritratto è stato motivato dal
conia, di privilegiare la complessità, i crocevia, le impu- tentativo di cogliere, da più punti di vista, (pittorico,
rità se vuole. Il fascino esercitato da autori come Bruno retorico, letterario, filosofico) come l’uomo rinascimenè dato dalla loro capacità di tirarsi fuori dai binomi tale concepisse e mettesse in opera nella pratica artistica
oppositivi, di dare forma al molteplice senza perdere di la rappresentazione di sé, la propria umanità. Abbiamo
vista un punto unitario. Gravitazione dispersiva? Questo così toccato con mano l’efficacia della mira da lontano,
è possibile solo se ci si ostina a pensare a un universo di cogliendo così volta per volta le priorità, le poste in gioco,
senso nei termini di chiusura con un centro ben preciso. le difficoltà teoriche e tecniche dell’autorappresentazioIn realtà gli autori del Rinascimento c’ invitano a pensare ne in ritratti individuali, collettivi, in ritratti fisiognomici
a un mondo con più centri, senza una gerarchia prestabi- e di carattere, in ritratti di dettagli, negli autoritratti...
lita, a più orbite, ciascuna delle quali importante e signi- Quest’apertura a compasso sul tema del ritratto si è
ficativa di per sé. Significa anche fra l’altro prestare rivelata estremamente perspicua, in particolare ha evi18
INTERVISTA
denziato quel rapporto non dialettico e non oppositivo, di
cui Le dicevo, fra uno e molteplice, semplice e complesso, medesimo e altro, quale cifra possibile di un certo
pensiero e “stile” rinascimentali. Rappresentare l’uomo
significa esibirne l’intima alterità, il suo essere diviso fra
bestialità e divinità. L’uomo porta in sé una dualità
costitutiva e questa è uno dei luoghi comuni dell’artista
rinascimentale, che per definizione è malinconico, sente
lavorare dentro sé un altro: eppure, con il proprio lavoro
creativo, misura e dà forma a questa sofferenza. Ecco
un’altra obiezione all’intellettuale: non c’è solo l’intelletto, ma anche la psiche, il cuore, l’esprit e il ventre.
D: E’ questa non fedeltà con sé stesso, quest’alterità
intima che la “seduce”? Mi riferisco al fatto che Lei sta
preparando per le edizioni Fayard un libro dal titolo: La
séduction mélancolique, e con Jackie Pigeaud un testo
sulla storia del concetto della malinconia fino a Freud,
escluso.
R: Sì. In primo luogo la malinconia è il luogo di quest’alterità intima: il malinconico, soprattutto il genio artistico,
soffrendo si scopre diverso, ingaggia una lotta con sé,
anima e corpo direi, spiando nella propria carne il lato
animale, vegetale non animato, in una parola. Ma se da un
lato la malinconia è paralisi, chiusura, non riconoscimento, dall’altro è strettamente intrecciata al piano culturale;
è per così dire l’accesso privilegiato alla creatività culturale. Uno dei problemi centrali della malinconia è relativo al rapporto fra sofferenza e cultura: come mai la
malinconia che può essere anche un minus, poiché l’uomo malinconico si rivela bestiale, duplice, irretito dagli
“umori”, è anche “culturizzante”? La malinconia è questo mélange fra determinazioni fisiologiche, umorali e
psicologiche (in senso lato), e non un’ispirazione divina
che spinge a divenire altro da sé per folgorazioni, scatti
violenti, momenti di discontinuità e ad accedere alla
creazione artistica. Ma la malinconia al lavoro non ha a
che fare con il lavoro del lutto freudiano: si tratta di un
particolare rapporto fra corpo e anima, fra sé e mondo,
che non mira a ricomporre le fratture o a convivere con gli
scacchi dell’esistenza. Al contrario, si nutre delle ambivalenze, gioca sugli e con gli eccessi; può essere, paradossalmente, coincidenza degli opposti e mettere così
insieme senza dialettizzarli il lato bestiale e il lato divino
dell’uomo, le luci e le ombre. Per questo la malinconia
“seduce” e può essere pericolosa per chi ne viene a
contatto, perché è mille miglia lontana dalla mediocritas.
E’ alterità e identità, unica e molteplice...
D: Anche qui c’è il rischio di una disgregazione fra poli
diversi e anche una mancanza di coerenza, di “fedeltà”
a se stesso da parte del soggetto...
R: Uno dei problemi più affascinanti della cultura rinascimentale è quello dell’auctoritas, in particolare nella
retorica. In una formula, potrei dire che sono un antiromantico: non è l’espressione, l’espressività che occupa i
miei interessi. Piuttosto è il problema dell’autore, del
riconoscimento e dell’autoriconoscimento di un autore
nonostante e grazie al decentramento, alla “spezzatura”
dell’io. Non basta, in letteratura, distinguere fra narratore
e autore e fare intervenire l’istanza di enunciazione, se
poi ogni polo si richiude su di sé. Autori come Tasso,
Bruno, sanno intrecciare queste istanze senza chiusure.
La coerenza con se stesso, allora, può essere indice di
ottusità: la “fedeltà” perseguita come un valore rigido
può avere qualcosa d’immorale poiché è la negazione
della costitutiva alterità ospitata dall’individuo, della sua
non coincidenza con sé stesso in ogni istante. Fra la
coerenza come costanza, immobilità, e la disgregazione
non passa un’alternativa, ma una strada, per quanto
stretta, su cui a ogni passo questo problema si ripropone.
D: Un po' “lunatica”...
R: In tristitia hilaris, in hilaritate
tristis”...
Yves Hersant è direttore di ricerca all’Ecole des Hautes Etudes nel quadro di un
progetto dedicato alla storia e alla critica
della cultura rinascimentale. L’originalità
del suo approccio consiste nel non irrigidirsi sulle differenze dei generi letterari e
artistici, bensì di studiare di concerto lo
Intervista
a:
Louis Marin
studio della rappresentazione e il suo significato nel Rinascimento. La radice comune infatti di pittura, scultura, scrittura
sarebbe per Hersant da ricercare nella tradizione
retorica.
In questo senso Hersant dirige con altri una
collana, presso le edizione Belles Lettres di
Parigi, dal titolo: “Le corps éloquent”, che
si occupa di tradurre e pubblicare dei testi
brevi, ma preziosi, in cui la relazione per-
la follia di Ippocrate, La cena delle ceneri
e Il Candelaio di Giordano Bruno, Lezioni
americane di Italo Calvino, Stanze di Giorgio Agamben, e numerosi romanzi di Ferdinando Camon.
spicua fra figura e discorso è tematizzata
esplicitamente (fra gli autori di questa collana: Luciano, Gorgia, Amyot, De Vega,
Tesauro, Tasso). Sempre per le edizioni
Belles lettres, sta curando l’edizione completa delle opere di Giordano Bruno. Direttore del “Centre Europe” si occupa fra altro
di un seminario sulla storia della traduzione: traduttore a sua volta dal greco, dal
latino, dall’italiano e dall’inglese (tra le sue
traduzioni ricordiamo, fra altro: Sul riso e
sentazione rigiocherà indefinitivamente, nelle immagini, nei ritratti,
nei racconti la fine di questa perdita. (Louis Marin)
D: Qual è il filo rosso che lega la molteplicità dei suoi
interessi?
Ciò che viene chiamato nell’età moderna
“rappresentazione” può essere considerato
come lutto dell’oggetto, del presente e del
reale. In questo senso, ogni rappresentazione
R: Quando divenni direttore di ricerca nel 1977, il mio
progetto riguardava il sistema, o meglio i sistemi rappresentativi nell’epoca moderna. La rappresentazione è al
centro del mio lavoro; in primo luogo perché è la cifra, la
nozione chiave dell’epoca moderna, non modernista, ben
può considerarsi malinconica. Il soggetto mai si consolerà della
perdita del reale, della disappropriazione del mondo. . . La rappre19
INTERVISTA
inteso. Le questioni cruciali del XVII secolo, la filosofia
del soggetto, il rapporto fra imitazione e rappresentazione, l’attività di giudizio, sono state messe in opera dagli
artisti, prima che dai filosofi. E così le opere artistiche, sia
letterarie, sia pittoriche, architettoniche... hanno preceduto le formule filosofiche. Certo i sistemi di rappresentazione, pittorica, letteraria ecc. non sono stati sincronici
per ispirazione, mezzi, contenuti, e questo spiega la
“polivalenza” dei sistemi rappresentativi e anche dei miei
interessi di ricerca. Per esempio il problema della rappresentazione è cruciale nel XVII-XVIII secolo anche nel
dominio del politico: l’efficacia del potere è connessa
anche alla sua teatralizzazione e alla messa in scena
di questo potere. In questo
senso è particolarmente intrigante il rapporto fra potere e rappresentazione nel
caso del ritratto del re: storiografia, ritratti ufficiali,
discorso, elogio del re...,
tutto ciò concorre alla messa in scena del potere regale grazie alla forza della
rappresentazione.
lamento raffinato dei dispositivi di pensiero, in particolare dell’Eucarestia. La sua non è una critica, per così dire,
dell’ideologia, quanto una critica di secondo grado della
rappresentazione. In una formula: la filosofia della rappresentazione comporta ed è la critica di se stessa. Riprendendo un certo lascito foucaultiano direi che il mio
lavoro di ricerca si avvale anche di una prospettiva critica
ed è volto allo studio di un’epistéme della rappresentazione.
D: Ma questo stile di ricerca volto alla costruzionedecostruzione di dispositivi di rappresentazione così
differenti fra loro, a seconda delle epoche e dei mezzi,
pittorici, letterari ecc., implica forse un lavoro “micrologico”, un’attenzione
tutta particolare ai dettagli
che potrebbe forse tralasciare una visione più globale? Un lavoro, insomma,
di pura “erudizione”...
R: E’ forse curioso e paradossale, ma per dare forza
a una critica storico-sociale della rappresentazione da un punto di vista
esterno, bisogna a mio
avviso esercitarsi a fondo
in una critica della sua logica immanente. Si è spesso rimproverato agli strutturalisti di trascurare
l’esteriorità, il contesto,
il quadro storico, ma io
credo che entrando nel
cuore dei problemi, per
un approccio ravvicinato,
microscopico, si debba ridisegnarne il profilo storico, contestualizzarli. La
sola analisi della ricezione non è sufficiente.
D: Ma questa nozione di
rappresentazione, e la costellazione che comporta
volta per volta a livello storico e culturale, non manca forse di una dimensione
critica?
R: Di primo acchito il mio
lavoro parrebbe sprovvisto
di una dimensione critica.
Certo non mi pongo rispetto a un problema artisticoculturale della modernità
come un giudice o un arbitro. Non mi pongo dal di
fuori, dall’esterno. Ma questo non significa non avvalersi di un punto di vista
critico. Al contrario, riten- Albrecht Dürer, San Gerolamo, Museo di Arte Antica, D: A proposito di strutturago che ogni sistema di raplismo, vorrei chiederle
presentazione implichi nel proprio funzionamento la come è avvenuto il suo ingresso all’Ecole Hautes Etudes,
propria messa in questione, comportando un’interroga- nata in opposizione agli studi accademici di filosofia, di
zione costitutiva e una critica interna sui propri assunti, letteratura.
mezzi, contenuti: nessun sistema è perfetto; comporta
anzi dei punti deboli, qualcosa anche di “mancato” che R: La mia formazione è filosofica e... direi agregé e
non è riducibile alla semplice accidentalità o alla anedot- normalien. La tesi di dottorato riguardava la logica di
tica. La costruzione di un dispositivo implica la propria Port Royal. Per ragioni biografiche e esigenze intellettuadecostruzione, la messa in dubbio, l’esercizio dell’inter- li mi sono interessato al pensiero di Merleau-Ponty, in
rogazione, la ricerca delle sfumature e delle falle... Que- particolare alla sua riflessione sulle strutture di comporsto vacillare, ondeggiare di ogni sistema richiede uno tamento corporali. Con Greimas abbiamo intravisto poi
sguardo archeologico: in primo piano si pone la dimen- di sviluppare una semantica strutturale a partire appunto
sione deconstruttiva dell’impianto della rappresentazio- dal comportamento. Ha preso così forma un progetto
ne. Pensi alla riflessione di Pascal riguardo alla logica di volto ad articolare una ricerca filosofica a partire da una
Port Royal: la sua è una critica dall’interno, uno smantel- formazione, all’epoca ancora pionieristica, linguistica e
20
INTERVISTA
semantica. L’interesse allora per le scienze sociali, e
in particolare per la rappresentazione “visiva” artistica, è venuto direi naturalmente. Con Barthes ho lavorato in seguito sul racconto evangelico e sulla semantica delle passioni. Questo incrocio fecondo di approcci, filosofico e semiologico, ancorato al piano
storico è un po' la cifra delle ricerche all’Ecole che
privilegiano l’interdisciplinarietà, le transizioni e le
passerelle fra i domini storici, artistici, semiologici,
filosofici: la filosofia stessa si definisce in un rapporto
complesso con le scienze sociali, la letteratura, la
storia dell’arte.
anticipazione al contempo, di una realtà virtuale a venire.
Questo virtuale è in ogni caso il possibile, la latenza e la
forza che giacciono in potenza nella società presente. La
promessa di felicità risiede nella finzione, non nella
rappresentazione tout court: nella messa in gioco dello
spazio utopico, che è un non luogo, nelle tracce paradossali della speranza.
D: Nella prospettiva della ricerca sul ritratto e sulla
rappresentazione, l’autoritratto così come l’autobiografia costituiscono un tema privilegiato e ricco d’insidie...
R: E’ uno dei miei interessi principali: nell’autoritratto c’è qualcosa di vertiginoso, poiché esso costituisce
il culmine del funzionamento della rappresentazione:
qui è il soggetto della presentazione che si autorappresenta. Il movimento riflessivo raggiunge il suo punto
di maggior tensione: si ha come un tourniquet, nel
senso che il dispositivo di rappresentazione può perfino incepparsi. L’autoritratto implica il problema del
soggetto dell’enunciazione; nell’autobiografia le pratiche di scrittura istituiscono spesso un soggetto simulacro dell’enunciazione, che non può mai apparire
come soggetto d’enunciato. Il problema è come scrivere la propria autobiografia, come trasformare l’io in
oggetto rappresentato. Ecco allora intervenire la scrittura come “macchinazione”, che permette di captare,
intercettare il soggetto dell’enunciazione come tale. Pensi
per esempio a Sant’Agostino, alla sua conversione: è
come se, nelle Confessioni, un’altra voce di se stesso
gli permettesse di parlare di sé. Si tratta di una voce
infantile, di un ritornello di altri tempi tolle lege: un
buco, un bianco nel testo, per dire questo altro da sé
che è pur sempre il sé della propria biografia. Numerosi sono gli esempi di scrittura autobiografica: Stendhal, Montaigne..., in cui la nozione chiave è quella
del soggetto dell’enunciazione che nella narrazione,
come sottolineava Benveniste, viene in qualche modo
nascosto, occultato. Così, per il pittore la questione
cruciale è: quale soggetto dipingere? In quale momento
della vita? Ogni autoritratto “negozia” una duplice relazione, con la propria vita e con la propria morte, da parte
di un soggetto che le enuncia, senza avere il ricordo
dell’inizio, né l’esperienza della fine.
D: Cosa può trovare uno studente, un ricercatore nella
comunità scientifica dell’Ecole?
R: Un certo piacere nella ricerca, una certa creatività.
Infatti l’oggetto della ricerca da parte degli studenti e dei
ricercatori è spesso costruito e non trovato nel repertorio
dei soggetti classici. Si costruisce un oggetto a partire da
intuizioni, ipotesi spesso di confine tra domini differenti,
sollecitate da interrogativi incrociati sulla storia dell’arte, sulla rappresentazione, sulle poste in gioco teoricofilosofiche. In più, si privilegia lo scambio, il dialogo in
piccoli gruppi di ricerca, in seminari: io stesso con i miei
studenti di dottorato mi considero semplicemente un
unus inter pares.
D: Vorrei porLe qualche domanda sui temi a cui ha dedicato una particolare attenzione. L’utopia per esempio...
R: Il tema dell’utopia mi è particolarmente caro. Nel
quadro di una storia della rappresentazione offre una
complessità molto significativa. Da un lato l’utopia è un
ritratto, una topografia per quanto immaginaria: Lei sa
infatti che nel XVII secolo la mappa di una città si
chiamava “ritratto” e questo nesso fra mappa, tratti e
ritratto mi pare molto perspicuo nel campo della rappresentazione come attività spirituale, artistica, tecnica...
D’altro lato, nel transfert dell’utopia immaginaria alcuni
tratti cadono, vengono tralasciati, così che la “realtà” si
trova spiazzata, posta su un altro piano, su un secondo
grado di rappresentazione. Nel caso dell’utopia, penso al
testo principe, l’ Utopia di More, la mappa-ritratto che fa
vedere il “luogo” è senza luogo, è una finzione, un
façonnement e un modelage del luogo e dello spazio.
L’utopia è un ritratto mobile, un prodotto attivo proprio
per la sua messa in forma paradossale di realtà e di
finzione nel cuore della medesima rappresentazione. E’
un vulcano in attività.
D: Questa distanza fra vita e morte che il soggetto
deve “negoziare” per autorappresentarsi rinvia a un
terzo elemento, mi sembra, fra medesimo e altro, a
un’istanza neutra. Non a caso per esempio in Lectures
traversières non pochi interventi sono dedicati a queste istanze “neutre”: l’angelo, l’androgino, l’utopico. Cosa significa quest’attenzione per il “neutro”: è
forse un’istanza polemica rispetto alle filosofie della
rappresentazione dualistiche, binomiche, centrate
sull’opposizione originale-copia?
D: A proposito della mappa-ritratto dell’utopia senza
luogo, Lei pensa all’utopia come il ritratto possibile di
una promessa di felicità? Potrebbe essere anche una
falsa promessa, un’illusione...
R: L’attenzione per l’istanza neutra, terza, è per me un
punto di inizio, non un fine in se stesso. E’ la ricerca di un
polo non sintetico, non mediatore che rifiuti ogni pensiero binario di stile strutturalista centrato sull’opposizione
dei contrari. Il neutro è appunto la negazione simultanea
dei contrari e non la semplice negazione dialettica:
R: La finzione utopica non è solo un ritratto bensì il
ritratto di una realtà virtuale. Non si tratta di una semplice
proiezione o di evasione: riprendendo la nozione di
utopia di Bloch, in particolare quella contenuta in Tracce,
direi che l’utopia si presenta, per tracce, come attesa, e
21
INTERVISTA
l’androgino è il terzo sesso, che non è un sesso, l’angelo
non è umano, né del tutto divino... In altri termini è la
ricerca di uno spazio attivo, non inerte, in grado di
cogliere la differenza generica, la cifra di un’origine
come fondamento “critico”. In questo momento penso a
Deleuze, a Differenza e ripetizione: qualcosa come un
effondrement, l’apertura di uno scarto. Tutto ciò a condiciazione sarebbe un neutro anonimo,
identificato solo dalla macchinazione letteraria, o quanto meno artistica?
R: Eh sì! In fin dei conti è il “non” che
identifica. Pascal potrebbe fornire una
risposta. Pensi al suo modo di firmarsi: Pascal, Damas, Jesus... C’è quasi
un’estenuazione del nome, una struttura intessuta di ossimori per nominare il nome dell’altro. Per esempio
Salomone come re saggio e Gesù
come saggio folle, solo che Salomone ha bisogno della lettera s (jesus),
che è la lettera mancante, il neutro e
l’anonimo. In primo piano balzerebbe il ritratto anonimo della scrittura.
Louis Marin è scomparso a Parigi il 29
ottobre 1992. Possiamo leggere in molte
sue pagine, suggerisce Jacques Derrida,
«una meditazione - ostinata, infaticabile,
rinnovata - su tutte le figure, esperienze
o approcci riguardanti la morte, il lutto e
la sop ravv iven za». Meditaz ione
incroc iata, fin dall’in izio, nella
riflessione al contempo filosofica e
storica sui sistemi di rappresentazione
(filosofici, artistici, retorici, politici)
dell’epoca classica. Forte di un pensiero
diamantino e di una spiccata intuitività,
Marin ha inte so i sistemi di
rappresentazione non nella prospettiva
zione che il neutro sia pensato come una potenza anche
terrifica di neutralizzazione dei contrari, una forza corros
i
v
a
.
D: Sembrerebbe quasi che l’ultima parola sull’autoritratto sia l’anonimato: il soggetto autentico dell’enun-
esclusiva di una teoria dell’arte o di una
semiotica della rappresentazione, bensì
ha coniugato strumenti semiotici,
duttilità retorica, rigore filosofico, colpo
d’occhio e sensibilità artistica, per
interrogare e cogliere sul fatto le
sovrastratificazioni di senso della
rappresentazione, i “trabo-cchetti” della
narrazione, i “doppi fondi” della pittura,
gli effetti politici dell’im-magine. Potere
sedu ttivo, a vo lte ing an-n atore,
dell’immagin e, come Marin ha
dimostrato nel suo studio Le portrait du
roi (1985), una delle opere più originali
degli ultimi anni. Ma l’immagine e la
pittura (gli amati Poussin, Philippe de la
Champaigne) non devono far dimenticare
i suoi studi incisivi sul linguaggio, a
partire dalla logica di Port Royal (La
logique du discours. Les Pensées de
Pascal et la logique de Port-Royal,
1975).
Attento alle falle e ai co mplessi
dispositivi dell’enunciazione, Marin si è
a lungo occupato del problema della
”auto-biografia”, in cui più perspicuo è
il nesso fra enunciato e enunciazione.
Qui la rappresentazione mette in opera
una voix e xcommun iée (La voix
excommuniée. Essai de mémoire, 1983);
la scrittura s’ingegna a restituire l’attimo
sorgivo del proprio sé nella necessaria,
ma imbaraz-zante permanenza dei segni.
Gli studi consacrati alle Confessioni di
Sant’Ago-stino, a Rousseau, a Montaigne
hanno davvero “fatto scuola”.
Lo sguardo acuto e penetrante di Marin
si è posato anche sulle dinamiche proprie
allo spazio figurale e pittorico: fra gli
altri, campeggia un testo maggiore,
riferimento obbligato per filosofi e storici
dell’arte: Opacité de la peinture. Essai
sur la représentation au Quattrocento
(1989). Qui il termine “opacità” non
concede n ulla all’ineffabilità o a
generiche invisibilità dietro la superficie
dipinta. Al contrario, Marin vuole
dimostrare come con materiale visibile
(figure, colori, disegno ecc.) la pittura
riesca a mettere in opera l’invisibile, le
incertezze inquietanti. Opaca è la natura
del segno, che può essere al contempo
cosa e rappre-sentazione, dando luogo a
traspa-renze offuscate e a presenze
diafane, che lasciano intravvedere come
segno ciò che nascon-dono come cosa.
L’intensa attività culturale, la familiarità
con la scrittura, la forte impronta da lui
lasciata su colleghi, studiosi e allievi, è
dovuta alla sua «intelligenza luminosa e
generosa», come sottolinea Derrida, alla
sua disponibilità «sempre pronta a
comunicare l’entusiasmo della scoperta
e a restituire l’impressione del primo
mattino». La stima condivisa per l’opera
di Marin è motivata, osserva Hubert
Damisch, dal carattere “polimorfo”, ma
rigorosissimo, delle sue ricerche.
Filosofo sofisticato ma cristallino, Marin
era personaggio pubblico estraneo a ogni
eccesso o snobismo. Uomo dalle vigorose
Bibliografia delle opere in volume
strette di mani e d’infinita pazienza,
studioso entusiasta, ma ponderato, Louis
Marin ha lasciato un exemplum felice di
pensatore che va dritto al cuore e al
cuore dell’intelligenza. L’ultima pagina
di Lectures traversières riporta, isolata,
una citazione di Pascal che così recita:
«Je n’admire point l’excès d’une vertu,
comme de la valeur, si je n’en vois en
même temps l’excès de la vertu opposée,
comme en Epaminondas, qui avait
l’extrême valeur et l’extrême bénignité.
Car, autrement, ce n’est pas monter, c’est
tomber. On ne montre pas sa grandeur
pour être à une extrêmité, mais bien en
touchant les deux à la fois et remplissant
tout l’entre-deux. Mais peut-être que ce
n’est qu’un soudain mouvement de l’âme
de l’un à l’autre de ces extrêmes, et
qu’elle n’est jamais qu’en un point,
comme le tison de feu. - Soit, mais au
moins cela marque l’agilité de l’âme, si
cela n’en marque l’étendue» (Pensées,
Brunschvicg, 353).
Etudes Sémiologiques.
Ecritures, peintures,
Klincksieck, Parigi 1971
Sémiotique de la passion,
Aubier, Parigi 1972
Le récit évangélique,
Aubier, Parigi 1973
22
Utopiques, jeux d’espaces,
Minuit, Parigi 1973
La critique du discours.
Etude sur les pensées de Pascal
et la logique du Port-Royal,
Minuit, Parigi 1975
Détruire la peinture,
Galilée, Parigi 1977
Le récit est un piège,
Minuit, Parigi 1978
La voix excommuniée.
Essai de mémoire,
Galilée, Parigi 1983
Le portrait du Roi,
AUTORI E IDEE
AUTORI E IDEE
Veracità della conoscenza
LA VÉRACITÉ. ESSAI DE PHILOSOPHIE NÉGATIVE
(La veracità. Saggio di filosofia negativa, Verdier, Parigi 1993) recita il titolo
del libro di Guy Lardreau, che raccoglie in sistema gli elementi sparsi del
suo pensiero.
Con quest’opera Guy Lardreau, che ha
conosciuto la militanza politica nelle file
della sinistra maoista e si è poi isolato in un
silenzio di riflessione e di approfondimento di alcuni motivi fondamentali del suo
pensiero, ne propone qui una sintesi libera
da «qualsiasi preoccupazione apologetica,
da alcun obbligo di marcare una continuità». Nessuna nota, nessun apparato critico
supporta il testo di Lardreau, che della sua
concezione rivendica un carattere non dimostrativo, ma “sinfonico”, dove gli autori classici della filosofia sono convocati così afferma l’autore - «non per essere
chiariti, ma soltanto nel momento in cui mi
fanno luce».
La critica della conoscenza, che l’autore
propone opponendo il concetto di veracità
a quello - più ontologicamente marcato - di
verità, segnala un impianto filosofico kantiano, evidente nella tripartizione dei capitoli dell’opera, che trattano rispettivamente dell’attività teoretica, pratica (morale e
politica) e poetica. A dare unità a queste
diverse caratterizzazioni dell’agire è il soggetto, cui spetta un ruolo costitutivo: «A
questo titolo - sostiene l’autore - la filosofia
proposta accetterebbe volentieri (...) d’essere considerata una filosofia della spontaneità». In questa prospettiva viene ripresa
l’analisi lacaniana del discorso razionale in
funzione del nodo costituito dal Reale, dal
Simbolico e dall’Immaginario. La caratterizzazione “negativa” della filosofia risiederebbe nell’assunzione razionale dei limiti della razionalità e nella consapevolezza che il Reale non è la realtà.
Lontano dalle illusioni di un sapere che
progredisce verso la conoscenza ultima,
come pure da vie di fuga già vanamente
battute: le strade della rivelazione mistica o
dell’indifferenza del relativismo, Lardreau
sostiene il carattere di verità razionale della
filosofia negativa, dal momento «che la Ragione esige nientedimeno che il prendere su
di sé la propria negazione». Una negatività
che ha una dimensione ad un tempo esistenziale e ontologica; gli uomini infatti, davanti
all’esistenza, provano qualcosa «come l’effetto di una caduta, che non ha soltanto
“avuto luogo”, ma che dura; caduta continua, (...) che certo non è altro che la loro
maniera di accedere al tempo». Appartiene
dunque all’uomo un sentimento nostalgico, eminentemente negativo, che - come
vuole Lardreau - esprime il modo attraverso il quale «l’anima tiene al reale». E.N.
I luoghi della memoria
Ultimo tomo di un considerevole lavoro storico-enciclopedico, LES LIEUX
DE LA MÉMOIRE (I luoghi della memoria),
diretto da Pierre Nora, è stato da poco
pubblicato in tre volumi LES FRANCE. I:
CONFLITS ET PARTAGES; II: TRADITIONS ; III: DE
L’ ARCHIVE À L’ EMBLÈME (Le Francie. I:
Conflitti e divisioni; II: Tradizioni; III:
Dall’archivio all’emblema, Gallimard,
Paris 1993). Questo progetto colossale (ogni volume consta di un migliaio
di pagine), nato nel 1984, si caratterizza per un particolare modo di scrivere
e di elaborare la storia a partire non
dai “fatti” bensì dalle “rappresentazioni” collettive, “luoghi della memoria” come monumenti, celebrazioni,
emblemi, folklore, culinaria, che nel
loro insieme costituirebbero un’autentica “identità” nazionale.
Pierre Nora è l’iniziatore e il direttore di
questo monumentale progetto. Ben inteso:
“monumentale” in senso letterale, visto
che si tratta di un’impresa mirante a reperire i punti di cristallizzazione della memoria
nazionale francese, in primo luogo i monumenti, o per meglio dire la memoria fissatasi in “monumento”: Panthéon, piazze
celebrative, archi, piramidi, centri culturali; ma anche, feste, emblemi, specialità
gastronimiche, costumi sociali...
Il primo volume, Conflits et partages, porta non tanto sull’unità nazionale, quanto
sui conflitti e sulle divisioni della memoria
nazionale. La storia francese pare così rias23
sumersi attraverso coppie antagoniste, ma
inseparabili: franchi e galli, cattolici e laici,
cattolici e ugonotti, “gaullistes” e comunisti, metropolitani (o meglio: parigini) e non
metropolitani (la “France profonde”). Il
secondo volume, Traditions, tratta delle
“tradizioni”. Tradizione - afferma Nora - è
«una memoria divenuta storicamente cosciente di sé». In questo modo si declina
una Francia ancorata alle proprie tradizioni
locali, presa fra una memoria a volte obsoleta e il tentativo di rivitalizzare le proprie
radici. Il terzo volume, De l’archive à l’emblème, parrebbe una “duplicazione” interna alla problematica della memoria: archivi e emblemi. Se il primo termine porta
soprattutto sui luoghi più “discreti” della
memoria nazionale (registri notarili, archivi amministrativi...), il secondo è centrato
sulla memoria “simbolica”, sugli “hauts
lieux”: personaggi, bandiere, emblemi,
monumenti che rappresentano la “mitologia nazionale”. Conclude il volume la riflessione sul “genio” della lingua francese,
sicuramente il luogo della memoria più
consensuale.
Una serie nutrita di incontri e dibattiti di
ogni genere hanno registrato un vivo interesse per quest’archiviazione monumentale della memoria nazionale, ma anche ne
hanno sottolineato i punti critici. Molto
critica nei confronti di quest’opera è stata la
storica Arlette Farge, la quale ha qualificato il metodo storico usato per questi
Lieux come “imperialista”: esso costringerebbe lo storico a curvarsi sul nazionale
(nazionalistico?), cristallizzandosi nell’autocelebrazione (pericolosissima) del passato. Anche a Georges Duby questo ripiegamento su di sé, che esclude lo sguardo di
altre memorie (gli stranieri in e fuori dalla
Francia; l’analisi comparitivistica fra memorie di diversi paesi, fra l’Europa e l’Oriente ecc...) non è affatto apparso un segno di
buona salute.
A queste accuse Pierre Nora si difende
sostenendo che questo sguardo mnestico è
un atto di modestia, connesso a un forte
senso del “presente”. La storia tradizionale
infatti, volta a cogliere quanto del passato
potesse essere utile all’avvenire (sotto forma di: restaurazione, progresso, rivoluzione) è obsoleta, poiché il futuro stesso pare
sempre vecchio e mai prossimo. F.M.Z.
AUTORI E IDEE
L’ultimo francofortese
All’età di novantadue anni, è scomparso il 21 gennaio 1993 Leo Löwenthal. Studioso di sociologia della letteratura e di storia della cultura, analista e critico della cultura di massa e
dell’industria culturale, Löwenthal era
considerato l’ultimo esponente della
Scuola di Francoforte della generazione di Adorno, Benjamin, Horkheimer e Marcuse.
Rispetto agli altri esponenti del gruppo di
pensatori dell’Institut für Sozialforschung
di Francoforte, Leo Löwenthal godeva di
una relativa fama. In Italia, ad esempio,
dove i pensatori francofortesi sono stati
oggetto di un vero e proprio culto, la sua
opera principale, Literature and the Image
of Man (La letteratura e l’immagine dell’uomo, 1957), non è mai stata tradotta e
altri suoi lavori hanno attirato l’attenzione
solo di piccoli editori: Letteratura, cultura
popolare e società (Liguori), Per una teoria critica della letteratura (Flaccovio), Il
rogo dei libri (Il Melangolo), L’integrità
degli intellettuali (Solfanelli).
Fedele all’immagine dell’intellettuale critico e radicale, cara anche agli altri esponenti del gruppo francofortese, Löwenthal
metteva in guardia dal considerare lui e i
suoi illustri amici come parte di una “scuola”, ed evidenziava come ciò che accomunava personaggi come Adorno, Benjamin e
Marcuse fosse lo spirito di indipendenza e
l’avversione per le scuole, sin nelle forme
della scrittura: “La parola ‘scuola’ non ha
senso. Non avevamo testi sacri. Non avevamo discepoli. E in un certo senso non
scrivevamo neppure libri: Adorno aforismi, Marcuse solo lunghi saggi, io addirittura articoli. L’unica scuola a cui ci sentivamo di appartenere era la scuola dei contrari”.
Con gli altri pensatori francofortesi Lîwenthal condivide l’origine ebraica e il destino
dell’esilio negli anni del nazismo (sarà lui
l’ultimo del gruppo ad abbandonare la
Germania, il 2 marzo 1933, due giorni
prima che i nazisti facessero irruzione nelle stanze dell’Istituto per la Ricerca Sociale). Nella sua autobiografia, Non ho mai
voluto collaborare, Löwenthal ripercorre
le tappe principali della propria vita: l’abbandono della Germania e gli anni trascorsi fino all’ultimo negli Stati Uniti, dove fu
professore di Sociologia nell’Università
di Berkeley.
Storico e teorico della letteratura, Löwenthal dedicò le proprie forze non solo all’analisi ideologica e filosofica del fenomeno letterario ma anche allo studio dei
suoi aspetti sociali (ad esempio la ricerca
sui gruppi di lettori di Dostoevskij nella
Germania degli anni Venti e Trenta) e allo
studio della cultura di massa e di quella che
Theodor W. Adorno e Max Horkheimer
chiamavano “industria culturale”. A questo proposito bisogna ricordare l’analisi
condotta da Löwenthal sulle biografie di
personaggi celebri, apparse sulle riviste
popolari negli Stati Uniti nei primi quarant’anni del nostro secolo. Qui, cogliendo con precisione quella che si sarebbe
rivelata una tendenza (fino a oggi) duratura, Löwenthal indicava uno spostamento
dell’interesse del pubblico dalla vita di
industriali, banchieri e rappresentanti della cultura cosiddetta “alta”, in senso tradizionale, a personaggi della musica leggera, del cinema, dello sport e dello spettacolo. Egli - come leggiamo in una lettera a
Horkheimer del 3 febbraio 1942 - considerava questo fenomeno come espressione
di aspirazioni alla felicità che non trovavano realizzazione nel mondo quotidiano e
nella storia; una diversa espressione dell’utopia marcusiana di una vita liberata,
nel senso del principio di piacere, e di
quella “nostalgia dell’altro” che, secondo
Martin Jay, costituisce un motivo comune
ai pensatori francofortesi: «Questo fenomeno contiene anche il sogno dell’umanità futura che potrebbe accentrare i propri
interessi nella felicità, non nella durezza
del lavoro, nella gioia dei beni sensuali nel
senso più ampio del termine. Mentre, da
una parte, l’informazione storica diventa
per le masse una trappola fatta di menzogne e un ridicolo cumulo di fatti e delle
figure più insignificanti, le stesse masse,
proprio nel loro interesse per questa gente
e nei loro modi di consumo, rivelano una
nostalgia per una vita fatta d’innocenza».
In Germania le opere complete di Leo
Löwenthal sono pubblicate presso l’editore Suhrkamp di Francoforte: il primo volume raccoglie gli studi sulla letteratura e
sulla cultura di massa, il secondo le analisi
dedicate al romanzo borghese, il terzo quelle
sulla psicologia collettiva, il quarto le lettere e gli scritti sparsi. Le opere filosofiche
giovanili di Löwental saranno pubblicate a
cura dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici presso la casa editrice Guerini e
Associati di Milano. M.M.
Axel Honneth
e il progresso sociale
Se negli ultimi cinquant’anni si è avuta l’impressione che la constatazione
della morte di G. W. F. Hegel fosse
ormai irrevocabile, bisogna tuttavia
riconoscere che finora egli è sopravvissuto a ogni tentativo di sepoltura
spirituale: troppo complesso e stimolante è il suo pensiero perché lo si
possa mettere da parte con l’etichetta
di “metafisica”. Di queste potenzialità
di interesse è testimonianza anche il
nuovo libro di Axel Honneth, KAMPF UM
ANERKENNUNG . ZUR MORALISCHER GRAMMATIK SOZIALER KONFLIKTE (Lotta per il
riconoscimento. Sulla grammatica morale dei conflitti sociali, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1992). Un’ espressione
24
del giovane Hegel, la “lotta per il riconoscimento”, costituisce qui il punto
di partenza di una teoria della società
che vuole far fronte alle esigenze dei
tempi.
La prima parte dell’opera di Axel Honneth
è dedicata alla discussione di quei progetti
filosofici, alla cui stesura Hegel lavora quando non è ancora un famoso professore
berlinese, ma un semplice Privatdozent a
Jena. La sua idea speculativa fondamentale consiste nel progetto di una teoria dei
diversi livelli del riconoscimento sociale.
Attraverso i livelli dell’amore, del diritto e
della solidarietà o - come scrive Hegel della “eticità” (Sittlichkeit) si danno tre
forme del riconoscimento, nelle quali l’essere umano viene riconosciuto dapprima
emozionalmente come intero, poi formalmente come persona giuridica e infine
come particolarità individuale. Poiché però
il pensiero di Hegel, anche nel periodo
jenese, è legato a presupposti metafisici,
sovratemporali, Honneth si sottopone nella seconda parte del suo libro al compito di
mettere alla prova empiricamente l’idea
speculativa di fondo. Ciò avviene, da una
parte, attraverso un riferimento alla psicologia sociale di George Herbert Mead,
dall’altra sulla base di ricerche psicologiche e storico-psicologiche. Su entrambi i
piani il risultato è che il modello hegeliano
resiste ad una riflessione scientificamente
disincantata.
Così, con l’aiuto delle teorie psicoanalitiche, l’amore può essere concepito come un
forte legame affettivo tra poche persone in
cui si tratta di produrre un equilibrio tra
autonomia e dipendenza, tra il desiderio di
essere soli e il desiderio di fusione. Questo
equilibrio è costantemente in pericolo e
assume le diverse forme di una lotta. Le
esperienze delle relazioni d’amore familiari, amicali ed erotiche non possono certo venire estese ad altre relazioni sociali,
ma contengono già un nucleo di carattere
morale, che si sviluppa poi ai livelli del
diritto e della solidarietà. Qui si tratta del
fatto che i cittadini di una comunità si
considerano uguali in quanto membri di
una comunità giuridica e imparano a considerarsi disuguali, individui, in quanto
membri di una comunità di valori. Qui il
riconoscimento reciproco si mostra nell’attenzione e nella valutazione.
Lo studio di Honneth offre in particolare
una risposta alla questione del modo in cui
si possono spiegare i processi del mutamento sociale. Le società si trasformano
perché sono costruite sulla base delle obbligazioni morali implicite nella triplice
relazione di riconoscimento. Nei conflitti
sociali si esprime così non solo un interesse
di gruppo, ma anche lo sviluppo morale
delle società. Non si tratta solo della povertà, ma anche del diritto e della dignità. I
conflitti sociali seguono una “grammatica
morale” e regole che sono pre-date attraverso le diverse forme del riconoscimento.
AUTORI E IDEE
Leo Löwenthal
L’Institut für Sozialforschung di Francoforte sul Meno, 1924
25
AUTORI E IDEE
In questa prospettiva una filosofia sociale
sostenuta scientificamente raccoglie l’eredità della vecchia filosofia della storia.
Nella terza parte del suo studio, Honneth
mette in rilievo un “concetto formale dell’eticità” come più elevato punto di riferimento. Il movimento della sua argomentazione è chiaro e integrato, un movimento
quasi circolare di impratichimento, che
sviluppa l’idea fondamentale con un interesse al compimento e che la rende pregnante attraverso la ripetizione. L’opera
presenta motivi di riflessione. La “grammatica morale” vale ad esempio non per
tutte le società, ma solo per quella moderna, costituita secondo il modello dello stato di diritto. L’esigenza di validità universale del principio del riconoscimento viene con ciò limitata. Esso può motivare ad
un agire morale e alle lotte sociali, ma può
legittimare il riconoscimento solo nel contesto della modernità. Con ciò un filosofo
che pensa in modo post-metafisico può
dichiararsi soddisfatto. J.F.
Derrida: le interviste
E’ lo stesso Jacques Derrida che ha
deciso di raccogliere in volume, e successivamente di pubblicare, le interviste che nel corso degli anni hanno accompagnato la sua ricerca, facendo
rientrare a pieno titolo nella sua opera anche questa produzione marginale, per non specialisti, che generalmente è così difficile da collocare. POINTS DE
SUSPENSION . ENTRETIENS. (Punti di sospensione. Interviste., Galilée, Paris
1993) permette così di ripercorrere
vent’anni di lavoro e di scrittura di questo autore, offrendo una via d’accesso
ad un pensiero che disorienta proprio
per la difficoltà che sempre si affaccia
quando si cerca di ritrovarne i punti di
riferimento.
Si tratta per lo più di indicazioni biografiche, riflessioni che colgono l’occasione
dell’attualità, per poi approfondirsi in tematiche squisitamente filosofiche, considerazioni e punti di vista che fanno luce su
di una soggettività e insieme su di un metodo, la pratica della decostruzione, che qui
diventa trasparente proprio mettendosi in
opera su tracce ben visibili, dalla tossicodipendenza al tentativo di riformare l’insegnamento della filosofia. Ma vi è anche
l’interrogarsi quasi ossessivo su cosa sia
un’intervista, sulle modalità di un discorso
rivolto ad un pubblico che non è il proprio
e quindi sul ruolo dell’intellettuale nel suo
rapporto con i media, con il pubblico e con
il politico. Soprattutto ciò che traspare è il
tentativo di ridefinire il rapporto tra gli
intellettuali e il politico, attraverso una
metodica decostruzione del modello sartriano: un modo del tutto attuale di essere
apolitico è quello che modula il proprio
atteggiamento su codici e retoriche pressoché istituzionalizzate, e pertanto prevedibili e sin dall’inizio neutralizzate.
Come egli stesso ha più volte ribadito, non
esiste una «filosofia» di Jacques Derrida.
Esiste un confronto, una esplicazione di
Derrida attraverso i testi che analizza e che
di conseguenza lo obbligano ad esporsi alla
loro luce o alla loro oscurità. E soprattutto
esiste un “idioma”, che è uno stile di scrittura che ogni volta si sforza di cambiare
accento per eludere le aspettative, giocando a svelarne i presupposti. Particolarmente significativo diventa quindi il testo dedicato alla lingua della filosofia, costruito a
partire dalla domanda che si interroga sulla
possibilità di tradurre la filosofia, sullo
sfondo del presentimento che essa possa
invece essere consustanziale ad una lingua
e ad una tradizione. E proprio il diretto
riferimento alla tradizione nazionale lascia
emergere la difficoltà di pensare il nazionalismo, difficoltà che prende forma nella
contraddizione tra la necessità di difendere
le lingue minoritarie e l’esigenza della comunicazione, che non può che avvenire su
di un terreno comune. Un esempio di come,
per Derrida, le questioni filosofiche debbano sfociare in quelle concernenti la responsabilità etica e politica, facendo coincidere
la pratica della decostruzione con una volontà di democratizzazione. M.V.
La debolezza dell’Io
E’ recentemente apparsa la nuova traduzione di un’importante opera giovanile di Jean Paul Sartre, il suo primo, vero e proprio scritto filosofico, LA
TRASCENDENZA DELL ’EGO. UNA DESCRIZIONE
FENOMENOLOGICA (traduzione e cura di
Rocco Ronchi, EGEA, MIlano 1992),
che contiene non solo i presupposti
teoretici del periodo “fenomenologico”, ma anche alcuni spunti che saranno alla base dello sviluppo successivo del pensiero di Sartre. A questo
testo può essere accostata la più recente raccolta di saggi di Pier Aldo
Rovatti, TRASFORMAZIONI DEL SOGGETTO.
UN ITINERARIO FILOSOFICO (Il Poligrafo,
Padova 1992) che, a partire anche dalla
riflessione sartreana, ricostruisce una
delle fonti del “pensiero debole”, quella che prende le mosse dal tentativo
di ricostruzione di una nozione di soggettività.
Ne La trascendenza dell’Ego il punto di
partenza della riflessione di Jean Paul
Sartre consiste nella constatazione della
non originarietà della determinazione dell’Ego nei confronti dei fenomeni riguardanti il manifestarsi della soggettività. Sartre rileva, infatti, come la tesi kantiana
relativa all’esigenza di un Io trascendenta26
le, che accompagni e unifichi le rappresentazioni soggettive, si ponga come un “dover essere”, come esigenza di fronte al
fatto che l’unità delle rappresentazioni
precede l’Io ed è indipendente da esso, e in
essa si fonda la possibilità dell’unità dell’Ego, e non viceversa.
Questa constatazione fattuale, caratteristica dell’approccio fenomenologico, porta
appunto Sartre a definire il campo del trascendentale come “coscienza”, come livello, cioè, pre-individuato, non riflesso, caratterizzato da un’essenziale spontaneità,
rispetto al quale l’Io è dunque trascendente, passivo, agito. Sebbene Sartre rimproveri allo Husserl di Idee di aver ricondotto
all’Ego, con una sovrapposizione indebita,
le manifestazioni originarie proprie della
coscienza, Rocco Ronchi, curatore di questa edizione di Sartre (che segue quella,
risalente al 1971, a cura di Nestore Pirillo),
rileva d’altra parte come in questo saggio,
proprio nella determinazione del livello
coscienziale, Sartre sia più debitore a Husserl di quanto egli stesso non mostri di
credere. Nel suo ampio saggio introduttivo, dedicato al “bergsonismo di Sartre”,
Ronchi sostiene, a dispetto degli espliciti
attacchi portati da Sartre a Bergson, la
contiguità della nozione sartreana di coscienza a quella bergsoniana di durata, sulla base del loro comune carattere di spontaneità. Reale è solo la spontaneità della
coscienza; apparente è invece la spontaneità dell’Io nei confronti delle “sue” rappresentazioni, ovvero nei confronti dei “suoi”
stati, delle “sue” azioni, delle qualità degli
oggetti, che si tende spesso, a torto, a considerare prodotto di inclinazioni e affezioni
dell’Io. Tali rappresentazioni, nota Sartre,
non sono “proprietà” dell’Io cui sono riferite, ma è piuttosto questo Io ad essere
“giocato” da esse. Proprio a partire da questa considerazione si aprono, a parere di
Sartre, nuove prospettive nel campo morale.
Anche facendo leva sugli effetti, in questa
direzione, del “depotenziamento” dell’Io
conseguente alle analisi sartreane, Pier
Aldo Rovatti, nel suo recente Trasformazioni del soggetto, intende offrire una ricostruzione del percorso e delle fonti del suo
contributo al “pensiero debole”.
Come è noto, quella relativa al “pensiero
debole” è ipotesi nata, con la pubblicazione
nel 1983 del testo omonimo, dal rilievo
dello scollamento fra soggetto e oggetto,
ovvero dal rilievo del carattere problematico di una scissione fra i due termini e di una
loro successiva ricomposizione dal punto
di vista della gnoseologia, dell’etica, della
metafisica, nella prospettiva di un’indefinita manipolabilità degli enti da parte del
soggetto e in quella di una sostanzialità
(cioè di un carattere “forte”, fondato sulla
caratteristica ontologica della “presenza”)
del soggetto medesimo. Ma se Gianni
Vattimo, altro esponente di quella corrente, si indirizzava, a partire dal pensiero di
Heidegger, e da quello di Derrida, all’ela-
AUTORI E IDEE
borazione del concetto di un “declino” del
soggetto, che compiva la sua parabola sullo sfondo di una concezione “debole” dell’ontologia, Rovatti ha successivamente
preferito focalizzare il suo discorso sulla
questione linguistica, intesa come questione relativa allo stile del pensiero.
Il dichiarato intento di questa raccolta di
saggi di Rovatti è quello di retrodatare il
costituirsi delle questioni inerenti alla configurazione del pensiero debole. Inaspettatamente, per chi di queste tematiche abbia
informazione solo relativamente agli ultimi sviluppi, Rovatti ne mostra le radici
nella riflessione sulle pratiche politiche
degli anni Settanta. Riaffiora dunque la
discussione sulla questione dei “bisogni”,
e sulla loro inconciliabilità con il terreno
del politico. E’ questo l’ambito in cui si è
posta per Rovatti l’esigenza di una “nuova
razionalità”, intesa come “cultura dei soggetti”, “processo di approssimazione al
soggetto”. Il catalizzatore indispensabile
in questa elaborazione è Foucault, che con
la sua “microfisica del potere” ha indicato
la strada per l’individuazione dei punti di
resistenza ai percorsi storici della logica
centralizzante del potere. La nozione “non
tradizionale” di bisogno ha in tal senso per
Rovatti la caratteristica di un’immagine
non concettualmente strutturata, che individua però il terreno di contraddizione fra
l’universalizzazione astrattizzante della
logica del potere, nelle spoglie della società di massa, e la pretesa alla soggettività, al
riconoscimento del proprio carattere differenziale, che pure l’individuo-massa rivendica.
D’altra parte, se Foucault fornisce indispensabili indicazioni di percorso, per Rovatti alle radici del “pensiero debole” c’è
Marx, con la sua nozione di “lavoro vivo”,
che fonda l’articolarsi del discorso marxiano nella prospettiva di una ricostruzione,
“al di là” del modo di produzione capitalista, di uno “specifico soggettivo”. Laddove la determinazione di “forza-lavoro” rimanda alla caratterizzazione come “merce” dell’essenza dell’operaio-massa nel
processo produttivo capitalistico, conducendo così alla cristallizzazione dell’homo oeconomicus, nella nozione di “lavoro
vivo”, dove l’accento cade proprio sul
carattere di “vitalità”, cioè di spontaneità
del lavoro, a parere di Rovatti si trascende
tale cristallizzazione e si segnala invece
con forza l’esigenza di un “punto di vista”
soggettivo. M.C.
Utopia: il paese che non c’è
Il tema dell’utopia torna a riproporsi
come tema centrale in senso filosofico in alcune recenti riflessioni. Maria
Moneti Codignola ne ripercorre i contorni problematici, in riferimento soprattutto alle utopie dell’età moder-
na, nel suo recente studio: IL PAESE CHE
NON C’È E I SUOI ABITANTI (La Nuova
Italia, Firenze 1992). Una raccolta di
saggi a cura di Arrigo Colombo e di
Giuseppe Schiavone, L’UTOPIA NELLA
STORIA: LA RIVOLUZIONE INGLESE (Dedalo,
Bari 1992), intende invece sia richiamare l’attenzione sul significato storico dell’utopia come progetto della
società giusta e fraterna, sia riconoscere nella Rivoluzione inglese il senso di primo, fondamentale evento utopico nella costruzione di questa società.
In una sorta di viaggio nell’utopia attraverso i secoli, fino alle soglie della civiltà
contemporanea, Maria Moneti Codignola si propone di trattare, senza alcuna pretesa di esaustività, i contorni storici e problematici dell’utopia, intesa essenzialmente come “genere filosofico-letterario”, attraverso un’ampia rassegna di autori, compiendo una specifica selezione tematica,
relativa ai rapporti di implicazione reciproca fra l’idea di città perfetta e quella di
uomini perfetti, dunque fra la politica e
l’educazione. L’idea della formazione dell’uomo buono e l’immagine dell’infanzia,
ove essa è presente, costituiscono il duplice selettore d’indagine di questo viaggio
attraverso l’utopia “classica” di Platone, le
utopie dell’era moderna (More, Campanella, Bacone, Cyrano de Bergerac), del
preilluminismo (Foigny, Fontenelle, Fénelon), dell’età dei Lumi (Morelly, Dom
Deschamps, Mably, Diderot, Rousseau),
per concludersi con un ampio ventaglio di
considerazioni teoriche, fra cui “l’idea di
felicità e i suoi paradossi”, “l’utopia moderna come teodicea radicale”.
Nel tentativo di circoscriverne il concetto,
Moneti Codignola sottolinea che per utopia si deve anzitutto intendere «quel genere
letterario-filosofico che ha per contenuto il
racconto o la descrizione di un mondo
immaginario che viene, in modo implicito
o esplicito, presentato in termini deontologici o almeno ottativi». Vengono pertanto
distinti dall’utopia stricto sensu quei racconti, di genere affine, che hanno il carattere di descrizioni di paesi assurdi o di mondi
alla rovescia, i cui rapporti con il genere
utopico trovano nondimeno alcune utili
precisazioni, così come viene ampiamente
tematizzato il rapporto utopia/distopia
(esempi di distopia possono essere considerati testi come 1984 di Orwell o Brave
New World di Huxley). Vengono invece
espressamente poste ai margini della trattazione quelle produzioni dell’immaginazione utopica che nascono dall’ansia di rigenerazione e di salvezza espressa dalla cultura popolare. Nel delineare le tappe di
un’evoluzione interna del genere utopico
nell’età moderna, Moneti Codignola inizia
da una fase di «riflessione critico-propositiva sulla realtà politica e sociale del proprio tempo», che si limita a «contrapporre
una situazione ideale, auspicata e presenta27
ta sotto la forma fantastica di un paese
immaginario, alla realtà presente criticata
anche alla luce di quell’ideale». In una
seconda fase di riflessione «la società umana è pensata come una sorta di provincia di
una più universale realtà cosmologica di
cui fa parte ma di cui, unico punto nell’universo, contraddice i principi», sicché la
proposta utopica si concepisce come «una
reintegrazione di questa provincia nell’universo». A ciò fa seguito la fase di introduzione della dimensione temporale. Infine,
nella fase più prossima a noi, si arriva fino
a rovesciare l’ordine utopico, «facendolo
diventare, da speranza e promessa che era,
una oscura e terribile minaccia da cui difendersi». Del resto ogni forma di rigidità
normativa o propositiva, di concezione
totalitaria dell’uomo e della società sono
oggi sotto accusa, e proprio l’esperienza di
questo secolo impone di «maneggiare le
idee utopiche con grande cautela e anche
con tutto il distacco e le mediazioni possibili».
Di diverso tenore la convinzione teorica
che sorregge la raccolta di scritti, curata da
Arrigo Colombo e Giuseppe Schiavone,
sul significato storico dell’utopia, esemplificato in rapporto alla Rivoluzione inglese. Il volume rientra nella serie “L’Utopia. Per una società giusta e fraterna”, a
cura di Arrigo Colombo, che ha già visto la
pubblicazione di altri contributi sul problema del carattere storico-progettuale
dell’utopia, e nasce da un convegno organizzato nel 1990 dal Gruppo di ricerca
sull’utopia dell’Università di Lecce. In
quell’occasione, ricorda Colombo, era stato
ribadito, in senso programmatico, che l’utopia, come fatto storico e politico, costituisce «il progetto della società giusta e fraterna», il quale può esprimersi sotto forme
molteplici: dal discorso filosofico al racconto letterario, dall’annunzio religioso al
programma politico.
