INFORMAZIONE FILOSOFICA Rivista bimestrale a cura di: Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Istituto Lombardo per gli Studi Filosofici e Giuridici Via Monte di Dio 14, 80132 Napoli Viale Monte Nero 68, 20135 Milano Edizione Edinform. Informazione e Cultura Società Cooperativa a r.l. Viale Monte Nero, 68 20135 Milano Reg. n. 634 del 12/10/90 Tribunale di Milano. Sped. abb. post. gruppo IV/70. Prezzo: L. 10.000 Copie arretrate L. 15.000 Abbonamento annuale (5 numeri): L. 45000 studenti L. 35000 estero (Europa) L. 66000 (Paesi extraeuropei) L.156000 Redazione, direzione, amministrazione: Edinform. Informazione e Cultura Società Cooperativa a r. l. Viale Monte Nero, 68 20135 Milano tel. (02) 55190714 fax (02) 55015245 ccp 17707209 - intestato a: Cooperativa Edinform Informazione e Cultura s.r.l. 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DIRETTORE EDITORIALE Riccardo Ruschi COMITATO DI REDAZIONE Antonio Gargano Lorenzo Giacomini Riccardo Ruschi SEGRETERIA DI REDAZIONE Mariangela Giacomini Paola Grilli Anna Malafarina RELAZIONI ESTERNE Daniela Bolsi REDAZIONE Flavio Cassinari Silvia Cecchi Riccardo Lazzari Massimo Mezzanzanica Elio Nasuelli CONSULENZA GRAFICA CORRISPONDENTI FOTOLITO Alfonso Freire (Barcellona) Josef Früchtl (Francoforte) Fosca Mariani Zini (Parigi) Fotolito Milanese Via Fiume 37, 20099 Sesto S. Giovanni (Milano) COLLABORATI STAMPA Gianluca Barbaro Stefania Basso Stefania Battaglia Nino Biccari Filomena Rita Casale Monica Celi Stabilimento Grafico Morreale, Via Bezzecca 5, 20135 Milano. Gianluca Poletti IMPAGINAZIONE Alessandro Confetti DISTRIBUZIONE Joo Distribuzione Via G. Alessi 2, 20133 Milano 12 Gentili lettori, al significato del ricordo e delle parole nel lavoro dello storico è dedicato il saggio di apertura di questo numero, che presenta uno scritto inedito di Enrico Rambaldi, rielaborazione di un suo intervento all’Università di Bari in occasione della presentazione del libro di Paolo Rossi, Il passato, la memoria, l'oblio (Il Mulino, Bologna 1991). E’ indubbio che lo storiografo, nel suo sforzo di ricostruzione e interpretazione del passato, si trovi assai spesso di fronte a “oggetti dimenticati”, sotterrati, sepolti dal divenire degli eventi storici. La metafora dello “scavare nel passato”, sovente utilizzata per caratterizzare l’operare dell’ “arte della memoria”, ben si addice al lavoro dello storico. Solo che qui interviene una sorta di “necessità morale”, poiché lo storiografo, calato in una tale situazione, non si sente semplicemente chiamato al recupero del documento, ma avverte il bisogno di porre rimedio alla dimenticanza, di dar voce al ricordo, di far sì che le parole parlino al presente dell’uomo e indichino un futuro, un destino. Nella storia di questo secolo vi è una vicenda, non molto nota, che si presta forse più di ogni altra a esprimere, anche in modo emblematico, il significato morale che investe lo storiografo nella sua opera di recupero del passato. Si tratta del ritrovamento, nel settembre del 1946, e in seguito nel dicembre del 1950, dei cosiddetti “Diari di Ringelblum”, a cui si deve la storia del Ghetto di Varsavia e dello sterminio degli ebrei dall’epoca dell’invasione della Polonia (1939) da parte dei soldati nazisti fino alla completa distruzione del Ghetto (1943). Ciò che in particolare colpisce di questo ritrovamento, oltre al fondamentale valore storico del documento, è che Emmanuel Ringelblum, ebreo del Ghetto di Varsavia, autore dei “Diari”, agì nella compilazione della sua cronaca prefigurando, da storiografo, il compito morale che si sarebbe posto lo storico di fronte alla scoperta dei “Diari”. Egli volutamente scrisse la sua cronaca con l’intenzione di farne un “oggetto dimenticato”, analogamente a quanto i nazisti intendevano fare sistematicamente del Ghetto e degli ebrei. Una prima parte dei “Diari” fu infatti ritrovata nel Ghetto sotterrata in due casse, una seconda parte nascosta in due recipienti da latte sigillati in gomma. L’emblematicità del ritrovamento, pensato innanzitutto per preservare il documento dall’inevitabile distruzione, non sarebbe sfuggita allo sguardo dello storico, che all’interpretazione della testimonianza scritta e infalsificabile degli eventi avrebbe per sempre legato nella memoria dei contemporanei il ricordo inestirpabile di ciò che era accaduto. “Passato, memoria, oblio”: sono dunque questi i contorni che segnano il lavoro dello storico alle prese con la vicenda umana. Di questa connessione problematica ci offre un’ampia traccia di riflessione il sopracitato studio di Paolo Rossi, di cui riportiamo qui un brano significativo: «La storiografia non coincide con la spontaneità della memoria individuale e collettiva: è una forma di conoscenza che deve «passare al vaglio della critica» gli apporti della memoria. Fra storia e memoria si dà tuttavia un rapporto assai stretto perché la storia si nutre di memoria e la memoria «si impregna di tutta una serie di nozioni e di sentimenti che sono prodotti e veicolati dalla storiografia». La crescita del sapere storico sembra principalmente affidata alla capacità di individuare nel passato nuovi oggetti e di prospettare in modi nuovi relazioni e rapporti individuali. Anche nella storiografia i manuali vengono continuamente riscritti e vengono abbandonati come non più utilizzabili o oggetti di semplice curiosità. La novità, si dice, consiste principalmente in un «nuovo taglio». Ma quest’ultimo, a guardar bene, coincide spesso con la capacità di individuare e rammemorare oggetti trascurati o dimenticati che emergono, come si suol dire, «in primo piano». La loro presenza fa crescere o diminuire il significato e la rilevanza di altri oggetti, consente di individuare nuove relazioni, mette soprattutto in crisi consolidati paradigmi interpretativi. Com’è per esempio accaduto, relativamente alla storia delle idee, nel caso del potere taumaturgico dei Re, dei modi della vita materiale, della nozione di crescita e di crisi economica, delle immagini degli dèi degli antichi, dei processi alle streghe, dei selvaggi americani. Nel caso della storiografia i processi di rammemorazione, che la costituiscono nella sua essenza più profonda, sembrano guidati da intenzioni precise: porre rimedio alla dimenticanza naturale degli esseri umani affaccendati nel loro quotidiano presente; conservare e consentire che venga utilizzato un grande e ricco patrimonio di tradizioni, di istituzioni, di idee; creare un legame fra le diverse generazioni; dar luogo a forme di memoria collettiva che possono riguardare piccole o grandi comunità (i Tifernati, gli Scozzesi o gli Europei) o, addirittura, l’intero genere umano. Quella memoria collettiva, alla quale l’attività degli storici e degli antropologi dà un contributo notevole, è in genere intesa come possibilità di far riferimento ad un passato dotato di senso: qualcosa che può porre solidi argini ai processi di sfaldamento, frantumazione, isolamento, sradicamento dal loro ambiente e dal loro passato dei singoli e delle comunità.» Si ringrazia il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) per il materiale iconografico gentilmente messo a disposizione. SOMMARIO 5 SAGGIO 42 NOTIZIARIO 5 Ricordo e parole in storiografia 43 CONVEGNI E SEMINARI 15 INTERVISTA 43 Neoantico contro neoetnico 15 Ritratto d’autore: le immagini del mio nome: 44 Schlegel e la filosofia della storia intervista a Yves Hersant e Louis Marin 44 Orfeo e orfismo 45 Continuità e mutamenti nella scienza 23 AUTORI E IDEE 45 Linguaggi della mente 23 Veracità della conoscenza 47 Introduzione alle scienze cognitive 23 I luoghi della memoria 48 Fonosimbolismo e linguaggio poetico. 24 L’ultimo francofortese 48 Il sistema filosofico 24 Axel Honneth e il progresso sociale 49 Ri-pensare l’Antropologia. 26 Derrida: le interviste 53 Fondamenti della geometria 26 La debolezza dell’Io 53 Aspetti filosofici della letteratura russa 27 Utopia: il paese che non c’è 54 Fenomenologia del politico 29 La politica di Hegel 55 L’eresia gnostica 29 tendenze e dibattiti 55 Omaggio a Pareyson 30 Tendenze provinciali 57 Jean Paul: per una estetica della conoscenza 30 Sociologia della conoscenza e civiltà moderna 58 Ermeneutica del dolore 31 La morale ineffabile 31 Il paradosso del pensiero occidentale 59 CALENDARIO 32 Filosofia della mente 32 Coerenza di Nietzsche 60 OPINIONI A CONFRONTO 33 Marxismo ed ecologia 34 Diritto di replica: Sulla “Volontà di potenza” di Nietzsche 61 DIDATTICA 61 Nuovi manuali di filosofia 63 Convegni 39 PROSPETTIVE DI RICERCA 39 La logica di Ockham 65 RASSEGNA RIVISTE 39 Emil Lask: la logica della filosofia 40 Il viaggio in Italia dei Goethe 40 ‘Il Candelaio’ di Bruno 41 Herder: la filosofia e il linguaggio 41 Max Weber negli Stati Uniti 71 NOVITÀ IN LIBRERIA SAGGIO “Diari di Ringelblum”: recupero della prima parte (Varsavia, settembre 1946); contenitori in cui era nascosta la seconda parte (Varsavia, dicembre 1950); prima pagina 4 SAGGIO In occasione della recente pubblicazione gini (“abbi coscienza delle tue origini”) scienza e memoria a lungo termine. L’ogdel volume di Paolo Rossi, Il passato, la come elemento di potenza nell’agire. Dal- getto della scienza ha come oggetto la memoria, l’oblio (Il Mulino, Bologna 1991), l’altro lato, il ricordare è assunto dagli storia stessa, mentre l’oggetto della scienza l’Istituto di Filosofia e Storia di Bari ha scienziati, dopo Galileo, spesso con una non ha storia. La scienza si definisce come organizzato il 19 gennaio 1993, presso l’Au- valenza negativa: si pone la necessità del capacità inglobativa del passato. la Magna del Palazzo Ateneo di Bari, una saper dimenticare per poter cancellare, del- La relazione di Giorgio Cerboni Baiardi tavola rotonda sul tema: “La memoria e la scelta dell’oblio, del “dovere di saper ha messo in evidenza sia la problematicità l’occidente”, alla quale hanno partecipato dimenticare”. Questa duplice valenza pre- dell’appartenenza alla propria storicità Davide Bigalli, Enrico Rambaldi, Mauro suppone una diversificazione semantica del mediante il richiamo alle istanze nietzscheDi Giandomenico, Giorgio Cerboni Baiar- ricordo: da un lato esso ha un aspetto pre- ane della Seconda Considerazione inattuadi, Paolo Rossi. gnante, anche emozionale, e dall’altro una le. Sull’utilità e il danno della storia per la Introducendo i lavori, Davide Bigalli ha connotazione cognitiva (memoria). L’iden- vita -, sia il nesso tra storicità e memoria individuato, nell’atteggiamento di reazio- tificazione delle due sfere imporrebbe il letteraria. La parola letteraria denota un ne negativa di Erasmo nei confronti del problema del cancellare. La cancellazione legame con l’istante e un radicamento con proliferare dell’arte rinascimentale della del passato è sempre stato un segno distin- il passato. La memoria, intesa come apparmemoria, un momento storico determinato tivo dell’oppressione. E’ stata sottolineata, tenenza alla propria storicità, ha una dinell’ambito di quel processo di “parabola inoltre, la diversità del ruolo del ricordo nei mensione immediatamente produttiva neldella memoria” esaminato da Paolo Rossi. vari ambiti disciplinari. l’esperienza artistica tanto del produttore L’avversione di Erasmo nei confronti del- Mauro Di Giandomenico si è soffermato quanto del fruitore: essa offre possibilità l’arte mnemotecnica è stata sviluppata in- sul nesso scienza e oblio. La scienza si istantanee. Tutta la tradizione letteraria vietorno a due argomentazioni: 1. la conside- presenta come un insieme di risultati abba- ne considerata come un complesso gioco razione della parola da parte tra memoria e oblio. delle arti rammemorative; 2. A conclusione delle relaziol’importanza attribuita da Erani, l’intervento di Paolo Rossmo alla stampa. Nelle arti ramsi ha ripreso il parallelismo, memorative manca, per Erache, da sempre, contraddistinsmo, la consapevolezza delgue l’atteggiamento nei conl’evoluzione temporale della fronti della memoria: la conparola: le parole sono piene di vinzione dell’importanza deltempo, sono sedimentazioni la memoria e la polemica contemporali. La pagina stampata tro la memoria, polemica che è supporto tecnologico per una può presentarsi, anche, come memoria non intesa più come un’avversità al “sapere cose”. tecnica separata. La stampa conE’ stata ripresa e approfondisente la riflessione sulla parola, ta la doppia necessità di dila lettura, che non è ripetizione, menticare e di ricordare. A di Enrico I. Rambaldi ma è la possibilità della riflesproposito del rapporto tra sione. Con la stampa scompare scienza e oblio, si è osservato la necessità di avere tutto nella come la consapevolezza che memoria. Il venir meno di quesi costruisce in vista dell’ac«La mia immagine del passato sta necessità comporta l’irrucantonamento o del superaè come una terra assetata d’acqua: zione della soggettività nel temmento dei prodotti del provi cade una goccia e subitamente scompare; po dello studio. In senso contraprio lavoro coincida con l’asvi scorre un torrente ed eccolo assorbito dal rio per Erasmo non c’è sapere, sunzione della propria mortasuolo.» ma museografia. Erasmo è, così, lità. In riferimento al ruolo assunto come la prima pietra della memoria nella letteratuSaul Friedländer d’inciampo della parabola delra, è stata valutata l’imporla memoria, che ha un altro momento signi- stanza certi proprio in relazione al rapporto tanza delle emozioni come elementi delficativo nell’età di Leibniz, allorché si assi- che instaura con la memoria. E’ necessario, la memoria, che diventa, con Proust, ste alla scomparsa definitiva della memo- per comprendere la relazione tra scienze e luogo di intrecci. F.R.C. ria come tecnica separata. memoria, ricorrere alla distinzione psicoEnrico Rambaldi ha posto il problema logica tra “memoria a breve termine” e della memoria in relazione al valore del “memoria a lungo termine” e alla relazione ricordo. Il ricordare, da un lato, investe il costituente, che si pone tra scienza militan- Presentiamo qui una rielaborazione delriconoscimento dell’importanza delle ori- te e memoria a breve termine e storia della l’intervento di Enrico Rambaldi alla ta- Ricordo e parole in storiografia «schiere di clandestini» ed inguaribili colporteurs che sono gli storici dimostrano che essi somigliano più ad «una membrana semimpermeabile» che non ad «un muro di cemento» (pp. 179-183). Anche per i più affezionati lettori di Rossi, questo libro presenta tuttavia una peculiarità: un acuto senso, che ne illumina e ravviva le pagine, delle aporie che investono il lavoro di storico che si occupa di scienze sia umane, sia naturali, cioè due ambiti nei quali l’atteggiamento verso il passato è non solo differente, ma opposto. Negli studi umanistici, scrive Rossi, regna la memoria, l’oblio in quelli di scienze naturali. «Nessuno studente potrebbe vola rotonda. hi conosca, anche non per esteso, la produzione scientifica di Paolo Rossi, già prima di leggere quest’ultimo suo bel libro ha presente il taglio di storiografia delle idee con cui tratta la storia e della filosofia e della scienza. Il lettore ne conosce anche la «spiccata predilezione» per il «mondo spesso ambiguo e sfuggente» delle «metafore», dei «themata», degli «stili di pensiero» (p.8) e lo sa avverso a troppo definiti confini tra «le scienze della natura e le scienze cosiddette umane». Del resto, scrive Rossi, varcandoli e rivarcandoli, i confini, «ogni giorno, alla piena luce del sole», quelle C 5 SAGGIO mai pensare di laurearsi in filosofia senza aver mai letto un dialogo di Platone o un’opera di Descartes e di Kant», mentre, «al contrario, ci sembra del tutto ovvio e naturale che un laureando in fisica o in biologia possa non aver mai letto direttamente i Principia di Newton o le memorie di Einstein o L’origine delle specie di Darwin» (p.155). Di quest’aporia, che l’atteggiamento verso il passato in quei due ambiti disciplinari sia tanto differente, ed anzi opposto, Rossi, come mostra già il titolo del libro, è ben conscio, e ciò contribuisce a render affascinanti le sue pagine, tese a “viverlo” come ricercatore, quel paradosso. Non solo sulla memoria, ma anche sull’oblio scrive da storico, ponendo il problema del suo dominio nelle scienze, che bandiscono la memoria: «Quando una scienza si è saldamente costituita, gli specialisti di quella scienza dimenticano il passato del loro proprio sapere» (p.157), affondano nell’oblio non «solo le teorie invecchiate o superate, ma anche la genesi delle singole scienze» (159). Lo storico della scienza, quindi, va a scavare in un passato che non è vissuto come costitutivo della loro identità da coloro che pure esso identifica: è quel passato che fa del cultore di quella disciplina scientifica ciò che egli è. Come se esistessero palazzi, i cui inquilini non lasciassero mai l’attico; anche questa un’immagine di Blade Runner, film che Rossi cita a proposito dei replicanti, organismi artificiali ma «privi di memoria» (p.20). In quei palazzi lo storico scende, invece, sin a scrutarne le fondamenta, in sotterranei dei quali i superbi abitanti sanno pur l’esistenza, se ogni giorno vi precipitano, lungo cunicoli senza ritorno, bracciate di libri, riviste scientifiche da annate intere. Per chiarire i termini di queste osservazioni, preciso d’intender qui le coppie memoria/oblio e ricordo/dimenticanza come opposti, ed i due termini di ciascuna coppia con campi semantici coestesi. Considero cioè la memoria (e l’oblio) come denotante capacità cognitive d’archiviare (cancellare) nozioni, ed anche così Rossi la caratterizzò in un libro importante, Clavis universalis: arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz1, e di nuovo in questo libro la dipinge (“L’arte della memoria: rinascita e trasfigurazioni”; pp. 59-94). Riprendendo Kuhn, egli descrive, ad esempio, la pratica dell’oblio dei «manuali» scientifici, che «non solo nascondono il ruolo, ma l’esistenza stessa delle passate rivoluzioni [scientifiche] che hanno contribuito a generarli», e se ne riportano «frammentarie» notizie storiche, è per eleggere alcuni aspetti del passato ad «anticipazioni» e «precorrimenti» di «verità» (p.160). Quest’aporeticità del lavoro dello storico può allora esser delineata così: egli si occupa (anche) di un contenuto diverso che non quello cognitivo della coppia memoria/oblio, poiché cerca, nel passato, ciò che costituisce il presente e lo apre anche al futuro. Lo storico, cioè, potendo inviterebbe il demoniaco biologo che abita l’attico del palazzo di Blade Runner a ricordarsi del passato, a fondarvi il suo agire presente e futuro. E se quell’arrogante dio minore l’avesse accettato, il ricordo, ne sarebbero scaturite conseguenze non solo cognitive (di memoria), ma anche morali: avrebbe forse compreso, come alla fine il protagonista del film, Harrison Ford, che i replicanti sono sì “privi di memoria”, ma solo nel senso che non ebbero infanzia, e quindi non possono ramme- morarne episodi né affetti, ma non nel senso che gli anni della loro effettiva esistenza siano senza ricordi. Questi ricordi vogliono anzi trasmetterli, saperli accolti e conservati come valore anche dagli uomini, e con ciò esprimono, da ultimo, l’esigenza di esser riconosciuti come fini, non umiliati a mezzi. I replicanti di Blade runner, che in pochi anni bruciano intensamente, come candele che ardono ai due estremi, sono soggetti morali, capaci di atti liberi, amano ed odiano, ed è di questo che chiedono il riconoscimento: «Io ne ho viste cose», dice morendo l’ultimo degli androidi ribelli, Rutger Hauer, «che voi umani non potreste immaginarvi», ed all’uccisore dei suoi compagni affida lampi di ricordo, delle battaglie sostenute contro «navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione». L’accoglierli, quei lampi di ricordo, riscatta il suo persecutore: egli impedisce che «quei momenti» precipitino nella dimenticanza, smarrendosi «nel tempo, come lacrime nella pioggia». Quegli organismi artificiali diventano così, per Harrison Ford, soggetti morali, ed il film si chiude con l’amore tra lui ed una replicante, in una conquistata uguaglianza. So bene che memoria e ricordo sono, nel linguaggio, per lo più sinonimi, come anche oblio e dimenticanza. Tuttavia, la distinzione tra aspetti prevalentemente cognitivi di memoria/oblio, e morali di ricordo/dimenticanza (anche per l’etimo, che contiene riferimento al cuore) non mi pare irrilevante, pur nella ristrettezza di ogni uso definitorio delle parole. Quante non sono le persone di poca memoria ma saldissimi ricordi, estremamente coscienti della propria identità, radicate in tradizioni e costumi, ma smemorate per date, ricorrenze, nomi ecc.? Rossi, opportunamente, discorre nel libro anche di Freud, e difatti nell’ambito teorico della psicanalisi il ricordo è distinto dalla memoria, e si assume come potentemente attiva la presenza di ricordi dei quali non si ha, e spesso nemmeno si può avere, memoria alcuna, e che pure costituiscono l’identità più intima dell’individuo, contribuiscono a plasmarlo come soggetto morale. V’è chi teorizza, in ambito latamente freudiano, di ricordi latenti del trauma della nascita e addirittura della vita fetale (differenze caratteriali tra gemelli vengono, ad esempio, fatte risalire anche alle diverse posizioni nel grembo materno, per stabilire quale incombesse sull’altro). Nessuno ha memoria di sé poppante, ma ricordo sì, perché il suo tessuto emozionale primario ancora contiene, ed attivissimo, quell’obliato vissuto. Se quindi la memoria può esser non illegittimamente descritta come una facoltà soprattutto cognitiva, un archivio, riguardi essa un passato remoto, recente o sin l’oggi, il ricordo può esser denotato, invece, come un destino, che inscindibilmente abbraccia passato, presente e futuro, e costituisce l’identità, il soggetto. E lo storico, che si occupa di ricordi, tramite la storia tenta di comprendere e le origini stesse, per quanto umbratili, e la presente identità, per quanto incerta, e l’orizzonte del futuro, per quanto precario. Così infatti Rossi: «la memoria è di uomini e animali, la reminiscenza è solo dell’uomo» (p.13). Il fatto che Rossi sviluppi quest’aporia e ritenga che si possa (debba) far storia anche di ambiti nei quali (come le scienze) regna l’oblio, dà spessore alle sue pagine e, più in generale, al suo profilo di studioso, ed io ho ancora oggi viva nell’animo una citazione ch’egli fece 6 SAGGIO nella relazione conclusiva di un convegno torinese degli anni Sessanta; citazione che gli è cara, se qui la riprende, e che è tratta da un romanziere nero americano, James Baldwin, il quale richiama il proprio popolo alla sua identità presente come pegno di riscatto futuro, e quindi al ricordo come destino: «Abbi coscienza delle tue origini: se conosci le tue origini, allora non ci saranno limiti ai quali tu non possa spingerti» (p.21). morale dell’identità, ma per «rimettere a posto la propria memoria, e riaggiustarla con, documenti scritti», e poi distruggere il ricordo perfino di quel delitto: «dimentichi di averlo fatto»! Descrizione romanzesca di una pratica attuata dal XX secolo in misura superiore, forse, che non quelli trascorsi, e che un autore citato da Rossi , Yerushalmi, descrive come «invenzione di un passato mitico», costruito «per servire il potere delle tenebre» dagli “agenti dell’oblio”, che obliterano “i documenti”, li riducono “a brandelli”. «Soltanto lo storico -scrive Yerushalmi- con la sua rigorosa passione per i fatti, per le prove e le testimonianze, può realmente montare la guardia [...] contro gli assassini della memoria e i revisori delle enciclopedie, contro i cospiratori del silenzio» (pp.27-28). uesta distinzione tra memoria e ricordo, oblio e dimenticanza solleva altre aporie. Ad esempio in Bacone, autore caro a Rossi, troviamo invocato l’oblio come rifiuto della sudditanza agli Antichi e difesa della dignità dei Moderni. “L’augmentum delle scienze” richiederebbe non solo la critica, ma anche l’oblio de “la antiquatio theoriarum”, giuste sia la sentenza che «Scientia ex naturae lumine petenda, non ex antiquitatis obscuritate repetenda» (p.166), sia l’invocazione de «la formula mediante la quale io possa consacrarli all’oblio», i «falsificatori delle cose» (p.25). Se l’oblio dell’errore antico è indispensabile alla nascita della modernità, fino a che punto il perseguimento della verità scientifica lo giustifica? E’, l’oblio, atteggiamento del tutto neutro, che possa legittimamente applicarsi in ambito scientifico, come semplice opposto della memoria (qui intesa come stracco nozionismo di obscuritates), o non contiene invece, perché insieme alla memoria fatalmente cancella il ricordo, un intrinseco pericolo morale? Se l’oblio occulta, interpola, elegge, come nei manuali scientifici, “notizie frammentarie” del passato ad “anticipazioni” della “verità” del presente, allora tal modo di procedere, praticato innocentemente dagli scienziati, troppo somiglia, e come una goccia d’acqua, alla perenne pratica del Potere. Cancellare, emendare, è difatti il mezzo con cui il Potere da sempre mente, falsifica, opprime. Inutile ricordare esempi di come sovente esso abbia proibito sin l’uso della lingua materna degli oppressi, cioè le loro parole, per spegnerne l’identità, negarne il carattere di soggetto politico-morale, il diritto all’uguaglianza. L’oblio non pare una tecnica neutrale, se è l’arma più subdola della tirannia. Rossi ha presente quest’uso luciferino dell’oblio, e lo denuncia in pagine severe su «gli assassini della memoria» (pp. 24-29). «Le emendationes del ventesimo secolo -osserva amaramente- non hanno nulla da invidiare a quelle dell’età della Controriforma», e sotto i nostri occhi «intere opere di storia sono state riscritte cancellando i nomi degli eroi di un tempo» (p.26). Un secolo, il nostro, carico di roghi di libri, di censure, di lavaggi del cervello, di falsificazioni, menzogne di Stato, per cancellare non solo la memoria, ma anche il ricordo. Rossi ricorda Koestler, Orwell, l’agghiacciante slogan di 1984: «C’è uno slogan del Partito che riguarda il controllo del passato [...] “Chi controlla il passato, controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il futuro”» e per raggiungere questa perfetta malvagità occorre «una sorta di educazione della memoria» nella quale l’intreccio tra memoria, oblio, ricordo e dimenticanza diviene veramente satanico: il servo del Potere deve «ricordare che i fatti avvennero in quella determinata maniera», usarne il ricordo non per la verità Q a letteratura sulla Shoah è oggi il luogo eminente nel quale i difensori della memoria e del ricordo si scontrano con gli agenti dell’oblio e della dimenticanza, che, per «impedirne il ricordo», cercano d’impedire sin di «contare le vittime» (p.26). Sono stati infiniti, durante la persecuzione e dopo, i percorsi dell’oblio, a volte anche incruenti, ma sempre intesi a spegnere l’identità, uccidendo il ricordo. Saul Friedländer, nato a Praga appena prima della salita al potere di Hitler ed oggi insegnante a Tel Aviv, ha raccontato in un libro, A poco a poco il ricordo2, la faticosa riconquista della propria identità, lui che era scampato3 anche perché costretto a dimenticare la propria origine, convertito al cattolicesimo, cancellato dal novero dei bambini deportati dalla Francia perché ormai quasi non più ebreo, non più lui; studiò persino da prete cattolico. Poi, a poco a poco, venne il ricordo, e l’esergo del libro, di Gustav Meyrink, recita: «Quando viene la conoscenza, viene anche a poco a poco il ricordo. Conoscenza e ricordo sono una sola e medesima cosa». Ma proprio la Shoah solleva un’altra, drammatica aporia. «E’ difficile non esser d’accordo con ciascuna di queste affermazioni di Yosef Hayim Yerushalmi, non avvertire la forza del suo appello contro gli “assassini della memoria”» scrive Paolo Rossi, che poi però osserva: «E tuttavia, ogni volta che tocchiamo il tema della memoria siamo richiamati anche al tema della dimenticanza» (pp.28-29). E ricordare, infatti? Non può annidarvisi il pericolo di restar prigionieri del male subito, del risentimento? E il risentimento pare vicolo cieco, che preclude di vivere nel presente ed aprirsi al futuro. Sembra dunque di dover tornare sul problema dell’oblio, anche quello non volto all’augmentum scientiarum, e riconoscerlo, almeno talvolta, legittimo. Non solo: persino la dimenticanza, se ricordare (o ricordare troppo vivamente) fosse motivo di disperare del presente e del futuro, persino la dimenticanza potrebbe essere, almeno talvolta, giustificata. Paolo Rossi introduce qui l’opinione di uno studioso che anch’io ebbi modo di conoscere, Yehuda Elkana, deportato ad Auschwitz all’età di dieci anni e che oggi vive a Gerusalemme. Militante, a quanto so, di Shalom Ak’shav, il movimento israeliano di Peace now, con un articolo del 1988 suscitò in Israele “polemiche feroci”, contestando in sostanza l’ammonimento “Ricordati che cosa ti fece Amalek” (Deuteronomio, 25:17) ed esortan- L 7 SAGGIO do a sradicare dall’identità politica d’Israele se non il ricordo, quanto meno i suoi “eccessi”. «La storia e la memoria collettiva -scrive Elkana nei passi che Rossi cita - sono parte inseparabile di ogni cultura, ma il passato non è e non deve diventare l’elemento determinante del futuro di una società e di un popolo». Egli ritiene che un eccesso di ricordo delle persecuzioni avrebbe «suscitato la diffusa credenza che il mondo intero sia contro di noi», sicché «dalle ceneri di Auschwitz» sarebbero emerse “due nazioni”, che nel suo testo sembrano potersi intendere come la destra e la sinistra ebraiche. Della destra, allora maggioranza nel Knesseth, il parlamento israeliano, Elkana dà una descrizione infamante. Mentre infatti la minoritaria “nazione” di sinistra s’ispirerebbe al principio che «ciò non dovrà accadere mai più», l’altra “nazione”, «maggioranza terrorizzata ed ossessionata», affermerebbe: «ciò non dovrà mai più accadere a noi». Ecco la conclusione della dicotomia: «una democrazia si nutre di presente e di futuro, e un eccesso di dedizione al passato mina i fondamenti di una democrazia», donde il rimedio: «dobbiamo imparare a dimenticare», poiché «è giunto il momento di sradicare dalle nostre vite l’oppressione del ricordo» (p.29). Non è facile criticare riflessioni sulla Shoah svolte da chi l’abbia patita. Ma credo che Elkana sbagli. Egli interpreta il ricordo, o quanto meno il ricordo bruciante, che implica il risentimento, come un fattore ostile a pace ed uguaglianza possibili: quel ricordo isolerebbe il popolo ebraico, lo renderebbe incapace di sentire l’identità dell’Altro. E’ invece vero l’opposto: solo se Israele ricorda può comprendere altri che ricordino; se dimentica, perde non solo la propria identità, ma anche la possibilità di contatto con l’identità dell’Altro, e quindi la via dell’uguaglianza, che è valore morale e politico solo se tra differenti. Infatti non perché Tu ed Io siamo entrambi ebrei, arabi o che altro, non per questo siamo moralmente uguali, ma perché ci diamo reciproco riconoscimento delle nostre differenze naturali e storiche come di valori che costituiscono le nostre identità. E’ questa la condizione perché possiamo distribuirci uguaglianza: a meno di non infingerci titani impegnati in una seconda creazione, è evidente che l’uguaglianza vada perseguita a muovere da esistenti ed insopprimibili disuguaglianze naturali. L’uguaglianza morale e politica è un atto di libertà che quelle differenze naturali riplasma, come scrisse Rousseau: «Io vedo nel genere umano due tipi di ineguaglianza; la prima che chiamo naturale o fisica, perché è stabilita dalla natura, e che consiste nella differenza dell’età, della salute, delle forze fisiche e delle qualità dello spirito o dell’anima; l’altra, che si può chiamare ineguaglianza morale o politica, perché dipende da una specie di convinzione ed è stabilita o almeno autorizzata dal consenso degli uomini». E, più radicalmente ancora, Marx non solo nega che la disuguaglianza naturale abbia incidenza su quella morale, ma sviluppa una concezione per cui le categorie che costituiscono l’uguaglianza morale, «amore» e «fiducia» reciproci, presuppongono le differenze naturali, e nulla hanno a che vedere con la «Nivellierungssucht» («brama di livellamento»). La disuguaglianza fisica, ad esempio la bruttezza, è compatibile con l’uguaglianza morale. L’uomo brutto, argomenta Marx, può, non meno dell’uomo bello, conquistare l’amore di una donna, purché espliciti l’universalità umana presente nella sua empirica individualità, e scambi con la donna riconoscimenti universalmente umani, “amore” con “amore” e “fiducia” con “fiducia”. Se invece Io, “brutto”, pretendo di “comprarmi la più bella donna”, e m’arrogo che in forza del mio danaro “non sono brutto”, allora vengo meno all’uguaglianza con me stesso, al mio Io, mi spoglio della mia umanità, nego che bruttezza, amore e fiducia siano compatibili nell’uguaglianza morale. Il bacio tra i due amanti non esprime allora la comune umanità, perché il danaro pietrifica le differenze in opposti irriducibili, ed è esso che, contro natura, «li unisce» e «li costringe a baciarsi». Marx ritiene dunque che l’uguaglianza tra uomini sia in primo luogo uguaglianza di ognuno con se stesso, ed egli e Rousseau, a diversi livelli di radicalità, vengono a dir questo: che l’uguaglianza può esser costruita a partire da ciò che fa sì che ogni Io sia quell’Io che è4. Volendo scindere tra ricordo ed identità, Elkana sostiene invece il contrario: sradichiamoci dalla nostra storia, e saremo meno tentati dalla disuguaglianza. Una versione morale della pax romana: desertifichiamoci! na posizione ben più complessa esprime Jean Améry, anch’egli sopravvissuto ad Auschwitz, dove fu compagno di baracca di Levi, e che Paolo Rossi ricorda subito dopo, ma troppo avvicinandolo ad Elkana: «Il breve articolo di Elkana ha suscitato polemiche feroci. Ma credo che egli non volesse dire una cosa diversa da quella alla quale faceva riferimento uno dei più grandi testimoni dell’Olocausto: Jean Améry che, senza alcuna pietà verso se stesso, si vedeva irrimediabilmente prigioniero di “quel risentimento che impedisce lo sbocco verso il futuro, che è la dimensione più autenticamente umana”» (p.29). Nelle amarissime pagine di Intellettuale a Auschwitz5, Améry esamina con inaudito coraggio la presenza, nel ricordo, del risentimento, che non solo accetta, ma rivendica e moralmente legittima. «L’esperienza delle persecuzione era in ultima analisi quella di un’estrema solitudine»(p.122), scrive, ed è da quell’estrema e determinatissima miseria dell’Io che inizia la sua analisi: da un evento preciso, la tortura, patita il 23 luglio del 1943, quando il tenente delle SS Praust gli fissò un gancio alle manette che gli stringevano i polsi “dietro la schiena” e, per fustigarlo, lo sollevò un metro dal suolo. «Avvertii uno schianto e uno scheggiarsi nelle spalle che il mio corpo sino ad oggi non ha dimenticato. Le teste degli omeri saltarono dalla loro sede. Il mio stesso peso provocò una lussazione, caddi nel vuoto e mi ritrovai appeso alle braccia slogate, sollevate da dietro e chiuse sopra la testa in posizione rovesciata» (p.72). Ciò che accadde quel giorno al suo Io, il ricordo della “prima percossa” (p.64), ciò e molto altro ancora rimase da allora inscindibilmente parte della sua individualità. Ma ognuno, anche chi non abbia subito terrificanti oltraggi, partecipa con Améry di una caratteristica dell’Io: di essere «moralmente unico» (p.123). Da questa unicità di ciascuno, dai ricordi che lo costituiscono così come effettivamente sono (compresi i risentimenti) si deve partire per vivere l’identità e l’uguaglianza. Le riflessioni di Améry restano eroicamente fedeli al U 8 SAGGIO concetto d’individualità. Egli testimonia: «sin dalla pri- che il risentimento è una condizione non solo contro la ma percossa, [l’Io del torturato] perde qualcosa che forse natura umana ma anche contraddittorio a livello logico. possiamo definire in via provvisoria la fiducia nel mon- Inchioda ciascuno di noi alla croce del nostro passato do», e che designa la fiducia che la propria specifica, distrutto [...] impedisce lo sbocco verso il futuro, la irriducibile ed individuale identità sia riconosciuta come dimensione più autenticamente umana» (p.119; corsivo valore. «L’elemento più importante della fiducia nel mio; Rossi, a p. 29, cita parte di questo passo, ma senza mondo [...] è la certezza che l’altro, sulla scorta di analizzare a fondo la morale del risentimento). L’Io contratti sociali scritti e non, avrà riguardo di me, più ricorda, e vuole ricordare, e non può non ricordare, ma precisamente, che egli rispetterà la mia sostanza fisica e ricorda con il “character indelebilis” (p.74) dell’offesa quindi metafisica. I confini del mio corpo sono i confini subita. Come superare quella contraddittorietà logica ed del mio Io. La superficie cutanea mi protegge dal mondo impedire che il risentimento precluda il futuro e l’uguaesterno; se devo avere fiducia, sulla pelle devo sentire glianza? Anzi: come costruire futuro ed uguaglianza solo ciò che io voglio sentianche sul risentimento? re» (p.66). La tortura espriAméry risponde con una me dunque «la violazione acuta distinzione tra tempo del confine del mio Io da morale, interiore, e tempo parte dell’Altro» (p.73), e naturale (distinzione che, per questo lascia «un marin altri termini, fa anche chio indelebile» (74), che Paolo Rossi; pp. 81-84). E’ s’imprime nel ricordo ridifficile stabilire qui, e del sentito: «parlo da vittima e resto non ne sarei capace, analizzo i miei risentimenquanto pesino l’uno e l’alti», e «devo assumermi la tro tempo, ed il loro intrecresponsabilità del mio ricio, nel lavoro dello storisentimento», legittimandoco. Ma la distinzione è inlo «come parte integrante controvertibile: il tempo della mia personalità» naturale, ad esempio, ha ri(pp.112-113). A chi gli opsanato gli omeri di Améry, pone che “i tratti caratteriama non la violazione morali” che determinano la perle dell’Io. «Chi è stato torsonalità del risentito sono turato resta tale. La tortura “distorti”, e quindi vanno è un marchio indelebile ansradicati in nome del futuche quando clinicamente ro, Améry risponde: «Sanon sono riscontrabili tracremmo, così si afferma, dei ce oggettive» (p.74). Assi“distorti”. Di sfuggita rimilare il tempo morale, inpenso alle mie braccia conteriore, a quello naturale è torte dietro la schiena duprofondamente immorale: rante la tortura, e questa «Il senso naturale del temmia realtà mi richiama a po ha le sue radici effettive “ridefinire il nostro essere nel processo fisiologico del distorti come forma di umarimarginarsi delle ferite ed nità moralmente e storicaè entrato a far parte della mente più elevata rispetto rappresentazione sociale alla sana dirittura» (p.119). della realtà», ma quest’ireIl libro di Paolo Rossi è, da Classe di Talmud, Cecoslovacchia 1938 (foto di M. nismo naturalistico perverultimo, libro di uno storico te il significato morale del sul tempo. Ed è a proposito del tempo storico che Améry tempo: «quel che è stato è stato: questa espressione è mette a nudo una aporia profonda: se il ricordo recupera tanto vera quanto contraria alla morale e allo spirito». il passato, e quindi il tempo, allora è in contraddizione Ricordare con risentimento è quindi legittimo: «E’ diritto con il risentimento, che il tempo pare voler negare: «Il e privilegio dell’essere umano non dichiararsi d’accordo senso del tempo di chi è prigioniero del risentimento è con ogni avvenimento naturale, e quindi nemmeno con il distorto, dissociato, se si preferisce, perché pretende ciò rimarginarsi biologico provocato dal tempo» (p.124). E’ che è doppiamente impossibile: il cammino a ritroso un suo diritto storico (fondato sul suo ricordo) individuaverso il già vissuto e l’annullamento di ciò che è stato» le, che non può esser annacquato nell’asserzione di (pp.119-120). Ciò ha conseguenze sul futuro: «L’uomo Elkana che «una democrazia si nutre di presente e di del risentimento non può unirsi a quell’inno alla pace che futuro e un eccesso di dedizione al passato mina i fondaci esorta a non guardare più indietro, ma in avanti, verso menti di una democrazia». L’esperienza individuale che, un migliore e comune futuro», come pretende Elkana. in impensabile, tremenda solitudine, ogni singola vittima Améry è ben conscio dell’aporia concettuale che ciò fece, solo ingannevolmente può esser riscattata da una comporta: «Alle mie riflessioni non è rimasto nascosto società che si presenti, rispetto all’individuo, come sog9 SAGGIO getto sublimato. Una tale società «pensa solo alla propria continuità. La società si preoccupa della propria sicurezza, non di una vita lesa» (p.122), mentre lui, Hans Meyer, al quale il nazismo ha strappato «identità e passato»6, costringendolo a mutare persino il proprio nome7, è una vita lesa. E’ qui, in questa verità individuale, ch’è da scavarsi per trovare la soluzione, perché «se accetto i miei risentimenti, se ammetto di essere “prevenuto” nel considerare il nostro problema, so però anche di essere prigioniero della verità morale di questo conflitto» (p.121). Nessuna soluzione, dunque? O il naturalismo di Elkana o il risentimento “contraddittorio a livello logico”, che impedisce “lo sbocco verso il futuro”? E’ il rigore con il quale Améry spinge sino all’estremo l’analisi che ci toglie dall’impasse: egli mostra come al fondo del risentimento giaccia la possibilità d’invertire il corso naturale del tempo, di fondere ricordo e risentimento raggiungendo un’identificazione di sé come soggetto morale, che consente di aprirsi non solo all’Altro, ma (nella giustizia) anche all’offensore. Améry procede per eventi singolari, e ricorda, ad esempio, il kapo Juszek, «un criminale polacco di terrificante vigoria», che un giorno lo colpì. Molto più debole fisicamente, Améry reagì e, prima di crollare sotto le percosse, gli sferrò un pugno. Reagì, testimonia, «perché avevo ben compreso che nella vita vi sono situazioni in cui il nostro corpo è tutto il nostro Io e tutto il nostro destino. Ero il mio corpo e null’altro [...]. Il mio corpo, nel momento in cui si tendeva per sferrare il colpo, era la mia dignità fisica e metafisica [...]. Nel colpo io ero me stesso: lo ero per me e per l’avversario» (p.148; il corsivo è mio). Qui è dalla riaffermazione del proprio valore nel “Zurückschlagen” (“rendere il colpo”) che nasce l’intersoggettività, e Améry esige non di sradicare il ricordo perché esso è anche risentimento, ma di costruire su esso come veramente è, ricordo risentito, l’uguaglianza. Invoca non la dimenticanza, falso perdono alla deriva nel flusso del tempo naturale, ma la giustizia, che consente l’inversione morale del tempo: «L’uomo morale esige la sospensione del tempo; nel nostro caso, inchiodando il misfattore al suo misfatto. In questo modo egli potrà, avvenuta l’inversione morale del tempo, essere accostato alla vittima in quanto suo simile» (124). E Améry ci parla nuovamente di un individuo ed un evento singolari, della “SS fiamminga Wajs”, “pluriomicida e torturatore”, che lo «colpiva alla testa con il manico della pala». Anche Wajs era un Io, e «viveva l’attrezzo come il prolungamento della sua mano», e di fronte a quell’Io persecutore, scrive Améry, «solo io ero, e ancora oggi sono, in possesso della verità morale delle percosse che tuttora mi risuonano nella testa, e ho quindi maggior diritto a giudicare non solo rispetto ai colpevoli, ma anche alla società» (pp. 121-122), poiché «la remissione e l’oblio provocati da una pressione sociale sono immorali» (123-124). E’ nella punizione del colpevole che la vittima può incontrare l’aguzzino, perché lo ritrova solo, come essa, da allora, è sola. Il ricordo della vittima è risentimento perché la sua “estrema solitudine” è «una condizione che ancora perdura». Améry è depositario di questa verità morale, e potrà riconoscere Wajs (ma solo lui; non anche, attraverso di lui, i complici rimasti impuniti; il riconoscimento è tra individui) soltanto se anche Wajs sperimenterà, nella corporeità fisica e metafisica del suo Io, la verità morale dei suoi misfatti. Wajs fu processato, condannato, fucilato. Ed eccola, l’amara ma profonda ed umana soluzione: «Di fronte al plotone d’esecuzione la SS Wajs sperimentò la verità morale dei suoi misfatti. In quell’istante era con me: e io non ero più solo con il manico della pala. Voglio credere che nell’istante della sua esecuzione egli avrebbe voluto, al pari mio, invertire il tempo, annullare quanto era accaduto. Nel momento in cui era condotto sul luogo dell’esecuzione, da avverso egli si era nuovamente ritrasformato in prossimo» (p.122). Così, nel ricordo, anche il risentimento diviene elemento di identità, di valore, di uguaglianza, di un’autentica apertura al futuro. A ciò non conducono la dimenticanza, l’oblio, il perdono naturalistico-sociale. e testimonianze sulla Shoah sono piene di episodi di vittime che disperatamente tentavano di lasciare tracce al ricordo, e di carnefici che le cancellavano. Un passo di Simon Wiesenthal, citato da Paolo Rossi, mostra quanto fosse impari quella lotta: non solo perché le vittime erano inermi e i carnefici avevano il Potere, ma soprattutto perché l’orrore pareva troppo grande per la mente umana, ed elevava una barriera metafisica contro il ricordo: «I prigionieri dei Lager -ha scritto Simon Wiesenthal- venivano così ammoniti dai loro aguzzini: “In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà”» (p.27). Era questa, ritengo, la “estrema solitudine” di cui testimonia Améry. In un filmato che molti hanno visto, Shoah, di Claude Lanzmann, questa solitudine è resa visibile. Le immagini si chiudono con le parole di un resistente di Varsavia, che si ricorda solo tra quelle rovine di morte, e testimonia (anche nel tono della voce, nelle espressioni del viso) una solitudine tanto ampia e profonda e di così intensa e ricca moralità, da non esser quasi più esprimibile come disperazione: «E mi ricordo di un momento - in cui ho provato una specie di quiete, - di serenità, - in cui mi sono detto: - «Sono l’ultimo degli ebrei, - aspetterò il mattino aspetterò i tedeschi”»8. Vittime che per testimoniare usavano fragilissime parole: nomi, date, eventi scritti su fogli che sigillavano in scatole di latta e seppellivano, che qualcuno, un giorno, li ritrovasse; parole incise su muri di morte, vergate e gettate da treni di morte, scambiate tra esseri umani che abitavano la morte, che un sopravvissuto le ricordasse. Migliaia e migliaia e ancora migliaia di parole scritte e dette da milioni di vittime: quindi, letteralmente, miliardi e miliardi e ancora miliardi di parole, affidate all’oceano del tempo, nella speranza che qualcuna giungesse a noi e, dopo di noi, ai posteri. E carnefici che costringevano quelle stesse vittime a sbiancarli e risbiancarli, quei muri, a pulire e ripulire le camere a gas, che facevano saltare con la dinamite, al momento di abbandonarli, i forni, che... Sterminate quantità di eventi opposti: gli uni per il ricordo, gli altri per stendere l’oblio e la dimenticanza. Una lotta impari, che Primo Levi ricorda in frasi asciutte: L 10 SAGGIO «Il bisogno di raccontare agli “altri”, di fare gli “altri” di francese» e non ha ancora imparato che, per tentare di partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione sopravvivere, bisogna lavorare il più lentamente possibie dopo, il carattere di un impulso immediato e violento»9. le, «fare economia di tutto, di fiato, di movimenti, perfino E il timore di non esser ascoltati, che il valore della di pensiero». “Pas si vite, idiot!”, impreca Gounan. Kraus propria testimonianza non fosse accolto, era come un non capisce, ed allora il francese, attingendo anche al incubo, diffuso tra i deportati: «Sentivo un bisogno così patrimonio della propria storia di ebreo d’origine polacprepotente di raccontare, che raccontavo a voce. Allora, ca: «Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden?», nel lager, facevo spesso un sogno: sognavo che tornavo, ch’è un ibrido di tedesco ed jiddish e significa, parola per rientravo nella mia famiglia, raccontavo, e non ero ascol- parola, «Piano tu stupido uno, piano, capito?»”. Levi (nel tato. Colui che mi sta davanti non mi sta a sentire, si volta 1946, a ridosso della persecuzione) l’aveva trascritta e se ne va. Ho raccontato questo sogno, in lager, ai miei “tale e quale”, credendo però che fosse solo tedesco12, amici, e loro hanno detto: «Capita anche a noi»10. lingua che lo stesso Levi conosceva ancora malamente. Anni più tardi, quando Se Qui l’aporia dello storico si questo è un uomo viene trafa acutissima, e traluce neldotto in tedesco, dopo una le pagine di Paolo Rossi lunga discussione epistolaladdove egli riesamina la re con il traduttore, che non differenza tra la funzione si raccapezza con quel “du del ricordo e della testimoblöder Einer”, espressione nianza nelle Lettere e nelle che in tedesco suona scorScienze. La fragilità delle retta, Levi accetta quella parole, veicolo principale che i filologi definiscono del ricordo, pare infatti tale, una lectio facilior: Il trache sembra doversi dispeduttore lo convince che rare della possibilità di traquella frase è da emendarsi mandare ciò che principalin «Langsam, du blöder mente alimenta le Lettere: Heini...», dove Heini è il passioni, emozioni, giudizi diminutivo di Heinrich, morali, credenze, speranze Enrico. «Dovevo aver senecc. Per la stessa aleatorietito o ricordato male», amtà di poter esser affidati solo mette Levi, e l’edizione tea parole (le arti visive, aldesca del libro esce con il meno sino al XX secolo, testo che pare emendato, hanno molta minor rilevaned invece è corrotto. Passaza da questo punto di viti altri anni, Levi legge un sta), i fatti riguardanti le libro sullo jid-disch, e si umane sorti paiono più faavvede di aver ricordato cilmente falsificabili. La tegiusto: l’espressione “du stimonianza di Améry può eyner” era jiddisch, e Gouesser contraddetta, e non nan, franco-polacco, aveva solo nel senso maledetto dei attinto alla comune tradipersecutori e della storiozione askenazita per farsi grafia revisionista, ma anintendere da Kraus, ebreo che da chi, suo amico e ungherese. Quindi, vivente compagno di sventura, inil testimone e con i fatti terpreti e viva gli stessi Manoscirtto in lingua jiddish eventi in modo differente. sotterrato nel KL. di Auschwitz da un Sonderkommando ancora prossimi, le parole mostrano una straordinaria Primo Levi, ad esempio, non condivise il risentimento di Améry, suo “compagno precarietà: al momento della traduzione tedesca di Se ed antagonista”, e questi a sua volta lo chiamò, in una questo è un uomo mutarono lingua, lezione ed anche il lettera privata, “il perdonatore”, definizione che Levi destinatario del libro, poiché Levi si avvide solo allora respinse: «Non la considero né un’offesa né una lode, che «i [...] destinatari veri, quelli contro cui il libro si bensì un’imprecisione»11. Comunque, siamo innegabil- puntava come un’arma, erano loro, i tedeschi»13. E, come mente davanti ad una drammatica differenza tra le inter- vedremo in Spinoza, lingua, lezione e destinatario sono pretazioni dei ricordi di due testimoni degli stessi eventi. elementi decisivi nella trasmissione di un monumento La precarietà di affidarsi prevalentemente a parole era letterario, composto di parole. resa ancora più acuta dal fatto che i Lager erano una Nella trasmissione del teorema di Pitagora, ad esempio, babele di lingue, ove le parole venivano spessissimo questa dipendenza dalla lingua, dalla lezione, dal destinafraintese, storpiate, o restavano indecifrabili. In Se questo tario ecc. è assente, ed è con una citazione da Spinoza che è un uomo, Levi racconta di un ebreo francese di origine Paolo Rossi esamina quest’ulteriore differenza tra lo polacca, Gounan, che ne apostrofa uno ungherese, Kraus, scienziato (il “filosofo naturale” secentesco) ed il letterail quale «capisce assai male il tedesco e non sa una parola to; ulteriore perché il tema dell’oblio si presenta qui non 11 SAGGIO solo come atteggiamento soggettivo dell’autore di manuali scientifici, ma anche come dato oggettivo: matematica ed esperimento non abbisognano di testimonianze, e lo scienziato s’erge indipendente di fronte alla tradizione. «Galilei -scrive Rossi- contrappone i filosofi naturali agli “istorici” o “dottori di memoria”. La mentalità di questi ultimi è caratterizzata dal continuo bisogno di richiamarsi ad una guida. L’immagine che Galilei contrappone a questa mentalità è quella di ricercatori che, a differenza dei ciechi, non hanno bisogno di guida alcuna [...]. Le testimonianze di altri non hanno alcun valore di fronte al criterio del vero e del falso: “Addurre tanti testimoni non serve a niente”» (162). Dunque le testimonianze di chi vuol tramandare non verità scientifico-matematiche, ma eventi umani, passioni, giudizi morali ecc. paiono condannate, per loro natura, ad essere non solo falsificabili, ma intrinsecamente ambigue; implicano dizione ed ascolto corretti, la conoscenza del contesto, ecc., come si è visto per “du eyner”. Altrimenti nelle scienze, scrive Rossi: «Le verità della geometria, il suo rigore appartengono per Spinoza ad un mondo che non dipende dall’approvazione degli ascoltatori o dalle vicende temporali» (p.163), ed è più facile raggiungere la verità quando si ha «assoluta irrilevanza dei contesti» storici, «delle vicende che si svolgono nel tempo», delle testimonianze umane. La veridicità degli Elementi di Euclide, scrive Spinoza nel passo che Rossi cita, è indiscussa perché non contiene «se non cose semplicissime e quanto mai intelligibili», indipendenti dalla lingua in cui primieramente furono scritte; dalla conoscenza approfondita de “la vita, gli studi, i costumi dell’autore”; dal “destinatario”; dalla “fortuna” e “varie lezioni” del libro; dalla “deliberazione” con cui il suo contenuto é stato “approvato”. Nelle matematiche, dunque, vi sarebbe motivo d’ottimismo quanto a poter discorrere di cose certe e vere. D’altra parte, vien da osservare, sotto questo profilo ottimismo e inutilità vanno, dal punto di vista storiografico, di pari passo: lo scavo nelle fonti e nei contesti pare servire poco o punto, ed anzi confonderebbe inutilmente le acque, se la materia stessa della Proposizione 47a del libro I degli Elementi, il teorema di Pitagora, non fosse per natura al di sopra di ogni fraintendimento possibile. Il passo spinoziano citato da Rossi è nel capitolo VII, “De interpretatione Scripturae”, del Trattato teologico-politico14. Stando a solo quel passo, e paragonando sotto quel riguardo la Scrittura e gli Elementi, l’attendibilità della prima come monumento storico pare pressoché nulla, proprio per la precarietà dei discorsi non scientificomatematici. Spinoza spiega infatti nel VII capitolo ed in quelli successivi che per interpretare la Scrittura occorre conoscere la lingua ebraica e gli ebraismi dei libri neotestamentari dei quali non abbiamo l’originale ebraico; la vita, l’indole e la cultura dei (presunti) autori; il contesto nel quale scrissero; la situazione storica, politica, culturale e morale dei destinatari; la fortuna dei singoli libri; le diverse lezioni; come, quando e da chi ne venne deliberata la canonizzazione, ecc. Operazioni tutte impossibili per la Scrittura, dato che non abbiamo né grammatiche, né trattati di retorica, né dizionari coevi; che moltissimi sono gli apax legomena, le lezioni incerte, i testi incompleti ed interpolati, a volte grammaticamente e sintattica- mente scorretti; che i veri autori sono sovente ignoti; le motivazioni delle lezioni marginali incerte; che nella lingua ebraica le lettere labiali sono tra loro spesso intercambiabili, e così le linguali, dentali, palatali e gutturali; le forme verbali assimilabili a nomi e prive di molti tempi; le congiunzioni e gli avverbi con significati spesso opposti; inoltre il testo mancava, in origine, di segni d’interpunzione, accenti, vocali, che vennero aggiunti secoli e secoli più tardi da dotti per i quali la lingua della Scrittura era ormai antichissima. Dal punto di vista linguistico e della lezione delle parole (che è quello che qui più preme), è dunque evidente che nella Scrittura come monumento letterario, in forza di «questa costituzione e natura della lingua ebraica debbano nascere tante ambiguità che non vi è metodo in grado di risolvere» (p. 198). Per questi ed altri motivi si può concludere che la lezione della Scrittura è inguaribilmente corrotta dal tempo, dagli uomini, dalle circostanze di trasmissione ecc. Per di più, la narrazione è zeppa di miracoli, il linguaggio figurato, Dio descritto in modi contraddittori e spesso antropomorfici, le proposizioni naturali enunciate da ignoranti per ignoranti (Giosué, al quale viene attribuito il miracolo del Sole che s’arresta nel cielo, era uomo d’arme ignorante di scienze naturali); le cronologie contraddittorie, le profezie manifestamente dipendenti dall’indole e dalla cultura del profeta: Daniele cupo, Isaia aulico, Geremia rustico; Salomone affatto sapientissimo, ignorando egli l’incommensurabilità tra raggio e circonferenza, ecc. E se, pur con molte riserve, la Scrittura può essere assimilata ad altri monumenti letterari che non esprimano le verità semplicissime e perfettamente intelligibili degli Elementi, allora la difficoltà pare investire l’intero universo di quel veicolo di testimonianza che sono le parole. L’aporeticità, a questo punto, pare anzi insuperabile anche per lo storico della scienza, che si occupa di monumenti letterari contenenti proposizioni scientifiche, e quindi di parole, non direttamente di verità scientifico-matematiche. Ogni testimone ed ogni storico pare quindi condannato all’errore, all’incertezza radicale, e somigliare piuttosto a un viaggiatore, come scrivono Cartesio e Malebranche in passi citati da Rossi, «troppo curioso di cose del passato» e «molto ignorante di quelle presenti»; interessato «alle cose rare e lontane», non a «le verità più necessarie e più belle» (p. 163). o sforzo di ricostruire il passato, salvare il ricordo, costituire l’identità del presente e l’apertura sul futuro pare dunque vana fatica di Sisifo, e che questo sia già oggi, ed ancora più nei decenni e secoli a venire, il destino degli storici della Shoah: scriveranno in un contesto nel quale il Terzo Reich «sarà semplicemente storia, non migliore e non peggiore di quanto non lo siano in genere tutte le epoche storiche drammatiche», osserva Améry, e Hitler apparirà come una sorta di Napoleone, anch’egli sconfitto dalle gelide steppe russe. Il conto delle vittime, già oggi contestato per la quasi totalità dalla storiografia revisionista, sarà ridotto in modo ancor più tracotante da studiosi tedeschi cresciuti con «il ritratto del bisnonno con l’uniforme delle SS [...] ben in vista nel salotto buono» (p.134). Quegli agenti delle tenebre sa- L 12 SAGGIO ranno ancor più numerosi che non gli odierni assassini della memoria, perché proverranno dall’immenso stuolo dei «né caldi, né freddi». Le fragilissime parole, cancellate a miriadi già quando venivano scritte e pronunciate, e per di più spesso fraintese dagli stessi testimoni, paiono veramente impotenti ad impedire l’oblio e la dimenticanza della verità fondamentale della Shoah. Ma non è mai mancato chi, come Bayle, Hume e molti altri, negasse che le verità matematiche detengano il primato nella conoscenza. Chiare e distinte quanto si voglia le loro premesse, constano tuttavia di proposizioni difficili da dimostrarsi, ardue da ritenersi, pressoché ininfluenti sulla vita quotidiana, e l’esistenza di Cicerone appare più indiscussa e viene più facilmente ricordata che non l’equazione del cerchio. Proprio Spinoza ci dice, in una pagina di quello stesso VII capitolo che va accostata, credo, a quella citata da Rossi, che in verità non vi è motivo di disperare della trasmissione certa e veritiera dei contenuti morali. Egli argomenta ampiamente l’impossibilità di falsificare le parole. «Le cose che sono percepite facilmente per natura», come anche che Améry fu torturato, «non si possono mai dire in modo così oscuro da non poter essere facilmente comprese», e ciò vale non solo per Euclide, ma anche per la Scrittura, per quanto attiene al suo contenuto morale fondamentale (e quindi, più in generale, per i monumenti letterari della storia). «Noi possiamo facilmente comprendere la Scrittura e essere certi del vero significato del suo insegnamento morale», che si esprime “con parole usatissime”. E le parole non sono falsificabili: «In verità è difficilissimo mutare il senso di una parola, perché colui che tentasse di farlo, sarebbe costretto contemporaneamente a spiegare secondo l’indole e l’intenzione di ciascuno tutti quanti gli scrittori che scrissero in quella lingua e che usarono quella parola nel senso comunemente accettato; oppure a travisarla con estrema cautela. E poi, a conservare la lingua concorre con i dotti anche il volgo, mentre il senso dei discorsi e i libri sono conservati unicamente dai dotti, i quali, come facilmente possiamo comprendere, hanno potuto bensì modificare o alterare il senso di un passo di un libro rarissimo in loro possesso, ma non quello delle parole; senza contare che chi volesse modificare il significato usuale di una parola, non potrebbe poi senza difficoltà mantenere tale modifica nel parlare e nello scrivere» (pp.194-195). Lo storico, in ultima analisi, potrà sempre fare il suo lavoro, che ha carattere anche morale, con attendibilità. Egli, che conserva le parole, è per natura, come dice Yerushalmi, un testimone della verità. E pur nelle discre- panze di giudizio tra Améry e Levi, la verità morale di che cosa sia stata la Shoah emerge incoercibile. Vi è un aspetto, in cui questa comune verità dei due ex compagni di baracca fa rabbrividire di spavento, nella sua crudele semplicità. Ne I sommersi e i salvati, Levi registra con fermezza un dissenso da Améry e, ricordando l’episodio del pugno sferrato al kapo polacco, critica la morale del risentimento, la «morale del Zurückschlagen, del “rendere il colpo”», e ad essa riconduce il destino estremo del compagno, quasi egli avesse infine dovuto soccombere al risentimento. Di quella morale di Améry, Levi scrive: «La ammiro: ma devo constatare che quella scelta, protrattasi per tutto il suo dopo-Auschwitz, lo ha condotto su posizioni di una tale severità ed intransigenza da renderlo incapace di trovar gioia nella vita, anzi di vivere: chi “fa a pugni” col mondo intero ritrova la sua dignità ma la paga ad un prezzo altissimo, perché è sicuro di venire sconfitto. Il suicidio di Améry, avvenuto nel 1978 a Salisburgo, come tutti i suicidi ammette una nebulosa di spiegazioni, ma, a posteriori, l’episodio della sfida contro il polacco ne offre un’interpretazione» (pp.109-110). Un dissenso sull’intrerpretazione degli eventi testimoniati, dunque. Ma la comune verità morale del vissuto di Améry e di Levi si conferma, in modo spaventevole, nel suicidio scelto, anni dopo, anche da Levi: nessuno potrà mai dire quale sia stata, e per l’uno e per l’altro, la “nebulosa di spiegazioni” della loro scelta estrema. Pure certo entrambi testimoniarono, da punti di vista differenti, con storie differenti, ma anche con l’estremo gesto comune, della mostruosità della Shoah, della solitudine dei sopravvissuti. Le parole di entrambi loro sono fragilissime, ma infalsificabili. Sta a noi, destinatari del loro messaggio, riuscire ad avvertire ciò che hanno di comune. Infalsificabili, e frutto della libera scelta di testimoniare. Al di là di ogni possibile aporia, ciò basta a fare della storia una disciplina anche morale, senza che si debba ricorrere alla finzione che sia magistra vitae. Si può esser tranquillamente pessimisti che lo storico possa migliorare il corso degli eventi rammemorando il passato, ma tuttavia certi che il passato sia, nel suo insieme, infalsificabile, e dunque non rassegnarsi all’oblio. Proprio Paolo Rossi, commentando Leopardi, scrive: «Tra pessimismo e rassegnazione non esiste alcun rapporto necessario»15. La pedagogia morale che lo storico esercita non pare retorico-persuasiva, ma piuttosto testimonianza dell’identità, e quindi d’uguaglianza e di libertà. Testimoniare, e scrivere di storia, è anzitutto una libera scelta. E’ questo il senso Note ultimo, mi pare, delle aporie che percorrono e ravvivano il libro ed il pensiero storiografico di Paolo Rossi, e di questo gli siamo grati. 1 Ricciardi, Milano-Napoli 1960; nuova ed. rivista presso Il Mulino, Bologna 1983. 2 Trad. it. Einaudi, Torino 1990. 3 La letteratura sulla Shoah testimonia anche il dramma degli scampati. Giuliano Della Pergola, figlio di matrimonio misto, educato nella fede cattolica, scampato che solo con gli anni scoprì d’essere ebreo, scrive: «Io non faccio parte dei sopravvissuti, ma degli scampati» che «non solo non vogliono dimenticare, ma che cercano di trasformare quel ricordo in una particolare moralità storica» (Giuliano Della Pergola, Un bambino nato due volte. L’enfant qui naquit deux fois, Jouve, s.l., 1993, pp. 30,14). 4 Per le considerazioni su Rousseau e Marx, rinvio al mio Natura e costrizione. Per una riflessione sull’uguaglianza nei «Manoscritti del 1844» di Marx, in AA.VV., I filosofi e l’uguaglianza, relazioni al XXX Congresso Nazionale della Società Filosofica Italiana, Messina, 21-24 aprile 1989, Sicania, Messina 1991,v. I pp. 101-148. 5 Trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1987. 6 C. Magris, “Presentazione” a Intellettuale a Auschwitz, p. 11. 7 Jean Améry è anagramma e francesizzazione di 13 Hans Mayer. 8 C. Lanzmann, Shoah, trad. it. Rizzoli, Milano 1987, p. 239. 9 P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1963, p. 8. 10 P. Levi, Autoritratto, “Nord-Est” N. 2, Padova 1987, p. 50. 11 P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, pp. 114, 110. 12 «Gounan [...] si ricorda di tradurre in tedesco», scrive Levi, che difatti usa la maiuscola e la vocalizzazione germanica, trascrivendo non “eyner”, ma “Einer” (cfr. Se questo è un uomo, p.167; il corsivo è mio) 13 Per i passi citati cfr. Se questo è un uomo, p. 167; I sommersi e i salvati, pp. 79, 138. 14 Mi avvalgo della trad. it. a cura di A. Droetto ed E. INTERVISTA Albrecht Dürer, Evangelista Marco, Kupferstichkabinett di Berlino 14 INTERVISTA Chi è il soggetto del ritratto? Chi è attore o autore della rappresentazione di sé? Come e in che momento ritrarre un uomo? Il ritratto di qualcuno “vale” per costui? In quali termini? Queste alcune delle domande che possono sorgere ingenuamente di fronte a un ritratto e che nolens volens bussano alla porta degli artisti e si presentano come problema filosofico. In altri termini: quali significati e valori antropologici sono posti in gioco dall’esperienza del ritratto? Quale modello di uomo e di humanitas viene messo in opera? Tali interrogativi corrono lungo l’asse problematico della rappresentazione e sono recentemente al centro in Francia di numerosi studi, differenti per approccio e finalità, ma sorprendentemente convergenti verso un oggetto privilegiato d’indagine: il volto e il suo ritratto. In particolare, all’Ecole des Hautes Etudes, nel quadro delle ricerche sulla rappresentazione e sul linguaggio, alcuni studiosi, Louis Marin, Yves Hersant, George Didi-Huberman, hanno focalizzato le loro ricerche sul problema del ritratto. Marin si è interessato alla rappresentazione del politico nell’Europa del XVI/XVII, concentrandosi in particolare sul processo e sugli effetti politici e estetici della rappresentazione del re. Hersant si è preoccupato di analizzare i dispositivi letterari, pittorici, retorici della rappresentazione dell’uomo nella cultura rinascimentale. DidiHuberman ha perseguito invece un progetto di storia e di antropologia del ritratto considerato come mito e rito dell’immaginario occidentale (tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: Devant l’image. Question posée aux fins d’une histoire de l’art, Minuit, Paris 1990; Fra Angelico -Dissemblance et figuration, Flammarion, Paris 1990; Le cube et le visage. Autour d’une sculpture d’Alberto Giacometti, Macula, Paris 1992). Altro evento importante in questo contesto è stata la mostra organizzata da Didi-Huberman a Jouy-en-Josas dal titolo: “A visage découvert”, e la pubblicazione dell’omonimo catalogo (Flammarion, Paris 1992): ricca messe di immagini e preziosi interventi di studiosi da tempo interessati a spiare da più angoli di visuale, se non da dietro le quinte della faccia, i tratti e i meccanismi che ne fanno un volto; ricordiamo, in quest’occasione, oltre ai già menzionati Marin, Hersant, Didi-Huberman, gli interventi, fra gli altri, di Jean Clair, di Xavier Grand. Di concerto questi autori s’interrogano sui termini e sul piano rilevante su cui, , «si possa avvicinare - come scrive Didi-Huberman - il problema del viso in quanto problema posto all’immagine, e reciprocamente, il problema dell’im- magine come problema posto al volto». Domande incrociate, dunque, sullo specifico dell’uomo a partire da uno sguardo storico attento alle procedure artistiche della rappresentazione e, d’altro canto, sulle possibilità intrinseche ai sistemi di rappresentazione a partire da una riflessione filosofica sul significato e sul valore antropologici del volto. E’ da sottolineare in questi autori, al di là delle differenze rilevanti, un “comune stile di pensiero”, un condiviso orizzonte di interessi e di pratica intellettuale: in primo luogo, una duplice formazione, filosofica e letterario-artistica, cioè una competenza semiologica e un atteggiamento riflessivo coniugati (felicemente) a una sensibilità educata dalla frequentazione assidua e competente con le opere d’arte. Gli interrogativi sono così posti su un piano estetico nel duplice senso di teoria della percezione (e relative valenze antro- volto infatti non è a suo avviso solo “naturale”, bensì deve molto, per quanto riguarda la forma, i movimenti e l’apprezzamento degli altri, alla dimensione collettiva e sociale (sul significato antropologico e socialmente “strutturato” del corpo si veda dell’autore: Corps et société, Klincksieck, Paris 1985; Sociologie du corps, PUF, Paris 1992). Il volto è sempre “una composizione”: in questo senso l’autore analizza alcuni fenomeni salienti della vita di società relativi alla “messa in opera “del viso, quali l’invecchiamento, la bruttezza, la sfigurazione (per accidente o per crudeltà), ma anche gli effetti della “massificazione” del corpo nelle società democratiche. Uno dei punti di maggior interesse di questo dibattito riguarda la questione della nascita del ritratto, in particolare dell’uomo. Per Le Breton il “sentimento” di avere un volto è relativamente tardivo nella storia: nasce con lo spiccato senso d’individualità che caratterizza il Quattrocento italiano: «Differenziandosi dalla comunità, distinguendosi dal cosmo, l’uomo colto rinascimentale comincia a considerare la propria incarnazione come luogo della propria sovranità. Il corpo in qualche modo interrompe e permette di affermare la differenza individuale che il volto corona». L’individuo trova il suo proprio posto alloggiando nel proprio volto, ritagliandosi uno spazio rispetto al cosmo, agli altri e a sé nella misura in cui anima e corpo, come gemelli crudeli, tanto si cercano, quanto si distruggono a vicenda. In questo senso il ritratto nasce come celebrazione dell’uomo colto e potente, dell’uomo che si può guardare nello specchio e, se può pagare, farsi ritrarre da un pittore. Per converso, Hersant, attraverso un approccio congiunto alla letteratura e alle arti plastiche, propone un’interpretazione più nuancée della connessione fra emergenza dell’individuo e ritratto. Non solo il Rinascimento è un orizzonte culturale molto complesso, percorso dall’interno da più inquietudini e da differenti visioni del rapporto fa uomo e cosmo, ma anche l’idea di “ritratto” non è assegnabile al solo “genere” della pittura. Fra pittura e scrittura vengono stretti nodi molto difficili da districare: concorrenza o compresenza? Radice comune (nella tradizione retorica) o differenziata (nelle pratiche specifiche)? La riflessione storico-critica sul ritratto deve porre su un piano filosofico le seguenti domande: è possibile fare il ritratto di un uomo? Esiste forse una natura specifica dell’uomo? Per Bruno, ad esempio, è assurdo fare il ritratto di un uomo, poiché questi partecipa di un’ “infinitudine” in atto e immanente, che rende paradossale ogni “arresto” in immagine. Ritratto d’autore: le immagini del mio nome. Interviste a Yves Hersant Louis Marin di Fosca Mariani Zini pologiche) e di teoria dell’arte (e implicite connessioni storiche). All’origine di questa problematica vi è una “passione predominante” per il dispositivo della rappresentazione artistica come piano di convergenza (ma non di fusione) fra ciò che vi è di più “spontaneo” (la sensazione, il volto nudo in particolare) e di più “artificiale” (la figuratività, il ritratto). Il volto è stato oggetto, per così dire, anche di altri approcci: David le Breton ha recentemente pubblicato lo studio: Des visages. Essai d’anthropologie (Métaillié, Paris 1992). L’approccio è dunque antropologico, volto alla ricerca delle vie tramite cui avvicinarsi (senza aggredire) il “segreto” del volto, traccia visibile dell’unicità di ogni avventura personale d’identità, scena teatrale, la cui «ristrettezza non è certo un ostacolo alla molteplicità delle combinazioni». Le Breton cerca di cogliere l’emergenza del volto come cifra dell’uomo nelle scansioni delle vicende storico-culturali: il 15 INTERVISTA Solo la scrittura è forse adeguata a tale infinitudine, agli “eroici furori” dell’uomo: grazie al carattere infinito del discorrere, al carattere intellettuale e non sensibile della scrittura, alla mancanza di cornici e di chiusure come nei quadri o di rigidità statuarie... A seconda dei momenti storici e degli autori, il volto è stato inteso come superficie “sincera” dell’animo, oppure luogo “menzognero” per eccellenza. Forse che, nel primo caso, la rappresentazione “sveli” l’autenticità del volto? Oppure, è la seconda ipotesi, raddoppia le ambiguità dell’originaria menzogna in un gioco vertiginoso in cui il volto si cancella per far posto a una maschera? Marin ha molto lavorato sul nesso rappresentazione - politica, in particolare sulla rappresentazione del re. Rifacendosi soprattutto ai ritratti regali del XVI secolo (Trouvain, Rigaud, Le Brun), stabilisce un nesso molto perspicuo fra “rappresentazione del re e re di rappresentazione”. Il re, infatti, poserebbe come modello del “principe”, quale egli è, per acquisire, nella contemplazione del proprio ritratto, l’immagine di sé come “monarca”, cioè la pienezza di una genericità assoluta, un grado zero, l’immagine di nessuno, di un nessuno che è pieno «della neutralità di una funzione il cui nome proprio è re.» Il principe come modello è disposto a cedere un po' della sua umanità, divenendo così “impassibilità contemplativa”, per avere in cambio l’ostensione di sé come monarca, indossare finalmente i panni del suo ruolo. Ma ogni sistema di rappresentazione implica al suo interno delle falle, dei punti di corrosione: nella rappresentazione di sé come potere assoluto, il re contempla e prende tutta la misura della distanza fra la rappresentazione del suo potere e il suo potere effettivo. Il ritratto risarcisce i danni di un sogno di assoluto potere che non può che rimanere parziale e affidato al ricordo: il re guarda lo spettatore perché lo sguardo di chi è fuori scena salvi, “salvaguardi” nell’immagine, di un futuro mai abbastanza possibile, il potere che si vuole assoluto. Ma il ritratto se può simulare ciò che non è, ciò che un altro è, non si limita solo ai giochi della rappresentazione, al contrario, insiste Marin, non è solo cifra di una perdita bensì strumento della conoscenza di sé e dell’altro. Non c’è identificazione che non passi per simulazione, si potrebbe dire: incontrandosi, il mio Io e l’Altro entriamo in una dinamica di simulazione reciproca, di “simpatia allofagica”; ciascuno assume sul proprio volto i tratti dell’altro, lo assimila, captandone il gioco “facciale”, e al contempo tenta di mettersi a distanza dal tentativo di assorbimento dell’altro. La simulazione dell’altro sul mio volto non è mai perfetta e questo “tirarsi fuori” dall’assorbimento dell’altro è ciò che ci salva, che c’impedisce di divenire una maschera. L’incontro fra due volti, il riflesso fra un volto e un ritratto non è mai fusione o interscam- bialità: dietro al proprio volto, nella solitudine perpendicolare dell’anonimato, resta il luogo, il punto di fuga prospettico in cui l’identità prende consistenza. Ci sono strette connessioni fra la morte e il ritratto. Le Breton sottolinea che solo in un’interazione sociale e simbolica “gratificante” un volto può acquisire la propria espressività. Senza una rete di tal genere nessuno è in grado di dare un “luogo” ai propri tratti, di dare al volto il suo ubi consistam. Non a caso il bambino autista ha un “viso socialmente incompiuto” e la persona i cui tratti sono stati sfigurati ha il sentimento di aver perso se stessa. Peggio ancora, quando l’odio trova i mezzi per esercitarsi è sul volto che si accanisce, così come i campi di concentramento, le inenarrabili sevizie di tutti i tempi, testimoniano. Didi-Huberman, lavorando in una prospettiva antropologica sul significato del visuale/visivo, mette a punto una possibile convergenza fra ritratto e morte attraverso la nozione di vestigia. Prendendo in contropiede le metafisiche della presenza, DidiHuberman considera il ritratto come un sostituto della presenza nei termini di vestigia, ossia come quasi-presenza che «pone la propria referenza solo per dire che ne è privo, che qualcosa è stato distrutto e dunque allontanato definitivamente». Da un punto di vista storico e genetico il ritratto è nato come genere funerario quindi è vestigia anche nel senso di traccia lasciata sulla sabbia. Infine è indice di una rovina, di una procedura di morte di cui resta come sola testimonianza il luogo della distruzione. Didi-Huberman s’interroga allora sui nessi fra perdita, traccia, luogo in relazione alla funzione antropologica del ritratto. In particolare, nelle maschere funerarie come nel processo di mummificazione, si conserva l’impronta del viso morto, allorché il viso “naturale” viene abbandonato alla cenere di cui è fatto. Proprio perché il volto è destinato a scomparire, nasce l’esigenza di conservarne