Nella sua introduzione al volume Colombo distingue quattro fasi dell’utopia, che è
al contempo progetto della storia e processo in cui il progetto si va realizzando.
La prima fase è quella sotterranea del
progetto popolare implicito, che vive nella
coscienza popolare oppressa dalla società
ingiusta; la seconda è la fase del mito, in
cui il progetto popolare tende a proiettarsi
in determinate figurazioni simboliche; la
terza è quella dei movimenti di salvezza,
in cui il progetto assume la forma di attesa
e di annunzio, fatto proprio da comunità
religiose; la quarta infine è l’età delle rivoluzioni, in cui «il progetto viene assunto
nella storia umana in senso universale (...),
definitivo, progressuale, attraverso momenti esplosivo-eversivi di forte intensità,
forte luce, capacità comprensiva, capacità
creativa e innovativa, forte decisione e
azione sovvertitrice della società ingiusta». Una volta restituita all’utopia il suo
carattere storico-progettuale, A orientare
questo filone di ricerca sull’utopia come
fatto storico e processuale è peraltro l’idea
che proprio nell’attuale età, segnata dal
crollo del comunismo, «l’utopia riemerge
TENDENZE E DIBATTITI
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, l’Università di Berlino
La Porta di Brandenburgo, Thomas Hobbes
28
TENDENZE E DIBATTITI
TENDENZE E DIBATTITI
La politica di Hegel
Del mai sopìto interesse per le valenze politiche della riflessione hegeliana è una riprova la serie di studi critici
recentemente apparsi: il saggio di Geminello Preterossi, I LUOGHI DELLA POLI TICA. FIGURE ISTITUZIONALI DELLA FILOSOFIA
DEL DIRITTO HEGELIANA (Guerini e Associati, Milano 1992), e l’opera di Fiorinda Li Vigni, LA DIALETTICA DELL’ETICO.
LESSICO RAGIONATO DELLA FILOSOFIA ETICOPOLITICA HEGELIANA NEL PERIODO DI JENA
(Guerini e Associati, Milano 1992), entrambi pubblicati nella collana “Hegeliana” dell’Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici; lo studio di Cristiana
Senigaglia, IL GIOCO DELLE ASSONANZE
(La Nuova Italia, Firenze 1992), dedicato all’individuazione delle ascendenze hobbesiane della filosofia politica di Hegel; l’antologia IL PENSIERO
POLITICO DI HEGEL (a cura di Giuseppe
Bedeschi, Laterza, Roma-Bari 1993),
introdotta da un ampio profilo critico,
che offre uno sguardo sintetico complessivo sul pensiero politico del filosofo di Stoccarda. Da segnalare anche, in questo contesto, sebbene con
una impostazione più generale, la recente introduzione al pensiero hegeliano curata da Pietro Rossi, HEGEL.
GUIDA STORICA E CRITICA (Laterza, RomaBari 1992), nonché la corposa biografia in lingua tedesca che al pensatore
di Stoccarda ha dedicato Horst Althaus, HEGEL UND DIE AEROISCHEN JAHRE
DER PHILOSOPHIE. EINE BIOGRAPHIE (Hegel
e l’età eroica della filosofia. Una biografia, Hanser Verlag, München 1992).
Lo studio di Geminello Preterossi, I luoghi della politica, dedicato ad alcune «figure istituzionali della filosofia del diritto
hegeliana», tematizza la connotazione “conciliativa” di questa filosofia, di cui mostra
la valenza positiva, il «grande valore e
dignità», tanto sul piano della riflessione
filosofica, quanto su quello più immediatamente politico. La riflessione hegeliana fa
combaciare elementi e istanze che nel pensiero filosofico-politico successivo si contrappongono e si frammentano in linee di
fuga divergenti: libertà individuale e unita-
rietà della persona statale, interesse dei
singoli e principio di sovranità dello Stato,
legittimazione sociale della volontà politica ed espressione formale del diritto. Per
raggiungere il suo scopo, quello di uno
sguardo unitario che tenga insieme le varie
istanze, Hegel punta verso un “profilo alto”
della statalità, come tentativo di realizzare
il connubio, sostiene l’autore, fra l’unitarismo del principio di sovranità e il pluralismo delle istanze sociali; scartando cioè
tanto la concezione liberale lato sensu, che
vede lo stato come momento funzionale
alla società, quanto il decisionismo, radicalmente arazionale, sostenuto per esempio da Carl Schmitt.
Il “lessico ragionato” della filosofia hegeliana nel periodo di Jena che Fiorinda Li
Vigni presenta con il volume La dialettica
dell’etico individua 52 voci, raggruppandole in 6 “famiglie concettuali” (linguaggio, lavoro, famiglia, diritto, eticità, singolarità-universalità), e facendo precedere
ciascuna di esse da un’”introduzione” alla
parte lessicale vera e propria, in un rapporto che è comunque di reciproca autonomia.
Più che una tavola di occorrenze, nelle
intenzioni dell’autrice questo lessico, ponderoso e tuttavia estremamente maneggevole nella consultazione, si configura come
un tentativo di ripercorrere lo sviluppo di
ciascuno dei concetti individuati nelle opere prese in esame, e all’interno di ciascuna
di esse; il metodo di scomposizione analitico dei testi è quindi finalizzato a una
ricostruzione della genesi dei concetti.
“A proposito degli influssi hobbesiani sul
pensiero filosofico-politico di Hegel” è
l’esplicito sottotitolo che accompagna
l’opera di Cristiana Senigaglia, Il gioco
delle assonanze. Muovendo dall’apparente dissonanza fra l’esplicito riconoscimento hegeliano di Hobbes come iniziatore
della “scienza politica”, e la brevità delle
analisi che a questi vengono dedicate dal
pensatore tedesco, Senigaglia enuclea alcuni nodi tematici del confronto tra i due
filosofi. In primo luogo, la precisazione del
senso in cui Hobbes è per Hegel l’iniziatore
della “scienza politica”. Non si tratta certo
di ciò che nel filosofo inglese si presenta
come presupposto, vale a dire l’ipotesi giusnaturalista, rifiutata da Hegel senza incertezze. Piuttosto, passando oltre il dualismo
29
tra stato di natura e Stato, che per Hobbes
permane come orizzonte fondativo, il reale
terreno di confronto tra i due pensatori
consiste nella questione relativa alla legittimazione dello Stato medesimo, nonché
nelle esigenze di carattere politico riconducibili a interessi individuali, espressi a livello della società civile. In altri termini, il
terreno di incontro fra i due pensatori non
può essere individuato, a parere di Senigaglia, in rapporto alla questione dell’origine
del diritto dallo stato di natura - a partire
dalla quale Hegel, tutt’al più, può apprezzare in modo generico il ruolo riconosciuto
da Hobbes al principio di conflittualità fra
gli individui - bensì sul piano della questione istituzionale, cioè della struttura organica dello Stato.
Come è noto, lo Stato interviene in Hegel
per sanare gli squilibri della società civile.
Come ricorda Giuseppe Bedeschi nel suo
ampio saggio introduttivo all’antologia
dedicata a Il pensiero politico di Hegel, il
filosofo di Stoccarda fu sempre pessimista
nei confronti del funzionamento della sfera
socio-economica moderna, la cui descrizione realistica è in lui desunta dall’economia classica. D’altra parte, Bedeschi sottolinea il ruolo centrale che, nella visione
hegeliana della società civile, riveste la
nozione di corporazione, di cui il filosofo
lamenta la soppressione nell’età moderna.
Contro chi sostiene il carattere moderno
del concetto hegeliano di corporazione,
evidenziando come esso non sia identificabile con la mera descrizione (alla stregua di
un anacronistico tentativo di rimessa in
auge) della realtà storica delle corporazioni
medioevali, Bedeschi ritiene che, in ultima
analisi, sia giustificata l’impressione che
Hegel «sia ricorso a strumenti tutto sommato arcaici per porre rimedio ai problemi
moderni della concorrenza e dell’atomismo». Proprio per questo, conclude Bedeschi, su questo specifico punto «lo sguardo
di Hegel sembra rivolto più al passato che
al futuro».
Il volume Hegel. Guida storica e critica,
curato da Pietro Rossi, intende collocare la
filosofia hegeliana nel quadro del suo contesto storico-culturale. L’approccio è
multilaterale; vengono messi a fuoco vari
aspetti del “sistema” hegeliano e della sua
evoluzione storica: Hegel fra Romantici-
TENDENZE E DIBATTITI
smo e Idealismo (Luigi Marino); la genesi
della logica hegeliana (Franco Chiereghin); la Fenomenologia dello spirito (Sergio Landucci); la Filosofia del diritto come
sistema dello spirito oggettivo (Giuliano
Marini); il rapporto di Hegel con l’estetica
(Paolo D’Angelo); Hegel tra religione e
filosofia (Claudio Cesa); il rapporto tra la
storia universale e il suo quadro geografico
(Pietro Rossi), la questione della storia
della filosofia (Remo Bodei); e infine la
ricezione di Hegel nei manuali scolastici di
filosofia (Giovanni Bonacina).
E’ da segnalare, infine, una voluminosa
biografia di Hegel recentemente pubblicata in Germania da Horst Althaus. Testimonianza corposa, più che filosoficamente
rilevante, dell’attuale interesse per Hegel,
estremamente particolare e informata riguardo all’aneddotica, cede fin troppo spesso alla tentazione di ironizzare, dal punto di
vista del “comune buon senso”, ovvero
della vita ordinaria, sugli aspetti speculativamente rilevanti della riflessione hegeliana, la dialettica in primo luogo. F.C.
Tendenze provinciali
Con il suo ottavo numero la rivista
TELLUS. QUADRIMESTRALE DI CRITICA DELLA
delinea il proprio manifesto,
indagando intorno alla possibilità e al
significato di un “pensiero provinciale”. Ne risulta una caratterizzazione
della “provincia” non come ritorno a
mitiche radici, ma come luogo a partire dal quale sembra ancora possibile
esercitare la problematizzazione, continuata e perseverante, del senso comune. Questa prospettiva viene tematizzata a partire dal testo di Martin
Heidegger, PERCHÉ RESTIAMO IN PROVINCIA?, e da scritti di Marco Baldino, Luisa Bonesio, Aldo Bonomi, Giorgio
Frank, Caterina Resta, Saverio Xeres.
CULTURA
Marco Baldino, direttore di Tellus, sottolinea come la nozione di provincia rinvii a
una dimensione minore dell’esistenza, che
ha i caratteri della domesticità e della privatezza: domus e idios. La nozione di provincia è stata tematizzata da Martin Heidegger, da lui eretta a fondamento di un nuovo
compito planetario del pensiero. Contro
l’interpretazione di Theodor Wiesengrund
Adorno, che vi legge solo una nostalgia
premacchinistica, Baldino sottolinea il nesso di questo concetto con la questione della
tecnica, e più in generale con quella della
rifondazione dell’esserci storico europeo,
a fronte del progetto mondializzante della
tecnica, culmine della prospettiva metafisica. La nozione di provincia appare, per
Baldino, non solo come luogo di partenza
per una maggiore penetrazione nella Seinsfrage, ma anche per chiarire il senso dello
heideggeriano “nuovo inizio”, che si di-
spiega, come autentica necessità teoretica,
dinanzi al declino della vecchia complicità, e complementarietà, di polis ed episteme.
L’obiettivo di Heidegger, molto evidente
nel discorso di rettorato del 1983, è quello
di rovesciare il rapporto esistente tra ragione, università e scienza. Se il progetto moderno dissolve la scienza in una serie di
saperi specialistici, organizzati socialmente dal sistema dell’industria universale, a
esso Heidegger oppone la pratica di un
pensiero del “rovescio”, la cui radicalità,
anche secondo Caterina Resta, non fu
compresa da Adorno. Quest’ultimo interpretò il tentativo di esporre la scienza all’idio-maticità della ripetizione ontologica
come una nefasta concessione alla cultura
Blut und Boden. Ciò che per Adorno è la
tara dello heideggerismo, cioè il “gergo
dell’autenticità”, costituisce invece la lingua dell’idios, di ciò che sta a parte, ed è
perciò intraducibile; così come non traducibile, non urbanizzabile, è la “provincia”
heideggeriana, quell’Ort che, come punto
di convergenza e raccoglimento, diventa
per Heidegger il centro unitario di ogni
esperienza, dell’apertura del mondo dell’esserci.
Ciò a cui Heidegger si riferisce con il
concetto di provincia, osserva Resta, non è
un nostalgico ritorno a un radicamento
ormai impossibile, per esempio su base
etnica, ma un nuovo criterio di appartenenza, la cui base è “etica”; laddove ethos vale
come “soggiorno”, luogo dove si abita, il
punto di convergenza e di raccolta delle
coordinate dell’abitare.
Accanto alla nozione heideggeriana di provincia, l’intervento di Luisa Bonesio mette in gioco autori come Oswald Spengler,
Robert Pogue Harrison, Walter Benjamin, Ernst Jünger. La provincia è per
Spengler il paesaggio materno dell’intero
Occidente, succube del discorso della città,
cioè della monumentalizzazione; l’imperialismo livellatorio della lingua crea la
provincia come sottoprodotto della metropoli. Citando Harrison, Bonesio ricorda
che la pietra della città non è quella della
campagna, di cui esiste un’”altra faccia”,
un lato nascosto; questa pietra, quando
viene estratta dal terreno rivela il brulichìo
silenzioso della vita di “terra, radici e vermi”, che si svolgeva sotto il sasso quando
esso, prima di essere smosso dalla sua
terra, era ancora parte di un oscuro paesaggio naturale. Ernst Jünger rende obsoleta
l’opposizione di città e provincia nella considerazione che la tecnica macina tutte le
pietre, sia naturali che monumentali, trasformando tutto il paesaggio umano in un
immenso deserto di rovine. La “provincia”
diventa dunque «quel limite costitutivo di
ambiente naturale, di selva, sparendo il
quale sparirebbe l’oikos umano». A questo
punto, secondo Bonesio, si incontra Benjamin, che con la sua archeologia pare dar
vita all’unico sapere possibile nell’epoca
in cui tutto, compresa la natura, è anticipa30
tamente prodotto come rovina. Qui, osserva Bonesio, il limite dell’”officina mondiale”, della prospettiva totalizzante del
progetto planetario della tecnica, diventa
non più la “provincia”, ma la natura medesima.
Il tema della provincia si connette a quello
del silenzio nella riflessione di Saverio
Xeres, che prende le mosse dalla celebre
lirica montaliana I limoni. Xeres teorizza il
fatto che l’ascolto del palpito che pulsa
sotto la crosta del quotidiano, cioè sotto
l’ambito della pura chiacchiera, o il vuoto
di parole che si crea intorno a un evento
limite, come può essere la morte, possano
restituire al mondo il suo incanto; in ciò
risiedono l’essenza e il ruolo della provincia. All’opposto, Aldo Bonomi, che pure
coglie nel silenzio il tratto caratteristico
della grande periferia, vi scorge non la base
per un reincantamento del mondo, bensì il
silenzio del sociale, l’incapacità di comunicazione di una società stanca e disanimata. Soluzione di ciò è il modello dell’esodo,
nel riconoscimento di sé come esseri senza
radici che si realizzano nell’ “andare”, unico fondamento per una qualche forma di
pratica sociale, una qualche prassi datrice
di senso.
La “teologia del paradosso” di Giorgio
Frank riconduce più esplicitamente il discorso sul piano della riflessione filosofica.
Frank sostiene che la gratuità dell’esistenza non è solo l’esito più estremo del nichilismo, ma anche lo stigma dell’essere nell’epoca della morte di Dio. L’uomo sperimenta tale “gratuità”, quotidianamente,
nell’esperienza del silenzio di Dio; a partire da questo silenzio nasce l’indicazione
relativa a un pensare che non potrà essere
se non un pensiero del Dio silenzioso e
gratuito, cioè infondato, perché un Dio che
non fonda l’esistenza umana non fonda
nemmeno se stesso. In altri termini, se da
un lato l’esercizio del pensiero comporta
oggi la consapevolezza del disincanto del
mondo, dall’altro esso ricerca la possibilità
di rapportarsi non più al Dio della metafisica, quello che un tempo parlava e ora tace,
ma al volto di un Dio che parla attraverso il
suo tacere. F.C.
Sociologia della conoscenza
e civiltà moderna
Due opere recentemente pubblicate
in Germania propongono una riflessione su alcuni momenti della storia
della sociologia della conoscenza,
che rinnova la tendenza di un possibile contributo di tale disciplina alla
comprensione della società attuale.
Si tratta dello studio di Wolfgang
Engler, SELBSTBILDER. DAS REFLEXIVE
PROJEKT DER WISSENSSOZIOLOGIE (Immagini di sé. Il progetto riflessivo della
sociologia della conoscenza, Aka-
TENDENZE E DIBATTITI
demie Verlag, Berlin 1992) e di quello di Stefan Breuer, DIE GESELLSCHAFT
DES VERSCHWINDENS . VON DER SELBSTZERSTÖRUNG DER TECHNISCHEN ZIVILISATION (La società dell’eclissarsi. L’autodistruzione della civilizzazione
della tecnica, Junius Verlag, Hamburg 1992).
La precedente opera di Wolfgang Engler,
Die zivilisatorische Lücke (La lacuna civilizzatrice, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1992)
era dedicata al tentativo di comprendere lo
sviluppo di quelle che erano le società del
socialismo di stato alla luce della teoria
della civilizzazione di Norbert Elias. Diversamente dall’Europa dell’Ovest, con il
suo principio di una “civilizzazione riflessiva”, l’Europa dell’Est sarebbe caratterizzata da una “civilizzazione autodistruttiva”, in cui l’autogoverno degli individui
veniva ottenuto solo con proibizioni e al
prezzo dell’inefficienza. Tale caratteristica avrebbe reso queste società più fragili e
suscettibili di un ritorno a forme di barbarie, nello sviluppo di un modello di organizzazione sociale che per Elias era già
operante nello stato autoritario guglielmino. Il nuovo libro di Engler, Selbstbilder,
torna in diversi punti su questo problema:
non nel senso di un approfondimento, ma
piuttosto nel tentativo di precisare il concetto di “civilizzazione riflessiva” all’interno di una discussione di questioni e
momenti di quel ramo della sociologia detto “sociologia della conoscenza”.
Engler presenta anzitutto la fondazione della
sociologia della conoscenza da parte di
Karl Mannheim, caratterizzando la prospettiva della sua ricerca come “sguardo
della ragione sulla propria struttura”. Segue un saggio dedicato a Elias, di gran
lunga l’allievo più celebre di Mannheim.
Qui Engler osserva che le tendenze alla
razionalizzazione, contenute nel concetto
di civilizzazione di Elias, implicano sul
piano pubblico il rischio di una catastrofe
ecologica e sul piano privato quello del
venir meno della capacità di imparare da
parte del soggetto: «Un essere completamente civilizzato intrattiene un rapporto
parassitario con l’ecosistema e un rapporto
repressivo con se stesso».
Altri tre studi sono dedicati da Engler alla
microsociologia (in particolare all’interazionismo simbolico) e all’opera di Pierre
Bourdieu e di Michel Foucault. Il concetto
foucaultiano della società disciplinare viene qui indicato come utile e fecondo per
l’analisi dello stato-partito e dello stato di
polizia delle società dell’Europa orientale.
Alcuni dei pensatori presenti nel libro di
Engler si ritrovano anche in Die Gesellschaft des Verschwindens di Stefan Breuer,
una raccolta di saggi per lo più già apparsi
in riviste. Elias, Foucault, Adorno, Luhmann, F.G. Jünger e Virilio vengono presi
in considerazione in quanto teorici e studiosi della società, in una prospettiva ispirata fondamentalmente alle posizioni della
Scuola di Francoforte. Importante è anche
il riferimento all’antropologo francese
Claude Lévi-Strauss. Sulla base di questi
riferimenti teorici Breuer analizza la società moderna come società della tecnica. Tesi
di fondo della sua opera è che la tecnica
moderna rappresenta il motore di uno sviluppo che si sostituisce alle antiche concezioni dell’assoluto: «L’assoluto c’è, deve
solo essere pensato diversamente: non come
grande soggetto o come spirito, non come
ordine che riposa su se stesso e nemmeno
come struttura di norme e istituzioni, ma
piuttosto come processo autopoietico con
conclusione catastrofica (...). Il sistema
sociale non è, come volentieri si presenta,
superamento del caos, ma è solo il metodo
di produrre il caos più velocemente di quanto
sarebbe possibile secondo le leggi dello
sviluppo spontaneo». M.M.
La morale ineffabile
In corrispondenza dell’uscita in librerie delle loro rispettive opere, LE CRÉPUSCULE DU DEVOIR, (Il crepuscolo del dovere, Gallimard, Parigi 1992) e UNE MORALE SANS MORALISME (Una morale senza moralismo, Flammarion, Parigi
1992), le opinioni sulla morale contemporanea di due filosofi agli antipodi per concezione e tradizione di pensiero: Gilles Lipovetsky, teorico dell’individualismo e di una società postmorale, e Jean-Marie Domenach, un
vecchio discepolo di Emmanuel Mounier, hanno trovato spazio sulle pagine del settimanale di cultura “L’Evenement du Jeudi” (3-9 dicembre 1992).
Il proposito del libro di Gilles Lipovetsky
è quello di stabilire le condizioni di funzionamento di un’etica nelle società democratiche, dove i valori individuali e il diritto al
benessere danno le direttrici ai comportamenti e forniscono legittimità alla macchina politica; la società post-morale e quella
propria di un’ «epoca dove il dovere è
edulcorato, reso anemico, dove l’idea del
sacrificio del sé risulta socialmente delegittimato, dove la morale non esige più di
devolversi ad un fine superiore, dove le
lezioni di morale sono coperte dagli spots
del viver meglio, dal sole delle vacanze, dal
divertimento mediatico». D’altra parte è
proprio sulla base di questa cultura individualista ed edonista che si aprono le contraddizioni maggiori negli ambiti in cui si
incontrano l’interesse collettivo e quello
privato: l’ecologia, l’utilizzo delle tecnologie. Dove insomma si pone l’esigenza di
stabilire delle norme, la risposta sembra
andare nel senso della riproposizione di
comportamenti manichei e fondamentalisti.
Operando una ricognizione che è più storica che filosofica, Lipovetsky si interessa
31
soprattutto alla messa in scena della moralità nella società mediatica: gli spettacoli a
favore di iniziative umanitarie, la tele-solidarietà; atteggiamenti che rivelano la spettacolarizzazione dell’impegno e la sua trasformazione in una morale minimalista,
“indolore”.
Per quanto convinto che una certa cultura
sacrificale della morale sia finita, JeanMarie Domenach sostiene che l’apprezzamento del grado di moralità di una democrazia non si misura con i dati sociologici,
né con gli strumenti della statistica, ribadendo che parlare di morale indolore significa rinunciare al concetto di responsabilità
che è implicito in qualsiasi atto morale.
Dell’attuale impasse sarebbe responsabile
l’individualismo contemporaneo: non si dà
morale se non nel legame che si vuole
stabilire con l’altro, ma - per evitare che
essa si trasformi in moralismo, che imponga dei comportamenti e non delle scelte - si
deve essere consapevoli che la morale è un
prodotto e una realizzazione storica e vive,
oltre che negli atteggiamenti degli individui, nelle loro forme politiche, nel diritto,
nella deontologia delle professioni. I valori
sono dunque depositati nelle istituzioni storiche dei popoli e hanno sempre il significato di un compromesso con un’epoca e
una società determinata.
In un’unica conclusione sembrano ritrovarsi i due autori: la politica delle responsabilità è il nome laico che assume l’impegno
morale nei confronti dei fanatismi. E.N.
Il paradosso
del pensiero occidentale
Il volume collettivo a cura di Paul Geyer
e Roland Hagen Büchle, DAS PARADOX .
EINE HERAUSFORDERUNG DES ABENDLÄNDISCHEN DENKENS (Il paradosso. Una sfida
del pensiero occidentale, Stauffenburg
Verlag, Tübingen 1992) presenta
un’analisi di carattere interdisciplinare di un fenomeno che da tempo incluso tra le chiavi di lettura della modernità mostra di non essere più solo
oggetto esclusivo di ricerca retorica,
logica e filosofica.
Cosa sono i paradossi? Come hanno origine? In cosa si distinguono da fenomeni
analoghi? Qual è il rapporto tra il concetto
di paradosso usato dalla logica in senso
“tecnico” (l’antinomia) e l’uso più ampio
che di questo concetto o figura retorica
viene fatto da altre discipline, come la
letteratura e l’arte? Il volume collettivo
Das Paradox, che raccoglie gli interventi
presentati ad un recente convegno sul tema:
“Fenomenologia dei paradossi. Sullo sviluppo storico di una forma dello stile e del
pensiero”, tenutosi presso l’università cattolica di Eichstätt, cerca di dare una risposta a questa e ad altre domande, sia presen-
TENDENZE E DIBATTITI
tando analisi di carattere sistematico e teoretico, sia attraverso ricostruzioni della storia del concetto, della parola e del problema.
La parte sistematica del volume raccoglie
contributi di carattere filosofico, teologico,
psicologico, retorico, logico, biologico e di
filosofia del linguaggio, preceduti da due
interventi dedicati a questioni più generali,
che possono servire da introduzione agli
studi su temi più specifici: quello di Gerhard Vollmer, sul rapporto tra paradossi
e antinomie, e quello di Henrich Plett, che
ricostruisce la tradizione retorica del concetto di paradosso. Mentre gli interventi
raccolti nella parte storica coprono un arco
di tempo che va dall’antichità greca e romana ai “testi post-moderni” e alla “letteratura post-mimetica”. Preminenti sono qui
studi dedicati a temi come il “paradosso
mistico” e l’“esistenza religiosa”.
La ricchezza e l’ampiezza dei materiali
presentati nel volume danno un’idea della
complessità e problematicità della discussione sul paradosso. Una complessità che
sembra smentire una certa tendenza alla
stilizzazione e alla semplificazione presente nell’introduzione al volume, in cui,
sotto il poco modesto titolo di “Fondazione storico-sistematica”, si legge tra
l’altro: «Il paradosso è una figura della
resistenza contro la presa del potere di
un sistema di pensiero chiuso. La storia
di questa resistenza è anche una storia
del pensiero occidentale, una storia per
così dire dal basso». M.M.
Filosofia della mente
«Qual è la relazione tra la vita mentale
di un uomo e gli eventi del suo cervello?» Questa domanda, tanto semplice
nella sua formulazione, quanto complessa per il groviglio di problemi a cui
direttamente ci introduce, è il risultato emblematico, potremmo dire, dell’incontro di tradizionali questioni filosofiche con i risultati ottenuti in varie
discipline scientifiche, tra cui la neurofisiologia, la psicologia, la cibernetica
e la linguistica. In questo ambito di
riflessione, comunemente caratterizzato come filosofia della mente, rientrano alcuni recenti studi, oggi disponibili in traduzione italiana: CONTENUTO
E COSCIENZA (trad. di G. Mugnaio, Il
Mulino, Bologna 1992) di Daniel C.
Dennet; LA NATURA DELLA MENTE E LA
STRUTTURA DELLA SCIENZA - UNA PROSPETTIVA NEUROCOMPUTAZIONALE (trad. di G.
Farabegoli, introd. di R. Luccio, Il Mulino, Bologna 1992) di Paul M. Churchland; FILOSOFIA DELLA MENTE (trad. di M.
Salucci, Il Mulino, Bologna 1992) di
William Bechtel; LA MENTE DELL’UOMO
(trad. di M. Ricucci, Il Mulino, Bologna
1992) di Anthony J. Sanford.
In questo suo nuovo volume Daniel C.
Dennett, noto studioso, che da tempo si
occupa di I. A. (Intelligenza Artificiale),
propone la “tesi centralista” come tentativo
di mediare un approccio intenzionale allo
studio della mente con l’esigenza ineliminabile della costruzione di teorie estensionali e modelli matematici in grado di descrivere gli eventi mentali più diversi con
un linguaggio “scientifico” e non solo “personalistico”.
Come osserva Riccardo Luccio nell’Introduzione al testo, Paul M. Churchland,
filosofo americano, «incarna in modo quasi eccessivo l’anima del materialismo eliminativista», presentando con entusiasmo
e ottimismo in questo suo nuovo lavoro una
forte teoria connettivista che vede il pensiero come proprietà emergente dall’autorganizzazione di una mente concepita come
rete di unità profondamente interconnesse.
Churchland costruisce un paradigma cognitivo, da sostituire a quello enunciativo
della psicologia del senso comune, fondato
sulle neuroscienze: la mente viene interpretata in termini di reti neurali e le virtù
sovraempiriche della teoria, come la semplicità, la chiarezza, la coerenza e il potere
esplicativo sono di fatto caratteristiche di
funzionamento delle reti neurali.
Il materialismo eliminativista di Churchland è tutt’altro che un rozzo meccanicismo e si avvicina molto a quello che nel
panorama della filosofia della mente , soprattutto americana, prende il nome di
“emergentismo”; con quest’ultimo si sostiene l’impossibilità di parlare di mente
se la complessità strutturale del sistema
nervoso che si considera si pone al di sotto
di un certo livello critico. Il punto di partenza è il modello di sistema nervoso preconizzato da Hebb nel 1949, modello che
prevede la capacità dei neuroni di unirsi in
gruppi chiamati “assembramenti cellulari”; il funzionamento del sistema si collega
non ai singoli neuroni, ma ad interi assembramenti, o a più assembramenti in “sequenza di fase”.
Sia Churchland che Dennett contribuiscono, più o meno consapevolmente, a far
luce sull’evoluzione del problema mente/
corpo, a partire dagli anni ’60 in poi, come
lotta tra una forma radicale di materialismo monistico eliminazionista (teoria dell’identità), una riaffermazione del dualismo (con alla testa personaggi come Popper ed Eccles), l’emergentismo (che forse
è solo una sottospecie della teoria dell’identità) e infine le posizioni funzionalistiche di Putnam e Johnson-Laird, popolari tra gli psicologi cognitivisti e che trovano oggi in Jerry Fodor il loro più lucido e
provocatorio fautore.
Intento, e conseguentemente impostazione
totalmente diversa, hanno i lavori di William Bechtel e Anthony J. Sanford. Bechtel, filosofo americano, sceglie di scrivere in questo suo nuovo studio per i “non
addetti ai lavori” e tenta un semplice e
32
introduttivo approccio storico al problema
della mente, passando attraverso la filosofia antica di Platone e Aristotele, la tradizione scolastica di Ockham, i classici della
filosofia moderna come Descartes, Locke,
Leibniz, Kant, per arrivare alla problematica contemporanea, ampliatasi notevolmente
grazie ai risultati raggiunti dalle varie discipline scientifiche e grazie a filosofi come
Wittgenstein, Dennett, Davidson, Putnam
ecc. Anche in Bechtel, come in Dennett, si
sente l’esigenza di guardare in una prospettiva unificante gli esiti della logica, della
filosofia del linguaggio, della psicologia e
delle neuroscienze, senza trascurare l’importanza che il metodo e le teorie filosofiche rivestono per la scienza cognitiva.
Il lavoro di Sanford ha invece il carattere di
una introduzione alla psicologia cognitiva
più che alla filosofia della mente in generale; punto di partenza è il tema ormai classico del “comprendere la comprensione umana”, tema che l’autore tratta attraverso vari
approcci sperimentali e introspettivi, esplorando le aree dell’attenzione, del ragionamento, dell’apprendimento e della memoria. La mente viene trattata come sistema di
elaborazione delle informazioni e Sanford
si preoccupa di illustrarne i meccanismi di
comprensione del linguaggio e del pensiero attraverso strumenti come l’analogia, le
rappresentazioni mentali e varie procedure
di semplificazione.
Sanford ci invita a mettere in dubbio le
nostre certezze conoscitive, a renderci consapevoli della fallibilità della ragione umana attraverso una più profonda conoscenza
dei nostri modelli di comprensione del
mondo; in sostanza non dobbiamo confondere la sensazione intuitiva della certezza
con la “verità”, perché questo rischia di
limitare le nostre stesse capacità conoscitive. In ultima analisi Sanford illustra l’utilità pratica della conoscenza della mente:
i vantaggi concreti nella vita quotidiana
dell’uomo comune e contemporaneamente il maggior rigore metodologico dello
scienziato. S.B./S.L.
Coerenza di Nietzsche
Davanti alla molteplicità, al carattere
spesso contraddittorio dell’opera di
Friedrich Nietzsche, la critica ha cercato di dare un ordine, classificando
sotto diverse “stagioni” il pensiero di
un filosofo che arrivava a sostenere:
«Io non sono un uomo, sono della
dinamite». A rivendicare l’unità e la
fondamentale coerenza dei suoi testi
sono due saggi di recente pubblicazione in Francia: EXPLOSION I. DE L’ECCE
HOMO DI NIETZSCHE di Sarah Kofman
(Esplosione, I vol. l’Ecce Homo di
Nietzsche, Galilée, Paris 1993) e NIETZSCHE ET LE DÉPASSEMENT DE LA MÉTHAPHISIQUE (Nietzsche e il superamento della
TENDENZE E DIBATTITI
metafisica, Gallimard, Paris 1993), di
Michel Haar.
Torino 1888. Quando si accinge a scrivere
l’Ecce Homo Friedrich Nietzsche ha già
portato a termine l’opera di demolizione
della categoria di soggetto; abbandonata
l’illusione di un sé, un luogo puntuale dove
le diversità si organizzano in un identico, sa
che il molteplice e il contraddittorio dell’esistenza individuale può essere tenuto
assieme soltanto dall’impianto della scrittura. A questo artificio d’ordine Nietzsche
sembra rinunciare, col rischio di restare
inaudito. Così, anche nella forma, Ecce
Homo è qualcosa di diverso da una autobiografia: nessuna linearità; un testo “esploso”, come lo presenta Sarah Kofman, che
«mette in pericolo il mondo», secondo quanto afferma Nietzsche stesso in questa sua
ultima riflessione sul sé, prima di perdersi,
di errare per i territori della follia.
Di fronte alla “coerenza senza unità”
dell’opera nietzscheana, all’esegesi non
è rimasta che la risorsa di dare valore
fondativo, di innalzare a principi alcune
finzioni: la volontà di potenza, il Superuomo, l’Eterno ritorno; senza considerare il fatto che nessuna di queste vuole,
né può generare un orizzonte che possa
valere come normativo o legittimante.
Come rileva Michel Haar nel suo recente studio: Nietzsche et le dépassement de
la métaphisique, la stessa lettura di
Heidegger, che fa di Nietzsche il compimento della metafisica nel momento in
cui ne rovescia le categorie e denuncia il
platonismo fondamentale di ogni costrutto metafisico, mantiene il pensiero nietzscheano all’interno dello stesso orizzonte che tale pensiero voleva sovvertire.
Haar è invece convinto che la posizione
di Nietzsche «non si riduce ad un controplatonismo», dal momento che il corpo
(la grande ragione, come dice Zarathustra) e le sue energie pulsionali, nel momento in cui producono i valori, nascondono la loro origine e il loro cominciamento assoluto. Il “mondo dietro il mondo” rimane definitivamente insondabile, mentre l’esistenza vive nel gioco delle apparenze. Il “sì alla vita” nietzscheano, conclude Haar nella sua prefazione, è
la forza di assumere la necessità dell’imperfezione, del negativo e infine del dolore, con quel sentimento di “tragica gioia”
che, del tutto, vuole l’eternità. E.N.
Marxismo ed ecologia
Tra i tentativi di rivisitare il pensiero
marxiano alla luce delle problematiche contemporanee, uno dei più interessanti è certo quello “ecomarxista”. A partire dalla pubblicazione
del saggio di James O’ Connor su
CAPITALISME, NATURE , SOCIALISM (1988;
trad. it. L’ecomarxismo. Introduzio-
ne ad una teoria, Roma 1989), gli
studi sull’argomento si sono moltiplicati. Tra i più recenti segnaliamo
quelli contenuti nel “Dossier” del n.
12 di “Actuel Marx” (II semestre
1992), dedicato a L’ÉCOLOGIE, CE MA TÉRIALISME HISTORIQUE, e nei nn. 6 e 7
della rivista “Capitalismo Natura
Socialismo” (ed. it. di “Capitalism,
Nature, Socialism”, fondata nel 1988
dallo stesso O’ Connor).
La questione fondamentale attorno alla
quale ruotano molti dei saggi qui esaminati
è la seguente: la responsabilità del dissidio
storicamente verificatosi tra marxismo ed
ecologia è da imputare al fondatore del
materialismo storico o ai suoi prosecutori,
che non avrebbero sviluppato gli spunti
“ecologisti” contenuti nella sua critica al
capitalismo? Gli intervenuti propendono
generalmente per la seconda ipotesi, tendendo ad assolvere Karl Marx dall’accusa
di aver portato alle estreme conseguenze il
mito prometeico del produttivismo e riconoscendo la capacità del marxismo, previo
l’innesto sul suo tronco di altri filoni del
pensiero contemporaneo (Weber, Polany,
Habermas, Elias, Hayek, Durkheim, LeviStrauss) e la rimozione degli aspetti più
caduchi della dottrina, a fondare una critica
ecologica della società, i cui prodromi si
ritroverebbero già nei marxiani Manoscritti economico-filosofici del ‘44.
In particolare, in “Actuel Marx”, Ted Benton (“Marxisme et limites naturalles: critique et reconstrution écologiques”) ritiene
che Marx ed Engels, nonostante il loro
“naturalismo” e “materialismo”, abbiano
trascurato il fatto che il lavoro non è solo
“trasformazione”, ma anche “appropriazione” delle risorse naturali: anch’esse dunque andrebbero riprodotte, e non solo sfruttate; tuttavia il programma marxiano di
“ecologia della specie umana” contiene in
sé gli elementi per una critica ecologica e
sociale del capitalismo. Dello stesso avviso è anche Jacques Bidet (“Y a-t-il une
écologie marxiste?”), il quale attribuisce le
“carenze ecologiche” del marxismo alla
sottovalutazione del mercato e all’utopia di
una sua sostituzione integrale da parte della
pianificazione, riassumendo le argomentazioni contenute nella sua recente Théorie
de la modernité (trad. it. Teoria della modernità, Editori Riuniti, Roma 1992).
James O’ Connor (“La seconde contradiction du capitalisme: cause et consequences”) analizza invece lo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente come elemento
decisivo per sostenere gli alti tassi di sviluppo attuali, ma nello stesso tempo anche
causa del sorgere di una serie di movimenti
di opposizione al sistema in tutto il mondo.
La contraddizione tra produzione e natura,
alla quale O’ Connor attribuisce le ricorrenti “crisi da domanda” e “crisi da aumento dei costi” del sistema economico contemporaneo, è stata al centro del dibattito
anche nel n. 6 di “Capitalismo Natura So33
cialismo”, con interventi tra gli altri di
Amin, Altvater, Lebowitz; alcuni ritengono non più praticabile la proposta di
soluzione al problema presentata dallo stesso O’ Connor, consistente nell’attribuire
allo Stato un ruolo sempre maggiore nella
programmazione economica, dopo le esperienze negative di questo secolo. Del resto
è naturale che proprio nel passaggio dall’analisi teorica al piano pratico i contrasti
si manifestino più acuti; così in “Actuel
Marx”, André Gorz (“L’ecologie politique entre expertocratie et autolimitation”)
vede il movimento ecologico diviso tra
un’ala tecnocratica (raccolta intorno al “club
di Roma”), che intende imporre dall’alto
comportamenti ecocompatibili in nome di
principi sedicenti scientifici (erede in questo del peggiore “diamat”), ed un’ala democratica che vuole lottare contro lo sfruttamento capitalista di natura ed individui,
con l’obiettivo di una società autogestita
sulla base dell’autolimitazione di bisogni e
consumi, secondo un “principio di sufficienza” che garantisca a tutti maggiore
libertà, sicurezza e tempo libero. Analogamente, in “Capitalismo Natura Socialismo”,
Fabio Giovannini (“La democrazia fa bene
all’ambiente”) intende opporsi a quella parte
del movimento ecologico che ritiene irrilevante la scelta tra democrazia ed autoritarismo quali mezzi per salvare il pianeta; la
seconda opzione può richiamarsi da un
punto di vista teorico alle tesi di Hans
Jonas (Il principio responsabilità, Torino
1979) e Vittorio Hösle (Filosofia della
crisi ecologica, Torino 1992), che giunge
perfino ad ipotizzare l’avvento di un “ecodittatore”.
Sullo stesso numero di “Capitalismo Natura Socialismo” viene inoltre presentato e
commentato il testo inedito di una conferenza tenuta da Herbert Marcuse all’Università di Berkeley nel ’79 (l’anno della sua
morte), in cui, per spiegare gli opposti
istinti umani alla difesa e alla distruzione
della natura, il filosofo tedesco faceva ricorso, oltre all’economia, ai concetti freudiani di Eros e Thanatos, giungendo alla
conclusione che quello ecologico è «un
movimento politico e psicologico di liberazione». L’aspetto psicologico della questione è esaminato anche da Denis Duclos
in “Actuel Marx” (“La nature: principale
contradiction culturelle du capitalisme?”),
che vede nella scomparsa della frontiera tra
natura e cultura la conseguenza principale
dello sforzo di conciliazione tra capitalismo ed ecologia, simboleggiato dal mitomostro del riciclaggio, moderno corrispondente di incesto e cannibalismo.
Prosegue infine su “Capitalismo Natura
Socialismo” la discussione intorno alla proposta di Giorgio Nebbia, presentata sul n.
4 della stessa rivista, di un “manifesto per
un’ecologia socialista”. Lo stesso Nebbia,
insieme a Tiziano Bagarolo, Giuseppe
Prestipino, Laura Conti, recentemente
scomparsa, e altri, interviene su “Marxismo ed ecologia” anche nel n. 10 di “Giano”, un’altra rivista da sempre attenta a
queste tematiche, che sono state anche al
TENDENZE E DIBATTITI
Diritto di replica:
Sulla “Volontà di potenza”
di Nietzsche
La recente riedizione italiana a cura di
Maurizio Ferraris e di Pietro Kobau, su
suggerimento di Pier Aldo Rovatti, di
un’opera postuma di Friedrich Nietzsche, LA VOLONTÀ DI POTENZA. SAGGIO DI
UNA TRASVALUTAZIONE DI TUTTI I VALORI
(Bompiani, Milano 1992), che riprende, rivedendola, la traduzione del 1927
di Angelo Treves per l’editore Monanni di Milano, ha sollevato tra gli studiosi e gli interpreti dell’opera nietzscheana un’ampia polemica, dai toni
talvolta aspri e intransigenti, che ha
trovato spazio, a più riprese, sulle pagine di molti tra i maggiori giornali
quotidiani italiani. Poiché crediamo che
anche le polemiche, una volta composte, giovino alla comprensione di
un’opera, di un pensiero, abbiamo raccolto e articolato qui di seguito in
forma documentativa le obiezioni e
considerazioni critiche intervenute in
questa polemica, lasciando poi ad uno
degli autori chiamati in causa, Maurizio Ferraris, la possibilità di un’ultima
replica.
Alla base della polemica vi è la vicenda
editoriale tormentata, e per certi aspetti
ancora oscura, che determinò e segnò
profondamente, nel contesto del programma di edizione del Nachlass
nietzscheano promosso dal “Nietzsche-Archiv”, la pubblicazione originaria di quest’opera in 1067 pseudoaforismi, apparsa per la prima volta nel
1906, presso l’editore Naumann di Lipsia, con il titolo: Der Wille zur
Macht. Versuch einer Umwerthung aller Werthe (“Taschenausgabe”, voll. IX e X), a cura di Elisabeth
Förster Nietzsche, sorella del filosofo,
e Peter Gast (pseudonimo di Heinrich
Köselitz), discepolo e devoto amico di
Nietzsche. Nel 1911 essa venne ristampata in edizione canonica, inalterata
nel testo, ma ampliata negli apparati,
presso l’editore Kröner di Stoccarda
(“Gross-Oktav-Ausgabe”, voll. XV e
XVI), a cura di Otto Weiss, già editore
di Schelling.
La controversia editoriale che condizionò quest’edizione fu determinata
dal fatto che di quest’opera Nietzsche
aveva solo redatto, a partire dal 1885,
una serie di dichiarazioni d’intenti,
abbozzi programmatici e annunci di
pubblicazione, predisponendo inizialmente a tale scopo una raccolta di 372
frammenti, numerati e organizzati secondo una Rubrik. Su questo nucleo
originario di materiali sono intervenuti i vari curatori, che interpretando l’intento di Nietzsche secondo presupposti e prospettive tra loro diversi, contingenti, se non talvolta vagamente
difformi rispetto all’intenzione originaria del filosofo, hanno portato l’opera alla pubblicazione, adottando innanzitutto, come criterio strutturale,
l’ordinamento tematico dei frammenti, e non quello cronologico-sistematico, e ampliando di conseguenza, sia in
avanti, che indietro, il periodo di pertinenza del materiale. Così, nel 1901, si
arriva alla pubblicazione, già con il
titolo di Der Wille zur Macht, di una
prima raccolta di 483 pseudoaforismi
(dove peraltro non tutti i 372 frammenti ordinati da Nietzsche sono contenuti), curata da Peter Gast e da Ernst ed
August Horneffer (“Gross-Oktav-Ausgabe”, vol. XV), a cui succede l’edizione definitiva, in 1067 pseudoaforismi (dove in misura ancora minore
sono presenti i 372 frammenti originari), del 1906 e del 1911.
Le controversie sull’autorità e validità
dell’opera, e dunque sulle responsabilità dei curatori, che tali esiti editoriali
già allora sollevarono, sono di fatto
anche all’origine della polemica che
oggi investe la recente riedizione italiana de La volontà di potenza,
tanto più se si considera che l’edizione
storico-critica dell’opera omnia di
Nietzsche, avviata negli anni ’30 dalla
stessa Elisabeth Förster Nietzsche presso l’editore Beck di Monaco di Baviera
e ripresa negli anni ’60 da Giorgio Colli
e Mazzino Montinari per l’editore Adelphi in Italia, Gallimard in Francia e de
Gruyter in Germania, ha necessariamente assorbito nell’ordine cronologico dei Frammenti postumi
(Nietzsche-Werke / Nietzsche, Opere) la compilazione degli stessi confluita in origine nelle varie edizioni
di Der Wille zur Macht, sgretolando l’identità di quest’opera.
Proprio in relazione a quest’ordine di
considerazioni si è sviluppata una delle principali obiezioni che hanno caratterizzato la polemica intorno alla
riedizione de La volontà di potenza, proposta da Maurizio Ferraris e
Pietro Kobau.
L’ “operazione editoriale”, come è stata definita questa riedizione, è apparsa
di fatto, pur se storicamente lecita, non
sufficientemente caratterizzata in senso storico-documentario, dopo che
l’edizione storico-critica di Colli e Montinari (quest’ultimo, peraltro, non ave34
va tuttavia escluso l’ipotesi di una pubblicazione separata, come documento
storico, de La volontà di potenza)
aveva sancito, in forma filologicamente rigorosa, il testo, la cronologia e
l’ambito tematico di pertinenza di ciascun frammento all’interno della produzione di pensiero di Nietzsche confluita nei cosiddetti Frammenti postumi, e indirettamente nell’Anticristo e nel Crepuscolo degli idoli.
Tra gli argomenti a sostegno di questa
obiezione domina innanzitutto la ripresa dell’accusa di arbitrio, faziosità e
falsificazione, che in più modi fu rivolta a Elisabeth Förster Nietzsche in rapporto alla scelta, compilazione e distribuzione dei frammenti per l’edizione
di Der Wille zur Macht del 1906, in
cui, tra i vari piani dell’opera abbozzati
da Nietzsche, veniva fatto riferimento
esclusivamente a quello di Nizza del 17
marzo 1887, e in cui, oltre all’occultamento e smembramento di testi, venivano mescolati sistematicamente
frammenti di periodi diversi.
L’insieme di queste accuse rendono la
Volontà di potenza un puro documento storico di fronte all’impresa storico-critica, realizzata da Colli e Montinari, di presentare i testi nella forma e
nella successione, filologicamente corrette, in cui sono tramandati dai manoscritti. E proprio sulla validità storicodocumentaria dell’apparato di commento e note, a cui pure fa seguito una
“tavola di concordanza” tra le varie
edizioni dei frammenti, si concentrano
di fatto la maggior parte delle critiche
alla riedizione italiana de La volontà
di potenza. Alla lunga postfazione di
Maurizio Ferraris, Storia della volontà di potenza, che accompagna
questa pubblicazione, viene in particolare rimproverato di non fornire un
orientamento sufficientemente documentato nella diversità del materiale
di cui si compone la Volontà di
potenza, costituito da frammenti di
rilevante contenuto filosofico, abbozzi, varianti, materiale preparatorio di
opere pubblicate da Nietzsche stesso,
riflessioni e appunti a margine di letture, trascrizioni di brani di altri autori,
che in misura ovviamente diversa hanno subito poi l’intervento dei curatori
dell’opera originale.
Tuttavia il taglio biografico-ermeneutico adottato da Ferraris nella sua postfazione, in cui un certo tipo di “cronologia” viene elevato al rango di genere letterario attraverso l’uso dei
materiali e il modo della scrittura, si
mostra più incline, come è stato osservato, a dar conto della storia degli
effetti suscitati dalla ricezione di quest’opera, la cui contraddittorietà filosofica, la rischiosa inquietudine, il gioco di aperture e chiusure costituiscono
non tanto il limite, quanto il carattere
TENDENZE E DIBATTITI
di attualità proprio della proposta di
pensiero nietzscheana. Da questo punto di vista la Volontà di potenza si
presenterebbe come opera in sé - e
come tale, secondo alcuni, dovrebbe
innanzitutto essere giudicata - per l’intima connessione che la lega ai suoi
effetti: da un lato, il peso di quest’opera sulla grande cultura filosofica del
nostro secolo, a cominciare dall’interpretazione di Nietzsche elaborata da
Heidegger alla fine degli anni ’30; dall’altro il ruolo stesso della concezione
che sta alla base di quest’opera come
progetto fondamentale all’interno dell’ultima produzione di pensiero di Nietzsche, che testimonia del preciso intento del filosofo di concentrare in un’opera sulla “trasvalutazione di tutti i valori” quanto era stato annunciato con lo
Zarathustra. Tuttavia, troppo semplificante, se non addirittura deviante,
è apparsa ad alcuni critici la linea interpretativa proposta da Ferraris, che secondo una prospettiva teleologica collegherebbe il giovanile studio di Nietzsche su Teognide al Wille zur Macht, per cui la centralità dell’idea di
volontà di potenza verrebbe a identificarsi con una sorta di “radicalismo
aristocratico”, con il rischio di consegnare di nuovo il pensiero nietzscheano alla lunga e insistita strumentalizzazione nazista di cui già fu vittima.
All’ipotesi di un Nietzsche potenziale
precursore del nazismo, che la proposta interpretativa di Ferraris, come è
stato obiettato, parrebbe pericolosamente avallare, è necessario opporre,
secondo alcuni, le responsabilità personali della sorella del filosofo, Elisabeth Förster Nietzsche, che nell’opera
di manipolazione e compilazione dei
frammenti per l’edizione del 1906 di
Der Wille zur Macht sarebbe intervenuta arbitrariamente con scelte,
smembramenti, inclusioni e occultamenti di testi, tali da contribuire al
consolidarsi tra gli interpreti dell’idea
di un fondo antisemitico del pensiero
nietzscheano, direttamente conseguente dall’aristocraticismo iperbolico di Nietzsche, dalle sue requisitorie
contro i deboli e gli oppressi, a favore
dei signori. Se anche, come è stato
osservato, il sottolineare l’irriducibilità degli elementi di durezza aristocratica della concezione nietzscheana non
significa consegnarla, in modo semplicistico, all’ideologia nazionalsocialista, pure una tale operazione recupera e attualizza un Nietzsche “mitico”,
lontano dal confrontarsi con il contesto culturale della sua epoca, con le
posizioni antidemocratiche di pensatori a lui contemporanei; un confronto
che solo potrebbe mettere in chiaro il
potenziale critico del suo pensiero. Da
un tale punto di vista la Volontà di
potenza rappresenterebbe nient’altro
che lo specchio della sua epoca, della
crisi di valori dell’Europa, a cui Nietzsche reagisce auspicando il trionfo dei
forti, portatori di valori, degli aristocratici, contro i deboli, fautori della
cultura di massa, del democraticismo,
del socialismo. E se anche, come è
stato osservato, da questa comprensione del mondo in quanto lotta e interazione di individuali volontà di potenza si volesse dedurre una sostanza
metafisica, che “celebri” la volontà di
potenza come “fondamento del reale”, questo non spiegherebbe ancora
il fatto che in Nietzsche l’entrata nel
“male del pensiero” implichi l’uscita
nel “Terzo Reich”.
In risposta a questa serie di obiezioni si
è osservato che considerare l’antisemitismo nietzscheano come fatto secondario, o comunque relativo, secondo quell’atteggiamento diffuso che distingue nelle grandi figure della cultura occidentale tra ciò che è essenziale
della loro opera e ciò che è caduco,
significa non distinguere tra patologia
e ideologia; una distinzione, che nello
specifico del significato attuale di
un’opera controversa come la Volontà di potenza non solo ne giustificherebbe la pubblicazione sul piano
della storia della ricezione di Nietzsche, ma ne convaliderebbe ulteriormente il carattere di documento storico. Di fatto, così è stato osservato,
l’inquadramento del pensiero nietzscheano all’interno di una prospettiva
che in definitiva si sarebbe rivelata di
stampo nazista è un atto ideologico di
strumentalizzazione, sia pur giustificato da un processo patologico di corruzione del pensiero, che sebbene abbia
dato adito ad una tale distorsione, ha
notevolmente arricchito il significato
di quel pensiero sul piano speculativo.
In tal senso, è stato notato, non si può
non riconoscere che nella concezione
della volontà di potenza, come in quella dell’eterno ritorno, che insieme caratterizzano nel segno della trasvalutazione l’epoca dello Zarathustra, è
all’opera la ricerca di Nietzsche della
“redenzione dalla redenzione”, della
“fine della promessa”. Il non rendersi
conto che con questo ci si trova di
fronte ad un pensiero che vuole essere
“al di là del bene e del male”, al di là di
qualsiasi concezione etica, significa rinchiudere la volontà di potenza all’interno di uno psicologismo che s’illude
di vedere ancora nell’uomo il soggetto
delle proprie scelte, l’artefice del proprio destino. L’impossibilità di una tale
chiusura, che è anche quella, come è
stato osservato, del significato nella
forma, ovvero della forma su se stessa, che dà luogo al sorgere del senso,
è appunto l’esperienza fondamentale
che emerge dalla Volontà di potenza, l’esperienza del nichilismo come
35
risposta alla crisi dell’idea di cultura.
Ma la perdita di cogenza della forma
ne implica l’imposizione autoritaria a
un universo che non si lascia
più rinchiudere in un orizzonte
fisso: da qui appunto l’aristocraticismo e l’antidemocraticismo di Nietzsche. R.R.
La vicenda editoriale della Volontà di
potenza è tormentata per quello che è
successo dopo, ci fosse o no quella compilazione, fuori o dentro l’Archivio, con
o senza Elisabeth - e in una storia che è
anche nostra; ma non è affatto oscura, né
lo è stata sin dal 1906, quando, in vivacissime polemiche, si seppe tutto l’essenziale; un essenziale che, per motivi
che mi risultano parzialmente inspiegabili, sembra risorgere periodicamente
come una rivelazione assoluta. August
ed Ernst Horneffer polemizzano all’inizio del secolo, Podach negli anni Trenta,
Schlechta negli anni Cinquanta, Colli e
Montinari negli anni Sessanta; tutti dicono le stesse cose, e cioè che la Volontà
di potenza, come del resto risulta chiarissimamente dall’apparato della edizione Weiss nella Gross-Oktav (1911) non
segue un ordine cronologico e compie
accorpamenti arbitrari. E’ quello che,
ovviamente, dico anch’io.