una traccia figurale che gli sopravviva. Il ritratto metterebbe dunque in opera non la rappresentazione di un volto, quanto la sua “scomparsa presentata”. Il volto sparisce come rappresentazione (nella rappresentazione), ma la sua traccia esibita ne conserva l’aura, la sua visualità paradossale. Marin, invece, soffermandosi sulle opere di Philippe de la Campagne, s’interroga sul significato paradossale del “volto universale”, sulla persona che non è nessuno (personne), «volto universale di ciascuno che la morte di ognuno realizza». Ogni volto si annulla nel memento mori della nostra ultima espressione: sguardo vuoto, bocca aperta senza voce, “maschera di tutti”, ritratto che trova nell’anonimato della morte un’immagine (forse la propria); in altri termini, viso-ritratto di «una esistenza temporale singolare che acquisisce nella morte, nell’usura stessa del tempo sul corpo e sul viso morto, l’eloquenza muta e irresistibile dell’universale ultima verità 16 della vita». Quanto al “ritratto delle passioni, “ al di là dei tentativi della fisiognomia e della patognomia, o grazie anche a questi tentativi, come è incline a sostenere Hersant, la macchina pitturale, la grammatica delle passioni hanno valore conoscitivo. Non semplice imitazione o riduzione, la scomposizione geometrica del volto e l’artificiosa ricomposizione delle espressioni «ritracciano come segno ciò che la natura ha tracciato come indice», non riproducono ingenuamente somiglianze e analogie, bensì cercano attraverso l’artificio di tradurre e interpretare la natura nei suoi elementi essenziali. Precisa Hersant: «E’ per meglio rivelare la natura che nelle figure di Le Brun il gesto “istituito” toglie di mezzo il gesto “naturale”». Dal canto suo, Didi-Huberman rileva il carattere metamorfico, cangiante del volto e la sua inquietante “familiarità” con immagini ancestrali di voracità, di eccessiva prossimità e di attività vulcanica. Il volto, per eccellenza nudo, richiamerebbe ben altre nudità, altrettanto “oscene” (nel senso di “davanti alla scena”): luogo che trasforma lo spazio in cui compare, scena infernale di disordine e di effetti violenti, superficie aperta come una ferita o un frutto, aperta dalla voragine della bocca, giù a perpendicolo in antichi fantasmi dove l’alto e il basso si scambiano in un “magma tellurico”. Nel ritratto non si tratta tanto di stabilire chi sia il modello, o se l’artista sia stato “fedele”, bensì dobbiamo chiederci: Chi è l’autore del ritratto? Chi ritrae chi? Come si costituisce l’auctoritas? Marin si è a lungo occupato di questo aspetto a proposito soprattutto dell’autoritratto letterario, dell’autobiografia. Come porsi, infatti, autore di sé, della propria esistenza? Come scrivere: “io sono nato” o “io sono morto”, se non attraverso la machinerie della scrittura? Macchinazione, congenio, “invenzione” di figure di enunciazione che, nella loro artificiosità, innescano un dispositivo di auctoritas, dando cioè consistenza, spessore e identità a colui che si cerca nel “luogo” in cui stare come nome proprio. Molte figure concorrono a dare immagini a questo nome proprio, cercato in tutti gli umbratili profili di noi e degli altri sul muro dell’esistenza. L’ “io” diviene “me” solo attraverso l’incontro con l’altro, in incontri però di pura casualità che non prevedono né progetto, né riconoscimento dell’altro. Il soggetto nasce in un incontro “inavvertito” con il reale: «caso come incidente, accidente come occasione, il reale che in un istante ci cade addosso con tutto il suo peso». Ma solo après coup, quando l’incontro sarà già stato mancato, e l’occasione risuonerà come un’eco lontana, solo allora «il reale sarà passato e il soggetto preso per sempre nella rete dei segni». L’esperienza, e in particolare l’esperienza di sé come soggetto consistente, non si costituisce se non come eco, risonanza, controchoc di un’occasione che, persa nel reale, viene messa in forma nelle INTERVISTA “reti di segni”. E’ la voce dell’altro che mi fa “me”, che apre in me un luogo in cui possa “consistere” (e non riconoscermi). Tutto il lavoro all’opera nell’autobiografia è il tentativo di circoscrivere con i segni l’emergenza di quel luogo dove il soggetto ha risuonato per la prima volta come Me. Hersant, dal canto suo, ha rivendicato la relazione privilegiata fra ritratto e autorità piuttosto che fra ritratto e espressione. In altri termini, il ritratto (pittorico e/o letterario) metterebbe in forma non tanto una rappresentazione del volto “naturale”, portandone in superficie gli “autentici” tratti, quanto allestirebbe un congenio, una “mac- chinazione” in grado di dare autorità, cioè di costituire un “autore”. In particolare si è soffermato sui rapporti fra scrittura e melanconia per far toccare con mano come l’autore (anche come l’autore di sé) si costituisca solo a partire da montaggi, “collages” di immagini altrui e attraverso l’altrui. Altri è sia la tradizione letteraria di referenza, la propria “biblioteca”, sia la scrittura che costruisce, nel suo discorrere, nel corpo di un libro il corpo di un autore... E’ impossibile nominare se stessi se non passando per “travestimenti” successivi, impensabile consistere in un volto se non a partire dai mille ritratti possibili che siamo stati e che saremo: a partire, anche, da tutti coloro a cui abbiamo “rubato” un’immagine, ricalcato un’impronta, per dimenticare in fretta loro, per costruire, con calma, noi. “Ritratti d’autore”, dunque, dove autore non è sinonimo d’artista, bensì di attore/ agente implicato nella “fabbricazione” artificiosa della propria immagine “naturale”. Bizzarra “morale” del ritratto; morale, ben inteso, par provision: l’elaborazione dell’artificio verrebbe a “coincidere”, per coincidentia oppositorum, con l’esibizione di un naturale mai esistito, ragion per cui l’acuto Diderot rifiutava l’eventualità di zione; la seconda riannoda le fila della modernità all’ideale di una “nuova alleanza” fra domini differenti delle scienze. “posare”. Intervista a: Yves Hersant L’allegoria: storicamente trae la sua forza dalla religione e dalla retorica e si impone tanto più queste sono vigorose. Geograficamente, estende il suo Impero su tutta Europa, ma più nei paesi cattolici che a Nord. Culturalmente struttura tutte le rappresentazioni immaginabili, iconique o verbali, decorative o persuasive, con fini sia morali che cognitivi, politici e religiosi. Tecnica intellettuale al servizio della vertià, quanto tecnica emotiva facendo presa sugli affetti e le passioni, l’allegoria tende sempre a convertire, insegnare o convincere. Sotto spoglie umili o raffinate, la nostra cultura le assegna un ruolo eminentemente didattico: non perché semplifica bensì perché “intriga”; mettendo in opera una pedagogia del segreto, l’allegoria fa presentire dei misteri. (Yves Hersant) D: Ma questa “nuova alleanza” fra i domini del sapere parrebbe dipendere da una visione unitaria del cosmo... R: Per fugare ogni malinteso Le darò una risposta bruniana. Il cosmo non va pensato come una sfera: il cerchio, durante il Rinascimento, si è aperto all’infinità dei mondi. In Bruno non c’è solo la formulazione dell’infinità dei mondi come teoria cosmologica, bensì viene proposta una nuova visione dell’uomo: in una parola, il rapporto all’infinito va di pari passo con gli “eroici furori”, con l’elevazione e l’affermazione del sé. E’ un rapporto che decentra il mero io, ma che al contempo implica un’espansione autentica del soggetto, a condizione che sappia “attirare” a sé l’infinità del tutto. In questa prospettiva, è una logica dell'infinito che illuminerebbe la storia umana... Per contro, l’Umanesimo è stato da noi moderni spesso banalizzato e ci siamo abituati a pensare le contraddizioni in modo dialettico e per esclusioni: o è A o è B. La forza teorica del Rinascimento (e bisognerebbe per questo ristudiare seriamente Cusano, Bruno...) risiede nel tentativo di pensare insieme il problema del semplice e del composto, dell’uno e del molteplice senza portare soluzioni concettuali, dialettiche, mediatrici. E’ una cultura tesa al pensiero del cosmo nei termini di e... e, e non di o... o. D: Lei si definerebbe un intellettuale o un homme de lettres, i cui molteplici interessi aperti a raggiera sull’attività retorico-letteraria, sulle modalità di rappresentazione artistica dell’uomo rinascimentale, sulla storia della traduzione in Europa, e ancora sull’allegoria, punterebbero a un ideale di completezza e organicità culturale? R: No di certo. Intellettuale è una parola “anacronistica”. E’ una parola restrittiva e perfino arrogante: cara forse ai “tuttologi” e forse agli ideologi ma l’intervento ideologico va bene solo come cittadino. Anche la figura dell’ “homme de lettres” è riduttiva. Sono figure, direi, nostalgiche. Preferisco avere come riferimento privilegiato la cultura rinascimentale dove più che un ideale di organicità e di totalizzazione si tendeva a non porre cesure profonde e arbitrarie fa le scienze e le arti, le pratiche e le riflessioni teoriche. Il pensiero circolava liberamente fra le discipline e sulle strade di Europa. Certo è evidente che nella storia moderna si è prodotta una rottura tale che nessuno oggi può prendersi per Pico della Mirandola. In particolare nelle scienze esatte, dove la specializzazione è la parola d’ordine. D: Lei sta curando la traduzione francese delle opere di Giordano Bruno e lei stesso è traduttore non solo di Bruno, ma anche di numerosi autori antichi e moderni, fra l’altro anche di scrittori contemporanei italiani come Camon. Da dove ha origine quest’attività? R: La traduzione ha a che fare con due grandi problematiche, l’alterità e la molteplicità, affrontate non solo in termini astratti e teorici, ma anche nella “fatica” quotidiana della pratica e del mestiere. La traduzione è un lavoro complesso, che esula al contempo sia dalla mera imitazione, sia dal trasformismo, dal travestimento: al contrario, è cruciale la questione che s’interroga sul fatto se un traduttore sia a sua volta un autore, il che rinvia al rapporto fra identità e alterità, medesimo e estraneo/ straniero. Ancora una volta, ritengo molto interessan- D: Le rincresce di aver sbagliato epoca? R: No. Ma da un decennio almeno nel campo delle scienze umane si parla di un possibile neo-Rinascimento, o, per meglio dire, vi è un’attenzione crescente verso alcuni temi centrali del Rinascimento. Due sono le spinte principali: la prima è un rifiuto deciso del ghetto disciplinare e dell’ipertrofia della specializza17 INTERVISTA te la visione bruniana della traduzione. Premetto che si tratta di un pensiero molto difficile da ricostruire seguendone le tracce nei suoi scritti, così eterogenei per lingua (italiana o latina) e per argomenti. In ogni caso due punti mi paiono accertati: da un lato, per Bruno esiste un rapporto molto perspicuo fra cosmologia e traduzione, dall’altro, la traduzione richiede un lavoro inventivo non solo imitativo. La traduzione implica dunque un particolare rapporto con il mondo: in una formula si potrebbe dire, con Bruno, che poiché il mondo è in perpetuo movimento, la traduzione deve tradurre il cosmo infinito nella dimensione di una pagina: deve coglierne gli intrecci, gli intrichi per meglio dire. Non c’è una equivalenza fra le cose e le parole per cui il traduttore non deve mirare a una precisione formale e a un’imitazione “pedante”. Tradurre è ripetere il gioco del mondo, liberarne il senso attraverso la sperimentazione: da un lato, quindi il traduttore gravita attorno all’orbita dell’autore scelto, non ne indossa semplicemente i panni, dall’altro, libera la pagina dall’immobilità e dalla rigidità stessa del testo. E’ un movimento di va e vieni fra medesimo e altro, una “caccia” se vuole, che non esclude una certa violenza. un’attenzione tutta particolare ai dettagli, ai particolari, sia nel campo delle ricerche storiche, che artistiche. Di formazione sono un letterato e nel corso degli anni mi sono sempre di più convinto che i romanzieri hanno molto da dire sui problemi delle scienze umane. Ai miei tempi, negli anni ’60, per chi studiava si presentava questa frattura: da un lato le Belles lettres, dall’altro le cose serie. In realtà la letteratura, pensi alla concezione del romanzo di Kundera, ha dato un movimento particolare alle scienze umane. D: Ma quale metodo adottare se si privilegiano gli intrichi, i dettagli? R: Le potrei dire che il metodo è “il cammino una volta che è stato percorso”: viene après coup. Il mio fine nella ricerca non è tanto trovare un metodo quanto colpire un bersaglio, ossia fare centro, colpire al cuore. Lo pseudo Aristotele scriveva che il «buon arciere è quello che tira da lontano»: è una bella metafora per esprimere il lavoro della ricerca. Ogni tema implica più aspetti e variabili, così che per mirare giusto occorre porsi a distanza, aguzzare la vista, scorgere da lontano anche altri arcieri, lo storico, il semiologo per esempio: darsi più possibilità nella misura in cui si gode di più punti di vista. Chi sta troppo vicino non ha che una possibilità. D: Ma non teme che questa gravitazione sia dispersiva, che sia un momento di disgregazione dell’io? D: Ed è così che si svolgono i suoi seminari sulla R: Preferisco questo rischio “Storia e critica dell’Umaa quello della chiusura, delnesimo”, in particolare la rigidità: bisognerebbe negli due ultimi anni dediesercitarsi a pensare fuori Giorgione, La vecchia, Galleria dell’Accademia, Vene- cati all’esame delle teorie dalla logica binomica, ope delle pratiche del ritratto positiva, in particolare per quello che riguarda le scienze (pitturale e letterario) nell’Europa del XV e del XVI? sociali. Per quanto mi riguarda cerco, nell’avvicinarmi a temi estremamente “densi” come l’allegoria o la malin- R: Spero. Il seminario sul ritratto è stato motivato dal conia, di privilegiare la complessità, i crocevia, le impu- tentativo di cogliere, da più punti di vista, (pittorico, rità se vuole. Il fascino esercitato da autori come Bruno retorico, letterario, filosofico) come l’uomo rinascimenè dato dalla loro capacità di tirarsi fuori dai binomi tale concepisse e mettesse in opera nella pratica artistica oppositivi, di dare forma al molteplice senza perdere di la rappresentazione di sé, la propria umanità. Abbiamo vista un punto unitario. Gravitazione dispersiva? Questo così toccato con mano l’efficacia della mira da lontano, è possibile solo se ci si ostina a pensare a un universo di cogliendo così volta per volta le priorità, le poste in gioco, senso nei termini di chiusura con un centro ben preciso. le difficoltà teoriche e tecniche dell’autorappresentazioIn realtà gli autori del Rinascimento c’ invitano a pensare ne in ritratti individuali, collettivi, in ritratti fisiognomici a un mondo con più centri, senza una gerarchia prestabi- e di carattere, in ritratti di dettagli, negli autoritratti... lita, a più orbite, ciascuna delle quali importante e signi- Quest’apertura a compasso sul tema del ritratto si è ficativa di per sé. Significa anche fra l’altro prestare rivelata estremamente perspicua, in particolare ha evi18 INTERVISTA denziato quel rapporto non dialettico e non oppositivo, di cui Le dicevo, fra uno e molteplice, semplice e complesso, medesimo e altro, quale cifra possibile di un certo pensiero e “stile” rinascimentali. Rappresentare l’uomo significa esibirne l’intima alterità, il suo essere diviso fra bestialità e divinità. L’uomo porta in sé una dualità costitutiva e questa è uno dei luoghi comuni dell’artista rinascimentale, che per definizione è malinconico, sente lavorare dentro sé un altro: eppure, con il proprio lavoro creativo, misura e dà forma a questa sofferenza. Ecco un’altra obiezione all’intellettuale: non c’è solo l’intelletto, ma anche la psiche, il cuore, l’esprit e il ventre. D: E’ questa non fedeltà con sé stesso, quest’alterità intima che la “seduce”? Mi riferisco al fatto che Lei sta preparando per le edizioni Fayard un libro dal titolo: La séduction mélancolique, e con Jackie Pigeaud un testo sulla storia del concetto della malinconia fino a Freud, escluso. R: Sì. In primo luogo la malinconia è il luogo di quest’alterità intima: il malinconico, soprattutto il genio artistico, soffrendo si scopre diverso, ingaggia una lotta con sé, anima e corpo direi, spiando nella propria carne il lato animale, vegetale non animato, in una parola. Ma se da un lato la malinconia è paralisi, chiusura, non riconoscimento, dall’altro è strettamente intrecciata al piano culturale; è per così dire l’accesso privilegiato alla creatività culturale. Uno dei problemi centrali della malinconia è relativo al rapporto fra sofferenza e cultura: come mai la malinconia che può essere anche un minus, poiché l’uomo malinconico si rivela bestiale, duplice, irretito dagli “umori”, è anche “culturizzante”? La malinconia è questo mélange fra determinazioni fisiologiche, umorali e psicologiche (in senso lato), e non un’ispirazione divina che spinge a divenire altro da sé per folgorazioni, scatti violenti, momenti di discontinuità e ad accedere alla creazione artistica. Ma la malinconia al lavoro non ha a che fare con il lavoro del lutto freudiano: si tratta di un particolare rapporto fra corpo e anima, fra sé e mondo, che non mira a ricomporre le fratture o a convivere con gli scacchi dell’esistenza. Al contrario, si nutre delle ambivalenze, gioca sugli e con gli eccessi; può essere, paradossalmente, coincidenza degli opposti e mettere così insieme senza dialettizzarli il lato bestiale e il lato divino dell’uomo, le luci e le ombre. Per questo la malinconia “seduce” e può essere pericolosa per chi ne viene a contatto, perché è mille miglia lontana dalla mediocritas. E’ alterità e identità, unica e molteplice... D: Anche qui c’è il rischio di una disgregazione fra poli diversi e anche una mancanza di coerenza, di “fedeltà” a se stesso da parte del soggetto... R: Uno dei problemi più affascinanti della cultura rinascimentale è quello dell’auctoritas, in particolare nella retorica. In una formula, potrei dire che sono un antiromantico: non è l’espressione, l’espressività che occupa i miei interessi. Piuttosto è il problema dell’autore, del riconoscimento e dell’autoriconoscimento di un autore nonostante e grazie al decentramento, alla “spezzatura” dell’io. Non basta, in letteratura, distinguere fra narratore e autore e fare intervenire l’istanza di enunciazione, se poi ogni polo si richiude su di sé. Autori come Tasso, Bruno, sanno intrecciare queste istanze senza chiusure. La coerenza con se stesso, allora, può essere indice di ottusità: la “fedeltà” perseguita come un valore rigido può avere qualcosa d’immorale poiché è la negazione della costitutiva alterità ospitata dall’individuo, della sua non coincidenza con sé stesso in ogni istante. Fra la coerenza come costanza, immobilità, e la disgregazione non passa un’alternativa, ma una strada, per quanto stretta, su cui a ogni passo questo problema si ripropone. D: Un po' “lunatica”... R: In tristitia hilaris, in hilaritate tristis”... Yves Hersant è direttore di ricerca all’Ecole des Hautes Etudes nel quadro di un progetto dedicato alla storia e alla critica della cultura rinascimentale. L’originalità del suo approccio consiste nel non irrigidirsi sulle differenze dei generi letterari e artistici, bensì di studiare di concerto lo Intervista a: Louis Marin studio della rappresentazione e il suo significato nel Rinascimento. La radice comune infatti di pittura, scultura, scrittura sarebbe per Hersant da ricercare nella tradizione retorica. In questo senso Hersant dirige con altri una collana, presso le edizione Belles Lettres di Parigi, dal titolo: “Le corps éloquent”, che si occupa di tradurre e pubblicare dei testi brevi, ma preziosi, in cui la relazione per- la follia di Ippocrate, La cena delle ceneri e Il Candelaio di Giordano Bruno, Lezioni americane di Italo Calvino, Stanze di Giorgio Agamben, e numerosi romanzi di Ferdinando Camon. spicua fra figura e discorso è tematizzata esplicitamente (fra gli autori di questa collana: Luciano, Gorgia, Amyot, De Vega, Tesauro, Tasso). Sempre per le edizioni Belles lettres, sta curando l’edizione completa delle opere di Giordano Bruno. Direttore del “Centre Europe” si occupa fra altro di un seminario sulla storia della traduzione: traduttore a sua volta dal greco, dal latino, dall’italiano e dall’inglese (tra le sue traduzioni ricordiamo, fra altro: Sul riso e sentazione rigiocherà indefinitivamente, nelle immagini, nei ritratti, nei racconti la fine di questa perdita. (Louis Marin) D: Qual è il filo rosso che lega la molteplicità dei suoi interessi? Ciò che viene chiamato nell’età moderna “rappresentazione” può essere considerato come lutto dell’oggetto, del presente e del reale. In questo senso, ogni rappresentazione R: Quando divenni direttore di ricerca nel 1977, il mio progetto riguardava il sistema, o meglio i sistemi rappresentativi nell’epoca moderna. La rappresentazione è al centro del mio lavoro; in primo luogo perché è la cifra, la nozione chiave dell’epoca moderna, non modernista, ben può considerarsi malinconica. Il soggetto mai si consolerà della perdita del reale, della disappropriazione del mondo. . . La rappre19 INTERVISTA inteso. Le questioni cruciali del XVII secolo, la filosofia del soggetto, il rapporto fra imitazione e rappresentazione, l’attività di giudizio, sono state messe in opera dagli artisti, prima che dai filosofi. E così le opere artistiche, sia letterarie, sia pittoriche, architettoniche... hanno preceduto le formule filosofiche. Certo i sistemi di rappresentazione, pittorica, letteraria ecc. non sono stati sincronici per ispirazione, mezzi, contenuti, e questo spiega la “polivalenza” dei sistemi rappresentativi e anche dei miei interessi di ricerca. Per esempio il problema della rappresentazione è cruciale nel XVII-XVIII secolo anche nel dominio del politico: l’efficacia del potere è connessa anche alla sua teatralizzazione e alla messa in scena di questo potere. In questo senso è particolarmente intrigante il rapporto fra potere e rappresentazione nel caso del ritratto del re: storiografia, ritratti ufficiali, discorso, elogio del re..., tutto ciò concorre alla messa in scena del potere regale grazie alla forza della rappresentazione. lamento raffinato dei dispositivi di pensiero, in particolare dell’Eucarestia. La sua non è una critica, per così dire, dell’ideologia, quanto una critica di secondo grado della rappresentazione. In una formula: la filosofia della rappresentazione comporta ed è la critica di se stessa. Riprendendo un certo lascito foucaultiano direi che il mio lavoro di ricerca si avvale anche di una prospettiva critica ed è volto allo studio di un’epistéme della rappresentazione. D: Ma questo stile di ricerca volto alla costruzionedecostruzione di dispositivi di rappresentazione così differenti fra loro, a seconda delle epoche e dei mezzi, pittorici, letterari ecc., implica forse un lavoro “micrologico”, un’attenzione tutta particolare ai dettagli che potrebbe forse tralasciare una visione più globale? Un lavoro, insomma, di pura “erudizione”... R: E’ forse curioso e paradossale, ma per dare forza a una critica storico-sociale della rappresentazione da un punto di vista esterno, bisogna a mio avviso esercitarsi a fondo in una critica della sua logica immanente. Si è spesso rimproverato agli strutturalisti di trascurare l’esteriorità, il contesto, il quadro storico, ma io credo che entrando nel cuore dei problemi, per un approccio ravvicinato, microscopico, si debba ridisegnarne il profilo storico, contestualizzarli. La sola analisi della ricezione non è sufficiente. D: Ma questa nozione di rappresentazione, e la costellazione che comporta volta per volta a livello storico e culturale, non manca forse di una dimensione critica? R: Di primo acchito il mio lavoro parrebbe sprovvisto di una dimensione critica. Certo non mi pongo rispetto a un problema artisticoculturale della modernità come un giudice o un arbitro. Non mi pongo dal di fuori, dall’esterno. Ma questo non significa non avvalersi di un punto di vista critico. Al contrario, riten- Albrecht Dürer, San Gerolamo, Museo di Arte Antica, D: A proposito di strutturago che ogni sistema di raplismo, vorrei chiederle presentazione implichi nel proprio funzionamento la come è avvenuto il suo ingresso all’Ecole Hautes Etudes, propria messa in questione, comportando un’interroga- nata in opposizione agli studi accademici di filosofia, di zione costitutiva e una critica interna sui propri assunti, letteratura. mezzi, contenuti: nessun sistema è perfetto; comporta anzi dei punti deboli, qualcosa anche di “mancato” che R: La mia formazione è filosofica e... direi agregé e non è riducibile alla semplice accidentalità o alla anedot- normalien. La tesi di dottorato riguardava la logica di tica. La costruzione di un dispositivo implica la propria Port Royal. Per ragioni biografiche e esigenze intellettuadecostruzione, la messa in dubbio, l’esercizio dell’inter- li mi sono interessato al pensiero di Merleau-Ponty, in rogazione, la ricerca delle sfumature e delle falle... Que- particolare alla sua riflessione sulle strutture di comporsto vacillare, ondeggiare di ogni sistema richiede uno tamento corporali. Con Greimas abbiamo intravisto poi sguardo archeologico: in primo piano si pone la dimen- di sviluppare una semantica strutturale a partire appunto sione deconstruttiva dell’impianto della rappresentazio- dal comportamento. Ha preso così forma un progetto ne. Pensi alla riflessione di Pascal riguardo alla logica di volto ad articolare una ricerca filosofica a partire da una Port Royal: la sua è una critica dall’interno, uno smantel- formazione, all’epoca ancora pionieristica, linguistica e 20 INTERVISTA semantica. L’interesse allora per le scienze sociali, e in particolare per la rappresentazione “visiva” artistica, è venuto direi naturalmente. Con Barthes ho lavorato in seguito sul racconto evangelico e sulla semantica delle passioni. Questo incrocio fecondo di approcci, filosofico e semiologico, ancorato al piano storico è un po' la cifra delle ricerche all’Ecole che privilegiano l’interdisciplinarietà, le transizioni e le passerelle fra i domini storici, artistici, semiologici, filosofici: la filosofia stessa si definisce in un rapporto complesso con le scienze sociali, la letteratura, la storia dell’arte. anticipazione al contempo, di una realtà virtuale a venire. Questo virtuale è in ogni caso il possibile, la latenza e la forza che giacciono in potenza nella società presente. La promessa di felicità risiede nella finzione, non nella rappresentazione tout court: nella messa in gioco dello spazio utopico, che è un non luogo, nelle tracce paradossali della speranza. D: Nella prospettiva della ricerca sul ritratto e sulla rappresentazione, l’autoritratto così come l’autobiografia costituiscono un tema privilegiato e ricco d’insidie... R: E’ uno dei miei interessi principali: nell’autoritratto c’è qualcosa di vertiginoso, poiché esso costituisce il culmine del funzionamento della rappresentazione: qui è il soggetto della presentazione che si autorappresenta. Il movimento riflessivo raggiunge il suo punto di maggior tensione: si ha come un tourniquet, nel senso che il dispositivo di rappresentazione può perfino incepparsi. L’autoritratto implica il problema del soggetto dell’enunciazione; nell’autobiografia le pratiche di scrittura istituiscono spesso un soggetto simulacro dell’enunciazione, che non può mai apparire come soggetto d’enunciato. Il problema è come scrivere la propria autobiografia, come trasformare l’io in oggetto rappresentato. Ecco allora intervenire la scrittura come “macchinazione”, che permette di captare, intercettare il soggetto dell’enunciazione come tale. Pensi per esempio a Sant’Agostino, alla sua conversione: è come se, nelle Confessioni, un’altra voce di se stesso gli permettesse di parlare di sé. Si tratta di una voce infantile, di un ritornello di altri tempi tolle lege: un buco, un bianco nel testo, per dire questo altro da sé che è pur sempre il sé della propria biografia. Numerosi sono gli esempi di scrittura autobiografica: Stendhal, Montaigne..., in cui la nozione chiave è quella del soggetto dell’enunciazione che nella narrazione, come sottolineava Benveniste, viene in qualche modo nascosto, occultato. Così, per il pittore la questione cruciale è: quale soggetto dipingere? In quale momento della vita? Ogni autoritratto “negozia” una duplice relazione, con la propria vita e con la propria morte, da parte di un soggetto che le enuncia, senza avere il ricordo dell’inizio, né l’esperienza della fine. D: Cosa può trovare uno studente, un ricercatore nella comunità scientifica dell’Ecole? R: Un certo piacere nella ricerca, una certa creatività. Infatti l’oggetto della ricerca da parte degli studenti e dei ricercatori è spesso costruito e non trovato nel repertorio dei soggetti classici. Si costruisce un oggetto a partire da intuizioni, ipotesi spesso di confine tra domini differenti, sollecitate da interrogativi incrociati sulla storia dell’arte, sulla rappresentazione, sulle poste in gioco teoricofilosofiche. In più, si privilegia lo scambio, il dialogo in piccoli gruppi di ricerca, in seminari: io stesso con i miei studenti di dottorato mi considero semplicemente un unus inter pares. D: Vorrei porLe qualche domanda sui temi a cui ha dedicato una particolare attenzione. L’utopia per esempio... R: Il tema dell’utopia mi è particolarmente caro. Nel quadro di una storia della rappresentazione offre una complessità molto significativa. Da un lato l’utopia è un ritratto, una topografia per quanto immaginaria: Lei sa infatti che nel XVII secolo la mappa di una città si chiamava “ritratto” e questo nesso fra mappa, tratti e ritratto mi pare molto perspicuo nel campo della rappresentazione come attività spirituale, artistica, tecnica... D’altro lato, nel transfert dell’utopia immaginaria alcuni tratti cadono, vengono tralasciati, così che la “realtà” si trova spiazzata, posta su un altro piano, su un secondo grado di rappresentazione. Nel caso dell’utopia, penso al testo principe, l’ Utopia di More, la mappa-ritratto che fa vedere il “luogo” è senza luogo, è una finzione, un façonnement e un modelage del luogo e dello spazio. L’utopia è un ritratto mobile, un prodotto attivo proprio per la sua messa in forma paradossale di realtà e di finzione nel cuore della medesima rappresentazione. E’ un vulcano in attività. D: Questa distanza fra vita e morte che il soggetto deve “negoziare” per autorappresentarsi rinvia a un terzo elemento, mi sembra, fra medesimo e altro, a un’istanza neutra. Non a caso per esempio in Lectures traversières non pochi interventi sono dedicati a queste istanze “neutre”: l’angelo, l’androgino, l’utopico. Cosa significa quest’attenzione per il “neutro”: è forse un’istanza polemica rispetto alle filosofie della rappresentazione dualistiche, binomiche, centrate sull’opposizione originale-copia? D: A proposito della mappa-ritratto dell’utopia senza luogo, Lei pensa all’utopia come il ritratto possibile di una promessa di felicità? Potrebbe essere anche una falsa promessa, un’illusione... R: L’attenzione per l’istanza neutra, terza, è per me un punto di inizio, non un fine in se stesso. E’ la ricerca di un polo non sintetico, non mediatore che rifiuti ogni pensiero binario di stile strutturalista centrato sull’opposizione dei contrari. Il neutro è appunto la negazione simultanea dei contrari e non la semplice negazione dialettica: R: La finzione utopica non è solo un ritratto bensì il ritratto di una realtà virtuale. Non si tratta di una semplice proiezione o di evasione: riprendendo la nozione di utopia di Bloch, in particolare quella contenuta in Tracce, direi che l’utopia si presenta, per tracce, come attesa, e 21 INTERVISTA l’androgino è il terzo sesso, che non è un sesso, l’angelo non è umano, né del tutto divino... In altri termini è la ricerca di uno spazio attivo, non inerte, in grado di cogliere la differenza generica, la cifra di un’origine come fondamento “critico”. In questo momento penso a Deleuze, a Differenza e ripetizione: qualcosa come un effondrement, l’apertura di uno scarto. Tutto ciò a condiciazione sarebbe un neutro anonimo, identificato solo dalla macchinazione letteraria, o quanto meno artistica? R: Eh sì! In fin dei conti è il “non” che identifica. Pascal potrebbe fornire una risposta. Pensi al suo modo di firmarsi: Pascal, Damas, Jesus... C’è quasi un’estenuazione del nome, una struttura intessuta di ossimori per nominare il nome dell’altro. Per esempio Salomone come re saggio e Gesù come saggio folle, solo che Salomone ha bisogno della lettera s (jesus), che è la lettera mancante, il neutro e l’anonimo. In primo piano balzerebbe il ritratto anonimo della scrittura. Louis Marin è scomparso a Parigi il 29 ottobre 1992. Possiamo leggere in molte sue pagine, suggerisce Jacques Derrida, «una meditazione - ostinata, infaticabile, rinnovata - su tutte le figure, esperienze o approcci riguardanti la morte, il lutto e la sop ravv iven za». Meditaz ione incroc iata, fin dall’in izio, nella riflessione al contempo filosofica e storica sui sistemi di rappresentazione (filosofici, artistici, retorici, politici) dell’epoca classica. Forte di un pensiero diamantino e di una spiccata intuitività, Marin ha inte so i sistemi di rappresentazione non nella prospettiva zione che il neutro sia pensato come una potenza anche terrifica di neutralizzazione dei contrari, una forza corros i v a . D: Sembrerebbe quasi che l’ultima parola sull’autoritratto sia l’anonimato: il soggetto autentico dell’enun- esclusiva di una teoria dell’arte o di una semiotica della rappresentazione, bensì ha coniugato strumenti semiotici, duttilità retorica, rigore filosofico, colpo d’occhio e sensibilità artistica, per interrogare e cogliere sul fatto le sovrastratificazioni di senso della rappresentazione, i “trabo-cchetti” della narrazione, i “doppi fondi” della pittura, gli effetti politici dell’im-magine. Potere sedu ttivo, a vo lte ing an-n atore, dell’immagin e, come Marin ha dimostrato nel suo studio Le portrait du roi (1985), una delle opere più originali degli ultimi anni. Ma l’immagine e la pittura (gli amati Poussin, Philippe de la Champaigne) non devono far dimenticare i suoi studi incisivi sul linguaggio, a partire dalla logica di Port Royal (La logique du discours. Les Pensées de Pascal et la logique de Port-Royal, 1975). Attento alle falle e ai co mplessi dispositivi dell’enunciazione, Marin si è a lungo occupato del problema della ”auto-biografia”, in cui più perspicuo è il nesso fra enunciato e enunciazione. Qui la rappresentazione mette in opera una voix e xcommun iée (La voix excommuniée. Essai de mémoire, 1983); la scrittura s’ingegna a restituire l’attimo sorgivo del proprio sé nella necessaria, ma imbaraz-zante permanenza dei segni. Gli studi consacrati alle Confessioni di Sant’Ago-stino, a Rousseau, a Montaigne hanno davvero “fatto scuola”. Lo sguardo acuto e penetrante di Marin si è posato anche sulle dinamiche proprie allo spazio figurale e pittorico: fra gli altri, campeggia un testo maggiore, riferimento obbligato per filosofi e storici dell’arte: Opacité de la peinture. Essai sur la représentation au Quattrocento (1989). Qui il termine “opacità” non concede n ulla all’ineffabilità o a generiche invisibilità dietro la superficie dipinta. Al contrario, Marin vuole dimostrare come con materiale visibile (figure, colori, disegno ecc.) la pittura riesca a mettere in opera l’invisibile, le incertezze inquietanti. Opaca è la natura del segno, che può essere al contempo cosa e rappre-sentazione, dando luogo a traspa-renze offuscate e a presenze diafane, che lasciano intravvedere come segno ciò che nascon-dono come cosa. L’intensa attività culturale, la familiarità con la scrittura, la forte impronta da lui lasciata su colleghi, studiosi e allievi, è dovuta alla sua «intelligenza luminosa e generosa», come sottolinea Derrida, alla sua disponibilità «sempre pronta a comunicare l’entusiasmo della scoperta e a restituire l’impressione del primo mattino». La stima condivisa per l’opera di Marin è motivata, osserva Hubert Damisch, dal carattere “polimorfo”, ma rigorosissimo, delle sue ricerche. Filosofo sofisticato ma cristallino, Marin era personaggio pubblico estraneo a ogni eccesso o snobismo. Uomo dalle vigorose Bibliografia delle opere in volume strette di mani e d’infinita pazienza, studioso entusiasta, ma ponderato, Louis Marin ha lasciato un exemplum felice di pensatore che va dritto al cuore e al cuore dell’intelligenza. L’ultima pagina di Lectures traversières riporta, isolata, una citazione di Pascal che così recita: «Je n’admire point l’excès d’une vertu, comme de la valeur, si je n’en vois en même temps l’excès de la vertu opposée, comme en Epaminondas, qui avait l’extrême valeur et l’extrême bénignité. Car, autrement, ce n’est pas monter, c’est tomber. On ne montre pas sa grandeur pour être à une extrêmité, mais bien en touchant les deux à la fois et remplissant tout l’entre-deux. Mais peut-être que ce n’est qu’un soudain mouvement de l’âme de l’un à l’autre de ces extrêmes, et qu’elle n’est jamais qu’en un point, comme le tison de feu. - Soit, mais au moins cela marque l’agilité de l’âme, si cela n’en marque l’étendue» (Pensées, Brunschvicg, 353). Etudes Sémiologiques. Ecritures, peintures, Klincksieck, Parigi 1971 Sémiotique de la passion, Aubier, Parigi 1972 Le récit évangélique, Aubier, Parigi 1973 22 Utopiques, jeux d’espaces, Minuit, Parigi 1973 La critique du discours. Etude sur les pensées de Pascal et la logique du Port-Royal, Minuit, Parigi 1975 Détruire la peinture, Galilée, Parigi 1977 Le récit est un piège, Minuit, Parigi 1978 La voix excommuniée. Essai de mémoire, Galilée, Parigi 1983 Le portrait du Roi, AUTORI E IDEE AUTORI E IDEE Veracità della conoscenza LA VÉRACITÉ. ESSAI DE PHILOSOPHIE NÉGATIVE (La veracità. Saggio di filosofia negativa, Verdier, Parigi 1993) recita il titolo del libro di Guy Lardreau, che raccoglie in sistema gli elementi sparsi del suo pensiero. Con quest’opera Guy Lardreau, che ha conosciuto la militanza politica nelle file della sinistra maoista e si è poi isolato in un silenzio di riflessione e di approfondimento di alcuni motivi fondamentali del suo pensiero, ne propone qui una sintesi libera da «qualsiasi preoccupazione apologetica, da alcun obbligo di marcare una continuità». Nessuna nota, nessun apparato critico supporta il testo di Lardreau, che della sua concezione rivendica un carattere non dimostrativo, ma “sinfonico”, dove gli autori classici della filosofia sono convocati così afferma l’autore - «non per essere chiariti, ma soltanto nel momento in cui mi fanno luce». La critica della conoscenza, che l’autore propone opponendo il concetto di veracità a quello - più ontologicamente marcato - di verità, segnala un impianto filosofico kantiano, evidente nella tripartizione dei capitoli dell’opera, che trattano rispettivamente dell’attività teoretica, pratica (morale e politica) e poetica. A dare unità a queste diverse caratterizzazioni dell’agire è il soggetto, cui spetta un ruolo costitutivo: «A questo titolo - sostiene l’autore - la filosofia proposta accetterebbe