Per non iterare un discorso già troppe
volte ripetuto, mi limito a citare quanto
scrivo (tra molte altre cose, anche relative alla vicenda editoriale) nella mia cronologia: «Ecco allora che cosa hanno
sempre saputo in molti, i redattori dell’Archivio e i loro nemici, e che parve
invece riemergere di tempo in tempo
come una apocalisse. 1. Elisabeth e Gast
nel 1906, estendendo la compilazione di
Gast e Ernst e August Horneffer del
1901, hanno ordinato in modo tematico,
appoggiandosi al piano abbozzato da
Nietzsche nel marzo ’87, ai 372 frammenti numerati dell’autunno di quell’anno e alla rubrica relativa, ma spaziando
dal 1883 al 1888, ciò che in buona regola
filologica avrebbe dovuto essere disposto cronologicamente. Non si trattò di
una decisione incontrastata, e sin dall’inizio ci furono discussioni nell’Archivio e fuori, baruffe pubbliche e universalmente note. Fu inoltre un patto più
o meno scellerato stretto tra due, Gast e
Elisabeth, che non si amavano, gelosi
dell’amico e fratello, rivali sul lascito,
dalla cui gestione il musicista era stato
allontanato in malo modo per sei anni; si
può ragionevolmente pensare che dei
falsi ideologici si potessero orchestrare
in una circostanza del genere? Tornando
al Wille zur Macht, si noti però che la
classificazione arbitraria non escludeva
l’edizione di altri frammenti nei voll.
XIII e XIV (1903 e 1904, dunque prima
di Wille zur Macht2) della Gross-Oktav
relativi al “periodo della trasvalutazione” (1882/3-1888); che in ogni edizione
TENDENZE E DIBATTITI
del Wille zur Macht, con punte in Weiss
e in Würzbach, vennero pubblicati altri
piani; e che nel 1901, nella pagina a
destra del frontespizio, si poteva leggere: Nachgelassene Werke / Der Wille zur
Macht / Versuch einer Umwerthung aller Werthe / (Studien und Fragmente) /
von / Friedrich Nietzsche. Studi e frammenti, dunque, non opere definitive. Questa è stata la scelta decisiva, dettata dai
motivi più diversi, fossero l’interesse
venale, l’esigenza di rispondere alle attese del pubblico, il (presunto) pregiudizio del sistema o altro. Tutto il resto,
come nella settima proposizione della
‘legge contro il cristianesimo’, ‘segue
da ciò’. Ossia: 2. La decisione di accorpare frammenti di epoche diverse. Il terminus a quo, l’anno 1883, non è del resto
privo di motivi, visto che il progetto di
un’opera teoretica accompagna e segue
la stesura dello Zarathustra. 3. Quella di
comporre con frammenti diversi (e in
rari casi con materiale allotrio ma comunque di Nietzsche, come brani di lettere o avantesti di altre opere) uno pseudoaforisma o, inversamente, di frammentare un testo continuo per cavarne
più ‘aforismi’. 4. Quella di sostenere (in
un complicato rapporto con il pregiudizio del sistema) che il Wille zur Macht,
capo d’opera sistematico, sarebbe stato
però composto non di testi continui di
cui ci restano abbozzi preparatori, ma
per l’appunto di aforismi, secondo il
modello rifiutato o superato già nella
Genealogia della morale, e che riappare
parzialmente nelle opere del 1888. 5. La
scelta di cassare dei frammenti, per esempio dalla lista dei 372, che risultassero
incompleti, o ripetitivi, o ‘poco filosofici’, ossia contrastanti con l’autoconclusività dell’aforisma o con la pretesa di
un piano organico.» (pp. 611-12).
Una volta appurato, come è risaputo da
quasi novant’anni, ossia appunto dall’apparire della Volontà di potenza, che
non si tratta di un’opera voluta da Nietzsche, né soprattutto voluta in quel modo,
mi sembra inutile passare dalla storia
alla psicologia e chiedersi se la compilazione rispecchiasse o meno le sue intenzioni. Ovviamente non le rispecchia, nel
senso che Elisabeth e Gast non le conoscevano così come non le conosciamo
noi. Ma proprio per questo non possiamo nemmeno semplicemente dire che le
falsifica. I testi presenti sono tutti di
pugno di Nietzsche, mentre una diffusa
leggenda voleva che ci fossero delle aggiunte antisemite o protonaziste (termine che mi resta sostanzialmente oscuro:
se si vuol dire che il Wille zur Macht esce
25 anni prima dell’ascesa al potere di
Hitler, dovremmo concluderne che allora una qualunque opera apparsa nel 1970,
ossia 25 anni dopo la capitolazione, è
tardonazista). Poi, Nietzsche non era an-
Friedrich Nietzsche, 1882
36
tisemita, ma platealmente filosemita, e
questo è largamente attestato nel Wille
zur Macht confezionato da Elisabeth e
da Gast. Come la poesia, così la filologia e la filosofia non si fanno con le
buone o cattive intenzioni. Se assurdo è
concludere che Nietzsche avrebbe fatto
il Wille zur Macht nel modo in cui lo
hanno combinato Elisabeth e Gast, tanto
più assurdo - già sul piano meramente
algebrico - è escludere che non lo avrebbe fatto in qualunque altro modo. La
verità è che non ne sappiamo nulla.
Su altre questioni sappiamo invece moltissimo. Conosciamo la tragedia di Nietzsche e soprattutto la catastrofe della Germania e dell’Europa (non lo si scordi,
per non attribuire a un solo popolo un
male che ci riguarda tutti). Conosciamo
il tentativo (sostanzialmente fallito) di
arruolare Nietzsche (tutto Nietzsche, non
solo quest’opera) nel Terzo Reich; conosciamo il tentativo postbellico o di
proscriverlo, oppure di addossare le responsabilità del male che è in lui alla
sorella. Conosciamo, ed è un esperimento alla portata di chiunque abbia la pazienza di farlo, la coerenza di pensiero
tra i frammenti postumi ordinati cronologicamente, la compilazione tematica
di Elisabeth e di Gast, e le opere pubblicate da Nietzsche. Mentre sulle intenzioni di Nietzsche ragionare non ha senso, ragionare su quest’ultima circostanza di senso ne ha alquanto. Nietzsche ha
scritto cose tremende. Possiamo dirlo,
senza con questo sposare il partito di
Bäumler, né quello di Lukács (che restano differenti, e nella scelta, che fortunatamente non si porrà mai, sarei per
Lukács); dobbiamo dirlo, per non cadere
nell’equivoco di ammansire Nietzsche
sino a renderlo irriconoscibile.
In quel male (e qui si passa al contesto,
alla storia e alla filosofia, visto che grazie a Dio non siamo in un tribunale: per
questo preferisco la democrazia e il giornalismo che d’altra parte, e per motivi
non futili, Nietzsche biasimava), non è
stato il solo: si pensi a Baudelaire e a
Dostoevskij. E’ il segno di una crisi
europea da cui dubito che si sia usciti, e
da cui dubito specialmente che se ne
esca dicendo che Nietzsche non ha mai
scritto certe cose, oppure sostenendo che
Auschwitz è un caso, oppure (o peggio)
che è il semplice segno di una fatalità
faustiana del popolo tedesco. Il modo
migliore per capire è, credo, non bendarsi gli occhi.
E’ quello che cerco di fare nella mia
cronologia. E’ così semplice da intendersi. Si dà un testo di cui non si nasconde, e sin dalla copertina (“Frammenti
postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche”), il carattere
compilativo; si danno le concordanze
con i postumi, in modo che ogni uomo di
buona volontà possa ragguagliarsi sul
genere di interventi dei curatori del 1906;
TENDENZE E DIBATTITI
Abbozzo per il Wille Zur Macht, Sils Maria 1888; Elisabeth Förster Nietzsche, 1916
si racconta la gestazione del concetto in
Nietzsche, la storia dell’Archivio, le vicende e le interpretazioni prebelliche e
postbelliche. Soprattutto, si dà un testo
che è stato letto da Heidegger e non da
Hitler. Ma se anche lo avesse letto, invece di leggere Schopenhauer, crediamo
davvero che sarebbe cambiato qualcosa? E siamo davvero tanto speranzosi
(“animali speranzosi”, così Nietzsche
chiamò una volta i filologi) da pensare
che una edizione storico-critica avrebbe
inibito l’abuso? Questo è tanto poco vero
che una edizione storico-critica, non
meno esigente e rigorosa della ColliMontinari, fu avviata da Elisabeth e proseguì nella Germania di Hitler, e fu interrotta non da Goebbels, ma dalla disfatta tedesca.
Ora, resta per me moralmente inesplicabile che non si riesca a intendere qualcosa che, razionalmente e intellettualmente, è tanto semplice: il fatto, cioè, che la
voglia di non bendarsi gli occhi rispetto
alle durezze e agli abissi di un autore,
Nietzsche, che per altri versi si ama, non
significa in nessun modo approvare quelle durezze. Del resto non c’è scelta, le
alternative essendo la credula cecità o la
condanna non meno cieca. Si rifletta, per
analogia, sul caso di Machiavelli. Il suo
nome è stato associato a tutti i machiavelli e alle basse storie di cui si è nutrita
la crisi europea, e specialmente italiana.
Ovvio che lui non ne è il responsabile.
Ma proprio perché non ne è il responsabile, non c’è assolutamente bisogno di
angelicarlo; Machiavelli resta colui che
non ha esitato a sputar fiele sul morto
Pier Soderini. Così Nietzsche. Ovvio che
non ha mai fabbricato un Lager; ma proprio per questo, non c’è affatto bisogno
di negare che il male che compare con
tanta violenza in tante sue pagine è il
frutto di una falsificazione dell’eredità o
di un equivoco ermeneutico. «Lo “sfruttamento” non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso
concerne l’essenza del vivente, in quanto funzione organica, è una conseguenza
di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. Ammesso che questa, come teoria, sia
una novità - come realtà è il fatto originario di tutta la storia: si sia fino a questo
punto sinceri con se stessi» (Al di là del
bene e del male). Questo, Nietzsche l’ha
scritto nel pieno possesso delle sue facoltà. Possiamo far finta che non l’abbia
scritto; possiamo dire che la volontà di
potenza è un concetto essoterico e pubblicitario (bella pubblicità!). Oppure possiamo dire che lo ha scritto, e chiederci
che cosa volesse dire. Non espressamente, visto che il significato letterale di
questa frase è davvero troppo chiaro. Ma
chiederci perché lo scrivesse, e che morale dobbiamo trarne noialtri. Ecco il
37
contesto, storico e non solo storico. E’
chiaro che Nietzsche non scriveva queste cose per semplice cattiveria o per
cruda bestialità; ma se questo è vero,
allora il male è nello spirito più grande,
e non potremo consolarci pensando che
sia appannaggio dei bruti. Chi non ama
Baudelaire? Eppure lui (e non Nietzsche) era davvero antisemita, e fantasticava di una congiura per sterminare gli
ebrei, “bibliotecari e testimoni della
Redenzione”. Il curatore delle opere nella Pléiade commenta quel passo dicendo
che è di difficile interpretazione, e che
ogni antisemitismo è da escludersi. Bell’affare! Lo stesso che risuona in chi
pretende che il male di Nietzsche non è
affar suo, ma di sua sorella.
E’ quanto scrivo nella quarta di copertina: «E se anche la lode del terrore e dello
sfruttamento - uguale in questi frammenti 1883-1888 ordinati dalla sorella e
dal discepolo e copista Peter Gast così
come in opere che Nietzsche pubblicò
nel pieno dei suoi spiriti - sembra precorrere Auschwitz, non è un buon motivo per accusare la sorella-parafulmine, e
per dire che Nietzsche non avrebbe mai
voluto o pensato La volontà di potenza.
Esiste insomma un male dello spirito, e
si avrebbe torto addossandolo ai poveri
di spirito soltanto, pena sottoscrivere
proprio quel male che traspare sotto il
nome di Volontà di potenza.» Se non
facciamo i conti anche con questo, ci
ritroveremo sempre a stupirci del male
PROSPETTIVE DI RICERCA
Pagina con iniziale miniata di un manoscritto del XIV sec.
38
PROSPETTIVE DI RICERCA
PROSPETTIVE DI RICERCA
La logica di Ockham
E’ rilevante, per accuratezza e ampiezza dell’apparato critico, la prima
edizione italiana della SUMMA LOGICAE
di Guglielmo di Ockham, che compare col titolo: LOGICA DEI TERMINI (traduzione, introduzione, note e indici di
Paola Müller, Rusconi, Milano 1992).
L’opera segna una svolta all’interno,
più che della logica, della filosofia
medievale, marcando in essa, in modo
nuovo, la differenza tra logica antiqua
e logica modernorum, e aprendo la
strada alla considerazione semantica.
Vexata quaestio all’interno della bibliografia critica dedicata a Guglielmo di
Ockham, è il tentativo di stabilire il legame fra la sua impostazione logica e quella
ontologica da una parte, e le prese di posizione politiche dall’altra. Come è noto, da
un punto di vista biografico si può riscontrare una cesura fra gli studi di carattere
più esplicitamente filosofico e teologico e
quelli invece di carattere politico ed ecclesiologico, in coincidenza con la fuga di
Ockham da Avignone, a seguito del contrasto con Giovanni XXII, e il successivo
asilo presso l’imperatore Ludovico il Bavaro. Da quel momento Guglielmo, francescano, sostenitore della povertà della Chiesa, si dedica soprattutto a trarre da questo
precetto evangelico l’estrema conseguenza relativa alla negazione della legittimità
del potere temporale della Chiesa, finalizzando questa tesi a quella dell’indipendenza del potere civile da quello ecclesiastico.
Dal punto di vista gnoseologico, il fondamento di queste posizioni risiede nella distinzione tra conoscenza razionale e fede;
la prima, che può essere intuitiva o astrattiva, pone capo a verità che non possono
essere confutate dalla fede. E’ proprio nell’articolazione della conoscenza che il terminismo ockhamiano trova le proprie radici. Guglielmo sostiene infatti il primato
della conoscenza intuitiva nei confronti di
quella astrattiva sulla base del fatto che la
prima, per ciò che concerne gli enti naturali
(escludendo, dunque, quelli la cui esistenza è materia di fede), presuppone l’esistenza dell’oggetto intenzionato. La notitia in-
tuitiva, cioè questo tipo di conoscenza, è
sempre singolare, poiché nessuno degli enti
naturali è un universale. Ma se questo è il
percorso teorico che dall’affermazione
ontologica della singolarità degli enti risale, dal punto di vista logico, al nominalismo, dal punto di vista storiografico il
cammino compiuto da Ockham segue la
direzione opposta, prendendo avvio dalle
posizioni del nominalismo logico, a cui
conferisce un significato esplicitamente
ontologico. Qui risiede la “svolta ockhamiana”, la sua novità, che in prima istanza
non riguarda tanto la logica, quanto la riflessione filosofica nel suo complesso.
Il nominalismo logico di Ockham non presenta, in quanto tale, motivi di novità sostanziale nei confronti delle posizioni nominaliste del Duecento e, in ultima analisi,
non consiste altro che nella definizione
della logica come scienza “formale”. Ma
quando, con Guglielmo, il nominalismo
diventa una posizione filosofica, ponendo
capo alla tesi del carattere singolare degli
oggetti di natura, vanno in crisi proprio i
modelli metafisici precedenti, tanto gli
essenzialismi platonico-agostiniani, quanto il modello concordista del tomismo. Per
questo la logica modernorum, di cui Ockham è iniziatore, prima che capitolo di
storia della logica, è momento di svolta
all’interno della metafisica. Il “rasoio di
Ockham”, o principio di economia, secondo il quale occorre non introdurre più enti
di quanto non sia necessario alla spiegazione di fenomeni, porta così il filosofo a
precorrere la critica humeana al concetto
di sostanza; analogamente, grazie al suo
“rasoio”, anche il “volontarismo teologico”, cioè la tesi relativa all’assoluta libertà
di Dio, discende dalla critica di Ockham
alla causalità teleologica.
D’altra parte, come mostra Paola Müller in modo estremamente puntuale nella sua Introduzione, rilevanti e decisive
sono le innovazioni che con Ockham si
aprono allo strumento logico formale
medesimo, quasi come ricaduta dell’impostazione metafisica. Così la sua teoria
della significazione, inserita all’interno
della discussione sulla natura (“significativa”) dei termini, e quella della supposizione, che per Ockham consiste nella «proprietà di un termine in un contesto proposizionale», costituiscono spunti teorici rilevanti anche
39 per la semiotica
contemporanea. F.C
Emil Lask:
la logica della filosofia
Nello studio EMIL LASKS GRUNDLEHRE (La
dottrina fondamentale di Emil Lask,
J. C. B. Mohr, Tübingen 1992) Stephan Nachtsheim ricostruisce, nella
prospettiva di un confronto critico e
problematico, il pensiero di Emil Lask,
filosofo di orientamento neo-kantiano, definito da Heidegger nel 1919
«una delle più forti personalità filosofiche del presente».
Emil Lask fu docente all’Università di
Heidelberg, dove fu allievo di Heinrich
Rickert. Morto nel corso della prima guerra mondiale nel 1915, all’età di trentanove
anni, egli lasciò una serie di scritti di teoria
della conoscenza, di logica e di filosofia
del diritto che risentono dell’atmosfera del
neo-kantismo badense e che al tempo stesso sviluppano alcuni motivi originali, che
avrebbero avuto un certo influsso sui contemporanei (tra cui, ad esempio, Martin
Heidegger, che in diverse occasioni ne ha
riconosciuto l’importanza per la propria
filosofia).
Come Rickert, Lask si rifà a Kant. Ma,
invece di partire dalle funzioni soggettive
dell’intelletto, riprende, riferendosi al maestro e a Lotze, la distinzione tra essere e
valore. Concetto centrale nella sua teoria
della conoscenza è quello delle forme della conoscenza che valgono in modo transsoggettivo. La distinzione tra essere e valore è per lui l’ultima distinzione fondamentale nel «tutto del pensabile in generale». Centrale nella sua dottrina è così come mette in luce Stephan Nachtsheim
- l’idea di una “logica della filosofia”.
Questa logica è però in Lask qualcosa di
formale, riguardante le categorie, ma i
contenuti a cui tali categorie si applicano
possono essere alogici o irrazionali. Lask
intende così reagire a una riduzione “panlogistica” della vita spirituale alla logica, o
dei contenuti del pensiero alle forme razionali.
Nel suo studio Nachtsheim si riferisce
soprattutto agli scritti fondamentali di Lask:
PROSPETTIVE DI RICERCA
Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre (La logica della filosofia e la
dottrina delle categorie, 1911) e Die Lehre
vom Urteil (La dottrina del giudizio, 1912).
A differenza dei precedenti studi su Lask
di Konrad Hobe e di Hans-Peter Sommerhäuser, risalenti agli anni ’60, egli utilizza
anche i testi appartenenti al lascito laskiano e contenuti nel III volume delle Gesammelte Schriften, un corso su Platone e
alcuni scritti e appunti dedicati al problema di una dottrina della conoscenza e della
verità. Secondo Nachtsheim non il “pensiero puro” ma il “soggetto vivente” (das
erlebende Subjekt) è in questione in questi
testi, e da ciò risulterebbe la prossimità di
Lask ad alcuni motivi della Lebensphilosophie.
Lo studio di Nachtsheim non si presenta
come una ricostruzione storica, ma vuole
essere una discussione critica della filosofia di Lask, della quale intende in particolare «sviluppare ulteriormente il programma della dottrina delle categorie» alla luce
del problema di una Letztbegründung della filosofia, cioè di una sua funzione fondante e autonoma di fronte alle scienze
positive. E’ dalla soluzione di tale questione che dipende, per Lask, la possibilità
della filosofia di adempiere la funzione di
scienza originaria (Urwissenschaft) dell’ambito teoretico. Egli delinea così l’idea
di una logica filosofica nella quale i contenuti della riflessione gnoseologica diventano, a loro volta, oggetto dell’analisi. Si
apre così l’ambito di una dottrina delle
categorie, o di una teoria della logica che si
distingue dalle teorie delle diverse “regioni categoriali” (filosofie dell’arte, della
religione, della natura ecc.), a loro volta
distinte dai contenuti (arte, religione ecc.),
e che si pone così come una metateoria
dell’ambito teoretico e logico. M.M.
Il viaggio in Italia dei Goethe
Nella ITALIENISCHE REISE, Johann Wolfgang Goethe nota che suo padre, nella sua vita, non fu mai del tutto infelice perché poteva pur sempre ricordarsi di essere stato a Napoli, una
volta. GOETHES VATER REIST NACH ITALIEN (
Il padre di Goethe in viaggio per l’
Italia) è il titolo di una bella mostra
che ha chiuso i battenti il 14 marzo
1993 al Freies Deutsches Hochstift Frankfurter Goethe Museum di Francoforte sul Meno. L’esposizione, curata da Doris Hopp, presenta - evidenziandone le tre tappe fondamentali,
Venezia, Roma e Napoli - le fasi e le
modalità del viaggio in Italia di Johann
Caspar Goethe.
La storia ha celebrato in Johann Wolfgang Goethe un grande della cultura di
tutti i tempi; suo padre Johann Caspar,
invece, viene ricordato come un tranquillo, solido borghese che ha dato i natali ad
un genio dell’umanità. Eppure, l’amore
per il viaggio, ed in particolare per l’Italia,
fu trasmesso al giovane Goethe proprio
dal padre che, nel 1740, aveva compiuto
un viaggio in Italia di circa otto mesi.
Appena trentenne, conclusi gli studi giuridici a Gießen con un dottorato, Johann
Caspar Goethe affrontò il Grand Tour
verso il Sud inaugurando, si può ben dire,
una tradizione che, proprio a partire da
quegli anni, vedrà i giovani della buona
borghesia compiere viaggi di formazione
all’estero, in precedenza privilegio esclusivo dei nobili. L’Italia del tempo era,
come è noto, meta prediletta per quanti
volessero allargare le proprie conoscenze
riguardo all’arte e alla storia. Tuttavia la
presenza di così differenti forme di governo in un territorio relativamente ristretto
come la nostra penisola, forniva un notevole oggetto di studio ad un giurista quale
J. C. Goethe - molto dotato nel parlare
l’italiano - che poteva in tal modo coronare
degnamente la sua brillante carriera universitaria.
Ma per il viaggio italiano di Goethe padre
non mancarono stimoli di natura puramente edonistica. Il carnevale di Venezia fu
per lui, ad esempio, un’attrattiva eccezionale, potendo nella città lagunare vedere
per la prima volta il mare. Il giovane,
entusiasta viaggiatore trascorse le prime
due settimane di aprile a Napoli, le cui
bellezze naturali vengono considerate come in seguito dal figlio Johann Wolfgang - “paradisiache”. Johann Caspar fu,
inoltre, uno dei primi tedeschi a visitare
Ercolano, i cui scavi erano iniziati appena
due anni prima. Risalendo a nord Goethe
padre si fermò solo due settimane a Roma,
città troppo cattolica per un convinto protestante come lui. Ancora a Venezia, poi,
attirò la sua attenzione per un intero mese;
stupisce, invece, che egli abbia trascorso
cinque settimane nella calura estiva di
Milano. Ma con buone probabilità il lungo
soggiorno lombardo era dovuto ad una
vicenda sentimentale con Maria Giuseppa
Merati. L’ultima tappa italiana di Johann
Caspar è Genova dal cui porto sul finire
dell’agosto del 1740, salpò alla volta di
Marsiglia.
In una riuscita fusione tra documentazione
scientifica e trattamento scenografico-teatrale del materiale a disposizione la mostra
ricostruisce un episodio fondamentale della
vita di Goethe padre. Questi avrebbe ripercorso idealmente la sua discesa al Sud
cimentandosi, a partire dal 1760, nella
stesura del diario Viaggio per l’Italia. Si
tratta di una descrizione del viaggio compiuto vent’anni prima, redatta nella forma,
classica per il Settecento, di lettere inviate
ad un destinatario fittizio.
L’opera risente certamente delle convinzione del tempo e delle scarse capacità
letterarie di Johnann Caspar Goethe; eppure, essa è unica nel suo genere poiché
40
redatta in lingua italiana da un ormai anziano pedante, un soddisfatto pater familias che scrive solo per se stesso.
Il Viaggio per l’Italia uscì per la prima
volta nel nostra paese a cura di Arturo
Farinelli; correva l’anno 1932 e, per ironia
della sorte, tutto il mondo celebrava i cento anni della morte di Johann Wolfgang
Goethe. Una traduzione in tedesco del
curioso diario di viaggio di Johann Caspar
Goethe è apparsa nel 1986 a cura della
Deutsche-Italienische Vereinigung di Francoforte sul Meno. N.B.
‘Il Candelaio’ di Bruno
E’ stato di recente pubblicato in traduzione francese IL CANDELAIO (trad. di
Y. Hersant, introd. di G. Aquilecchia,
prefaz. di G. Barberi Squarotti, Belles
lettres, Paris 1993), primo volume dell’opera omnia di Giordano Bruno in 20
volumi, di cui l’ultimo uscirà simbolicamente il 17 febbraio 2000, quarto
centenario del rogo del filosofo a Campo dei Fiori. Il progetto e la realizzazione di questo lavoro sono diretti da
Yves Hersant, dell’Ecole Hautes Etudes
di Parigi e da Nuccio Ordine, dell’Università di Arcavacata, con il patrocinio
dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
Che si tratti di un evento culturale importante, lo sottolineano sia i giornali italiani
che francesi, le librerie del centro di Parigi
e una presentazione del progetto-Bruno al
Gran Salon de la Sorbonne sotto il patronato della rettrice, Michèle GendreauMassaloux, presenti Gerardo Marotta,
Presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici di Napoli, Michel Desgranges,
direttore delle edizioni Belles Lettres, Yves
Hersant e Nuccio Ordine, e Marc Fumaroli, del Collège de France, che ha
tenuto una conferenza sull’ironia bruniana. Al di là del battage pubblicitario, questo progetto è un autentico unicum, come
ha sottolineato Nuccio Ordine in una intervista: «In Spagna hanno tradotto quasi
tutte le opere italiane di Bruno; in Germania stanno traducendo le latine; in Inghilterra, in Giappone, in Russia altre traduzioni parziali sono in corso. Ma da nessuna
parte, neanche in Italia, esiste un’edizione
integrale e critica come quella che stiamo
preparando in Francia».
La novità di questa edizione è dunque la
completezza e la critica filologica delle
opere italiane e latine di un filosofo come
Bruno spesso citato e poco studiato a fondo. Il gruppo di traduttori, filosofi, letterati, filologi è di livello europeo e questo
incrocio savant di italiani, spagnoli, francesi, inglesi ecc... sarebbe piaciuto al girovago Bruno, tre volte scomunicato (da
cattolici, protestanti, calvinisti), braccato
ovunque, sempre in fuga. Per le opere
italiane l’edizione critica è stata stabilita
da Giovanni Aquilecchia, quella latina da
Rita Sturlese. Due criteri essenziali ac-
PROSPETTIVE DI RICERCA
compagnano questo progetto: per ogni
opera la traduzione e la introduzione sono
affidate a studiosi diversi, inoltre il testo
originale è sempre a fronte.
Il candelaio è nella scrittura di Bruno un
caso particolare: è l’unica commedia che
abbia mai scritto e denota una “pirotecnica
linguistica” assai sconvolgente. La storia è
metà-oscena, metà-edificante. Bruno è ben
lontano dall’essere un presuntuoso moralista; dalla sua ha l’arma più temibile e
sofisticata che ci sia: l’ironia, il riso, la
satira, unica panoplia per un uomo libero
in un mondo di “pedanti”. Anche le pagine
buffe, oscene, divertentissime del Candelaio vanno lette come il rifiuto assoluto di
ogni dogmatismo attraverso il riso, il tentativo filosofico di pensare insieme, anche
attraverso il comico, l’uno e il molteplice,
il centro e la periferia, il dettaglio e l’insieme. La commedia è il laboratorio comico
di una visione cosmologica concepita come
ossimoro in atto.
Di questo tenere insieme gli opposti, giocando con gli estremi, è cifra la figura
dell’asino che nella sua proverbiale cocciutaggine e ottusità nasconde una scintilla di divinità. A questa figura Nuccio Ordine ha dedicato un libro, ora tradotto in
francese per le Belles Lettres, dal titolo Le
mystère de l’ane. F.M.Z.
Herder: la filosofia e il linguaggio
Un giovane ricercatore, Pierre Pénisson, già noto in Francia e in Germania
per l’edizione critica del TRATTATO SULL’ ORIGINE DELLA LINGUA (1772) di Johann
Gottfried Herder, ha organizzato a
Parigi il colloquio: HERDER ET LA PHILOSOPHIE DE L’ HISTOIRE, e ha presentato in
questa primavera (in particolare nel
quadro d’incontri franco-tedeschi) alcuni motivi fondamentali del pensiero di Herder, a cui ha dedicato recentemente un saggio dal titolo: J. H.
GERDER, LA RAISON DANS LES PEUPLES (Cerf,
Paris, 1992).
Scopo del lavoro di Pierre Pénisson è
riabilitare lo stile originale e polimorfo di
Herder contro, da un lato, le oziose semplificazioni, che vedono in lui solo l’odioso
precursore di certi “demoni” moderni (nazionalismo, irrazionalismo, relativismo,
storicismo), dall’altro, le interpretazioni
selettive e interessate, che ne hanno segnato la storia della ricezione.
Eroe dell’idea di nazione e del monde
storico, Johann Gottfried Herder fu per
Edgar Quinet, che l’introdusse in Francia,
«l’Erodoto della filosofia della storia», e
una delle referenze privilegiate di Michelet e di Renan: in questo contesto, fu soprattutto conosciuto e stimato per la sua
riscoperta del folklore e per le sue idee
sulla storia. E’ noto come l’ideologia nazista abbia elaborato un’immagine durevole
e deformata di Herder, in grado di giustificare ideologicamente una politica di potenza, sebbene l’antica Germania “democratica” e la critica sovietica (differenziandosi da Lukács) abbiano proposto un
Herder un po' meno fosco, vicino al popolo e ai popoli, sottolineandone l’empirismo quale rimedio alle speculazioni sistematiche e idealiste rifiutate dal marxismo.
Questa attuale pertinenza di Herder nel
quadro filosofico contemporaneo (un colloquio internazionale riuniva nel novembre 1987 i partecipanti sotto il tema: “Herder today”, a Stanford) è stata, ancora una
volta, confermata nelle discussioni del congresso parigino del 1993 (presenti: G. Arnold, E. Behler, M. Bollacher, P. Caussat,
D. Modigliani, T. Namowicz, R. Otto, W.
Malsch, E. A. Menze, E. Fauquet, M. Crespon, K. Menges, L. Sala Molin, B. Binoche), che si è sviluppato nella prospettiva
di una riflessione sulle nozioni di cultura,
di lingua, di nazione, di storia certo, in cui
Herder figurava al centro di una rinnovata
interpretazione.
Pénisson non gioca il popolo contro i popoli, anche se indica la prossimità di Herder con molti temi della “Popularphilosophie”; il “popolo” herderiano, nozione
centrale della sua antropologia, designa
ogni “comunità d’individui”, o la “storia
comune”, la “cultura”, la “credenza”, e
non è al di fuori dei popoli particolari.
Pénisson insiste sulla profusione delle particolarità in contrasto con l’idea di “umanità” in sé, cercando di dimostrare come
questo movimento di dispersione venga
compensato in Herder da un costante lavoro di passaggio, di trasposizione, di traduzione, di “transizione”. Numerosi testi
herderiani testimoniano la preoccupazione del filosofo tedesco di ritrovare “la
ragione nei popoli”. La ricerca di una tale
unità nella diversità, al di fuori comunque
di ogni dialettica totalizzante, è sempre
ardua, come si vede nella ricerca di una
norma interna alla storia, e nel caso del
linguaggio, nel tentativo di comprendere il
passaggio al linguaggio propriamente
umano. Non ci si stupisca dunque che lo
stile stesso di Herder sia estremamente
particolare, contrassegnato da un gioco
costante di déplacement, interno alla scrittura.
A questo stile non è forse estranea la pratica e la riflessione sulla traduzione che in
Herder, osserva Pénisson, è un nodo teorico cruciale e una chiave di interpretazione
non trascurabile. L’idea che, traducendo,
non si possa uscire dalla propria lingua
materna (per cui si crea un Shakespeare
tedesco) e che, tuttavia, la traduzione sia
una “trans-plantation” reciproca fra le lingue e che un vero originale non esista, è
riflessione certo portatrice di contraddizioni, ma anche di interrogativi fecondi.
Alla riflessione di Pénisson non sono mancate le critiche, fra cui la più argomentata
41
è relativa al metodo stesso con cui il ricercatore francese affronta il pensiero herderiano. Nel saggio di Pénisson il pensiero di
Herder non è infatti tanto ricostruito o
riabilitato, quanto percorso e evocato lungo il filo delle tappe della vita e delle opere
del filosofo. La prima parte del saggio è
una specie di biografia intellettuale, in cui
il percorso herderiano viene ritracciato
come un viaggio segnato da “transizioni”
(anche geograficamente: dalla Prussia
orientale alla Francia, a Buckeburg, a
Weimar). La seconda parte tratta del rapporto fra traduzione e canti popolari e
oralità, riprendendo la polemica di Herder
con Nicolai. Herder difende, a questo proposito, il procedimento “anti-critico” che
supporrebbe un’“altra filosofia del linguaggio” per cui la lingua è origine e si caratterizza come flusso espressivo eccedente le
determinazioni fisse dei significanti. Da
qui, si apre la via per un’ermeneutica del
profondo. La terza parte s’interessa rapidamente di certi aspetti della “diffusione”
dell’opera herderiana nell’Europa centrale, fra i popoli slavi (Vuk, Radichtchev) e
nei paesi anglofoni (Coleridge, De Quincey) e in Francia. L’ultima parte riporta
due testi di Quinet. D.T.
Max Weber negli Stati Uniti
Nello studio
MAX WEBER IN AMERIKA.
WIRKUNGSGESCHICHTE UND REZEPTIONSGESCHICHTE WEBERS IN DER ANGLO -AMERIKANISCHEN PHILOSOPHIE UND SOZIALWISSEN SCHAFT (Max Weber in America. Storia
degli effetti e della ricezione di Weber
nella filosofia e nella scienza sociale
anglo-americana, trad. ted. di Klara
Bodnar, Passagen Verlag, Vienna
1992) Agnes Erdelyi analizza le trasformazioni terminologiche e concettuali subite dalla sociologia weberiana nella sua ricezione, soprattutto da
parte di Talcott Parsons, negli Stati
Uniti.
Finito il dominio dell’ortodossia dei “classici del socialismo” le scienze sociali e
umane sono alla ricerca, nei paesi una
volta detti del “socialismo reale”, di nuovi
punti di riferimento di carattere epistemologico. Sembra essere questo il caso dello
studio in lingua ungherese di Agnes Erdelyi, recentemente tradotto in tedesco, in
cui si intende ricostruire la Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) dell’opera di
Max Weber negli Stati Uniti. Un problema
che implica un’analisi e una valutazione
del confronto e del passaggio tra due diversi ambienti culturali: la Germania di
Weber, con la sua tradizione di storiografia e di Geisteswissenschaften, e gli Stati
Uniti di un Tallcott Parsons, in cui la
dottrina e il metodo weberiano si innestano su un terreno positivistico, naturalistico
e pragmatistico. Secondo Erdelyi, Parsons
discioglie la specificità della prospettiva
NOTIZIARIO
Sono stati pubblicati nel fascicolo
n. 41 degli Hohenheimer Protokolle gli atti di un convegno dedicato
al tema: FILOSOFIA RELIGIOSA
RUSSA . L’eredità riguadagnata Distanza e appropriazione, a cura
di Eberhard Müller e Franz Joseph
Klehr (il volume può essere richiesto all’Akademie der Diözese Rottenburg-Stuttgart, Im Schellenkönig 61, Stuttgart). Centrale nei diversi interventi di studiosi tedeschi, russi e francesi è la questione
della qualità e del senso della ricezione dell’eredità della filosofia religiosa russa della fine del secolo
XIX e dell’inizio del XX negli ambienti intellettuali, filosofici e letterari della Russia odierna. Questa
ricezione si muove oggi tra due
poli: da una parte la filosofia di
pensatori quali Vladimir Soloviev
e Nikolaj Berdjajev viene esaltata
come premessa di una trasformazione morale e spirituale della società russa; dall’altra si fa valere
l’esigenza di una rottura con la
tradizione come condizione di un
rinnovamento della cultura. Resta
in ogni caso problematico il rapporto con tale tradizione, e da più
parti ci si chiede se dietro l’esaltazione delle tradizioni filosoficoreligiose della cultura russa non si
celino un nuovo dogmatismo e
un’avversione per il pluralismo
delle idee non meno rischiosi e
deleteri dell’ortodossia culturale
imposta negli anni del “socialismo
reale”.
Il 25 febbraio 1993, presso la Deutsche Bibliothek di Francoforte sul
Meno, è stata inaugurata la mostra
DEUTSCHE INTELLEKTUELLE
IM EXIL. Ihre Akademie und die
NOTIZIARIO
di aiutare con tutti i mezzi possibili
gli intellettuali a proseguire il loro
lavoro nelle difficili condizioni dell’esilio.
Il principe di Löwenstein, infaticabile figura di studioso ed organizzatore, coinvolse importanti uomini di cultura nella nobile causa - tra
gli altri, Thomas Mann e Sigmund
Freud presiedettero, rispettivamente, le sezioni arti e scienze dell’Accademia. Tra il 1938 e il 1940 furono elargite a più di 160 scrittori,
scienziati ed artisti, borse di studio
o contributi per costi di stampa.
Gli intellettuali che poterono godere di questo provvidenziale appoggio economico variarono dai
conservatori Uriel Birnbaum e Joseph Roth ai socialisti Ernst Bloch,
Bertold Brecht e Anne Seghers.
Con il diffondersi del nazismo in
Europa, poi, l’American Guild nel
1939-40 si occupò anche di salvare
molti intellettuali da situazioni
estremamente pericolose. Soprattutto in Cecoslovacchia ed in Francia furono fatti pervenire visti, af-
fidavit e biglietti per la tanto agognata traversata verso gli U.S.A.
La mostra, quindi, fa luce sul problema della sopravvivenza materiale di tanti intellettuali che, senza
le iniziative lanciate da Hubertus
di Löwenstein, probabilmente non
avrebbero retto alle fatiche dell’esilio.
L’esposizione è accompagnata da
un esaustivo catalogo dal titolo:
Deutsche Intellektuelle im Exil:
ihre Akademie und die “american
Guild for German Cultural Freedom”; eine Ausstellung des Deutschen Exilarchivs 1933-1945 der
deutschen Bibliothek, Frankfurt am
Main, a cura di Werner Berthold,
Brita Eckert e Frank Wende (Saur,
München, London, New York, Paris 1993), che ricostruisce, in generale, la storia dell’organizzazione e, in particolare, fornisce con 30
casi esemplari - tra cui quelli di
Renato Mondo, Sigfried Kracauer,
Robert Musil, Julius Bab, Ernst
Weiß, Kurt Hiller - un quadro, a
volte toccante, delle difficili con-
“American Guild for German Cultural Freedom”. L’esposizione è
stata realizzata dal Deutsches Exilarchiv 1933-1945 della Deutsche
Bibliothek di Francoforte. L’Exilarchiv costituisce il fiore all’occhiello della biblioteca nazionale
francofortese, grazie alla preziosa
documentazione che esso raccoglie sulla ricca vicenda della cultura tedesca in esilio nel “dodicennio
nero” nazista. La mostra presenta e
illustra un capitolo sinora poco noto
della storia degli scrittori, scienziati e artisti di lingua tedesca, costretti ad emigrare durante il regime di Hitler. Tema principale dell’esposizione è il tentativo intrapreso dal principe Hubertus di
Löwenstein per creare un’Accademia tedesca delle arti e delle scienze in esilio e di fondare un’organizzazione a suo sostegno: “The
American Guild for German Cultural Freedom”. Compito dell’Accademia doveva essere quello di
riunire gli intellettuali tedeschi
sparsi in tutto il mondo in una organizzazione apartitica, una sorta
di terra franca per lo spirito tedesco. Nello stesso tempo si trattava
Hubertus Prinz zu Löwenstein (1930), Thomas Mann
(1938)
42
dizioni di lavoro degli intellettuali
in esilio. La mostra sarà aperta fino
al 5 giugno 1993 (dal lunedì al giovedì ore 9-20, venerdì ore 9-18, sabato
ore 9-17), presso la Deutsche Bibliotek (Zeppelinalee 4-8, 6000 Frankfurt
a.M. 1).
E’ annunciata presso l’editore Rubbettino, Soveria Mannelli, (CZ e
Messina), una nuova collana SAGGI BREVI DI ESTETICA COMPARATA, diretta da Grazia Marchianò. Si tratta di piccoli volumi di
cento pagine, di prezzo modesto,
ma di ampia apertura tematica, utili a chiunque voglia documentarsi
su figure e problemi dell’estetica
contemporanea di Oriente e Occidente. I primi titoli in uscita quest’anno: Nuovi autori di estetica in
Cina (testi di Zhou Laixiang, Fei
Xingbei e Zhou Ping), Scritti italiani su N. K. Roerich (testi di Bazzarelli, Lopez, Spendel, Zolla),
Sugli orienti del pensiero, di Grazia Marchianò.
L’ISTITUTO ITALIANO PER GLI
STUDI STORICI bandisce un concorso a dodici borse di studio per
l’anno accademico 1993-1994, per
giovani laureati in Università italiane. L’importo di ciascuna borsa
sarà di L. 12.000.000, qualora i
vincitori non risiedano nella provincia di Napoli; di L. 8.000.000,
se residenti nella provincia di Napoli. Al concorso possono partecipare tutti coloro che siano laureati
in Lettere o in Filosofia, e i laureati
in Giurisprudenza o in Scienze
politiche o in Economia e Commercio o in Architettura, che abbiano svolto la tesi in discipline
storiche o filosofiche, che non abbiano superato il trentacinquesimo
anno di età alla data del 1˚ ottobre
1993 e che non abbiano ancora
usufruito di borse di studio presso
l’Istituto; sono inoltre esclusi dalla partecipazione al concorso gli
ammessi ai dottorati di ricerca e
coloro che abbiano conseguito il
titolo di dottore di ricerca, così
come coloro che percepiscano altre borse di studio o che svolgano
altre attività retribuite.
I concorrenti ritenuti idonei in base
ai titoli presentati potranno essere,
ove se ne ravvisi l’opportunità, invitati ad un Colloquio con la Commissione giudicatrice. Le spese del
viaggio per il colloquio saranno
rimborsate. L’importo della borsa
verrà corrisposto ai vincitori in 8
rate mensili, a partire dal novembre 1993. I concorrenti dovranno
presentare alla Direzione dell’Istituto entro il 1˚ ottobre 1993, domanda in carta semplice, corredandola con i seguenti documenti: certificato anagrafico, certificato di
laurea, copia della tesi di laurea,
curriculum studiorum del candidato, lettera e attestati di professori
sotto la cui guida il candidato lavora o ha lavorato, elenco delle altre
eventuali istituzioni cui il candidato abbia presentato o intenda presentare analoga domanda entro il
1˚ novembre 1993. Informazioni:
Istituto Italiano per gli Studi Storici, 80100 Napoli, tel. 081/5517159.
CONVEGNI E SEMINARI
CONVEGNI E SEMINARI
Neoantico contro neoetnico
Fornire un primo significativo contributo all’individuazione e all’approfondimento dell’orizzonte concettuale del
neoantico, rilevare la crescente influenza che le culture e le civiltà premoderne esercitano sul mondo contemporaneo e, quindi, suggerire nuove possibili strategie per la riappropriazione
dell’antico e dell’arcaico: sono stati
questi gli scopi del Convegno internazionale: IL NEOANTICO. TECNICA E POSSESSIONE NELLA CULTURA, NELLA POESIA E NELLE
ARTI, svoltosi nei giorni 29 e 30 gennaio
1993 presso l’Accademia Spagnola di
Storia Archeologica e Belle Arti di
Roma, organizzato dalla cattedra di
Estetica del Dipartimento di Ricerche
Filosofiche dell’Università di Roma
“Tor Vergata”, cui hanno partecipato
studiosi di diverse discipline, orientamenti e nazionalità.
A partire dal momento in cui viene a cadere
ogni pretesa metafisica e totalizzante di
considerare il pensiero occidentale, nella
cultura contemporanea sembra affacciarsi
la possibilità di ripensare i propri principi,
origini e fondamenti in una prospettiva che
possa prendere in considerazione l’intero
patrimonio culturale dell’Occidente secondo una metodologia etno-logica ed etnofilosofica, che potremmo definire “neoantica”, in grado cioè di ancorare il pensiero
occidentale ad un retroterra antropologico,
poetico e mitologico in vista della costituzione di un sapere positivo e trasmissibile.
Diversamente da un modello di tipo neoclassico, che vede nel passato un paradigma vitalistico ed esemplare cui riferirsi, il
neoantico rifugge tuttavia da ogni intento
prescrittivo e dal riferimento ad ideali normativi dell’arte e della cultura, realizzati
nel passato, riaffermando piuttosto la necessità del giudizio critico, pur negando
qualsivoglia volontà di stabilire gerarchie
di civiltà e di culture.
Alla diffusione di questo orientamento fanno tuttavia da ostacolo, osserva Mario
Perniola, promotore ed organizzatore del
Convegno, due tendenze opposte e speculari: da un lato il movimento postmoderno,
che promuovendo un libero spostarsi e
differenziarsi del senso, uno scambio incessante di stili, finisce col considerare
tutte le culture come omogenee e intercambiabili, col dissolvere ogni identità o abolire qualsiasi dimensione storica; dall’altro,
la tendenza neoetnica che, richiamandosi
all’originario, all’arcaico, al puro, recupera sí l’identità culturale di singole comunità, ma finisce per riaffermarne solo gli
aspetti grotteschi, paradossali e, non di
rado, violenti.
Aprendo i lavori del Convegno, il direttore
dell’Accademia spagnola, Jorge Lozano,
ha tenuto anzitutto a ribadire che se si vuole
seriamente riflettere sulle attuali condizioni della poesia e delle arti a partire da un
orientamento di tipo neoantico è necessario prendere le distanze da termini come
“postmoderno” o “transavanguardia”. Di
fatto, nella formulazione di Perniola, il
neoantico intende essere una diversa sensibilità, che cerca nell’antico non i principi
fondamentali del mondo moderno, o le
pure origini della cultura occidentale, ma
ciò che è rimasto estraneo, differente, altro,
rimosso, giungendo in tal modo a scorgere
nella fase iniziale della cultura occidentale
i momenti di confluenza tra le sue varie
componenti etniche e i diversi punti di
incontro con le culture extra-europee. Interrogandosi sulle proprie radici antiche,
animata da questo orientamento neoantico,
la riflessione estetica contemporanea scopre infatti che due dimensioni dell’esperienza, apparentemente antitetiche, hanno
determinato il sorgere e lo sviluppo del
proprio oggetto di ricerca: l’aspetto pratico-razionale del produrre (la tecnica) e
l’aspetto poetico-emozionale del creare (la
possessione), entrambi necessari per la riuscita del fare artistico.
Riflettendo sullo statuto dell’estetica moderna e contemporanea, Cristoph Wulff
(Frei Universität di Berlino) ha rilevato
come l’estetica in quanto “forma” e formazione di senso abbia in sé la possibilità di
chiamare all’esperienza dell’agire e del
senso morale. Vi è tuttavia un’ambivalenza dell’estetica e del sentire, per cui si
assiste oggi ad una estetizzazione diffusa
delle forme del sapere e della vita quotidiana, ad un sentire generalizzato nella forma
del “già sentito” - un trionfo della “sensologia”, direbbe Perniola - che non acuisce
43
affatto le nostre facoltà percettive, ma produce una sorta di anestesia, un torpore dei
sensi. Di fronte a questa situazione, sostiene Wulff, occorre dare nuovo significato
alla nozione di mimesis, di “assimilazione
mimetica” come facoltà creativa che consente un rapporto di consonanza tra l’uomo
e il mondo circostante e apre nuove prospettive di senso. In questa accezione la
nozione di mimesis introduce una dimensione storica e antropologica del neoantico
che ha costituito lo sfondo problematico
dell’intervento di Francesco Pellizzi (Università di New York), il quale, da un punto
di vista spiccatamente storico-religioso, si
è interrogato sulla portata simbolica di alcune esperienze artistiche contemporanee,
in particolare di una suggestiva performance americana di Joseph Beuys dal titolo:
“Incontro col coyote”, in cui l’artista/l’uomo si trova a coabitare con l’animale per
diversi giorni all’interno di una galleria
d’arte newyorkese, instaurando con esso
un rapporto di identità/alterità, della cui
esperienza Pellizzi ha sottolineato soprattutto la forte componente estatico-sciamanica, la possessione artistica che apre ad
una connotazione del neoantico come neoprimitivo, come assimilazione dell’altro,
dell’estraneo, del selvaggio che è fuori di
noi, ma che forse anche più intimamente ci
appartiene.
Della componente antropologica della possessione si è occupato nel suo intervento
anche Roberto Motta (Università di Recife), che analizzando i culti religiosi afrobrasiliani ha evidenziato l’intimo rapporto
tra sacrificio e possessione in relazione alla
morte. Sulla nozione di sacrificio, sulla sua
importanza per la comprensione del pensiero e dell’opera di Georges Bataille si è
poi soffermato Giuliano Compagno, il
quale ha insistito sulla irriducibilità di tale
nozione ai principi dell’ordine, della conservazione e del risparmio tipici dell’economia tradizionale, secondo i quali sarebbero del tutto incomprensibili la forte attitudine dissipatrice, il dispendio, il più di
energie che caratterizzano invece il sacrificio secondo Bataille definito come espressione di intimo accordo tra la vita e la
morte, prossimo quindi alla trasgressione,
allo scandalo, all’irruenza della morte.
Se il Convegno cercava anche di verificare
CONVEGNI E SEMINARI
la sfida lanciata dal neoantico all’ambito
della creazione poetica e letteraria, occorre
dire che essa è stata positivamente raccolta
da alcune voci della cultura militante contemporanea, poeti e critici in primo luogo.
Michel Deguy, uno tra i più grandi poeti
francesi contemporanei, attuale presidente
del Collège Internationale de Philosophie,
ha infatti riflettuto su l’inspiration in poesia, non potendo fare a meno di richiamarsi
proprio a quell’aspetto poetico-emozionale del fare poesia che è la possessione,
intendendo quindi l’ispirazione della poesia come peculiare forma di possessione e
affermando del resto la superiorità, il primato del linguaggio poetico. Giulio Ferroni ha invece misurato il significato dell’antico nell’opera di Pier Paolo Pasolini,
parlando tuttavia, più significativamente,
di un essere “postumo” di Pasolini e della
sua opera complessiva, i cui caratteri distintivi di incompiutezza, posteriorità, ultimità ne fanno un’opera costitutivamente
aperta ed attuale, come ad esempio nel caso
dell’ultimo Petrolio.
Ancora sul versante poetico, la riflessione
di Giuseppe Conte ha voluto sottolineare
le possibilità infinite dell’antico sotto forma di mito. Facendo del mito l’elemento
centrale della sua opera poetica, Conte intende infatti dare vita ad una poesia mitica
le cui condizioni si troverebbero in quella
che egli definisce la capacità della poesia di
«personificare» e «dialogare con le ombre», in cui il mito stesso è energia vitale,
irruzione dell’arcaico, del simbolico, dell’originario.
Ancora su un terreno poetico, lo statuto del
neoantico in rapporto ai movimenti dell’avanguardia, da un lato, e del postmoderno, dall’altro, è stato al centro della relazione di Isabella Vincentini, che ha evidenziato come dopo lo “smembramento di
Orfeo” (Hassan), vale a dire dopo l’evanescenza della forma poetica postmoderna,
occorra ripensare l’antico anche sotto
l’aspetto aspro e crudele dell’arcaico in una
lirica senza elegia, avvicinando per qualche verso la poetica neoantica alla poesia
neo-orfica contemporanea. Da una diversa
prospettiva, Tomaso Kemeny (Università
di Pavia), in una suggestiva lettura dei
Cantos di Ezra Pound, la cui poesia, tutta
segnata dall’antico, costituisce forse il
momento catastrofico e abissale del moderno, ha suggerito la possibilità di una
civiltà del simbolo, contro una civiltà del
segno, in cui vi sia un certo spazio per le
Muse.
Il tema della possessione, nella forma della
possessione del nome, è poi tornato nell’intervento di Roberto Salizzoni, il cui intento è stato quello di riflettere su una filosofia
del linguaggio intesa come “filosofia del
nome”, in cui il mondo si apre nel nome ed
il nome che propriamente (ci) possiede è il
nome di Dio. Tutte tematiche che emergono dall’interpretazione che da qualche tempo suggestivamente Salizzoni compie di
certa filosofia russa dei primi anni venti
(Florensky, Bulgakov e soprattutto il quasi
sconosciuto Losiev). La riflessione sul
mondo primitivo di Benjamin Fondane,
pensatore rumeno ebreo dei primi anni
Trenta, ha invece costituito l’oggetto di
discussione di Ann Van Sevenant che ha
mostrato come tale riflessione sia centrata
soprattutto sulla nozione di “partecipazione”, che interpreta la relazione dell’uomo
primitivo con il mondo intesa sia come
“fare parte di” che un “prendere parte a”.
Sul neoantico sotto l’aspetto pratico-razionale del produrre, nella dimensione della
tecnica come in quella della possessione, si
è soffermata Claudia Castellucci che ha
parlato della tecnica, in modo personale,
come «ciò che un altro fa fare», ciò che
chiama ad un rapporto di ubbidienza assoluta, nella cui modalità di relazione si fonderebbe la sola possibilità di affrancamento da essa. E’ qui evidente come la tecnica
non sia solo pratica del fare ma relazione
con una alterità eventualmente esperita
anche nella forma della possessione. Antonio Caronia ha concluso i lavori del Convegno scoprendo, quasi paradossalmente,
sorprendenti motivi neoantichi nell’universo tecnologico cyberpunk, vale a dire in
quel fenomeno underground degli anni
Ottanta che riesce a coniugare le tecnologie
informatiche e telematiche con il fenomeno di costume punk, mostrando un atteggiamento apertamente positivo nei confronti della tecnica che, come estensione
delle potenzialità umane, consentirebbe un
certo recupero della dimensione unitaria
dell’esperienza umana. Con quest’ultima
prospettiva in particolare, il neoantico si
rivela una cultura della contaminazione,
dell’incontro, dello scambio, una crossculture che va in direzione opposta rispetto
a certo neotribalismo e neo-oscurantismo
risorgenti. G.P.
Schlegel e la filosofia
della storia
Ernst Behler, dell’Università di Seattle, curatore della edizione critica delle
opere complete dei fratelli Schlegel,
ha tenuto nel marzo 1993 un ciclo di
conferenze all’Ecole Normal Supérieur
di Parigi, dal titolo: SCHLEGEL ET LA PHILOSOPHIE DE L’HISTOIRE. In tale occasione
Behler ha voluto fare il punto del suo
progetto critico-filologico, che ha visto la luce nel 1988, sottolineando in
particolare l’originalità della concezione storica di Friedrich Schlegel.
Nelle sue conferenze Ernst Behler ha in
particolare incentrato le sue analisi sull’originalità della concezione della storia
di Friedrich Schlegel, a partire dalla cornice propria della Querelle des Anciens et des
Modernes, letta da Schlegel alla luce del
concetto di “interazione”. Inspirandosi in
44
origine alla filosofia di Fichte e arrischiando una filosofia della storia, Schlegel, secondo Behler, passa progressivamente,
sotto l’influenza di Condorcet, a una riflessione sulla coscienza storica. La comprensione del poetico moderno come universale e progressivo non sarebbe infatti estraneo all’interpretazione personale di Condorcet: per quanto schematico, Schlegel
trova nel filosofo francese il modello di
una perfettibilità lineare, potenzialmente
infinita. Ciò non toglie che Schlegel sia
ben lungi dal condividerne l’ottimismo e
l’astrazione.
Questa linearità progressiva, infinita, in
qualche modo asintotica, consente al filosofo tedesco di sottrarsi agli schemi della
riflessione storica tradizionale di un Lessing, di un Herder, di uno Schiller, centrata
sull’idea dell’educazione del genere umano e sulla concezione delle epoche dell’umanità. Da un lato, Schlegel pensa all’idea di perfettibilità infinita nei termini di
un telos, se non di una totalità; dall’altro,
l’accento cade prioritariamente sul carattere infinito, indeterminato di questa progressività potenziale. Anche quando la terminologia di Condorcet sparisce dalla scrittura schlegeliana, il filosofo tedesco se ne
ispira sempre, sottolineando l’inaccessibilità di un rapporto diretto con il tempo,
concepito invece sotto le categorie del “non
ancora”, del “intanto che”. A questa concezione del tempo è strettamente connesso il
lavoro stesso dell’interpretazione, per cui
gli autori antichi, come Platone, non vanno
letti come una totalità organica e genetica,
bensì come un insieme di frammenti spezzati di una ligna virtualmente infinita.
Altri temi più specificatamente ermeneutici sono stati ingaggiati da Behler nelle sue
conferenze, quali la riflessione schlegeliana sull’ironia in rapporto a Hegel e la
cruciale questione dell’Unverständlichkeit,
segno dell’impossibilità di comprendere e
di farsi comprendere. La discussione ha
portato in particolare sull’opposizione noncomprensione/incomprensione nella filosofia di Schlegel. F.M.Z.
Orfeo e orfismo
Il 20 marzo 1993 si è tenuta all’Università Ch. De Gaulle-Lille III, una giornata
di studi sull’orfismo, in particolare sulla
pratica del commento filologico e sull’interpretazione della teologia orfica.
Filologia e filosofia si sono intrecciate
strettamente in questa giornata, che
ha visto tra gli animatori della giornata Jean Bollack e Pierre Judet de la
Combe.
Uno dei temi più discussi è stato il rapporto
intricato fra teogonia esiodea e teogonia
orfica; quest’ultima risulterebbe particolarmente intelligibile se letta come conte-
CONVEGNI E SEMINARI
stazione e subversion (aristocratica) del
modello esiodeo: alla doppia origine esiodea si opporrebbe una figura centrale che
pare sottrarsi a un quadro genealogico.
Questa in sintesi l’opinione esposta da
Philippe Borgeaud (Ginevra).
Luc Brisson (Parigi) ha esposto i problemi
filologici e interpretativi connessi ai papiri
di Derveni, insistendo in particolare sull’esigenza ermeneutica di sviluppare la dimensione critica della teogonia orfica. Su
questa linea, Jean Bollack, figura chiave
del Centre Philologique de Lille, ha sottolineato come la scrittura allegorica e ermetica segni il desiderio di uno scarto, di una
dé- narrativation, che pur richiedendo necessariamente un lettore, si sottrae alla seduzione retorica. Questa chiusura ermetica
sarebbe strettamente connessa con la ricerca di un fondo costitutivo separato da ogni
manifestazione. Mentre E. Rhode tendeva
a interpretare i poemi orfici nel seno di una
tradizione popolare, Bollack riprende l’ipotesi di una scrittura legata a una reazione
aristocratica.
Pierre Ellinger (Reims) ha centrato l’intervento sull’antropogonia orfica, in particolare sul motivo della suie della fumée dei
Titani. La sovversione del modello esiodeo
della Mekoné sarebbe visibile proprio in
questo punto: contro Detienne, Ellinger
sostiene che non esiste la cenere dei Titani,
ma solamente la suie della folgore; di conseguenza tutti i momenti del rito sacrificale
vengono sovvertiti. Sulla stessa linea, R.
Schlesier (Berlino) ha sottolineato invece
la scomparsa della figura attiva di Prometeo per quella, passiva, di Dioniso divorato.
Infine Jean Bollack ha concluso con un
intervento sulla pluralità d’interpretazioni
del mito d’Orfeo, tanto da tracciarne una
cartografia. Da parte sua, Bollack ha fatto
l’ipotesi di un nesso fra la scelta convenzionale di un nome comune e leggendario e la
nascita di particolari gruppi sociali. La riflessione proseguirà nell’aprile 1993 a Princeton. F.M.Z
Continuità e mutamenti
nella scienza
Con il titolo:
CONTINUITÀ E MUTAMENTI
NELLA RICERCA SCIENTIFICA E NELLA RIFLESSIONE EPISTEMOLOGICA,
Francesco Barone ha tenuto dal 7 all’11 dicembre
1992, presso l’Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici di Napoli, un seminario il cui scopo è stato quello di ricostruire alcune tappe fondamentali dell’evoluzione del concetto di “scienza”
in rapporto al problema dell’immutabilità o mutabilità storica del significato del termine.
Secondo la prospettiva “linguistico-essenzialistica” dell’epistemologia, il termine
“scienza” denoterebbe un ambito di attività
culturale, immutabile storicamente, che
mira a conoscenze obiettive, coordinate fra
di loro, rigorose, valide in senso intersoggettivo e tali da permettere all’uomo di
operare sulla realtà. Una tale concezione
essenzialistica, affermatasi a partire dall’inizio dell’Ottocento (con Kant) fino a
arrivare alla metà del nostro secolo (col
neopositivismo), è però entrata in crisi, ha
fatto notare Francesco Barone, allorché ci
si è accorti dell’ambiguità e della plurisignificatività dei termini adoperati, nella
misura in cui il significato di un termine
risiede nell’uso che se ne fa, che dipende a
sua volta dal contesto temporale in cui il
termine compare: la parola “scienza” indicherebbe in tal senso non un’essenza che
permane immutata, ma piuttosto un fenomeno storico iscritto nell’ordine del tempo.
Secondo un epistemologo contemporaneo
come Paul Feyerabend, la scienza, ha
notato Barone, è invece frutto di una particolare ideologia, di una certa maniera di
pensare, e piuttosto che essere una disciplina rigorosa ed intersoggettiva, dipende da
preferenze ed interessi; in tal modo la scienza, privata del metodo, non si distingue più
dall’arte.
Ora, ha osservato Barone, se la concezione
essenzialistica del linguaggio impedisce di
cogliere la storicità del fenomeno culturale
della ricerca scientifica, è vero altresì che,
considerando il significato delle parole in
base all’uso che se ne fa, in base ai vari
contesti, si corre il rischio di cadere in un
relativismo estremo, in cui non solo la
scienza non ha un’essenza, ma diviene
“scienza” tutto ciò che si decide di chiamare con questo termine. Ci troviamo dunque
a oscillare tra due poli contrapposti: da una
parte le epistemologie normative (da Kant
al neopositivismo), in cui si parla di scienza
indipendentemente dal divenire storico;
dall’altra una concezione come quella di
Feyerabend, per il quale la scienza ha la
stessa consistenza di un mito, è un’ideologia: muta a seconda dei contesti e delle
società in cui operano gli scienziati.
Tuttavia, ha rilevato Barone, si continua a
definire “scienza” fenomeni del tutto diversi; si tratta allora di andare alla ricerca di
qualcosa che ci permetta di definire “scienza” tutti questi diversi momenti culturali.
La continuità del fenomeno culturale “scienza”, secondo Barone, è da ricercarsi nelle
radici biologico-esistenziali della nostra
specie; l’homo sapiens sapiens ha infatti
una caratteristica costante, quella di divenire consapevole delle cose che lo circondano. Questa radice biologica che accomuna l’homo sapiens sapiens agli altri animali, e che determina le variazioni storicoculturali del fenomeno-scienza, è indispensabile per la sopravvivenza degli individui
della specie homo, così come lo è per gli
individui di altre specie animali.
Uno dei maggiori epistemologi contemporanei, Karl Reimund Popper, ha osservato che l’unica differenza spiccata che c’è
45
tra Einstein e un’ameba, entrambi “animali” che cercano di sopravvivere adattandosi
all’ambiente, è che mentre l’ameba applica
la sua “teoria”, la sua interpretazione dell’ambiente a cui deve adattarsi, direttamente sulla sua esistenza, Einstein mette alla
prova tra loro teorie, interpretazioni della
realtà a cui deve adattarsi. E’ in virtù di
questo condizionamento della cultura da
parte della natura che le varie accezioni di
“scienza” costituiscono una “famiglia”, in
senso wittgensteiano, e, per quanto profonde possano essere le differenze tra le varie
forme culturali, il passaggio dall’una all’altra non è mai un passaggio a cose completamente diverse. Se la scienza, come
suggerisce l’epistemologia evoluzionistica da cui muove Barone, è radicata in
questo bisogno dell’uomo di orientarsi nel
mondo, di adattarsi a un mondo, un ambiente, allora gli sviluppi storici della scienza altro non rappresentano che tentativi che
mutano col mutare delle situazioni cui l’uomo deve adattarsi. L.M.
Linguaggi della mente
Nel quadro della necessità attuale della psichiatria, Italiana e non, di ridefinirsi concettualmente e terapeuticamente anche attraverso l’apertura verso temi e discipline solitamente considerati lontani dal proprio ambito disciplinare, si è svolto a Umbertide (PG),
dal 15 al 17 ottobre 1992, il convegno:
I LINGUAGGI DELLA MENTE, coordinato dal
dipartimento di psichiatria della USSL
di Città di Castello. La natura intrinsecamente interdisciplinare del convegno è stata confermata dalla partecipazione ai lavori di psichiatri come
Salomon Resnick e Sergio Piro, neuropsichiatri come Oliver Sacks, filosofi come Paolo Rossi e Remo Bodei.
Il filosofo Paolo Rossi, seguendo quelle
stesse linee di interesse da lui percorse
negli ultimi anni, ha concentrato la sua
attenzione sui mezzi con i quali comunichiamo, presentando quella che egli chiama la “Legge di Ong”: la comparsa di un
nuovo mezzo di comunicazione di massa
non distrugge il vecchio mezzo, anzi lo
trasforma profondamente, e il nuovo e il
vecchio si rafforzano reciprocamente. Da
un tale punto di vista il primo nodo cruciale
che si presenta è senz’altro il passaggio dal
linguaggio gestuale (che, secondo Vico,
veniva utilizzato dai primi uomini) a quello
verbale. Ma i gesti, sia quelli innati e universalmente compresi, sia quelli definiti
contestualmente ad una cultura, continuano ad accompagnare l’espressione orale. Il
problema della “teatralità” in un pubblico
discorso era ampiamente discusso nei manuali di retorica, come anche quello della
“topica” e della “promptuaria”: come rac-
CONVEGNI E SEMINARI
Salomon Resnik, Paolo Rossi (foto di G. Barbaro)
cogliere un gran numero di argomenti da
poter utilizzare all’occorrenza in una orazione. In altri termini, osserva Rossi, è il
problema della memoria il tema fondamentale in ogni cultura orale.
La comparsa della scrittura segna un passaggio più radicale: dall’udibile e temporale della parola orale, si passa al visibile e
spaziale della scrittura. Tramite la scrittura, la parola si stacca da noi, si fissa nella
materia, si conserva e può essere richiamata all’occorrenza: non c’è più bisogno di
ricordare; il pensiero è più libero. L’invenzione della stampa amplia e muta ulteriormente quella della scrittura. Ma l’ultimo
passo, in questa storia nella storia dell’uomo, è segnato dall’avvento dei computer
con il loro velocissimo progredire e diffondersi.
A questo riguardo Rossi tenta l’ipotesi
di una analogia fra il moderno e il postmoderno: così come Francis Bacon
scandalosamente indicava come novità
radicali non le filosofie, ma le invenzioni dei “meccanici”, potremmo noi far lo
stesso per la nostra epoca, guardando le
esplorazioni cosmiche come egli guardava i viaggi transoceanici, l’energia
nucleare come la polvere da sparo, i
calcolatori come la stampa? Quelle tre
grandi invenzioni modificarono l’uomo,
le sue conoscenze e suscitarono in lui
paure e speranze, esattamente come le
suscitano le tre “invenzioni” della nostra
epoca.
Secondo lo psicoanalista e psichiatra Salomon Resnik, il linguaggio della mente, pur
non essendo unico, è pittografico. Il dialogo è spaziale, ma asimmetrico, in quanto
contempla la diversità. Il modo per capire
ciò che si pensa è esser capaci di comunicare la propria esperienza; da qui i tentativi
dell’uomo si evolvono dai graffiti su pietra
alla scrittura alfabetica. Resnik ha paragonato in tal senso l’uomo a una tavoletta di
cera coperta da un foglio: la cera è come
l’inconscio; il foglio come una protezione
contro gli stimoli esterni; vi si può scrivere
sopra e poi cancellare, ma qualche traccia
resta comunque impressa nella cera.
Il neuropsichiatra Oliver Sacks è partito
dai suoi studi sull’emicrania per presentare
una ipotesi affascinante. Nei tentativi di
rappresentare, tramite disegno, le distorsioni che si producono nel campo visivo
durante attacchi emicranici, si può notare
la costante apparizione di strutture organizzate, reticolari o spiraliformi. La stessa
organizzazione a patterns emerge in individui sotto l’effetto di droghe come l’hascisc o la mescalina. L’ipotesi di Sacks è
che la corteccia visiva sia essa stessa autoorganizzata in strutture precise, con modelli geometrici ricorrenti, e che sia proprio
questa stessa struttura che si rivela in momenti particolari, come anche nell’immaginazione e nell’arte.
Lo svizzero Pierre Bovet, psichiatra di
46
Losanna, ha parlato dei disturbi del linguaggio in soggetti schizofrenici. Partendo
da una concezione “dialettica” della schizofrenia, secondo la quale bisogna tener
conto sia di componenti organiche, come
predisposizioni genetiche o malattie virali
pre o post-natali, sia dei processi psicodinamici nell’individuo, Bovet riprende le
concezioni dello psicologo russo Vygotsky.
Se per l’approccio cognitivista vi è identità
tra linguaggio e pensiero, ovvero anomalie
nella parola implicano anomalie nel pensiero, e se è il cervello che produce il
linguaggio, come una catena di montaggio
priva di interazioni dinamiche con l’esterno, Bovet propende per una distinzione dei
due fattori, interno-esterno, e tenta di inquadrare l’eziopatologia della schizofrenia in una dialettica incompiuta tra formazioni preconcettuali nel bambino e interazioni con le altre persone. Sulla stessa scia
anti-cognitivista si pone l’americano G. S.
Rousseau, secondo il quale l’analogia cervello-computer serve a dare solo uno dei
modelli possibili per il cervello, ma non ne
esaurisce le caratteristiche. Essere umani è,
sì, possedere un cervello, ma non in senso
riduzionista, bensì come un sistema globalmente inteso, che abbia la capacità di
raccontare e comprendere “storie”: un cervello biografo e narratore.
Lo psichiatra napoletano Sergio Piro ha
proposto nel suo intervento la costituzione
di una antropologia trasformazionale, che
ricongiunga le diverse scienze umane. Pur
mantenendo le necessarie diversità degli
strumenti linguistici propri delle discipline
umanistiche, un avvicinamento potrebbe
avvenire grazie a linguaggi operazionali
intermedi, cioè inerenti ad operazioni empiriche, così come ce li offrono sociologia
e psicologia. Di interesse schiettamente
psicoanalitico è stata invece la relazione di
Eugenio Gaburri, il quale ha esposto alcuni dei problemi di comunicazione tra
analista e paziente descrivendo come il
graduale unisono che si instaura tra i due
porti alla produzione di una interpretazione
dello stato effettivo del paziente.
Un’analisi del disegno infantile è stata proposta da Ruggero Pierantoni; mentre il
problema del polilinguismo, ovvero la conoscenza di più lingue fin dall’infanzia, è
stato oggetto di trattazione da parte della
psicoanalista Simona Argentieri, che si è
interrogata sui sistemi di libera associazione linguistica e di come questi possono e
vengono modificati dall’uso di una lingua
o più lingue diverse.
L’epistemologo Alessandro Pagnini ha
trattato dei “paradossi della razionalità”,
come recita anche il titolo di un libro del
filosofo americano Davidson. Come si può
spiegare l’intrinseca paradossalità delle
azioni acratiche, ovvero di quelle azioni
che vanno contro l’interesse del soggetto
agente, o che comunque non hanno spiegazioni razionali? Nell’ambito del panorama
cognitivista attuale, una spiegazione è fornita dalla teoria omuncolare presentata, sia
CONVEGNI E SEMINARI
pur in modi diversi, sia da Daniel Dennett
che da Davidson. Secondo quest’ultimo il
crollo delle relazioni di ragione è dovuta
alla partizione della mente in omuncoli,
appunto, ognuno dei quali possiede poteri
di causazione delle azioni, ma, ovviamente, non di spiegazioni razionali. Confortante, comunque, l’apporto di Pagnini, nel
quadro del convegno, a favore dell’ipotesi
cognitivista, sottolineando la capacità euristica del computer come metafora del cervello e ricordando come le macchine, nel
corso storico della riflessione umana, abbiano spesso ricoperto un ruolo metaforico
ricco di indicazioni fertili.
La poesia come linguaggio delle passioni è
l’argomento a cui il filosofo Remo Bodei
ha dedicato il proprio intervento. Al di là
dell’alternativa tra mimesi del mondo reale
e prodotto di immaginazione arbitraria, alla
poesia spetta, secondo Bodei, un terzo regno, sia pubblico che privato, ma intrinsecamente atopico. Inizialmente occorrerebbe indebolire l’idea di un mondo reale,
oggettivo e razionale, che abbia potere sulla mente, abolendo così l’antagonismo tra
“verità” artistica e “verità” oggettiva. La
poesia si situa ai margini dell’ovvio verso
possibilità all’interno delle quali ricrea densità di senso. Inoltre dovremmo liberarci
dell’idea di arte come rappresentazione: gli
oggetti artistici sono irrapresentabili essi
stessi, sono un altrove virtuale, ma che è già
qui, presente e inclassificabile. Così la poesia è anche utopia: coglie un mondo vero,
quello delle passioni umane, e gli conferisce una natura diversa da quella oggettiva.
Non bisogna tuttavia cadere nell’opposto inverso, ha osservato Bodei, nel quale la poesia abbia tagliato i ponti con la
realtà: l’arte non è solo ispirazione, ma
anche capacità di deformare l’immediatezza, di staccarsi dalle esperienze private. La poesia è nello stesso tempo
cognitiva ed emotiva ed esprime quelle
possibilità che altrimenti troverebbero
manifestazione come passioni non ancora elaborate e oggettivate. G.B.
bili complicati degli invisibili semplici»;
proprio questo, ha esordito Massimo Piattelli Palmarini, è ciò che programmaticamente si propongono le scienze cognitive
volte allo studio dell’intelligenza e della
mente umana. I “visibili complicati”, che
interessano le scienze cognitive sono costituiti da quelle numerose acquisizioni e conoscenze che tutti noi abbiamo, ma che
nessuno ci ha mai insegnato, che non abbiamo ricavato dall’esperienza, e che non
ci rendiamo nemmeno conto di possedere.
Noi uomini, ha osservato Piattelli Palmarini, siamo governati cognitivamente
da dei principi di razionalità, alcuni dei
quali scoperti già da Aristotele e dalla
logica classica e senza i quali ci sarebbe
impossibile comprendere i nostri simili e
convivere con essi; tuttavia spesso, nostro
malgrado, non rispettiamo le regole della
razionalità: partendo da premesse vere, siamo talvolta incapaci di arrivare ad una
conclusione vera, che pure si dà necessariamente. Un caso ben studiato fin dai tempi di Aristotele è quello del ragionamento
sillogistico; date ad esempio le premesse:
«tutti i ministri sono ladri» e «nessuno
dei benzinai è ministro», qual’è la deduzione logica da trarre? La conclusione
corretta è: «alcuni tra i ladri non sono
benzinai»: purtuttavia persone colte, intelligenti, non vedono questa conclusione. Si tratta in effetti di un’illusione
cognitiva di tipo deduttivo: ci sono pre-
messe certe introdotte dai quantificatori
“tutti” e “nessuno”, e una conclusione,
essa pure certa, introdotta però né da
“tutti”, né da “nessuno”, ma dal quantificatore “alcuni”, che per la maggior
parte no n riusc iamo a “ve dere” .
Un altro caso interessante, ha aggiunto
Piattelli Palmarini, riguarda la confusione
che c’è nella nostra mente tra probabilità e
causalità. Se si chiede ai soggetti, «sapendo
che una madre ha gli occhi celesti, quant’è
probabile che sua figlia abbia gli occhi
celesti», si ottiene una certa stima; se invece si chiede, «sapendo che una figlia ha gli
occhi celesti, quant’è probabile che sua
madre abbia gli occhi celesti», si ottiene
una stima minore della precedente. E’ chiaro che il colore degli occhi della madre è
una concausa del colore degli occhi della
figlia, ma non viceversa. Tuttavia, ciò è del
tutto irrilevante ai fini della ricerca di una
correlazione probabilistica; il fatto che la
causalità ci sia in un senso, ma non all’inverso, condiziona però talmente il giudizio
probabilistico da farlo slittare in senso causalistico.
L’importanza dello studio delle illusioni
cognitive, secondo Piattelli Palmarini, risiede nel fatto che errori di questo tipo
possono avere spesso conseguenze disastrose, come dimostra l’esame del seguente
test realistico, effettuato su un gruppo di
medici e studenti di medicina di Harvard.
Si disse loro che un test clinico, atto a
Introduzione
alle scienze cognitive
Spiegare fenomeni universali, comuni
a tutta la specie umana, apparentemente incomprensibili o fonte di illusioni, è lo scopo principale delle cosiddette scienze cognitive. A questo contesto problematico ha fatto riferimento Massimo Piattelli Palmarini in un
seminario dal titolo: INTRODUZIONE ALLE
SCIENZE COGNITIVE, tenuto dal 15 al 18
dicembre 1992 presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli.
Secondo il fisico francese Jean Petain «è
compito della scienza sostituire a dei visi-
Remo Bodei, Oliver Sacks (foto di G. Barbaro)
47
CONVEGNI E SEMINARI
rilevare la presenza di un certo tumore, era
stato effettuato su un certo individuo; il test
era risultato positivo. Sapendo che quella
forma di tumore colpisce in media un individuo su mille, e che il test ha un’affidabilità del 95% (cioè dà un 5% di falsi positivi), e senza sapere nient’altro sullo stato di
salute di quella persona, si chiese quant’era
probabile che avesse effettivamente il tumore. Ebbene, qui è piuttosto impressionante notare il divario fra ciò che le illusioni cognitive suggeriscono e il risultato a cui
portò il calcolo esatto: mentre infatti il 56%
dei soggetti rispose che era probabile nel
95% dei casi, e la grande maggioranza di
essi (75%) stimò comunque la probabilità
superiore al 50%, la risposta corretta, calcolata in base alla legge statistica di Bayes,
diede una percentuale inferiore al 2% dei
casi. La spiegazione di tale divario nella
valutazione è che se anche l’intuizione
suggerisce di combinare la probabilità che
il test clinico abbia fallito (5%) e quella che
l’individuo abbia contratto la malattia indipendentemente dal risultato del test (1%),
si tende spontaneamente a dimenticare o
comunque a sottostimare la probabilità
che qualcosa avvenga indipendentemente
da qualsiasi condizione esterna (fenomeno della “trascuratezza delle frequenze di
base”).
Il problema qui non sta tanto nella mancanza di strumenti analitici istintivi adeguati al
calcolo esatto delle probabilità, quanto nella fiducia e nella sicurezza malamente riposte nelle nostre istituzioni. In questo si
esprime la forza delle illusioni cognitive,
pari o addirittura superiore a quella della
ragione, e a cui siamo disposti a dare credito più che alla ragione; ciò implica la necessità di rivedere la classica partizione fra
percezione e giudizio, che se in molti casi
si presentano come due fenomeni distinti,
talvolta riesce difficile separare, ciò che
riguarda l’occhio da ciò che riguarda la
mente.
Si tratta allora, ha concluso Piattelli Palmarini, di allargare il concetto di epistemic
boundedness (delimitazione epistemica)
anche alla nostra specie; si tratta cioè di
capire che anche noi uomini, al pari dei topi
o degli scimpanzé, siamo degli organismi
biologici di natura contingente e finita, che
interagiamo col mondo attraverso i mezzi
che la natura ci ha fornito, e che tutto ciò
che possiamo pensare o scoprire è limitato
dalle nostre capacità cognitive. L.M.
Fonosimbolismo
e linguaggio poetico.
Col titolo: FONOSIMBOLISMO E LINGUAGGIO
POETICO si è tenuta dal 20 al 21 ottobre,
presso il Centro Internazionale di Studi Semiotici e Cognitivi di San Marino,
una serie di conferenze di semiotica e
linguistica, incentrate sul rapporto tra
capacità rappresentativa dei simboli e
composizione poetica. Tra i partecipanti al convegno: Linda Waugh, Masako K. Hiraga, Haj Ross, Ivan Fonagy.
Gli interventi si sono sviluppati per la maggior parte in aperta opposizione alla concezione strutturalista, che considera la relazione tra significato e significante una relazione convenzionale, dovuta cioè alla scelta arbitraria che una società primitiva attua
nel momento in cui decide quali suoni
assegnare a determinati oggetti e come
legare tra loro i segni che denotano e designano rispettivamente oggetti e concetti. Il
carattere iconico del lessico delle lingue
rivelerebbe piuttosto un legame stretto tra
simbolo e significato. In particolare, Linda
Waugh (“Degrees of Iconicity in the Lexicon”) ha indicato come uno dei risultati più
sorprendenti del genio precoce ginevrino
di de Saussure considerare l’attribuzione di
un valore “convenzionale” alla relazione
tra significante e significato come un’azione valida prevalentemente a livello sociale,
poiché imposta alla società dalla natura
delle cose. Il significato è rappresentato in
gradi differenti dal significante grazie a
caratteristiche proprie della lingua, quasi
che l’associazione sia avvenuta, in principio, per affinità tra la forma e la struttura
del significante - giacché è dell’immagine
e del diagramma che tratta Waugh - e il
concetto significato, per poi evolversi separatamente.
Masako K. Hiraga (“Iconicity as Principle of Composition and Interpretation: A
Case Study in Japanese Short Poems”) ha
presentato uno studio sull’incidenza dell’iconicità del linguaggio sulla composizione poetica, schierandosi a favore dell’interpretazione che vuole legate indissolubilmente immagine e segno, concetto e
significante, e che vede in Jakobson e Peirce i suoi più autentici promotori. Jakobson
sostiene infatti come il linguaggio abbia
proprietà non-arbitrarie di iconicità; i termini linguistici non sono dipendenti unicamente dalla nostra capacità di scelta arbitraria, ma ci vengono, per così dire, imposti
dalla loro stessa forza rappresentativa. Per
quanto riguarda invece la definizione di
icona data da Peirce, Hiraga si è soffermato
su due dei suoi tre sottotipi: immagine,
diagramma e metafora. L’immagine, cioè
la “somiglianza semplice, sensoriale e mimetica” con l’oggetto, non è stata trattata
da Hiraga, che invece ha approfondito l’importanza del diagramma, o analogia strutturale con il concetto, e della metafora, o
“parallelismo triadico rappresentativo”.
Nella composizione poetica, ha osservato
Hiraga, affiora l’importanza primaria della
capacità iconica del linguaggio, come dimostrano gli haiku e i tanka di alcuni poeti
giapponesi: emerge qui come l’artista, consciamente e, talvolta, inconsciamente, si
sia lasciato guidare nella scelta dei termini
dal maggiore grado di iconicità dei medesimi e di come la stessa capacità espressiva
48
insita nei termini usati ci aiuti a trovare una
nuova e più valida interpretazione dell’opera poetica.
Nel suo intervento Háj Ross (“The Taoing
of a Sound: Phonetic Drama in William
Blake’s The Tyger”) ha proceduto a un’analisi molto approfondita della struttura globale, della metrica, della forma delle singole parole, della posizione delle interrogazioni e dell’effetto fonetico emergente dalla poesia di Blake, che permette di scoprire
in essa la rappresentazione simbolica della
forza vitale taoista, il teh. In particolare, ha
fatto notare Ross, nella struttura centrale
del poema The Tyger si evidenzia un’alternanza di combinazioni sonore AB - BA,
che indica un’opposizione di fonemi e di
simboli del tipo della contrapposizione di
yin e yang, e nell’equilibrio finale raggiunto da questi due concetti compenetrantesi,
emerge la simbolizzazione tao. M.P.
Il sistema filosofico
In occasione della pubblicazione dell’edizione italiana del volume di Nicholas Rescher, LA LOTTA DEI SISTEMI .
FONDAMENTI E IMPLICAZIONI DELLA PLURALITÀ FILOSOFICA (traduzione di Nicola
Vassallo, introduzione di Andrea
Bottani, Marietti, Genova 1993) si è
tenuta a Milano il 20 gennaio 1991,
presso la Sala Incontri dell’ISU, la
conferenza dell’autore sul tema: L’interconnessione sistemica dei temi
filosofici, alla quale hanno partecipato Carlo Sini, Carlo Penco, Michele Marsonet e Andrea Bottani.
Autore tra i più prolifici della filosofia
americana contemporanea (ha scritto più di
60 libri) Nicholas Rescher è soprattutto
conosciuto per la sua teoria coerentista
della verità e per i suoi lavori sulla contraddizione e la coerenza in logica. La visione
che Rescher ha della filosofia fa parte della
“sua” filosofia: la sua metafilosofia è prescrittiva nel senso indicato da Robert Nozick, anche se le conclusioni che Rescher trae
da questo punto di vista sono diverse da
quelle di Nozick. La storia della filosofia è
vista come una serie di tentativi di riorganizzare il sistema di conoscenze del proprio tempo in modo da eliminare contraddizioni. I filosofi, osserva Rescher, si trovano in ogni momento della storia ad affrontare un insieme di tesi proposte per
spiegare l’esperienza, ma queste tesi non
riescono a formare un sistema coerente.
Solo scartando alcune di queste tesi e scegliendone altre si può rispondere al profondo bisogno di coerenza che pervade ogni
essere umano. Questa scelta porta inevitabilmente al contrasto tra diversi sistemi
filosofici.
Attraverso un’analisi dei diversi sistemi di
tesi in contrasto tra loro, Rescher propone,
CONVEGNI E SEMINARI
in questa sua opera, una storia della filosofia del tutto originale, che mostra il sorgere
del contrasto filosofico dai tentativi di trovare una coerenza all’interno di gruppi di
idee tra loro non tutte compatibili. Ma il
valore di quest’opera sta anche nella riflessione sul senso di questo lavoro, che aiuta
a chiarire il ruolo e lo statuto particolare
della filosofia rispetto alle altre dimensioni
del sapere. Nasce un affresco originale del
lavoro filosofico, che può venire classificato come “pluralismo degli orientamenti”,
un atteggiamento che è del tutto all’opposto dei settarismi correnti anche in filosofia.
Rescher difende con forza la sua posizione
contro le tentazioni del relativismo e dello
scetticismo; in particolare dedica una ampia parte del lavoro a una critica delle
posizioni di Richard Rorty, che rappresenta forse il suo antagonista più naturale,
per la sua visione della filosofia come impresa “edificante” più che come impresa
“cognitiva”. Rorty propone una filosofia
liberatoria come liberazione dalla filosofia; questa deve essere esiliata dalla sfera
della ragione, e in particolare dai problemi
della filosofia specialistica che sono solo
problemi e questioni dei filosofi. La reazione di Rescher si può riassumere con le sue
stesse parole: «La fondamentale divisione
del lavoro è già stata fissata da Platone, che
oppone il filosofo al poeta. Anche il secondo può descrivere possibilità e progettare
idee, ma è solo il primo ad occuparsi della
loro valutazione razionale - introducendo e
sviluppando argomentazioni pro e contro
la loro adozione. (...) Ritirandoci dalla lotta
delle dottrine e dal contrasto delle questioni, abbandoniamo il filosofare come impresa razionale».
Ma perché Rorty e tanti altri filosofi sono
portati verso scelte scettiche, irrazionaliste
o quanto meno non cognitiviste, tali cioè da
negare ogni valore cognitivo all’impresa
filosofica? Probabilmente, suggerisce Rescher, perché cercano di rendere coerente
l’insieme di idee comuni nel nostro tempo,
che non sono però compatibili tra loro: 1. la
filosofia è un’impresa di valore; 2. le imprese intellettuali di valore stabiliscono
tesi; 3. la filosofia non può stabilire tesi. La
negazione di 1. porta allo scetticismo; la
negazione di 2. porta al non cognitivismo;
solo la negazione di 3. permette di salvare
la filosofia come impresa cognitiva; ma
questo non vuole dire che le tesi filosofiche
siano assolute: esse si danno sempre nel
contesto di certi valori, presuppongono
scelte di valore cognitivo. Questa la conclusione del lavoro di Rescher: «sarebbe
bizzarro pensare che la filosofia non ha
valore perché le posizioni filosofiche sono
costrette a riflettere i particolari valori che
sosteniamo».
Nella conferenza in occasione della presentazione a Milano della sua opera: Il
conflitto dei sistemi, Nicholas Rescher ha
esordito ricordando come la filosofia anglo-americana abbia sempre più concen-
trato i propri sforzi su ricerche particolari e
su temi estremamente delimitati. Si è
conseguentemente sviluppata una divisione del lavoro e una specializzazione impensabili per i filosofi di epoche precedenti. Problemi filosofici che emergono in aree
a prima vista molto distanti fra loro sono,
spesso, tanto strettamente correlati, che
una posizione assunta riguardo a uno di
essi ha implicazioni profonde rispetto alle
posizioni assumibili in un altro. «Per questo loro intrinseco carattere di interrelazione - ha affermato Rescher - le posizioni
filosofiche in generale formano parti di
insiemi aporetici, e non possiamo risolvere queste aporìe senza la dovuta attenzione
per gli aspetti sistematici della discussione
filosofica».
Rescher ha paragonato la prassi filosofica a
quella di un ingegnere, che deve ottemperare, bilanciandole, a esigenze molteplici,
spesso in conflitto fra loro: efficienza, sicurezza, economicità. In questa situazione,
non ci servirebbe una vettura particolarmente sicura, ma una in grado di procedere
a non oltre tre chilometri all’ora. La medesima situazione vale anche per la riflessione filosofica: «l’ambito dei nostri interessi
filosofici è una rete, in cui ogni cosa è
interconnessa con ogni altra. Non abbiamo
alcuna alternativa sensata se non procedere
olisticamente. L’interconnessione sistematica dei problemi filosofici è un fatto inevitabile: in filosofia dobbiamo o sistematizzare, o lavorare invano».
La riflessione di Rescher prende dunque le
mosse dal rilievo del dissenso tra le varie
posizioni filosofiche, il cui non accordo
può valere come motivo di scetticismo nei
confronti non solo e non tanto dei contenuti
delle teorie, quanto soprattutto della pretesa di verità a cui le teorie, in quanto tali,
ambiscono. L’epoché scettica verte insomma direttamente sullo statuto veritativo delle
teorie filosofiche, aprendo così una serie di
questioni relative anzitutto al valore conoscitivo, in filosofia, del dissenso, e in secondo luogo al tipo di oggettività a cui
possono pervenire le conoscenze filosofiche. In merito al primo punto, Rescher
propone alla filosofia il ruolo di prassi
discorsiva, risolutiva, con un approccio
olistico, delle aporìe fra le singole conoscenze che ci sono consegnate dal nostro
patrimonio conoscitivo. Nei confronti della diversità delle teorie, Rescher rifiuta
l’incommensurabilismo, sulla base della
tesi dell’unicità del linguaggio, strumento
di attività semantica che, peraltro, non scioglie mai definitivamente le contraddizioni,
ma le porta a livelli di espressione sempre
più avanzati. La rinuncia all’oggettività
delle conoscenze che vengono in questo
modo via via acquisite, non comporta perciò, come ha sottolineato Andrea Bottani,
la rinuncia alla dignità gnoseologica dell’impresa.
Si pone a questo punto la seconda questione, relativa al carattere delle conoscenze
acquisite da questa prassi. A tale proposito,
49
Carlo Sini ha ritenuto importante il richiamo al pragmatismo di William James, sottolineando come esso avvicini la posizione
di Rescher a quella di Richard Rorty, e dia
nel contempo conto da un lato di un fenomeno di mediazione culturale tipico dell’evoluzione della filosofia analitica anglosassone, e dall’altro dell’approccio “olistico” e sistemico di Rescher alla questione
della verità. Su questo punto Michele
Marsonet ha posto la questione del rapporto fra pragmatismo e idealismo, tenendo
conto degli esordi idealistici di John Dewey,
un altro autore che costituisce un punto di
riferimento per la riflessione rescheriana, e
ha altresì sollevato il problema, a partire
dall’approccio olistico, di una possibile
rivalutazione della metafisica. A questo
proposito Carlo Penco ha obiettato che la
tendenza olistica pare debba essere posta in
secondo piano nel momento in cui si realizza in concreto la ricerca, che ha un carattere
essenzialmente specialistico. In realtà, ha
risposto Rescher, la “logica della scoperta
scientifica” è spesso sistemica, e prevede
l’interconnessione di tutti i tipi di conoscenze umane, ivi comprese quelle metafisiche. D’altra parte, la stessa “questione
olistica” riveste un carattere metafisico,
come pure le tesi fondamentali dei neopositivisti, che pure vorrebbero rifiutare la
metafisica. Se si dà contrapposizione fra
pragmatismo e metafisica, ha continuato
Rescher, essa può essere definita proprio a
partire dalle indicazioni di Dewey, e non
consiste in un’alternativa; poiché la metafisica rappresenta effettivamente, nella sua
versione idealistica, una deformazione della realtà, ciò non esclude comunque che
anche attraverso conoscenze metafisiche si
possa pervenire a un controllo della realtà
medesima, che è il tratto caratteristico del
pragmatismo. F.C./ C.P.
Ri-pensare l’Antropologia.
La lettura incrociata di due recenti
studi sul pensiero antropologico, il
primo di Hans Peter Duerr, TEMPO DI
SOGNO (trad. it. di F. Cassinari, Guerini
e Associati, Milano 1992), il secondo di
Silvana Borutti, PER UN’ETICA DEL DISCORSO ANTROPOLOGICO (Guerini e Associati,
Milano 1993), consente un ripensamento critico delle pratiche di ricerca
e dei riferimenti teorici comuni all’etnologia e all’antropologia ed apre interessanti orizzonti di ricollocamento
filosofico dei loro rispettivi assetti disciplinari. Un momento di approfondimento delle tematiche proposte in
TEMPO DI SOGNO di Hans Duerr è stata la
presentazione dell’opera alla Libreria
Feltrinelli di Milano (6 maggio 1993),
con la partecipazione di Flavio Cassinari, Alfredo Civita, Ugo Fabietti e Carlo
Sini.
CONVEGNI E SEMINARI
L’immersione in un’atmosfera di pozioni
stregonesche, profili di lupi mannari e sciamani volanti da impervi crepacci corrisponde ad una precisa strategia comunicativa di Hans Peter Duerr in Tempo di
sogno: arredare la scena narrativa per accogliere un personaggio, che si delinea solo
allusivamente nel susseguirsi dei vari capitoli e la cui piena identità viene esibita solo
al termine della trattazione. L’intenzione di
Duer è di tratteggiare la difficile e scomoda
figura del ricercatore sul campo, che vive
una situazione di doppio isolamento: dal
mondo della natura selvaggia, che il ricercatore indaga senza appartenere ad esso, e
dal mondo scientifico della civiltà moderna, da cui l’esperienza sul campo tende ad
allontanarlo. Questa solitudine, vissuta in
prima persona, è secondo Duerr la condizione inaugurale per una radicale critica
della etnologia, come disciplina scientifica, e delle sue metodologie di ricerca.
Un concetto-chiave di questa disciplina,
attorno al quale, come giustamente osserva
Flavio Cassinari, ruota tutto il ragionamento di Duerr, è quello di “limite” (Grenze), inteso come “delimitazione ed insieme
apertura” dall’interno, piuttosto che come
“confine”, barriera rigida (Schranke), che
separa due regioni estranee l’una all’altra.
La critica radicale di Duerr nasce proprio
da questo snaturamento del concetto di
limite compiuto dagli studiosi nei confronti della Wildnis, la dimensione della natura
selvaggia. L’effetto è il fraintendimento,
l’alterazione del messaggio nel rapporto
dialogico con l’interlocutore indigeno.
L’erezione della barriera della Zivilisation,
il processo di civilizzazione, di fronte alla
natura selvaggia è un fenomeno che risale
agli albori dell’evo moderno, con il generalizzarsi della persecuzione delle streghe.
Lo stesso atteggiamento mentale che ha
informato la logica dei processi alle streghe, osserva Duerr, è stato assunto dai
moderni studiosi della mentalità dei popoli
non ancora assorbiti dalla nostra civiltà: un
meccanismo difensivo di rifiuto erige una
barriera di presunta superiorità razionale e
impedisce di accogliere le “ragioni degli
altri”, se non filtrandole e accomodandole
alla nostra.
Questo atteggiamento è comune ad entrambi gli schieramenti operanti nel campo
dell’etno-antropologia, i dogmatici e i relativisti: i primi rinserrati nelle categorie
coltivate all’interno della barriera; i secondi disponibili a sorpassare lo steccato per
incontrare “gli altri”, ma pronti a rientrarvi,
senza mai mettere in discussione né i presupposti, né i confini del loro territorio. Il
passo decisivo diventa per Duerr quello di
riconsiderare la dimensione selvaggia come
qualcosa di originariamente costitutivo
della nostra civiltà e di condividere l’esperienza degli indigeni incontrati al di fuori
dei propri confini come qualcosa di non
totalmente altro. In una certa misura, il
ricercatore sul campo deve perdere il limite
per allargare la conoscenza dell’altro e di
sé, del luogo dove è transitato e di quello di
provenienza. Le pratiche dell’etnologo e le
corrispondenti riflessioni antropologiche
devono implicare un allargamento del noi
che pratichiamo e che vediamo allo specchio della nostra autocoscienza riflessiva;
gli spazi della nostra realtà effettuale
(Wirklichkeit) devono poter abbracciare una
possibile realtà in costituzione (Realität),
attingibile mediante un Erlebnis, un vissuto di esperienza.
Un movimento teorico insieme inverso ma,
per diversi tratti, convergente con quello di
Duerr è quello che ritroviamo nell’ultimo
lavoro di Silvana Borutti, Per un’etica del
discorso antropologico. Inverso, in quanto
l’approccio è costituito da premesse di tipo
filosofico ed epistemologico; convergente,
in quanto si arriva a riflessioni sullo statuto
delle pratiche e degli assetti disciplinari
dell’antropologia che si rivelano in opposizione a entrambi gli schieramenti denunciati da Duerr, i dogmatici dell’oggettivismo scientista ed i relativisti della convenzione radicale. Inoltre, anche Borutti assume il tema del limite come elemento portante della sua analisi, ma lo caratterizza
secondo una diversa intenzionalità filosofica, di ascendenza wittgensteiniana: il limite non è barriera, ma sfondo, contorno,
delimitazione e insieme apertura di un contesto. Il limite-orizzonte (Hintergrund) apre
lo spazio del gioco linguistico che presiede
una forma di vita; se per un verso traccia lo
spazio entro un contorno, per un altro apre
un ventaglio di possibilità, più precisamente si configura come trascendendale linguistico della vita comunitaria, mostrando
lo spiraglio attraverso cui accedervi.
Il linguaggio presenta caratteri di plasticità, si offre a continue rimodellazioni e
presenta una varietà straordinaria di pieghe
e sfumature, ma non può tutto, né a livello
semantico, né a livello dialogico: apre all’Altro, ma con oscurità, vuoti, lacerazioni.
Come passare il Zwischen, il “tra”, che
separa il Sé e l’Altro, la forma di vita
familiare e quella estranea e ignota? Su
questo punto le proposte di Duerr e della
Borutti divaricano: per Duerr il tramite è il
soggetto, ovvero lo stesso ricercatore, che
grazie ad un Erlebnis coglie la dimensione
selvaggia - con il rischio di subire la fascinazione di quella dimensione e non tornare
più dal suo viaggio; per Borutti, il tramite è
il medium linguistico ed una sua specifica
attitudine, la traduzione, che fa da ponte tra
i due universi.
La traduzione rappresenta inevitabilmente
un compromesso agito sulla contraddizione altrimenti insuperabile per cui «non si
può non tradurre» e, d’altro canto, «non si
può tradurre» in senso pieno e totale, da cui
ne segue la tensione mai pacificata nell’antropologo tra il vincolo del conservare la
differenza dell’Altro e la volontà di sapere
del Sé; condizioni entrambe ineliminabili
per rispettare il dialogo di alterità che solo
può evitare i due rischi contrapposti: o
50
l’annullamento dell’Altro entro il dominio
del Sé, o il dissolvimento del Sé con l’immedesimazione senza residui nell’Altro.
Nel dibattito che è seguito alla presentazione dell’opera di Duerr, Tempo di sogno,
alla Libreria Feltrinelli di Milano, Flavio
Cassinari, traduttore dell’opera, ha respinto
con forza il giudizio secondo il quale l’impostazione di Duerr debba considerarsi “ingenuamente esotica”. Al contrario, ha osservato Cassinari, Duerr ha messo a fuoco
le radici teoriche che accomunano sia l’etnologo sia il girovago hippy nei loro
rapporti con popoli non civilizzati: entrambi credono che la loro realtà sia
unica e monocentrica; solo che i primi
credono che la realtà di queste popolazioni sia sussumibile alla propria, i secondi invece che sia componibile con la
propria. Il merito di Duerr è di aver
indicato, sia attraverso una descrizione
storica, sia con il ricorso ad una analisi
teorica, che la realtà della Wildnis non è
una realtà altra, ma è il “buco nero”,
l’orlo rimosso e misterioso della civilizzazione. E’ questo il terreno di incontro
tra l’etnologo e il nativo, e la scrittura
etnografica deve avviare una sorta di
ricucitura tra i due mondi, o meglio,
deve evidenziare nella sua trama i segni
di uno strappo, di una lacerazione epocale, storicamente consumatasi.
A Duerr, eventualmente, si può imputare,
come ha fatto Alfredo Civita, il mancato
chiarimento circa i caratteri di questo fondo oscuro della Wildnis, costitutivo della
nostra civiltà e da questa esorcizzato: si
tratta di qualcosa di radicalmente altro e
inaccessibile, oppure di regolamentabile
ed esperibile attraverso appropriati rituali?
Sulla base di questa alternativa irrisolta si
sviluppa la riflessione proposta dall’autore, che si articola su tre piani distinti, ma nel
contempo collegati: un piano descrittivo di
tipo etnografico (un racconto delle esperienze-limite dalla Grecia del mito ai giorni nostri); un piano teorico-epistemologico (un’analisi del valore di verità degli
enunciati dei nativi); infine un piano
filosofico-morale (sui connotati della
civiltà occidentale).
Riprendendo questa impostazione, Ugo
Fabietti ha sintetizzato nel suo intervento
quello che è diventato il problema antropologico per eccellenza: quale è la corretta
impostazione che permette al ricercatore
l’approccio all’alterità culturale? Secondo
Fabietti, la proposta di Duerr ci offre una
prospettiva interessante, quando sostiene
che il ricercatore deve rimanere a cavallo
tra i due mondi, quello a cui appartiene e
quello che è l’oggetto del suo studio. In tal
senso viene esclusa qualsiasi impostazione
di tipo scientista, che pretenda di fissare
con rigidità tassonomica e formalizzante la
conoscenza delle altre culture; come, d’altro canto, l’approccio ai significati di queste culture non è garantito da un processo di
immedesimazione nei soggetti che ad esse
appartengono.
CONVEGNI E SEMINARI
Per quanto riguarda la questione delle categorie interpretative da applicare nella conoscenza di queste culture, Fabietti ha proposto la distinzione tra comunicazione sul
campo e comunicazione al pubblico (la
comunità scientifica, gli studenti, i lettori
delle opere di divulgazione). Nel primo
caso, il ricercatore procede per gradi, e
comincia da una vera e propria simulazione
di un’altra forma di vita, che con il passar
del tempo egli perfeziona, accelerando,
quasi inconsciamente, questo processo
di interazione con l’altro. Nel secondo
caso, il grado di comprensione acquisita
sul campo si evidenzia nel tasso di plausibilità che assumono le descrizioni etnologiche quando sono presentate al
pubblico; in questa situazione comunicativa, è opportuno un assiduo e meditato rinvio tra le categorie analitiche dell’antropologo e quelle del nativo, al fine
di far intendere al pubblico ciò che il
ricercatore crede di aver capito sul campo.
Carlo Sini, infine, ha analizzato alcune
implicazioni delle posizioni di Duerr sul
versante filosofico, ricordando l’osservazione di Foucault contenuta ne Les
mots et le choses secondo la quale vi
sono due scienze di confine, destinate ad
esplodere in quanto tali ed a diventare
luoghi di interrogazione filosofica, ovvero la psicoanalisi e l’antropologia. Esse
mettono in scacco la nostra ambizione
epistemologica di dominio intellettuale
sull’Altro, che è una sorta di esorcismo
nei confronti della differenza, interna ed
esterna a noi.
In questo contesto riflessivo occupa un
ruolo centrale il problema della comprensione. Duerr prende significativamente le distanze dalla posizione di Habermas, che sostiene l’idea di una illimitata trasparenza comunicativa dei linguaggi naturali. Tuttavia, la posizione di
Duerr rimane a questo proposito non
sufficientemente approfondita: la comprensione non è solo evento, non coincide con la pratica della traduzione, in
quanto trasferimento di significati da un
universo discorsivo a un altro. L’interazione con il “gioco linguistico” di una
differente forma di vita, riprendendo Wittgenstein, impone uno sguardo capace di
scrutare, sotto la superficie comunicativa, la fisionomia, opaca e inquietante,
dell’Altro che c’è in noi, oltre che nell’interlocutore di fronte a noi. F.S.
Il dibattito sorto in occasione della presentazione dell’opera di Duerr ha messo
in evidenza alcuni motivi di riflessione,
che abbiamo proposto a Silvana Borutti, non presente all’incontro. L’intervista che segue è di Franco Sarcinelli.
Un punto forte del discorso di Duerr è
l’idea che l’etnologo scientifico non sia
cosciente della Wildnis da cui si è originata la nostra modernità. Che cosa ne
pensa di questo vizio di fondo della etnoantropologia contemporanea?
Ciò che mi sembra assolutamente vero è
che l’oblio dell’origine, del proprio carattere storico e quindi della differenza
in rapporto ad altre forme di civiltà, sia
tipico della forma moderna occidentale
di civilizzazione. La razionalità scientifica è di per sé monologica. Per chi vive
in essa, la forma di vita scientifico-razionale, dominata dai modi tecnologici
del rapporto col mondo e dai modi logico-calcolistici del pensiero, appare come
una necessità e un assoluto: sembra di
poter pensare solo in essa. E’ vero anche
che l’etno-antropologia ha ripetuto questa rimozione e ha praticato inconsapevolmente una vera e propria volontà di
sapere, che è diventata un’oggettivazione dell’altro. Ma osserverei anche due
cose: da un parte il dibattito epistemologico nell’antropologia contemporanea,
che è molto vivo (pensiamo ad esempio
alla discussione tra la prospettiva interpretativa e quella oggettivistica), ci dice
che l’etno-antropologia riflette ormai
sulla propria volontà di oggettivazione e
si pone il problema della differenza (il
libro di Duerr, del 1978, appartiene agli
anni iniziali del dibattito); dall’altra parte, l’asimmetria sottolineata da Duerr tra
lo stregone e l’antropologo è riconducibile anche alla differenza tra una forte
esperienza di appartenenza comunitaria,
tra il limite come vissuto di identità per
lo stregone, e il sentimento occidentale,
molto più labile e incerto, dell’appartenenza e dell’identità: il viaggio dell’antropologo non è solo volontà di sapere,
ma anche confessione e détour alla ricerca di sé.
Duerr sostiene che tradurre non è comprendere, perché esclude quel trasferimento vitale nel mondo del nativo - ad
esempio vivere l’esperienza dell’ululare coi lupi - che sola costituisce la base
di una genuina comprensione. Ma allora comprensione e traduzione si contrappongono o, in ogni caso, sono nettamente distinguibili?
In sintesi: Duerr pensa che comprendere
l’altro sia il trasferimento vitale nel suo
mondo, l’empatia, il diventare l’altro; io
penso invece che comprendere sia tradurre, sia un tornare presso di sé dopo
essere stato presso l’altro. Perché la traduzione è, a mio parere, esemplare del
comprendere antropologico? La comprensione antropologica, come l’apprendimento di una lingua, richiede certamente l’immersione in una forma di vita,
in un addestramento, una formazione
che sia insieme linguistica e sociale, e
che metta l’antropologo nella condizione di poter partecipare a giochi linguistici regolati. Ma, così come una traduzione è il trasferimento nel proprio corpo
linguistico dei significati dell’altro testo, la comprensione antropologica è un
apprendimento finalizzato a dire l’altro
nella nostra lingua, non a diventare l’altro: è una pratica della differenza, non
51
dell’identità.
L’assunzione del punto di vista dei nativi deve cioè rimanere uno sforzo cosciente e riflesso di simulazione e di
traduzione - un processo, come dice Papi,
di «simulazione ontologica necessaria».
Comprendere non è diventare l’altro, ma
simulare l’altro a partire da sé.
Si può ritenere che la comunicazione sul
campo dello studioso con il nativo si
fondi su categorie implicite e su atti
enunciativi complessi mentre, di fatto,
la necessità di tassonomie e formalizzazioni s’imponga nel momento della comunicazione dello studioso al suo pubblico?
Credo che l’opposizione tra un’esperienza sul campo, che avviene attraverso le
strutture del dialogo in atto (mosse enunciative complesse, negoziazione dei ruoli, riferimento alla relazione in atto, fraintendimenti, compromessi, ecc.) e la comunicazione scientifica, che avviene attraverso categorizzazioni teoriche proprie di una comunità di sapere, corrisponda perfettamente all’esperienza dell’antropologo. Forse è corretto aggiungere che sul campo l’antropologo deve
fare in modo che la sua intenzione scientifica, che è una condizione inevitabile,
non gli impedisca di mettersi in dialogo.
Molti antropologi (Favret-Saada, Guidieri, Sperber) raccontano esperienze sul
campo in cui, per superare l’impasse di
un dialogo impossibile, hanno dovuto
ristrutturare in parte il proprio “comportamento scientifico” e il proprio modo di
far ricerca.
Ponendo la scrittura antropologica come
scrittura filosofica, si potrebbe sostenere
che il problema della comprensione dell’Altro in antropologia si risolve nella questione della descrivibilità dell’esperienza
propria, ovvero nel suo essere altra?
Direi di sì, e risponderei che la scrittura
antropologica è scrittura filosofica proprio perché è esemplare del percorso non
narcisistico (uscita da sé, via lunga che
passa attraverso l’alterità, come dice Ricoeur) che deve essere la conoscenza di
sé. Potremmo pensare l’antropologia
come lavoro di comparazione che non
mira all’universalizzazione ( a trovare
l’umano in generale), ma piuttosto al
riconoscimento contrastivo e asimmetrico di sé: noi, primitivi - come dice il
titolo di un libro di Francesco Remotti;
noi che possiamo attraversare la distanza dell’altro solo dopo aver preso distanza da noi - come diceva Lévi-Strauss,
leggendo nelle Confessioni di Rousseau
la fondazione delle scienze dell’uomo.
Più in generale, quali contributi specifici la filosofia potrebbe offrire all’antropologia, contributi spesso richiesti esplicitamente dagli antropologi militanti?