volentieri (...) d’essere considerata una filosofia della spontaneità». In questa prospettiva viene ripresa l’analisi lacaniana del discorso razionale in funzione del nodo costituito dal Reale, dal Simbolico e dall’Immaginario. La caratterizzazione “negativa” della filosofia risiederebbe nell’assunzione razionale dei limiti della razionalità e nella consapevolezza che il Reale non è la realtà. Lontano dalle illusioni di un sapere che progredisce verso la conoscenza ultima, come pure da vie di fuga già vanamente battute: le strade della rivelazione mistica o dell’indifferenza del relativismo, Lardreau sostiene il carattere di verità razionale della filosofia negativa, dal momento «che la Ragione esige nientedimeno che il prendere su di sé la propria negazione». Una negatività che ha una dimensione ad un tempo esistenziale e ontologica; gli uomini infatti, davanti all’esistenza, provano qualcosa «come l’effetto di una caduta, che non ha soltanto “avuto luogo”, ma che dura; caduta continua, (...) che certo non è altro che la loro maniera di accedere al tempo». Appartiene dunque all’uomo un sentimento nostalgico, eminentemente negativo, che - come vuole Lardreau - esprime il modo attraverso il quale «l’anima tiene al reale». E.N. I luoghi della memoria Ultimo tomo di un considerevole lavoro storico-enciclopedico, LES LIEUX DE LA MÉMOIRE (I luoghi della memoria), diretto da Pierre Nora, è stato da poco pubblicato in tre volumi LES FRANCE. I: CONFLITS ET PARTAGES; II: TRADITIONS ; III: DE L’ ARCHIVE À L’ EMBLÈME (Le Francie. I: Conflitti e divisioni; II: Tradizioni; III: Dall’archivio all’emblema, Gallimard, Paris 1993). Questo progetto colossale (ogni volume consta di un migliaio di pagine), nato nel 1984, si caratterizza per un particolare modo di scrivere e di elaborare la storia a partire non dai “fatti” bensì dalle “rappresentazioni” collettive, “luoghi della memoria” come monumenti, celebrazioni, emblemi, folklore, culinaria, che nel loro insieme costituirebbero un’autentica “identità” nazionale. Pierre Nora è l’iniziatore e il direttore di questo monumentale progetto. Ben inteso: “monumentale” in senso letterale, visto che si tratta di un’impresa mirante a reperire i punti di cristallizzazione della memoria nazionale francese, in primo luogo i monumenti, o per meglio dire la memoria fissatasi in “monumento”: Panthéon, piazze celebrative, archi, piramidi, centri culturali; ma anche, feste, emblemi, specialità gastronimiche, costumi sociali... Il primo volume, Conflits et partages, porta non tanto sull’unità nazionale, quanto sui conflitti e sulle divisioni della memoria nazionale. La storia francese pare così rias23 sumersi attraverso coppie antagoniste, ma inseparabili: franchi e galli, cattolici e laici, cattolici e ugonotti, “gaullistes” e comunisti, metropolitani (o meglio: parigini) e non metropolitani (la “France profonde”). Il secondo volume, Traditions, tratta delle “tradizioni”. Tradizione - afferma Nora - è «una memoria divenuta storicamente cosciente di sé». In questo modo si declina una Francia ancorata alle proprie tradizioni locali, presa fra una memoria a volte obsoleta e il tentativo di rivitalizzare le proprie radici. Il terzo volume, De l’archive à l’emblème, parrebbe una “duplicazione” interna alla problematica della memoria: archivi e emblemi. Se il primo termine porta soprattutto sui luoghi più “discreti” della memoria nazionale (registri notarili, archivi amministrativi...), il secondo è centrato sulla memoria “simbolica”, sugli “hauts lieux”: personaggi, bandiere, emblemi, monumenti che rappresentano la “mitologia nazionale”. Conclude il volume la riflessione sul “genio” della lingua francese, sicuramente il luogo della memoria più consensuale. Una serie nutrita di incontri e dibattiti di ogni genere hanno registrato un vivo interesse per quest’archiviazione monumentale della memoria nazionale, ma anche ne hanno sottolineato i punti critici. Molto critica nei confronti di quest’opera è stata la storica Arlette Farge, la quale ha qualificato il metodo storico usato per questi Lieux come “imperialista”: esso costringerebbe lo storico a curvarsi sul nazionale (nazionalistico?), cristallizzandosi nell’autocelebrazione (pericolosissima) del passato. Anche a Georges Duby questo ripiegamento su di sé, che esclude lo sguardo di altre memorie (gli stranieri in e fuori dalla Francia; l’analisi comparitivistica fra memorie di diversi paesi, fra l’Europa e l’Oriente ecc...) non è affatto apparso un segno di buona salute. A queste accuse Pierre Nora si difende sostenendo che questo sguardo mnestico è un atto di modestia, connesso a un forte senso del “presente”. La storia tradizionale infatti, volta a cogliere quanto del passato potesse essere utile all’avvenire (sotto forma di: restaurazione, progresso, rivoluzione) è obsoleta, poiché il futuro stesso pare sempre vecchio e mai prossimo. F.M.Z. AUTORI E IDEE L’ultimo francofortese All’età di novantadue anni, è scomparso il 21 gennaio 1993 Leo Löwenthal. Studioso di sociologia della letteratura e di storia della cultura, analista e critico della cultura di massa e dell’industria culturale, Löwenthal era considerato l’ultimo esponente della Scuola di Francoforte della generazione di Adorno, Benjamin, Horkheimer e Marcuse. Rispetto agli altri esponenti del gruppo di pensatori dell’Institut für Sozialforschung di Francoforte, Leo Löwenthal godeva di una relativa fama. In Italia, ad esempio, dove i pensatori francofortesi sono stati oggetto di un vero e proprio culto, la sua opera principale, Literature and the Image of Man (La letteratura e l’immagine dell’uomo, 1957), non è mai stata tradotta e altri suoi lavori hanno attirato l’attenzione solo di piccoli editori: Letteratura, cultura popolare e società (Liguori), Per una teoria critica della letteratura (Flaccovio), Il rogo dei libri (Il Melangolo), L’integrità degli intellettuali (Solfanelli). Fedele all’immagine dell’intellettuale critico e radicale, cara anche agli altri esponenti del gruppo francofortese, Löwenthal metteva in guardia dal considerare lui e i suoi illustri amici come parte di una “scuola”, ed evidenziava come ciò che accomunava personaggi come Adorno, Benjamin e Marcuse fosse lo spirito di indipendenza e l’avversione per le scuole, sin nelle forme della scrittura: “La parola ‘scuola’ non ha senso. Non avevamo testi sacri. Non avevamo discepoli. E in un certo senso non scrivevamo neppure libri: Adorno aforismi, Marcuse solo lunghi saggi, io addirittura articoli. L’unica scuola a cui ci sentivamo di appartenere era la scuola dei contrari”. Con gli altri pensatori francofortesi Lîwenthal condivide l’origine ebraica e il destino dell’esilio negli anni del nazismo (sarà lui l’ultimo del gruppo ad abbandonare la Germania, il 2 marzo 1933, due giorni prima che i nazisti facessero irruzione nelle stanze dell’Istituto per la Ricerca Sociale). Nella sua autobiografia, Non ho mai voluto collaborare, Löwenthal ripercorre le tappe principali della propria vita: l’abbandono della Germania e gli anni trascorsi fino all’ultimo negli Stati Uniti, dove fu professore di Sociologia nell’Università di Berkeley. Storico e teorico della letteratura, Löwenthal dedicò le proprie forze non solo all’analisi ideologica e filosofica del fenomeno letterario ma anche allo studio dei suoi aspetti sociali (ad esempio la ricerca sui gruppi di lettori di Dostoevskij nella Germania degli anni Venti e Trenta) e allo studio della cultura di massa e di quella che Theodor W. Adorno e Max Horkheimer chiamavano “industria culturale”. A questo proposito bisogna ricordare l’analisi condotta da Löwenthal sulle biografie di personaggi celebri, apparse sulle riviste popolari negli Stati Uniti nei primi quarant’anni del nostro secolo. Qui, cogliendo con precisione quella che si sarebbe rivelata una tendenza (fino a oggi) duratura, Löwenthal indicava uno spostamento dell’interesse del pubblico dalla vita di industriali, banchieri e rappresentanti della cultura cosiddetta “alta”, in senso tradizionale, a personaggi della musica leggera, del cinema, dello sport e dello spettacolo. Egli - come leggiamo in una lettera a Horkheimer del 3 febbraio 1942 - considerava questo fenomeno come espressione di aspirazioni alla felicità che non trovavano realizzazione nel mondo quotidiano e nella storia; una diversa espressione dell’utopia marcusiana di una vita liberata, nel senso del principio di piacere, e di quella “nostalgia dell’altro” che, secondo Martin Jay, costituisce un motivo comune ai pensatori francofortesi: «Questo fenomeno contiene anche il sogno dell’umanità futura che potrebbe accentrare i propri interessi nella felicità, non nella durezza del lavoro, nella gioia dei beni sensuali nel senso più ampio del termine. Mentre, da una parte, l’informazione storica diventa per le masse una trappola fatta di menzogne e un ridicolo cumulo di fatti e delle figure più insignificanti, le stesse masse, proprio nel loro interesse per questa gente e nei loro modi di consumo, rivelano una nostalgia per una vita fatta d’innocenza». In Germania le opere complete di Leo Löwenthal sono pubblicate presso l’editore Suhrkamp di Francoforte: il primo volume raccoglie gli studi sulla letteratura e sulla cultura di massa, il secondo le analisi dedicate al romanzo borghese, il terzo quelle sulla psicologia collettiva, il quarto le lettere e gli scritti sparsi. Le opere filosofiche giovanili di Löwental saranno pubblicate a cura dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici presso la casa editrice Guerini e Associati di Milano. M.M. Axel Honneth e il progresso sociale Se negli ultimi cinquant’anni si è avuta l’impressione che la constatazione della morte di G. W. F. Hegel fosse ormai irrevocabile, bisogna tuttavia riconoscere che finora egli è sopravvissuto a ogni tentativo di sepoltura spirituale: troppo complesso e stimolante è il suo pensiero perché lo si possa mettere da parte con l’etichetta di “metafisica”. Di queste potenzialità di interesse è testimonianza anche il nuovo libro di Axel Honneth, KAMPF UM ANERKENNUNG . ZUR MORALISCHER GRAMMATIK SOZIALER KONFLIKTE (Lotta per il riconoscimento. Sulla grammatica morale dei conflitti sociali, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1992). Un’ espressione 24 del giovane Hegel, la “lotta per il riconoscimento”, costituisce qui il punto di partenza di una teoria della società che vuole far fronte alle esigenze dei tempi. La prima parte dell’opera di Axel Honneth è dedicata alla discussione di quei progetti filosofici, alla cui stesura Hegel lavora quando non è ancora un famoso professore berlinese, ma un semplice Privatdozent a Jena. La sua idea speculativa fondamentale consiste nel progetto di una teoria dei diversi livelli del riconoscimento sociale. Attraverso i livelli dell’amore, del diritto e della solidarietà o - come scrive Hegel della “eticità” (Sittlichkeit) si danno tre forme del riconoscimento, nelle quali l’essere umano viene riconosciuto dapprima emozionalmente come intero, poi formalmente come persona giuridica e infine come particolarità individuale. Poiché però il pensiero di Hegel, anche nel periodo jenese, è legato a presupposti metafisici, sovratemporali, Honneth si sottopone nella seconda parte del suo libro al compito di mettere alla prova empiricamente l’idea speculativa di fondo. Ciò avviene, da una parte, attraverso un riferimento alla psicologia sociale di George Herbert Mead, dall’altra sulla base di ricerche psicologiche e storico-psicologiche. Su entrambi i piani il risultato è che il modello hegeliano resiste ad una riflessione scientificamente disincantata. Così, con l’aiuto delle teorie psicoanalitiche, l’amore può essere concepito come un forte legame affettivo tra poche persone in cui si tratta di produrre un equilibrio tra autonomia e dipendenza, tra il desiderio di essere soli e il desiderio di fusione. Questo equilibrio è costantemente in pericolo e assume le diverse forme di una lotta. Le esperienze delle relazioni d’amore familiari, amicali ed erotiche non possono certo venire estese ad altre relazioni sociali, ma contengono già un nucleo di carattere morale, che si sviluppa poi ai livelli del diritto e della solidarietà. Qui si tratta del fatto che i cittadini di una comunità si considerano uguali in quanto membri di una comunità giuridica e imparano a considerarsi disuguali, individui, in quanto membri di una comunità di valori. Qui il riconoscimento reciproco si mostra nell’attenzione e nella valutazione. Lo studio di Honneth offre in particolare una risposta alla questione del modo in cui si possono spiegare i processi del mutamento sociale. Le società si trasformano perché sono costruite sulla base delle obbligazioni morali implicite nella triplice relazione di riconoscimento. Nei conflitti sociali si esprime così non solo un interesse di gruppo, ma anche lo sviluppo morale delle società. Non si tratta solo della povertà, ma anche del diritto e della dignità. I conflitti sociali seguono una “grammatica morale” e regole che sono pre-date attraverso le diverse forme del riconoscimento. AUTORI E IDEE Leo Löwenthal L’Institut für Sozialforschung di Francoforte sul Meno, 1924 25 AUTORI E IDEE In questa prospettiva una filosofia sociale sostenuta scientificamente raccoglie l’eredità della vecchia filosofia della storia. Nella terza parte del suo studio, Honneth mette in rilievo un “concetto formale dell’eticità” come più elevato punto di riferimento. Il movimento della sua argomentazione è chiaro e integrato, un movimento quasi circolare di impratichimento, che sviluppa l’idea fondamentale con un interesse al compimento e che la rende pregnante attraverso la ripetizione. L’opera presenta motivi di riflessione. La “grammatica morale” vale ad esempio non per tutte le società, ma solo per quella moderna, costituita secondo il modello dello stato di diritto. L’esigenza di validità universale del principio del riconoscimento viene con ciò limitata. Esso può motivare ad un agire morale e alle lotte sociali, ma può legittimare il riconoscimento solo nel contesto della modernità. Con ciò un filosofo che pensa in modo post-metafisico può dichiararsi soddisfatto. J.F. Derrida: le interviste E’ lo stesso Jacques Derrida che ha deciso di raccogliere in volume, e successivamente di pubblicare, le interviste che nel corso degli anni hanno accompagnato la sua ricerca, facendo rientrare a pieno titolo nella sua opera anche questa produzione marginale, per non specialisti, che generalmente è così difficile da collocare. POINTS DE SUSPENSION . ENTRETIENS. (Punti di sospensione. Interviste., Galilée, Paris 1993) permette così di ripercorrere vent’anni di lavoro e di scrittura di questo autore, offrendo una via d’accesso ad un pensiero che disorienta proprio per la difficoltà che sempre si affaccia quando si cerca di ritrovarne i punti di riferimento. Si tratta per lo più di indicazioni biografiche, riflessioni che colgono l’occasione dell’attualità, per poi approfondirsi in tematiche squisitamente filosofiche, considerazioni e punti di vista che fanno luce su di una soggettività e insieme su di un metodo, la pratica della decostruzione, che qui diventa trasparente proprio mettendosi in opera su tracce ben visibili, dalla tossicodipendenza al tentativo di riformare l’insegnamento della filosofia. Ma vi è anche l’interrogarsi quasi ossessivo su cosa sia un’intervista, sulle modalità di un discorso rivolto ad un pubblico che non è il proprio e quindi sul ruolo dell’intellettuale nel suo rapporto con i media, con il pubblico e con il politico. Soprattutto ciò che traspare è il tentativo di ridefinire il rapporto tra gli intellettuali e il politico, attraverso una metodica decostruzione del modello sartriano: un modo del tutto attuale di essere apolitico è quello che modula il proprio atteggiamento su codici e retoriche pressoché istituzionalizzate, e pertanto prevedibili e sin dall’inizio neutralizzate. Come egli stesso ha più volte ribadito, non esiste una «filosofia» di Jacques Derrida. Esiste un confronto, una esplicazione di Derrida attraverso i testi che analizza e che di conseguenza lo obbligano ad esporsi alla loro luce o alla loro oscurità. E soprattutto esiste un “idioma”, che è uno stile di scrittura che ogni volta si sforza di cambiare accento per eludere le aspettative, giocando a svelarne i presupposti. Particolarmente significativo diventa quindi il testo dedicato alla lingua della filosofia, costruito a partire dalla domanda che si interroga sulla possibilità di tradurre la filosofia, sullo sfondo del presentimento che essa possa invece essere consustanziale ad una lingua e ad una tradizione. E proprio il diretto riferimento alla tradizione nazionale lascia emergere la difficoltà di pensare il nazionalismo, difficoltà che prende forma nella contraddizione tra la necessità di difendere le lingue minoritarie e l’esigenza della comunicazione, che non può che avvenire su di un terreno comune. Un esempio di come, per Derrida, le questioni filosofiche debbano sfociare in quelle concernenti la responsabilità etica e politica, facendo coincidere la pratica della decostruzione con una volontà di democratizzazione. M.V. La debolezza dell’Io E’ recentemente apparsa la nuova traduzione di un’importante opera giovanile di Jean Paul Sartre, il suo primo, vero e proprio scritto filosofico, LA TRASCENDENZA DELL ’EGO. UNA DESCRIZIONE FENOMENOLOGICA (traduzione e cura di Rocco Ronchi, EGEA, MIlano 1992), che contiene non solo i presupposti teoretici del periodo “fenomenologico”, ma anche alcuni spunti che saranno alla base dello sviluppo successivo del pensiero di Sartre. A questo testo può essere accostata la più recente raccolta di saggi di Pier Aldo Rovatti, TRASFORMAZIONI DEL SOGGETTO. UN ITINERARIO FILOSOFICO (Il Poligrafo, Padova 1992) che, a partire anche dalla riflessione sartreana, ricostruisce una delle fonti del “pensiero debole”, quella che prende le mosse dal tentativo di ricostruzione di una nozione di soggettività. Ne La trascendenza dell’Ego il punto di partenza della riflessione di Jean Paul Sartre consiste nella constatazione della non originarietà della determinazione dell’Ego nei confronti dei fenomeni riguardanti il manifestarsi della soggettività. Sartre rileva, infatti, come la tesi kantiana relativa all’esigenza di un Io trascendenta26 le, che accompagni e unifichi le rappresentazioni soggettive, si ponga come un “dover essere”, come esigenza di fronte al fatto che l’unità delle rappresentazioni precede l’Io ed è indipendente da esso, e in essa si fonda la possibilità dell’unità dell’Ego, e non viceversa. Questa constatazione fattuale, caratteristica dell’approccio fenomenologico, porta appunto Sartre a definire il campo del trascendentale come “coscienza”, come livello, cioè, pre-individuato, non riflesso, caratterizzato da un’essenziale spontaneità, rispetto al quale l’Io è dunque trascendente, passivo, agito. Sebbene Sartre rimproveri allo Husserl di Idee di aver ricondotto all’Ego, con una sovrapposizione indebita, le manifestazioni originarie proprie della coscienza, Rocco Ronchi, curatore di questa edizione di Sartre (che segue quella, risalente al 1971, a cura di Nestore Pirillo), rileva d’altra parte come in questo saggio, proprio nella determinazione del livello coscienziale, Sartre sia più debitore a Husserl di quanto egli stesso non mostri di credere. Nel suo ampio saggio introduttivo, dedicato al “bergsonismo di Sartre”, Ronchi sostiene, a dispetto degli espliciti attacchi portati da Sartre a Bergson, la contiguità della nozione sartreana di coscienza a quella bergsoniana di durata, sulla base del loro comune carattere di spontaneità. Reale è solo la spontaneità della coscienza; apparente è invece la spontaneità dell’Io nei confronti delle “sue” rappresentazioni, ovvero nei confronti dei “suoi” stati, delle “sue” azioni, delle qualità degli oggetti, che si tende spesso, a torto, a considerare prodotto di inclinazioni e affezioni dell’Io. Tali rappresentazioni, nota Sartre, non sono “proprietà” dell’Io cui sono riferite, ma è piuttosto questo Io ad essere “giocato” da esse. Proprio a partire da questa considerazione si aprono, a parere di Sartre, nuove prospettive nel campo morale. Anche facendo leva sugli effetti, in questa direzione, del “depotenziamento” dell’Io conseguente alle analisi sartreane, Pier Aldo Rovatti, nel suo recente Trasformazioni del soggetto, intende offrire una ricostruzione del percorso e delle fonti del suo contributo al “pensiero debole”. Come è noto, quella relativa al “pensiero debole” è ipotesi nata, con la pubblicazione nel 1983 del testo omonimo, dal rilievo dello scollamento fra soggetto e oggetto, ovvero dal rilievo del carattere problematico di una scissione fra i due termini e di una loro successiva ricomposizione dal punto di vista della gnoseologia, dell’etica, della metafisica, nella prospettiva di un’indefinita manipolabilità degli enti da parte del soggetto e in quella di una sostanzialità (cioè di un carattere “forte”, fondato sulla caratteristica ontologica della “presenza”) del soggetto medesimo. Ma se Gianni Vattimo, altro esponente di quella corrente, si indirizzava, a partire dal pensiero di Heidegger, e da quello di Derrida, all’ela- AUTORI E IDEE borazione del concetto di un “declino” del soggetto, che compiva la sua parabola sullo sfondo di una concezione “debole” dell’ontologia, Rovatti ha successivamente preferito focalizzare il suo discorso sulla questione linguistica, intesa come questione relativa allo stile del pensiero. Il dichiarato intento di questa raccolta di saggi di Rovatti è quello di retrodatare il costituirsi delle questioni inerenti alla configurazione del pensiero debole. Inaspettatamente, per chi di queste tematiche abbia informazione solo relativamente agli ultimi sviluppi, Rovatti ne mostra le radici nella riflessione sulle pratiche politiche degli anni Settanta. Riaffiora dunque la discussione sulla questione dei “bisogni”, e sulla loro inconciliabilità con il terreno del politico. E’ questo l’ambito in cui si è posta per Rovatti l’esigenza di una “nuova razionalità”, intesa come “cultura dei soggetti”, “processo di approssimazione al soggetto”. Il catalizzatore indispensabile in questa elaborazione è Foucault, che con la sua “microfisica del potere” ha indicato la strada per l’individuazione dei punti di resistenza ai percorsi storici della logica centralizzante del potere. La nozione “non tradizionale” di bisogno ha in tal senso per Rovatti la caratteristica di un’immagine non concettualmente strutturata, che individua però il terreno di contraddizione fra l’universalizzazione astrattizzante della logica del potere, nelle spoglie della società di massa, e la pretesa alla soggettività, al riconoscimento del proprio carattere differenziale, che pure l’individuo-massa rivendica. D’altra parte, se Foucault fornisce indispensabili indicazioni di percorso, per Rovatti alle radici del “pensiero debole” c’è Marx, con la sua nozione di “lavoro vivo”, che fonda l’articolarsi del discorso marxiano nella prospettiva di una ricostruzione, “al di là” del modo di produzione capitalista, di uno “specifico soggettivo”. Laddove la determinazione di “forza-lavoro” rimanda alla caratterizzazione come “merce” dell’essenza dell’operaio-massa nel processo produttivo capitalistico, conducendo così alla cristallizzazione dell’homo oeconomicus, nella nozione di “lavoro vivo”, dove l’accento cade proprio sul carattere di “vitalità”, cioè di spontaneità del lavoro, a parere di Rovatti si trascende tale cristallizzazione e si segnala invece con forza l’esigenza di un “punto di vista” soggettivo. M.C. Utopia: il paese che non c’è Il tema dell’utopia torna a riproporsi come tema centrale in senso filosofico in alcune recenti riflessioni. Maria Moneti Codignola ne ripercorre i contorni problematici, in riferimento soprattutto alle utopie dell’età moder- na, nel suo recente studio: IL PAESE CHE NON C’È E I SUOI ABITANTI (La Nuova Italia, Firenze 1992). Una raccolta di saggi a cura di Arrigo Colombo e di Giuseppe Schiavone, L’UTOPIA NELLA STORIA: LA RIVOLUZIONE INGLESE (Dedalo, Bari 1992), intende invece sia richiamare l’attenzione sul significato storico dell’utopia come progetto della società giusta e fraterna, sia riconoscere nella Rivoluzione inglese il senso di primo, fondamentale evento utopico nella costruzione di questa società. In una sorta di viaggio nell’utopia attraverso i secoli, fino alle soglie della civiltà contemporanea, Maria Moneti Codignola si propone di trattare, senza alcuna pretesa di esaustività, i contorni storici e problematici dell’utopia, intesa essenzialmente come “genere filosofico-letterario”, attraverso un’ampia rassegna di autori, compiendo una specifica selezione tematica, relativa ai rapporti di implicazione reciproca fra l’idea di città perfetta e quella di uomini perfetti, dunque fra la politica e l’educazione. L’idea della formazione dell’uomo buono e l’immagine dell’infanzia, ove essa è presente, costituiscono il duplice selettore d’indagine di questo viaggio attraverso l’utopia “classica” di Platone, le utopie dell’era moderna (More, Campanella, Bacone, Cyrano de Bergerac), del preilluminismo (Foigny, Fontenelle, Fénelon), dell’età dei Lumi (Morelly, Dom Deschamps, Mably, Diderot, Rousseau), per concludersi con un ampio ventaglio di considerazioni teoriche, fra cui “l’idea di felicità e i suoi paradossi”, “l’utopia moderna come teodicea radicale”. Nel tentativo di circoscriverne il concetto, Moneti Codignola sottolinea che per utopia si deve anzitutto intendere «quel genere letterario-filosofico che ha per contenuto il racconto o la descrizione di un mondo immaginario che viene, in modo implicito o esplicito, presentato in termini deontologici o almeno ottativi». Vengono pertanto distinti dall’utopia stricto sensu quei racconti, di genere affine, che hanno il carattere di descrizioni di paesi assurdi o di mondi alla rovescia, i cui rapporti con il genere utopico trovano nondimeno alcune utili precisazioni, così come viene ampiamente tematizzato il rapporto utopia/distopia (esempi di distopia possono essere considerati testi come 1984 di Orwell o Brave New World di Huxley). Vengono invece espressamente poste ai margini della trattazione quelle produzioni dell’immaginazione utopica che nascono dall’ansia di rigenerazione e di salvezza espressa dalla cultura popolare. Nel delineare le tappe di un’evoluzione interna del genere utopico nell’età moderna, Moneti Codignola inizia da una fase di «riflessione critico-propositiva sulla realtà politica e sociale del proprio tempo», che si limita a «contrapporre una situazione ideale, auspicata e presenta27 ta sotto la forma fantastica di un paese immaginario, alla realtà presente criticata anche alla luce di quell’ideale». In una seconda fase di riflessione «la società umana è pensata come una sorta di provincia di una più universale realtà cosmologica di cui fa parte ma di cui, unico punto nell’universo, contraddice i principi», sicché la proposta utopica si concepisce come «una reintegrazione di questa provincia nell’universo». A ciò fa seguito la fase di introduzione della dimensione temporale. Infine, nella fase più prossima a noi, si arriva fino a rovesciare l’ordine utopico, «facendolo diventare, da speranza e promessa che era, una oscura e terribile minaccia da cui difendersi». Del resto ogni forma di rigidità normativa o propositiva, di concezione totalitaria dell’uomo e della società sono oggi sotto accusa, e proprio l’esperienza di questo secolo impone di «maneggiare le idee utopiche con grande cautela e anche con tutto il distacco e le mediazioni possibili». Di diverso tenore la convinzione teorica che sorregge la raccolta di scritti, curata da Arrigo Colombo e Giuseppe Schiavone, sul significato storico dell’utopia, esemplificato in rapporto alla Rivoluzione inglese. Il volume rientra nella serie “L’Utopia. Per una società giusta e fraterna”, a cura di Arrigo Colombo, che ha già visto la pubblicazione di altri contributi sul problema del carattere storico-progettuale dell’utopia, e nasce da un convegno organizzato nel 1990 dal Gruppo di ricerca sull’utopia dell’Università di Lecce. In quell’occasione, ricorda Colombo, era stato ribadito, in senso programmatico, che l’utopia, come fatto storico e politico, costituisce «il progetto della società giusta e fraterna», il quale può esprimersi sotto forme molteplici: dal discorso filosofico al racconto letterario, dall’annunzio religioso al programma politico. Nella sua introduzione al volume Colombo distingue quattro fasi dell’utopia, che è al contempo progetto della storia e processo in cui il progetto si va realizzando. La prima fase è quella sotterranea del progetto popolare implicito, che vive nella coscienza popolare oppressa dalla società ingiusta; la seconda è la fase del mito, in cui il progetto popolare tende a proiettarsi in determinate figurazioni simboliche; la terza è quella dei movimenti di salvezza, in cui il progetto assume la forma di attesa e di annunzio, fatto proprio da comunità religiose; la quarta infine è l’età delle rivoluzioni, in cui «il progetto viene assunto nella storia umana in senso universale (...), definitivo, progressuale, attraverso momenti esplosivo-eversivi di forte intensità, forte luce, capacità comprensiva, capacità creativa e innovativa, forte decisione e azione sovvertitrice della società ingiusta». Una volta restituita all’utopia il suo carattere storico-progettuale, A orientare questo filone di ricerca sull’utopia come fatto storico e processuale è peraltro l’idea che proprio nell’attuale età, segnata dal crollo del comunismo, «l’utopia riemerge TENDENZE E DIBATTITI Georg Wilhelm Friedrich Hegel, l’Università di Berlino La Porta di Brandenburgo, Thomas Hobbes 28 TENDENZE E DIBATTITI TENDENZE E DIBATTITI La politica di Hegel Del mai sopìto interesse per le valenze politiche della riflessione hegeliana è una riprova la serie di studi critici recentemente apparsi: il saggio di Geminello Preterossi, I LUOGHI DELLA POLI TICA. FIGURE ISTITUZIONALI DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO HEGELIANA (Guerini e Associati, Milano 1992), e l’opera di Fiorinda Li Vigni, LA DIALETTICA DELL’ETICO. LESSICO RAGIONATO DELLA FILOSOFIA ETICOPOLITICA HEGELIANA NEL PERIODO DI JENA (Guerini e Associati, Milano 1992), entrambi pubblicati nella collana “Hegeliana” dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici; lo studio di Cristiana Senigaglia, IL GIOCO DELLE ASSONANZE (La Nuova Italia, Firenze 1992), dedicato all’individuazione delle ascendenze hobbesiane della filosofia politica di Hegel; l’antologia IL PENSIERO POLITICO DI HEGEL (a cura di Giuseppe Bedeschi, Laterza, Roma-Bari 1993), introdotta da un ampio profilo critico, che offre uno sguardo sintetico complessivo sul pensiero politico del filosofo di Stoccarda. Da segnalare anche, in questo contesto, sebbene con una impostazione più generale, la recente introduzione al pensiero hegeliano curata da Pietro Rossi, HEGEL. GUIDA STORICA E CRITICA (Laterza, RomaBari 1992), nonché la corposa biografia in lingua tedesca che al pensatore di Stoccarda ha dedicato Horst Althaus, HEGEL UND DIE AEROISCHEN JAHRE DER PHILOSOPHIE. EINE BIOGRAPHIE (Hegel e l’età eroica della filosofia. Una biografia, Hanser Verlag, München 1992). Lo studio di Geminello Preterossi, I luoghi della politica, dedicato ad alcune «figure istituzionali della filosofia del diritto hegeliana», tematizza la connotazione “conciliativa” di questa filosofia, di cui mostra la valenza positiva, il «grande valore e dignità», tanto sul piano della riflessione filosofica, quanto su quello più immediatamente politico. La riflessione hegeliana fa combaciare elementi e istanze che nel pensiero filosofico-politico successivo si contrappongono e si frammentano in linee di fuga divergenti: libertà individuale e unita- rietà della persona statale, interesse dei singoli e principio di sovranità dello Stato, legittimazione sociale della volontà politica ed espressione formale del diritto. Per raggiungere il suo scopo, quello di uno sguardo unitario che tenga insieme le varie istanze, Hegel punta verso un “profilo alto” della statalità, come tentativo di realizzare il connubio, sostiene l’autore, fra l’unitarismo del principio di sovranità e il pluralismo delle istanze sociali; scartando cioè tanto la concezione liberale lato sensu, che vede lo stato come momento funzionale alla società, quanto il decisionismo, radicalmente arazionale, sostenuto per esempio da Carl Schmitt. Il “lessico ragionato” della filosofia hegeliana nel periodo di Jena che Fiorinda Li Vigni presenta con il volume La dialettica dell’etico individua 52 voci, raggruppandole in 6 “famiglie concettuali” (linguaggio, lavoro, famiglia, diritto, eticità, singolarità-universalità), e facendo precedere ciascuna di esse da un’”introduzione” alla parte lessicale vera e propria, in un rapporto che è comunque di reciproca autonomia. Più che una tavola di occorrenze, nelle intenzioni dell’autrice questo lessico, ponderoso e tuttavia estremamente maneggevole nella consultazione, si configura come un tentativo di ripercorrere lo sviluppo di ciascuno dei concetti individuati nelle opere prese in esame, e all’interno di ciascuna di esse; il metodo di scomposizione analitico dei testi è quindi finalizzato a una ricostruzione della genesi dei concetti. “A proposito degli influssi hobbesiani sul pensiero filosofico-politico di Hegel” è l’esplicito sottotitolo che accompagna l’opera di Cristiana Senigaglia, Il gioco delle assonanze. Muovendo dall’apparente dissonanza fra l’esplicito riconoscimento hegeliano di Hobbes come iniziatore della “scienza politica”, e la brevità delle analisi che a questi vengono dedicate dal pensatore tedesco, Senigaglia enuclea alcuni nodi tematici del confronto tra i due filosofi. In primo luogo, la precisazione del senso in cui Hobbes è per Hegel l’iniziatore della “scienza politica”. Non si tratta certo di ciò che nel filosofo inglese si presenta come presupposto, vale a dire l’ipotesi giusnaturalista, rifiutata da Hegel senza incertezze. Piuttosto, passando oltre il dualismo 29 tra stato di natura e Stato, che per Hobbes permane come orizzonte fondativo, il reale terreno di confronto tra i due pensatori consiste nella questione relativa alla legittimazione dello Stato medesimo, nonché nelle esigenze di carattere politico riconducibili a interessi individuali, espressi a livello della società civile. In altri termini, il terreno di incontro fra i due pensatori non può essere individuato, a parere di Senigaglia, in rapporto alla questione dell’origine del diritto dallo stato di natura - a partire dalla quale Hegel, tutt’al più, può apprezzare in modo generico il ruolo riconosciuto da Hobbes al principio di conflittualità fra gli individui - bensì sul piano della questione istituzionale, cioè della struttura organica dello Stato. Come è noto, lo Stato interviene in Hegel per sanare gli squilibri della società civile. Come ricorda Giuseppe Bedeschi nel suo ampio saggio introduttivo all’antologia dedicata a Il pensiero politico di Hegel, il filosofo di Stoccarda fu sempre pessimista nei confronti del funzionamento della sfera socio-economica moderna, la cui descrizione realistica è in lui desunta dall’economia classica. D’altra parte, Bedeschi sottolinea il ruolo centrale che, nella visione hegeliana della società civile, riveste la nozione di corporazione, di cui il filosofo lamenta la soppressione nell’età moderna. Contro chi sostiene il carattere moderno del concetto hegeliano di corporazione, evidenziando come esso non sia identificabile con la mera descrizione (alla stregua di un anacronistico tentativo di rimessa in auge) della realtà storica delle corporazioni medioevali, Bedeschi ritiene che, in ultima analisi, sia giustificata l’impressione che Hegel «sia ricorso a strumenti tutto sommato arcaici per porre rimedio ai problemi moderni della concorrenza e dell’atomismo». Proprio per questo, conclude Bedeschi, su questo specifico punto «lo sguardo di Hegel sembra rivolto più al passato che al futuro». Il volume Hegel. Guida storica e critica, curato da Pietro Rossi, intende collocare la filosofia hegeliana nel quadro del suo contesto storico-culturale. L’approccio è multilaterale; vengono messi a fuoco vari aspetti del “sistema” hegeliano e della sua evoluzione storica: Hegel fra Romantici- TENDENZE E DIBATTITI smo e Idealismo (Luigi Marino); la genesi della logica hegeliana (Franco Chiereghin); la Fenomenologia dello spirito (Sergio Landucci); la Filosofia del diritto come sistema dello spirito oggettivo (Giuliano Marini); il rapporto di Hegel con l’estetica (Paolo D’Angelo); Hegel tra religione e filosofia (Claudio Cesa); il rapporto tra la storia universale e il suo quadro geografico (Pietro Rossi), la questione della storia della filosofia (Remo Bodei); e infine la ricezione di Hegel nei manuali scolastici di filosofia (Giovanni Bonacina). E’ da segnalare, infine, una voluminosa biografia di Hegel recentemente pubblicata in Germania da Horst Althaus. Testimonianza corposa, più che filosoficamente rilevante, dell’attuale interesse per Hegel, estremamente particolare e informata riguardo all’aneddotica, cede fin troppo spesso alla tentazione di ironizzare, dal punto di vista del “comune buon senso”, ovvero della vita ordinaria, sugli aspetti speculativamente rilevanti della riflessione hegeliana, la dialettica in primo luogo. F.C. Tendenze provinciali Con il suo ottavo numero la rivista TELLUS. QUADRIMESTRALE DI CRITICA DELLA delinea il proprio manifesto, indagando intorno alla possibilità e al significato di un “pensiero provinciale”. Ne risulta una caratterizzazione della “provincia” non come ritorno a mitiche radici, ma come luogo a partire dal quale sembra ancora possibile esercitare la problematizzazione, continuata e perseverante, del senso comune. Questa prospettiva viene tematizzata a partire dal testo di Martin Heidegger, PERCHÉ RESTIAMO IN PROVINCIA?, e da scritti di Marco Baldino, Luisa Bonesio, Aldo Bonomi, Giorgio Frank, Caterina Resta, Saverio Xeres. CULTURA Marco Baldino, direttore di Tellus, sottolinea come la nozione di provincia rinvii a una dimensione minore dell’esistenza, che ha i caratteri della domesticità e della privatezza: domus e idios. La nozione di provincia è stata tematizzata da Martin Heidegger, da lui eretta a fondamento di un nuovo compito planetario del pensiero. Contro l’interpretazione di Theodor Wiesengrund Adorno, che vi legge solo una nostalgia premacchinistica, Baldino sottolinea il nesso di questo concetto con la questione della tecnica, e più in generale con quella della rifondazione dell’esserci storico europeo, a fronte del progetto mondializzante della tecnica, culmine della prospettiva metafisica. La nozione di provincia appare, per Baldino, non solo come luogo di partenza per una maggiore penetrazione nella Seinsfrage, ma anche per chiarire il senso dello heideggeriano “nuovo inizio”, che si di- spiega, come autentica necessità teoretica, dinanzi al declino della vecchia complicità, e complementarietà, di polis ed episteme. L’obiettivo di Heidegger, molto evidente nel discorso di rettorato del 1983, è quello di rovesciare il rapporto esistente tra ragione, università e scienza. Se il progetto moderno dissolve la scienza in una serie di saperi specialistici, organizzati socialmente dal sistema dell’industria universale, a esso Heidegger oppone la pratica di un pensiero del “rovescio”, la cui radicalità, anche secondo Caterina Resta, non fu compresa da Adorno. Quest’ultimo interpretò il tentativo di esporre la scienza all’idio-maticità della ripetizione ontologica come una nefasta concessione alla cultura Blut und Boden. Ciò che per Adorno è la tara dello heideggerismo, cioè il “gergo dell’autenticità”, costituisce invece la lingua dell’idios, di ciò che sta a parte, ed è perciò intraducibile; così come non traducibile, non urbanizzabile, è la “provincia” heideggeriana, quell’Ort che, come punto di convergenza e raccoglimento, diventa per Heidegger il centro unitario di ogni esperienza, dell’apertura del mondo dell’esserci. Ciò a cui Heidegger si riferisce con il concetto di provincia, osserva Resta, non è un nostalgico ritorno a un radicamento ormai impossibile, per esempio su base etnica, ma un nuovo criterio di appartenenza, la cui base è “etica”; laddove ethos vale come “soggiorno”, luogo dove si abita, il punto di convergenza e di raccolta delle coordinate dell’abitare. Accanto alla nozione heideggeriana di provincia, l’intervento di Luisa Bonesio mette in gioco autori come Oswald Spengler, Robert Pogue Harrison, Walter Benjamin, Ernst Jünger. La provincia è per Spengler il paesaggio materno dell’intero Occidente, succube del discorso della città, cioè della monumentalizzazione; l’imperialismo livellatorio della lingua crea la provincia come sottoprodotto della metropoli. Citando Harrison, Bonesio ricorda che la pietra della città non è quella della campagna, di cui esiste un’”altra faccia”, un lato nascosto; questa pietra, quando viene estratta dal terreno rivela il brulichìo silenzioso della vita di “terra, radici e vermi”, che si svolgeva sotto il sasso quando esso, prima di essere smosso dalla sua terra, era ancora parte di un oscuro paesaggio naturale. Ernst Jünger rende obsoleta l’opposizione di città e provincia nella considerazione che la tecnica macina tutte le pietre, sia naturali che monumentali, trasformando tutto il paesaggio umano in un immenso deserto di rovine. La “provincia” diventa dunque «quel limite costitutivo di ambiente naturale, di selva, sparendo il quale sparirebbe l’oikos umano». A questo punto, secondo Bonesio, si incontra Benjamin, che con la sua archeologia pare dar vita all’unico sapere possibile nell’epoca in cui tutto, compresa la natura, è anticipa30 tamente prodotto come rovina. Qui, osserva Bonesio, il limite dell’”officina mondiale”, della prospettiva totalizzante del progetto planetario della tecnica, diventa non più la “provincia”, ma la natura medesima. Il tema della provincia si connette a quello del silenzio nella riflessione di Saverio Xeres, che prende le mosse dalla celebre lirica montaliana I limoni. Xeres teorizza il fatto che l’ascolto del palpito che pulsa sotto la crosta del quotidiano, cioè sotto l’ambito della pura chiacchiera, o il vuoto di parole che si crea intorno a un evento limite, come può essere la morte, possano restituire al mondo il suo incanto; in ciò risiedono l’essenza e il ruolo della provincia. All’opposto, Aldo Bonomi, che pure coglie nel silenzio il tratto caratteristico della grande periferia, vi scorge non la base per un reincantamento del mondo, bensì il silenzio del sociale, l’incapacità di comunicazione di una società stanca e disanimata. Soluzione di ciò è il modello dell’esodo, nel riconoscimento di sé come esseri senza radici che si realizzano nell’ “andare”, unico fondamento per una qualche forma di pratica sociale, una qualche prassi datrice di senso. La “teologia del paradosso” di Giorgio Frank riconduce più esplicitamente il discorso sul piano della riflessione filosofica. Frank sostiene che la gratuità dell’esistenza non è solo l’esito più estremo del nichilismo, ma anche lo stigma dell’essere nell’epoca della morte di Dio. L’uomo sperimenta tale “gratuità”, quotidianamente, nell’esperienza del silenzio di Dio; a partire da questo silenzio nasce l’indicazione relativa a un pensare che non potrà essere se non un pensiero del Dio silenzioso e gratuito, cioè infondato, perché un Dio che non fonda l’esistenza umana non fonda nemmeno se stesso. In altri termini, se da un lato l’esercizio del pensiero comporta oggi la consapevolezza del disincanto del mondo, dall’altro esso ricerca la possibilità di rapportarsi non più al Dio della metafisica, quello che un tempo parlava e ora tace, ma al volto di un Dio che parla attraverso il suo tacere. F.C. Sociologia della conoscenza e civiltà moderna Due opere recentemente pubblicate in Germania propongono una riflessione su alcuni momenti della storia della sociologia della conoscenza, che rinnova la tendenza di un possibile contributo di tale disciplina alla comprensione della società attuale. Si tratta dello studio di Wolfgang Engler, SELBSTBILDER. DAS REFLEXIVE PROJEKT DER WISSENSSOZIOLOGIE (Immagini di sé. Il progetto riflessivo della sociologia della conoscenza, Aka- TENDENZE E DIBATTITI demie Verlag, Berlin 1992) e di quello di Stefan Breuer, DIE GESELLSCHAFT DES VERSCHWINDENS . VON DER SELBSTZERSTÖRUNG DER TECHNISCHEN ZIVILISATION (La società dell’eclissarsi. L’autodistruzione della civilizzazione della tecnica, Junius Verlag, Hamburg 1992). La precedente opera di Wolfgang Engler, Die zivilisatorische Lücke (La lacuna civilizzatrice, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1992) era dedicata al tentativo di comprendere lo sviluppo di quelle che erano le società del socialismo di stato alla luce della teoria della civilizzazione di Norbert Elias. Diversamente dall’Europa dell’Ovest, con il suo principio di una “civilizzazione riflessiva”, l’Europa dell’Est sarebbe caratterizzata da una “civilizzazione autodistruttiva”, in cui l’autogoverno degli individui veniva ottenuto solo con proibizioni e al prezzo dell’inefficienza. Tale caratteristica avrebbe reso queste società più fragili e suscettibili di un ritorno a forme di barbarie, nello sviluppo di un modello di organizzazione sociale che per Elias era già operante nello stato autoritario guglielmino. Il nuovo libro di Engler, Selbstbilder, torna in diversi punti su questo problema: non nel senso di un approfondimento, ma piuttosto nel tentativo di precisare il concetto di “civilizzazione riflessiva” all’interno di una discussione di questioni e momenti di quel ramo della sociologia detto “sociologia della conoscenza”. Engler presenta anzitutto la fondazione della sociologia della conoscenza da parte di Karl Mannheim, caratterizzando la prospettiva della sua ricerca come “sguardo della ragione sulla propria struttura”. Segue un saggio dedicato a Elias, di gran lunga l’allievo più celebre di Mannheim. Qui Engler osserva che le tendenze alla razionalizzazione, contenute nel concetto di civilizzazione di Elias, implicano sul piano pubblico il rischio di una catastrofe ecologica e sul piano privato quello del venir meno della capacità di imparare da parte del soggetto: «Un essere completamente civilizzato intrattiene un rapporto parassitario con l’ecosistema e un rapporto repressivo con se stesso». Altri tre studi sono dedicati da Engler alla microsociologia (in particolare all’interazionismo simbolico) e all’opera di Pierre Bourdieu e di Michel Foucault. Il concetto foucaultiano della società disciplinare viene qui indicato come utile e fecondo per l’analisi dello stato-partito e dello stato di polizia delle società dell’Europa orientale. Alcuni dei pensatori presenti nel libro di Engler si ritrovano anche in Die Gesellschaft des Verschwindens di Stefan Breuer, una raccolta di saggi per lo più già apparsi in riviste. Elias, Foucault, Adorno, Luhmann, F.G. Jünger e Virilio vengono presi in considerazione in quanto teorici e studiosi della società, in una prospettiva ispirata fondamentalmente alle posizioni della Scuola di Francoforte. Importante è anche il riferimento all’antropologo francese Claude Lévi-Strauss. Sulla base di questi riferimenti teorici Breuer analizza la società moderna come società della tecnica. Tesi di fondo della sua opera è che la tecnica moderna rappresenta il motore di uno sviluppo che si sostituisce alle antiche concezioni dell’assoluto: «L’assoluto c’è, deve solo essere pensato diversamente: non come grande soggetto o come spirito, non come ordine che riposa su se stesso e nemmeno come struttura di norme e istituzioni, ma piuttosto come processo autopoietico con conclusione catastrofica (...). Il sistema sociale non è, come volentieri si presenta, superamento del caos, ma è solo il metodo di produrre il caos più velocemente di quanto sarebbe possibile secondo le leggi dello sviluppo spontaneo». M.M. La morale ineffabile In corrispondenza dell’uscita in librerie delle loro rispettive opere, LE CRÉPUSCULE DU DEVOIR, (Il crepuscolo del dovere, Gallimard, Parigi 1992) e UNE MORALE SANS MORALISME (Una morale senza moralismo, Flammarion, Parigi 1992), le opinioni sulla morale contemporanea di due filosofi agli antipodi per concezione e tradizione di pensiero: Gilles Lipovetsky, teorico dell’individualismo e di una società postmorale, e Jean-Marie Domenach, un vecchio discepolo di Emmanuel Mounier, hanno trovato spazio sulle pagine del settimanale di cultura “L’Evenement du Jeudi” (3-9 dicembre 1992). Il proposito del libro di Gilles Lipovetsky è quello di stabilire le condizioni di funzionamento di un’etica nelle società democratiche, dove i valori individuali e il diritto al benessere danno le direttrici ai comportamenti e forniscono legittimità alla macchina politica; la società post-morale e quella propria di un’ «epoca dove il dovere è edulcorato, reso anemico, dove l’idea del sacrificio del sé risulta socialmente delegittimato, dove la morale non esige più di devolversi ad un fine superiore, dove le lezioni di morale sono coperte dagli spots del viver meglio, dal sole delle vacanze, dal divertimento mediatico». D’altra parte è proprio sulla base di questa cultura individualista ed edonista che si aprono le contraddizioni maggiori negli ambiti in cui si incontrano l’interesse collettivo e quello privato: l’ecologia, l’utilizzo delle tecnologie. Dove insomma si pone l’esigenza di stabilire delle norme, la risposta sembra andare nel senso della riproposizione di comportamenti manichei e fondamentalisti. Operando una ricognizione che è più storica che filosofica, Lipovetsky si interessa 31 soprattutto alla messa in scena della moralità nella società mediatica: gli spettacoli a favore di iniziative umanitarie, la tele-solidarietà; atteggiamenti che rivelano la spettacolarizzazione dell’impegno e la sua trasformazione in una morale minimalista, “indolore”. Per quanto convinto che una certa cultura sacrificale della morale sia finita, JeanMarie Domenach sostiene che l’apprezzamento del grado di moralità di una democrazia non si misura con i dati sociologici, né con gli strumenti della statistica, ribadendo che parlare di morale indolore significa rinunciare al concetto di responsabilità che è implicito in qualsiasi atto morale. Dell’attuale impasse sarebbe responsabile l’individualismo contemporaneo: non si dà morale se non nel legame che si vuole stabilire con l’altro, ma - per evitare che essa si trasformi in moralismo, che imponga dei comportamenti e non delle scelte - si deve essere consapevoli che la morale è un prodotto e una realizzazione storica e vive, oltre che negli atteggiamenti degli individui, nelle loro forme politiche, nel diritto, nella deontologia delle professioni. I valori sono dunque depositati nelle istituzioni storiche dei popoli e hanno sempre il significato di un compromesso con un’epoca e una società determinata. In un’unica conclusione sembrano ritrovarsi i due autori: la politica delle responsabilità è il nome laico che assume l’impegno morale nei confronti dei fanatismi. E.N. Il paradosso del pensiero occidentale Il volume collettivo a cura di Paul Geyer e Roland Hagen Büchle, DAS PARADOX . EINE HERAUSFORDERUNG DES ABENDLÄNDISCHEN DENKENS (Il paradosso. Una sfida del pensiero occidentale, Stauffenburg Verlag, Tübingen 1992) presenta un’analisi di carattere interdisciplinare di un fenomeno che da tempo incluso tra le chiavi di lettura della modernità mostra di non essere più solo oggetto esclusivo di ricerca retorica, logica e filosofica. Cosa sono i paradossi? Come hanno origine? In cosa si distinguono da fenomeni analoghi? Qual è il rapporto tra il concetto di paradosso usato dalla logica in senso “tecnico” (l’antinomia) e l’uso più ampio che di questo concetto o figura retorica viene fatto da altre discipline, come la letteratura e l’arte? Il volume collettivo Das Paradox, che raccoglie gli interventi presentati ad un recente convegno sul tema: “Fenomenologia dei paradossi. Sullo sviluppo storico di una forma dello stile e del pensiero”, tenutosi presso l’università cattolica di Eichstätt, cerca di dare una risposta a questa e ad altre domande, sia presen- TENDENZE E DIBATTITI tando analisi di carattere sistematico e teoretico, sia attraverso ricostruzioni della storia del concetto, della parola e del problema. La parte sistematica del volume raccoglie contributi di carattere filosofico, teologico, psicologico, retorico, logico, biologico e di filosofia del linguaggio, preceduti da due interventi dedicati a questioni più generali, che possono servire da introduzione agli studi su temi più specifici: quello di Gerhard Vollmer, sul rapporto tra paradossi e antinomie, e quello di Henrich Plett, che ricostruisce la tradizione retorica del concetto di paradosso. Mentre gli interventi raccolti nella parte storica coprono un arco di tempo che va dall’antichità greca e romana ai “testi post-moderni” e alla “letteratura post-mimetica”. Preminenti sono qui studi dedicati a temi come il “paradosso mistico” e l’“esistenza religiosa”. La ricchezza e l’ampiezza dei materiali presentati nel volume danno un’idea della complessità e problematicità della discussione sul paradosso. Una complessità che sembra smentire una certa tendenza alla stilizzazione e alla semplificazione presente nell’introduzione al volume, in cui, sotto il poco modesto titolo di “Fondazione storico-sistematica”, si legge tra l’altro: «Il paradosso è una figura della resistenza contro la presa del potere di un sistema di pensiero chiuso. La storia di questa resistenza è anche una storia del pensiero occidentale, una storia per così dire dal basso». M.M. Filosofia della mente «Qual è la relazione tra la vita mentale di un uomo e gli eventi del suo cervello?» Questa domanda, tanto semplice nella sua formulazione, quanto complessa per il groviglio di problemi a cui direttamente ci introduce, è il risultato emblematico, potremmo dire, dell’incontro di tradizionali questioni filosofiche con i risultati ottenuti in varie discipline scientifiche, tra cui la neurofisiologia, la psicologia, la cibernetica e la linguistica. In questo ambito di riflessione, comunemente caratterizzato come filosofia della mente, rientrano alcuni recenti studi, oggi disponibili in traduzione italiana: CONTENUTO E COSCIENZA (trad. di G. Mugnaio, Il Mulino, Bologna 1992) di Daniel C. Dennet; LA NATURA DELLA MENTE E LA STRUTTURA DELLA SCIENZA - UNA PROSPETTIVA NEUROCOMPUTAZIONALE (trad. di G. Farabegoli, introd. di R. Luccio, Il Mulino, Bologna 1992) di Paul M. Churchland; FILOSOFIA DELLA MENTE (trad. di M. Salucci, Il Mulino, Bologna 1992) di William Bechtel; LA MENTE DELL’UOMO (trad. di M. Ricucci, Il Mulino, Bologna 1992) di Anthony J. Sanford. In questo suo nuovo volume Daniel C. Dennett, noto studioso, che da tempo si occupa di I. A. (Intelligenza Artificiale), propone la “tesi centralista” come tentativo di mediare un approccio intenzionale allo studio della mente con l’esigenza ineliminabile della costruzione di teorie estensionali e modelli matematici in grado di descrivere gli eventi mentali più diversi con un linguaggio “scientifico” e non solo “personalistico”. Come osserva Riccardo Luccio nell’Introduzione al testo, Paul M. Churchland, filosofo americano, «incarna in modo quasi eccessivo l’anima del materialismo eliminativista», presentando con entusiasmo e ottimismo in questo suo nuovo lavoro una forte teoria connettivista che vede il pensiero come proprietà emergente dall’autorganizzazione di una mente concepita come rete di unità profondamente interconnesse. Churchland costruisce un paradigma cognitivo, da sostituire a quello enunciativo della psicologia del senso comune, fondato sulle neuroscienze: la mente viene interpretata in termini di reti neurali e le virtù sovraempiriche della teoria, come la semplicità, la chiarezza, la coerenza e il potere esplicativo sono di fatto caratteristiche di funzionamento delle reti neurali. Il materialismo eliminativista di Churchland è tutt’altro che un rozzo meccanicismo e si avvicina molto a quello che nel panorama della filosofia della mente , soprattutto americana, prende il nome di “emergentismo”; con quest’ultimo si sostiene l’impossibilità di parlare di mente se la complessità strutturale del sistema nervoso che si considera si pone al di sotto di un certo livello critico. Il punto di partenza è il modello di sistema nervoso preconizzato da Hebb nel 1949, modello che prevede la capacità dei neuroni di unirsi in gruppi chiamati “assembramenti cellulari”; il funzionamento del sistema si collega non ai singoli neuroni, ma ad interi assembramenti, o a più assembramenti in “sequenza di fase”. Sia Churchland che Dennett contribuiscono, più o meno consapevolmente, a far luce sull’evoluzione del problema mente/ corpo, a partire dagli anni ’60 in poi, come lotta tra una forma radicale di materialismo monistico eliminazionista (teoria dell’identità), una riaffermazione del dualismo (con alla testa personaggi come Popper ed Eccles), l’emergentismo (che forse è solo una sottospecie della teoria dell’identità) e infine le posizioni funzionalistiche di Putnam e Johnson-Laird, popolari tra gli psicologi cognitivisti e che trovano oggi in Jerry Fodor il loro più lucido e provocatorio fautore. Intento, e conseguentemente impostazione totalmente diversa, hanno i lavori di William Bechtel e Anthony J. Sanford. Bechtel, filosofo americano, sceglie di scrivere in questo suo nuovo studio per i “non addetti ai lavori” e tenta un semplice e 32 introduttivo approccio storico al problema della mente, passando attraverso la filosofia antica di Platone e Aristotele, la tradizione scolastica di Ockham, i classici della filosofia moderna come Descartes, Locke, Leibniz, Kant, per arrivare alla problematica contemporanea, ampliatasi notevolmente grazie ai risultati raggiunti dalle varie discipline scientifiche e grazie a filosofi come Wittgenstein, Dennett, Davidson, Putnam ecc. Anche in Bechtel, come in Dennett, si sente l’esigenza di guardare in una prospettiva unificante gli esiti della logica, della filosofia del linguaggio, della psicologia e delle neuroscienze, senza trascurare l’importanza che il metodo e le teorie filosofiche rivestono per la scienza cognitiva. Il lavoro di Sanford ha invece il carattere di una introduzione alla psicologia cognitiva più che alla filosofia della mente in generale; punto di partenza è il tema ormai classico del “comprendere la comprensione umana”, tema che l’autore tratta attraverso vari approcci sperimentali e introspettivi, esplorando le aree dell’attenzione, del ragionamento, dell’apprendimento e della memoria. La mente viene trattata come sistema di elaborazione delle informazioni e Sanford si preoccupa di illustrarne i meccanismi di comprensione del linguaggio e del pensiero attraverso strumenti come l’analogia, le rappresentazioni mentali e varie procedure di semplificazione. Sanford ci invita a mettere in dubbio le nostre certezze conoscitive, a renderci consapevoli della fallibilità della ragione umana attraverso una più profonda conoscenza dei nostri modelli di comprensione del mondo; in sostanza non dobbiamo confondere la sensazione intuitiva della certezza con la “verità”, perché questo rischia di limitare le nostre stesse capacità conoscitive. In ultima analisi Sanford illustra l’utilità pratica della conoscenza della mente: i vantaggi concreti nella vita quotidiana dell’uomo comune e contemporaneamente il maggior rigore metodologico dello scienziato. S.B./S.L. Coerenza di Nietzsche Davanti alla molteplicità, al carattere spesso contraddittorio dell’opera di Friedrich Nietzsche, la critica ha cercato di dare un ordine, classificando sotto diverse “stagioni” il pensiero di un filosofo che arrivava a sostenere: «Io non sono un uomo, sono della dinamite». A rivendicare l’unità e la fondamentale coerenza dei suoi testi sono due saggi di recente pubblicazione in Francia: EXPLOSION I. DE L’ECCE HOMO DI NIETZSCHE di Sarah Kofman (Esplosione, I vol. l’Ecce Homo di Nietzsche, Galilée, Paris 1993) e NIETZSCHE ET LE DÉPASSEMENT DE LA MÉTHAPHISIQUE (Nietzsche e il superamento della TENDENZE E DIBATTITI metafisica, Gallimard, Paris 1993), di Michel Haar. Torino 1888. Quando si accinge a scrivere l’Ecce Homo Friedrich Nietzsche ha già portato a termine l’opera di demolizione della categoria di soggetto; abbandonata l’illusione di un sé, un luogo puntuale dove le diversità si organizzano in un identico, sa che il molteplice e il contraddittorio dell’esistenza individuale può essere tenuto assieme soltanto dall’impianto della scrittura. A questo artificio d’ordine Nietzsche sembra rinunciare, col rischio di restare inaudito. Così, anche nella forma, Ecce Homo è qualcosa di diverso da una autobiografia: nessuna linearità; un testo “esploso”, come lo presenta Sarah Kofman, che «mette in pericolo il mondo», secondo quanto afferma Nietzsche stesso in questa sua ultima riflessione sul sé, prima di perdersi, di errare per i territori della follia. Di fronte alla “coerenza senza unità” dell’opera nietzscheana, all’esegesi non è rimasta che la risorsa di dare valore fondativo, di innalzare a principi alcune finzioni: la volontà di potenza, il Superuomo, l’Eterno ritorno; senza considerare il fatto che nessuna di queste vuole, né può generare un orizzonte che possa valere come normativo o legittimante. Come rileva Michel Haar nel suo recente studio: Nietzsche et le dépassement de la métaphisique, la stessa lettura di Heidegger, che fa di Nietzsche il compimento della metafisica nel momento in cui ne rovescia le categorie e denuncia il platonismo fondamentale di ogni costrutto metafisico, mantiene il pensiero nietzscheano all’interno dello stesso orizzonte che tale pensiero voleva sovvertire. Haar è invece convinto che la posizione di Nietzsche «non si riduce ad un controplatonismo», dal momento che il corpo (la grande ragione, come dice Zarathustra) e le sue energie pulsionali, nel momento in cui producono i valori, nascondono la loro origine e il loro cominciamento assoluto. Il “mondo dietro il mondo” rimane definitivamente insondabile, mentre l’esistenza vive nel gioco delle apparenze. Il “sì alla vita” nietzscheano, conclude Haar nella sua prefazione, è la forza di assumere la necessità dell’imperfezione, del negativo e infine del dolore, con quel sentimento di “tragica gioia” che, del tutto, vuole l’eternità. E.N. Marxismo ed ecologia Tra i tentativi di rivisitare il pensiero marxiano alla luce delle problematiche contemporanee, uno dei più interessanti è certo quello “ecomarxista”. A partire dalla pubblicazione del saggio di James O’ Connor su CAPITALISME, NATURE , SOCIALISM (1988; trad. it. L’ecomarxismo. Introduzio- ne ad una teoria, Roma 1989), gli studi sull’argomento si sono moltiplicati. Tra i più recenti segnaliamo quelli contenuti nel “Dossier” del n. 12 di “Actuel Marx” (II semestre 1992), dedicato a L’ÉCOLOGIE, CE MA TÉRIALISME HISTORIQUE, e nei nn. 6 e 7 della rivista “Capitalismo Natura Socialismo” (ed. it. di “Capitalism, Nature, Socialism”, fondata nel 1988 dallo stesso O’ Connor). La questione fondamentale attorno alla quale ruotano molti dei saggi qui esaminati è la seguente: la responsabilità del dissidio storicamente verificatosi tra marxismo ed ecologia è da imputare al fondatore del materialismo storico o ai suoi prosecutori, che non avrebbero sviluppato gli spunti “ecologisti” contenuti nella sua critica al capitalismo? Gli intervenuti propendono generalmente per la seconda ipotesi, tendendo ad assolvere Karl Marx dall’accusa di aver portato alle estreme conseguenze il mito prometeico del produttivismo e riconoscendo la capacità del marxismo, previo l’innesto sul suo tronco di altri filoni del pensiero contemporaneo (Weber, Polany, Habermas, Elias, Hayek, Durkheim, LeviStrauss) e la rimozione degli aspetti più caduchi della dottrina, a fondare una critica ecologica della società, i cui prodromi si ritroverebbero già nei marxiani Manoscritti economico-filosofici del ‘44. In particolare, in “Actuel Marx”, Ted Benton (“Marxisme et limites naturalles: critique et reconstrution écologiques”) ritiene che Marx ed Engels, nonostante il loro “naturalismo” e “materialismo”, abbiano trascurato il fatto che il lavoro non è solo “trasformazione”, ma anche “appropriazione” delle risorse naturali: anch’esse dunque andrebbero riprodotte, e non solo sfruttate; tuttavia il programma marxiano di “ecologia della specie umana” contiene in sé gli elementi per una critica ecologica e sociale del capitalismo. Dello stesso avviso è anche Jacques Bidet (“Y a-t-il une écologie marxiste?”), il quale attribuisce le “carenze ecologiche” del marxismo alla sottovalutazione del mercato e all’utopia di una sua sostituzione integrale da parte della pianificazione, riassumendo le argomentazioni contenute nella sua recente Théorie de la modernité (trad. it. Teoria della modernità, Editori Riuniti, Roma 1992). James O’ Connor (“La seconde contradiction du capitalisme: cause et consequences”) analizza invece lo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente come elemento decisivo per sostenere gli alti tassi di sviluppo attuali, ma nello stesso tempo anche causa del sorgere di una serie di movimenti di opposizione al sistema in tutto il mondo. La contraddizione tra produzione e natura, alla quale O’ Connor attribuisce le ricorrenti “crisi da domanda” e “crisi da aumento dei costi” del sistema economico contemporaneo, è stata al centro del dibattito anche nel n. 6 di “Capitalismo Natura So33 cialismo”, con interventi tra gli altri di Amin, Altvater, Lebowitz; alcuni ritengono non più praticabile la proposta di soluzione al problema presentata dallo stesso O’ Connor, consistente nell’attribuire allo Stato un ruolo sempre maggiore nella programmazione economica, dopo le esperienze negative di questo secolo. Del resto è naturale che proprio nel passaggio dall’analisi teorica al piano pratico i contrasti si manifestino più acuti; così in “Actuel Marx”, André Gorz (“L’ecologie politique entre expertocratie et autolimitation”) vede il movimento ecologico diviso tra un’ala tecnocratica (raccolta intorno al “club di Roma”), che intende imporre dall’alto comportamenti ecocompatibili in nome di principi sedicenti scientifici (erede in questo del peggiore “diamat”), ed un’ala democratica che vuole lottare contro lo sfruttamento capitalista di natura ed individui, con l’obiettivo di una società autogestita sulla base dell’autolimitazione di bisogni e consumi, secondo un “principio di sufficienza” che garantisca a tutti maggiore libertà, sicurezza e tempo libero. Analogamente, in “Capitalismo Natura Socialismo”, Fabio Giovannini (“La democrazia fa bene all’ambiente”) intende opporsi a quella parte del movimento ecologico che ritiene irrilevante la scelta tra democrazia ed autoritarismo quali mezzi per salvare il pianeta; la seconda opzione può richiamarsi da un punto di vista teorico alle tesi di Hans Jonas (Il principio responsabilità, Torino 1979) e Vittorio Hösle (Filosofia della crisi ecologica, Torino 1992), che giunge perfino ad ipotizzare l’avvento di un “ecodittatore”. Sullo stesso numero di “Capitalismo Natura Socialismo” viene inoltre presentato e commentato il testo inedito di una conferenza tenuta da Herbert Marcuse all’Università di Berkeley nel ’79 (l’anno della sua morte), in cui, per spiegare gli opposti istinti umani alla difesa e alla distruzione della natura, il filosofo tedesco faceva ricorso, oltre all’economia, ai concetti freudiani di Eros e Thanatos, giungendo alla conclusione che quello ecologico è «un movimento politico e psicologico di liberazione». L’aspetto psicologico della questione è esaminato anche da Denis Duclos in “Actuel Marx” (“La nature: principale contradiction culturelle du capitalisme?”), che vede nella scomparsa della frontiera tra natura e cultura la conseguenza principale dello sforzo di conciliazione tra capitalismo ed ecologia, simboleggiato dal mitomostro del riciclaggio, moderno corrispondente di incesto e cannibalismo. Prosegue infine su “Capitalismo Natura Socialismo” la discussione intorno alla proposta di Giorgio Nebbia, presentata sul n. 4 della stessa rivista, di un “manifesto per un’ecologia socialista”. Lo stesso Nebbia, insieme a Tiziano Bagarolo, Giuseppe Prestipino, Laura Conti, recentemente scomparsa, e altri, interviene su “Marxismo ed ecologia” anche nel n. 10 di “Giano”, un’altra rivista da sempre attenta a queste tematiche, che sono state anche al TENDENZE E DIBATTITI Diritto di replica: Sulla “Volontà di potenza” di Nietzsche La recente riedizione italiana a cura di Maurizio Ferraris e di Pietro Kobau, su suggerimento di Pier Aldo Rovatti, di un’opera postuma di Friedrich Nietzsche, LA VOLONTÀ DI POTENZA. SAGGIO DI UNA TRASVALUTAZIONE DI TUTTI I VALORI (Bompiani, Milano 1992), che riprende, rivedendola, la traduzione del 1927 di Angelo Treves per l’editore Monanni di Milano, ha sollevato tra gli studiosi e gli interpreti dell’opera nietzscheana un’ampia polemica, dai toni talvolta aspri e intransigenti, che ha trovato spazio, a più riprese, sulle pagine di molti tra i maggiori giornali quotidiani italiani. Poiché crediamo che anche le polemiche, una volta composte, giovino alla comprensione di un’opera, di un pensiero, abbiamo raccolto e articolato qui di seguito in forma documentativa le obiezioni e considerazioni critiche intervenute in questa polemica, lasciando poi ad uno degli autori chiamati in causa, Maurizio Ferraris, la possibilità di un’ultima replica. Alla base della polemica vi è la vicenda editoriale tormentata, e per certi aspetti ancora oscura, che determinò e segnò profondamente, nel contesto del programma di edizione del Nachlass nietzscheano promosso dal “Nietzsche-Archiv”, la pubblicazione originaria di quest’opera in 1067 pseudoaforismi, apparsa per la prima volta nel 1906, presso l’editore Naumann di Lipsia, con il titolo: Der Wille zur Macht. Versuch einer Umwerthung aller Werthe (“Taschenausgabe”, voll. IX e X), a cura di Elisabeth Förster Nietzsche, sorella del filosofo, e Peter Gast (pseudonimo di Heinrich Köselitz), discepolo e devoto amico di Nietzsche. Nel 1911 essa venne ristampata in edizione canonica, inalterata nel testo, ma ampliata negli apparati, presso l’editore Kröner di Stoccarda (“Gross-Oktav-Ausgabe”, voll. XV e XVI), a cura di Otto Weiss, già editore di Schelling. La controversia editoriale che condizionò quest’edizione fu determinata dal fatto che di quest’opera Nietzsche aveva solo redatto, a partire dal 1885, una serie di dichiarazioni d’intenti, abbozzi programmatici e annunci di pubblicazione, predisponendo inizialmente a tale scopo una raccolta di 372 frammenti, numerati e organizzati secondo una Rubrik. Su questo nucleo originario di materiali sono intervenuti i vari curatori, che interpretando l’intento di Nietzsche secondo presupposti e prospettive tra loro diversi, contingenti, se non talvolta vagamente difformi rispetto all’intenzione originaria del filosofo, hanno portato l’opera alla pubblicazione, adottando innanzitutto, come criterio strutturale, l’ordinamento tematico dei frammenti, e non quello cronologico-sistematico, e ampliando di conseguenza, sia in avanti, che indietro, il periodo di pertinenza del materiale. Così, nel 1901, si arriva alla pubblicazione, già con il titolo di Der Wille zur Macht, di una prima raccolta di 483 pseudoaforismi (dove peraltro non tutti i 372 frammenti ordinati da Nietzsche sono contenuti), curata da Peter Gast e da Ernst ed August Horneffer (“Gross-Oktav-Ausgabe”, vol. XV), a cui succede l’edizione definitiva, in 1067 pseudoaforismi (dove in misura ancora minore sono presenti i 372 frammenti originari), del 1906 e del 1911. Le controversie sull’autorità e validità dell’opera, e dunque sulle responsabilità dei curatori, che tali esiti editoriali già allora sollevarono, sono di fatto anche all’origine della polemica che oggi investe la recente riedizione italiana de La volontà di potenza, tanto più se si considera che l’edizione storico-critica dell’opera omnia di Nietzsche, avviata negli anni ’30 dalla stessa Elisabeth Förster Nietzsche presso l’editore Beck di Monaco di Baviera e ripresa negli anni ’60 da Giorgio Colli e Mazzino Montinari per l’editore Adelphi in Italia, Gallimard in Francia e de Gruyter in Germania, ha necessariamente assorbito nell’ordine cronologico dei Frammenti postumi (Nietzsche-Werke / Nietzsche, Opere) la compilazione degli stessi confluita in origine nelle varie edizioni di Der Wille zur Macht, sgretolando l’identità di quest’opera. Proprio in relazione a quest’ordine di considerazioni si è sviluppata una delle principali obiezioni che hanno caratterizzato la polemica intorno alla riedizione de La volontà di potenza, proposta da Maurizio Ferraris e Pietro Kobau. L’ “operazione editoriale”, come è stata definita questa riedizione, è apparsa di fatto, pur se storicamente lecita, non sufficientemente caratterizzata in senso storico-documentario, dopo che l’edizione storico-critica di Colli e Montinari (quest’ultimo, peraltro, non ave34 va tuttavia escluso l’ipotesi di una pubblicazione separata, come documento storico, de La volontà di potenza) aveva sancito, in forma filologicamente rigorosa, il testo, la cronologia e l’ambito tematico di pertinenza di ciascun frammento all’interno della produzione di pensiero di Nietzsche confluita nei cosiddetti Frammenti postumi, e indirettamente nell’Anticristo e nel Crepuscolo degli idoli. Tra gli argomenti a sostegno di questa obiezione domina innanzitutto la ripresa dell’accusa di arbitrio, faziosità e falsificazione, che in più modi fu rivolta a Elisabeth Förster Nietzsche in rapporto alla scelta, compilazione e distribuzione dei frammenti per l’edizione di Der Wille zur Macht del 1906, in cui, tra i vari piani dell’opera abbozzati da Nietzsche, veniva fatto riferimento esclusivamente a quello di Nizza del 17 marzo 1887, e in cui, oltre all’occultamento e smembramento di testi, venivano mescolati sistematicamente frammenti di periodi diversi. L’insieme di queste accuse rendono la Volontà di potenza un puro documento storico di fronte all’impresa storico-critica, realizzata da Colli e Montinari, di presentare i testi nella forma e nella successione, filologicamente corrette, in cui sono tramandati dai manoscritti. E proprio sulla validità storicodocumentaria dell’apparato di commento e note, a cui pure fa seguito una “tavola di concordanza” tra le varie edizioni dei frammenti, si concentrano di fatto la maggior parte delle critiche alla riedizione italiana de La volontà di potenza. Alla lunga postfazione di Maurizio Ferraris, Storia della volontà di potenza, che accompagna questa pubblicazione, viene in particolare rimproverato di non fornire un orientamento sufficientemente documentato nella diversità del materiale di cui si compone la Volontà di potenza, costituito da frammenti di rilevante contenuto filosofico, abbozzi, varianti, materiale preparatorio di opere pubblicate da Nietzsche stesso, riflessioni e appunti a margine di letture, trascrizioni di brani di altri autori, che in misura ovviamente diversa hanno subito poi l’intervento dei curatori dell’opera originale. Tuttavia il taglio biografico-ermeneutico adottato da Ferraris nella sua postfazione, in cui un certo tipo di “cronologia” viene elevato al rango di genere letterario attraverso l’uso dei materiali e il modo della scrittura, si mostra più incline, come è stato osservato, a dar conto della storia degli effetti suscitati dalla ricezione di quest’opera, la cui contraddittorietà filosofica, la rischiosa inquietudine, il gioco di aperture e chiusure costituiscono non tanto il limite, quanto il carattere TENDENZE E DIBATTITI di attualità proprio della proposta di pensiero nietzscheana. Da questo punto di vista la Volontà di potenza si presenterebbe come opera in sé - e come tale, secondo alcuni, dovrebbe innanzitutto essere giudicata - per l’intima connessione che la lega ai suoi effetti: da un lato, il peso di quest’opera sulla grande cultura filosofica del nostro secolo, a cominciare dall’interpretazione di Nietzsche elaborata da Heidegger alla fine degli anni ’30; dall’altro il ruolo stesso della concezione che sta alla base di quest’opera come progetto fondamentale all’interno dell’ultima produzione di pensiero di Nietzsche, che testimonia del preciso intento del filosofo di concentrare in un’opera sulla “trasvalutazione di tutti i valori” quanto era stato annunciato con lo Zarathustra. Tuttavia, troppo semplificante, se non addirittura deviante, è apparsa ad alcuni critici la linea interpretativa proposta da Ferraris, che secondo una prospettiva teleologica collegherebbe il giovanile studio di Nietzsche su Teognide al Wille zur Macht, per cui la centralità dell’idea di volontà di potenza verrebbe a identificarsi con una sorta di “radicalismo aristocratico”, con il rischio di consegnare di nuovo il pensiero nietzscheano alla lunga e insistita strumentalizzazione nazista di cui già fu vittima. All’ipotesi di un Nietzsche potenziale precursore del nazismo, che la proposta interpretativa di Ferraris, come è stato obiettato, parrebbe pericolosamente avallare, è necessario opporre, secondo alcuni, le responsabilità personali della sorella del filosofo, Elisabeth Förster Nietzsche, che nell’opera di manipolazione e compilazione dei frammenti per l’edizione del 1906 di Der Wille zur Macht sarebbe intervenuta arbitrariamente con scelte, smembramenti, inclusioni e occultamenti di testi, tali da contribuire al consolidarsi tra gli interpreti dell’idea di un fondo antisemitico del pensiero nietzscheano, direttamente conseguente dall’aristocraticismo iperbolico di Nietzsche, dalle sue requisitorie contro i deboli e gli oppressi, a favore dei signori. Se anche, come è stato osservato, il sottolineare l’irriducibilità degli elementi di durezza aristocratica della concezione nietzscheana non significa consegnarla, in modo semplicistico, all’ideologia nazionalsocialista, pure una tale operazione recupera e attualizza un Nietzsche “mitico”, lontano dal confrontarsi con il contesto culturale della sua epoca, con le posizioni antidemocratiche di pensatori a lui contemporanei; un confronto che solo potrebbe mettere in chiaro il potenziale critico del suo pensiero. Da un tale punto di vista la Volontà di potenza rappresenterebbe nient’altro che lo specchio della sua epoca, della crisi di valori dell’Europa, a cui Nietzsche reagisce auspicando il trionfo dei forti, portatori di valori, degli aristocratici, contro i deboli, fautori della cultura di massa, del democraticismo, del socialismo. E se anche, come è stato osservato, da questa comprensione del mondo in quanto lotta e interazione di individuali volontà di potenza si volesse dedurre una sostanza metafisica, che “celebri” la volontà di potenza come “fondamento del reale”, questo non spiegherebbe ancora il fatto che in Nietzsche l’entrata nel “male del pensiero” implichi l’uscita nel “Terzo Reich”. In risposta a questa serie di obiezioni si è osservato che considerare l’antisemitismo nietzscheano come fatto secondario, o comunque relativo, secondo quell’atteggiamento diffuso che distingue nelle grandi figure della cultura occidentale tra ciò che è essenziale della loro opera e ciò che è caduco, significa non distinguere tra patologia e ideologia; una distinzione, che nello specifico del significato attuale di un’opera controversa come la Volontà di potenza non solo ne giustificherebbe la pubblicazione sul piano della storia della ricezione di Nietzsche, ma ne convaliderebbe ulteriormente il carattere di documento storico. Di fatto, così è stato osservato, l’inquadramento del pensiero nietzscheano all’interno di una prospettiva che in definitiva si sarebbe rivelata di stampo nazista è un atto ideologico di strumentalizzazione, sia pur giustificato da un processo patologico di corruzione del pensiero, che sebbene abbia dato adito ad una tale distorsione, ha notevolmente arricchito il significato di quel pensiero sul piano speculativo. In tal senso, è stato notato, non si può non riconoscere che nella concezione della volontà di potenza, come in quella dell’eterno ritorno, che insieme caratterizzano nel segno della trasvalutazione l’epoca dello Zarathustra, è all’opera la ricerca di Nietzsche della “redenzione dalla redenzione”, della “fine della promessa”. Il non rendersi conto che con questo ci si trova di fronte ad un pensiero che vuole essere “al di là del bene e del male”, al di là di qualsiasi concezione etica, significa rinchiudere la volontà di potenza all’interno di uno psicologismo che s’illude di vedere ancora nell’uomo il soggetto delle proprie scelte, l’artefice del proprio destino. L’impossibilità di una tale chiusura, che è anche quella, come è stato osservato, del significato nella forma, ovvero della forma su se stessa, che dà luogo al sorgere del senso, è appunto l’esperienza fondamentale che emerge dalla Volontà di potenza, l’esperienza del nichilismo come 35 risposta alla crisi dell’idea di cultura. Ma la perdita di cogenza della forma ne implica l’imposizione autoritaria a un universo che non si lascia più rinchiudere in un orizzonte fisso: da qui appunto l’aristocraticismo e l’antidemocraticismo di Nietzsche. R.R. La vicenda editoriale della Volontà di potenza è tormentata per quello che è successo dopo, ci fosse o no quella compilazione, fuori o dentro l’Archivio, con o senza Elisabeth - e in una storia che è anche nostra; ma non è affatto oscura, né lo è stata sin dal 1906, quando, in vivacissime polemiche, si seppe tutto l’essenziale; un essenziale che, per motivi che mi risultano parzialmente inspiegabili, sembra risorgere periodicamente come una rivelazione assoluta. August ed Ernst Horneffer polemizzano all’inizio del secolo, Podach negli anni Trenta, Schlechta negli anni Cinquanta, Colli e Montinari negli anni Sessanta; tutti dicono le stesse cose, e cioè che la Volontà di potenza, come del resto risulta chiarissimamente dall’apparato della edizione Weiss nella Gross-Oktav (1911) non segue un ordine cronologico e compie accorpamenti arbitrari. E’ quello che, ovviamente, dico anch’io. Per non iterare un discorso già troppe volte ripetuto, mi limito a citare quanto scrivo (tra molte altre cose, anche relative alla vicenda editoriale) nella mia cronologia: «Ecco allora che cosa hanno sempre saputo in molti, i redattori dell’Archivio e i loro nemici, e che parve invece riemergere di tempo in tempo come una apocalisse. 