Oggi nessuno pensa più che ci siano tipi
di conoscenza che richiedano l’assoluta
spontaneità dell’approccio, né, all’opposto, che le metodologie siano strutture
CONVEGNI E SEMINARI
Cranio umano ricoperto di argilla dipinta, Nuova Guinea, Sepik
52
CONVEGNI E SEMINARI
indiscutibili ed elaborate una volta per
tutte. La messa in chiaro dei livelli della
comprensione e della costruzione della
conoscenza antropologica (dialogo sul
campo, costruzione delle descrizioni etnografiche, scrittura finale del testo antropologico) è un compito che ha aspetti
filosofici e epistemologici, che emergono sia nelle riflessioni degli antropologi,
sia nei loro scambi coi filosofi - come ha
dimostrato il dibattito, ancora in corso,
sul modello interpretativo in antropologia.
Il che mette in luce, d’altro canto, che la
filosofia, se è un discorso socialmente
raro, cioè non immediatamente volgarizzabile, non è tuttavia un discorso separato, ma immesso nella comunicazione scientifica e sociale.
Fondamenti della geometria
Dal 21 al 25 settembre 1992 Imre Toth
ha tenuto, all’Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici, un seminario sul tema:
LA CRITICA DELLA RAGION PURA E LA RICERCA
DEI FONDAMENTI DELLA GEOMETRIA NEL XVIII
SECOLO . Scopo
delle riflessioni di Toth
è stato di dimostrare l’importanza
della concezione kantiana della matematica nell’evoluzione storica che ha
portato a fondare una geometria non
e
u
c
l
i
d
e
a
.
Come per molti filosofi prima di lui (Euclide, Platone, Descartes, Leibniz, per citarne
solo alcuni) anche per Immanuel Kant la
matematica riveste un ruolo notevole nel
suo sistema filosofico. Prendendo spunto
dal postulato euclideo delle parallele, Kant
si pone la questione se le verità indubitabili
(i postulati) possono essere dimostrate, dove
per dimostrazione si intenda ciò che una
certa collettività umana, in un dato momento storico, accetta come dimostrazione. La questione tuttavia non è tanto quella
di accertare la verità delle proposizioni (per
esempio, che da due punti passa una retta e
una sola), ma se da un certo numero di
proposizioni dipende la formulazione di
altre proposizioni. Di fatto, solo dopo la
scoperta della geometria non-euclidea il
pensiero filosofico diverrà cosciente della
diversità delle due questioni, dando vita, ad
una “meta-matematica” e ad una “metageometria”, in quanto ricerche scientifiche
con metodi loro propri.
L’intuizione kantiana di una geometria non
euclidea risale al 1746; è, infatti, a quest’epoca che risalgono i suoi pensieri sulla
possibilità di una creazione divina di mondi paralleli. Kant afferma che dal punto di
vista metafisico è possibile che Dio abbia
creato milioni di mondi, anche di quarta
dimensione. Essi tuttavia non possono essere conosciuti dagli uomini, ai quali è
precluso ogni contatto con questi mondi:
per gli esseri umani l’esistenza o la non
esistenza di questi mondi è “indecidibile”
con mezzi logici; tali mondi, infatti, devono avere una giustificazione assolutamente
differente, per cui le nostre verità geometriche non sono valide.
La novità di queste deduzioni, ha osservato
Imre Toth, è la presenza chiara in Kant del
problema della pluralità dei mondi, un problema che egli imposta sul piano prettamente geometrico, dato che essi si distinguono per la loro “quadrimensionalità”.
Una geometria di quarta dimensione è già
una geometria non euclidea in senso generale. Interessante, secondo Toth, è anche la
consapevolezza kantiana dell’esistenza di
attributi geometrici che sono in relazione
sintetica con le altre proprietà geometriche. Nella Critica, invece, anche a seguito
dell’influenza fondamentale di Klügel su
Kant, vi è un cambiamento radicale del
repertorio geometrico: la quarta dimensione scompare totalmente. Il problema della
quarta dimensione, secondo Klügel, era
infatti enigma dello Spirito umano e non un
problema di geometria. Questa consapevolezza era presente anche in Kant, già nel
1770. Inoltre, ha rilevato Toth, nell’affermare che la somma degli angoli di un
triangolo può essere maggiore di un angolo
piatto, Kant mostra di essere a conoscenza
dell’opera di Saccheri, che ne aveva dato
dimostrazione.
Nei decenni a partire dal 1760 Kant arriva,
dunque, alla convinzione che le proposizioni della geometria sono in realtà sintetiche. A tale riguardo, nella Critica Kant
afferma che dal concetto del triangolo (euclideo o meno) non è possibile desumere se
la somma degli angoli sia o meno uguale ad
un angolo piatto; in altri termini, la seconda
proposizione ha il carattere della sintesi, è
sintetica e non analitica. Con questo, ha
concluso Toth, Kant ha fatto una vera e
propria “rivoluzione copernicana”, decisiva per lo sviluppo ulteriore della matematica e della geometria. Il principale merito
di Kant è soprattutto quello di aver distinto
la “verità” delle proposizioni dalla “derivabilità” o “non derivabilità” di una proposizione da un’altra. Se però due proposizioni
sono inderivabili e non contraddittorie e se
la sorgente della verità è il soggetto (umano) libero, con quali mezzi si può fondare
il sentimento della certezza della verità
euclidea? A questo riguardo Toth ha evidenziato come Kant faccia una scelta che
lui stesso considera “arbitraria”, affermando che ciò che deve essere motivato non è
la congiunzione del predicato con il soggetto (il triangolo è euclideo), ma la necessità apodittica della congiunzione a priori.
E tale necessità deriva dal fatto che esistono verità pure a priori nel soggetto (e tra
queste vi è la geometria euclidea) che impongono questa soluzione.
Toth ha richiamato in tal senso C. F. Gauss,
più o meno contemporaneo di Kant, il quale è il vero e proprio fondatore della geometria non euclidea. Come risulta dalle sue
lettere all’amico Wolfgang Bolyai, egli
visse in grande tormento interiore perché,
pur essendo un kantiano convinto, si trovava ad aver scoperto una geometria total53
mente sconvolgente. Soltanto dopo
trent’anni (dal 1804 circa) Gauss riesce
finalmente a raggiungere una serenità interna, evidenziata anche dal fatto che egli
stesso battezza le sue scoperte come “geometria non euclidea”. Quasi contemporaneamente anche un altro studioso, Lobacevskij, raggiunge gli stessi risultati di Gauss,
a più di 4000 Km. di distanza e senza che vi
sia stato alcun contatto con il matematico
tedesco. Gauss arriverà poi alla conclusione che entrambe le geometrie (quella euclidea e quella non euclidea) hanno uguale
«diritto alla cittadinanza».
Secondo Toth, questa metafora ha grande
importanza. In primo luogo, per un motivo
storico-politico: infatti Gauss è un accanito
sostenitore della monarchia costituzionale,
nella quale tutti devono essere posti sullo
stesso piano. Egli inoltre ha mostrato che la
verità del soggetto, l’etica, è sovrapposta
alla geometria e non viceversa. Allora se
una delle due geometrie è vera, è vera
anche l’altra: il diritto di esistere appartiene
ad entrambe, senza alcuna discriminazione. La scelta dell’una o dell’altra è comunque “arbitraria”. E questa è la differenza
rispetto a Kant, che considerava “arbitraria” solo la scelta della geometria non euclidea. L’esistenza delle due geometrie è,
dunque, la dimostrazione di un’unica verità: che la scelta dell’una o dell’altra è
assolutamente libera.
La nuova verità della geometria non euclidea lascia intatta la verità di quella euclidea: se la seconda parte dell’affermazione
che la somma degli angoli di un triangolo è
uguale ad un angolo piatto, la prima, viceversa, parte dall’affermazione che la somma degli angoli non è necessariamente
uguale a un angolo piatto. S.Ba.
Aspetti filosofici
della letteratura russa
Inoltrandosi nella storia della letteratura russa da Pusckin a Dostoevskij e
Tolstoj, Georg Friedländer, dell’Istituto Puskin di Mosca, ha condotto
presso l’Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici di Napoli, dal 19 al 22 ottobre 1992, un seminario dal titolo: ASPETTI FILOSOFICI DELLA LETTERATURA RUSSA,
mettendo in rilievo momenti significativi nella tradizione letteraria russa
che hanno dato sviluppo al pensiero
filosofico.
Lo sviluppo del pensiero filosofico in Russia non segue inizialmente una linea autonoma ma, fino al XVII secolo, è legato alla
religione orientale e quindi a Bisanzio. La
nascita di movimenti eretici e di una scienza laica, libera dall’influsso della Chiesa,
avviene solo nel Settecento, in seguito alla
penetrazione del Cattolicesimo e del Protestantesimo attraverso la Polonia e la Ger-
CONVEGNI E SEMINARI
mania. Ed è proprio con Pietro il Grande,
che nel 1713 spostò la capitale a Pietroburgo, che la letteratura russa comincia ad
accogliere influenze e suggestioni tipiche
della cultura europea. Pietro il Grande incrementò la vita culturale russa dando inizio all’accademia delle Scienze e all’Università di Pietroburgo. Inoltre, essendo del
tutto assenti nel grande paese figure di
spessore filosofico, si rivolse a Leibniz e la
suo allievo Wolf per istituire una linea di
pensiero autonoma.
Diversamente da quanto avviene in Germania, ha osservato Georg Friedländer,
lo sviluppo della filosofia in Russia non è
generato dall’Accademia o altre istituzioni; è legato prevalentemente alla letteratura
e si concentra, in primo luogo, su riflessioni concernenti la grandezza di Dio e il ruolo
dell’uomo nell’universo assieme a tematiche di sfondo sociale, quali il rapporto
nobiltà-servitù della gleba. L’Ottocento si
apre in Russia con le Favole di Krylov,
ricche di folklore e leggende, ma nel contempo protese verso la realtà contemporanea e le suggestioni straniere. Il Romanticismo trova qui un terreno culturale e
psicologico particolarmente sensibile, tipico del processo di trasformazione in atto
in ogni ambito del sapere. Quando in Occidente Byron ha pubblicato i primi due
capitoli del Don Juan, Manzoni Il Conte di
Carmagnola e Goethe il Wihlelm Meister,
trionfa l’opera di Aleksandr Puskin, che
regala alla letteratura del grande Paese
risonanza mondiale. Il tratto caratterizzante della sua produzione letteraria, ha
osservato Friedländer, sta nell’ampio arco
di tematiche e personaggi da lui analizzati
con acume e chiarezza.
Figura difficilmente inquadrabile in una
sola corrente o definizione, Puskin è stato
accostato al genio universale di Goethe o a
Leonardo da Vinci, ma egli è prevalentemente un poeta-artista, pronto a rielaborare
creativamente tutto ciò che lo circonda. Sin
dagli anni del liceo, pur non potendo seguire delle regolari lezioni di filosofia, Puskin
compone delle poesie giovanili di squisito
contenuto filosofico dove è ben presente
l’introspezione e uno schietto entusiasmo
nei confronti della vita e dei suoi valori.
Egli non si pone, come i suoi predecessori,
il problema sul registro linguistico più appropriato da usare; l’opera riflette il fluire
della vita ed è pertanto musicale e spontanea e le trame dei suoi romanzi, pur essendo estremamente lineari, ricoprono un disegno complesso. E’ tipico del talento di
Puskin, ha notato Friedländer, riuscire, attraverso semplici soggetti, ad analizzare i
problemi basilari dell’esistenza umana.
L’adozione di un realismo lirico nella descrizione dei vari aspetti della vita russa lo
porterà nei Racconti di Belkin ad una purezza estetica raggiunta nonostante la scarna semplicità dei personaggi.
Se con Puskin si dà inizio alla letteratura
russa moderna, Fedor Dostoevskij, ha osservato Friedländer, delinea un filone ben
determinato e consistente nella narrativa.
Impressionato dalla miseria del sottoproletariato urbano, scrive il suo primo romanzo, Povera gente, incentrandolo sulla pietà
per l’uomo socialmente subalterno ed emarginato, sulla simpatia per i puri di cuori e
sulla vocazione umanitaria, temi che farà
suoi e che ritorneranno in Umiliati e offesi
e nei Fratelli Karamazov. Benché Dostoevskij non avesse una particolare formazione filosofica, fu convinto assertore dell’interrelazione esistente tra filosofia e letteratura. Successivamente pubblica Il sosia,
narrazione che ribadisce il profondo interesse dell’autore per la problematica psicomorale legata allo sdoppiamento della personalità, in cui l’alter ego compare come
una persecuzione. In Dostoevskij, diversamente da Freud, l’inconscio non ha una
dimensione astorica, ma è legato alla civiltà e precisamente a quei tre stadi della vita
dell’uomo che dalla mitica età dell’oro
approdano, col futuro, al sogno di una
nuova armonia, passando per lo stadio
intermedio del presente come epoca di
malattia e passaggio, dimidiata tra il bene
e il male.
Tra il primo e il secondo periodo si colloca
l’esperienza della condanna a morte in
Siberia, che segnerà la sua produzione al
punto tale da fargli scoprire al suo ritorno
il “positivo” sul piano spirituale anche
nella rappresentazione del mondo degli
emarginati. Tale analisi psicologico-introspettiva, e la capacità di illuminare la
condizione di “condannato”, troverà con
Memorie del sottosuolo, la sua migliore
realizzazione. L.R.
Fenomenologia del politico
Nella sede dell’Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici di Napoli, dal 2 al 6
novembre 1992, Klaus Held, dell’Università di Wuppertal, ha tenuto un
seminario sul tema: LA FENOMENOLOGIA
DI HUSSERL E DI HEIDEGGER E I GRECI , sottolineando l’esigenza filosofica di un
rinnovamento dell’apertura umana al
mondo.
La fenomenologia può fornire, secondo
Klaus Held, un importante contributo nel
delineare l’attuale orizzonte della filosofia.
E’ però necessario riconsiderare il pensiero
di Edmund Husserl che, pretendendo cartesianamente di dare nuovo inizio al filosofare, ripropone in effetti la distinzione greca tra epistéme e doxa. Se la prima rimanda
alla “percezione dell’unità”, propria della
scienza rigorosa, la seconda esprime i “mondi particolari”, cioè la settorialità dell’esperienza soggettiva. Husserl, come i Greci, si
risolve fondamentalmente a tagliare i ponti
con l’esperienza naturale a favore dell’atteggiamento filosofico. Tuttavia, ha osservato Held, il senso teoretico e storico della
54
fenomenologia presenta tratti del tutto nuovi, in quanto essa esige la tematizzazione
del mondo. Il logos del fenomenon, infatti,
è la teoria dell’apparenza, e in quanto tale
è l’analisi della correlazione tra diverse
esperienze soggettive, che vengono perciò
non negate, ma coordinate fra loro per il
fine della conoscenza.
Martin Heidegger, ha proseguito Held,
sviluppa ulteriormente il tema del mondo
quale elemento centrale della fenomenologia, ponendo la distinzione tra vita autentica e inautentica, in cui si esprime l’apertura
al mondo all’interno della polarità svelamento-nascondimento. L’uscita della latenza è possibile laddove entra in gioco la
tonalità emotiva, quello «stupore ammirato per il fatto di esserci», che i Greci indicavano con il termine taumazein. Uscire
dall’agire strumentale della quotidianità,
significa “sostare” presso le cose, scoprendo i rimandi di senso che caratterizzano
l’ordine del kosmos. Nel momento in cui
l’uomo deve deliberare e sosta presso le
sue possibilità d’azione si svela invece il
mondo politico, con i problemi politici
legati alla convivenza sociale. La scienza
del kosmos e la democratizzazione della
polis sono i modi in cui i Greci avevano
scoperto il mondo.
Eraclito paragona l’ordine del kosmos (logos) con quello della polis (nomos) e critica
la doxa in quanto contrapposta all’epistéme. Ciò può sembrare in contraddizione
con il concetto di democrazia fondato sul
confronto tra le opinioni. Invero bisogna
distinguere la doxa come atteggiamento
naturale, per cui ognuno resta nel proprio
mondo particolare, dal logon didonai, di
cui parla lo stesso filosofo di Efeso, che è
invece un rendiconto a viva voce motivato
da ragioni. In tal modo l’opinione resta
soggettiva ma punta, come il giudizio riflettente di Kant, a trascendere l’interesse
particolare per trovare unità nel comune
mondo politico: la democrazia.
Anche la cosmologia, come studio delle
leggi connesse all’ordine di mondo, non
esula, pur nella sua unità di riferimento,
dalla prospettiva individuale. Si origina
infatti da quello stupore che permette di
sostare presso le cose e che è esperito come
tonalità emotiva. Il rapporto dei Greci con
la totalità passava per la famiglia, la pratica
quotidiana, il ciclo del raccolto: il kosmos
era l’oikos, il luogo della conservazione
della vita, l’ambito domestico che si sottrae
alla dimensione pubblica della polis. Tale
intimità con il cosmo è oggi scomparsa
nella tendenza alla specializzazione dei
saperi, anche se ancora non si può fare a
meno di quella nozione di “familiarità”,
adoperata da Husserl, necessaria per comprenderne, ad esempio, gli attuali problemi
di ordine ecologico. Per superare l’oggettivismo moderno occorre far riferimento,
come nella Crisi delle scienze europee,
all’ambito precategoriale e intuitivo della
Lebenswelt. Tornare all’evidenza originaria significa per Husserl riscoprire la di-
CONVEGNI E SEMINARI
mensione intuitiva del mondo della vita,
ma anche rapportarla all’orizzonte universale attraverso il principio di correlazione.
La crisi del moderno, ha osservato Held,
implica un’anamnesi che scopre nell’oblio
la sigla dell’epoca presente: perde infatti
ogni importanza il mondo com’è per noi e
si guarda soltanto alla sua inseità. L’orizzonte individuale relativo, attraverso il quale
si poteva scorgere quello universale, è sostituito dalla categoria di totalità. Questo
rifiuto della soggettività implica la perdita
l’originaria libertà d’interesse della teoria;
la filosofia e la scienza si lasciano assorbire
in modo assoluto dall’aspetto professionale, riducendo il sapere a mera tecne, cioè
ingegnosità finalizzata ad uno scopo. Senza il limite husserliano del suo dissolvimento nell’infinito, la finitezza assume un
carattere del tutto nuovo in Heidegger, laddove la dimensione dell’apertura si schiude a partire dalla latenza, dal sottrarsi dell’uomo alla comprensione.
L’oggettivismo moderno si rafforza nel
passaggio dal fuoco all’energia come elemento vitale della scienza. Quest’ultima
infatti non ha qualità, è puro quantum di
forze: l’universo è dunque una sorta di
deposito di cui l’uomo può disporre. Tutto
sembra a disposizione e viene utilizzato in
chiave meramente tecnica e funzionale,
venendo meno il senso degli infiniti rimandi, del riserbo per cui ogni cosa connette ad altro da sé. Con ciò si esaurisce
anche la possibilità dell’esistenza autentica e si spiega quella politicizzazione da cui
nasce il totalitarismo.
La fenomenologia, ha osservato Held, deve
allora mettere al centro del suo interesse
l’ambito politico in una connessione di
ethos e kairos, di libertà e situazione favorevole, riscoprendo l’aspetto soggettivo
dell’interiorizzazione che passa per la coscienza del limite: il totalitarismo è infatti
un tentativo di negare l’individualità e di
fornire all’ethos un carattere vincolante.
Recuperare lo stupore, quindi il riserbo che
lo sostiene, è possibile attraverso una tonalità emotiva che Heidegger chiama angoscia e che è disponibilità di fronte al ritrarsi.
Ma anche la felicità può essere adatta a
scoprire il sorprendente ripetersi della vita
umana nell’altro. G.V.
L’eresia gnostica
Nel corso di un ciclo di lezioni su CRISTIANESIMO , GNOSTICISMO E FILOSOFIA NEL L’ELENCHOS DI IPPOLITO DI ROMA, tenute
all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici dal 16 al 19 novembre, Jaap Mansfeld, dell’Università di Utrecht, ha ripercorso i principali nodi dottrinali
della prima patristica nella refutazione dell’eresia gnostica, dando ampie
informazioni sulle tradizioni del pitagorismo, del platonismo, dell’aristo-
telismo e dello stoicismo nei primi due
secoli dopo Cristo.
Innanzitutto Jaap Mansfeld ha voluto chiarire struttura e fonti, scopi e metodi di un
testo singolare come la Confutazione di
tutte le eresie, nota altrimenti come Philosophoumena di Ippolito di Roma (235
d.C.). Nel primo libro, Ippolito ci offre una
storia dettagliata della filosofia greca; nei
successivi - sono dieci libri- sviluppa il
confronto fra hairesis nel senso originario
del termine: scelta di un modo di pensare e,
per estensione, scuola filosofica, e hairesis nel senso derivato e cristiano: scelta
illecita, quindi deviazione dottrinale, con
l’intento di dimostrare che i sistemi gnostici sono in verità travestimenti della
tradizione filosofica greca. Per far questo Ippolito ordina in un certo modo i
frammenti, insiste sulla linea PitagoraPlatone, e nella refutazione degli gnostici definisce la loro diadioché illegittima
di fronte a quella cristiana: i cristiani
sono gli eredi degli apostoli ispirati dallo Spirito Santo, gli gnostici, invece,
non sono parte integrante dell’unica diadoché valida, che rimanda allo Spirito
Santo e agli Ebrei, in questo sono debitori
intellettu ali
de i
greci.
Il primo sistema gnostico considerato da
Ippolito è quello di Basilide, di cui viene in
particolare sottolineata la derivazione dalla filosofia aristotelica; la dottrina di Basilide, secondo la quale nella pleròma vi
sarebbe tutto l’essere, il mondo stesso, la
specie, gli individui, è infatti assimilata alla
divisione aristotelica del genere in specie e
individui: un Aristotele, questo, di chiara
provenienza platonica.
Ciò che è implicito nell’Elenchos di Ippolito, ha osservato Mansfeld, è che l’unica
tradizione filosofica valida è quella pitagorico-platonica: Ippolito parla indifferentemente di Pitagora e Platone; Aristotele è
soprattutto un allievo di Platone, Empedocle ed Eraclito sono essenzialmente dei
pitagorici. E così, in Valentino, la serie
degli eoni che si genera dal Padre, richiama
l’aritmo-geometria pitagorica, dove l’Unità produce gli altri numeri e la linea, la
superficie, il solido si generano dal punto.
Infine, Empedocle ed Eraclito, pitagorici
secondo Ippolito, sono le fonti degli eresiarchi, Marcione, Noèto e Callisto. Dei
sistemi di Empedocle ed Eraclito abbiamo
una brevissima descrizione, ma già deformata ed adattata al suo scopo: costruire un
legame stretto fra Pitagora, Empedocle ed
Eraclito, attribuendo indifferentemente all’uno dottrine dell’altro. Secondo Ippolito, l’eretico Marcione riprenderebbe anche troppo palesemente la “teologia” empedoclea: da una parte Amore, il cui scopo
è l’omogeneo, l’unità; dall’altra Odiom il
demiurgo cattivo del mondo, che introducendo la diversità crea gli esseri di questo
mondo. Inoltre, Ippolito interpreta la Musa,
cui Empedocle in un frammento si rivolge
per attingere la Verità, come la potenza
55
mediatrice fra le due forze opposte del
bene e del male.
Come nei capitoli su Empedocle, i frammenti sono combinati in modo da creare la
somiglianza con Marcione, così, in quelli
su Eraclito è evidente, secondo Mansfeld,
una riorganizzazione delle “oscure” sentenze eraclitee che produca una somiglianza col sistema di Noèto. Ippolito trova in
Eraclito dottrine proto-cristiane quando
questi parla dei cicli dell’universo come il
risultato di successive conflagrazione e rinascite, che richiamano la resurrezione
dell’anima e del corpo.
Mansfeld tuttavia non ha mancato di sottolineare il valore che per lo storico della
filosofia può avere un testo come i philosophoumena di Ippolito. Pur piegando ai
suoi scopi le dottrine “elencate” - e anzi
proprio per questo - Ippolito è un testimone
prezioso del clima intellettuale del proprio
tempo. Nei Philosophoumena ritroviamo
citazioni di testi gnostici che altrimenti non
conosceremmo, l’eco di problemi interpretativi contemporanei, tracce che ci informano del modo in cui una tradizione interpretativa poteva costruirsi nei primi due
secoli dopo Cristo, sospesa tra fedeltà letterale ai testi dei maestri, Pitagora e Platone,
e “necessaria” libertà d’interpretazione.
A.I.
Omaggio a Pareyson
La scomparsa di Luigi Pareyson nel
settembre del 1991 è all’origine di
due recenti commemorazioni dell’opera e del pensiero di uno dei maggiori pensatori di questo secolo. Organizzata da Armando Rigobello dell’Università di Roma “Tor Vergata”, in collaborazione con l’Accademia Spagnola di Storia, Archeologia e Belle Arti
di Roma, si è tenuta una giornata di
studi dedicata a L’ESTETICA DI LUIGI
PAREYSON . Di tono maggiormente celebrativo, la commemorazione organizzata al Piccolo Regio di Torino
il 25 marzo 1993, ha raccolto innanzitutto la folta schiera degli allievi,
da Gianni Vattimo e Giuseppe Riconda agli allievi più lontani, come
Massimo Cacciari, che hanno affiancato l’intervento di due filosofi insigni, con i quali Pareyson intrattenne
sempre rapporti di amicizia e collaborazione, Hans-Georg Gadamer e
Xa v i er
Ti l l ie tt e.
Valerio Verra ha aperto i lavori della
giornata di studi su L’estetica di Luigi
Pareyson ricordando la figura del maestro
e soprattutto la fertile riflessione estetica
da lui inaugurata, che in forme quanto mai
ampie e variegate continua ad occupare
ancora oggi buona parte della discussione
estetico-filosofica italiana e internazionale. L’estetica di Pareyson è stata affrontata
soprattutto dalla prospettiva della ben nota
“teoria della formatività”, su cui i vari
relatori si sono intrattenuti, ma non ha
CONVEGNI E SEMINARI
Gianni Vattimo, Umberto Eco, Luigi Pareyson, Hans Georg Gadamer
potuto fare a meno di essere messa in
relazione ai numerosi aspetti del pensiero
pareysoniano: dall’ontologia al personalismo, dal pensiero tragico all’ermeneutica,
dal primo esistenzialismo all’ultima sua
riflessione su tematiche inerenti al sacro e
al tragico, condotta essenzialmente sui vari
numeri dell’ “Annuario di Filosofia”, da
lui mirabilmente creato e diretto.
Xavier Tilliette ha esplicitato alcune tra le
numerose aperture tematiche dell’estetica
pareysoniana mettendone in evidenza le
connessioni con una riflessione sulle cifre
della trascendenza, mentre Franco Fanizza e Maurizio Ferraris hanno sottolineato i rapporti spesso conflittuali emergenti
dal confronto tra l’orizzonte estetico idealistico e crociano e quello pareysoniano.
Guido Morpurgo-Tagliabue ha inoltre
interrogato l’estetica di Pareyson muovendo da alcune problematiche interne
alla riflessione poetica aristotelica, mentre
Francesco Piselli ne ha evidenziato le
prolifiche ambiguità. Claudio Vicentini,
ancora, ha mostrato le grandi possibilità
dell’estetica pareysoniana letta a partire
da una prospettiva di teoria teatrale e Roberto Salizzoni l’ha suggestivamente
messa a confronto col pensiero esteticofilosofico russo. Gianni Carchia si è soffermato sul rapporto tra estetica ed ermeneutica in Pareyson alla luce di alcune
suggestioni provenienti dalla riflessione
filosofica francese contemporanea e Ser-
gio Givone ha riflettuto sulla connessione
di arte, mito e religione nel pensiero pareysoniano, sottolineando l’emergenza di un
pensiero tragico e della differenza. Infine,
Mario Perniola ha concluso i lavori della
giornata di studi da lui stesso coordinata,
mostrando come anche nella riflessione
filosofica dell’ “ultimo” (per così dire)
Pareyson, caratterizzata dalla frequente
presenza di problematiche di carattere teologico-religioso, si nasconde in realtà
un’autentica esigenza riflessiva di tipo estetico significativamente con i temi del male,
del mito e del simbolo.
Il pomeriggio torinese in ricordo di Luigi
Pareyson nasceva da una precisa occasione editoriale: l’uscita da Einaudi degli
scritti di Pareyson su Dostoevskij, che a
due anni dalla morte dell’autore appare un
po’ come il battesimo extra-accademico di
un pensiero rigoroso e schivo, mai sedotto
dalle sirene dell’attualità e dai richiami
della pubblicistica alla moda. Stranamente, è proprio quel nucleo severo, il lungo e
doloroso confronto col problema del male
e la costante apertura “metafisica” (testimoniate “in compensio” dalla lezione di
congedo accademico del 27 ottobre 1988),
a richiamare oggi l’attenzione di chi riscopre il pensiero di Pareyson a distanza. Ma
anche, oltre a questo, la possibilità di intendere l’ermeneutica in una forma, se
vogliamo, meno “postmoderna”: ossia
meno legata al declino degli orizzonti “for56
ti” e più vicina all’esperienza diretta dell’opera d’arte intesa come luogo ontologicamente denso, come luogo di verità.
I brevi interventi di Italo Lana e del direttore Dianzani, in rappresentanza dell’Ateneo torinese, hanno aperto la strada agli
ospiti Hans-Georg Gadamer, Xavier Tilliette e Massimo Cacciari: tre interventi,
tre culture, tre “stili” di commemorazione
così diversi da risultare complementari, in
una sorta di curiosa armonia prestabilita.
Quello di Hans-Georg Gadamer si è presentato come un omaggio al collega scomparso nella forma della lezione accademica, e precisamente di una lezione sul tema
“arte e verità”. Un Gadamer poco “gadameriano”, perché la prospettiva dello storicismo, e dell’ermeneutica come erede
dello storicismo, è rimasta decisamente in
ombra a favore di un’insistita riflessione
sul tema della presenza: la “presenza intemporale” dell’opera d’arte, prima e al di
là della sua vita storica e del suo costituirsi
come orizzonte mobile di significato. Quella che è venuta a profilarsi è insomma
l’idea di un fondo “religioso” e “metafisico” dell’opera d’arte, da intendere in un
senso vicino al kantiano “sapere senza
concetto”: nel senso che il bello risponde
di se stesso, non ammette canoni oggettivi,
e assorbe chi ne fruisce in un istante non
dialettizzabile.
Questo sacrificio integrale della dimensione storico-dialogica potrebbe apparire
CONVEGNI E SEMINARI
molto strano da parte di Gadamer - quasi
una conversione in extremis a un credo
antiermeneutico - se non nascesse appunto
come un omaggio alla memoria di Pareyson e come un dialogo a distanza. Un
dialogo così discreto da non chiamare mai
in causa il suo interlocutore, e tuttavia così
radicale da “sposarne” la prospettiva estetica in una sorta di delicato e affettuoso
mimetismo. Il principio gadameriano della Horizontverschemelzung (fusione
d’orizzonte), messo da parte e quasi rinnegato nei contenuti teorici del discorso torinese, ha continuato a funzionare come
forma trascendentale del discorso stesso in
un sottile esercizio di ermeneutica in atto o
anche, romanticamente, di filosofia a due
voci.
Con l’intervento di Xavier Tilliette, si è
assistito a una fitta pagina da journal intime: un profilo di Luigi Pareyson al tempo
stesso affettuoso, elegante e non privo di
tratti di ironica malizia. A ricordare il
collega scomparso è stato questa volta l’
“amico francese”, tutto preso dal ricordo
della «figura magra e china», dalla «sembianza grave e meditativa» che la malattia
avrebbe reso col passare degli anni ancora
più austera. E’ toccato poi allo stesso Tilliette rievocare le tappe salienti della ricerca e dell’opera pareysoniana: dai giovanili
e pioneristici studi sull’esistenzialismo,
all’Estetica, a Verità e interpretazione,
dove il problema della libertà si coniuga a
un’ontologia dell’ “inesauribile”, fino alla
“strana bellezza” e allo “splendore notturno” degli ultimi scritti, dove i temi dell’ermeneutica e della libertà si aprono sull’orizzonte del pensiero tragico. Lo spiritus rector, l’angelo-guida di quest’ultima
fase è naturalmente Schelling, “felice scoperta” dell’età matura e crocevia di tutti i
principali temi pareysoniani. Quello stesso
Schelling a cui Pareyson dedicava, da filologo appassionato, l’ “impareggiabile monumento” degli Schellinghiana rariora. E
il baricentro teorico dell’intervento di Tilliette va cercato proprio in quel “discorso
temerario” di schellinghiana provenienza
che riconosce in Dio non già l’autore del
male, ma comunque il suo “inventore”, nel
senso che la scelta divina implica il male
come sfondo, come ombra o residuo non
attualizzato. per quanto Pareyson rifiutasse
l’accusa di “demonizzare” Dio, di riproporre l’eresia gnostica, marcionita, del dio
malvagio, resterebbe qui secondo Tilliette
qualcosa di irrisolto, una difficoltà estrema
con cui il cammino di Pareyson si chiude,
quasi rassegnandosi, da credente, di fronte
al mistero doloroso del Crocefisso. Divinum est pati.
Dagli ultimi scritti di Pareyson - gli scritti
dell’ultimo decennio - ha preso le mosse
anche l’intervento di Massimo Cacciari,
“allievo lontano” per sua stessa definizione, ma non per questo meno devoto e
impegnato qui in una sorta di appassionato
dialogo a distanza. La domanda dell’ultimo Pareyson è, secondo Cacciari, la do-
manda fondamentale della metafisica:
«Perché l’essente piuttosto che il nulla».
E’ la domanda di Dio nei due sensi del
genitivo (la domanda “su” Dio, ma anche
la domanda che Dio, l’ente sommo, pone a
se stesso); ed è insieme la domanda che
denuncia i limiti del linguaggio rappresentativo, suggerendo una forma di scrittura
diversa dalla forma filosofico-metafisica,
una forma che non pretenda di «raggiungere l’inoggettivabile mediante il concetto». Se lo Heidegger della Introduzione
alla metafisica rispondeva a quella domanda ponendo l’ambiguità di un Essere
che è «quasi come il nulla», Pareyson
radicalizza la posizione heideggeriana interrogandosi sull’origine di quella ambiguità. E l’origine dell’ambiguità è la libertà, intesa non già come semplice disposizione umana, ma come l’essere stesso,
come il “nome” dell’essere. Qui “va a
fondo”, dice Cacciari, ogni filosofia del
fondamento, perché la libertà così intesa
non fonda, ma è il puro inizio abissale,
l’Ungrund. E questa radicalizzazione del
problema heideggeriano è nello stesso tempo un “tradimento”, perché la libertà come
inizio non è pensabile come puro Ereignis,
come l’av-venire dell’essere, ma va pensata insieme come inizio e come scelta: la
scelta di Dio che, mentre avviene, de-cide,
ossia ritaglia nella possibilità lo spazio del
bene. Se però la scelta del bene è il rifiuto
del negativo come non-essere, occorrerà
che il non-essere sia tuttavia presente in
Dio; e si apre qui, osserva Cacciari, il
grande agon del pensiero pareysoniano: il
tentativo di mostrare come il male sia
realmente sconfitto in Dio pur restando in
qualche modo presente, come «traccia sbiadita», come «impronta», «voce inquietante, ma zittita». Tanto più che la possibilità,
da parte dell’uomo, di ridestare il male
sembra implicare una revoca della stessa
scelta originaria, e quindi un fallimento
effettivo e après coup della libertà divina.
Conclusione drammatica e aporetica, questa, per Cacciari come per Tilliette, dove il
linguaggio della filosofia sembra sfociare
irreversibilmente nel tema religioso della
Redenzione. G.P./F.Cu.
Jean Paul: per una estetica
della conoscenza
Una precisa ricostruzione del significato dell’opera di Jean Paul, figura
originale e controversa nel panorama
filosofico-letterario della Germania di
fine ‘700, è stato lo scopo del seminario dal titolo: IL PENSIERO DI JEAN PAUL.
INTRODUZIONE A UNA DOTTRINA ESTETICA
DELLA CONOSCENZA, tenuto da Gerd Held
nei giorni 12-16 ottobre 1992 presso la
sede dell’Istituto Italiano per gli Studi
Jean Paul (disegno di Vogel von Vogelstein)
57
CONVEGNI E SEMINARI
Filosofici di Napoli.
Etichettato variamente e sospeso tra la teoria stürmeriana del genio e un certo atteggiamento romantico, Johann Paul Friedrich Richter, meglio noto con lo pseudonimo di Jean Paul, è una figura insolita
all’interno della letteratura tedesca, poco
nota in Italia e superficialmente indagata in
Germania. Elaborò lungo tutto l’arco della
sua opera una lingua originale, bizzarra e
pullulante di allegorie tratte dal pensiero
comune come dall’arte. Dare una definizione della sua opera, ha osservato Gerd
Held, risulta un’impresa vana: gli elementi
di cui si compone il suo articolato linguaggio sono disclocati e insituabili e non hanno senso né valore se non in una assoluta
atipicità. Di Jean Paul è proprio lo sforzo,
comune anche a Novalis, Schiller e Lichtenberg, di superare la soglia tra letteratura e poesia. Certo è azzardato definirlo
anche filosofo: Jean Paul non ha scritto né
creato un sistema di pensiero; tuttavia all’interno della sua produzione esistono interessanti frammenti filosofici.
Uno degli aspetti più innovativi ed immediati della sua opera è, secondo Held, il
permanente dissidio tra l’io e il mondo, tra
la fede e la pura verità scientifica. D’altro
canto nella Clavis Fichtiana seu Leibgeberiana l’equazione problematica dell’io-non
io viene parodiata; il carattere autocritico è
molto interessante ed è simile ad un’autoliberazione dalla febbre dell’io. La Clavis,
nel cui titolo c’è una chiara allusione alla
chiave, simbolo per inoltrarsi nei meandri
del sistema di Fichte, è al tempo stesso una
critica filosofica del linguaggio e del pensiero. Qui Jean Paul, attraverso il Leibgeber,
cioè datore di corpo, figura che compare
anche nel Titan, supera il concetto idealistico del soggetto nel divenire infinito dell’io puro. Jean Paul, ha notato Held, vuole
scagliarsi soprattutto contro il primo Fichte, quello della Dottrina della scienza, e
la morte del Leibgeber rappresenta una
liberazione dalla separazione interna del
non-io e la realizzazione dell’Uno-Tutto.
Tra il tono serio e quello satirico, ha osservato Held, la Clavis dimostra, secondo
l’intento del suo autore, che si può scherzare e filosofare contemporaneamente;
l’umorista non è soltanto un’alternativa al
filosofo idealista, ma è parte di lui. E’ un
espediente per difendersi dalla filosofia
contro la filosofia; è il trionfo della metafora e dell’allegoria in quanto forme aperte, plasmabili a piacere e non conchiuse e
unilaterali come una dottrina filosofica.
Anche l’umorismo di Jean Paul si concreta
nelle subitanee oscillazioni polari tra la
Phantasiebildenkraft e il realismo magico: di qui l’appello sempre più frequente a
quella “metafisica dell’occhio” che è la
sola a poter produrre legami multilineari
tra oggetti-oggetto e soggetti-soggetto. La
critica che egli muove a Kant, invece, non
può essere propriamente definita tale; più
che una critica, ha affermato Held, è un
richiamo dovuto alla sua sommaria cono-
scenza del filosofo, che non andava oltre la
prima edizione della Critica della ragion
pura. Ma pur essendo la sua polemica
indirizzata per lo più agli imitatori kantiani, non si può non sottolineare secondo
Held il diverso modo di concepire l’unità
che in Jean Paul ha le stesse proprietà di un
frammento ed è pertanto provvisoria, limitata e parziale.
Il filosofare estetico di Jean Paul, la riabilitazione della metafora e della sua capacità di ridurre le immagini in concetti e
viceversa, unito all’appello alla forza combinatoria del Witz, arguzia, non possono
non riconoscersi attuali. In tal senso, ha
concluso Held, non è rischioso accostare
Jean Paul a Wittgenstein, anche lui pensatore per immagini, e ai surrealisti, autori in
cui la perdita del centro, e la conseguente
predilezione per la molteplicità prospettica dell’ellisse, è segno tangibile di una
realtà plastica. L.R.
Ermeneutica del dolore
Nella sede dell’Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici, dal 19 al 23 ottobre
1992, Salvatore Natoli ha tenuto un
seminario dal titolo: FORME DI VITA E
STILI DI PENSIERO. INDAGINI DI GENEALOGIA
DELLA MORALE. In esso è stato affrontato il “fenomeno” del dolore a partire
dall’interrogazione originaria sul suo
“senso” e all’interno dei principali
modelli di significazione che l’Occidente ha elaborato nel corso della
sua storia e che costituiscono l’inquietante scenario che ospita e complica le nostre personali “esperienze”
de l
dol or e .
Salvatore Natoli ha rinvenuto due scene,
due tradizioni che hanno “detto” e “vissuto” il dolore in Occidente: quella greca e
quella ebraico-cristiana. La flessione mista
delle due tradizioni nella vicenda della
modernità lascia intatta la loro differenza
come origini storiche di esperienze peculiari, di “stili di vita” individuali e collettivi, cui il pensiero ha dato “forma”.
Il greco parte dalla visione della natura
come mescolanza di generazione e corruzione, di felicità e crudeltà: la perenne ciclica - trasformazione della physis costituisce lo sfondo su cui si alternano nei
viventi piacere e dolore, in un rapporto di
esaltazione reciproca. Ciò impedisce che
l’uomo si ponga come esistente per-sé,
slegato da ciclo; tuttavia, il tragico lo inchioda al dolore della sua individuazione,
alla lotta eroica contro la propria singola
morte che la natura prescrive. L’individualità tragica, prima di Parmenide e di Platone, è l’ebbrezza di uno stato contradditorio
e lacerante. Il greco non può immaginare
un mondo senza dolore: il dolore, non avendo ragione, non ha origine. L’unico atteg58
giamento possibile di fronte ad esso è agonico: resistere fino in fondo senza soccombere - senza perdere la propria forma umana... La Grecia antica non rifiuta come
scandalo la sofferenza; il suo ethos è una
sfida al dolore stesso, attraverso cui viene
selezionato il più forte, colui che vivendo
fa esperienza personale della bellezza e
della crudeltà nella forma del doversi dominare. L’uomo greco è natura consapevole di sé: nella coscienza della lotta contro il
dolore egli testimonia così, col contegno e
finanche col grido, che chi soffre è vivo,
benché aggredito dalla “malattia”.
La visione giudaico-cristiana entra nell’Occidente come rifiuto originario del dolore,
eskanton di un mondo senza sofferenza e
senza morte, il cui avvento - sulla terra o nei
cieli - appare garantito dall’esperienza che
il popolo ebraico ha fatto di un dio di
speranza, allontanamento e amore. Jahvé è
il Dio che mette l’uomo alla prova; attraverso il Suo intervento e il dono della
Legge il popolo ebraico ha un destino, e
una storia che conduce alla salvezza.
L’ebreo comunica con un Dio che, se da
una parte gli promette salvezza, dall’altra
si fa incomprensibile e lontano nella sua
giustizia (libro di Giobbe): la fede ebraica
vacilla di fronte alla sofferenza innocente.
Nella Bibbia l’insopportabilità del dolore
proibisce la rassegnazione di fronte ad esso,
e postula una vita oltremondana che costituisca il compimento (la redenzione) del
giusto al di là della sua assurda, incomprensibile sofferenza terrena.
Prima il Cristo e poi la religione cristiana,
ha osservato Natoli, prendono su di sé il
bisogno di salvezza - di cancellazione del
dolore - dell’ebraismo. L’elemento dominante dell’esperienza ebraico-cristiana del
dolore è la presenza di un “Tu”-Dio; se
questo Tu scompare, se la sofferenza rimane senza Dio, senza la sua giustizia o addirittura in virtù della sua necrosi (il Dio
morto di Nietzsche), il mondo appare infernale, privo sia di bellezza che di felicità.
Natoli ha poi delineato lo scenario complesso della modernità, mostrando l’intreccio che l’Occidente, come luogo dell’ethos,
costituisce rispetto ai due modelli. Cartesio
e Hobbes ne sono gli emblemi; infatti nel
Seicento ci si avvia ad un progressivo distacco da Dio, da quel “senso” del mondo
compreso a partire da Lui; la Chiesa si
trasforma, da comunità in attesa della salvezza e del giudizio divino, in una istituzione mondana che non custodisce più la
verità assoluta e unica del dogma. L’esigenza di assolutezza del fondamento trapassa nel soggetto, e la politica è il
terreno su cui si misura l’azione, col
criterio della felicità e dell’uguaglianza:
la Rivoluzione francese delinea due vie
possibili, quella razional-utopistica del
giacobinismo, e quella storico-rivoluzionaria del marxismo, che l’umanità
percorre nella sua terrena perfettibilità...
Liquidata la trascendenza come “morte”
di Dio, scienza e tecnica moderne lasciano intravedere la possibilità estrema di
abolire il dolore: il mondo è reso più
CALENDARIO
Il 16 aprile presso il Centro Culturale
Polivalente, Romano Màdera, docente
di antropologia filosofica all’Università di Venezia, ha tenuto una conversazione intitolata: Homo religiosus
et paganus, che si inserisce nel ciclo
“Idoli”, ossia l’edizione 1993 della
rassegna “Cosa fanno oggi i filosofi?”, dedicata quest’anno all’antropologia vastamente intesa. Il ciclo
comprende altri incontri fino al 4 giugno: 23 aprile, Paolo Fabbri: “Animal loquens”; 26 aprile, Giacomo
Marramao: “Homo oeconomicus”; 7
maggio, Adriana Cavarero: “De homine et foemina”; 14 maggio, Umberto Galimberti: “Homo idolum
maximum”; 21 maggio, Danilo Mainardi: “Homo sapiens sapiens”; 28
maggio, Ersilio Tonini: “Genus
Homo”; 4 giugno, Renato Barilli:
“Homo ornatus”. Da ricordare che
l’iniziativa è organizzata dalla Biblioteca Comunale di cattolica in collaborazione con l’Istituto Italiano per
gli Studi Filosofici di Napoli e la
Rivista “Nuova Civiltà delle Macchine”.
● Informazioni: Centro Culturale
Polivalente, Piazza della Repubblica
31, 47033 Cattolica, tel. 0541/967802.
Il corso di perfezionamento in estetica, presso l’Istituto Suor Orsola Benincasa, diretto da Aldo Trione, con
la partecipazione di specialisti italiani e francesi, si svolge dal 26 aprile
alla fine di giugno sul tema: Il trucco
e l’anima.
● Informazioni: Istituto Suor Orsola Benincasa, via Suor Orsola, 80110
Napoli, tel. 081/411101.
Nel mese di maggio 1993 si sono
svolti due incontri alla Libreria Feltrinelli: il 6 maggio, Flavio Cassinari,
Alfredo Civita, Ugo Fabietti, Carlo
Sini hanno presentato il libro: Tempo di sogno, di Hans Peter Duerr
(Guerini e Associati, Milano1992); il
27 maggio, Fulvio Carmagnola, Carlo Formenti, Federica Olivares, Fulvio Scaparro e Umberta Telfener sono
intervenuti in occasione della presentazione del libro di Gianluca Bocchi e
Mauro Ceruti, Origini di storie (Feltrinelli, Milano 1993).
● Informazioni: Libreria Feltrinelli, via Manzoni 12, 20100 Milano.
CALENDARIO
lano, Dipartimento di Programmazione, Progettazione e Produzione
Edilizia, via D’Ovidio 3, 20100 Milano, tel. 02/23995133.
“Immanuel Kant, Critica della Ragion pratica” a cura di Vittorio Mathieu; “Blaise Pascal, Pensieri” a cura
di Adriano Bausola; “Platone, Fedro” a cura di Giovanni Reale; “Platone, Simposio” a cura di Giovanni
Reale.
● Informazioni: Biblioteca Nazionale Braidense, via Brera 28, 20100
Milano.
Il Goethe Institut di Milano, in collaborazione con l’Istituto per il diritto
allo Studio Universitario dell’Università degli studi di Milano, ha organizzato, l’11 maggio, per la serie “Filosofia in Germania oggi II”, una
conferenza di Oskar Negt (Hannover) su La Scuola di Francoforte.
Ha introdotto Francesco Moiso.
● Informazioni: ISU, via Festa del
Perdono 7, 20100 Milano, tel. 02/
809431.
Il Centro Internazionale di Studi Semiotici e Cognitivi dell’Università
degli Studi della Repubblica di San
Marino, ha organizzato il 10-11 giugno 1993 un seminario dal titolo:
Mind and Consciousness, con la
partecipazione di Daniel C. Dennet e
Richard Rorty, che sono intervenuti
rispettivamente su: “Consciousness
is not a Medium” e “Holism, Intrinsicality; and the Ambition of Trascendence”; l’11 giugno si è tenuta una
tavola rotonda con la partecipazione
di Samuel Guttenplan (Londra), Ernest LePore (Rutgers University) e
Marco Santambrogio (Università di
Bologna).
Il 29-30 giugno e 1 luglio 1993 avrà
luogo un seminario di Alessandro
Duranti e Elinor Ochs su: The Cultu-
Nel ciclo delle attività culturali della
Fondazione San Carlo, il 12 maggio
ha avuto luogo una conferenza di
Marcel Fournier (Università di Montréal) su: Marcel Mauss o il dono di
sé; il 21 maggio, per il ciclo di lezioni
“Questioni del tradurre”, Clifford
Geertz (Princeton) ha tenuto una conferenza dal titolo: Riflessioni sullo
studio della cultura; il 27 maggio,
in occasione della presentazione del
volume delle Edizioni Paoline, La
re of Discourse: How to Study
Communication as a Cultural
Practice. Questo il calendario degli
figura di Cristo nella filosofia contemporanea, sono intervenuti Fran-
co Ardusso e Silvano Zucal.
● Informazioni: Fondazione San
Carlo, via San Carlo 5, 41100 Modena, tel. 059/222315.
interventi: 29 giugno, “Constructing
Culture Through Discourse” e
“Methodology”; 30 giugno: “Constituing Language Activities” e “Methodology”; 1 luglio: “Constructing Social Identity” e “Methodology”. I lavori si svolgeranno in italiano ed inglese.
● Informazioni: Università di San
Marino, Contrada Omerelli 77, 47031
San Marino, tel. 0549/882516.
Il 22 maggio, in occasione della pubblicazione del volume La tentazione dell’oblio. Razzismo, antisemitismo, neonazismo di Franco
Il Politecnico di Milano, Facoltà di
Architettura, ha organizzato, dal 4 al
25 maggio, un seminario, dal titolo:
Natura, tecnica, immaginario.
Questo il calendario dei lavori: 4 maggio, Piero Derossi, Franco Trabucco,
Federico Vercellone: “Tecnologia e/
o decorazione”; 11 maggio, Emilio
Battisti, Maria Bottero e Elio Franzini: “Progetto di architettura e materialità dei processi”; 18 maggio, Giulio Giorello, Ezio Manzini e Pierluigi
Nicolin: “Scienza, tecnica, architettura: immagini del mondo”; 25 maggio, Bianca Bottero, Valerio Di Battista e Maurizio Ferraris: “Decostruzione e tradizione”.
● Informazioni: Politecnico di Mi-
Ferrarotti, si è tenuto un dibattito * *
* * , organizzato da Editori Laterza, a
cui hanno partecipato oltre all’autore
Massimo Firpo, Nicola Tranfaglia,
Gianni Vattimo.
● Informazioni: Ed. Laterza,
P.zza Umberto I 54, Bari, tel. 0805216713
Dal 10 al 13 giugno 1993 avrà luogo
a Stoccarda, al Centro culturale e dei
Congressi, il Congresso della Internationale Hegel-Vereinigung sul
tema: Vernunftbegriffe in der Moderne. Sono in programma interventi su (fra parentesi i relatori): 1. “La
ragione nel razionalismo e nell’empirismo precritico” (A. Bühler, L. C.
Madonna, J. Ecole, J.-L. Marion); 2.
“Razionalità teoretica e pratica nelle
persone” (R. Bittner, H. G. Frankfurt,
T. Spitzley); 3. “Conoscenza della
ragione in Kant e nei suoi allievi” (M.
Il 27 maggio, presso la Biblioteca
Nazionale Braidense, ha avuto luogo
la presentazione dei primi volumi
della Nuova Collana Testi a fronte,
edita da Rusconi Libri. Giulio Giorello e Giovanni Reale hanno introdotto
ai temi: “Aristotele, Etica nicomachea” a cura di Claudio Mazzarelli;
59
Baum, P. Guyer, P. Rohs); 4. “Razionalità e irrazionalità come tema dell’antropologia medica” (D. Baron,
Erich Wulff); 5. “Ragione e ragionevole nel pensiero di Hegel” (A. Doz,
K. Düsing, A. Nuzzo); 6. “Razionalità nel confronto culturale” (R. A.
Mall, R. Ohashi, M. Savadogo); 7.
“Critica o distruzione della ragione
nella filosofia dopo Hegel?” (R. B.
Pippin, H. J. Sandkühler); 8. “Il posto
della ragione nella moralità” (A. Höffe, O. O’Neill, A. Peperzak); 9. Postmoderni al di là della ragione?” (M.
C. Nussbaum, M. Seel, W. Welsch);
10. “Ragione all’interno e all’esterno
della scienza” (L. Laudan, J. NidaRümelin, E. Ullmann-Margalit); 11.
“Modelli di critica della ragione nel
XX secolo” (A. Kemmerling, S. A.
Kripke, H.-P. Schütt, G. Vattimo);
12. “Razionalità e irrazionalità del
sistema sociale” (S. Benhabib. L.
Ferry, W. Kersting). Nelle manifestazioni pubbliche serali sono intervenuti: M. Theunissen, E.-J. Mestmäcker e E. Scheibe.
● Informazioni:Internationale Hegel-Vereinigung, Philosophisches Seminar, Universität, Marsiliusplatz 1,
D-6900 Heidelberg, Tel. 062 21
542482-542283.
Dal 6 al 10 luglio 1993 la HumeSociety organizza a Ottawa (Canada)
la XX. Hume Conference, dal tema:
Hume and His Scottish Setting.
Interventi su: “Hume and His Critic”;
“Hume and the Practice of History in
the Enlightenment”; “Hume’s Critique of Religion”.
● Informazioni: Prof. Dorothy Coleman, Secretary of the Hume-Society, Department of Philosophy,
College of William and Mary, P.O.
Box 8795, Williamsburg, VA 231878795.
Dal 18 al 30 luglio a Leuven si terrà la
III. Conferenza Internazionale di
Linguistica Cognitiva.
● Informazioni: Dirk Heeraerts,
ICLA93, Department of Linguistic,
Katholieke Universiteit Leuven, Bliijde Inkomststraat 21, B-3000 Leuven
Dal 15 al 21 agosto si terrà a Kirchberg il XVI. Simposio Internazionale
Wittgenstein sul tema: Philosophy
and the Cognitive Science. Sono
previste le seguenti sezioni: “Linguaggio e conoscenza”; “La psicologia e
la filosofia della mente”; “Metodologie della scienza cognitiva”; “Psicologia popolare e fisica naïf”; “Teorie
della percezione”; “Intelligenza artificiale”; “Wittgenstein e la psicologia filosofica”. Organizzatori del simposio sono Barry Smith e Roberto
Casati.
● Informazioni: Prof. Dr. B. Smith,
Internationale Akademie für Philosophie, Obergasse 75, FL-9494
Schaan, Liechtenstein.
La quinta scuola europea estiva
CALENDARIO
di logica, linguaggio e informazione si terrà all’università di Lisbo-
na, dal 16 al 27 Agosto 1993. La
scuola è organizzata sotto l’auspicio
del FOLLI (European Foundation for
Logic, Language and Information).