1. Elisabeth e Gast nel 1906, estendendo la compilazione di Gast e Ernst e August Horneffer del 1901, hanno ordinato in modo tematico, appoggiandosi al piano abbozzato da Nietzsche nel marzo ’87, ai 372 frammenti numerati dell’autunno di quell’anno e alla rubrica relativa, ma spaziando dal 1883 al 1888, ciò che in buona regola filologica avrebbe dovuto essere disposto cronologicamente. Non si trattò di una decisione incontrastata, e sin dall’inizio ci furono discussioni nell’Archivio e fuori, baruffe pubbliche e universalmente note. Fu inoltre un patto più o meno scellerato stretto tra due, Gast e Elisabeth, che non si amavano, gelosi dell’amico e fratello, rivali sul lascito, dalla cui gestione il musicista era stato allontanato in malo modo per sei anni; si può ragionevolmente pensare che dei falsi ideologici si potessero orchestrare in una circostanza del genere? Tornando al Wille zur Macht, si noti però che la classificazione arbitraria non escludeva l’edizione di altri frammenti nei voll. XIII e XIV (1903 e 1904, dunque prima di Wille zur Macht2) della Gross-Oktav relativi al “periodo della trasvalutazione” (1882/3-1888); che in ogni edizione TENDENZE E DIBATTITI del Wille zur Macht, con punte in Weiss e in Würzbach, vennero pubblicati altri piani; e che nel 1901, nella pagina a destra del frontespizio, si poteva leggere: Nachgelassene Werke / Der Wille zur Macht / Versuch einer Umwerthung aller Werthe / (Studien und Fragmente) / von / Friedrich Nietzsche. Studi e frammenti, dunque, non opere definitive. Questa è stata la scelta decisiva, dettata dai motivi più diversi, fossero l’interesse venale, l’esigenza di rispondere alle attese del pubblico, il (presunto) pregiudizio del sistema o altro. Tutto il resto, come nella settima proposizione della ‘legge contro il cristianesimo’, ‘segue da ciò’. Ossia: 2. La decisione di accorpare frammenti di epoche diverse. Il terminus a quo, l’anno 1883, non è del resto privo di motivi, visto che il progetto di un’opera teoretica accompagna e segue la stesura dello Zarathustra. 3. Quella di comporre con frammenti diversi (e in rari casi con materiale allotrio ma comunque di Nietzsche, come brani di lettere o avantesti di altre opere) uno pseudoaforisma o, inversamente, di frammentare un testo continuo per cavarne più ‘aforismi’. 4. Quella di sostenere (in un complicato rapporto con il pregiudizio del sistema) che il Wille zur Macht, capo d’opera sistematico, sarebbe stato però composto non di testi continui di cui ci restano abbozzi preparatori, ma per l’appunto di aforismi, secondo il modello rifiutato o superato già nella Genealogia della morale, e che riappare parzialmente nelle opere del 1888. 5. La scelta di cassare dei frammenti, per esempio dalla lista dei 372, che risultassero incompleti, o ripetitivi, o ‘poco filosofici’, ossia contrastanti con l’autoconclusività dell’aforisma o con la pretesa di un piano organico.» (pp. 611-12). Una volta appurato, come è risaputo da quasi novant’anni, ossia appunto dall’apparire della Volontà di potenza, che non si tratta di un’opera voluta da Nietzsche, né soprattutto voluta in quel modo, mi sembra inutile passare dalla storia alla psicologia e chiedersi se la compilazione rispecchiasse o meno le sue intenzioni. Ovviamente non le rispecchia, nel senso che Elisabeth e Gast non le conoscevano così come non le conosciamo noi. Ma proprio per questo non possiamo nemmeno semplicemente dire che le falsifica. I testi presenti sono tutti di pugno di Nietzsche, mentre una diffusa leggenda voleva che ci fossero delle aggiunte antisemite o protonaziste (termine che mi resta sostanzialmente oscuro: se si vuol dire che il Wille zur Macht esce 25 anni prima dell’ascesa al potere di Hitler, dovremmo concluderne che allora una qualunque opera apparsa nel 1970, ossia 25 anni dopo la capitolazione, è tardonazista). Poi, Nietzsche non era an- Friedrich Nietzsche, 1882 36 tisemita, ma platealmente filosemita, e questo è largamente attestato nel Wille zur Macht confezionato da Elisabeth e da Gast. Come la poesia, così la filologia e la filosofia non si fanno con le buone o cattive intenzioni. Se assurdo è concludere che Nietzsche avrebbe fatto il Wille zur Macht nel modo in cui lo hanno combinato Elisabeth e Gast, tanto più assurdo - già sul piano meramente algebrico - è escludere che non lo avrebbe fatto in qualunque altro modo. La verità è che non ne sappiamo nulla. Su altre questioni sappiamo invece moltissimo. Conosciamo la tragedia di Nietzsche e soprattutto la catastrofe della Germania e dell’Europa (non lo si scordi, per non attribuire a un solo popolo un male che ci riguarda tutti). Conosciamo il tentativo (sostanzialmente fallito) di arruolare Nietzsche (tutto Nietzsche, non solo quest’opera) nel Terzo Reich; conosciamo il tentativo postbellico o di proscriverlo, oppure di addossare le responsabilità del male che è in lui alla sorella. Conosciamo, ed è un esperimento alla portata di chiunque abbia la pazienza di farlo, la coerenza di pensiero tra i frammenti postumi ordinati cronologicamente, la compilazione tematica di Elisabeth e di Gast, e le opere pubblicate da Nietzsche. Mentre sulle intenzioni di Nietzsche ragionare non ha senso, ragionare su quest’ultima circostanza di senso ne ha alquanto. Nietzsche ha scritto cose tremende. Possiamo dirlo, senza con questo sposare il partito di Bäumler, né quello di Lukács (che restano differenti, e nella scelta, che fortunatamente non si porrà mai, sarei per Lukács); dobbiamo dirlo, per non cadere nell’equivoco di ammansire Nietzsche sino a renderlo irriconoscibile. In quel male (e qui si passa al contesto, alla storia e alla filosofia, visto che grazie a Dio non siamo in un tribunale: per questo preferisco la democrazia e il giornalismo che d’altra parte, e per motivi non futili, Nietzsche biasimava), non è stato il solo: si pensi a Baudelaire e a Dostoevskij. E’ il segno di una crisi europea da cui dubito che si sia usciti, e da cui dubito specialmente che se ne esca dicendo che Nietzsche non ha mai scritto certe cose, oppure sostenendo che Auschwitz è un caso, oppure (o peggio) che è il semplice segno di una fatalità faustiana del popolo tedesco. Il modo migliore per capire è, credo, non bendarsi gli occhi. E’ quello che cerco di fare nella mia cronologia. E’ così semplice da intendersi. Si dà un testo di cui non si nasconde, e sin dalla copertina (“Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche”), il carattere compilativo; si danno le concordanze con i postumi, in modo che ogni uomo di buona volontà possa ragguagliarsi sul genere di interventi dei curatori del 1906; TENDENZE E DIBATTITI Abbozzo per il Wille Zur Macht, Sils Maria 1888; Elisabeth Förster Nietzsche, 1916 si racconta la gestazione del concetto in Nietzsche, la storia dell’Archivio, le vicende e le interpretazioni prebelliche e postbelliche. Soprattutto, si dà un testo che è stato letto da Heidegger e non da Hitler. Ma se anche lo avesse letto, invece di leggere Schopenhauer, crediamo davvero che sarebbe cambiato qualcosa? E siamo davvero tanto speranzosi (“animali speranzosi”, così Nietzsche chiamò una volta i filologi) da pensare che una edizione storico-critica avrebbe inibito l’abuso? Questo è tanto poco vero che una edizione storico-critica, non meno esigente e rigorosa della ColliMontinari, fu avviata da Elisabeth e proseguì nella Germania di Hitler, e fu interrotta non da Goebbels, ma dalla disfatta tedesca. Ora, resta per me moralmente inesplicabile che non si riesca a intendere qualcosa che, razionalmente e intellettualmente, è tanto semplice: il fatto, cioè, che la voglia di non bendarsi gli occhi rispetto alle durezze e agli abissi di un autore, Nietzsche, che per altri versi si ama, non significa in nessun modo approvare quelle durezze. Del resto non c’è scelta, le alternative essendo la credula cecità o la condanna non meno cieca. Si rifletta, per analogia, sul caso di Machiavelli. Il suo nome è stato associato a tutti i machiavelli e alle basse storie di cui si è nutrita la crisi europea, e specialmente italiana. Ovvio che lui non ne è il responsabile. Ma proprio perché non ne è il responsabile, non c’è assolutamente bisogno di angelicarlo; Machiavelli resta colui che non ha esitato a sputar fiele sul morto Pier Soderini. Così Nietzsche. Ovvio che non ha mai fabbricato un Lager; ma proprio per questo, non c’è affatto bisogno di negare che il male che compare con tanta violenza in tante sue pagine è il frutto di una falsificazione dell’eredità o di un equivoco ermeneutico. «Lo “sfruttamento” non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. Ammesso che questa, come teoria, sia una novità - come realtà è il fatto originario di tutta la storia: si sia fino a questo punto sinceri con se stessi» (Al di là del bene e del male). Questo, Nietzsche l’ha scritto nel pieno possesso delle sue facoltà. Possiamo far finta che non l’abbia scritto; possiamo dire che la volontà di potenza è un concetto essoterico e pubblicitario (bella pubblicità!). Oppure possiamo dire che lo ha scritto, e chiederci che cosa volesse dire. Non espressamente, visto che il significato letterale di questa frase è davvero troppo chiaro. Ma chiederci perché lo scrivesse, e che morale dobbiamo trarne noialtri. Ecco il 37 contesto, storico e non solo storico. E’ chiaro che Nietzsche non scriveva queste cose per semplice cattiveria o per cruda bestialità; ma se questo è vero, allora il male è nello spirito più grande, e non potremo consolarci pensando che sia appannaggio dei bruti. Chi non ama Baudelaire? Eppure lui (e non Nietzsche) era davvero antisemita, e fantasticava di una congiura per sterminare gli ebrei, “bibliotecari e testimoni della Redenzione”. Il curatore delle opere nella Pléiade commenta quel passo dicendo che è di difficile interpretazione, e che ogni antisemitismo è da escludersi. Bell’affare! Lo stesso che risuona in chi pretende che il male di Nietzsche non è affar suo, ma di sua sorella. E’ quanto scrivo nella quarta di copertina: «E se anche la lode del terrore e dello sfruttamento - uguale in questi frammenti 1883-1888 ordinati dalla sorella e dal discepolo e copista Peter Gast così come in opere che Nietzsche pubblicò nel pieno dei suoi spiriti - sembra precorrere Auschwitz, non è un buon motivo per accusare la sorella-parafulmine, e per dire che Nietzsche non avrebbe mai voluto o pensato La volontà di potenza. Esiste insomma un male dello spirito, e si avrebbe torto addossandolo ai poveri di spirito soltanto, pena sottoscrivere proprio quel male che traspare sotto il nome di Volontà di potenza.» Se non facciamo i conti anche con questo, ci ritroveremo sempre a stupirci del male PROSPETTIVE DI RICERCA Pagina con iniziale miniata di un manoscritto del XIV sec. 38 PROSPETTIVE DI RICERCA PROSPETTIVE DI RICERCA La logica di Ockham E’ rilevante, per accuratezza e ampiezza dell’apparato critico, la prima edizione italiana della SUMMA LOGICAE di Guglielmo di Ockham, che compare col titolo: LOGICA DEI TERMINI (traduzione, introduzione, note e indici di Paola Müller, Rusconi, Milano 1992). L’opera segna una svolta all’interno, più che della logica, della filosofia medievale, marcando in essa, in modo nuovo, la differenza tra logica antiqua e logica modernorum, e aprendo la strada alla considerazione semantica. Vexata quaestio all’interno della bibliografia critica dedicata a Guglielmo di Ockham, è il tentativo di stabilire il legame fra la sua impostazione logica e quella ontologica da una parte, e le prese di posizione politiche dall’altra. Come è noto, da un punto di vista biografico si può riscontrare una cesura fra gli studi di carattere più esplicitamente filosofico e teologico e quelli invece di carattere politico ed ecclesiologico, in coincidenza con la fuga di Ockham da Avignone, a seguito del contrasto con Giovanni XXII, e il successivo asilo presso l’imperatore Ludovico il Bavaro. Da quel momento Guglielmo, francescano, sostenitore della povertà della Chiesa, si dedica soprattutto a trarre da questo precetto evangelico l’estrema conseguenza relativa alla negazione della legittimità del potere temporale della Chiesa, finalizzando questa tesi a quella dell’indipendenza del potere civile da quello ecclesiastico. Dal punto di vista gnoseologico, il fondamento di queste posizioni risiede nella distinzione tra conoscenza razionale e fede; la prima, che può essere intuitiva o astrattiva, pone capo a verità che non possono essere confutate dalla fede. E’ proprio nell’articolazione della conoscenza che il terminismo ockhamiano trova le proprie radici. Guglielmo sostiene infatti il primato della conoscenza intuitiva nei confronti di quella astrattiva sulla base del fatto che la prima, per ciò che concerne gli enti naturali (escludendo, dunque, quelli la cui esistenza è materia di fede), presuppone l’esistenza dell’oggetto intenzionato. La notitia in- tuitiva, cioè questo tipo di conoscenza, è sempre singolare, poiché nessuno degli enti naturali è un universale. Ma se questo è il percorso teorico che dall’affermazione ontologica della singolarità degli enti risale, dal punto di vista logico, al nominalismo, dal punto di vista storiografico il cammino compiuto da Ockham segue la direzione opposta, prendendo avvio dalle posizioni del nominalismo logico, a cui conferisce un significato esplicitamente ontologico. Qui risiede la “svolta ockhamiana”, la sua novità, che in prima istanza non riguarda tanto la logica, quanto la riflessione filosofica nel suo complesso. Il nominalismo logico di Ockham non presenta, in quanto tale, motivi di novità sostanziale nei confronti delle posizioni nominaliste del Duecento e, in ultima analisi, non consiste altro che nella definizione della logica come scienza “formale”. Ma quando, con Guglielmo, il nominalismo diventa una posizione filosofica, ponendo capo alla tesi del carattere singolare degli oggetti di natura, vanno in crisi proprio i modelli metafisici precedenti, tanto gli essenzialismi platonico-agostiniani, quanto il modello concordista del tomismo. Per questo la logica modernorum, di cui Ockham è iniziatore, prima che capitolo di storia della logica, è momento di svolta all’interno della metafisica. Il “rasoio di Ockham”, o principio di economia, secondo il quale occorre non introdurre più enti di quanto non sia necessario alla spiegazione di fenomeni, porta così il filosofo a precorrere la critica humeana al concetto di sostanza; analogamente, grazie al suo “rasoio”, anche il “volontarismo teologico”, cioè la tesi relativa all’assoluta libertà di Dio, discende dalla critica di Ockham alla causalità teleologica. D’altra parte, come mostra Paola Müller in modo estremamente puntuale nella sua Introduzione, rilevanti e decisive sono le innovazioni che con Ockham si aprono allo strumento logico formale medesimo, quasi come ricaduta dell’impostazione metafisica. Così la sua teoria della significazione, inserita all’interno della discussione sulla natura (“significativa”) dei termini, e quella della supposizione, che per Ockham consiste nella «proprietà di un termine in un contesto proposizionale», costituiscono spunti teorici rilevanti anche 39 per la semiotica contemporanea. F.C Emil Lask: la logica della filosofia Nello studio EMIL LASKS GRUNDLEHRE (La dottrina fondamentale di Emil Lask, J. C. B. Mohr, Tübingen 1992) Stephan Nachtsheim ricostruisce, nella prospettiva di un confronto critico e problematico, il pensiero di Emil Lask, filosofo di orientamento neo-kantiano, definito da Heidegger nel 1919 «una delle più forti personalità filosofiche del presente». Emil Lask fu docente all’Università di Heidelberg, dove fu allievo di Heinrich Rickert. Morto nel corso della prima guerra mondiale nel 1915, all’età di trentanove anni, egli lasciò una serie di scritti di teoria della conoscenza, di logica e di filosofia del diritto che risentono dell’atmosfera del neo-kantismo badense e che al tempo stesso sviluppano alcuni motivi originali, che avrebbero avuto un certo influsso sui contemporanei (tra cui, ad esempio, Martin Heidegger, che in diverse occasioni ne ha riconosciuto l’importanza per la propria filosofia). Come Rickert, Lask si rifà a Kant. Ma, invece di partire dalle funzioni soggettive dell’intelletto, riprende, riferendosi al maestro e a Lotze, la distinzione tra essere e valore. Concetto centrale nella sua teoria della conoscenza è quello delle forme della conoscenza che valgono in modo transsoggettivo. La distinzione tra essere e valore è per lui l’ultima distinzione fondamentale nel «tutto del pensabile in generale». Centrale nella sua dottrina è così come mette in luce Stephan Nachtsheim - l’idea di una “logica della filosofia”. Questa logica è però in Lask qualcosa di formale, riguardante le categorie, ma i contenuti a cui tali categorie si applicano possono essere alogici o irrazionali. Lask intende così reagire a una riduzione “panlogistica” della vita spirituale alla logica, o dei contenuti del pensiero alle forme razionali. Nel suo studio Nachtsheim si riferisce soprattutto agli scritti fondamentali di Lask: PROSPETTIVE DI RICERCA Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre (La logica della filosofia e la dottrina delle categorie, 1911) e Die Lehre vom Urteil (La dottrina del giudizio, 1912). A differenza dei precedenti studi su Lask di Konrad Hobe e di Hans-Peter Sommerhäuser, risalenti agli anni ’60, egli utilizza anche i testi appartenenti al lascito laskiano e contenuti nel III volume delle Gesammelte Schriften, un corso su Platone e alcuni scritti e appunti dedicati al problema di una dottrina della conoscenza e della verità. Secondo Nachtsheim non il “pensiero puro” ma il “soggetto vivente” (das erlebende Subjekt) è in questione in questi testi, e da ciò risulterebbe la prossimità di Lask ad alcuni motivi della Lebensphilosophie. Lo studio di Nachtsheim non si presenta come una ricostruzione storica, ma vuole essere una discussione critica della filosofia di Lask, della quale intende in particolare «sviluppare ulteriormente il programma della dottrina delle categorie» alla luce del problema di una Letztbegründung della filosofia, cioè di una sua funzione fondante e autonoma di fronte alle scienze positive. E’ dalla soluzione di tale questione che dipende, per Lask, la possibilità della filosofia di adempiere la funzione di scienza originaria (Urwissenschaft) dell’ambito teoretico. Egli delinea così l’idea di una logica filosofica nella quale i contenuti della riflessione gnoseologica diventano, a loro volta, oggetto dell’analisi. Si apre così l’ambito di una dottrina delle categorie, o di una teoria della logica che si distingue dalle teorie delle diverse “regioni categoriali” (filosofie dell’arte, della religione, della natura ecc.), a loro volta distinte dai contenuti (arte, religione ecc.), e che si pone così come una metateoria dell’ambito teoretico e logico. M.M. Il viaggio in Italia dei Goethe Nella ITALIENISCHE REISE, Johann Wolfgang Goethe nota che suo padre, nella sua vita, non fu mai del tutto infelice perché poteva pur sempre ricordarsi di essere stato a Napoli, una volta. GOETHES VATER REIST NACH ITALIEN ( Il padre di Goethe in viaggio per l’ Italia) è il titolo di una bella mostra che ha chiuso i battenti il 14 marzo 1993 al Freies Deutsches Hochstift Frankfurter Goethe Museum di Francoforte sul Meno. L’esposizione, curata da Doris Hopp, presenta - evidenziandone le tre tappe fondamentali, Venezia, Roma e Napoli - le fasi e le modalità del viaggio in Italia di Johann Caspar Goethe. La storia ha celebrato in Johann Wolfgang Goethe un grande della cultura di tutti i tempi; suo padre Johann Caspar, invece, viene ricordato come un tranquillo, solido borghese che ha dato i natali ad un genio dell’umanità. Eppure, l’amore per il viaggio, ed in particolare per l’Italia, fu trasmesso al giovane Goethe proprio dal padre che, nel 1740, aveva compiuto un viaggio in Italia di circa otto mesi. Appena trentenne, conclusi gli studi giuridici a Gießen con un dottorato, Johann Caspar Goethe affrontò il Grand Tour verso il Sud inaugurando, si può ben dire, una tradizione che, proprio a partire da quegli anni, vedrà i giovani della buona borghesia compiere viaggi di formazione all’estero, in precedenza privilegio esclusivo dei nobili. L’Italia del tempo era, come è noto, meta prediletta per quanti volessero allargare le proprie conoscenze riguardo all’arte e alla storia. Tuttavia la presenza di così differenti forme di governo in un territorio relativamente ristretto come la nostra penisola, forniva un notevole oggetto di studio ad un giurista quale J. C. Goethe - molto dotato nel parlare l’italiano - che poteva in tal modo coronare degnamente la sua brillante carriera universitaria. Ma per il viaggio italiano di Goethe padre non mancarono stimoli di natura puramente edonistica. Il carnevale di Venezia fu per lui, ad esempio, un’attrattiva eccezionale, potendo nella città lagunare vedere per la prima volta il mare. Il giovane, entusiasta viaggiatore trascorse le prime due settimane di aprile a Napoli, le cui bellezze naturali vengono considerate come in seguito dal figlio Johann Wolfgang - “paradisiache”. Johann Caspar fu, inoltre, uno dei primi tedeschi a visitare Ercolano, i cui scavi erano iniziati appena due anni prima. Risalendo a nord Goethe padre si fermò solo due settimane a Roma, città troppo cattolica per un convinto protestante come lui. Ancora a Venezia, poi, attirò la sua attenzione per un intero mese; stupisce, invece, che egli abbia trascorso cinque settimane nella calura estiva di Milano. Ma con buone probabilità il lungo soggiorno lombardo era dovuto ad una vicenda sentimentale con Maria Giuseppa Merati. L’ultima tappa italiana di Johann Caspar è Genova dal cui porto sul finire dell’agosto del 1740, salpò alla volta di Marsiglia. In una riuscita fusione tra documentazione scientifica e trattamento scenografico-teatrale del materiale a disposizione la mostra ricostruisce un episodio fondamentale della vita di Goethe padre. Questi avrebbe ripercorso idealmente la sua discesa al Sud cimentandosi, a partire dal 1760, nella stesura del diario Viaggio per l’Italia. Si tratta di una descrizione del viaggio compiuto vent’anni prima, redatta nella forma, classica per il Settecento, di lettere inviate ad un destinatario fittizio. L’opera risente certamente delle convinzione del tempo e delle scarse capacità letterarie di Johnann Caspar Goethe; eppure, essa è unica nel suo genere poiché 40 redatta in lingua italiana da un ormai anziano pedante, un soddisfatto pater familias che scrive solo per se stesso. Il Viaggio per l’Italia uscì per la prima volta nel nostra paese a cura di Arturo Farinelli; correva l’anno 1932 e, per ironia della sorte, tutto il mondo celebrava i cento anni della morte di Johann Wolfgang Goethe. Una traduzione in tedesco del curioso diario di viaggio di Johann Caspar Goethe è apparsa nel 1986 a cura della Deutsche-Italienische Vereinigung di Francoforte sul Meno. N.B. ‘Il Candelaio’ di Bruno E’ stato di recente pubblicato in traduzione francese IL CANDELAIO (trad. di Y. Hersant, introd. di G. Aquilecchia, prefaz. di G. Barberi Squarotti, Belles lettres, Paris 1993), primo volume dell’opera omnia di Giordano Bruno in 20 volumi, di cui l’ultimo uscirà simbolicamente il 17 febbraio 2000, quarto centenario del rogo del filosofo a Campo dei Fiori. Il progetto e la realizzazione di questo lavoro sono diretti da Yves Hersant, dell’Ecole Hautes Etudes di Parigi e da Nuccio Ordine, dell’Università di Arcavacata, con il patrocinio dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Che si tratti di un evento culturale importante, lo sottolineano sia i giornali italiani che francesi, le librerie del centro di Parigi e una presentazione del progetto-Bruno al Gran Salon de la Sorbonne sotto il patronato della rettrice, Michèle GendreauMassaloux, presenti Gerardo Marotta, Presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, Michel Desgranges, direttore delle edizioni Belles Lettres, Yves Hersant e Nuccio Ordine, e Marc Fumaroli, del Collège de France, che ha tenuto una conferenza sull’ironia bruniana. Al di là del battage pubblicitario, questo progetto è un autentico unicum, come ha sottolineato Nuccio Ordine in una intervista: «In Spagna hanno tradotto quasi tutte le opere italiane di Bruno; in Germania stanno traducendo le latine; in Inghilterra, in Giappone, in Russia altre traduzioni parziali sono in corso. Ma da nessuna parte, neanche in Italia, esiste un’edizione integrale e critica come quella che stiamo preparando in Francia». La novità di questa edizione è dunque la completezza e la critica filologica delle opere italiane e latine di un filosofo come Bruno spesso citato e poco studiato a fondo. Il gruppo di traduttori, filosofi, letterati, filologi è di livello europeo e questo incrocio savant di italiani, spagnoli, francesi, inglesi ecc... sarebbe piaciuto al girovago Bruno, tre volte scomunicato (da cattolici, protestanti, calvinisti), braccato ovunque, sempre in fuga. Per le opere italiane l’edizione critica è stata stabilita da Giovanni Aquilecchia, quella latina da Rita Sturlese. Due criteri essenziali ac- PROSPETTIVE DI RICERCA compagnano questo progetto: per ogni opera la traduzione e la introduzione sono affidate a studiosi diversi, inoltre il testo originale è sempre a fronte. Il candelaio è nella scrittura di Bruno un caso particolare: è l’unica commedia che abbia mai scritto e denota una “pirotecnica linguistica” assai sconvolgente. La storia è metà-oscena, metà-edificante. Bruno è ben lontano dall’essere un presuntuoso moralista; dalla sua ha l’arma più temibile e sofisticata che ci sia: l’ironia, il riso, la satira, unica panoplia per un uomo libero in un mondo di “pedanti”. Anche le pagine buffe, oscene, divertentissime del Candelaio vanno lette come il rifiuto assoluto di ogni dogmatismo attraverso il riso, il tentativo filosofico di pensare insieme, anche attraverso il comico, l’uno e il molteplice, il centro e la periferia, il dettaglio e l’insieme. La commedia è il laboratorio comico di una visione cosmologica concepita come ossimoro in atto. Di questo tenere insieme gli opposti, giocando con gli estremi, è cifra la figura dell’asino che nella sua proverbiale cocciutaggine e ottusità nasconde una scintilla di divinità. A questa figura Nuccio Ordine ha dedicato un libro, ora tradotto in francese per le Belles Lettres, dal titolo Le mystère de l’ane. F.M.Z. Herder: la filosofia e il linguaggio Un giovane ricercatore, Pierre Pénisson, già noto in Francia e in Germania per l’edizione critica del TRATTATO SULL’ ORIGINE DELLA LINGUA (1772) di Johann Gottfried Herder, ha organizzato a Parigi il colloquio: HERDER ET LA PHILOSOPHIE DE L’ HISTOIRE, e ha presentato in questa primavera (in particolare nel quadro d’incontri franco-tedeschi) alcuni motivi fondamentali del pensiero di Herder, a cui ha dedicato recentemente un saggio dal titolo: J. H. GERDER, LA RAISON DANS LES PEUPLES (Cerf, Paris, 1992). Scopo del lavoro di Pierre Pénisson è riabilitare lo stile originale e polimorfo di Herder contro, da un lato, le oziose semplificazioni, che vedono in lui solo l’odioso precursore di certi “demoni” moderni (nazionalismo, irrazionalismo, relativismo, storicismo), dall’altro, le interpretazioni selettive e interessate, che ne hanno segnato la storia della ricezione. Eroe dell’idea di nazione e del monde storico, Johann Gottfried Herder fu per Edgar Quinet, che l’introdusse in Francia, «l’Erodoto della filosofia della storia», e una delle referenze privilegiate di Michelet e di Renan: in questo contesto, fu soprattutto conosciuto e stimato per la sua riscoperta del folklore e per le sue idee sulla storia. E’ noto come l’ideologia nazista abbia elaborato un’immagine durevole e deformata di Herder, in grado di giustificare ideologicamente una politica di potenza, sebbene l’antica Germania “democratica” e la critica sovietica (differenziandosi da Lukács) abbiano proposto un Herder un po' meno fosco, vicino al popolo e ai popoli, sottolineandone l’empirismo quale rimedio alle speculazioni sistematiche e idealiste rifiutate dal marxismo. Questa attuale pertinenza di Herder nel quadro filosofico contemporaneo (un colloquio internazionale riuniva nel novembre 1987 i partecipanti sotto il tema: “Herder today”, a Stanford) è stata, ancora una volta, confermata nelle discussioni del congresso parigino del 1993 (presenti: G. Arnold, E. Behler, M. Bollacher, P. Caussat, D. Modigliani, T. Namowicz, R. Otto, W. Malsch, E. A. Menze, E. Fauquet, M. Crespon, K. Menges, L. Sala Molin, B. Binoche), che si è sviluppato nella prospettiva di una riflessione sulle nozioni di cultura, di lingua, di nazione, di storia certo, in cui Herder figurava al centro di una rinnovata interpretazione. Pénisson non gioca il popolo contro i popoli, anche se indica la prossimità di Herder con molti temi della “Popularphilosophie”; il “popolo” herderiano, nozione centrale della sua antropologia, designa ogni “comunità d’individui”, o la “storia comune”, la “cultura”, la “credenza”, e non è al di fuori dei popoli particolari. Pénisson insiste sulla profusione delle particolarità in contrasto con l’idea di “umanità” in sé, cercando di dimostrare come questo movimento di dispersione venga compensato in Herder da un costante lavoro di passaggio, di trasposizione, di traduzione, di “transizione”. Numerosi testi herderiani testimoniano la preoccupazione del filosofo tedesco di ritrovare “la ragione nei popoli”. La ricerca di una tale unità nella diversità, al di fuori comunque di ogni dialettica totalizzante, è sempre ardua, come si vede nella ricerca di una norma interna alla storia, e nel caso del linguaggio, nel tentativo di comprendere il passaggio al linguaggio propriamente umano. Non ci si stupisca dunque che lo stile stesso di Herder sia estremamente particolare, contrassegnato da un gioco costante di déplacement, interno alla scrittura. A questo stile non è forse estranea la pratica e la riflessione sulla traduzione che in Herder, osserva Pénisson, è un nodo teorico cruciale e una chiave di interpretazione non trascurabile. L’idea che, traducendo, non si possa uscire dalla propria lingua materna (per cui si crea un Shakespeare tedesco) e che, tuttavia, la traduzione sia una “trans-plantation” reciproca fra le lingue e che un vero originale non esista, è riflessione certo portatrice di contraddizioni, ma anche di interrogativi fecondi. Alla riflessione di Pénisson non sono mancate le critiche, fra cui la più argomentata 41 è relativa al metodo stesso con cui il ricercatore francese affronta il pensiero herderiano. Nel saggio di Pénisson il pensiero di Herder non è infatti tanto ricostruito o riabilitato, quanto percorso e evocato lungo il filo delle tappe della vita e delle opere del filosofo. La prima parte del saggio è una specie di biografia intellettuale, in cui il percorso herderiano viene ritracciato come un viaggio segnato da “transizioni” (anche geograficamente: dalla Prussia orientale alla Francia, a Buckeburg, a Weimar). La seconda parte tratta del rapporto fra traduzione e canti popolari e oralità, riprendendo la polemica di Herder con Nicolai. Herder difende, a questo proposito, il procedimento “anti-critico” che supporrebbe un’“altra filosofia del linguaggio” per cui la lingua è origine e si caratterizza come flusso espressivo eccedente le determinazioni fisse dei significanti. Da qui, si apre la via per un’ermeneutica del profondo. La terza parte s’interessa rapidamente di certi aspetti della “diffusione” dell’opera herderiana nell’Europa centrale, fra i popoli slavi (Vuk, Radichtchev) e nei paesi anglofoni (Coleridge, De Quincey) e in Francia. L’ultima parte riporta due testi di Quinet. D.T. Max Weber negli Stati Uniti Nello studio MAX WEBER IN AMERIKA. WIRKUNGSGESCHICHTE UND REZEPTIONSGESCHICHTE WEBERS IN DER ANGLO -AMERIKANISCHEN PHILOSOPHIE UND SOZIALWISSEN SCHAFT (Max Weber in America. Storia degli effetti e della ricezione di Weber nella filosofia e nella scienza sociale anglo-americana, trad. ted. di Klara Bodnar, Passagen Verlag, Vienna 1992) Agnes Erdelyi analizza le trasformazioni terminologiche e concettuali subite dalla sociologia weberiana nella sua ricezione, soprattutto da parte di Talcott Parsons, negli Stati Uniti. Finito il dominio dell’ortodossia dei “classici del socialismo” le scienze sociali e umane sono alla ricerca, nei paesi una volta detti del “socialismo reale”, di nuovi punti di riferimento di carattere epistemologico. Sembra essere questo il caso dello studio in lingua ungherese di Agnes Erdelyi, recentemente tradotto in tedesco, in cui si intende ricostruire la Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) dell’opera di Max Weber negli Stati Uniti. Un problema che implica un’analisi e una valutazione del confronto e del passaggio tra due diversi ambienti culturali: la Germania di Weber, con la sua tradizione di storiografia e di Geisteswissenschaften, e gli Stati Uniti di un Tallcott Parsons, in cui la dottrina e il metodo weberiano si innestano su un terreno positivistico, naturalistico e pragmatistico. Secondo Erdelyi, Parsons discioglie la specificità della prospettiva NOTIZIARIO Sono stati pubblicati nel fascicolo n. 41 degli Hohenheimer Protokolle gli atti di un convegno dedicato al tema: FILOSOFIA RELIGIOSA RUSSA . L’eredità riguadagnata Distanza e appropriazione, a cura di Eberhard Müller e Franz Joseph Klehr (il volume può essere richiesto all’Akademie der Diözese Rottenburg-Stuttgart, Im Schellenkönig 61, Stuttgart). Centrale nei diversi interventi di studiosi tedeschi, russi e francesi è la questione della qualità e del senso della ricezione dell’eredità della filosofia religiosa russa della fine del secolo XIX e dell’inizio del XX negli ambienti intellettuali, filosofici e letterari della Russia odierna. Questa ricezione si muove oggi tra due poli: da una parte la filosofia di pensatori quali Vladimir Soloviev e Nikolaj Berdjajev viene esaltata come premessa di una trasformazione morale e spirituale della società russa; dall’altra si fa valere l’esigenza di una rottura con la tradizione come condizione di un rinnovamento della cultura. Resta in ogni caso problematico il rapporto con tale tradizione, e da più parti ci si chiede se dietro l’esaltazione delle tradizioni filosoficoreligiose della cultura russa non si celino un nuovo dogmatismo e un’avversione per il pluralismo delle idee non meno rischiosi e deleteri dell’ortodossia culturale imposta negli anni del “socialismo reale”. Il 25 febbraio 1993, presso la Deutsche Bibliothek di Francoforte sul Meno, è stata inaugurata la mostra DEUTSCHE INTELLEKTUELLE IM EXIL. Ihre Akademie und die NOTIZIARIO di aiutare con tutti i mezzi possibili gli intellettuali a proseguire il loro lavoro nelle difficili condizioni dell’esilio. Il principe di Löwenstein, infaticabile figura di studioso ed organizzatore, coinvolse importanti uomini di cultura nella nobile causa - tra gli altri, Thomas Mann e Sigmund