Supporti finanziari alla scuola giungono da più parti, compresa la Commissione della Comunità Europea attraverso il progetto Erasmus, i National Research Councils e alcune industrie sponsors. Il principale obbiettivo del programma è la realizzazione
di un collegamento fra linguistica,
logica e computazione che interessi
la modellizzazione di abilità umane
linguistiche e cognitive. Il corso quest’anno coprirà una varietà di argomenti attraverso sei aree di interesse:
Logica, Computazione, Linguaggio,
Logica e Computazione, Computazione e linguaggio, Linguaggio e
Logica.
Le iscrizioni sono aperte dai primi di
Marzo.
● Informazioni: FOLLI Office,
Plantage Muidergracht 24, 1018 TV
Amsterdam, The Netherlands
Dal 22 al 28 agosto si terrà a Mosca il
XIX. Congresso Mondiale di Filosofia, il cui tema sarà: Mankind at a
turning point: philosophical perspectives. Direttore del comitato or-
ganizzatore sarà il peruviano F. Miro
Quesada, affiancato anche da F. Jacques (Francia), W. Kluxen (Germania), K. Satchidanomda Murti (India), T. Ntumba (Zaire), E. Sosa
(USA), I. T. Frolow (GUS), V. A.
Lektorsky (GUS), M. K. Mamardashvili (GUS), N. V. Motroshilova
(GUS) e V. S. Stiopin (GUS). In
sezioni plenarie, simposi, dibattiti e
34 sezioni speciali verrà trattato l’intero ambito della filosofia.
● Informazioni: International Organizing Secretariat, studia ega, viale
Tiziano 19, I-00196 Roma.
L’Istituto Banfi ha organizzato per il
4-5-6- novembre 1993 un Convegno
dal titolo: Banfi tra le due guerre:
modernità e crisi. Il programma,
per ora provvisorio, è il seguente: 4
novembre, Fulvio Papi: “La terza immagine di Banfi”; Guido Davide Neri:
“Il tema della crisi”; Luisa Bonesio:
“Le figure dominanti di Nietzsche e
Klanges”; Mauro Mocchi: “Banfi e
Husserl negli anni Venti”; 5 novembre, Paolo Rossi: “La scienza nella
filosofia banfiana”; Gabriele Scaramuzza: “Arte e avanguardia”; Lucio
Perucchi: “Il rapporto con Simmel”;
Amedeo Vigorelli: “L’interpretazione di Kierkegaard e dei teologi protestanti”; Jean Petitot: “Il rapporto con
il razionalismo francese”; Livio Sichirollo: “Il comunismo di Banfi”;
Luisa Bertolini: “Il rapporto con i
neokantiani tedeschi”; Roberto Diodato: “Banfi e la filosofia cattolica”;
Lorenzo Magnani: Banfi e Poincaré”.
● Informazioni: Istituto Banfi, via
Pasteur 11, 42100 Reggio Emilia, tel.
0522/554360.
CALENDARIO
OPINIONI A CONFRONTO
Nella “scheda”: I luoghi della
filosofia. L’Università di Ginevra (“Informazione Filosofica”,
n. 7, pagg. 15-16), di Leonardo
Distaso, viene presentato un quadro del
Dipartimento di Filosofia dell’Università
ginevrina, che pur essendo veridico nelle
sue linee generali, pecca di varie unilateralità e di giudizi un po’ corrivi e “tendenziosi”.
In particolare, il quadro che viene tracciato dell’attività filosofica di Kevin Mulligan rischia di appiattirlo su posizioni, per
così dire, “vetero-analitiche”, combinate
con una presunta forma rinnovata di materialismo illuministico che, a detta dell’autore dell’articolo, darebbe adito a “esiti
riduzionistici”: ora, è vero che nell’attività filosofica e storiografica di Mulligan
viene valorizzata quella tendenza al “filosofare esatto”, le cui radici sono rintracciabili nella filosofia austro-tedesca tra
‘800 e ‘900 e che ha poi innervato sia il
neopositivismo del Wiener Kreis, sia le
pratiche filosofiche consuete nelle scuole
analitiche anglosassoni. Ma nel resoconto
di Distaso sembra quasi che si attribuisca
a Mulligan tutta l’eredità negativa di tale
tradizione - sintetizzabile in una pretesa
avversione ad ogni metafisica che non sia
quella connessa ad una visione scientifica
del mondo, che l’autore dell’articolo bolla
sprezzantemente come “scientista”. Ma qui
occorre piuttosto intendersi sul significato
dei termini: mi domando se la “metafisica
descrittiva” di Strawson, o le varie forme
di “ontologia formale”, non siano anch’esse forme di “metafisica” con piena cittadinanza nella costellazione analitica e se ad
esse possa disinvoltamente assegnarsi l’etichetta di “scientiste”. Ne uscirebbe fuori,
pertanto, una figura di filosofo analitico
irriducibilmente chiuso ad ogni apporto
proveniente da filosofie “altre” e pronto
alla polemica contro ogni tendenza non
assimilabile, dall’ermeneutica al decostruzionismo, in nome di una concezione “forte” della verità. Si tratta di una immagine
caricaturale e deformante, che non rende
affatto giustizia né alla filosofia analitica,
né al filosofo in questione e non intende
che la ricerca di argomentazioni rigorose e
formalmente corrette è il miglior servizio
che si possa rendere all’antagonista filosofico, affinché anche lui si senta stimolato a
chiarire il proprio pensiero, traducendolo
in un “linguaggio” eterogeneo rispetto a
quello usualmente adottato. Infine, mi sembra generico o addirittura poco sensato
ritenere che Mulligan riduca la volontà
alla nozione di “io volitivo” e questo (sono
parole dell’autore) sulla scorta di filosofie
«del primo Brentano, del primo Husserl,
del primo Wittgenstein e del primo Carnap»: non capisco da dove Distaso abbia
desunto tale stravagante tesi che, al di là
della figura retorica costituita dall’iterazione anaforica della parola “primo”, non
ha alcun fondamento testuale. Sia l’approccio di Mulligan che, più in generale,
della filosofia analitica al problema della
volontà non è riducibile a ciò che pensa
Distaso e, in ogni caso, il pensiero degli
autori citati, e in particolar modo quello di
Brentano e di Wittgestein, viene da Mulligan o da altri filosofi analitici (pensiamo
ad esempio a Bernard Williams) considerato nella sua globalità e non soltanto in
60
una non meglio precisata prima
fase.
Teodosio Orlando
Ho avuto modo di studiare con Kevin Mulligan durante la mia specializzazione all’Università di Ginevra. Non solo. Ho avuto
modo di apprezzare Kevin Mulligan, oltre
che per la qualità del lavoro, anche per il suo
humor e la sua gentilezza, che rendevano
interessanti ed al contempo simpatici gli
incontri quasi quotidiani. Ho immediatamente riconosciuto stimolante la sua linea di
ricerca anche se, devo dire, non sempre
trovavo convincenti le conclusioni cui arrivava seguendo linee di pensiero evidentemente diverse dalle mie. Bontà mia, non mi
permetto di discutere questo punto, non pretendo di dare distesa spiegazione a questioni
che vanno sì sotto il campo della rigorosa
argomentazione, ma molto ricadono volentieri nel dominio della persuasione! Dico
questo perché penso che una doverosa quanto serena replica alle obiezioni portatemi dal
mio amico fiorentino necessiti di un rendiconto non solo di contenuti argomentativi
filosofici - contenuti che andrebbero discussi lungo l’arco intero di una carriera filosofica e non nelle poche righe di una pagina- ma
anche di quell’insieme di insegnamenti minimali che l’agiografia quotidiana consente
di cogliere, discernere, ritenere. In altre parole, io, con Kevin Mulligan, durante l’anno
accademico in cui sono stato a Ginevra, ho
avuto molti colloqui che mi sono serviti a
chiarire i contenuti delle sue lezioni, di alcuni suoi scritti, di molte sue posizioni filosofiche. E non nascondo - perché dovrei, non
sono un “tendenzioso malizioso o velato”,
piuttosto un “tendenzioso perché di un’altra
tendenza” - che spesso non ero d’accordo
con quanto sosteneva il mio anglosassone
interlocutore.
La questione potrebbe anche chiudersi qui, in
un certo senso; ma posso altresì, in altro
senso, chiarire ulteriormente alcune tesi non
per persuasione, ma per doverosa considerazione di ogni mio contraddicente.
1. Che Mulligan sia materialista non sono io
che lo penso ma lui direttamente; di quale tipo
di materialismo si tratti certo lui ne avrà
un’idea: sta poi ai critici capire e valutare
l’intera questione (che lascio senz’altro fare,
meglio di quanto possa fare io).
2. Non bollo sprezzantemente Mulligan di
scientismo: dico che è scientista. Con questo
non penso che “essere scientista” equivalga
ad essere portatore di qualche malattia! “Scientismo” è un preciso e legittimo concetto,
come “illuminismo”, “umanismo”, “radicalismo”, “razzismo” ed “erotismo”. Stop.
3. (Qui debbo dar ragione al mio amico fiorentino: bisogna intendersi sui significati dei
termini, al di là dell’adesione o meno al loro
portato).
4. So bene che Mulligan persegue un dialogo
tra tendenze filosofiche diverse tra loro: è suo
l’impegno al confronto tra quella che viene
chiamata “filosofia anglo-americana” e “filosofia continentale”; so anche che Mulligan,
per essere anglosassone, è anche molto continentale e questo va tutto a favore della
completezza della ricerca.
5. Sono del tutto d’accordo con l’obiezione
OPINIONI A CONFRONTO
CALENDARIO
che sarebbe ora di finirla con la banale contrapposizione tra una filosofia analitica, portatrice di cio che è “forte”, “vero”, “stabile”,
“significativo”, e una svolazzante filosofia
estetico-ermeneutica che vaneggia immagini
metaforiche di miti e leggende insensate,
insegue poeti per i boschi, si strugge tra il
tragico e il niente, interpreta e non sa cosa
dice. Sono d’accordo: sarebbe ora di finirla.
Ma non l’ho mica inventata io la filosofia
analitica! E non capisco perché non si possa,
finalmente e di nuovo, parlare di filosofia tout
court: che bisogno c’è di aggettivarla? Per
quel poco che ne ho capito, insisto nell’essere
idealmente sintonizzato con tutto lo sforzo
fatto dal “secondo Wittgenstein” per smantellare l’impianto metafisico della filosofia
(analitica anglosassone).
6. Questo mi dà agio di poter rispondere
anche alla questione del “primo” o “secondo”
pensiero di qualcuno. A volte dovremmo
essere un po’ più concilianti con gli storiografi e gli storici: se ci capiamo meglio dicendo
brevemente che dallo Husserl delle Ricerche
a quello delle Idee, o che tra lo Heidegger di
Essere e tempo e quello di Cosa significa
pensare? ci sono delle differenze, che c’è di
male? D’obbligo è la riflessione su quelle
differenze, che non possono e non devono
ridursi ad abituali tratti convenzionali che
interrompono il dovere di capire. Ma se siamo
d’accordo su questo allora diventa innocente
la semplificazione storiografica: semplificazione problematica, dunque.
7. Ciò mi consente anche di spiegare meglio la
posizione di Mulligan sull’io volitivo. Non ho
detto che la nozione di “io volitivo” Mulligan
la deduce dal “primo” Brentano, dal “primo”
Husserl, dal “primo” Wittgenstein e dal “primo” Carnap. Piuttosto è esatto dire che Mulligan ritiene corretta la tesi filosofica che la
nozione di “io” abbia senso solo in quanto
quest’io è un “io volitivo”, sganciato dalla
designazione. E’ questa la tesi che Mulligan
ritiene e mette a confronto con le filosofie del
Brentano della Psicologia dal punto di vista
empirico, dello Husserl delle Ricerche logiche,
del Wittgenstein del Tractatus, del Carnap
della Costruzione e della Sintassi. Ma, ripeto,
la nozione di “io volitivo” Mulligan non la
deduce da questi autori, poiché si appoggia per
questo su alcune tesi di B. O’Shaugnessy,
capitalizzate nel monumentale libro The Will.
Dove io abbia desunto la tesi stravagante che
Mulligan “flirta” con i pensieri giovanili dei
filosofi in questione è presto detto. L’ho desunto dalle sue considerazioni fatte durante le
lezioni, in cui egli stesso confessava tali stravaganze: «l’unico Husserl è quello delle Ricerche»; oppure: «il “primo” Brentano è quello
che vale, poi egli si perde strada facendo»;
ancora: «l’unica cosa che valga la pena di
leggere di Wittgenstein - e neanche tanto - è
il Tractatus», tant’è vero che a Ginevra circolava la battuta che, stando a Mulligan, per fare
una buona filosofia si sarebbe dovuto fare un
patto con Mefistofele per non invecchiare.
Anche di Kant, del quale Mulligan si professa
fiero oppositore, l’unico testo che avesse dignità di lettura è la Prima Critica. Quando gli
ho ricordato che Kant aveva anche scritto
altre due Critiche (in particolare una Critica
del Giudizio che compie il percorso critico
lasciato solo interrotto nella Prima), rispondeva che non rientravano nei suoi interessi
(evidentemente legati ad una concezione troppo marburghese del criticismo kantiano). Per
non parlare di Heidegger (che Mulligan vede
come il fumo agli occhi), del quale si è degnato, con tutta evidenza, di commentare solo
alcune parti di Essere e tempo (quelle sull’an-
61
DIDATTICA
DIDATTICA
a cura di Riccardo Lazzari
Uovi manuali di filosofia
Le recenti pubblicazioni di manuali di
filosofia per i licei valorizzano soprattutto l’approccio diretto ai testi filosofici, purché questi siano inseriti nel
contesto delle tradizioni e sostenuti
da adeguati strumenti interpretativi.
E’ il caso dell’opera di F. Cioffi, F.
Gallo, G. Luppi, A. Vigorelli, E. Zanette, IL TESTO FILOSOFICO (Bruno Mondadori, Milano 1993), che con la recente
pubblicazione del terzo ed ultimo volume, in due tomi, giunge al suo completamento; della STORIA E ANTOLOGIA
DELLA FILOSOFIA (3 voll., Laterza, RomaBari 1993) di G. Cambiano e M. Mori;
e del CORSO DI FILOSOFIA (4 voll., Bompiani, Milano 1993), diretto da S. Veca
e realizzato da G. Mancini, S. Marzocchi, G. Picinali.
Con l’apparizione dei due tomi del terzo ed
ultimo volume del Testo filosofico, dedicati al pensiero dell’Ottocento e del Novecento, si conclude l’ampia impresa, avviata
da Fabio Cioffi, Giorgio Luppi, Amedeo
Vigorelli, Emilio Zanette, di costruire un
complesso itinerario nel pensiero filosofico, scandito attraverso un’analisi di autori,
opere e problemi (si vedano le recensioni
dei due primi volumi nei fascicoli 5 e 6 di
questa rivista). Franco Gallo ha contribuito alla realizzazione editoriale di questo
terzo volume e alla stesura di numerosi
capitoli. Diversi altri studiosi di filosofia
hanno poi dato il loro contributo specifico
alla costruzione di singoli capitoli dell’opera. Quest’ultima nasce pertanto dalla collaborazione e dall’incontro di più studiosi,
senza tuttavia smarrire un’impronta unitaria, ma anzi mettendo a frutto le specifiche
competenze disciplinari.
Anche nel terzo volume compare un’articolazione della materia attraverso apparati
d’introduzione ai temi e agli autori, schede
di approfondimento e ampie selezioni di
testi (non solo di quelli più ricorrenti nelle
antologie scolastiche, ma anche di testi
spesso trascurati o esclusi dall’approccio
dell’insegnamento liceale); le singole unità didattiche sono inoltre suddivise per
“temi e problemi”, per “opere” di particolare rilevanza storico-filosofica, per “auto61
ri”, e infine per “biografie” ed “intersezioni”. Sotto il primo titolo, per esempio, sono
costruiti i capitoli iniziali sulla genesi dell’idealismo tedesco, sull’estetica e sulla
filosofia della natura del Romanticismo; il
pensiero di Hegel viene non solo ampiamente presentato sotto la rubrica “autori”,
ma una specifica unità “opere” è dedicata
all’analisi della Fenomenologia dello spirito, di cui si riportano distesamente alcune
scelte testuali. Sotto il titolo “biografie”
troviamo un capitolo su Kierkegaard. Fra
le “intersezioni”, infine, ricordiamo l’ampio capitolo «Dalla crisi del meccanicismo
alla meccanica quantistica».
Il secondo tomo vede poi un’articolazione
diversa della materia rispetto a quella dei
precedenti volumi. Una prima parte di esso
è costruita secondo le rubriche sopra indicate e comprende non soltanto unità didattiche incentrate sui momenti divenuti ormai “classici” del pensiero del Novecento
(per fare dei nomi o per citare dei titoli
generali, ricorrenti ormai anche nei programmi scolastici dell’ultimo anno: Croce, Husserl, Heidegger, Wittgenstein, l’esistenzialismo, l’empirismo logico), che vengono qui presentati con rinnovato rigore
interpretativo, ma comprende anche capitoli incentrati su temi ed autori che solo
una certa pigrizia intellettuale esclude dalle possibili scelte che l’insegnante può
effettuare in sede di programmazione di
un iter relativo al pensiero dell’ultimo
secolo. Troviamo così, in posizione di
rilievo, capitoli dedicati a «Io e mondo»
nelle analisi fenomenologiche, alla Filosofia delle forme simboliche di Cassirer,
alla Difesa del senso comune di Moore.
Una particolare cura, inoltre, è dedicata
alla filosofia italiana del Novecento, di cui
si ricostruisce non solo la linea ideale
Croce-Gentile-Gramsci, ma si focalizzano anche temi quali l’idealismo critico di
Piero Martinetti, la ragione problematica
di Banfi, lo scetticismo di Rensi e Levi, in
modo da ottenere un’immagine per lo meno
più variegata della nostra tradizione recente.
Una seconda parte del volume, poi, è dedicata a ricostruire «orientamenti e tradizioni» della ricerca filosofica contemporanea
ed è architettata mediante schede informative (corredate ciascuna da un lessico di
DIDATTICA
parole chiave) sui principali indirizzi, scuole
e tradizioni (riconducibili, per es., alle voci
“ermeneutica”, “falsificazionismo”, “strutturalismo”), che sono ormai consolidate
nell’odierno dibattito teorico. Una sezione
dal titolo «Problemi e discussioni» è poi
dedicata ad un ampio ventaglio di nodi
della ricerca contemporanea, relativi sia a
questioni interne allo sviluppo del pensiero
filosofico, che al rapporto tra riflessione
filosofica e scienze naturali e umane. Ciascuna unità mette a confronto testi rappresentativi di diversi autori. Fra i titoli: “Che
cos’è il linguaggio”, “Le macchine possono pensare?”, “Quando una teoria scientifica è vera?”. Un dizionario bio-bibliografico sui principali filosofi contemporanei
completa questa sezione.
L’apparizione del terzo volume del Testo
filosofico è stata anche occasione per alcuni incontri non solo di presentazione dell’opera da parte degli autori a un pubblico
di insegnanti, ma anche di confronto e di
bilancio sul senso dell’insegnare filosofia
oggi.
Da incontri svoltisi presso i licei di diverse
città, fra cui Vicenza (Liceo Classico “Zanella”), Caserta (Liceo Scientifico “A.
Diaz”), Milano (Liceo Scientifico “Allende”) è uscito un orientamento dei docenti
complessivamente favorevole all’architettura del manuale, sia per l’ampiezza che
per l’articolazione degli apparati predisposti per agevolare la lettura dei testi (note,
schede di lettura, dizionario). Si è riconosciuto come tale impianto favorisca una
didattica che intende superare la lezione
frontale e stimolare negli studenti particolari attività di ricerca, sorrette dall’aiuto
competente dell’insegnante. Non sono
mancate alcune critiche relative a specifiche carenze (per es. la mancanza di un’adeguato approfondimento della logica simbolica, l’assenza di testi di tipo storiografico, una certa complessità nell’introdurre
taluni argomenti), ma, significativamente,
tali critiche non hanno quasi mai investito
l’aspetto della “ponderosità” dell’opera. E’
emersa invece (come dagli incontri svoltisi
il 4 marzo presso la Facoltà di Magistero di
Bologna e il 19 marzo presso la Facoltà di
Lettere a Cagliari) la richiesta agli autori,
da parte di insegnanti, di indicare percorsi
didattici attraverso i quali poter selezionare
i materiali, collegando fra loro le unità o
parti di esse.
Il Testo filosofico è stato anche presentato
all’Università di Padova, nell’ambito di
una tavola rotonda tenutasi il 19 novembre
dello scorso anno, cui hanno partecipato,
oltre a Giorgio Luppi, Enrico Berti, Sergio Moravia, Ugo Perone, sul tema: “Nuovi impegni e nuove tendenze nei manuali
per l’insegnamento della filosofia nella
scuola secondaria superiore”. Questo dibattito veniva proposto nell’ambito di un
Corso di perfezionamento dell’Istituto di
Storia della Filosofia, rivolto alla formazione metodologica e didattica degli insegnanti di filosofia e diretto da Giovanni
Sentinello. Al centro del dibattito il tema
del rapporto tra uso del manuale e lettura
dei testi, discusso anche in relazione al
nesso, non solo didattico ma squisitamente
teorico, tra testualità e storia del pensiero.
Il 15 aprile dell’anno in corso si è tenuta,
presso il Dipartimento di Scienze Filosofiche dell’Università di Bari, una presentazione pubblica del Testo filosofico, cui
hanno partecipato, oltre a Franco Gallo e
Amedeo Vigorelli, Davide Bigalli e Francesco Fistetti. Presentando l’opera ad un
pubblico prevalentemente di insegnanti
della scuola secondaria, Francesco Fistetti ha sottolineato come essa venga incontro
al crescente “bisogno di filosofia”, successivo al fallimento delle ipotesi di assorbimento dell’insegnamento secondario della
filosofia in quello delle scienze umane.
Proprio l’attuale crisi di identità delle scienze umane, e la conseguente esigenza di
autoriflessione circa il loro statuto e i loro
metodi, rende tale “bisogno di filosofia”
più stringente. Fistetti ha poi particolarmente apprezzato la scelta degli autori di
restituire al “testo” la sua indispensabile
centralità nell’apprendimento della filosofia e ha osservato come tale opera (una vera
e propria “enciclopedia filosofica”), nella
ricchezza della proposta didattica e nel
rigore filologico dell’approfondimento,
esalti la funzione “mediatrice” del docente.
Fistetti ha sottolineato inoltre come il Testo
filosofico si presti ad essere utilizzato anche nelle Università per la preparazione
della parte istituzionale dell’esame di storia della filosofia e si rivolga ad una utenza
qualificata e non limitata solo alla scuola
secondaria.
Davide Bigalli è partito dalla constatazione di una difficoltà ad individuare con
sicurezza l’oggetto “storia della filosofia”
di fronte alla pluralizzazione delle pratiche
scientifiche e filosofiche. Egli ha ritenuto
in questa prospettiva felice la scelta degli
autori del Testo filosofico di identificare la
pratica filosofica, nelle diverse epoche della storia, con una pratica testuale, non sempre ristretta agli ambiti scolasticamente
tradizionali della storia della filosofia, e da
rivisitare con finezza di approccio filologico ed ermeneutico.
Gli interventi degli insegnanti presenti hanno in generale sottolineato la positività di
una proposta didattica che, affidando al
docente un essenziale e qualificato ruolo di
mediazione culturale, sembra finalmente
farlo uscire da quella posizione di “minorità” intellettuale cui una pratica burocratica
della scuola lo ha sempre più relegato.
La proposta di Giuseppe Cambiano e di
Massimo Mori che presentano con la loro
Storia e antologia della filosofia, è quella
di un approccio allo studio della filosofia,
dove l’inevitabile uso del manuale si coniughi con una intensa frequentazione dei
testi degli autori. Tale obbiettivo non è però
conseguito dagli autori mediante la semplice aggiunta di una appendice antologica
all’esposizione storica, ma attraverso la
62
congiunzione paritetica (come sottolinea
lo stesso titolo dell’opera) dell’elemento
storico e di quello antologico.
Ciascun capitolo presenta così una divisione in due parti. La prima consiste in un’esposizione storica esauriente, mai semplicemente nozionistica, attenta ad inserire gli
autori nel più ampio contesto in cui sono
nate le loro filosofie, a valorizzare dunque
i riferimenti al quadro storico-politico, alle
forme istituzionali di produzione e di trasmissione del sapere, al rapporto tra la
filosofia e gli altri ambiti culturali. Gli
autori cosiddetti “minori” non sono mai
citati in modo puramente elencativo, ma
inseriti nei capitoli su interi periodi o indirizzi filosofici ed esaminati nella misura in
cui lo consente lo sviluppo di un discorso
concettualmente organico.
La seconda parte di ciascun capitolo è
articolata attraverso un percorso testuale,
costruito intorno ai fulcri tematici più rilevanti. La parte antologica è corredata inoltre da un ricco apparato esplicativo: ciascun brano infatti è preceduto da una presentazione relativa alla sua collocazione
nell’opera da cui è tratto oppure all’inquadramento di quest’ultima nella produzione
complessiva dell’autore; talora la presentazione verte sulle connessioni del tema
con altri aspetti del pensiero del filosofo
trattato ovvero tende alla ricostruzione della storia del problema. Ogni testo è poi
accompagnato da numerose note esplicative a pie’ di pagina.
Le due parti si presentano organicamente collegate mediante frequenti richiami. Sottolineano gli autori, nella loro
Prefazione, come questa connessione fra
le due parti abbia altresì la funzione di
evitare il pericolo, cui è soggetto ogni
manuale, di «stendere una patina di uniformità su tutti gli autori e periodi storici»: in questo senso, «la scelta antologica, cedendo direttamente la parola agli
autori stessi su punti cruciali delle loro
costruzioni filosofiche, mira anche a
documentare la diversità delle forme letterarie, dei modi di scrivere e di argomentare, impiegati nel corso della storia
della filosofia».
Corso di filosofia è il titolo di una nuova
proposta di manuale, realizzata da Giorgio
Mancini, Stefano Marzocchi, Giambattista Picinali e coordinata da Salvatore
Veca. Il Corso di filosofia si articola in un
unico volume, Storia, di carattere storicointroduttivo alle idee e agli snodi della
ricerca filosofica, e in tre volumi, Materiali, che contengono materiale antologico,
selezionato intorno ad alcune grandi questioni ricorrenti del dibattito filosofico. Il
manuale di Storia, rivolto in particolare
all’approfondimento di una serie di pensatori, considerati fondamentali dagli autori,
anche alla luce dei progetti didattici di
riforma più recenti, segue il percorso storico della filosofia occidentale dalle origini
fino al pensiero contemporaneo. Da una
civiltà ancora dominata dal mito, in cui
DIDATTICA
l’uomo cerca di rispondere all’interrogativo circa l’origine delle cose e del mondo, si
passa ad una civiltà rivolta alla ricerca
“insonne” del “conosci te stesso” mediante
l’uso del dialogo. La filosofia come “amore per il sapere” recupera il nesso tra verità
e linguaggio ormai dissolto dalla sofistica;
un nesso che, come viene illustrato chiaramente nel manuale attraverso le principali
tappe storiche, rappresenta una delle questioni centrali nel dibattito filosofico del
Novecento sul senso dell’essere. Così, alla
fine del lungo cammino, simbolicamente
tracciato nel manuale, si apre l’illimitato
orizzonte ermeneutico di una filosofia che
ritrova nel linguaggio una delle parole chiave di questa fine secolo.
Come specifica Veca nella presentazione
dell’opera, la parte storica è stata realizzata
non sulla base del «criterio della esaustività
e della completezza dell’informazione su
singole scuole, tradizioni ed autori», bensì
di una selezione ragionata, in modo da
consentire un uso effettivo del volume (unico per tutto il triennio, e dunque utilizzabile
anche secondo criteri diversi da quelli di
una rigida compartimentazione dei programmi).
Fedele alla forma dialogica con cui è impostato questo Corso di filosofia, il volume
sulla Storia è affiancato da tre volumi di
Materiali, che permettono all’insegnante
di organizzare le lezioni in libertà, suffragando la propria esposizione con il rimando alle grandi questioni come verità ed
etica, bellezza e storia politica e tempo,
immagine del mondo, vita e morte, linguaggio, che ricorrono nel tempo all’interno delle problematiche filosofiche.
I tre volumi che costituiscono i Materiali non vogliono fornire una semplice
silloge di testi. I testi filosofici, avverte
Veca, sono introdotti invece come «una
sequenza di risposte a un ristretto nucleo
di grandi domande, a quella manciata di
problemi ricorrenti (questioni di verità e
di etica, di bellezza e di storia, di politica
e di tempo, di immagine del mondo, di
vita e di morte), in cui da un lato sembra
consistere quella che è stata chiamata la
“conversazione umana” nel tempo e a
cui, dall’altro, sembrano poter essere
personalmente interessati i giovani che
si avvicinano allo studio della storia delle idee e delle teorie filosofiche».
In occasione della presentazione del Corso
di filosofia presso la sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, si è
tenuta una tavola rotonda, cui hanno partecipato Giuseppe Galasso, Fulvio Tessitore e Salvatore Veca.
L’incontro si è aperto con l’intervento di
Salvatore Veca, che ha richiamato i due
approcci oggi prevalenti in tema di insegnamento della filosofia. Il primo, storicistico, considera unica via di accesso al
sapere filosofico l’apprendimento della sua
storia, riscontrandola sui testi antologici;
da questo punto di vista, la filosofia si
presenta come la serie dei tentativi di cia-
scuna epoca di autorappresentarsi, o meglio, di fare da sé il proprio ritratto. Il
secondo approccio, analitico, ritiene al contrario indispensabile concentrarsi sui problemi, indipendentemente dai contesti storici; di qui una filosofia che si muove
unicamente per interrogativi, ai quali cerca
di dare una risposta. Due paradigmi, questi,
che risultano distinti, secondo Veca, ma
non indipendenti l’uno dall’altro; infatti,
essi interagiscono in vista di un unico fine:
“l’insegnamento della filosofia”. Insegnamento che, ben altro dall’essere una “dieta
monotona”, si esemplifica nella forma di
«conversazione umana nella catena delle
problematiche del tempo storico», in cui
ogni persona convive con una varietà essenziale di fini e di ragioni, spesso conflittuali, attraverso le quali articola il rapporto
con se stessa e con il mondo. La precisazione è fondamentale, perché caratterizza uno
spazio politico specifico, quello dell’organizzazione della polis. Apprendere filosofia significa dunque, per Veca, intraprendere un viaggio verso nuove mete, nuovi
orizzonti, che ravvivando sempre più il
desiderio incessante del conoscere, contribuisce in modo originale ad espandere «il
cerchio della solidarietà umana». In tal
senso, l’insegnamento della filosofia abilita a partecipare, ad essere in compagnia
dell’altro: rinnovamento e tradizione si presentano, metaforicamente, come due “squadre” di una stessa partita, la cui sola interazione porta alla vittoria.
L’intervento di Giuseppe Galasso ha inteso segnare un goal a favore dell’insegnamento storico (e non storicistico) della filosofia, che a suo avviso rappresenta l’unica
forma in grado di conferire rigore e direzione a un pensiero che procede ripercorrendo
il sapere filosofico del passato e confidando nell’attività creativa ed individuale della mente umana. Riferendosi al pensiero di
Gadamer, e in particolare alla sua filosofia
ermeneutica come espressione dell’aprirsi
dell’uomo al mondo, Galasso legge il nesso individuo-società in termini dialettici.
Da qui la necessità non solo di diffondere la
filosofia all’interno del suo stesso mondo,
ma di considerarla come sapere privilegiato di fronte al progressivo vuoto ideologico
che affligge il mondo contemporaneo. Apprendere filosofia significa dunque non
solo acquisire specifiche abilità relative
alla conoscenza del pensiero e allo stile
speculativo dei filosofi, ma vivere insieme
con gli altri.
L’importante ruolo svolto dalla filosofia
nel sollecitare la riflessione, e non nel trasmettere passivamente nozioni in sé compiute, ha rappresentato il centro dell’intervento conclusivo di Fulvio Tessitore. Allo
scopo di proporre un punto di equilibrio
nella dimensione storica, in cui sia possibile cogliere la poliedricità profonda che
affiora nei sistemi filosofici, ogni volta
diversi, Tessitore predilige una filosofia
che sia «trascendenza senza metafisica»,
una trascendenza basata sulla ricerca empi63
rica e non ancorata nelle strettoie del “trascendentalismo logico”. Questo sarebbe
appunto il rimedio contro quel grande difetto della cultura che considera la filosofia
esclusivamente scientia scientiarum; il
pensiero umano vive della tensione tra l’ambizione alla verità - nel tentativo di cogliere
in un sistema tutto il reale - e la storicità
che, invece, ridimensiona queste pretese.
L’uomo, infatti, si realizza sempre e ogni
volta in maniera originale, nell’immediatezza dell’esperienza vissuta. La temporalità della vita di ogni essere, come essere
storico, rappresenta la caratteristica principale dell’uomo. Di qui la sua costitutiva
storicità in quanto essere parlante, perché
solo il movimento dialogico del discorso
della filosofia, ha osservato Tessitore, può
abbandonare la ricerca dell’essere, per potersi concentrare su quella del senso della
vita che, sulle orme di Humboldt, trova nel
linguaggio il fondamento e l’esito della
propria riflessione. (R.I. per il resoconto
della presentazione a Napoli del Corso di
filosofia)
Convegni
Organizzato dall’ARIFS ( Associazione per la Ricerca e l’Insegnamento
di Filosofia e Storia) si è tenuto a
Brescia dal 19 al 21 Marzo il XVII
Convegno nazionale per l’aggiornamento degli insegnanti sul tema: LA
FILOSOFIA ITALIANA TRA UMANESIMO E RI NASCIMENTO , con il coordinamento
scientifico di Claudio Cesa e con la
partecipazione di noti studiosi quali
Cesare Vasoli, Gianfranco Fioravanti, Alfonso Ingegno, Paola Zambelli,
Germana Ernst, Michele Ciliberto,
Davide Bigalli,
Paolo Galluzzi.
L’obiettivo fondamentale del convegno
è stato quello di rivisitare le tradizionali
categorie interpretative dell’Umanesimo
e del Rinascimento alla luce dello specifico ruolo giocato in quella fase storica
dal pensiero filosofico italiano. Nella
sua introduzione, Cesare Vasoli ha esordito ricollegandosi al giudizio espresso
da Delio Cantimori alcuni decenni fa
circa lo scarso valore scientifico delle
tradizionali etichettature della cultura
dei secoli XV e XVI elaborate in base a
discutibili criteri storico-ideologici, a
partire dai notissimi studi sul Rinascimento di Burkhardt. Dopo aver ricostruito la genesi e l’evoluzione delle differenti interpretazioni di questo concetto,
Vasoli ha insistito sulla complessità di
quella stagione culturale e sull’avvio di
profonde trasformazioni che essa determinò in ogni campo. In questa prospettiva, la filosofia italiana dell’epoca, ha
osservato Vasoli, assunse in modo non
subalterno, ma critico il rapporto con la
DIDATTICA
cultura classica, intrecciando tradizioni
diverse nella prospettiva di un radicale
rinnovamento del pensiero.
Gli interventi successivi hanno approfondito in modo convergente la varietà e
la complessità di questo quadro di insieme. Gianfranco Fioravanti ha analizzato con molta attenzione sia la forza
teorica e istituzionale della filosofia delle Università, eredi e mediatrici della
tradizione aristotelica, dotata di una poderosa macchina dialettica e di un sistema di sapere complessivo capace di abbracciare tutte le scienze. L’impatto della nuova cultura umanistica, che nacque
al di fuori e contro quella tradizione, fu
tale da incidere sulla fortificata cittadella degli studi universitari, determinando
nel secolo XVI un rinnovamento interno
dello stesso aristotelismo, a cui si potrebbe non senza ragione attribuire la
definizione di “aristotelismo umanistico”.
Sulla filosofia umanistica è intervenuto
Alfonso Ingegno, che ha messo in rilievo la crisi della scolastica ad opera dei
filosofi più rappresentativi della nuova
cultura. L’interesse filologico portò Valla
ed Erasmo ad una rilettura su basi morali
e non metafisiche delle Sacre Scritture.
Anche Marsilio Ficino tentò una apologia della religione cristiana attraverso il
suo inserimento in una tradizione millenaria, precedente lo stesso Platone, di
tipo spiritualistico, che egli definì come
una sorta di philosophia perennis. Non
dissimile fu l’intenzione di Pico della
Mirandola di ricercare alle radici delle
differenti tradizioni filosofiche un’unica verità attraverso una operazione di
sincretismo teorico atto a ricomporre su
un unico piano convergente linee di pensiero assai distanti tra loro. In questo
contesto, ha notato Paola Zambelli, va
inserito nella sua originalità e specificità
la figura di Pietro Pomponazzi. Anche in
Pomponazzi c’è una attenzione filologica per i testi della tradizione filosofica, a
partire dai quali egli sviluppò audaci tesi
naturalistiche - non solo la negazione
della immortalità dell’anima, ma anche
l’idea della “magia come arte fattiva” e
delle forze naturali come le autentiche
forze che muovono le sfere celesti -,
teorie affidate a manoscritti non pubblicati ma di circolazione clandestina, per
timore della censura ecclesiastica, che
furono di riferimento per la posteriore
tradizione libertina del sec. XVII.
Un altro terreno fondamentale di innovazione teorica fu quello della riflessione politica, come ha evidenziato Davide
Bigalli nella sua relazione sul pensiero
politico del 1500. La grande novità di
Machiavelli, ha fatto notare Bigalli, consiste nella sua concezione dello Stato,
non più definito sulla base della dottrina
tradizionale delle differenti forme istituzionali - aristocrazia, monarchia, democrazia -, ma sul presupposto della sua
natura di costruzione artificiale atta a
dominare le passioni e a regolamentare i
rapporti collettivi. In sintesi, Bigalli ha
proposto un approccio al pensiero di
Machiavelli non in quanto visione antropomorfica del potere identificato nella
persona del Principe ma come fenomenologia del potere.
Michele Ciliberto ha messo in rilievo le
ragioni della attuale renaissance del pensiero di Bruno e del suo spessore prettamente filosofico. Centrale è il suo concetto di vita-materia infinita che toglie
all’uomo qualsiasi primato ontologico e
lo colloca in una situazione di ineluttabile finitezza, quale accidente finito tra
innumerevoli accidenti finiti entro un
universo infinito. Al sapiente tocca il
compito di comunicare alle masse le
mutazioni “vicissitudinali” della realtà
umana e fisica, in aperta e frontale opposizione alle tenebre con le quali - a giudizio di Bruno -la religione cristiana
ottenebra le menti degli uomini. Analoga missione profetica permea il pensiero
di Tommaso Campanella, di cui Germana Aisler ha messo in rilievo la ricchezza, la complessità e - anche - le ambiguità. Nonostante limiti e contraddizioni
evidenti, filtra nel suo pensiero una costante apertura per le novità in campo
filosofico e scientifico, come attesta il
suo assiduo confronto con le posizioni di
Machiavelli da un lato e di Galileo dall’altro. Il suo riferimento alla religione ambiguamente intesa ora come pura religione naturale, ora identificata con il
Cristianesimo - si tinge di utopia, in
quanto egli la immagina come cardine di
un nuovo ordine sociale armonioso e
felice in un momento storico tragico e
contrassegnato dalla oppressione e dalla
violenza.
Paolo Galluzzi nel suo intervento ha
fatto il punto sulle differenti interpretazioni del metodo di Galileo, prendendo
le distanze sia da coloro che ne enfatizzano - come fa nei suoi recenti studi il
canadese S. Drake - il momento praticosperimentale, sia da coloro che sottolineano i suoi legami con l’aristotelismo.
Al contrario, Galluzzi ha riaffermato con
forza la validità dell’interpretazione di
Koyré, tesa a evidenziare il primato della elaborazione teorica in Galilei rispetto alla evidenza osservativa, carattere
che conferisce grande arditezza alla sua
avventura intellettuale. Prendendo in
esame le leggi del movimento fisico,
emerge con chiarezza la sostanziale novità della rete concettuale di Galileo rispetto a quella tradizionale.
E’ toccato a Cesare Vasoli il compito di
tirare le fila dei differenti contributi nella sintesi conclusiva e di evidenziarne
una serie di interessanti convergenze interpretative. In primo luogo, è emersa la
necessità di una revisione delle tradizionali interpretazioni del Rinascimento,
inadeguate rispetto alla complessità dei
64
fenomeni culturali che lo hanno caratterizzato. Un secondo aspetto ha messo in
rilievo la varietà degli apporti che si
intrecciano nella ricerca e nel dibattito
filosofico: non c’è solo platonismo, ma
anche la continuazione e , in qualche
caso, la rivitaliz zazio ne de ll’aristotelismo.Anche lo spiritualismo di
ascendenza platonica non deve essere
letto come una pura e semplice riaffermazione del Cristianesimo, ma come il
tentativo di affrontare una situazione di
crescente lacerazione tra religione istituzionalizzata e suggestioni spirituali di
antica origine e tradizione.
In tutte le relazioni si è sottolineata la
grande varietà di spunti della filosofia
rinascimentale ed insieme la fortissima
spinta innovativa. Giunto a piena maturazione, il Rinascimento ha messo in
luce anticipazioni e precorrimenti del
pensiero moderno, ed in questo la filosofia italiana del tempo ha ricoperto un
ruolo fondamentale. Per dirla con Weber, il moderno cominciava a prendere
corpo come il mondo del politeismo ed
in questo senso il Rinascimento aveva
già iniziato ad indirizzare le sue ricerche.
Alla fine del convegno, Giancarlo Conti, presidente dell’ARIFS, ha presentato
il programma del prossimo convegno di
filosofia che riguarderà Platone e avrà
come sede il Centro dei Congressi di
Firenze (Piazza Adua) nei giorni 19 e 20
novembre 1993. Gli interventi saranno i
seguenti: venerdì 19 Novembre, ore 9.00,
Francesco Adorno: “Socrate e Platone”; Giuseppe Cambiano: “Platone, i
sofisti e la letteratura socratico-platonica”; Carlo Augusto Viano: “Idee e mito
in Platone”; Mario Vegetti: “Platone e
la scienza ”; Marg her ita Isna rdi
Parente:”Oralità dialettica e politica”.
Sabato 20 novembre, ore 9.00, Bruno
Gentili: “Poesia e mito in Platone”; Luc
Brisson: “Recenti orientamenti della storiografia platonica”; Bruno Centrone:
“L’immagine di Platone nei manuali scolastici”. Sabato 20 novembre, ore 15:
tavola rotonda conclusiva, coordinata da
Carlo Augusto Viano.
Termine delle iscrizioni: 30 settembre
1993. Inviare richiesta di iscrizione, unitamente alla ricevuta di £.75.000 sul c/c
posta le n. 128 082 59 intestato a :
A.R.I.F.S. - casella postale 103 - 25100
Brescia (Causale del versamento: “per
quota associativa”). Per ulteriori informazioni: tel/fax 030.3757341, dalle 15
alle 16, esclusi festivi, prefestivi. F.S.
RASSEGNA RIVISTE
RASSEGNA RIVISTE
a cura di Silvia Cecchi
TEORIA
Vol. XII, n. 2, 1992
ETS, Pisa
Il romanzo dell’identità. Metafisica ed ermeneutica, di V. Sainati: il tema dell’identità da Parmenide ad Heidegger.
Universalismo e particolarismo nell’etica
contemporanea, di O. Guariglia.
L’ermeneutica e il problema della fine, di
A. Fabris: recensione di M. Ruggenini, I
fenomeni e le parole. La verità finita dell’ermeneutica (Marietti, Genova, 1992), e
di V. Vitiello, Topologia del moderno (Marietti, Genova, 1992).
forme del cosmo; la protolingua del cosmo ed il rapporto con la lingua dell’uomo.
Riserva di alterità, di R. Prezzo: la donna
come simbolo dell’alterità e la proiezione
su di essa delle caratteristiche dell’estraneo.
Verso un’etica della necessità, di F. Polidori: il vincolo che lega il Medesimo e
l’Altro.
Estranea familiarità, di G. Berto: la nozione di Umheimliche a partire da un saggio di
Freud del 1919-1920.
Molteplicità e alterità, di R. Cristin.
Recenti studi fichtiani, di G. Rotta: recensione di P. Baumanns, J. G. Fichte. Kritische Gasamtdarstellung seiner Philosophie
(Alber, Freiburg/München, 1990), e di P.
Rohs, J. G. Fichte (C. H. Beck, München,
1991).
L’innesto impossibile: l’alterità imperfetta del confronto ebraico-cristiano, di R. De
Benedetti.
Poesia e verità, a cura di M. Corsi: le lettere
di Luigi Scaravelli a Clotilde Marghieri.
L’essere “altrove” dell’etnografia, di R.
De Biasi.
L’altro io, di E. Greblo: la riflessione etica
di R. Hare.
Invito a pranzo da Kant, di A. Heller: la
filosofia della cultura in Kant.
AUT AUT
Tra ermeneutica e semiotica, di P. Ricoeur.
n. 252, novembre-dicembre 1992
La Nuova Italia, Firenze
Tema della rivista: “Retoriche dell’alterità”.
Retoriche dell’alterità, di P. A. Rovatti:
l’articolo analizza la questione dell’alterità
dal punto di vista della retorica, cioè degli
atteggiamenti teorici e pratici, attraverso
cui essa si dà nel linguaggio.
Il nemico, categoria dell’alterità, di A. Del
Lago: l’alterità come sintomo della spoliticizzazione del pensiero a seguito della crisi
della metafisica, con particolare attenzione
alla sfera dell’ostilità.
Alterità cosmiche, di G. P. Comolli:
pur essendosi così allontanato dalla natura, l’uomo ha avuto modo, più di ogni
altro essere, di contemplare da vicino le
ELENCHOS
Vol. XIII, 1992, n. 1-2
Bibliopolis, Napoli
Tema della rivista: “Sesto Empirico e il
pensiero antico”.
Appaiono in questo numero doppio, unico
dell’annata, le relazioni presentate al convegno internazioinale di studi dal titolo:
“Sesto Empirico e il pensiero antico”, organizzato dal Centro di studio del pensiero
antico del CNR (Sestri Levante 28/5-1/6
1991). Il convegno ha messo in luce non
solo la posizione di Sesto in relazione alle
più importanti correnti filosofiche dell’antichità, ma anche lo stato degli studi relativi
allo scetticismo ed alla figura di Sesto.
65
Sextus Empiricus and the atomist criteria
of truth, di D. Sedley: sulla base dei riferimenti agli atomisti in M VII 46-262, l’intervento analizza la classificazione data
degli atomisti da Sesto che riprende da
Enesidemo e da Antioco di Ascalona il
materiale della sua trattazione.
L’esposizione dei sofisti e della sofistica
in Sesto Empirico, di C. J. Classen: la
posizione di Sesto in relazione a Protagora, Gorgia, Prodico, Seniade, Eutidemo, Dionisodoro.
Die sogenannten kleinen Sokratiker und
ihre Schulen bei Sextus Empiricus, di K.
Döring: i riferimenti di Sesto a Socrate e ai
Socratici.
Sesto, Platone l’Accademia antica e i Pitagorici, di M. Isnardi Parente: il riferimento
di Sesto a Platone, ai Platonici e ai Pitagorici riguarda soprattutto questioni di esegesi di alcuni passi di difficile interpretazione.
Sesto Empirici e l’Accademia scettica, di
A. M. Ioppolo: Sesto tende a distinguere la
posizione dello scetticismo da quella dell’Accademia scettica.
Sextus Empiricus and the Peripatetics, di J.
Annas: secondo una tesi storiografica accreditata le citazioni di Aristotele e degli
Aristotelici da parte di Sesto sembrano
derivare più da una manualistica che da una
conoscenza diretta e sono usate per lo più in
chiave antistoica.
Sextus Empiricus und die Stoiker, di K.
Hülser: gli Stoici sono per Sesto i dogmatici per eccellenza; lo scontro tra le due
posizioni assume significati interessanti
anche alla luce della riflessione moderna.
Sesto e gli Scettici, di F. Caizzi Decleva:
riflettendo sulla figura di Sesto non come
fonte, ma come autore, vengono messi in
luce i rapporti tra Sesto Empirico, Eneside-
RASSEGNA RIVISTE
mo e l’Accademia scettica.
IL CANNOCCHIALE
n. 2, maggio-agosto 1992
EDS, Napoli
révolutions” nel pensiero di Condorcet, di
G. Piazza: una lettura di Esquisse d’un
tableau historique des progrès de l’esprit
humain di Condorcet, a partire dall’interpretazione di G. G. Granger (La mathématique sociale du marquis de Condorcet,
PUF, Paris, 1953).
Teoresi del fondamento (II), di P. Miccoli.
La verità e l’annuncio. Il significato religioso del pensiero di Heidegger, di G.
Sadun Bordoni: la presenza di un tema
religioso sullo sfondo del pensiero heideggeriano emerge significativamente attraverso il problema della verità. In un’ottica
di questo tipo troverebbero soluzione anche tutte le difficoltà interpretative relative
alla “svolta”.
La geometria caotica della mente. Complessità e creatività del sistema cerebrale,
di F. Ianneo: un approccio interdisciplinare
che, partendo dalle più recenti acquisizioni
della neurofisiologia, coglie la complessità
strutturale di una personalità mentale.
“Il nome della rosa” e la semiotica di Eco,
di J. Kèlemen.
FENOMENOLOGIA E SOCIETA’
Vol. XV, n. 2, 1992
Edizioni Piemme, Alessandria
Introduzione a “cultura e comunicazione”, di K. Eder: attraverso una rapidissima
disamina della “svolta culturalistica” che è
stata operata all’interno della sociologia, il
breve articolo rileva il nesso tra cultura e
discorso, consentendo di inquadrare meglio il ruolo della cultura all’interno delle
varie condizioni sociali.
Il paradosso della “cultura”. Oltre una
teoria della cultura come fattore consensuale, di K. Eder: contrariamente a quanto
sostiene la teoria tradizionale della sociologia, tanto di Weber, quanto di Parsons,
secondo cui la cultura è un fattore che lega
la società, viene dimostrato come in realtà
la cultura sia un elemento di dissociazione.
Le teorie contemporanee della giustizia: vicolo cieco o necessità?, di P. Van
Parijs: versione in parte modificata dell’ultimo capitolo di un opera, Che cos’è
una società giusta?, che l’autore sta approntando per la casa editrice Seuil di
Parigi, l’articolo analizza le teorie contemporanee della giustizia, sottolineando al tempo stesso quali aporie comportano le soluzioni proposte.
Aristotele e i rapporti di dominio, di F.
Ingravalle: breve nota sull’XI Symposium
aristotelicum del 25/8-3/9 1987.
La crisi euripidea del mito e il post-moderno, di G. M. Cordero: se la Sofistica mette
in luce la contraddizione che esiste a livello
etico tra normatività e desiderio, volere e
comportamento ispirato alla norme dell’ethos, Euripide, il tragediografo che più
da vicino si ispira al pensiero sofistico,
appare certamente inattuale rispetto all’ambiente in cui vive, in quanto avverte lo iato
tra disposizione razionale e volontà, realizzando una sorta di fallimento del razionalismo che aporeticamente può essere proposto al pensatore post-moderno.
Rethinking the christian philosophy debate: an old puzzle and some new points of
orientation , di T. D’Andrea: esame dei
principali interventi nel dibattito sulla “filosofia cristiana”.
Descubrimiento de América: derecho natural y pensamiento utopico, di M. Fazio:
sul dibattito e sui problemi teorici sollevati
dalla scoperta dell’America: la dignità
umana degli indigeni, la giustificazione
delle guerre di conquista, la nascita del
pensiero politico utopistico.
Perché una filosofia politica? Elementi
storici per una risposta, di M. Rhonheimer.
L’umanesimo del lavoro nel Beato Josemariaà Escrivà: Riflessioni filosofiche, di
J. J. Sanguineti.
L’etica del discorso e i suoi nemici, di F.
Giani: recensione della raccolta di saggi
dal titolo: Etiche in dialogo, curata da M. T.
Vasconcelos e M. Calloni (Marietti, Genova, 1990), da cui emerge la rilevanza e
l’attualità intellettuale della filosofia pratica, introdotta da due interventi programmatici di Apel ed Habermas.
L’antropologia tomista e il body-mind problem (alla ricerca di un contributo mancante), di L. Borghi: la relazione mentecorpo nell’antropologia tomista.
Eticità e modernità. Sul filo della riflessione weberiana, di G. Balistreri: l’articolo
propone una riflessione sulle conclusioni
di Weber sul significato etico della Modernità; se da un lato il mondo moderno si
configura come una rottura dell’unitarietà
della vita e come una parcellizzazione dell’anima che non è più in grado di conformarsi ad un cosmo ordinato, oggettivo ed
unitario di valori, dall’altro proprio questa
situazione rende possibile per il soggetto
una scelta soggettiva, ma responsabile, delle
proprie decisioni, scelta che si pone come
vero e proprio destino a cui il soggetto
liberamente si vota.
La mimesi e la metafora nella poetica di
Aristotele, di A. Malo.
ACTA PHILOSOPHICA
Vol. I, n. 2, 1992
Armando editore, Roma
Edmund Husserl ed Edith Stein. La questione del metodo fenomenologico, di A.
Ales Bello: la ricostruzione della formazione fenomenologica e della ricezione
della dottrina di Husserl da parte di Edith Stein.
Per una metafisica problematica e dialettica, di E. Berti: il problema della
metafisica in rapporto ai recenti interventi di Habermas, con il suo attuale
attacco al ritorno metafisico di origine
gadameriana, e alle posizioni di W. Pannenberg, che pone la necessità di un
rinnovamento della metafisica.
Senso tragico della storia ed “Heureuses
66
Unidad del conocimiento y fundamentacion de la metafisica en la Critica de la
razon pura, di P. Giralt.
Ethical theology and its dissolution in Kant,
di A. Ramos.
FILOSOFIA
Vol. XLIII, n. 3, settembre-dicembre 1992
Mursia, Milano
L’attualismo di Gentile e la morte dell’arte, di V. Mathieu.
La forma e il limite, di G. Gallino: l’esperienza del Bildungsroman inaugurato da
Goethe e l’idea di una normatività dell’ironia come limite per la forza dirompente
della soggettività romantica.
L’inno della perla: una risposta al problema gnostico, di S. Nosari: all’interno della
prospettiva gnostica di una ricerca della
coscienza come processo di perfezionamento del proprio stato ontologico e liberazione dalla schiavitu mondana, l’articolo
esamina L’inno della perla, versione poetica del mito soteriologico gnostico.
La posizione storiografica del pensiero di
Carlo Mazzantini, di A. Rizza.
L’”Antibancor” e la filosofia del danaro,
di M. Pinottini: presentazione del volume
dell’autore: L’Antibancor (Padova, Ed. di
RASSEGNA RIVISTE
Ar, settembre 1992).
RIVISTA DI FILOSOFIA
NEOSCOLASTICA
Vol. LXXXIV, n. 2-3, aprile-settembre
1992
Vita e Pensiero, Milano.
L’interpretazione di Platone della scuola
di Tubinga e della scuola di Milano, di H.
Krämer: l’ autore interviene a proposito
della decima edizione dell’opera di Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone: rilettura della metafisica dei
grandi dialoghi alla luce delle dottrine non
scritte (Vita e Pensiero, 1986).
Precisazioni metodologiche sulle implicanze e sulle dimensioni storiche del nuovo
paradigma ermeneutico nell’interpretazione di Platone, di G. Reale: critica di alcuni
pregiudizi di natura teoreticistica, storica,
ideologica circa il nuovo paradigma interpretativo di Platone offerto dalla Scuola di
Tubinga e, in Italia, da quella di Reale.
Una nuova edizione italiana di Platone, di
A. Bausola: presentazione dell’edizione
dell’opera di Platone a cura di G. Reale:
Tutti gli Scritti (Rusconi, Milano, 1991).
Inmportanza storica e teoretica del pensiero neoplatonico nel pensare l’Uno di Werner Beierwaltes, di M. L. Gatti.
Plotino e Ficino: autorelazione del pensiero, di W. Beierwaltes: Ficino rappresenta
senz’altro uno degli interpreti più significativi del pensiero plotiniano, sia per la sua
acutezza interpretativa, che per la sua profonda conoscenza della lingua greca che gli
permise di entrare in sintonia con il grande
pensatore tardo-antico. In particolare, la
questione relativa all’autorelazione del
pensiero, sia rispetto al pensiero divino e
assoluto, sia rispetto a quello umano e
finito, viene sviluppata da Ficino in rapporto a Plotino e alla luce della mediazione
agostiniana.
L’interpretazione di Plotino della teoria
platonica dell’anima, di T. A. Szlezak:
all’interno dei concetti della tradizione platonica l’articolo sviluppa l’analisi della teoria dell’anima plotiniana.
Interpretazione e critica di Plotino della
concezione del tempo dei suoi predecessori, di A. Trotta: in Enneade III, 7 Plotino
elabora il proprio concetto di tempo come
vita dell’anima in rapporto al mondo attraverso una lunga preparazione, che passa
anche da un’analisi delle dottrine postplatoniche del tempo, allo scopo di sottolineare la relazione problematica tra tempo
e movimento e mettere in luce il primato
ontologico della successione temporale nei
confronti del movimento stesso. L’essere
del tempo è fondato per Plotino nell’anima
del mondo come atto che svolge l’unità
dell’eterno nella successione; creando il
tempo l’anima crea il mondo sensibile e il
movimento.
Teologia cosmica e metacosmica nella filosofia greca e nello gnosticismo di A. P.
Bos: se lo gnosticismo ellenistico è pervaso
dal desiderio di conoscere l’Origine e il
Fondamento dell’uomo e di tutte le cose,
appare evidente come il fondamento della
comprensione piena del fenomeno della
Gnosi sia il richiamo alla tradizione della
filosofia greca.
tico” di Gadamer, dalla “teleologia oggettivistica” di Spaemann e di Jonas e dal
“rinnovamento della metafisica” di Henrich. Nello stesso tempo, proprio dal fronte
antimetafisico di stampo heideggeriano
emerge la necessità di un “rinnovamento
della metafisica”, quale viene proposto da
un teologo della speranza come Pannenb
e
r
g
.
Il concetto di metafisica, di P. Faggiotto:
l’articolo tenta di formulare una definizione di metafisica legato alla struttura dell’esperienza umana.
La funzione e la portata della critica alle
idee nel Parmenide di Platone, di M. Pezzolato.
Interpretazione esistenziale della metafisica, di G. Penzo.
I metaxù nella Repubblica: loro significato
e loro funzione, di C. Marcellino.
L’inevitabilità della metafisica del postmoderno, di A. Poppi.
La struttura del mondo soprasensibile nella filosofia di Giamblico, di G. Cocco: la
moltiplicazione delle ipostasi soprasensibili, caratteristica peculiare del neoplatonismo di Giamblico, rappresenta il tentativo
di rifondare ontologicamente e concettualmente il politeismo pagano; più che sulla
filosofia, la metafisica di Giamblico appare perciò fondata su problematiche religiose.
Sull’ingresso della metafisica, di V. Possenti: la conoscenza dell’essere e l’esperienza del Sé in M. Heidegger.
Gli influssi del platonismo sul neostoicismo senecano di M. Natali: benché la formazione di Seneca sia decisamente stoica,
nel suo pensiero sono presenti spunti spiritualistici di origine platonica, che incrinano, sul piano storico-filosofico, il trionfante materialismo, preparando la successiva
ripresa della tradizione spiritualista.
Metafisica: pensiero forte o pensiero debole?, di U. Regina: l’uso del termine metafisica in Heidegger.
Una via d’accesso alla metafisica: l’ulteriorità come dialettica, di A. Rigobello:
l’articolo ritrova uno spazio per la metafisica in un pensiero che sia ulteriore rispetto
al dominio analitico dei vari settori dell’esperienza, propri della riflessione contemporanea.
Critica del neoparmenidismo e semantizzazione dell’essere di C. Vigna: un confronto con il pensiero di E. Severino.
Originalità filosofica dei Pensieri di Marco Aurelio, di L. Crovi.
Tomismo e democrazia, di J. F. Nothomb:
il senso della democrazia in Maritain.
John Niemeyer Findlay, un platonico fra i
neopositivisti: ritratto biografico, di M.
Marchetto.
Appunti per un profilo storico-filosofico
del pensiero di Hegel, di M. Roncoroni.
L’educazione alla verità: il valore del “senso comune” in Vico e in Pareyson, di F.
Russo.
PER LA FILOSOFIA
Anno IX, n. 26, settembre-dicembre 1992
Massimo, Milano
Il filosofo scienziato Ludovico Geymonat,
di D. Coviello.
Tema della rivista: “Le vie della metafisica”.
CON-TRATTO
Per una metafisica problematica e dialettica, di E. Berti: nel nostro secolo le dichiarazioni di “morte” della metafisica di tipo
nietzcheano e heideggeriano hanno avuto
una valida alternativa nelle proposte di una
razionalità dialogica ed argomentativa offerte dalla seconda generazione della Scuola
di Francoforte, in particolare da Habermas ed Apel. L’articolo discute perciò la
recente presa di posizione di Habermas
contro il “ritorno alla metafisica” rappresentato dal “neoaristotelismo ermeneu-
Anno I, n. 1, dicembre 1992
Il Poligrafo, Padova
La parte tomista della rivista è dedicata al
tema: “Nichilismo e Gnosi”; la parte contemporanea è dedicata al tema: “Ermeneutiche leopardiane”.
Le radici del pensiero debole: nihilismo e
fondamenti della matematica, di G. Basti e
A. Perrone.
Nichilismo. Genesi filosofica e rifles-
67
RASSEGNA RIVISTE
si sulla cultura contemporanea, di E.
Corradi: l’articolo si sviluppa attorno
a tre nodi tematici: il rapporto tra nichilismo e carattere complesso del nostro
tempo; la genesi filosofica del nichilismo e i suoi principali sviluppi; i riflessi
del nichilismo sulla mentalità post-moderna.
fisica e della conoscenza.
Dominio dell’istante, dominio della morte
alla ricerca di uno schema gnostico, di E.
Samek Lodovici: la concezione gnostica
del tempo e dell’istante appare connessa al
pensiero rivoluzionario marxista; per i
compagni e per la società del rivoluzionario, dominio della morte significa un nuovo modo di pensare l’istante, cioè di percepire il tempo.
Narrazione e futuro. A proposito di Temps
et Récit e dell’unità della storia, di G. Mari.
Trotsky e le orchidee selvatiche, di R. Rorty: un articolo autobiografico sulla genesi
delle proprie idee.
Il presente respira attraverso la storia, di
M. Cruz.
determinata azione compiuta da chi spiega
e rivolta a chi ascolta, entrambi “attori
sociali”. Le due funzioni della spiegazione,
quella “normativa” e quella di “identificazione”, hanno in comune il fatto di produrre (o riprodurre) una forma di organizzazione dell’ordine sociale.
Gnosi antica e “sapientia” tomista. Elementi per un confronto speculativo, di A.
Porcarelli.
Narrazione e tradizione, di C. Sini: la serie
dei cinque interventi è dedicata alla figura
di Paul Ricoeur ed al tema “narrazione,
tempo, soggetto”.
Tracce della differenza ontologica: Kant,
Hegel, Heidegger, di F. Cassinari: il saggio
sostiene un’analogia di struttura e di motivi
nell’atteggiamento ermeneutico di Heidegger nei confronti di Kant ed Hegel. Attraverso l’esame dei testi di questi filosofi in
rapporto alla lettura datane da Heidegger,
l’autore chiarisce come sia possibile trovare decisive chiavi di accesso per la comprensione del pensiero heideggeriano nella
sua originalità, nonché per cogliere in esso
alcune aporie, soprattutto quella relativa
alla nozione di “superamento” della metafisica.
Scrittura e poesia. Conversazioni con Edmond Jabès, a cura di E. Manfredotti.
Elogio di Epimeteo. di U. Curi.
Heidegger a Zollikon, di C. La Rocca.
Soggetto (l’io e l’altro), di S. Givone.
Lettura sintomale ed ermeneutica psicoanalitica, a cura di I. Domanin: resoconto
del convegno su Louis Althusser, tenutosi
a Milano presso l’Università degli Studi (56 Febbraio 1992).
Cammino di un lettore. Conversazione con
Cesare Galimberti di A. Folin.
Leopardi platonicus?, di M. Cacciari.
Indifferenza e natura. Una presenza gnostica in Giacomo Leopardi, di R. Panattoni: l’accostamento, comunque problematico, tra Leopardi e la gnosi antica viene qui
proposto attraverso il riferimento alla libertà umana in rapporto alla natura.
“Quasi una finta imago”, di A. Folin: la
meditazione leopardiana sul concetto di
immagine.
Il segno e il velo della differenza. Sull’Indice dello Zibaldone, di A. Calzolari e M. R.
Torlasco.
Notturno, di A. Prete: il tema del notturno
nei Canti leopardiani.
Il soggetto come identità e l’identità del
soggetto di S. Moravia.
Narrazione e “fragilità”. Su alcune variazioni in Paul Ricoeur, di P. A. Rovatti.
Individuo. persona, diritti: quale base razionale per l’etica?, di E. Lecaldano: i due
ultimi articoli affrontano il tema della dimensione della soggettività sulla scorta dei
risultati emersi in un seminario organizzato da IRIDE.
Variazioni barocche, di F. Jarauta: sulla
base della trattazione di Benjanin, il breve
intervento sottolinea l’importanza del barocco nella genesi della modernità.
REVUE PHILOSOPHIQUE DE LOUVAIN
Reale relativismo, di E. LePore: il realismo
di Putnam.
Tema della rivista: “Metafisica e ontologia”.
A proposito di de Finetti, di M. G. Sandrini.
Lecaldano e la legge di Hume, di M. Vacatello: recensione di E. Lecaldano: Hume e
la nascita dell’etica contemporanea (Laterza, Bari, 1991).
Le concept de philosophie première dans
la Métaphysique d’Aristote, di J. Follon:
una lettura ontoteologica della filosofia
prima di Aristotele, quale scienza delle
cause prime e perciò delle sostanze divine;
secondo l’interpretazione tradizionale essa
è perciò eziologia e teologia, ma anche
ontologia, dato che le cause prime si riferiscono all’essere.
ITINERARI FILOSOFICI
“Physique” et “métaphysique”chez Aristote, di P. Destrée.
Etimologie della Ginestra, di G. Scalia.
IRIDE
n. 9, maggio-agosto 1992
Ponte alle Grazie, Firenze
Epistemologia e verità, di D. Davison: l’articolo vuole mettere in discussione il concetto di verità che emerge dalle teorie intuitive e dalle contrapposte teorie relativistiche della verità.
Le strutture del mondo del senso comune,
di B. Smith: l’articolo dimostra che il mondo del senso comune può essere trattato,
dal punto di vista ontologico, come oggetto
di un’indagine autonoma che può a sua
volta aiutare a capire le strutture della realtà
Anno II, n. 3,
maggio-agosto 1992
Università degli Studi, Milano
Figure del Fondo. La filosofia e il soggetto
nella Montagna Incantata di Thomas Mann,
di M. Fortunato.
Spiegazione dell’agire, agire dell’esplicazione, di D. Sparti: un’indagine relativa
alla nozione di spiegazione, la cui analisi,
presentata nel quadro pragmatico dello spiegare come pratica teorico-comunicativa,
viene spostata da un piano epistemologico
ad uno pratico. L’articolo interpreta lo spiegare come attività tipicamante comunicativa che comporta la ridescrizione di una
68
Vol. 90, novembre 1992
Editions de l’institut supérieur de philosophie
De l’ontologie à la théologie; lecture du
livre Z de la Métaphysique d’Aristote, di G.
Gérard: il libro Z della Metafisica rappresenta una chiave di volta nell’economia
della filosofia aristotelica, poiché qui Aristotele individua nella teologia il senso
profondo della tematica ontologica.
La stylométrie et la question de Métaphysique K, di C. Rutten.
Le statut de l’Un dans la Métaphysique, di
L. Couloubaritsis: nonostante la generale
convinzione che Essere ed Uno siano concetti e termini convertibili reciprocamente,
RASSEGNA RIVISTE
l’autore sostiene che, al di là di pochi casi
limite, il rapporto tra Essere ed Uno sia
regolato dalla complementarietà.
Une nouvelle approche de la philosophie
d’Ernst Cassirer, di S. Loft: recensione di
J. M. Krois: Cassirer: symbolic forms and
history (Yale University Press, New Haven, London 1991).
l’animale.
aspetti del pensiero di Husserl, con particolare attenzione al concetto di noema.
René Descartes et Pierre Charron, di M.
Adam: l’articolo analizza in che senso il
pensiero di Charron (1541-1603), accanto
a quello di Montaigne, possa essere considerato una fonte di quello cartesiano.
LES ETUDES PHILOSOPHIQUES
Coup d’oeil sur la philosophie italienne
contemporaine: le “trascendentalismo della prassi” et la philosophie critique de M.
Dal Pra, di L. Rizzerio.
REVUE PHILOSOPHIQUE
DE LA FRANCE ET DE L’ETRANGER
n. 4, ottobre-dicembre 1992
PUF, Paris
Tema della rivista: “Cartesio e la tradizione
umanista”.
L’image de l’homme chez Descartes et
chez le cardinal de Bérulle, di J. L. Vieillard-Baron: la differenza tra la posizione di
Cartesio e quella di Bérulle sulla concezione dell’uomo appare emblematica di un
cambiamento avvenuto nella cultura e nella mentalità nel corso di quegli anni. Se per
Bérulle l’uomo, pur rivestendo un ruolo
centrale nell’universo, come per Cartesio,
si colloca all’interno di una visione rinascimentale della cosmologia, per Cartesio esso
partecipa del meccanicismo dell’universo.
Anche per quanto riguarda l’analisi della
volontà umana e delle passioni la visione di
Bérulle è in un certo senso antiumanista,
perché si riconnette alla tradizione agostiniana, mentre per Cartesio il libero arbitrio
è la più nobile delle funzioni umane.
ottobre-dicembre 1992
PUF, Paris
Tema della rivista: “Poesia e filosofia nell’idealismo tedesco”.
Sensibilité et dualisme dans les Lettres sue
l’éducation esthétique de l’homme, di M.
Castillo: il superamento del dualismo kantiano tra ragione e sensibilità è ottenuto da
Schiller attraverso la scoperta della dimensione estetica che apre anche una curvatura
politica nella sua riflessione.
Poésie, philosophie et science chez Friedrich von Hardenberg (Novalis), di D.
Lancerau.
Enthousiasme et ironie. La dialectique artistique selon K. W. F. Solger, di J. Colette:
le considerazioni sull’arte e sull’artista di
Solger nel dialogo Erwin (1815) e nelle
Lezioni d’estetica (1829).
Hölderlin: fragment d’une esthétique spéculative, di J. L. Vieillard-Baron: la sintesi
tra l’atto del poetare e quello del filosofare
vengono esaminati a partire dalla Dichterberuf (1801) e dalle esplicazioni teoriche
redatte ai tempi dell’Empedocle (17981800).
Poésie et mysticisme dans la dernière philosophie de Schelling, di M. C. Challiol.
Descartes philosophe et écrivain, di J. Lafond: l’articolo ricostruisce con precisione
l’interesse mostrato da Cartesio nei confronti del dibattito coevo relativo al ruolo e
alle forme della letteratura.
Empédocle et Zarathustra: sept versions
de la morte libre, di M. Kerkhoff.
Doute pratique et doute spéculatif chez
Montaigne et Descartes, di G. Rodis-Lewis.
PHENOMENOLOGICAL INQUIRY
L’homme et le langage chez Montaigne et
Descartes, di F. de Buzon: il rapporto che
lega Cartesio a Montaigne è piuttosto complesso: più che accettare completamente o
completamente rigettare alcuni aspetti della filosofia di Montaigne, Cartesio utilizza
alcuni suoi argomenti, ad esempio scettici,
in una direzione opposta allo scetticismo.
L’unica tematica in cui Cartesio evoca esplicitamente Montaigne è la questione del
linguaggio e della differenza tra l’uomo e
Vol. XVI, ottobre 1992
The World Institute
of Advanced Phenomenological Research
and Learning
Belmont
A phenomenological interpretation of John
Locke’s distinction between sensible and
intellegible ideas, di Y. Tomida: l’interpretazione della teoria lockeane delle idee alla
luce della teoria husserliane del significato.
Husserl and his analytic interpreters: some
revealing questions, di R. Cobb-Stevens:
scopo dell’articolo è cogliere il senso ed
esaminare criticamente le recenti interpretazioni date dalla scuola analitica ad alcuni
69
Conceptions of freedom: Hegel, Sartre and
confucianism, di Y. Chen.
Sartre conception of freedom, di W. L. Mc
Bride.
Innocence, guilt and totalitarianism, di M.
L. Pfeiffer: una breve riflessione su Humanisme et Terreur (1947) di M. MerleauPonty.
Heidegger and the fundamental ontology
of language, di R. Raj Singh.
The world of language: Merleau-Ponty
and Mead, di P. L. Bourgeois e S. B.
Rosenthal: il pensiero di Merleau-Ponty e
Mead affonda le proprie radici in una concezione olistica, che rifiuta un approccio
semplicemente riduzionista alla questione
del linguaggio.
Communication in the context of cultural
diversity, di C. O. Schrag: la questione del
rapporto tra comunicazione e comunità a
partire da Ragione ed Esistenza di Jaspers.
Allegory and maxim: power and faith, passions and virtues. Queen Christina of Sweden, a citizen of the world: from Stockholm
to Paris to baroque Rome, di M. Kronegger.
Is philosophy as a rigorous science still
topical today?, di A. Ales Bello.
JOURNAL OF THE HISTORY
OF PHILOSOPHY
Vol. XXX, n. 4, ottobre 1992
Washington University, St. Louis
Plotinus’ account of participation in Ennead VI 4-5, di S. K. Strange: un aspetto
non sufficientemente analizzato dalla critica plotiniana, eppure di grande importanzaper una corretta e completa comprensione della metafisica plotiniana, è il problema della partecipazione del sensibile alle
idee, questione al centro anche del commento di Proclo al Parmenide platonico. Si
tratta di un’analisi .
Mathematical construction, symbolic cognition and the infinite intellect: reflections on Maimon and Maimonides, di D. R.
Lachterman.
Leibniz’s adamic language of thought di
M. Losonsky: prendendo spunto dalla diversità di posizione tra Locke e Leibniz sul
problema del linguaggio, l’articolo vuole
ricostruire ed evidenziare l’importanza
dell’adesione di Leibniz alle linee di fondo
della teoria adamica del linguaggio; attra-
RASSEGNA RIVISTE
verso un breve excursus sulla storia di
questa posizione, l’articolo mostra come
essa non si proponga soltanto come teoria
del linguaggio, ma anche come teoria del
pensiero
Hume on the duties of humanity, di R.
Shaver: il dibattito tra doveri della giustizia
e doveri dell’umanità nel XVIII sec.
Fichte, Lask and Lukács’s hegelian marxism, di T. Rockmore: nella formazione di
Lukács l’approdo al marxismo non avviene soltanto sulla base dei presupposti hegeliani, ma risulta fondamentale anche la
meditazione sulla filosofia classica tedesca. Più in particolare la soluzione marxiana del problema kantiano della cosa in sé
appare come il frutto della riflessione sul
pensiero di Fichte, attraverso la mediazione di Lask.
Bergson’s concept of order, di R. Lorand:
il concetto di ordine è fondamentale in tutta
la filosofia occidentale e soprattutto nel
pensiero di Bergson. L’articolo prende in
esame appunto la posizione del filosofo
francese, tenendo presenti i due presupposti bergsoniani: ci sono due tipi di ordine; il
disordine non esiste.
frammento scoperto nel 1913 e la cui redazione é stata generalmente attribuita a Hegel, l’articolo prende in considerazione i
più recenti interventi critici attorno al frammento, con particolare attenzione allo studio di F. P. Hansen “Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus”.
Receptions Geschichte und Interpretation
(Berlin, New York 1989).
n. 3, 1992
Walter de Gruyter, Berlin, New York
Anmerkungen zur schottischen Aufklärung
(in Aberdeen). Neue Briefe von Baxter,
Beattie, Fordyce, Reid und Stewart, di H.
F. Klemme.
La construccion del texto, di M. E. Vasquez: l’articolo si propone di chiarire il
senso del rapporto tra letteratura e filosofia.
ARCHIV FÜR GESCHICHTE DER
PHILOSOPHIE
Markt, Motive, moralische Institutionen.
Zur Philosophie Adam Smiths, di G. Streminger.
LES ETUDES PHILOSOPHIQUES (luglio-
Go-carts of judgement: exemplars in kantian moral education, di R. B. Louden: gli
esempi morali individuali occupano nella
riflessione morale di Kant un ruolo superiore a quello generalmente riconosciuto
ad essi, benché non possano essere considerarti sufficienti per un’educazione morale.
DAIMON
n. 5, 1992
Universidad de Murcia
Sind Tiere Bewussthaber?, di H. Schmitz.
Fichte und die Metaphysik des Unendlichen, di W. Pannenberg: l’articolo segue le
tappe dello sviluppo della filosofia della
religione di Fichte.
Kein Platz für phänomenale Qualitäten
und Leib- Umwelt-Interaktion?, di G. Pohlenz: l’analisi trascendentale e le tendenze
della scienza empirica.
Hegels Idee von Europa, di D. Innerarity.
Aesthetica und Anaesthetica, di B. Recki:
recensione di O. Marquard: Aesthetica und
Anaesthetica. Philosophische Überlegungen (Paderborn 1989)
Das Verschwinden des Originals, di H. J.
Gawoll: dopo aver ricostruito le vicende
relative alla attribuzione dello älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus,
Cinco curisidades desde la novela gotica,
di J. Seoane.
De la filosofia a la literatura: el caso de
Richard Rorty, di C. Thiebaut: il neopragmatismo di Rorty occupa un posto centrale
all’interno delle discussioni relative al rapporto tra filosofia analitica e tradizione
continentale. Attraverso questa sintesi egli
realizza un legame forte tra filosofia e
letteratura.
ZEITSCHRIFT FÜR PHILOSOPHISCHE
FORSCHUNG
Vol, 46, n. 3, luglio-settembre 1992
Vittorio Klostermann Verlag, Frankfurt
a/M
Borges y la filosofia del tiempo, di M.
Schultz.
Tema della rivista: “Filosofia e letteratura”.
Elegy and identity, di S. Campbell: l’articolo sviluppa, a partire dal Rinascimento,
l’analisi di esempi storici circa la rottura
dell’identità dovuta alla morte .
El autor, la ficcion, la verdad, di A. Campillo: a partire dalle considerazioni di Derrida e Foucault sul rapporto tra autore, vita
ed opera, l’articolo propone un’analisi storica della categoria di autore, allo scopo di
ripensare la relazione tra filosofia e letteratura occidentale.
“Back from Moscow, in the URSS”, di J.
Derrida.
Idylle und Müssiggang in der Literatur des
18. Jahrhunderts, di R. Münster.
La letencia o la ficcion de verdad. Sobre el
método del discurso de M. Blanchot, di A.
Poca: attraverso l’esperienza di Blanchot
della scrittura, l’articolo analizza il rapporto tra soggetto e linguaggio; importantii
riferimenti a Bataille, Klossowski, Deleuze, Foucault, Derrida.
70
settembre 1992, PUF, Paris). Tema della
rivista: “La teoria computazionale dello
spirito; filosofia e scinze cognitive”. Segnaliano, tra gli altri articoli, un intervento
di H. Putnam: La nature des états mentaux.
FILOSOFIA E TEOLOGIA (Vol. VI, n. 3,
settembre - dicembre 1992) affronta il tema:
“Religione e Sacro tra moderno e postmoderno”, con interventi su Hegel (Religione
e filosofia in Hegel, di S. Rostagno), su
Lukács (Menschwerdung e Gottesreich nel
giovane Lukács, di L. La Porta), su Adorno
(Filosofia e modernità in Th. Adorno, di I.
Poma), su Habermas (Religione e teoria
critica. Il potenziale critico della religione
di fronte al progetto di Habermas, di J. M.
Mardones).
AESTHETICA (n. 36, dicembre 1992, Cen-
tro Internazionale Studi di Estetica, Palermo) presenta un volume monografico curato da A. Van Sevenant dal titolo: La
decostruzione e Derrida.
IDEE (Anno VII, n. 21, settembre-dicem-
bre 1992, Milella, Lecce) presenta, tra gli
altri, un intervento di R. Convertini su
L’idea di tempo tra filosofia e psichiatria.
REVUE DE METAPHYSIQUE ET DE
MORALE (A. Colin, Paris) ha presentato,
nell’annata 1992, i seguenti numeri monografici: “Gli Universali” (1/1992); “Neuroscienze e filosofia; il problema della coscienza” (2/1992); “Dossografia antica”
(3/1992); “Cassirer” (4/1992).
NUOVA CIVILTA DELLE MACCHINE
(Anno XI, n. 1, 1993, Nuova Eri, Roma)
presenta le riflessione di alcuni autori sul
tema: “La felicità”. L’ambiguità del concetto di felicità è tale da stimolare fortemente la riflessione filosofica, ma anche
quella psicologica, scientifica e storica.
Ecco perché, accanto ad interventi più strettamente filosofici, troviamo alcuni articoli
NOVITÀ IN LIBRERIA
NOVITÀ IN LIBRERIA
AA.VV.
Medieval philosophy
and theology: vol. 2
University of Notre Dame Press,
gennaio 1993
pp. 208, £ 13,50
Secondo volume di una rivista annuale dedicata a studi originali della filosofia e della teologia medievale. Incoraggiando un ampio raggio di argomenti e approcci, essa cerca di stimolare la conversazione e lo scambio
attraverso i moderni confini delle discipline e fra metodologie di ricerca e
tradizioni opposte.
AA.VV.
Physikalisierung des Lebens.
Interpretationen und Quellen
zur wissenschaftskritischen
Rekonstruktion
del “Lebens” - Begriff
Vlg.f. Interkult. Komm.
febbraio 1993
pp. 255, DM 32
AA.VV
Immaginari a confronto
a cura di Carlo Chiarenza
e William L. Vance
Marsilio, aprile 1993
pp.212, L. 32.000
I saggi di questo volume, scritti da
studiosi americani e italiani, si propongono di far luce sui meccanismi, più o meno nascosti, che controllano l’immaginario individuale e collettivo.
AA.VV.
Die Europaidee
im deutschen Idealismus
und in der deutschen Romantik
Bad Homburg febbraio 1993
pp. 138, DM 28
AA.VV.
Studi di filosofia trascendentale
a cura di V. Melchiorre
Vita e Pensiero, marzo 1993
pp.348, L. 52.000
Il testo analizza il tema dell’identità e
della differenza, che è tra i più sollecitanti del pensiero contemporaneo e
che per molti aspetti costituisce un
ritorno all’antico problema dell’analogia. Il volume raccoglie contributi
discussi all’interno di un seminario
promosso dal Dipartimento di Filosofia e dal Centro di Metafisica dell’Università Cattolica.
Ankersmith, F. R.
Mooij, J.J. A. (a cura di)
Knowledge and language:
Vol. III. Metaphor and knowledge
Kluwer Academic Publishers
gennaio 1993
pp.216, £ 64
Terzo volume di un’opera in tre volumi, il testo sostiene che è essenziale
considerare la metafora quando si
indaga su come si arrivi alla verità
nella scienza e nel rapporto quotidiano con la realtà. Il ruolo della metafora viene esaminato in campi che vanno dalla poesia e l’arte alla medicina
e alla teoria politica.
AA.VV.
La figura di Cristo
nella filosofia contemporanea
Ed. Paoline, marzo 1993
pp. 598, L. 35.000
Prefazione di B. Forte. In una sorta di
colloquio con Cristo vengono rivisitati i grandi filosofi degli ultimi due
secoli: Kant, Schleiermacher, Hegel,
Kierkgaard, Feuerbach, Marx, Engels ecc...
Agazzi, Evandro (a cura di)
Bioetica e persona
Franco Angeli, aprile 1993
pp.512, L. 50.000
Nel volume viene messa alla prova
l’ipotesi che l’impasse della discussione bioetica risalga essenzialmente
alla forte disparità delle teorie etiche,
che stanno alla base delle prese di
posizione bio-etiche, e che sembrano
inconciliabili in forza della forte divaricazione dei rispettivi principi. I
saggi qui raccolti lumeggiano la complessità di questa tematica e indicano
di quali ulteriori chiarimenti ci sarebbe bisogno per riuscire a utilizzare
fecondamente questo concetto.
Annas, Julia (a cura di)
Oxford Studies
in Ancient Philosophy
Volume 10: 1992
Clarendon Press, febbraio 1993
pp.304, £ 35
Decima pubblicazione annuale
(1992) della serie di saggi sulla filosofia antica, questo volume tratta
un’ampia scelta di argomenti di filosofia antica passando in rassegna i
testi principali.
Antonio Rosmini
Introduction à la philosophie
A cura di J.-M. Trigeaud
Bière, febbraio 1993
pp.340, F 145
Antonio Rosmini (1797-1855) nell’Origine del pensiero, pubblicata nel
1830, pone i fondamenti della sua
filosofia: unire l’atto metafisico di
pensare all’atto corporeo di sentire.
Albert. H. et al. (a cura di)
Mensch und Gesellschaft
aus der Sicht
des kritischen Rationalismus
Editions Rodopi, febbraio 1993
pp.260, Dfl 40
Esposizione delle posizioni di base
della teoria critica della società della
Scuola di Francoforte. Il problema
anima-corpo e la concezione della
società aperta. Dalla società totalitaria a quella aperta negli ex paesi socialisti. Metodo. Problemi della scienza della società.
Aschheim, Steven E.
The Nietzsche legacy
in Germany, 1890-1990
University of California
febbraio 1993
pp.368, $ 48
Aschheim propone una cronaca magistrale della presenza del filosofo
nella vita e nella politica tedesche,
dalla fine del secolo scorso fino alla
recente riunificazione.
Allouch, Jean
Louis Althusser, récit divan:
lettre ouvert à Clément Rosset
à propos de ses notes
sur Louis Althusser
EPEL, febbraio 1993
pp.58, F 65
Una risposta all’interpretazione del
caso Althusser proposta dal filosofo
Clément Rosset. Come collocare Althusser senza lasciarsi prendere dalla
sua impostura? L’assassionio di sua
moglie ne fa parte? Secondo l’autore
il dibattito attuale prolunga il non
luogo a procedere pronunciato in seguito alla perizia psichiatrica.
Ayer, A. J. et al. (a cura di)
A dictionary
of philosophical quotations
Blackwell Publ.,febbraio 1993
pp.352, £ 25
Nel corso della storia, i filosofi sono
venuti a contatto con la questione di
come si debba vivere e perché, con
problemi politici, scientifici, lingui-
71
stici. Il presente dizionario esamina
da vicino la tradizione filosofica mostrando i pensieri, i paradossi, gli errori e le falle che accompagnano la
speculazione umana.
Azzaro, Salvatore
Politica e storia in Fichte
Jaca Book, marzo 1993
pp.168, L. 28.000
Il pensiero politico in Fichte è inscindibilmente legato alla sua interpretazione della Rivoluzione francese. La
storia della ricezione critica del pensiero politico fichtiano parte proprio
dalla Francia ed esamina la critica
tedesca e quella italiana.
Baranoff-Chestov, Nathalie
Vie de Léon Chestov
2: Les dernières années
La Différence, gennaio 1993
pp.288, F 120
In questa seconda parte in cui si raccontano gli ultimi anni di Chestov
(1930-1938) ritroviamo i momenti
più fecondi (e anche quelli più dolorosi) della vita del pensatore.
Barr, James
Biblical faith
and natural theology:
The Gifford lectures for 1991
Clarendon, gennaio 1993
pp.256, £ 30
Il libro esamina la questione se si
conosca Dio solo in quanto esseri
umani o se sia necessaria l’assistenza della Bibbia o di Dio. La
presente raccolta di saggi esamina
quanto dice in proposito la stessa
Bibbia e ne considera l’impatto
sulle idee religiose.
Barry, Robert
A theory of almost everything:
A religious and scientific quest
for ultimate answers
Oneworld Publ., febbraio 1993
pp.224, £ 9,95
In cerca di una “teoria del tutto”
questo libro esplora cose complesse quali la teoria psicologica, la
fisica quantistica e la teoria della
relatività di Einstein, proponendo
una teoria olistica dell’io che mette in collegamente idee di realtà
scientifiche e religiose.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Baumgartner, H. M.
Jacobs, W. G. (a cura di)
Philosophie der Subjektivität?
Zur Bestimmungdes
neuzeitlichen Philosophierens.
Akten des Kongresses
der Internationalen SchellingGesellschaft 1989
Frommann-Holzboog
febbraio 1993
pp.606, DM 99
Benso, Silvia
Pensare dopo Auschwitz
Ed. Scientifiche, marzo 1993
pp.262, L. 34.000
L’opera, strutturata in due parti - filosofica la prima, teologica la seconda
- muove dall’affermazione di Adorno
secondo cui «è necessario pensare in
modo che Auschwitz non si ripeta».
Memore di tale imperativo, l’autore
va dunque alla ricerca di categorie di
pensiero atte a tener conto dell’interruzione irriconciliabile e irredimibile
che Auschwitz presenta nell’orizzonte
storico.
Berkeley, George
Oeuvres
3:Alciphron ou le Petit philosophe
A cura di G. Brykman
PUF, gennaio 1993
pp.424, F 280
Nel 1732 il filosofo irlandese proponeva un’apologia diretta della religione cristiana, appoggiata dalla critica del libero pensiero: sette dialoghi
in cui l’immaterialismo non viene
trattato affatto e in cui il celebre principio “Esistere, cioè essere percepiti”
e l’inesistenza della materia non rappresentano che dei mezzi obliqui per
la difesa del cristianesimo.
Berlinger, R. - Schrader, W.
(a cura di)
Gnosis und Philosophie.
Miscellanea
Prefazione di A. Böhlig
Editions Rodopi, febbraio 1993
pp.200, Dfl 75
Berry, Phillipa
Wernick, Andrew (a cura di)
Shadow or spirit:
Post-modernism and religion
Routledge, gennaio 1993
pp.288, £ 12,99
Il volume affronta il moderno miscuglio di teoria, cultura e politica, che
ha portato al nuovo incontro fra umanesimo e dibattiti sulla religione. Gli
autori sfidano la premessa invalsa
che il pensiero contemporaneo occidentale sia legato al nichilismo.
Beyer, Uwe
Christus und Dyonysos.
Ihre widerstreidende Bedeutung
im Denken Hölderlins
und Nietzsches
Lit, febbraio 1993
pp.500, DM 78
Bezzola, Tobia
Die Rhetorik bei Kant,
Fichte und Hegel. Ein Beitrag
zur Philosophiegeschichte
der Rhetorik
Niemeyer, febbraio 1993
pp.172, DM 68
Bocchi, Gianluca
Ceruti, Mario
Origini di storie
Feltrinelli, marzo 1993
pp.240, L. 32.000
Il volume è un’introduzione ai nuovi
saperi (scientifici, filosofici, spirituali) che si stanno elaborando per affrontare le sfide che caratterizzano
questa fine di secolo: Origini di storie
inaugura, infatti, una scrittura inconsueta per la filosofia e la divulgazione
scientifica: uno stile accessibile a un
pubblico più ampio degli addetti ai
lavori, che però non semplifica i problemi affrontati.
Bienenstock, Myriam
Politique du jeune Hegel:
Iéna, 1801-1806
PUF, gennaio 1993
pp.288, F 196
In contrapposizione alle tre linee interpretative tradizionali dell’hegelismo (linguaggio, lavoro, comunicazione) questo saggio cerca di riappropriarsi del senso del progetto filosofico totale di Hegel, esaminando il modo
in cui si sviluppa il suo sistema in un
momento cruciale della sua formazione.
Böhler, D. - Neuberth, R.
(a cura di)
Herausforderung
und Zukunftverantwortung.
Hans Jonas zu Ehren
Lit Verlag, febbraio 1993
pp.142, DM 24,80
Bigré, Gérard
Métier philosophe
Hésiode, gennaio 1993
pp.320, F 95
Ecco un libello in forma dialogica
sulla crisi delle idee e sulla crisi del
pensiero attuale che cerca al contempo di dimostrare la necessita di una
riabilitazione della filosofia.
Boituzat, François
Un droit de mentir?
Constant ou Kant?
PUF, febbraio 1993
pp.128, F 48
E’lecito mentire per salvare la vita di
un amico? Lo studio di questo problema casuistico consente a B. Constant
di denunciare quanto vi è di arbitrario, in morale, nella proibizione incondizionata della menzogna. Kant
ritorna sulla questione mettendo in
luce l’inutilità della polemica avviata
dal suo contraddittore.
Blackburn, Pierre
Connaissance et argumentation
Renouveau pédagogique
gennaio 1993
pp.488, F 149
Il testo espone le nozioni fondamentali delle più recenti teorie filosofiche
sulla natura della conoscenza. Per gli
studiosi di scienze umane o per le
classi preparatorie alle scuole commerciali.
Bottiroli, Giovanni
Retorica.
L’intelligenza figurale nell’arte
e nella filosofia
Bollati Boringhieri, aprile 1993
pp.320, L. 35.000
Il libro muove dalla situazione della
retorica nel mondo attuale caratterizzato da una retoricità diffusa. In un
confronto serrato con i maestri della
linguistica e della semiotica, da Jakobson a Greimas, e con le correnti di
pensiero che oggi riflettono sul linguaggio, Bottiroli rimette in questione la natura della retorica, le assegna
una nuova identità e un compito non
settoriale.
Bloch, Olivier
Spinoza au XXe siècle
PUF, febbraio 1993
pp.608, F 400
Se lo Spinoza del XVIII secolo era il
prototipo del razionalista ateo, se quello del XIX si presentava sotto l’immagine dominante di un filosofo mistico, nel XX abbiamo visto apparire
quella di uno Spinoza rivoluzionario,
padrone della sua vita, mediatore e
agente di trasmutazioni per tutti i sistemi di pensiero.
Botto, Evandro
Etica sociale e filosofia
della politica in Rosmini
Vita e Pensiero, marzo 1993
pp.296, L. 44.000
Più che un territorio a sé stante, la
filosofia della società e della politica
si presenta in Rosmini come uno dei
crocevia dell’intera filosofia della
pratica, come il punto in cui si incontrano filosofia della morale e filosofia
del diritto, filosofia della storia e filosofia della religione, in forza del loro
comune riferimento ad una ben definita “ontologia della persona”.
Blosser, Philip
Schimomisse, Eiichi
Embree,Lester - Kojima, Hiroshi
(a cura di)
Japanese
and western phenomenology
Kluwer Academic Publishers
febbraio 1993
pp.468, £ 89,50
Sviluppato dal primo grande incontro di fenomenologi giapponesi e occidentali, tenutosi a Sanda
City. Prevalentemente filosofico,
tratta il pensiero di Husserl, ma
mostra anche i collegamenti con le
scienze umane e figure come Dilthey e Fink, nonché con lo Zen e
con la tradizione giapponese.
Brandl, J. et al. (a cura di)
Metamind, knowledge,
and coherence.
Essays on the philosophy
of Keith Lehrer
Editions Rodopi, febbraio 1993
pp.232, Dfl 35
72
Brentano, Franz - David, Pascal
(a cura di)
De la diversité des acceptions
de l’être d’après Aristote
Vrin, febbraio 1993
pp.208, F 183
Questa leggendaria dissertazione di
Franz Brentano, pubblicata a Friburgo nel 1862, prende come filo conduttore della propria interpretazione
della metafisica il seguente leit-motiv: “l’essere è plurale”.
Bröckling, Ulrich
Katholische Intellektuelle
inder Wiemarer Republik.
Zeitkritik und Gesellschaftstheorie
bei W. Dirks, R. Guardini, C.
Schmitt, E. Michel und H. Mertens
W. Fink, febbraio 1993
pp.144, DM 38
Questi intellettuali cercano di sfuggire alle aporie delle salde credenze
sulla rivelazione e del pensiero secolare dei moderni, attualizzando diversi frammenti del cosmo cattolico
in frantumi.
Brun, Jean
La Philosophie de Pascal
PUF, gennaio 1993
pp.128, F 38
Assai poco amato dai filosofi francesi, Pascal ebbe l’audacia, secondo
loro, di chiedere il conto alla ragione.
Critico demistificatore, in realtà Pascal denunciò le pretese assolutistiche dei relativismi, le fughe nei sogni
e la ricerca di un rifugio nel consenso,
tanto acclamato al giorno d’oggi.
Brzezinski, J. - Nowak, L.
(a cura di)
Idealization III:
Approximation and truth
Editions Rodopi, febbraio 1993
pp.288, Dfl 135
Indice: Introduzione, approssimazione e verità.
Cambi, Paolo (a cura di)
Tra scienza e storia.
Percorsi del neostoricismo:
Eugenio Garin, Paolo Rossi
Sergio Moravia
Unicopli, marzo 1993
pp.167, L. 27.000
L’avventura del neostoricismo a partire dagli anni Cinquanta, analizzando il contributo di Garin e della sua
“scuola” alla definizione dell’immagine della filosofia come intersezione
critica, aperta, problematica tra sapere e società, ragione e storia.
Canguilhem, Georges
La connaissance de la vie
Vrin, febbraio 1993
pp.198, F 60
G. Canguilhem si interroga sullo straordinario opportunismo del rapporto
degli esseri viventi con il proprio
ambiente, sull’originalità di questa
presenza in quel mondo che chiamiamo vita.
Caporali, Riccardo
Heroes Gentium.
Sapere e politica in Vico
Il Mulino, marzo 1993
pp.304, L. 34.000
NOVITÀ IN LIBRERIA
Carruthers, Peter
The animals issue.
Moral theory in practice
Cambridge UP, febbraio 1993
£9
Carruthers esplora diverse teorie
morali e conclude che il contrattualismo (nella tradizione di Kant e di
Rawls) è quello che offre la cornice
più accettabile. In una prospettiva di
questo tipo gli animali restano privi
di un diretto significato morale. Ciò
tuttavia non vuol dire che non vi siano
costrizioni morali nel trattare con essi.
Cicéron
Tusculanes- 3: Le Bonheur:
IVe et Ve Tusculanes
Ariéa, febbraio 1993
pp.157, F 95
I presenti libri ricapitolano in un certo
senso il suo insegnamento, disegnando l’immagine di un uomo che trova
nel compimento dei suoi doveri la
tranquillità interiore.
Clark, Austen
Sensory qualities
Clarendon, febbraio 1993
pp.264, £ 27,50
Parecchi filosofi dubitano che si possa fornire una spiegazione convincente delle capacità sensoriali, del
modo in cui le cose appaiono, impressionano o sembrano a un soggetto
percipiente. Clark affronta questo
problema apparentemente intrattabile e suggerisce che una soluzione in
effetti sia possibile.
Clergue, André
Mon père je m’arcuse
Lacour, gennaio 1993
pp.379, F 145
Herbert Marcuse (1898-1979), filosofo americano d’origine tedesca, è
uno dei rappresentanti del freudmarxismo. A. Clergue dedica un esame approfondito a Eros e civilizzazione.
Cometti, Jean-Pierre
Lire Rorty: Le pragmatisme
et ses conséquences
Eclat, gennaio 1993
pp.304, F 150
Dopo i primi saggi dedicati al pragmatismo, all’inizio degli anni ’60
Richard Rorty è diventato uno dei
principali attori di un’evoluzione che
conduce al giorno d’oggi un certo
numero di filosofi analitici a riesaminare i presupposti della tradizione da
loro rappresentata.
Corey, M. A.
God and the new cosmology:
The anthropic design argument
Rowman & Littlefield,
febbraio 1993
pp.352, £ 19,95
Basato sui fatti naturali fisici e cosmologici recentemente scoperti, il
libro si propone di rivoluzionare la
nostra concezione dei rapporti fra
scienza e religione, usando prove
scientifiche per dimostrare l’esistenza di Dio al di là di ogni ragionevole
dubbio.
ca “straniera”. Il saggio abbozza
una storia della percezione che può
servire come strumento.
Corvi, Roberta
Invito al pensiero di Popper
Mursia, marzo 1993
pp.384, L. 15.000
Un’invito all’esame critico del pensiero di Popper. Una cronologia parallela tra la biografia del pensatore e
i fatti della storia politica, filosofica e
culturale; il profilo di Popper e la sua
personalità intellettuale. Analisi delle opere, dei temi trattati e gli orientamenti della critica.
Dagognet, François
Etienne-Jules Marey:
A passion for the trace
Zone Books, febbraio 1993
pp.208, £ 24,25
Etienne-Jules Marey elaborò tecniche fotografiche per lo studio della
locomozione animale che influenzarono l’invenzione della cinematografia. In questo resoconto, focalizzato
sul significato del suo lavoro, e cioè
di riuscire a catturare la traccia di ciò
che normalmente è il mondo invisibile del movimento, emerge la storia di
Marey.
Couloubaritsis, Lambros
Aux origins de la philosophie
européenne: de la pensée
archaïque au neoplatonisme
De Boeck-Wesmael
febbraio 1993
pp.673, F 230
Il saggio studia le principali correnti filosofiche che sono all’origine della filosofia occidentale, dal
VII secolo prima della nostra era
all’anno 529, data simbolica della
chiusura della scuola neoplatonica
di Atene a opera dell’imperatore
bizantino Giustiniano.
Daly, Herman E.
Townsend, Kenneth N.
Valuing the earth:
Economics, ecology, ethics
The MIT Press, gennaio 1993
pp.400, £ 16,95
Raccolta di saggi che si propone di
ampliare il pensiero economico inserendo l’economia nel suo proprio
contesto ecologico ed etico. Vi si
dimostra che, contrariamente alle attuali preoccupazioni macro-economiche, non si può sostenere la crescita
continua su un pianeta dalle risorse
limitate e che ciò è moralmente sbagliato.
Cresci L.R. - Piccirilli, L.
L’Athenaion Politeia di Aristotele
Il Melangolo, marzo 1993
pp.176, L. 20.000
Cronin, Kieran
Rights and christian ethics
Cambridge University Press,
febbraio 1993
pp.346, £ 37,50
Kieran Cronin in questo libro si propone di dimostrare come una prospettiva cristiana possa rivelarsi un contributo fecondo per il linguaggio dei
diritti. A tale scopo egli esamina alcune delle difficoltà insite nell’uso di
questo linguaggio, attingendo da
esempi tratti dalla letteratura di filosofia morale e dalla giurisprudenza.
Dascal, M. - Gerhardus, D.
et al. (a cura di)
Sprachphilosophie /
Philosophy of language /
La philosophie du langage.
Ein internationales Handbuch
zeitgenössischer Forschung
vol. I
de Gruyter, febbraio 1993
pp.872, DM 680
Rassegna sullo stato della ricerca in
120 articoli, divisa in due volumi. I
volume: Ricognizione spazio-temporale, persone, posizioni. (II volume:
Controversie, concetti, aspetti filosofico-linguistici in altri campi)
Cropsey, Joseph - Strauss, Leo
Storia della filosofia politica
Vol. I
Il Melangolo, aprile 1993
pp.300, L. 35.000
Il volume, giunto negli Stati Uniti alla
quinta edizione nel giro di poco più di
vent’anni, è fra le più ampie e dettagliate rassegne del pensiero politico
occidentale. Questo primo volume
comprende, oltre i classici, anche storici come Tucidide, pensatori arabi
come Alfarabi, ebrei come Mosè
Maimonide, offrendo in questo modo
un panorama articolato, originale e
esaustivo del operiodo preso in considerazione.
Davies, Brian
An introduction
to the philosophy of religion
Oxford University Press
febbraio 1993
pp.270, £ 30
Questa edizione riveduta mette particolarmente in rilievo questioni che di
recente sono diventate filosoficamente controverse. Il libro fornisce un
esame critico delle questioni fondamentali della religione e dei modi in
cui sono state trattate dai grandi pensatori.
Czerwinsky, Peter
Gegenwärtigkeit.
Simultane Räume und zyklische
Zeiten im Mittelalter
W. Fink, febbraio 1993
pp.524, DM 180
Quando le forme di pensiero mutano storicamente in maniera così
decisiva che le testimonianze delle
altre culture ci sono accessibili solo
limitatamente, ogni ricerca su di
esse dovrebbe prima di tutto e costantemente riflettere la loro logi-
Davies, Brian
The thought of Thomas Aquinas
Clarendon, febbraio 1993
pp.408, £ 14,95
Introduzione a tutto il pensiero dell’Aquinate, che non fa alcuna divisione arbitraria fra le proprie idee filosofiche e quelle teologiche. Il testo mette
in relazione il pensiero dell’Aquinate
con autori successivi e precedenti allo
stesso Tommaso.
73
Del Noce, Augusto
Filosofi dell’esistenza
e della libertà
Giuffrè, marzo 1993
pp.676, L. 75.000
Saggi su Spir, Chestov, Lequier, Renouvier, Benda, Weil, Vidari, Faggi,
Martinetti, Rensi, Juvalta, Mazzantini, Castelli, Capograssi.
Della Porta, Giovan Battista
Della celeste fisionomia
a cura di L. Caruso
Belforte, marzo 1993
pp.164, L. 60.000
Edizione anastatica del testo in volgare del 1616. L’opera tenta di spezzare le basi stesse dell’astrologia, esaltando la “potenza visiva” dell’uomo.
Pur essendo venata da influenze e
tradizioni alchemiche, rivela una curiosità alle condizioni materiali e operative, preparandosi al barocco napoletano.
Derrida, Jacques
Dissemination
The Athlone, gennaio 1993
pp.400, £ 14,95
Il libro propone le opere più importanti e feconde: “La pharmacie de
Platon”, “La double seance” e “La
dissemination”, originali letture di
Mallarmé: “La dissemination” costituisce anche una rivalutazione della
logica del senso e della funzione della
scrittura nel dibattito occidentale.
Derrida, Jacques
Otobiographies
L’insegnamento di Nietzsche
e la politica del nome proprio
Il Poligrafo, marzo 1993
pp.96, L. 22.000
Questa conferenza fu tenuta da Derrida nel 1976 a Charlottesville, presso
l’Università della Virginia. L’occasione era data dal bicentenario della
Dichiarazione d’Indipendenza, ma da
questa procedeva con un commento
sull’incipit di Ecce Homo fino alle
conferenze nietzscheane Sull’avvenire delle nostre scuole, per chiudersi
sul problema della libertà accademica. Un testo dunque che può apparire
stravagante nella sua eterogeneità, ma
che è reso coerente da un filo conduttore: il rapporto tra nome e istituzione, che Derrida sintetizza nel problema della firma.
Descamps, Christian
Philosophie et anthropologie
Ed. du Centre Pompidou
gennaio 1993
pp.192, F 120
Una riflessione sulla nostra estraneità
e su quella altrui attraverso la filosofia e l’antropologia.
Descamps, Christian
Surréalisme et philosophie
Ed. du Centre Pompidou,
febbraio 1993
pp.160, F 120
Gli autori affrontano qui i rapporti dei
surrealisti con l’ambito filosofico.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Descartes, René
La morale: textes choisi
A cura di N. Grimaldi
Vrin, febbraio 1993
pp.186, F 45
Il volume raccoglie, in ordine tematico, tutti i testi in cui Descartes espone
la propria morale.
Destutt de Tracy, Antoine
Mémoire sur la faculté
de penser: 1798-1802
Fayard, febbraio 1993
F 200
Alla fine della Rivoluzione, Destutt
de Tracy, aristrocratico che ha rinunciato ai suoi titoli, vecchio costituente, legislatore, presenta all’istituto
nazionale diverse memorie di filosofia, ripubblicate qui per la prima volta, che espongono una storia critica
della conoscenza umana del linguaggio e una logica.
Dewey, John
Logique:
la théorie de l’enquête
PUF, febbraio 1993
pp.696, F 320
Apparsa nel 1938, la Logica di Dewey
è letteralmente una logica dell’inchiesta e della ricerca, di qualsiasi ricerca,
di quella formale come di quella epistemologica, di quella teorica e di
quella pratica. La logica di Dewey è
un’esperienza e una ricostruzione
continua dell’esperienza.
Dilworth, Cr. (a cura di)
Idealization IX:
Intelligibility in science
Editions Rodopi, febbraio 1993
pp.411, Dfl 180
Donnelly, Margaret E.
Reinterpreting the legacy
of William James
American Psychological Ass.
gennaio 1993
pp.400, 22,50
Il testo esamina il modo in cui i “Principi di psicologia” potrebbero essere
stati rivisti alla luce dell’ultimo approccio di James pluralistico, pragmatico alla filosofia e alla psicologia.
Psicologi, filosofi e storici mettono
alla prova questo e altri punti, concentrandosi sull’importanza attuale
dell’opera di James.
Dörrie, H. - Baltes, M.
Der Platonismus im 2. und 3.
Jahrhundert nach Christus.
Bausteine 73-100: Text,
Übersetzung, Kommentar
Frommann-Holzboog
febbraio 1993
pp.440, DM 567
Doyé, S. et al. (a cura di)
J. G. Fichte-Bibliographie
(1969-1991)
Editions Rodopi, febbraio 1993
pp.200, Dfl 70
Il volume porta avanti la prima bibliografia di Fichte, pubblicata da H.
M. Baumgartner e W. Jacobs (1968),
fino all’attuale stato della ricerca.
Ecole Française de Rome
(a cura di)
La Langue latine,
langue de philosophie:
actes/colloque organisé
par l’Ecole française de Rome,
Rome, 17-19 mai, 1990
Ecole française de Rome,
gennaio 1993
pp.346, F 360
Il latino è diventata la lingua del pensiero filosofico al termine di un’evoluzione spirituale continua, dopo la
messa a punto di una riflessione morale spontanea che si diversificherà e
si rafforzerà grazie al teatro. Un vocabolario latino si crea per esprimere i
concetti elaborati dagli autori di
espressione greca.
Fiorato, Pierfrancesco
Geschichtliche Ewigkeit.
Ursprung und Zeitlichkeit
in der Philosophie Hermann Cohens
Königshausen & Neumann,
febbraio 1993
pp.200, DM 48
Fleischer, Margot
Der “Sinn der Erde”
und die Entzauberung
des Übermenschen.
Eine Auseinandersetzung
mit Nietzsche
Wissenschaftl. Buchges.,
febbraio 1993
pp.370, DM 74
Che cosa può avere oggi Nietzsche da
dire a una filosofia che si occupa
dell’esistenziale? Soltanto nella contrapposizione critica si può trovare
una risposta e pervenire a una nuova
esperienza di pensiero dalla filosofia
di Nietzsche.
Ellwood, Robert S.
Introducing religion:
From inside and outside
Prentice Hall US, gennaio 1993
pp.256, £ 23,55
Questa panoramica introduttiva ai
saggi religiosi parte dai problemi, i
quesiti e le esperienze religiose quotidiane. Sottolineando il concetto di
religione come “scenario per il vero
io”, il libro fornisce una trattazione
equilibrata dell’espressione religiosa, attingendo esempi da molte religioni mondiali.
Floistad, Guttform (a cura di)
Contemporary philosophy:
A new survey:
Vol.7. Asian Philosophy
Kluwer Acedemic Publishers,
gennaio 1993
pp.416, £ 89
Settimo volume di una collana che
ripercorre la ricerca filosofica negli
ultimi decenni in vari paesi. Centrato
sulla filosofia asiatica, comprende
contributi di studiosi indiani, giapponesi e coreani e discute argomenti
chiave dell’induismo, del taoismo,
del buddismo, del confucianesimo e
dello sciamanesimo.