Freud presiedettero, rispettivamente, le sezioni arti e scienze dell’Accademia. Tra il 1938 e il 1940 furono elargite a più di 160 scrittori, scienziati ed artisti, borse di studio o contributi per costi di stampa. Gli intellettuali che poterono godere di questo provvidenziale appoggio economico variarono dai conservatori Uriel Birnbaum e Joseph Roth ai socialisti Ernst Bloch, Bertold Brecht e Anne Seghers. Con il diffondersi del nazismo in Europa, poi, l’American Guild nel 1939-40 si occupò anche di salvare molti intellettuali da situazioni estremamente pericolose. Soprattutto in Cecoslovacchia ed in Francia furono fatti pervenire visti, af- fidavit e biglietti per la tanto agognata traversata verso gli U.S.A. La mostra, quindi, fa luce sul problema della sopravvivenza materiale di tanti intellettuali che, senza le iniziative lanciate da Hubertus di Löwenstein, probabilmente non avrebbero retto alle fatiche dell’esilio. L’esposizione è accompagnata da un esaustivo catalogo dal titolo: Deutsche Intellektuelle im Exil: ihre Akademie und die “american Guild for German Cultural Freedom”; eine Ausstellung des Deutschen Exilarchivs 1933-1945 der deutschen Bibliothek, Frankfurt am Main, a cura di Werner Berthold, Brita Eckert e Frank Wende (Saur, München, London, New York, Paris 1993), che ricostruisce, in generale, la storia dell’organizzazione e, in particolare, fornisce con 30 casi esemplari - tra cui quelli di Renato Mondo, Sigfried Kracauer, Robert Musil, Julius Bab, Ernst Weiß, Kurt Hiller - un quadro, a volte toccante, delle difficili con- “American Guild for German Cultural Freedom”. L’esposizione è stata realizzata dal Deutsches Exilarchiv 1933-1945 della Deutsche Bibliothek di Francoforte. L’Exilarchiv costituisce il fiore all’occhiello della biblioteca nazionale francofortese, grazie alla preziosa documentazione che esso raccoglie sulla ricca vicenda della cultura tedesca in esilio nel “dodicennio nero” nazista. La mostra presenta e illustra un capitolo sinora poco noto della storia degli scrittori, scienziati e artisti di lingua tedesca, costretti ad emigrare durante il regime di Hitler. Tema principale dell’esposizione è il tentativo intrapreso dal principe Hubertus di Löwenstein per creare un’Accademia tedesca delle arti e delle scienze in esilio e di fondare un’organizzazione a suo sostegno: “The American Guild for German Cultural Freedom”. Compito dell’Accademia doveva essere quello di riunire gli intellettuali tedeschi sparsi in tutto il mondo in una organizzazione apartitica, una sorta di terra franca per lo spirito tedesco. Nello stesso tempo si trattava Hubertus Prinz zu Löwenstein (1930), Thomas Mann (1938) 42 dizioni di lavoro degli intellettuali in esilio. La mostra sarà aperta fino al 5 giugno 1993 (dal lunedì al giovedì ore 9-20, venerdì ore 9-18, sabato ore 9-17), presso la Deutsche Bibliotek (Zeppelinalee 4-8, 6000 Frankfurt a.M. 1). E’ annunciata presso l’editore Rubbettino, Soveria Mannelli, (CZ e Messina), una nuova collana SAGGI BREVI DI ESTETICA COMPARATA, diretta da Grazia Marchianò. Si tratta di piccoli volumi di cento pagine, di prezzo modesto, ma di ampia apertura tematica, utili a chiunque voglia documentarsi su figure e problemi dell’estetica contemporanea di Oriente e Occidente. I primi titoli in uscita quest’anno: Nuovi autori di estetica in Cina (testi di Zhou Laixiang, Fei Xingbei e Zhou Ping), Scritti italiani su N. K. Roerich (testi di Bazzarelli, Lopez, Spendel, Zolla), Sugli orienti del pensiero, di Grazia Marchianò. L’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI STORICI bandisce un concorso a dodici borse di studio per l’anno accademico 1993-1994, per giovani laureati in Università italiane. L’importo di ciascuna borsa sarà di L. 12.000.000, qualora i vincitori non risiedano nella provincia di Napoli; di L. 8.000.000, se residenti nella provincia di Napoli. Al concorso possono partecipare tutti coloro che siano laureati in Lettere o in Filosofia, e i laureati in Giurisprudenza o in Scienze politiche o in Economia e Commercio o in Architettura, che abbiano svolto la tesi in discipline storiche o filosofiche, che non abbiano superato il trentacinquesimo anno di età alla data del 1˚ ottobre 1993 e che non abbiano ancora usufruito di borse di studio presso l’Istituto; sono inoltre esclusi dalla partecipazione al concorso gli ammessi ai dottorati di ricerca e coloro che abbiano conseguito il titolo di dottore di ricerca, così come coloro che percepiscano altre borse di studio o che svolgano altre attività retribuite. I concorrenti ritenuti idonei in base ai titoli presentati potranno essere, ove se ne ravvisi l’opportunità, invitati ad un Colloquio con la Commissione giudicatrice. Le spese del viaggio per il colloquio saranno rimborsate. L’importo della borsa verrà corrisposto ai vincitori in 8 rate mensili, a partire dal novembre 1993. I concorrenti dovranno presentare alla Direzione dell’Istituto entro il 1˚ ottobre 1993, domanda in carta semplice, corredandola con i seguenti documenti: certificato anagrafico, certificato di laurea, copia della tesi di laurea, curriculum studiorum del candidato, lettera e attestati di professori sotto la cui guida il candidato lavora o ha lavorato, elenco delle altre eventuali istituzioni cui il candidato abbia presentato o intenda presentare analoga domanda entro il 1˚ novembre 1993. Informazioni: Istituto Italiano per gli Studi Storici, 80100 Napoli, tel. 081/5517159. CONVEGNI E SEMINARI CONVEGNI E SEMINARI Neoantico contro neoetnico Fornire un primo significativo contributo all’individuazione e all’approfondimento dell’orizzonte concettuale del neoantico, rilevare la crescente influenza che le culture e le civiltà premoderne esercitano sul mondo contemporaneo e, quindi, suggerire nuove possibili strategie per la riappropriazione dell’antico e dell’arcaico: sono stati questi gli scopi del Convegno internazionale: IL NEOANTICO. TECNICA E POSSESSIONE NELLA CULTURA, NELLA POESIA E NELLE ARTI, svoltosi nei giorni 29 e 30 gennaio 1993 presso l’Accademia Spagnola di Storia Archeologica e Belle Arti di Roma, organizzato dalla cattedra di Estetica del Dipartimento di Ricerche Filosofiche dell’Università di Roma “Tor Vergata”, cui hanno partecipato studiosi di diverse discipline, orientamenti e nazionalità. A partire dal momento in cui viene a cadere ogni pretesa metafisica e totalizzante di considerare il pensiero occidentale, nella cultura contemporanea sembra affacciarsi la possibilità di ripensare i propri principi, origini e fondamenti in una prospettiva che possa prendere in considerazione l’intero patrimonio culturale dell’Occidente secondo una metodologia etno-logica ed etnofilosofica, che potremmo definire “neoantica”, in grado cioè di ancorare il pensiero occidentale ad un retroterra antropologico, poetico e mitologico in vista della costituzione di un sapere positivo e trasmissibile. Diversamente da un modello di tipo neoclassico, che vede nel passato un paradigma vitalistico ed esemplare cui riferirsi, il neoantico rifugge tuttavia da ogni intento prescrittivo e dal riferimento ad ideali normativi dell’arte e della cultura, realizzati nel passato, riaffermando piuttosto la necessità del giudizio critico, pur negando qualsivoglia volontà di stabilire gerarchie di civiltà e di culture. Alla diffusione di questo orientamento fanno tuttavia da ostacolo, osserva Mario Perniola, promotore ed organizzatore del Convegno, due tendenze opposte e speculari: da un lato il movimento postmoderno, che promuovendo un libero spostarsi e differenziarsi del senso, uno scambio incessante di stili, finisce col considerare tutte le culture come omogenee e intercambiabili, col dissolvere ogni identità o abolire qualsiasi dimensione storica; dall’altro, la tendenza neoetnica che, richiamandosi all’originario, all’arcaico, al puro, recupera sí l’identità culturale di singole comunità, ma finisce per riaffermarne solo gli aspetti grotteschi, paradossali e, non di rado, violenti. Aprendo i lavori del Convegno, il direttore dell’Accademia spagnola, Jorge Lozano, ha tenuto anzitutto a ribadire che se si vuole seriamente riflettere sulle attuali condizioni della poesia e delle arti a partire da un orientamento di tipo neoantico è necessario prendere le distanze da termini come “postmoderno” o “transavanguardia”. Di fatto, nella formulazione di Perniola, il neoantico intende essere una diversa sensibilità, che cerca nell’antico non i principi fondamentali del mondo moderno, o le pure origini della cultura occidentale, ma ciò che è rimasto estraneo, differente, altro, rimosso, giungendo in tal modo a scorgere nella fase iniziale della cultura occidentale i momenti di confluenza tra le sue varie componenti etniche e i diversi punti di incontro con le culture extra-europee. Interrogandosi sulle proprie radici antiche, animata da questo orientamento neoantico, la riflessione estetica contemporanea scopre infatti che due dimensioni dell’esperienza, apparentemente antitetiche, hanno determinato il sorgere e lo sviluppo del proprio oggetto di ricerca: l’aspetto pratico-razionale del produrre (la tecnica) e l’aspetto poetico-emozionale del creare (la possessione), entrambi necessari per la riuscita del fare artistico. Riflettendo sullo statuto dell’estetica moderna e contemporanea, Cristoph Wulff (Frei Universität di Berlino) ha rilevato come l’estetica in quanto “forma” e formazione di senso abbia in sé la possibilità di chiamare all’esperienza dell’agire e del senso morale. Vi è tuttavia un’ambivalenza dell’estetica e del sentire, per cui si assiste oggi ad una estetizzazione diffusa delle forme del sapere e della vita quotidiana, ad un sentire generalizzato nella forma del “già sentito” - un trionfo della “sensologia”, direbbe Perniola - che non acuisce 43 affatto le nostre facoltà percettive, ma produce una sorta di anestesia, un torpore dei sensi. Di fronte a questa situazione, sostiene Wulff, occorre dare nuovo significato alla nozione di mimesis, di “assimilazione mimetica” come facoltà creativa che consente un rapporto di consonanza tra l’uomo e il mondo circostante e apre nuove prospettive di senso. In questa accezione la nozione di mimesis introduce una dimensione storica e antropologica del neoantico che ha costituito lo sfondo problematico dell’intervento di Francesco Pellizzi (Università di New York), il quale, da un punto di vista spiccatamente storico-religioso, si è interrogato sulla portata simbolica di alcune esperienze artistiche contemporanee, in particolare di una suggestiva performance americana di Joseph Beuys dal titolo: “Incontro col coyote”, in cui l’artista/l’uomo si trova a coabitare con l’animale per diversi giorni all’interno di una galleria d’arte newyorkese, instaurando con esso un rapporto di identità/alterità, della cui esperienza Pellizzi ha sottolineato soprattutto la forte componente estatico-sciamanica, la possessione artistica che apre ad una connotazione del neoantico come neoprimitivo, come assimilazione dell’altro, dell’estraneo, del selvaggio che è fuori di noi, ma che forse anche più intimamente ci appartiene. Della componente antropologica della possessione si è occupato nel suo intervento anche Roberto Motta (Università di Recife), che analizzando i culti religiosi afrobrasiliani ha evidenziato l’intimo rapporto tra sacrificio e possessione in relazione alla morte. Sulla nozione di sacrificio, sulla sua importanza per la comprensione del pensiero e dell’opera di Georges Bataille si è poi soffermato Giuliano Compagno, il quale ha insistito sulla irriducibilità di tale nozione ai principi dell’ordine, della conservazione e del risparmio tipici dell’economia tradizionale, secondo i quali sarebbero del tutto incomprensibili la forte attitudine dissipatrice, il dispendio, il più di energie che caratterizzano invece il sacrificio secondo Bataille definito come espressione di intimo accordo tra la vita e la morte, prossimo quindi alla trasgressione, allo scandalo, all’irruenza della morte. Se il Convegno cercava anche di verificare CONVEGNI E SEMINARI la sfida lanciata dal neoantico all’ambito della creazione poetica e letteraria, occorre dire che essa è stata positivamente raccolta da alcune voci della cultura militante contemporanea, poeti e critici in primo luogo. Michel Deguy, uno tra i più grandi poeti francesi contemporanei, attuale presidente del Collège Internationale de Philosophie, ha infatti riflettuto su l’inspiration in poesia, non potendo fare a meno di richiamarsi proprio a quell’aspetto poetico-emozionale del fare poesia che è la possessione, intendendo quindi l’ispirazione della poesia come peculiare forma di possessione e affermando del resto la superiorità, il primato del linguaggio poetico. Giulio Ferroni ha invece misurato il significato dell’antico nell’opera di Pier Paolo Pasolini, parlando tuttavia, più significativamente, di un essere “postumo” di Pasolini e della sua opera complessiva, i cui caratteri distintivi di incompiutezza, posteriorità, ultimità ne fanno un’opera costitutivamente aperta ed attuale, come ad esempio nel caso dell’ultimo Petrolio. Ancora sul versante poetico, la riflessione di Giuseppe Conte ha voluto sottolineare le possibilità infinite dell’antico sotto forma di mito. Facendo del mito l’elemento centrale della sua opera poetica, Conte intende infatti dare vita ad una poesia mitica le cui condizioni si troverebbero in quella che egli definisce la capacità della poesia di «personificare» e «dialogare con le ombre», in cui il mito stesso è energia vitale, irruzione dell’arcaico, del simbolico, dell’originario. Ancora su un terreno poetico, lo statuto del neoantico in rapporto ai movimenti dell’avanguardia, da un lato, e del postmoderno, dall’altro, è stato al centro della relazione di Isabella Vincentini, che ha evidenziato come dopo lo “smembramento di Orfeo” (Hassan), vale a dire dopo l’evanescenza della forma poetica postmoderna, occorra ripensare l’antico anche sotto l’aspetto aspro e crudele dell’arcaico in una lirica senza elegia, avvicinando per qualche verso la poetica neoantica alla poesia neo-orfica contemporanea. Da una diversa prospettiva, Tomaso Kemeny (Università di Pavia), in una suggestiva lettura dei Cantos di Ezra Pound, la cui poesia, tutta segnata dall’antico, costituisce forse il momento catastrofico e abissale del moderno, ha suggerito la possibilità di una civiltà del simbolo, contro una civiltà del segno, in cui vi sia un certo spazio per le Muse. Il tema della possessione, nella forma della possessione del nome, è poi tornato nell’intervento di Roberto Salizzoni, il cui intento è stato quello di riflettere su una filosofia del linguaggio intesa come “filosofia del nome”, in cui il mondo si apre nel nome ed il nome che propriamente (ci) possiede è il nome di Dio. Tutte tematiche che emergono dall’interpretazione che da qualche tempo suggestivamente Salizzoni compie di certa filosofia russa dei primi anni venti (Florensky, Bulgakov e soprattutto il quasi sconosciuto Losiev). La riflessione sul mondo primitivo di Benjamin Fondane, pensatore rumeno ebreo dei primi anni Trenta, ha invece costituito l’oggetto di discussione di Ann Van Sevenant che ha mostrato come tale riflessione sia centrata soprattutto sulla nozione di “partecipazione”, che interpreta la relazione dell’uomo primitivo con il mondo intesa sia come “fare parte di” che un “prendere parte a”. Sul neoantico sotto l’aspetto pratico-razionale del produrre, nella dimensione della tecnica come in quella della possessione, si è soffermata Claudia Castellucci che ha parlato della tecnica, in modo personale, come «ciò che un altro fa fare», ciò che chiama ad un rapporto di ubbidienza assoluta, nella cui modalità di relazione si fonderebbe la sola possibilità di affrancamento da essa. E’ qui evidente come la tecnica non sia solo pratica del fare ma relazione con una alterità eventualmente esperita anche nella forma della possessione. Antonio Caronia ha concluso i lavori del Convegno scoprendo, quasi paradossalmente, sorprendenti motivi neoantichi nell’universo tecnologico cyberpunk, vale a dire in quel fenomeno underground degli anni Ottanta che riesce a coniugare le tecnologie informatiche e telematiche con il fenomeno di costume punk, mostrando un atteggiamento apertamente positivo nei confronti della tecnica che, come estensione delle potenzialità umane, consentirebbe un certo recupero della dimensione unitaria dell’esperienza umana. Con quest’ultima prospettiva in particolare, il neoantico si rivela una cultura della contaminazione, dell’incontro, dello scambio, una crossculture che va in direzione opposta rispetto a certo neotribalismo e neo-oscurantismo risorgenti. G.P. Schlegel e la filosofia della storia Ernst Behler, dell’Università di Seattle, curatore della edizione critica delle opere complete dei fratelli Schlegel, ha tenuto nel marzo 1993 un ciclo di conferenze all’Ecole Normal Supérieur di Parigi, dal titolo: SCHLEGEL ET LA PHILOSOPHIE DE L’HISTOIRE. In tale occasione Behler ha voluto fare il punto del suo progetto critico-filologico, che ha visto la luce nel 1988, sottolineando in particolare l’originalità della concezione storica di Friedrich Schlegel. Nelle sue conferenze Ernst Behler ha in particolare incentrato le sue analisi sull’originalità della concezione della storia di Friedrich Schlegel, a partire dalla cornice propria della Querelle des Anciens et des Modernes, letta da Schlegel alla luce del concetto di “interazione”. Inspirandosi in 44 origine alla filosofia di Fichte e arrischiando una filosofia della storia, Schlegel, secondo Behler, passa progressivamente, sotto l’influenza di Condorcet, a una riflessione sulla coscienza storica. La comprensione del poetico moderno come universale e progressivo non sarebbe infatti estraneo all’interpretazione personale di Condorcet: per quanto schematico, Schlegel trova nel filosofo francese il modello di una perfettibilità lineare, potenzialmente infinita. Ciò non toglie che Schlegel sia ben lungi dal condividerne l’ottimismo e l’astrazione. Questa linearità progressiva, infinita, in qualche modo asintotica, consente al filosofo tedesco di sottrarsi agli schemi della riflessione storica tradizionale di un Lessing, di un Herder, di uno Schiller, centrata sull’idea dell’educazione del genere umano e sulla concezione delle epoche dell’umanità. Da un lato, Schlegel pensa all’idea di perfettibilità infinita nei termini di un telos, se non di una totalità; dall’altro, l’accento cade prioritariamente sul carattere infinito, indeterminato di questa progressività potenziale. Anche quando la terminologia di Condorcet sparisce dalla scrittura schlegeliana, il filosofo tedesco se ne ispira sempre, sottolineando l’inaccessibilità di un rapporto diretto con il tempo, concepito invece sotto le categorie del “non ancora”, del “intanto che”. A questa concezione del tempo è strettamente connesso il lavoro stesso dell’interpretazione, per cui gli autori antichi, come Platone, non vanno letti come una totalità organica e genetica, bensì come un insieme di frammenti spezzati di una ligna virtualmente infinita. Altri temi più specificatamente ermeneutici sono stati ingaggiati da Behler nelle sue conferenze, quali la riflessione schlegeliana sull’ironia in rapporto a Hegel e la cruciale questione dell’Unverständlichkeit, segno dell’impossibilità di comprendere e di farsi comprendere. La discussione ha portato in particolare sull’opposizione noncomprensione/incomprensione nella filosofia di Schlegel. F.M.Z. Orfeo e orfismo Il 20 marzo 1993 si è tenuta all’Università Ch. De Gaulle-Lille III, una giornata di studi sull’orfismo, in particolare sulla pratica del commento filologico e sull’interpretazione della teologia orfica. Filologia e filosofia si sono intrecciate strettamente in questa giornata, che ha visto tra gli animatori della giornata Jean Bollack e Pierre Judet de la Combe. Uno dei temi più discussi è stato il rapporto intricato fra teogonia esiodea e teogonia orfica; quest’ultima risulterebbe particolarmente intelligibile se letta come conte- CONVEGNI E SEMINARI stazione e subversion (aristocratica) del modello esiodeo: alla doppia origine esiodea si opporrebbe una figura centrale che pare sottrarsi a un quadro genealogico. Questa in sintesi l’opinione esposta da Philippe Borgeaud (Ginevra). Luc Brisson (Parigi) ha esposto i problemi filologici e interpretativi connessi ai papiri di Derveni, insistendo in particolare sull’esigenza ermeneutica di sviluppare la dimensione critica della teogonia orfica. Su questa linea, Jean Bollack, figura chiave del Centre Philologique de Lille, ha sottolineato come la scrittura allegorica e ermetica segni il desiderio di uno scarto, di una dé- narrativation, che pur richiedendo necessariamente un lettore, si sottrae alla seduzione retorica. Questa chiusura ermetica sarebbe strettamente connessa con la ricerca di un fondo costitutivo separato da ogni manifestazione. Mentre E. Rhode tendeva a interpretare i poemi orfici nel seno di una tradizione popolare, Bollack riprende l’ipotesi di una scrittura legata a una reazione aristocratica. Pierre Ellinger (Reims) ha centrato l’intervento sull’antropogonia orfica, in particolare sul motivo della suie della fumée dei Titani. La sovversione del modello esiodeo della Mekoné sarebbe visibile proprio in questo punto: contro Detienne, Ellinger sostiene che non esiste la cenere dei Titani, ma solamente la suie della folgore; di conseguenza tutti i momenti del rito sacrificale vengono sovvertiti. Sulla stessa linea, R. Schlesier (Berlino) ha sottolineato invece la scomparsa della figura attiva di Prometeo per quella, passiva, di Dioniso divorato. Infine Jean Bollack ha concluso con un intervento sulla pluralità d’interpretazioni del mito d’Orfeo, tanto da tracciarne una cartografia. Da parte sua, Bollack ha fatto l’ipotesi di un nesso fra la scelta convenzionale di un nome comune e leggendario e la nascita di particolari gruppi sociali. La riflessione proseguirà nell’aprile 1993 a Princeton. F.M.Z Continuità e mutamenti nella scienza Con il titolo: CONTINUITÀ E MUTAMENTI NELLA RICERCA SCIENTIFICA E NELLA RIFLESSIONE EPISTEMOLOGICA, Francesco Barone ha tenuto dal 7 all’11 dicembre 1992, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, un seminario il cui scopo è stato quello di ricostruire alcune tappe fondamentali dell’evoluzione del concetto di “scienza” in rapporto al problema dell’immutabilità o mutabilità storica del significato del termine. Secondo la prospettiva “linguistico-essenzialistica” dell’epistemologia, il termine “scienza” denoterebbe un ambito di attività culturale, immutabile storicamente, che mira a conoscenze obiettive, coordinate fra di loro, rigorose, valide in senso intersoggettivo e tali da permettere all’uomo di operare sulla realtà. Una tale concezione essenzialistica, affermatasi a partire dall’inizio dell’Ottocento (con Kant) fino a arrivare alla metà del nostro secolo (col neopositivismo), è però entrata in crisi, ha fatto notare Francesco Barone, allorché ci si è accorti dell’ambiguità e della plurisignificatività dei termini adoperati, nella misura in cui il significato di un termine risiede nell’uso che se ne fa, che dipende a sua volta dal contesto temporale in cui il termine compare: la parola “scienza” indicherebbe in tal senso non un’essenza che permane immutata, ma piuttosto un fenomeno storico iscritto nell’ordine del tempo. Secondo un epistemologo contemporaneo come Paul Feyerabend, la scienza, ha notato Barone, è invece frutto di una particolare ideologia, di una certa maniera di pensare, e piuttosto che essere una disciplina rigorosa ed intersoggettiva, dipende da preferenze ed interessi; in tal modo la scienza, privata del metodo, non si distingue più dall’arte. Ora, ha osservato Barone, se la concezione essenzialistica del linguaggio impedisce di cogliere la storicità del fenomeno culturale della ricerca scientifica, è vero altresì che, considerando il significato delle parole in base all’uso che se ne fa, in base ai vari contesti, si corre il rischio di cadere in un relativismo estremo, in cui non solo la scienza non ha un’essenza, ma diviene “scienza” tutto ciò che si decide di chiamare con questo termine. Ci troviamo dunque a oscillare tra due poli contrapposti: da una parte le epistemologie normative (da Kant al neopositivismo), in cui si parla di scienza indipendentemente dal divenire storico; dall’altra una concezione come quella di Feyerabend, per il quale la scienza ha la stessa consistenza di un mito, è un’ideologia: muta a seconda dei contesti e delle società in cui operano gli scienziati. Tuttavia, ha rilevato Barone, si continua a definire “scienza” fenomeni del tutto diversi; si tratta allora di andare alla ricerca di qualcosa che ci permetta di definire “scienza” tutti questi diversi momenti culturali. La continuità del fenomeno culturale “scienza”, secondo Barone, è da ricercarsi nelle radici biologico-esistenziali della nostra specie; l’homo sapiens sapiens ha infatti una caratteristica costante, quella di divenire consapevole delle cose che lo circondano. Questa radice biologica che accomuna l’homo sapiens sapiens agli altri animali, e che determina le variazioni storicoculturali del fenomeno-scienza, è indispensabile per la sopravvivenza degli individui della specie homo, così come lo è per gli individui di altre specie animali. Uno dei maggiori epistemologi contemporanei, Karl Reimund Popper, ha osservato che l’unica differenza spiccata che c’è 45 tra Einstein e un’ameba, entrambi “animali” che cercano di sopravvivere adattandosi all’ambiente, è che mentre l’ameba applica la sua “teoria”, la sua interpretazione dell’ambiente a cui deve adattarsi, direttamente sulla sua esistenza, Einstein mette alla prova tra loro teorie, interpretazioni della realtà a cui deve adattarsi. E’ in virtù di questo condizionamento della cultura da parte della natura che le varie accezioni di “scienza” costituiscono una “famiglia”, in senso wittgensteiano, e, per quanto profonde possano essere le differenze tra le varie forme culturali, il passaggio dall’una all’altra non è mai un passaggio a cose completamente diverse. Se la scienza, come suggerisce l’epistemologia evoluzionistica da cui muove Barone, è radicata in questo bisogno dell’uomo di orientarsi nel mondo, di adattarsi a un mondo, un ambiente, allora gli sviluppi storici della scienza altro non rappresentano che tentativi che mutano col mutare delle situazioni cui l’uomo deve adattarsi. L.M. Linguaggi della mente Nel quadro della necessità attuale della psichiatria, Italiana e non, di ridefinirsi concettualmente e terapeuticamente anche attraverso l’apertura verso temi e discipline solitamente considerati lontani dal proprio ambito disciplinare, si è svolto a Umbertide (PG), dal 15 al 17 ottobre 1992, il convegno: I LINGUAGGI DELLA MENTE, coordinato dal dipartimento di psichiatria della USSL di Città di Castello. La natura intrinsecamente interdisciplinare del convegno è stata confermata dalla partecipazione ai lavori di psichiatri come Salomon Resnick e Sergio Piro, neuropsichiatri come Oliver Sacks, filosofi come Paolo Rossi e Remo Bodei. Il filosofo Paolo Rossi, seguendo quelle stesse linee di interesse da lui percorse negli ultimi anni, ha concentrato la sua attenzione sui mezzi con i quali comunichiamo, presentando quella che egli chiama la “Legge di Ong”: la comparsa di un nuovo mezzo di comunicazione di massa non distrugge il vecchio mezzo, anzi lo trasforma profondamente, e il nuovo e il vecchio si rafforzano reciprocamente. Da un tale punto di vista il primo nodo cruciale che si presenta è senz’altro il passaggio dal linguaggio gestuale (che, secondo Vico, veniva utilizzato dai primi uomini) a quello verbale. Ma i gesti, sia quelli innati e universalmente compresi, sia quelli definiti contestualmente ad una cultura, continuano ad accompagnare l’espressione orale. Il problema della “teatralità” in un pubblico discorso era ampiamente discusso nei manuali di retorica, come anche quello della “topica” e della “promptuaria”: come rac- CONVEGNI E SEMINARI Salomon Resnik, Paolo Rossi (foto di G. Barbaro) cogliere un gran numero di argomenti da poter utilizzare all’occorrenza in una orazione. In altri termini, osserva Rossi, è il problema della memoria il tema fondamentale in ogni cultura orale. La comparsa della scrittura segna un passaggio più radicale: dall’udibile e temporale della parola orale, si passa al visibile e spaziale della scrittura. Tramite la scrittura, la parola si stacca da noi, si fissa nella materia, si conserva e può essere richiamata all’occorrenza: non c’è più bisogno di ricordare; il pensiero è più libero. L’invenzione della stampa amplia e muta ulteriormente quella della scrittura. Ma l’ultimo passo, in questa storia nella storia dell’uomo, è segnato dall’avvento dei computer con il loro velocissimo progredire e diffondersi. A questo riguardo Rossi tenta l’ipotesi di una analogia fra il moderno e il postmoderno: così come Francis Bacon scandalosamente indicava come novità radicali non le filosofie, ma le invenzioni dei “meccanici”, potremmo noi far lo stesso per la nostra epoca, guardando le esplorazioni cosmiche come egli guardava i viaggi transoceanici, l’energia nucleare come la polvere da sparo, i calcolatori come la stampa? Quelle tre grandi invenzioni modificarono l’uomo, le sue conoscenze e suscitarono in lui paure e speranze, esattamente come le suscitano le tre “invenzioni” della nostra epoca. Secondo lo psicoanalista e psichiatra Salomon Resnik, il linguaggio della mente, pur non essendo unico, è pittografico. Il dialogo è spaziale, ma asimmetrico, in quanto contempla la diversità. Il modo per capire ciò che si pensa è esser capaci di comunicare la propria esperienza; da qui i tentativi dell’uomo si evolvono dai graffiti su pietra alla scrittura alfabetica. Resnik ha paragonato in tal senso l’uomo a una tavoletta di cera coperta da un foglio: la cera è come l’inconscio; il foglio come una protezione contro gli stimoli esterni; vi si può scrivere sopra e poi cancellare, ma qualche traccia resta comunque impressa nella cera. Il neuropsichiatra Oliver Sacks è partito dai suoi studi sull’emicrania per presentare una ipotesi affascinante. Nei tentativi di rappresentare, tramite disegno, le distorsioni che si producono nel campo visivo durante attacchi emicranici, si può notare la costante apparizione di strutture organizzate, reticolari o spiraliformi. La stessa organizzazione a patterns emerge in individui sotto l’effetto di droghe come l’hascisc o la mescalina. L’ipotesi di Sacks è che la corteccia visiva sia essa stessa autoorganizzata in strutture precise, con modelli geometrici ricorrenti, e che sia proprio questa stessa struttura che si rivela in momenti particolari, come anche nell’immaginazione e nell’arte. Lo svizzero Pierre Bovet, psichiatra di 46 Losanna, ha parlato dei disturbi del linguaggio in soggetti schizofrenici. Partendo da una concezione “dialettica” della schizofrenia, secondo la quale bisogna tener conto sia di componenti organiche, come predisposizioni genetiche o malattie virali pre o post-natali, sia dei processi psicodinamici nell’individuo, Bovet riprende le concezioni dello psicologo russo Vygotsky. Se per l’approccio cognitivista vi è identità tra linguaggio e pensiero, ovvero anomalie nella parola implicano anomalie nel pensiero, e se è il cervello che produce il linguaggio, come una catena di montaggio priva di interazioni dinamiche con l’esterno, Bovet propende per una distinzione dei due fattori, interno-esterno, e tenta di inquadrare l’eziopatologia della schizofrenia in una dialettica incompiuta tra formazioni preconcettuali nel bambino e interazioni con le altre persone. Sulla stessa scia anti-cognitivista si pone l’americano G. S. Rousseau, secondo il quale l’analogia cervello-computer serve a dare solo uno dei modelli possibili per il cervello, ma non ne esaurisce le caratteristiche. Essere umani è, sì, possedere un cervello, ma non in senso riduzionista, bensì come un sistema globalmente inteso, che abbia la capacità di raccontare e comprendere “storie”: un cervello biografo e narratore. Lo psichiatra napoletano Sergio Piro ha proposto nel suo intervento la costituzione di una antropologia trasformazionale, che ricongiunga le diverse scienze umane. Pur mantenendo le necessarie diversità degli strumenti linguistici propri delle discipline umanistiche, un avvicinamento potrebbe avvenire grazie a linguaggi operazionali intermedi, cioè inerenti ad operazioni empiriche, così come ce li offrono sociologia e psicologia. Di interesse schiettamente psicoanalitico è stata invece la relazione di Eugenio Gaburri, il quale ha esposto alcuni dei problemi di comunicazione tra analista e paziente descrivendo come il graduale unisono che si instaura tra i due porti alla produzione di una interpretazione dello stato effettivo del paziente. Un’analisi del disegno infantile è stata proposta da Ruggero Pierantoni; mentre il problema del polilinguismo, ovvero la conoscenza di più lingue fin dall’infanzia, è stato oggetto di trattazione da parte della psicoanalista Simona Argentieri, che si è interrogata sui sistemi di libera associazione linguistica e di come questi possono e vengono modificati dall’uso di una lingua o più lingue diverse. L’epistemologo Alessandro Pagnini ha trattato dei “paradossi della razionalità”, come recita anche il titolo di un libro del filosofo americano Davidson. Come si può spiegare l’intrinseca paradossalità delle azioni acratiche, ovvero di quelle azioni che vanno contro l’interesse del soggetto agente, o che comunque non hanno spiegazioni razionali? Nell’ambito del panorama cognitivista attuale, una spiegazione è fornita dalla teoria omuncolare presentata, sia CONVEGNI E SEMINARI pur in modi diversi, sia da Daniel Dennett che da Davidson. Secondo quest’ultimo il crollo delle relazioni di ragione è dovuta alla partizione della mente in omuncoli, appunto, ognuno dei quali possiede poteri di causazione delle azioni, ma, ovviamente, non di spiegazioni razionali. Confortante, comunque, l’apporto di Pagnini, nel quadro del convegno, a favore dell’ipotesi cognitivista, sottolineando la capacità euristica del computer come metafora del cervello e ricordando come le macchine, nel corso storico della riflessione umana, abbiano spesso ricoperto un ruolo metaforico ricco di indicazioni fertili. La poesia come linguaggio delle passioni è l’argomento a cui il filosofo Remo Bodei ha dedicato il proprio intervento. Al di là dell’alternativa tra mimesi del mondo reale e prodotto di immaginazione arbitraria, alla poesia spetta, secondo Bodei, un terzo regno, sia pubblico che privato, ma intrinsecamente atopico. Inizialmente occorrerebbe indebolire l’idea di un mondo reale, oggettivo e razionale, che abbia potere sulla mente, abolendo così l’antagonismo tra “verità” artistica e “verità” oggettiva. La poesia si situa ai margini dell’ovvio verso possibilità all’interno delle quali ricrea densità di senso. Inoltre dovremmo liberarci dell’idea di arte come rappresentazione: gli oggetti artistici sono irrapresentabili essi stessi, sono un altrove virtuale, ma che è già qui, presente e inclassificabile. Così la poesia è anche utopia: coglie un mondo vero, quello delle passioni umane, e gli conferisce una natura diversa da quella oggettiva. Non bisogna tuttavia cadere nell’opposto inverso, ha osservato Bodei, nel quale la poesia abbia tagliato i ponti con la realtà: l’arte non è solo ispirazione, ma anche capacità di deformare l’immediatezza, di staccarsi dalle esperienze private. La poesia è nello stesso tempo cognitiva ed emotiva ed esprime quelle possibilità che altrimenti troverebbero manifestazione come passioni non ancora elaborate e oggettivate. G.B. bili complicati degli invisibili semplici»; proprio questo, ha esordito Massimo Piattelli Palmarini, è ciò che programmaticamente si propongono le scienze cognitive volte allo studio dell’intelligenza e della mente umana. I “visibili complicati”, che interessano le scienze cognitive sono costituiti da quelle numerose acquisizioni e conoscenze che tutti noi abbiamo, ma che nessuno ci ha mai insegnato, che non abbiamo ricavato dall’esperienza, e che non ci rendiamo nemmeno conto di possedere. Noi uomini, ha osservato Piattelli Palmarini, siamo governati cognitivamente da dei principi di razionalità, alcuni dei quali scoperti già da Aristotele e dalla logica classica e senza i quali ci sarebbe impossibile comprendere i nostri simili e convivere con essi; tuttavia spesso, nostro malgrado, non rispettiamo le regole della razionalità: partendo da premesse vere, siamo talvolta incapaci di arrivare ad una conclusione vera, che pure si dà necessariamente. Un caso ben studiato fin dai tempi di Aristotele è quello del ragionamento sillogistico; date ad esempio le premesse: «tutti i ministri sono ladri» e «nessuno dei benzinai è ministro», qual’è la deduzione logica da trarre? La conclusione corretta è: «alcuni tra i ladri non sono benzinai»: purtuttavia persone colte, intelligenti, non vedono questa conclusione. Si tratta in effetti di un’illusione cognitiva di tipo deduttivo: ci sono pre- messe certe introdotte dai quantificatori “tutti” e “nessuno”, e una conclusione, essa pure certa, introdotta però né da “tutti”, né da “nessuno”, ma dal quantificatore “alcuni”, che per la maggior parte no n riusc iamo a “ve dere” . Un altro caso interessante, ha aggiunto Piattelli Palmarini, riguarda la confusione che c’è nella nostra mente tra probabilità e causalità. Se si chiede ai soggetti, «sapendo che una madre ha gli occhi celesti, quant’è probabile che sua figlia abbia gli occhi celesti», si ottiene una certa stima; se invece si chiede, «sapendo che una figlia ha gli occhi celesti, quant’è probabile che sua madre abbia gli occhi celesti», si ottiene una stima minore della precedente. E’ chiaro che il colore degli occhi della madre è una concausa del colore degli occhi della figlia, ma non viceversa. Tuttavia, ciò è del tutto irrilevante ai fini della ricerca di una correlazione probabilistica; il fatto che la causalità ci sia in un senso, ma non all’inverso, condiziona però talmente il giudizio probabilistico da farlo slittare in senso causalistico. L’importanza dello studio delle illusioni cognitive, secondo Piattelli Palmarini, risiede nel fatto che errori di questo tipo possono avere spesso conseguenze disastrose, come dimostra l’esame del seguente test realistico, effettuato su un gruppo di medici e studenti di medicina di Harvard. Si disse loro che un test clinico, atto a Introduzione alle scienze cognitive Spiegare fenomeni universali, comuni a tutta la specie umana, apparentemente incomprensibili o fonte di illusioni, è lo scopo principale delle cosiddette scienze cognitive. A questo contesto problematico ha fatto riferimento Massimo Piattelli Palmarini in un seminario dal titolo: INTRODUZIONE ALLE SCIENZE COGNITIVE, tenuto dal 15 al 18 dicembre 1992 presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Secondo il fisico francese Jean Petain «è compito della scienza sostituire a dei visi- Remo Bodei, Oliver Sacks (foto di G. Barbaro) 47 CONVEGNI E SEMINARI rilevare la presenza di