Elster, Jon
Ulisse e le sirene.
Indagine sulla razionalità
e l’irrazionalità
Il Mulino, marzo 1993
pp.294, L. 34.000
I temi affrontati nel volume sono: La
razionalità perfetta: vedere la vetta;
La razionalità imperfetta: Ulisse e le
Sirene; La razionalità difficile: alcuni
problemi irrisolti nella teoria del comportamento razionale; L’irrazionalità: contraddizioni della mente.
Flueler, Christoph
Rezeption und Interpretation
der Aristotelischen
”Politica” im späten Mittelalter
John Benjamins, febbraio 1993
pp.551, Dfl 200
Fenves, Peter (a cura di)
Raising the tone
of the philosophy:
Late essays by Immanuel Kant
transformative critique
by Jacques Derrida
The John Hopkins University
febbraio 1993
pp. 208, £ 24
Il libro raccoglie importanti saggi di
Kant, disponibili per la prima volta in
inglese, e presenta una traduzione
revisionata dell’opera di Derrida su
Kant, che esplora le connessioni fra
decostruzione e filosofia.
Foucault, Michel et al.
Techologien des Selbst
S. Fischer, febbraio 1993
pp.192, DM 34
«Nel lavoro come nella vita, la cosa
più importante è diventare qualcosa
che non si era all’inizio». (Michel
Foucault)
Frenken, Martin
Transzendentale Theorie
der Einheit. Studien
zur Kategorienlehre Kants
und Fichtes
Editions Rodopi, febbraio 1993
pp.200, Dfl 60
Secondo il motto dell’epoca moderna, per il quale bisogna confrontare le
sicurezze con la verità, si può fare
ricorso solo all’Io in quanto fondamento di tutte le cose. Soltanto Fichte
riesce a svelare l’Io come originaria e
completa unità del tutto. Ciò consente in primo luogo la deduzione di
categorie universali con rigore sistematico.
Ferguson, Frances
Solitude and the sublime.
Romanticism and the aesthetics
of individuation
Routledge, febbraio 1993
pp.256, £ 35
Ferguson delinea lo sviluppo di due
resoconti del sublime, l’empirismo di
Burke e il formalismo di Kant, sostenendo che essi sono stati definitivi
per i dibattiti successivi sul significato dell’estetica, compreso il criticismo decostruttivo.
74
Frye, Northrop
La duplice visione.
Linguaggio e significato
della religione
Marsilio, aprile 1993
pp.104, L. 22.000
In un continuo gioco di rimandi, Frye
affronta, da un lato, i grandi temi
della contemporaneità: guerra, capitalismo e comunismo, chiesa e Stato,
Hitler e Stalin, religione islamica e
fondamentalismo, spiritualità e corpo; e dall’altro lato, la fitta tessitura
mitica e metaforica della Bibbia soprattutto, ma anche di altre grandi
creazioni letterarie da Blake a Dante,
a Shakespeare, a Eliot.
Galgan, Gerlad J.
Interpreting the present:
Six philosophical essays
University Press of America,
febbraio 1993
pp.268, £ 21,50
I presenti saggi esplorano il rapporto
fra linguaggio metafisico ed epistemologico e la transizione fra il medievale Libro Cristiano della Natura
alla concezione moderna della soggettività. Galgan si propone di costruire un passato filosofico e di ricavarne il mondo moderno di “dèi senza dèi”.
Gallie, W. B.
Filosofie di pace e di guerra.
Kant, Clausewitz, Marx,
Engels, Tolstoj
Il Mulino, marzo 1993
pp.216, L. 20.000
La visione moderna della pace e della
guerra deriva da autori impegnati in
campi del sapere del tutto diversi, che
hanno però in comune il rifiuto dell’idea settecentesca di guerra come
meccanismo intrinseco alla società
occidentale.
Gamm. Hans J.
Standhalten im Dasein.
Friedrich Nietzsches
Botschaft für die Gewgenwart
List, febbraio 1993
pp.360, DM 48
Abbozzo di un’etica “per l’epoca dopo
Marx e Cristo”.
Gebauer, Richard
Letzte Begründung.
Eine Kritik der Diskursethik
von J. Habermas
W. Fink, febbraio 1993
pp.224, DM 58
Gethmann, C. F. - Kloepfer, M.
Handeln unter Risiko
im Umweltstaat
Springer, febbraio 1993
pp.115, DM 38
Il saggio si incentra sulla questione di quali mutamenti istituzionali
e di altro genere si debbano intraprendere perché lo stato possa occuparsi dei problemi di recente riconosciuti delle attività a rischio.
Il libro tratta l’argomento sul versante filosofico e giuridico.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Gigante, M.
Cinismo e epicureismo
Bibliopolis, marzo 1993
pp.128, L. 20.000
Gil, Thomas
Kritik der Geschichtsphilosophie.
L. von Rankes, J. Burkhardts
und H. Freyers Problematisierung
der klassischen
Geschichtsphilosophie
M und P, febbraio 1993
pp.273, DM 39,80
Goldberg, S. L.
Agents and lives:
Moral thinking in literature
Cambridge University,
febbraio 1993
pp.349, £ 40
Il libro propone un ripensamento della tradizionale idea “umanista” della
letteratura, esaminando il modo in
cui la letteratura è stata valutata per il
suo cosiddetto “apporto morale”.
L’autore spazia nella letteratura dal
Rinascimento, arrivando a includere
scrittori come George Eliot e Pope.
Goldman, Laurence
The culture of coincidence
Clarendon Press, febbraio 1993
pp.460, £ 45
Il presente saggio analizza il terreno fra legge, linguistica e antropologia proponendo un’etnografia
sulla grammatica e la pragmatica
dell’incidente, argomento raramente preso in esame.
Graham, George
Philosophy of mind:
An introduction
Blackwell Publishing, febbraio 1993
pp.224, £ 10,99
Introduzione alla filosofia della mente, che si occupa di argomenti quali
mente/corpo, identità personale, coscienza, intenzionalità e libera volontà. Il libro tratta anche questioni come
“l’esperienza dopo la morte”, la mente degli animali e di Dio, malattia
mentale e felicità.
Gran, Pierre
La culture par le grands
textes et leur commentaires
P. Grand, gennaio 1993
pp.109, F 85
L’autore cita e commenta alcuni
estratti di opere filosofiche classiche,
divise per temi: il caso e la vita, la
materia e lo spirito, la libertà, la morale. Per tutti i lettori.
Grice, Paul
Logica e conversione.
Saggi su intenzione, significato
e comunicazione
Il Mulino, marzo 1993
pp.384, L. 48.000
Alcuni fra i temi del pensiero griceano che si sono rivelati fondamentali per la filosofia analitica: la
distinzione tra significato naturale
e non naturale e quella tra significato convenzionale e non convenzionale di parole e frasi; la definizione del significato secondo le
“intenzioni” del parlante, ecc.
Grimaldi, Nicolas
Ontologie du temps:
l’attente et la rupture
PUF, febbraio 1993
pp.224, F 198
Dimostrando che la coscienza pura è
pura attesa, questo saggio descrive
come l’attesa strutturi trascendentalmente ogni rappresentazione che noi
possiamo avere del tempo.
Hodgson, David
The mind matters:
Consciousness and choice
in a quantum world
Clarendon, febbraio 1993
pp.496, 12,95
Questa monografia argomenta contro l’attuale visione meccanicistica
ortodossa del cervello e sviluppa l’idea
che “la mente conta”. L’autore spazia
fra argomenti quali la coscienza, il
ragionamento informale, i computer,
l’evoluzione, l’indeterminatezza
quantistica e la non località.
Haar, Michel
Nietzsche et la métaphysique
Gallimard, febbraio 1993
pp.294, F 72
Il volume riunisce più saggi su Nietzsche. L’autore, professore di filosofia, ha già pubblicato parecchi studi
su Heidegger.
Hoff, Benjamin
Il Tao di Winnie Pooh
Guanda, marzo 1993
pp.160, L. 26.000
Winnie Pooh e i suoi compagni colti
nel loro lato filosofico; un certo modo
di fare, un certo modo di essere affine
agli antichi principi cinesi del Tao.
Halder, H. - Müller, M.
Philosophisches Wörterbuch.
Erweiterte Neuesausagbe
Herder, febbraio 1993
DM 24,80
Hopkins, Burt C.
Intentionality in Husserl
and Heidegger:
The problem of the original method
and phenomen of phenomenology
Kluwer Academic Publishers
febbraio 1993
pp.320, £ 66
Una riconsiderazione della “controversia” fenomenologica fra Husserl e
Heidegger sullo status proprio del
fenomeno di intenzionalità Lo scopo
è di determinare se la critica ermeneutica di quest’ultimo sull’intenzionalità sia sensibile al resoconto riflessivo di Husserl del proprio “sachen
selbst”.
Haller, Rudolf
(e altri)
Il circolo di Vienna
Pratiche, marzo 1993
pp.140, L. 16.000
Quattro filosofi di generazioni diverse scrivono brevi riflessioni intorno
al circolo di Vienna, uno dei momenti
più significativi dell’elaborazione filosofica del Novecento.
Hammacher, Kl. - Schottky, R.
Schrader, W. H. (a cura di)
Transzendentalphilosophie
und Evolutionstheorie
Editions Rodopi, febbraio 1993
pp.270. Dfl 80
Hügli, A. - Lübcke, P.
(a cura di)
Philosophie im 20. Jahrhundert.
Band 2: Wissenschaftstheorie
und Analytische Philosophie
Rowohlt, febbraio 1993
DM 39,90
Nel libro vengono esposti i filoni principali della filosofia contemporanea
in Europa e negli USA e i filosofi più
autorevoli.
Hare, R. M.
Essays in ethical theory
Clarendon, febbraio 1993
pp.270, £ 11,95
Questa raccolta di saggi costituisce il
retroterra teoretico all’opera dell’autore sulla filosofia morale. Il suo tema
centrale è il paradosso per cui se i
giudizi morali fossero semplicemente affermazioni di fatto, non si potrebbe evitare il relativismo.
Husserl, Edmund
Méditations cartésiennes:
introduction à la phénomenologie
Vrin, febbraio 1993
pp.256, F 59
Pubblicato nel 1931, a seguito di una
serie di conferenze tenute alla Sorbona di Parigi, nel 1929 l’opera riprende
dal punto di partenza il “cogito ergo
sum” cartesiano e sviluppa il tema
della fenomenologia trascendentale.
Haslett, David
Ethics and economic systems
Clarendon Press, febbraio 1993
pp.224, £ 30
Confrontando i sistemi economici da
un punto di vista filosofico, questo
saggio indaga gli argomenti etici per
i differenti tipi di sistemi economici.
L’autore soppesa vantaggi e svantaggi dei sistemi presi in esame e discute
i possibili compromessi accettabili.
Husserl, Edmund
Lezioni sulla sintesi passiva
Guerini, aprile 1993
pp.329, L. 50.000
Husserl delinea una fenomenologia della percezione che affronta la
struttura dell’esperienza visiva,
soffermandosi sulle forme del dubbio, della negazione, della riacquisizione della certezza: la certezza
del mondo esterno.
Heil, John et al. (a cura di)
Mental causation
Clarendon, febbraio 1993
pp.352, £ 35
Raccolta di saggi scritti da insigni
filosofi che affrontano il problema
della causalità mentale partendo da
punti di vista ampiamente diversi.
75
Isoldi Jacobelli, Angela M.
Kant
Giunti, marzo 1993
pp.128, L. 10.000
Il complesso itinerario delle riflessioni kantiane attraverso l’esame delle
opere, le matrici culturali e l’influenza esercitata sulla ricerca filosofica
dell’800 e del ‘900 nei paesi europei
e d’oltreoceano.
Ivaldo, Marco
Libertà e ragione.
L’etica di Fichte
Mursia, marzo 1993
pp.344, L. 40.000
Alcuni elementi di contesto, in particolare la maturazione dei primi concetti etici negli scritti religiosi e politici giovanili: l’idea di filosofia trascendentale e i concetti fondamentali
che fungono da orizzonte metaetico
della dottrina morale; l’etica trascendentale elaborata da Fichte; la prospettiva dell’etica trascendentale superiore.
Jaspers, Karl
Volontà e destino
Il Melangolo, aprile 1993
pp.228, L. 25.000
L’opera ripercorre in quattro tappe (I.
Famiglia e infanzia, II. Anamnesi,
III. Diario 1939-1942, IV. Da Heidelberg a Basilea) le vicende pubbliche
e private di Jaspers uomo e studioso,
vicende che sono strettamente intrecciate agli avvenimenti della storia dei
primi settant’anni del nostro secolo.
Jordan, William
Ancient concepts of philosophy
Routledge, gennaio 1993
pp.224, £ 10,99
Nel corso del libro l’opera degli antichi viene inserita nel contesto del
pensiero più recente sulla natura e il
valore della filosofia. Il saggio dimostra che abbiamo molto da imparare
dalle idee dei filosofi antichi sulla
vita di un filosofo.
Kamlah, A. et al. (a cura di)
Hans Reichenbach
und die Berliner Gruppe
Vieweg, febbraio 1993
pp.350, DM 90
Per il 100º anniversario della nascita
di Hans Reichenbach nel 1991 si è
tenuto ad Amburgo un Convegno internazionale, il cui tema centrale era
la filosofia dell’empirismo logico.
Kanitscheider, Bernulf
Von der mechanistischen Welt
zum kreativen Universum.
Zu einem neuen philosophischen
Verständnis der Natur
Wissenschaftl. Buchges.
febbraio 1993
pp.272, DM 49
Il libro si propone di promuovere
presso una cerchia allargata di lettori,
grazie alla mediazione di una conoscenza scientifico-naturale e di una
riflessione filosofico-naturale, la comprensione di un mondo che diventa
sempre più complesso.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Kaulbach, Ernest N.
Imaginative prophecy
in the B-text of Piers Plowman
D. S. Brewer, febbraio 1993
pp.192, £ 29,50
Un’esplorazione della teoria psicologica araba (in particolare di Avicenna) sottesa al “Piers Plowman” che
illumina i rapporti fra agenti e altre
figure apparentemente non psicologiche. Il libro descrive anche il contesto in cui la psicologia araba raggiunse un poeta inglese del XIV secolo.
Keal, Paul (a cura di)
Ethics and foreign policy
Allen & Unwin (UCL Press),
febbraio 1993
pp.260, £ 11,95
Pensato per mettere in relazione le
questioni etiche con gli affari internazionali, il libro si concentra sulle
questioni morali sollevate dalla conduzione della politica estera australiana.
Kenny, Anthony
Aquinas on mind
Routledge, gennaio 1993
pp.192, £ 30
Il testo discute parti della teoria dell’Aquinate valide ancora oggi. Il libro si concentra su una attenta lettura della sezioni della “Summa Theologiae” dedicate all’intelletto e alla
volontà umana e ai rapporti fra anima e corpo.
Kervégan, Jean-François
Hegel, Carl Schmitt:
le politique entre spéculation
et positivité
PUF, gennaio 1993
pp.35, F 272
Il testo propone un confronto fra il
sistema hegeliano e il pensiero di
Carl Schmitt (1888-1985), facendo
come se Schmitt avesse tentato di
ricostruire un hegelismo senza dialettica e senza ragione speculativa.
Ketelhodt, Friederike von
Verantwortung für Natur
und Nachkommen
Centaurus-Vlg.-Ges.
febbraio 1993
pp.214, DM 48
Knuuttila, Simo
Modalities in medieval philosophy
Routledge, febbraio 1993
pp.256, £ 35
I saggi sulle nozioni modali hanno
sempre avuto un ruolo importante
nell’analisi filosofica. La storia di
questi concetti è la storia di una varietà di premesse che hanno dato forma
a una parte del discorso razionale.
Kraut, Richard (a cura di)
The Cambridge companion to Plato
Cambridge University gennaio 1993
pp. 596, $ 12,95
Il presente volume contiene dodici
nuovi saggi che trattano delle idee
di Platone sul sapere, sulla realtà,
la matematica, la politica, l’etica,
l’amore, la poesia e la religione. Vi
sono inoltre analisi dello sfondo
intellettuale e sociale del suo pen-
siero, dello sviluppo della sua filosofia e del suo stile.
cana e improntano le sue istituzioni
politiche centrali.
Kremer-Marietti, Angèle
Nietzsche et la rhétorique
PUF, gennaio 1993
pp.272, F 210
Il libro offre una visione sistematica
del rapporto fra Nietzsche e la retorica, mentre la sua filosofia emerge
come una grande impresa ermeneutica, nella quale si annegano il gioco e
il simbolo, il segno e l’immagine.
Lachelier, Jules
Du fondement de l’induction:
et autres textes
Fayard, febbraio 1993
F 160
Lachelier, della Scuola Normale Superiore, attraverso i suoi corsi alla
Normale, con il modo con cui ha
svolto i propri compiti di ispettore
generale delle lettere e della filosofia,
con le sue pubblicazioni, ha contribuito a restaurare gli studi di filosofia
nell’università francese nel primo terzo del XIX secolo.
Krieger, Martin
Geist, Welt und Gott
bei Christian August Crusius.
Erkenntnistheoretischpsychologische, kosmologische
und religionsphilosophische
Perspektiven im Kontrast
zum Wolffschen System
Königshausen & Neumann,
febbraio 1993
pp.548, DM 98
Il saggio esamina a fondo l’originalità delle teorie sul mondo di Crusius
elaborate a delimitazione della metafisica di Wolff, e la conoscenza divina, mettendone in luce il significato
per lo sviluppo della filosofia di Kant.
Lamport, F. J.
Justice and difference
in the works of Rousseau:
”Bienfaisance” and “Pudeur”
Cambridge University Press,
gennaio 1993
pp.276, £ 35
Secondo Rousseau, il miglior rapporto fra disuguali è quello di “beneficenza”, del dare, ricevere e ricambiare benefici. Il ibro affronta il problema, insito nei suoi scritti, se sia effettivamente possibile l’esistenza di un
rapporto giusto e generoso fra ineguali.
Kristeller, Paul
Greek philosophers
of the hellenic age
Columbia University
gennaio 1993
pp.128, £ 14,95
Centrato sulla storia della filosofia
antica fra il III e il I secolo a.C., il
saggio si basa su scritti primari greci
e latini dei filosofi in questione e su
frammenti, parafrasi e testimonianze
delle loro opere perdute.
Landsberg, Paul-Louis
Essai sur l’expérience de la mort:
Le problème moral du suicide
Seuil, febbraio 1993
pp.155, F 28
Meditazioni di questo filosofo personalista, allievo di E. Mounier, nato
nel 1901 e morto nel 1944, a proposito di questa prova e di questa tentazione umana.
Laurent, Alain
Histoire de l’individualisme
PUF, febbraio 1993
pp.128, F 38
L’individualismo riposa sulla convinzione che l’umanità sia composta
non da insiemi sociali (nazioni, classi...), ma da individui, da esseri viventi indivisibili e irriducibili gli uni
agli altri, gli unici che sentano, pensino e agiscano veramente.
Kuksewicz, Zd (a cura di)
Aegidius Aurelianiensis:
Quaestiones super De
generatione et corruptione
Grüner, febbraio 1993
pp.237, DM 130
Labarrière, Pierre-Jean
L’utopie logique
L’Harmattan, gennaio 1993
pp.143, F 80
Vivace nei periodi di mutamento culturale, la tradizione utopica si arricchisce oggi di aspetti complementari
che mettono in opera una logica dialettica, logica che sviluppa anche un
rapporto all’origine liberato dalla fissità delle rappresentazioni.
Lawson, Thomas E
McCauley, Robert N.
Rethinking religion:
Connecting cognition
and culture
Cambridge University
gennaio 1993
pp.240, £ 12,95
In questo libro gli autori cercano di
elaborare un approccio cognitivo alla
religione, fornendo una panoramica
critica di approcci già affermati allo
studio della religione e fanno una
perentoria dichiarazione in favore
della combinazione di interpretazioni e spiegazioni.
Lacey, J. Michael
Haakonssen, Knud (a cura di)
A culture of rights:
The Bill of Rights in philosophy,
politics and law
1791 and 1991
Cambridge University
gennaio 1993
pp.496, £ 14,95
Questi saggi, di autorevoli studiosi di
storia, filosofia, giurisprudenza e teorie politica, si propongono di fornire
nuove prospettive sui mutevoli e
mutati contenuti del pensiero e della
consapevolezza sui diritti che stanno
al centro della cultura politica ameri-
Le Blanc, Charles
Mathieu, Rémy
Mythe et philosophie à l’aube
de la Chine Impériale:
études sur le Hauinan Zi
Université de Montreal
De Boccard, gennaio 1993
76
pp.240, F 165
Testimonianza privilegiata della rinascita delle arti, delle lettere e delle
scienze che segna l’avvento della dinastia Han, lo Hauinan Zi (Libro del
maestro di Huainan) riflette le concezione sintetica dell’uomo, della società e della natura nel II secolo a.C.
a partire dai principi posti dai pensatori taoisti.
Le Diraison, Serge
Zernik, Eric
Le corps des philosophes
PUF, febbraio 1993
pp.272, F 144
Il testo si accosta al corpo attraverso
quattro problematiche che costituiscono altrettanti momenti importanti
della filosofia occidentale: Platone o
il Rieducatore del corpo; Descartes o
il corpo senz’ombra; Nietzsche o il
corpo a corpo; Merleau-Ponty o le
pieghe della carne, del corpo soggetto alla carne del mondo.
Lecourt, Dominique
Duroux, Françoise
Canguilhem, philosophe
et historien des sciences
Albin Michel, febbraio 1993
F 140
In questo volume sono raccolte le
comunicazioni del congresso organizzato a Parigi nel 1990 dal Collège
international de philosophie; l’opera
cerca di dare conto della complessità
del pensiero di Canguilhem passando
per tutte le sue dimensioni, scientifica, filosofica, etica e politica.
Leibniz, Gottfried W.
Saggi di teodicea
Rizzoli, aprile 1993
pp.520, L. 16.000
La Teodicea si presenta come l’opera
di una vita, il tentativo compiuto da
Leibniz di esporre in modo sistematico la parte più rilevante del suo pensiero, di mettere ordine in meditazioni la cui traccia risale agli anni della
gioventù.
Lenk, Hans
Philosophie und Interpretation.
Vorlesungen zur Entwicklung
konstruktionistischer
Interpretationsansätze
Suhrkamp, febbraio 1993
pp.288, DM 20
Lesch, W. - Schwind, G.
(a cura di)
Das Ende der alten
Gewißheiten. Theologische
Auseinandersetzung
mit der Postmoderne
Matthias-Grünewald-Vlg.,
febbraio 1993
pp.168, DM 36
Lesher, J. H. (a cura di)
Xenophanes of Colophon:
Fragments.
Univ. of Toronto, febbraio 1993
pp.380, $ 45
Senofane di Colofone fu un poeta
filosofo che visse in varie città del-
NOVITÀ IN LIBRERIA
l’antico mondo greco tra la fine del
VI e l’inizio del V secolo a.C.
Lévy, Carlos
Cicero academicus: recherche
sur les Académiques
et sur la philosophie cicéronienne
Ecole française de Rome
gennaio 1993
pp.697, F 590
Troppo spesso considerato un trattato
dedicato esclusivamente ai problemi
della conoscenza, le Accademiche
vengono da C. Lévy nuovamente poste nella doppia prospettiva della filosofia ellenistica e dell’itinerario personale di Cicerone, nello stesso tempo filosofo e uomo politico.
Lütterfelds, W. (a cura di)
Evolutionäre Ethik zwischen
Naturalismus und Idealismus.
Eine moderne Theorie
der Moral
Wissenschaftl. Buchges.
febbraio 1993
pp.252, DM 45
Il volume mostra come l’etica evoluzionistica, nell’ampio arco tensivo
delle posizioni filosofiche contrapposte, venga discussa in modo estremamente controverso. Il saggio vuole portare un contributo al dibattito
per rendere fruttuosa un’etica evoluzionistica e tenta una mediazione fra
le concezioni etiche idealistiche e
quelle naturalistiche.
Macherey, Pierre
Avec Spinoza:
études sur la doctrine
et l’histoire du spinozisme
PUF, gennaio 1993
pp.272, F 172
Una lettura di Spinoza “al presente”
che consente di riformulare problemi
attuali che noi ci poniamo qui e oggi,
attraverso il riesame di alcuni punti
dottrinali, dai paradossi della conoscenza immediata alla questione della fine della storia.
Mahajan, Gurpreet
Explanation and understanding
in the human sciences
OUP India, gennaio 1993
pp.136, £ 8,95
Il saggio affronta diverse questioni
importanti che hanno dominato il dibattito nella filosofia delle scienze
sociali e costituisce una trattazione
lucida delle faccende legate all’adeguatezza delle diverse forme di spiegazione.
Mahon, Michael
Houcault’s Nietzschean
genealogy. Truth, power
and the subject
State Univ. of New York
febbraio 1993
pp.288, $ 19
Il primo studio di ampio respiro sull’impatto degli scritti di Friedrich
Nietzsche sul pensiero di Michel Foucault.
Malebranche, Nicholas
Treatise on ethics (1684)
Kluwer Academic Publishers,
febbraio 1993
pp.240, £ 59
Nel suo “Trattato sull’etica” Malebranche elabora una scienza dettagliata, “sperimentale” dell’etica in
due parti: l’etica della virtù e l’etica del dovere. Vengono distinte sei
fonti di motivazione (dalla percezione alla passione) ed esplorati i
nostri doveri verso noi stessi, verso gli altri e verso Dio.
pp.412, Dfl 160
Il libro sostiene che a dispetto delle
tendenze antifunzionalistiche di Wittgenstein, espresse chiaramente nell’idea di filosofia come attività di
analisi linguistica, in realtà la sua
filosofia è costruita su un particolare
schema concettuale (oscillante).
Montaigne, Michel de
The complete essays
Penguin Books, febbraio 1993
pp.1344, £ 9,99
Nessuno nella civiltà occidentale ha
mai tentato di fare ciò che intraprese
Montaigne. Questi si muove di pensiero in pensiero, spesso allontanandosi da un’idea solo per ritornarvi
dopo esservisi imbattuto altrove. In
questi saggi, Montaigne espone il suo
progetto per una vita e una morte
saggia dell’uomo.
Marin, Louis
De pouvoirs de l’image: gloses
Seuil, febbraio 1993
pp.255, F 150
Testi che per la maggior parte appartengono all’età della rappresentazione, vengono qui letti e riscritti secondo il genere della glossa: letture, riscritture che li spostano altrove e li
aprono su un oggetto che va a ruba e
di cui tuttavia non cessano di parlare
e di scrivere: l’immagine.
Montaleone C., Sini C.
Remo Cantoni
filosofia a misura della vita
Guerini, marzo 1993
pp.224, L. 32.000
La figura di Remo Cantoni (19141978), allievo di Antonio Banfi e
esponente di spicco della “scuola banfiana”, docente di Filosofia morale,
ricordato attraverso i contributi di alcuni intellettuali.
Matteï, Jean-François
Pythagore et les pythagoriciens
PUF, febbraio 1993
pp.128, F 38
Il libro costituisce più un’esposizione
di un sistema coerente con una prospettiva illumminante che parte da
alcuni testi di Platone, che non una
semplice intuizione delle dottrine pitagoriche.
McBride, Joseph
Albert Camus:
Philosopher and litterateur
Macmillan Press, febbraio 1993
pp.288, £ 19,99
Il libro segna una riaffermazione della scrittura di Camus che indaga la
natura e le origini filosofiche del pensiero di Camus sull’”autenticità” e
“l’assurdo”, concetti espressi in “Il
mito di Sisifo” e “l’Outsider”, dimostrando che egli non fu solo una figura letteraria, ma anche un filosofo.
Moro, Tommaso
L’utopia
o la migliore forma di Repubblica
Laterza, marzo 1993
pp.200, L. 8.000
La prima costruzione immaginaria
di uno Stato ideale. Nell’Inghilterra del primo Cinquecento si delinea la struttura economica, sociale
e religiosa di uno Stato ideale, quello appunto esistente nella immaginaria isola di Utopia.
Morris, Charles W.
Symbolism and reality:
A study in the nature of mind
John Benjamins Publishing
Company, gennaio 1993
pp.128, £ 32
Il libro si propone di dimostrare che il
pensiero e la mente non sono entità,
né processi che comportano una sostanza psichica distinta dal resto della
realtà, ma li si può spiegare come il
funzionamento di parti dell’esperienza in quanto simboli di un organismo
di altre parti dell’esperienza.
Mele, Alfred R.
Irrationality:
An essay on “Akrasia”,
self-deception, and self-control
Oxford University
gennaio 1993
pp.194, £ 12,95
L’autore dimostra che certe forme di
irrazionalità (azione incontinente e
inganno di sé) rifiutate da molti filosofi perché logicamente o psicologicamente impossibili, sono in effetti
possibili.
Mourelatos, Alexander P. D.
(a cura di)
The pre-socratics:
A collection of critical essays
Princeton University,
gennaio 1993
pp.580, £ 13,95
La presente raccolta vuole introdurre
il lettore ad alcune delle scuole presocratiche più rispettate nel XX secolo.
Vi sono traduzioni di opere importanti di studiosi europei fino a questo
momento non disponibili in inglese,
oltre agli argomenti principali e agli
approcci attuali.
Merleau-Ponty, Maurice
Il visibile e l’invisibile
Bompiani, marzo 1993
pp.320, L. 34.000
La discussione delle impostazioni filosofiche di Kant, di Husserl e di
Sartre problematizza la contrapposizione fra il “visibile e l’invisibile” su
cui è fondata la metafisica occidentale: si profila una nuova considerazione dell’Essere, un diverso stile di
pensiero e di scrittura filosofica.
Milkov, Nikolay
Kaleidoscopic mind.
An essay in post-Wittgensteinian
philosophy
Editions Rodopi, febbraio 1993
Munk, Linda
The trivial sublime:
77
Theology and american poetics
Macmillan, gennaio 1993
pp.208, £ 35
Il saggio colloca il sublime americano in ciò che apparentemente è triviale: nei piccoli oggetti comuni, nelle
persone umili e di bassa estrazione,
insomma in ciò che il filosofo Stanley
Cavell chiamava l’”ordinarietà” del
linguaggio americano. Letture radicali di opere di Ralph Waldo Emerson e di Herman Melville.
Musgrave, Alan
Common sense, science
and scepticism: An historical
introduction to the theory
of knowledge
Cambridge University
febbraio 1993
pp.324, £ 12,95
Questa opera epistemologica costituisce una ricognizione introduttiva, di
base storica, del dibattito fra dogmatismo e scetticismo, schierandosi quasi sempre per lo scetticismo per dimostrare che il desiderio di sgominarlo spesso a portato a dottrine idealistiche o antirealistiche.
Neumann, Walter G.
Kritishe Theorie der Kultur heute.
Der Mensch zwischen revolutionärer
Selbsterhaltung und evolutionärer
Selbstverwicklichung
Die Blaue Eule, febbraio 1993
pp.140, DM 34
Newman, Andrew (a cura di)
The physical basis of predication
Cambridge UP, febbraio 1993
pp.256, £ 30
Il testo difende un’immagine realistica degli universali metafisici, dove
l’idea di universale viene caratterizzata prendendo in considerazione il
linguaggio e la logica, l’idea di possibilità, le gerarchie di universali e causalità. La tesi è che né il linguaggio né
la logica siano buone guide alla natura della realtà.
Nuttall, Jon
Moral questions:
An introduction to ethics
Polity Press, febbraio 1993
pp.240, £ 11,95
Il testo discute valori e giudizi ed
esamina l’educazione morale e religiosa e la punizione. Nuttall osserva
la moralità sessuale con capitoli dedicati alla pornografia, all’aborto, alla
ricerca fetale e ai bambini, e analizza
le questioni morali concernenti la
morte, i diritti degli animali e le teorie
morali.
O’Meara, Dominic J.
Plotinus: An introduction
to the “Enneads”
Clarendon, gennaio 1993
pp.152, £ 22,50
Introduzione all’opera di Plotino,
autore del III secolo a.C. Punti importanti della sua filosofia vengono discussi in relazione a testi scelti, si
tratteggia la sua grande influenza sulla tradizione intellettuale occidenta-
NOVITÀ IN LIBRERIA
le. Informazioni bibliografiche per
ulteriori letture.
comme pratique philosophique
PUF, febbraio 1993
za” la civiltà unidimensionale denunciata dalla filosofia.
O’Meara, John J.
Studies in Augustine
and Eriugena
Catholic University of America
febbraio 1993
pp.375, £ 53,95
Il libro si propone di rendere disponibile a studiosi e studenti lo sviluppo
del pensiero di uno dei maggiori studiosi di Agostino, John J. O’Meara. I
23 saggi puntano principalmente agli
interessi filosofici che contribuirono
alla conversione di Agostino al cristianesimo e all’uso di Agostino fatto
da John Scotus Eriugena.
Philp, Mark - Fitzpatrick,
Martin - St Clair, William
(a cura di)
The political and philosophical
writings of William Godwin
Pickering & Chatto
febbraio 1993
£ 395
L’opera contiene tutti i maggiori scritti
politici, filosofici ed educazionali di
William Godwin, uno dei più grandi
filosofi della sua epoca. Il suo lavoro
sul governo e sulla libertà individuale, “Political justice”, ne fece l’esponente di spicco del radicalismo inglese nell’ultima metà del XVIII secolo.
Reboul, Olivier
Garcia, Jean-François
Rhétorique de...
Université de Strasbourg
gennaio 1993
pp.116, F 90
Una raccolta di testi che mettono in
evidenza il ruolo dell’argomentazione nel campo della comunicazione.
Platon
Le Souci du bien
Arléa, febbraio 1993
pp.125, F 85
A cura di M. Gondicas
Due dei dialoghi socratici più noti,
Liside e Carmide, volti a definire il
bene, aspirazione primordiale dell’uomo, in piena luminosità di coscienza.
Reimmann, Jacob Fr.
Historia universalis atheismi
et atheorum falso
et merito suspectorum
Introduzione di W. Schröder
Frommann-Holzboog
febbraio 1993
pp.722, DM 490
Oliner, Pearl M.
Oliner, Samuel P.
Baron, Lawrence
Blum, Lawrence A.
Krebs, Dennis L.
Smolenske, M. Zuzanna (a cura di)
Embracing the other:
Philosophical, psychological,
and historical perspectives
on altruism
New York University
gennaio 1993
pp.456, £ 44,95
Il presente testo è nato primariamente
come risposta alla recente ricerca sulla
manifestazione di un altruismo della
vita reale, e cioè ai saggi sui salvatori
non ebrei di ebrei durante la Seconda
Guerra Mondiale. Il libro affronta questioni in diverse discipline, pur restando centrato su argomenti comuni.
Pagano, Maurizio
Hegel. La religione
e l’ermeneutica del concetto
Ed. Scientifiche, marzo 1993
pp.246, L 32.000
Si individua nel nesso tra i due momenti, logico e ermeneutico, il punto
focale del pensiero di Hegel; una ricostruzione del primo confronto della teologia cattolica con Hegel, condotta da un contemporaneo del filosofo, Franz Anton Staudenmaier.
Pallavidini, Renato
Hegel critico dell’autoritarismo
Arnaud, marzo 1993
pp.160, L. 25.000
Il confronto critico con la Rivoluzione francese alle origini dei modelli
teorici del giovane Hegel.
Panaccio, Claude
Le mots, le concepts
et les choses: la sémantique
de Guillaume d’Occam
et le nominalisme d’aujourd’hui
Vrin, gennaio 1993
pp.288 F 172
La vecchia questione del nominalismo si ritrova al cuore della filosofia
analitica contemporanea: come possono il discorso e il pensiero articolarsi in un mondo esterno popolato di
cose singole? L’autore mette in parallelo le idee di Occam, francescano
inglese, con quelle di Fodor, Goodman e Quine.
Redeker, Hans
Helmut Plessner
oder die verkörperte Philosophie
Duncker und Humblot
febbraio 1993
pp.241, DM 84
Rescher, Nicholas
Rationalität.
Eine philosophische Untersuchung
über das Wesen
und die Rechtfertigung
von Vernunft
Königshausen & Neumann
febbraio 1993
pp.300, DM 48
Il testo di questo libro comprende
tutto il materiale dell’edizione inglese. In più qui sono state aggiunte una
trentina di pagine di nuovi materiali,
che chiariscono e spiegano i rapporti
fra diversi ambiti di problemi.
Platone
Apologia di Socrate
a cura di Elisa Avezzù
Marsilio, marzo 1993
pp.136, L. 12.000
Pöltner, Günther
Evolutionäre Vernunft.
Eine Auseinandersetzung
mit der evolutionären
Erkenntnistheorie
Kohlhammer, febbraio 1993
pp.240
Quéran, Odile
Trarieux, Denis (a cura di)
Les discours du corps:
une anthologie
Presse Pocket, febbraio 1993
pp.50
Una raccolta di testi sulla rappresentazione del corpo, il suo ruolo nella
costituzione dell’identità e il problema della sua conoscenza.
Reuland, Eric - Abraham, Werner
(a cura di)
Knowledge and language:
Vol. I. From Orwell’s problem
to Plato’s problem
Kluwer Academic Publishers
gennaio 1993
pp.264, £ 77
Primo volume di un’opera in tre volumi, indaga il ruolo della struttura concettuale nei processi cognitivi, esplorandolo da diversi punti di vista, fra
cui la filosofia del linguaggio, la linguistica, la psicologia e l’estetica.
Quine, Willard Van Orman
La poursuite de la verité
Seuil, febbraio 1993
pp.153, F 99
Il saggio condensa, con approfondimenti, l’insieme delle idee di questo
filosofo americano sulla significazione cognitiva, la referenza oggettiva e
le basi della conoscenza.
Reuland, Eric - Abraham, Werner
(a cura di)
Knowledge and language:
Vol. II. Lexical and conceptual
structure
Kluwer Academic Publishers,
gennaio 1993
pp.264, £ 67
Secondo volume di un’opera in tre
volumi, il testo affronta la natura dell’interfaccia fra struttura concettuale
e linguistica, sforzandosi di fornire
una cornice teoretica del rapporto fra
senso come entità linguistiche ed entità del mondo reale.
Raulet, Gérard
Herbert Marcuse:
Philosophie de l’émancipation
PUF, gennaio 1993
pp.256, F 80
Il pensiero di Marcuse viene confrontato oggi alla capacità del capitalismo
di generare “miscugli” che mettano
in scacco ogni critica. La congiunzione di un individualismo sfrenato e del
dominio planetario della tecnica sembra realizzare al di là di ogni “speran-
Rizzi, Lino
Eticità e stato in Hegel
Mursia, marzo 1993
pp.368, L. 40.000
La teoria hegeliana dell’Eticità appa-
Paty, Michel
Einstein philosophe: la physique
78
re come un grande sforzo di comprendere il modo in cui le sfere dell’economia, del diritto e della politica
costituiscono sistemi tra loro distinti
solo “operativamente”, ma come “eticamente” siano funzioni dirette alla
realizzazione degli individui.
Rocca, Ettore
L’essere e il giallo.
Saggio su Merleau-Ponty
Pratiche, marzo 1993
pp.150, L. 18.000
Come e dove sorge la domanda filosofica e perché la domanda sull’esperienza o sull’essere è al tempo filosofia che si interroga sulla sua stessa
possibilità sono gli interrogativi, centrali per la filosofia del Novecento,
filo conduttore per accostarsi al percorso di pensiero di Merleau-Ponty.
Rousseau, Jean-Jacques
Il contratto sociale
Rizzoli, marzo 1993
pp.222, L. 9.000
Il ritratto di una società etica e politica insieme, in cui l’individuo non
obbedisca ad alcuna volontà estranea
o superiore, ma a una volontà generale che egli stesso sceglie e che quindi
viene a coincidere che la sua.
Rousseau, Jean-Jacques
Le fantasticherie
del passeggiatore solitario
Einaudi, marzo 1993
pp.151, L.18.000
Meditazioni sui temi della religione,
dell’educazione, del diritto sociale; argomenti tutti che gli avevano causato
inimicizie ed amarezze. Rousseau si
interroga, e cerca di spiegare a se stesso l’origine di tali delusioni, ma lo
supera con lo slancio entusiasta che
egli porta ai suoi ideali umani e religiosi.
Rovatti, Pier Aldo
Trasformazioni del soggetto
Il Poligrafo, marzo 1993
pp.144, L. 26.000
I saggi che compongono il volume
hanno al loro centro la discussa proposta di una “pensiero debole”. Questa proposta, formulata nel 1983, si
articolava intorno al nome di Friedrich Nietzsche, ma anche a quello di
Husserl, Lacan, Serres; si trattava del
problema di un luogo diverso da dare
alla soggettività, dinanzi a una modificata descrizione del potere. La lettura di questo lavoro permette di ricostruire qualcosa come un corpo omogeneo di domande: bisogno, soggettività, potere e pratica del pensiero.
Runzo, Joseph (a cura di)
Is god real?
Macmillan, febbraio 1993
pp.288, £ 40
Raccolta di saggi dedicata al dibattito
attuale sul realismo teologico. C’è
una realtà divina, trascendente indipendente dal pensiero umano? Negli
NOVITÀ IN LIBRERIA
scritti di importanti esponenti di entrambe le parti, il libro presenta un
dialogo fra realisti e non realisti.
Due anni dopo o Ricordi di una singolare esperienza fra la caduta del muro
e la riconquista” aggiornano lo scritto.
Rupp, G. (a cura di)
Was leisten
die Geisteswissenschaften
für die Zukunft? Beiträge
zum Modellversuch
“Geisteswissenschaftliches
Studium Fundamentale”
an der Universität Bochum
Brockmeyer, febbraio 1993
pp.168, DM 16,80
Schoeman, Ferdinand David
Privacy and social freedom
Cambridge UP, febbraio 1993
pp.240, £ 30
Il libro attacca la premessa, comune a
molte filosofie morali, che il controllo
sociale in quanto tale sia una forza
intellettualmente e moralmente distruttiva.
Ryle, Gilbert
Gilbert Ryle
and the philosophy of mind
Blackwell Publishing
gennaio 1993
pp.256, £ 45
Raccolta di scritti di Gilbert Ryle,
professore di filosofia a Oxford dal
1945 al 1967. Il libro comprende anche due omaggi a Ryle: uno di John
Mabbot, suo intimo amico, sull’uomo Ryle; l’altro è di David Gallop,
suo ex studente, sul Ryle filosofo.
Sarvepalli Radhakrishnan
Indian philosophy: Vol. 1
OUP India, gennaio 1993
pp.738, £ 12,95
L’opera si propone di fornire un resoconto chiaro dei più elevati concetti
dell’induismo. In essa vi si trovano
mescolati concetti orientali e terminologia occidentale, così da rendere
accessibile e istruttivo il testo anche a
chi si dovesse accostare all’argomento per la prima volta.
Sarvepalli Radhakrishnan
Indian philosophy: Vol.2
OUP India, gennaio 1993
pp.808, £ 12,95
Scheffer, Thomas
Kants Kriterium der Wahrheit.
Eine systematische Interpretation
der Argumentation
für die Anschauungsformen
und Kategorien a priori
in der “Kritik der reinen Vernunft”
de Gruyter, febbraio 1993
pp.311, DM 136
Schmidt, Amos
Materialismus zwischen
Metaphysik und Positivismus.
Max Horkheimer Frühwerk.
Darstellung und Kritik
Westdeutscher Vlg.
febbraio 1993
pp.384, DM 62
Schmidt, Hermann J.
Das Ereignis Nietzsche ausgehend von Röcken.
Gedenkvortrag
auf der Gedenkveranstaltung
zum 90. Todestag von Friedrich
Wilhelm Nietzsche
am 25.8.1990 in der Pfarrkirche
zu Röcken
Dortmund, febbraio 1993
pp.35, DM 4
Le note e un “Supplemento 25.8.1992:
Shields, Philip R.
Logic and sin in the writings
of Ludwig Wittgenstein
Univ. of Chicago febbraio 1993
pp.176, $ 31
Shields dimostra come una matrice
etica e religiosa pervada anche gli
scritti più tecnici sulla logica e il
linguaggio e che per Wittgenstein il
bisogno di stabilire limiti chiari è
un’esigenza allo stesso tempo logica
ed etica.
Shin, Sang-Hie
Wahrheitsfrage und Kehre
bei Martin Heidegger.
Die Frage nach der Wahrheit
in der Fundamentalontologie
und im Ereignis-Denken
Königshausen & Neumann
febbraio 1993
pp.224, DM 48
Schomberg, Rene von
Science, politics and morality
Kluwer Academic Publishers
febbraio 1993
pp.180, £ 46
Insigni autori di diversi paesi europei
e americani forniscono una prospettiva incrociata sui problemi decisionali
politici in condizioni di incertezza
scientifica. Si discutono esempi tratti
dalla biotecnologia e dalle scienze
ambientali.
Smith Ferguson, Martin
Diogene di Enoanda.
L’iscrizione epicurea
Bibliopolis, aprile 1993
pp.660, L. 200.000
L’edizione di Smith, che consta di
introduzione, testo critico, traduzione, commento e indici, è l’unica a
presentare tutti i frammenti noti dell’opera di Diogene, filosofo e filantropo che la fece incidere sul muro di
una stoa a Enoanda nella Licia settentrionale. Fondata sul controllo di tutti
i blocchi di pietra scopeti e riscoperti
dagli inglesi, questa edizione presenta centinaia di letture e supplementi
inediti.
Schulte, Joachim
Experience and expression.
Wittgenstein’s philosophy
of psychology
Clarendon Press, febbraio 1993
pp.192, £ 25
Il saggio usa i dibattiti sui concetti
psicologici degli ultimi manoscritti
di Wittgenstein come base per la ricostruzione degli argomenti e delle elucidazioni concettuali di Wittgenstein.
Il testo fornisce prospettive sulla filosofia della psicologia, sull’estetica e
sulla teoria del significato.
Sorel, Georges
Le illusioni del progresso
Bollati Boringhieri, aprile 1993
pp.240, L. 24.000
Pubblicato nel 1908, poco dopo le
Considerazioni sulla violenza, questo libro affronta con più ampio respiro storico e filosofico gli aspetti ide-
Sen, Amartya
Libertà e benessere
Marsilio, aprile 1993
pp.140, L. 15.000
Una proposta di radicale ridefinizione dei criteri utilizzati per identificare
il tenore di vita viene qui avanzata da
Sen, che ci invita a non separare gli
strumenti oggettivi da quelli soggettivi e filosofici che appartengono al
bagaglio ideale di ciscun individuo.
ologici di quella che Sorel considerava la subalternità del socialismo riformista al progetto illuministico della borghesia.
Sorell, Tom
The rise of modern philosophy.
The new and traditional
philosophies from Machiavelli
to Leibniz
Oxford UP, febbraio 1993
pp.360, £ 40
Il saggio esamina il pensiero di tredici autori in ogni campo della filosofia
e delle scienze e cerca di dimostrare
che la frattura fra le “nuove” filosofie
e quelle tradizionali classiche non è
così totale come si pensa in genere.
Soulez, Philippe
La guerre et les philosophes:
de la fin des années
20 aux années 50
Universitaire de Vincennes
febbraio 1993
pp.320, F 140
Scritti di J. Barnes, J. A. Barash, J.M. Besnier e altri.Come il precedente
(Les philosophes et la guerre de 14) il
presente volume riunisce analisi sugli atteggiamenti individuali o collettivi dei filosofi, da Aron a Wittgenstein, di fronte alla problematica dell’orrore che il nazismo, ancora oggi,
ci costringe a pensare.
Southgate, Beverley C.
”Covetous of truth”: The life
and work of Thomas White,
1593-1676
Kluwer Academic Publishers
gennaio 1993
pp.196, $ 60
Il lavoro è dedicato alla vita e all’opera di Thomas White, importante ed
eclettico pensatore del XVII secolo.
Ci viene presentato come il capo di
un’influente fazione dei cattolici inglesi, come un accanito oppositore
dello scetticismo e come la possibile
sintesi del pensiero scolastico con la
“nuova filosofia”.
Sparles, Harvey B.
✂
Osservazioni ……………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………
Suggerimenti
………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………
79
NOVITÀ IN LIBRERIA
Teaching as dialogue:
A teacher’s study
University of America
febbraio 1993
pp.216, £ 21,95
Il testo osserva il significato e il contesto della conoscenza e afferma che la
natura dell’apprendimento induce speranza e ispirazione per il futuro; sostiene anche che il dialogo permette agli
studiosi di perseguire il sapere sviluppando forza e ingenerando un senso
della finalità.
Spat, Werner
Philosophie und Grundprobleme
der modernen Astrologie.
Neues zu einem “alten” Thema
Die Blaue Eule febbraio 1993
pp.173, DM 39
Stalder, Henry J.
Rational realism.
About relative ration
and relative reality
Haag & Herchen, febbraio 1993
pp.116, DM 19,80
Sterling, Marvin C.
Philosophy of religion:
A universalist perspective
University Press of America,
febbraio 1993
pp.234, £ 21,95
Il libro tenta di chiarire e valutare i
concetti chiave della religione come
anche quelli che sono caratteristica
esclusiva di particolari tradizioni religiose. L’autore vede un’armonia di
fondo fra le differenti religioni mondiali e ne sottolinea i punti di contatto.
Thanbichler, Christian
Die Abstraktion
und die Unglaublichkeit
des Irrtums menschlichen Denkens
Die Blaue Eule febbraio 1993
pp.91, DM 23
Tiedemann, Paul
Über den Sinn des Lebens.
Die perspektivische Lebensform
Wissenschaftl. Buchges.
febbraio 1993
pp.352, DM 39
Come può l’uomo di oggi ancora trovare la pienezza del senso? Il libro
presenta una fenomenologia dei diversi concetti di senso che sono stati
elaborati nel corso della storia umana.
L’autore li confronta con il concetto di
senso prospettivo, che a suo parere
potrebbe essere portante per l’epoca
moderna.
Torrance, J. (a cura di)
The concept of nature
Clarendon, febbraio 1993
pp.208, £ 12,50
Una serie di saggi di filosofi della
scienza che trattano le principali fasi
dello sviluppo storico della concezione scientifica della natura.
Uebel, Thomas E.
Overcoming logical
positivism from within.
The emergence of Neurath’s
naturalism in the Vienna Circle’s
protocol sentence debate
Editions Rodopi, febbraio 1993
pp.377, Dfl 140
Tommaso d’Aquino e Ignazio di
Loyola.
tazione di Hegel come moderno pensatore.
Vadée, Michel
Marx, penseur du possible
Méridiens-Klincksieck,
febbraio 1993
pp.568, F 180
Il libro dimostra che nella sua critica
dell’economia politica, nella sua concezione della storia e nel suo materialismo filosofico, Marx ammette diverse forme di possibilità: astratte o teoriche, concrete o storiche e soprattutto
una possibilità reale, quella di un “regno della libertà”.
Wittgenstein, Ludwig
Le cours de Cambridge,
1932-1935: etablis par Alice
Ambrose à partir des notes
d’Alice Ambrose
et de Margaret Macdonald
TER, febbraio 1993
pp.267, F 169
Oltre agli appunti presi alle lezioni
fra il 1932 e il 1935 in questo volume
si troverà il Quaderno giallo in cui
sono annotate le lezioni e le discussioni informali che precedono le differenti sedute di dettatura del Quaderno blu. Vi si trovano trattate ampiamente le questioni sollevate da
quest’ultimo, precisate in alcuni punti centrali.
oss, Stephen (a cura di)
Essays on the philosophy
and science of Rene Descartes
Oxford UP, febbraio 1993
pp.336, £ 16
Questi saggi di importanti studiosi di
Descartes, mai pubblicati prima in
inglese, costituiscono una rassegna
della ricerca contemporanea sulla filosofia e la scienza cartesiana.
Unger, Peter
Identity, consciousness and value
Oxford University gennaio 1993
pp.358, £ 15
Il tema dell’identità personale ha dato
l’avvio recentemente a vivaci dibattiti filosofici. In un contributo alla discussione, l’autore di questo trattato
presenta un resoconto psicologicamente orientato, ma con una base
fisica, della nostra identità nel corso
del tempo.
Warnock, G. J.
Berkeley
Gregg Revivals, febbraio 1993
pp.240, $ 35
In questa nuova edizione riveduta della sua introduzione a Berkeley, l’autore esamina tutte le maggiori opere e
idee filosofiche di Berkeley e discute i
suoi contributi a questioni ancora dibattute oggi. Il libro vuole essere un
aiuto per il lettore a imparare qualcosa
sulla filosofia grazie a questo saggio
su Berkeley.
Vacca, Roberto
La via della ragione
Bompiani, marzo 1993
pp.256, L. 30.000
Che cos’è la “nuova morale”? A
questa e ad altre domande si cerca di
rispondere ripercorrendo la storia del
pensiero e analizzando l’assurdità
insita nelle “regole fisse”, o il cammino della “ragione” dalla Bibbia al
Talmud, o l’autonomia del diritto, o
cercando di saldare il pensiero di
Westphal, Merold
Hegel, freedom, and modernity
State Univ. of New York Pr.,
febbraio 1993
pp.288, $ 19
Westphal è uno dei più insigni commentatori contemporanei di Hegel. La
sua opera propone numerose prospettive stimolanti e riesce straordinariamente bene a presentare la rilevanza di
Hegel per tutta una serie di questioni e
pensatori contemporanei, e dunquel’agi-
✂
ome e cognome ………………………………………………………………
ndirizzo ………………………………………………………………………
………………………………………………………………………
elefono ………………………………………………………………………
omputer usato
❏ IBM-Compatibile
❏ Macintosh
❏ Ms-Dos ❏ Windows
❏ System 6.x ❏ System 7.x
❏ Cd-Rom ❏ Monitor a colori ❏ Floppy 3.5” HD
uono di prenotazione
❏ Desidero prenotare fin d’ora n°… copie su floppy disk da 3,5” per Ms-Dos/
Windows
❏ Desidero prenotare fin d’ora n°… copie su floppy disk da 3,5” per Macintosh
al prezzo scontato di £ 120.000 (iva esclusa)*
80 verranno indicate in seguito
*le modalità di pagamento
Wöhrle, G. (a cura di)
Anaximenes aus Milet.
Die Fragmente zu seiner Lehre
Steiner, febbraio 1993
pp.88, DM 48
Wolandt, G. - Breil, R.
(a cura di)
Ostdeutsche Denker.
Vier Jahrhunderte philosophischer
Tradition von Jakob Böhme
bis Moritz Löwi
Vertrieb., febbraio 1993
pp.262, DM 36
Wollgast, Siegfried
Vergessene und Verkannte.
Zur Philosophie
und Geistesentwicklung
in Deutschland zwischen
1526 und 1700
Akademie, febbraio 1993
pp.342, DM 130
Wright, Crispin
Truth and objectivity
Harvard University gennaio 1993
pp.262, £ 19,95
Basandosi sulle lezioni Waynflete
tenute a Oxford nel 1991, Wright
propone una prospettiva originale sul
luogo del “realismo” nella ricerca filosofica. Egli propone una nuova cornice per il dibattito sulle affermazioni
dei realisti, che pensano la verità come
assolutamente oggettiva, e gli anti
realisti, per i quali non è così.
Wuketits, Franz M.
Verdammt zur Unmoral?
Zur Naturgeschichte
von Gut und Böse
Piper, febbraio 1993
pp.240, DM 39,80
L’autore presenta l’abbozzo di
un’”etica evoluzionistica”, libera dagli astratti principi della filosofia
morale. Egli propugna l’applicazione
dell’etica all’interno di precisi confini biologici e il distacco da ogni rappresentazione idealistica.
Zoglauer, Thomas
Das Problem der theoretischen
Terme. Eine Kritik
an der strukturalistischen
Wissenschaftstheorie
Vieweg, febbraio 1993
pp.250, DM 80
La tradizionali proposte risolutive (per
esempio di Sneed e di Stegmüller)