un certo tumore, era stato effettuato su un certo individuo; il test era risultato positivo. Sapendo che quella forma di tumore colpisce in media un individuo su mille, e che il test ha un’affidabilità del 95% (cioè dà un 5% di falsi positivi), e senza sapere nient’altro sullo stato di salute di quella persona, si chiese quant’era probabile che avesse effettivamente il tumore. Ebbene, qui è piuttosto impressionante notare il divario fra ciò che le illusioni cognitive suggeriscono e il risultato a cui portò il calcolo esatto: mentre infatti il 56% dei soggetti rispose che era probabile nel 95% dei casi, e la grande maggioranza di essi (75%) stimò comunque la probabilità superiore al 50%, la risposta corretta, calcolata in base alla legge statistica di Bayes, diede una percentuale inferiore al 2% dei casi. La spiegazione di tale divario nella valutazione è che se anche l’intuizione suggerisce di combinare la probabilità che il test clinico abbia fallito (5%) e quella che l’individuo abbia contratto la malattia indipendentemente dal risultato del test (1%), si tende spontaneamente a dimenticare o comunque a sottostimare la probabilità che qualcosa avvenga indipendentemente da qualsiasi condizione esterna (fenomeno della “trascuratezza delle frequenze di base”). Il problema qui non sta tanto nella mancanza di strumenti analitici istintivi adeguati al calcolo esatto delle probabilità, quanto nella fiducia e nella sicurezza malamente riposte nelle nostre istituzioni. In questo si esprime la forza delle illusioni cognitive, pari o addirittura superiore a quella della ragione, e a cui siamo disposti a dare credito più che alla ragione; ciò implica la necessità di rivedere la classica partizione fra percezione e giudizio, che se in molti casi si presentano come due fenomeni distinti, talvolta riesce difficile separare, ciò che riguarda l’occhio da ciò che riguarda la mente. Si tratta allora, ha concluso Piattelli Palmarini, di allargare il concetto di epistemic boundedness (delimitazione epistemica) anche alla nostra specie; si tratta cioè di capire che anche noi uomini, al pari dei topi o degli scimpanzé, siamo degli organismi biologici di natura contingente e finita, che interagiamo col mondo attraverso i mezzi che la natura ci ha fornito, e che tutto ciò che possiamo pensare o scoprire è limitato dalle nostre capacità cognitive. L.M. Fonosimbolismo e linguaggio poetico. Col titolo: FONOSIMBOLISMO E LINGUAGGIO POETICO si è tenuta dal 20 al 21 ottobre, presso il Centro Internazionale di Studi Semiotici e Cognitivi di San Marino, una serie di conferenze di semiotica e linguistica, incentrate sul rapporto tra capacità rappresentativa dei simboli e composizione poetica. Tra i partecipanti al convegno: Linda Waugh, Masako K. Hiraga, Haj Ross, Ivan Fonagy. Gli interventi si sono sviluppati per la maggior parte in aperta opposizione alla concezione strutturalista, che considera la relazione tra significato e significante una relazione convenzionale, dovuta cioè alla scelta arbitraria che una società primitiva attua nel momento in cui decide quali suoni assegnare a determinati oggetti e come legare tra loro i segni che denotano e designano rispettivamente oggetti e concetti. Il carattere iconico del lessico delle lingue rivelerebbe piuttosto un legame stretto tra simbolo e significato. In particolare, Linda Waugh (“Degrees of Iconicity in the Lexicon”) ha indicato come uno dei risultati più sorprendenti del genio precoce ginevrino di de Saussure considerare l’attribuzione di un valore “convenzionale” alla relazione tra significante e significato come un’azione valida prevalentemente a livello sociale, poiché imposta alla società dalla natura delle cose. Il significato è rappresentato in gradi differenti dal significante grazie a caratteristiche proprie della lingua, quasi che l’associazione sia avvenuta, in principio, per affinità tra la forma e la struttura del significante - giacché è dell’immagine e del diagramma che tratta Waugh - e il concetto significato, per poi evolversi separatamente. Masako K. Hiraga (“Iconicity as Principle of Composition and Interpretation: A Case Study in Japanese Short Poems”) ha presentato uno studio sull’incidenza dell’iconicità del linguaggio sulla composizione poetica, schierandosi a favore dell’interpretazione che vuole legate indissolubilmente immagine e segno, concetto e significante, e che vede in Jakobson e Peirce i suoi più autentici promotori. Jakobson sostiene infatti come il linguaggio abbia proprietà non-arbitrarie di iconicità; i termini linguistici non sono dipendenti unicamente dalla nostra capacità di scelta arbitraria, ma ci vengono, per così dire, imposti dalla loro stessa forza rappresentativa. Per quanto riguarda invece la definizione di icona data da Peirce, Hiraga si è soffermato su due dei suoi tre sottotipi: immagine, diagramma e metafora. L’immagine, cioè la “somiglianza semplice, sensoriale e mimetica” con l’oggetto, non è stata trattata da Hiraga, che invece ha approfondito l’importanza del diagramma, o analogia strutturale con il concetto, e della metafora, o “parallelismo triadico rappresentativo”. Nella composizione poetica, ha osservato Hiraga, affiora l’importanza primaria della capacità iconica del linguaggio, come dimostrano gli haiku e i tanka di alcuni poeti giapponesi: emerge qui come l’artista, consciamente e, talvolta, inconsciamente, si sia lasciato guidare nella scelta dei termini dal maggiore grado di iconicità dei medesimi e di come la stessa capacità espressiva 48 insita nei termini usati ci aiuti a trovare una nuova e più valida interpretazione dell’opera poetica. Nel suo intervento Háj Ross (“The Taoing of a Sound: Phonetic Drama in William Blake’s The Tyger”) ha proceduto a un’analisi molto approfondita della struttura globale, della metrica, della forma delle singole parole, della posizione delle interrogazioni e dell’effetto fonetico emergente dalla poesia di Blake, che permette di scoprire in essa la rappresentazione simbolica della forza vitale taoista, il teh. In particolare, ha fatto notare Ross, nella struttura centrale del poema The Tyger si evidenzia un’alternanza di combinazioni sonore AB - BA, che indica un’opposizione di fonemi e di simboli del tipo della contrapposizione di yin e yang, e nell’equilibrio finale raggiunto da questi due concetti compenetrantesi, emerge la simbolizzazione tao. M.P. Il sistema filosofico In occasione della pubblicazione dell’edizione italiana del volume di Nicholas Rescher, LA LOTTA DEI SISTEMI . FONDAMENTI E IMPLICAZIONI DELLA PLURALITÀ FILOSOFICA (traduzione di Nicola Vassallo, introduzione di Andrea Bottani, Marietti, Genova 1993) si è tenuta a Milano il 20 gennaio 1991, presso la Sala Incontri dell’ISU, la conferenza dell’autore sul tema: L’interconnessione sistemica dei temi filosofici, alla quale hanno partecipato Carlo Sini, Carlo Penco, Michele Marsonet e Andrea Bottani. Autore tra i più prolifici della filosofia americana contemporanea (ha scritto più di 60 libri) Nicholas Rescher è soprattutto conosciuto per la sua teoria coerentista della verità e per i suoi lavori sulla contraddizione e la coerenza in logica. La visione che Rescher ha della filosofia fa parte della “sua” filosofia: la sua metafilosofia è prescrittiva nel senso indicato da Robert Nozick, anche se le conclusioni che Rescher trae da questo punto di vista sono diverse da quelle di Nozick. La storia della filosofia è vista come una serie di tentativi di riorganizzare il sistema di conoscenze del proprio tempo in modo da eliminare contraddizioni. I filosofi, osserva Rescher, si trovano in ogni momento della storia ad affrontare un insieme di tesi proposte per spiegare l’esperienza, ma queste tesi non riescono a formare un sistema coerente. Solo scartando alcune di queste tesi e scegliendone altre si può rispondere al profondo bisogno di coerenza che pervade ogni essere umano. Questa scelta porta inevitabilmente al contrasto tra diversi sistemi filosofici. Attraverso un’analisi dei diversi sistemi di tesi in contrasto tra loro, Rescher propone, CONVEGNI E SEMINARI in questa sua opera, una storia della filosofia del tutto originale, che mostra il sorgere del contrasto filosofico dai tentativi di trovare una coerenza all’interno di gruppi di idee tra loro non tutte compatibili. Ma il valore di quest’opera sta anche nella riflessione sul senso di questo lavoro, che aiuta a chiarire il ruolo e lo statuto particolare della filosofia rispetto alle altre dimensioni del sapere. Nasce un affresco originale del lavoro filosofico, che può venire classificato come “pluralismo degli orientamenti”, un atteggiamento che è del tutto all’opposto dei settarismi correnti anche in filosofia. Rescher difende con forza la sua posizione contro le tentazioni del relativismo e dello scetticismo; in particolare dedica una ampia parte del lavoro a una critica delle posizioni di Richard Rorty, che rappresenta forse il suo antagonista più naturale, per la sua visione della filosofia come impresa “edificante” più che come impresa “cognitiva”. Rorty propone una filosofia liberatoria come liberazione dalla filosofia; questa deve essere esiliata dalla sfera della ragione, e in particolare dai problemi della filosofia specialistica che sono solo problemi e questioni dei filosofi. La reazione di Rescher si può riassumere con le sue stesse parole: «La fondamentale divisione del lavoro è già stata fissata da Platone, che oppone il filosofo al poeta. Anche il secondo può descrivere possibilità e progettare idee, ma è solo il primo ad occuparsi della loro valutazione razionale - introducendo e sviluppando argomentazioni pro e contro la loro adozione. (...) Ritirandoci dalla lotta delle dottrine e dal contrasto delle questioni, abbandoniamo il filosofare come impresa razionale». Ma perché Rorty e tanti altri filosofi sono portati verso scelte scettiche, irrazionaliste o quanto meno non cognitiviste, tali cioè da negare ogni valore cognitivo all’impresa filosofica? Probabilmente, suggerisce Rescher, perché cercano di rendere coerente l’insieme di idee comuni nel nostro tempo, che non sono però compatibili tra loro: 1. la filosofia è un’impresa di valore; 2. le imprese intellettuali di valore stabiliscono tesi; 3. la filosofia non può stabilire tesi. La negazione di 1. porta allo scetticismo; la negazione di 2. porta al non cognitivismo; solo la negazione di 3. permette di salvare la filosofia come impresa cognitiva; ma questo non vuole dire che le tesi filosofiche siano assolute: esse si danno sempre nel contesto di certi valori, presuppongono scelte di valore cognitivo. Questa la conclusione del lavoro di Rescher: «sarebbe bizzarro pensare che la filosofia non ha valore perché le posizioni filosofiche sono costrette a riflettere i particolari valori che sosteniamo». Nella conferenza in occasione della presentazione a Milano della sua opera: Il conflitto dei sistemi, Nicholas Rescher ha esordito ricordando come la filosofia anglo-americana abbia sempre più concen- trato i propri sforzi su ricerche particolari e su temi estremamente delimitati. Si è conseguentemente sviluppata una divisione del lavoro e una specializzazione impensabili per i filosofi di epoche precedenti. Problemi filosofici che emergono in aree a prima vista molto distanti fra loro sono, spesso, tanto strettamente correlati, che una posizione assunta riguardo a uno di essi ha implicazioni profonde rispetto alle posizioni assumibili in un altro. «Per questo loro intrinseco carattere di interrelazione - ha affermato Rescher - le posizioni filosofiche in generale formano parti di insiemi aporetici, e non possiamo risolvere queste aporìe senza la dovuta attenzione per gli aspetti sistematici della discussione filosofica». Rescher ha paragonato la prassi filosofica a quella di un ingegnere, che deve ottemperare, bilanciandole, a esigenze molteplici, spesso in conflitto fra loro: efficienza, sicurezza, economicità. In questa situazione, non ci servirebbe una vettura particolarmente sicura, ma una in grado di procedere a non oltre tre chilometri all’ora. La medesima situazione vale anche per la riflessione filosofica: «l’ambito dei nostri interessi filosofici è una rete, in cui ogni cosa è interconnessa con ogni altra. Non abbiamo alcuna alternativa sensata se non procedere olisticamente. L’interconnessione sistematica dei problemi filosofici è un fatto inevitabile: in filosofia dobbiamo o sistematizzare, o lavorare invano». La riflessione di Rescher prende dunque le mosse dal rilievo del dissenso tra le varie posizioni filosofiche, il cui non accordo può valere come motivo di scetticismo nei confronti non solo e non tanto dei contenuti delle teorie, quanto soprattutto della pretesa di verità a cui le teorie, in quanto tali, ambiscono. L’epoché scettica verte insomma direttamente sullo statuto veritativo delle teorie filosofiche, aprendo così una serie di questioni relative anzitutto al valore conoscitivo, in filosofia, del dissenso, e in secondo luogo al tipo di oggettività a cui possono pervenire le conoscenze filosofiche. In merito al primo punto, Rescher propone alla filosofia il ruolo di prassi discorsiva, risolutiva, con un approccio olistico, delle aporìe fra le singole conoscenze che ci sono consegnate dal nostro patrimonio conoscitivo. Nei confronti della diversità delle teorie, Rescher rifiuta l’incommensurabilismo, sulla base della tesi dell’unicità del linguaggio, strumento di attività semantica che, peraltro, non scioglie mai definitivamente le contraddizioni, ma le porta a livelli di espressione sempre più avanzati. La rinuncia all’oggettività delle conoscenze che vengono in questo modo via via acquisite, non comporta perciò, come ha sottolineato Andrea Bottani, la rinuncia alla dignità gnoseologica dell’impresa. Si pone a questo punto la seconda questione, relativa al carattere delle conoscenze acquisite da questa prassi. A tale proposito, 49 Carlo Sini ha ritenuto importante il richiamo al pragmatismo di William James, sottolineando come esso avvicini la posizione di Rescher a quella di Richard Rorty, e dia nel contempo conto da un lato di un fenomeno di mediazione culturale tipico dell’evoluzione della filosofia analitica anglosassone, e dall’altro dell’approccio “olistico” e sistemico di Rescher alla questione della verità. Su questo punto Michele Marsonet ha posto la questione del rapporto fra pragmatismo e idealismo, tenendo conto degli esordi idealistici di John Dewey, un altro autore che costituisce un punto di riferimento per la riflessione rescheriana, e ha altresì sollevato il problema, a partire dall’approccio olistico, di una possibile rivalutazione della metafisica. A questo proposito Carlo Penco ha obiettato che la tendenza olistica pare debba essere posta in secondo piano nel momento in cui si realizza in concreto la ricerca, che ha un carattere essenzialmente specialistico. In realtà, ha risposto Rescher, la “logica della scoperta scientifica” è spesso sistemica, e prevede l’interconnessione di tutti i tipi di conoscenze umane, ivi comprese quelle metafisiche. D’altra parte, la stessa “questione olistica” riveste un carattere metafisico, come pure le tesi fondamentali dei neopositivisti, che pure vorrebbero rifiutare la metafisica. Se si dà contrapposizione fra pragmatismo e metafisica, ha continuato Rescher, essa può essere definita proprio a partire dalle indicazioni di Dewey, e non consiste in un’alternativa; poiché la metafisica rappresenta effettivamente, nella sua versione idealistica, una deformazione della realtà, ciò non esclude comunque che anche attraverso conoscenze metafisiche si possa pervenire a un controllo della realtà medesima, che è il tratto caratteristico del pragmatismo. F.C./ C.P. Ri-pensare l’Antropologia. La lettura incrociata di due recenti studi sul pensiero antropologico, il primo di Hans Peter Duerr, TEMPO DI SOGNO (trad. it. di F. Cassinari, Guerini e Associati, Milano 1992), il secondo di Silvana Borutti, PER UN’ETICA DEL DISCORSO ANTROPOLOGICO (Guerini e Associati, Milano 1993), consente un ripensamento critico delle pratiche di ricerca e dei riferimenti teorici comuni all’etnologia e all’antropologia ed apre interessanti orizzonti di ricollocamento filosofico dei loro rispettivi assetti disciplinari. Un momento di approfondimento delle tematiche proposte in TEMPO DI SOGNO di Hans Duerr è stata la presentazione dell’opera alla Libreria Feltrinelli di Milano (6 maggio 1993), con la partecipazione di Flavio Cassinari, Alfredo Civita, Ugo Fabietti e Carlo Sini. CONVEGNI E SEMINARI L’immersione in un’atmosfera di pozioni stregonesche, profili di lupi mannari e sciamani volanti da impervi crepacci corrisponde ad una precisa strategia comunicativa di Hans Peter Duerr in Tempo di sogno: arredare la scena narrativa per accogliere un personaggio, che si delinea solo allusivamente nel susseguirsi dei vari capitoli e la cui piena identità viene esibita solo al termine della trattazione. L’intenzione di Duer è di tratteggiare la difficile e scomoda figura del ricercatore sul campo, che vive una situazione di doppio isolamento: dal mondo della natura selvaggia, che il ricercatore indaga senza appartenere ad esso, e dal mondo scientifico della civiltà moderna, da cui l’esperienza sul campo tende ad allontanarlo. Questa solitudine, vissuta in prima persona, è secondo Duerr la condizione inaugurale per una radicale critica della etnologia, come disciplina scientifica, e delle sue metodologie di ricerca. Un concetto-chiave di questa disciplina, attorno al quale, come giustamente osserva Flavio Cassinari, ruota tutto il ragionamento di Duerr, è quello di “limite” (Grenze), inteso come “delimitazione ed insieme apertura” dall’interno, piuttosto che come “confine”, barriera rigida (Schranke), che separa due regioni estranee l’una all’altra. La critica radicale di Duerr nasce proprio da questo snaturamento del concetto di limite compiuto dagli studiosi nei confronti della Wildnis, la dimensione della natura selvaggia. L’effetto è il fraintendimento, l’alterazione del messaggio nel rapporto dialogico con l’interlocutore indigeno. L’erezione della barriera della Zivilisation, il processo di civilizzazione, di fronte alla natura selvaggia è un fenomeno che risale agli albori dell’evo moderno, con il generalizzarsi della persecuzione delle streghe. Lo stesso atteggiamento mentale che ha informato la logica dei processi alle streghe, osserva Duerr, è stato assunto dai moderni studiosi della mentalità dei popoli non ancora assorbiti dalla nostra civiltà: un meccanismo difensivo di rifiuto erige una barriera di presunta superiorità razionale e impedisce di accogliere le “ragioni degli altri”, se non filtrandole e accomodandole alla nostra. Questo atteggiamento è comune ad entrambi gli schieramenti operanti nel campo dell’etno-antropologia, i dogmatici e i relativisti: i primi rinserrati nelle categorie coltivate all’interno della barriera; i secondi disponibili a sorpassare lo steccato per incontrare “gli altri”, ma pronti a rientrarvi, senza mai mettere in discussione né i presupposti, né i confini del loro territorio. Il passo decisivo diventa per Duerr quello di riconsiderare la dimensione selvaggia come qualcosa di originariamente costitutivo della nostra civiltà e di condividere l’esperienza degli indigeni incontrati al di fuori dei propri confini come qualcosa di non totalmente altro. In una certa misura, il ricercatore sul campo deve perdere il limite per allargare la conoscenza dell’altro e di sé, del luogo dove è transitato e di quello di provenienza. Le pratiche dell’etnologo e le corrispondenti riflessioni antropologiche devono implicare un allargamento del noi che pratichiamo e che vediamo allo specchio della nostra autocoscienza riflessiva; gli spazi della nostra realtà effettuale (Wirklichkeit) devono poter abbracciare una possibile realtà in costituzione (Realität), attingibile mediante un Erlebnis, un vissuto di esperienza. Un movimento teorico insieme inverso ma, per diversi tratti, convergente con quello di Duerr è quello che ritroviamo nell’ultimo lavoro di Silvana Borutti, Per un’etica del discorso antropologico. Inverso, in quanto l’approccio è costituito da premesse di tipo filosofico ed epistemologico; convergente, in quanto si arriva a riflessioni sullo statuto delle pratiche e degli assetti disciplinari dell’antropologia che si rivelano in opposizione a entrambi gli schieramenti denunciati da Duerr, i dogmatici dell’oggettivismo scientista ed i relativisti della convenzione radicale. Inoltre, anche Borutti assume il tema del limite come elemento portante della sua analisi, ma lo caratterizza secondo una diversa intenzionalità filosofica, di ascendenza wittgensteiniana: il limite non è barriera, ma sfondo, contorno, delimitazione e insieme apertura di un contesto. Il limite-orizzonte (Hintergrund) apre lo spazio del gioco linguistico che presiede una forma di vita; se per un verso traccia lo spazio entro un contorno, per un altro apre un ventaglio di possibilità, più precisamente si configura come trascendendale linguistico della vita comunitaria, mostrando lo spiraglio attraverso cui accedervi. Il linguaggio presenta caratteri di plasticità, si offre a continue rimodellazioni e presenta una varietà straordinaria di pieghe e sfumature, ma non può tutto, né a livello semantico, né a livello dialogico: apre all’Altro, ma con oscurità, vuoti, lacerazioni. Come passare il Zwischen, il “tra”, che separa il Sé e l’Altro, la forma di vita familiare e quella estranea e ignota? Su questo punto le proposte di Duerr e della Borutti divaricano: per Duerr il tramite è il soggetto, ovvero lo stesso ricercatore, che grazie ad un Erlebnis coglie la dimensione selvaggia - con il rischio di subire la fascinazione di quella dimensione e non tornare più dal suo viaggio; per Borutti, il tramite è il medium linguistico ed una sua specifica attitudine, la traduzione, che fa da ponte tra i due universi. La traduzione rappresenta inevitabilmente un compromesso agito sulla contraddizione altrimenti insuperabile per cui «non si può non tradurre» e, d’altro canto, «non si può tradurre» in senso pieno e totale, da cui ne segue la tensione mai pacificata nell’antropologo tra il vincolo del conservare la differenza dell’Altro e la volontà di sapere del Sé; condizioni entrambe ineliminabili per rispettare il dialogo di alterità che solo può evitare i due rischi contrapposti: o 50 l’annullamento dell’Altro entro il dominio del Sé, o il dissolvimento del Sé con l’immedesimazione senza residui nell’Altro. Nel dibattito che è seguito alla presentazione dell’opera di Duerr, Tempo di sogno, alla Libreria Feltrinelli di Milano, Flavio Cassinari, traduttore dell’opera, ha respinto con forza il giudizio secondo il quale l’impostazione di Duerr debba considerarsi “ingenuamente esotica”. Al contrario, ha osservato Cassinari, Duerr ha messo a fuoco le radici teoriche che accomunano sia l’etnologo sia il girovago hippy nei loro rapporti con popoli non civilizzati: entrambi credono che la loro realtà sia unica e monocentrica; solo che i primi credono che la realtà di queste popolazioni sia sussumibile alla propria, i secondi invece che sia componibile con la propria. Il merito di Duerr è di aver indicato, sia attraverso una descrizione storica, sia con il ricorso ad una analisi teorica, che la realtà della Wildnis non è una realtà altra, ma è il “buco nero”, l’orlo rimosso e misterioso della civilizzazione. E’ questo il terreno di incontro tra l’etnologo e il nativo, e la scrittura etnografica deve avviare una sorta di ricucitura tra i due mondi, o meglio, deve evidenziare nella sua trama i segni di uno strappo, di una lacerazione epocale, storicamente consumatasi. A Duerr, eventualmente, si può imputare, come ha fatto Alfredo Civita, il mancato chiarimento circa i caratteri di questo fondo oscuro della Wildnis, costitutivo della nostra civiltà e da questa esorcizzato: si tratta di qualcosa di radicalmente altro e inaccessibile, oppure di regolamentabile ed esperibile attraverso appropriati rituali? Sulla base di questa alternativa irrisolta si sviluppa la riflessione proposta dall’autore, che si articola su tre piani distinti, ma nel contempo collegati: un piano descrittivo di tipo etnografico (un racconto delle esperienze-limite dalla Grecia del mito ai giorni nostri); un piano teorico-epistemologico (un’analisi del valore di verità degli enunciati dei nativi); infine un piano filosofico-morale (sui connotati della civiltà occidentale). Riprendendo questa impostazione, Ugo Fabietti ha sintetizzato nel suo intervento quello che è diventato il problema antropologico per eccellenza: quale è la corretta impostazione che permette al ricercatore l’approccio all’alterità culturale? Secondo Fabietti, la proposta di Duerr ci offre una prospettiva interessante, quando sostiene che il ricercatore deve rimanere a cavallo tra i due mondi, quello a cui appartiene e quello che è l’oggetto del suo studio. In tal senso viene esclusa qualsiasi impostazione di tipo scientista, che pretenda di fissare con rigidità tassonomica e formalizzante la conoscenza delle altre culture; come, d’altro canto, l’approccio ai significati di queste culture non è garantito da un processo di immedesimazione nei soggetti che ad esse appartengono. CONVEGNI E SEMINARI Per quanto riguarda la questione delle categorie interpretative da applicare nella conoscenza di queste culture, Fabietti ha proposto la distinzione tra comunicazione sul campo e comunicazione al pubblico (la comunità scientifica, gli studenti, i lettori delle opere di divulgazione). Nel primo caso, il ricercatore procede per gradi, e comincia da una vera e propria simulazione di un’altra forma di vita, che con il passar del tempo egli perfeziona, accelerando, quasi inconsciamente, questo processo di interazione con l’altro. Nel secondo caso, il grado di comprensione acquisita sul campo si evidenzia nel tasso di plausibilità che assumono le descrizioni etnologiche quando sono presentate al pubblico; in questa situazione comunicativa, è opportuno un assiduo e meditato rinvio tra le categorie analitiche dell’antropologo e quelle del nativo, al fine di far intendere al pubblico ciò che il ricercatore crede di aver capito sul campo. Carlo Sini, infine, ha analizzato alcune implicazioni delle posizioni di Duerr sul versante filosofico, ricordando l’osservazione di Foucault contenuta ne Les mots et le choses secondo la quale vi sono due scienze di confine, destinate ad esplodere in quanto tali ed a diventare luoghi di interrogazione filosofica, ovvero la psicoanalisi e l’antropologia. Esse mettono in scacco la nostra ambizione epistemologica di dominio intellettuale sull’Altro, che è una sorta di esorcismo nei confronti della differenza, interna ed esterna a noi. In questo contesto riflessivo occupa un ruolo centrale il problema della comprensione. Duerr prende significativamente le distanze dalla posizione di Habermas, che sostiene l’idea di una illimitata trasparenza comunicativa dei linguaggi naturali. Tuttavia, la posizione di Duerr rimane a questo proposito non sufficientemente approfondita: la comprensione non è solo evento, non coincide con la pratica della traduzione, in quanto trasferimento di significati da un universo discorsivo a un altro. L’interazione con il “gioco linguistico” di una differente forma di vita, riprendendo Wittgenstein, impone uno sguardo capace di scrutare, sotto la superficie comunicativa, la fisionomia, opaca e inquietante, dell’Altro che c’è in noi, oltre che nell’interlocutore di fronte a noi. F.S. Il dibattito sorto in occasione della presentazione dell’opera di Duerr ha messo in evidenza alcuni motivi di riflessione, che abbiamo proposto a Silvana Borutti, non presente all’incontro. L’intervista che segue è di Franco Sarcinelli. Un punto forte del discorso di Duerr è l’idea che l’etnologo scientifico non sia cosciente della Wildnis da cui si è originata la nostra modernità. Che cosa ne pensa di questo vizio di fondo della etnoantropologia contemporanea? Ciò che mi sembra assolutamente vero è che l’oblio dell’origine, del proprio carattere storico e quindi della differenza in rapporto ad altre forme di civiltà, sia tipico della forma moderna occidentale di civilizzazione. La razionalità scientifica è di per sé monologica. Per chi vive in essa, la forma di vita scientifico-razionale, dominata dai modi tecnologici del rapporto col mondo e dai modi logico-calcolistici del pensiero, appare come una necessità e un assoluto: sembra di poter pensare solo in essa. E’ vero anche che l’etno-antropologia ha ripetuto questa rimozione e ha praticato inconsapevolmente una vera e propria volontà di sapere, che è diventata un’oggettivazione dell’altro. Ma osserverei anche due cose: da un parte il dibattito epistemologico nell’antropologia contemporanea, che è molto vivo (pensiamo ad esempio alla discussione tra la prospettiva interpretativa e quella oggettivistica), ci dice che l’etno-antropologia riflette ormai sulla propria volontà di oggettivazione e si pone il problema della differenza (il libro di Duerr, del 1978, appartiene agli anni iniziali del dibattito); dall’altra parte, l’asimmetria sottolineata da Duerr tra lo stregone e l’antropologo è riconducibile anche alla differenza tra una forte esperienza di appartenenza comunitaria, tra il limite come vissuto di identità per lo stregone, e il sentimento occidentale, molto più labile e incerto, dell’appartenenza e dell’identità: il viaggio dell’antropologo non è solo volontà di sapere, ma anche confessione e détour alla ricerca di sé. Duerr sostiene che tradurre non è comprendere, perché esclude quel trasferimento vitale nel mondo del nativo - ad esempio vivere l’esperienza dell’ululare coi lupi - che sola costituisce la base di una genuina comprensione. Ma allora comprensione e traduzione si contrappongono o, in ogni caso, sono nettamente distinguibili? In sintesi: Duerr pensa che comprendere l’altro sia il trasferimento vitale nel suo mondo, l’empatia, il diventare l’altro; io penso invece che comprendere sia tradurre, sia un tornare presso di sé dopo essere stato presso l’altro. Perché la traduzione è, a mio parere, esemplare del comprendere antropologico? La comprensione antropologica, come l’apprendimento di una lingua, richiede certamente l’immersione in una forma di vita, in un addestramento, una formazione che sia insieme linguistica e sociale, e che metta l’antropologo nella condizione di poter partecipare a giochi linguistici regolati. Ma, così come una traduzione è il trasferimento nel proprio corpo linguistico dei significati dell’altro testo, la comprensione antropologica è un apprendimento finalizzato a dire l’altro nella nostra lingua, non a diventare l’altro: è una pratica della differenza, non 51 dell’identità. L’assunzione del punto di vista dei nativi deve cioè rimanere uno sforzo cosciente e riflesso di simulazione e di traduzione - un processo, come dice Papi, di «simulazione ontologica necessaria». Comprendere non è diventare l’altro, ma simulare l’altro a partire da sé. Si può ritenere che la comunicazione sul campo dello studioso con il nativo si fondi su categorie implicite e su atti enunciativi complessi mentre, di fatto, la necessità di tassonomie e formalizzazioni s’imponga nel momento della comunicazione dello studioso al suo pubblico? Credo che l’opposizione tra un’esperienza sul campo, che avviene attraverso le strutture del dialogo in atto (mosse enunciative complesse, negoziazione dei ruoli, riferimento alla relazione in atto, fraintendimenti, compromessi, ecc.) e la comunicazione scientifica, che avviene attraverso categorizzazioni teoriche proprie di una comunità di sapere, corrisponda perfettamente all’esperienza dell’antropologo. Forse è corretto aggiungere che sul campo l’antropologo deve fare in modo che la sua intenzione scientifica, che è una condizione inevitabile, non gli impedisca di mettersi in dialogo. Molti antropologi (Favret-Saada, Guidieri, Sperber) raccontano esperienze sul campo in cui, per superare l’impasse di un dialogo impossibile, hanno dovuto ristrutturare in parte il proprio “comportamento scientifico” e il proprio modo di far ricerca. Ponendo la scrittura antropologica come scrittura filosofica, si potrebbe sostenere che il problema della comprensione dell’Altro in antropologia si risolve nella questione della descrivibilità dell’esperienza propria, ovvero nel suo essere altra? Direi di sì, e risponderei che la scrittura antropologica è scrittura filosofica proprio perché è esemplare del percorso non narcisistico (uscita da sé, via lunga che passa attraverso l’alterità, come dice Ricoeur) che deve essere la conoscenza di sé. Potremmo pensare l’antropologia come lavoro di comparazione che non mira all’universalizzazione ( a trovare l’umano in generale), ma piuttosto al riconoscimento contrastivo e asimmetrico di sé: noi, primitivi - come dice il titolo di un libro di Francesco Remotti; noi che possiamo attraversare la distanza dell’altro solo dopo aver preso distanza da noi - come diceva Lévi-Strauss, leggendo nelle Confessioni di Rousseau la fondazione delle scienze dell’uomo. Più in generale, quali contributi specifici la filosofia potrebbe offrire all’antropologia, contributi spesso richiesti esplicitamente dagli antropologi militanti? Oggi nessuno pensa più che ci siano tipi di conoscenza che richiedano l’assoluta spontaneità dell’approccio, né, all’opposto, che le metodologie siano strutture CONVEGNI E SEMINARI Cranio umano ricoperto di argilla dipinta, Nuova Guinea, Sepik 52 CONVEGNI E SEMINARI indiscutibili ed elaborate una volta per tutte. La messa in chiaro dei livelli della comprensione e della costruzione della conoscenza antropologica (dialogo sul campo, costruzione delle descrizioni etnografiche, scrittura finale del testo antropologico) è un compito che ha aspetti filosofici e epistemologici, che emergono sia nelle riflessioni degli antropologi, sia nei loro scambi coi filosofi - come ha dimostrato il dibattito, ancora in corso, sul modello interpretativo in antropologia. Il che mette in luce, d’altro canto, che la filosofia, se è un discorso socialmente raro, cioè non immediatamente volgarizzabile, non è tuttavia un discorso separato, ma immesso nella comunicazione scientifica e sociale. Fondamenti della geometria Dal 21 al 25 settembre 1992 Imre Toth ha tenuto, all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, un seminario sul tema: LA CRITICA DELLA RAGION PURA E LA RICERCA DEI FONDAMENTI DELLA GEOMETRIA NEL XVIII SECOLO . Scopo delle riflessioni di Toth è stato di dimostrare l’importanza della concezione kantiana della matematica nell’evoluzione storica che ha portato a fondare una geometria non e u c l i d e a . Come per molti filosofi prima di lui (Euclide, Platone, Descartes, Leibniz, per citarne solo alcuni) anche per Immanuel Kant la matematica riveste un ruolo notevole nel suo sistema filosofico. Prendendo spunto dal postulato euclideo delle parallele, Kant si pone la questione se le verità indubitabili (i postulati) possono essere dimostrate, dove per dimostrazione si intenda ciò che una certa collettività umana, in un dato momento storico, accetta come dimostrazione. La questione tuttavia non è tanto quella di accertare la verità delle proposizioni (per esempio, che da due punti passa una retta e una sola), ma se da un certo numero di proposizioni dipende la formulazione di altre proposizioni. Di fatto, solo dopo la scoperta della geometria non-euclidea il pensiero filosofico diverrà cosciente della diversità delle due questioni, dando vita, ad una “meta-matematica” e ad una “metageometria”, in quanto ricerche scientifiche con metodi loro propri. L’intuizione kantiana di una geometria non euclidea risale al 1746; è, infatti, a quest’epoca che risalgono i suoi pensieri sulla possibilità di una creazione divina di mondi paralleli. Kant afferma che dal punto di vista metafisico è possibile che Dio abbia creato milioni di mondi, anche di quarta dimensione. Essi tuttavia non possono essere conosciuti dagli uomini, ai quali è precluso ogni contatto con questi mondi: per gli esseri umani l’esistenza o la non esistenza di questi mondi è “indecidibile” con mezzi logici; tali mondi, infatti, devono avere una giustificazione assolutamente differente, per cui le nostre verità geometriche non sono valide. La novità di queste deduzioni, ha osservato Imre Toth, è la presenza chiara in Kant del problema della pluralità dei mondi, un problema che egli imposta sul piano prettamente geometrico, dato che essi si distinguono per la loro “quadrimensionalità”. Una geometria di quarta dimensione è già una geometria non euclidea in senso generale. Interessante, secondo Toth, è anche la consapevolezza kantiana dell’esistenza di attributi geometrici che sono in relazione sintetica con le altre proprietà geometriche. Nella Critica, invece, anche a seguito dell’influenza fondamentale di Klügel su Kant, vi è un cambiamento radicale del repertorio geometrico: la quarta dimensione scompare totalmente. Il problema della quarta dimensione, secondo Klügel, era infatti enigma dello Spirito umano e non un problema di geometria. Questa consapevolezza era presente anche in Kant, già nel 1770. Inoltre, ha rilevato Toth, nell’affermare che la somma degli angoli di un triangolo può essere maggiore di un angolo piatto, Kant mostra di essere a conoscenza dell’opera di Saccheri, che ne aveva dato dimostrazione. Nei decenni a partire dal 1760 Kant arriva, dunque, alla convinzione che le proposizioni della geometria sono in realtà sintetiche. A tale riguardo, nella Critica Kant afferma che dal concetto del triangolo (euclideo o meno) non è possibile desumere se la somma degli angoli sia o meno uguale ad un angolo piatto; in altri termini, la seconda proposizione ha il carattere della sintesi, è sintetica e non analitica. Con questo, ha concluso Toth, Kant ha fatto una vera e propria “rivoluzione copernicana”, decisiva per lo sviluppo ulteriore della matematica e della geometria. Il principale merito di Kant è soprattutto quello di aver distinto la “verità” delle proposizioni dalla “derivabilità” o “non derivabilità” di una proposizione da un’altra. Se però due proposizioni sono inderivabili e non contraddittorie e se la sorgente della verità è il soggetto (umano) libero, con quali mezzi si può fondare il sentimento della certezza della verità euclidea? A questo riguardo Toth ha evidenziato come Kant faccia una scelta che lui stesso considera “arbitraria”, affermando che ciò che deve essere motivato non è la congiunzione del predicato con il soggetto (il triangolo è euclideo), ma la necessità apodittica della congiunzione a priori. E tale necessità deriva dal fatto che esistono verità pure a priori nel soggetto (e tra queste vi è la geometria euclidea) che impongono questa soluzione. Toth ha richiamato in tal senso C. F. Gauss, più o meno contemporaneo di Kant, il quale è il vero e proprio fondatore della geometria non euclidea. Come risulta dalle sue lettere all’amico Wolfgang Bolyai, egli visse in grande tormento interiore perché, pur essendo un kantiano convinto, si trovava ad aver scoperto una geometria total53 mente sconvolgente. Soltanto dopo trent’anni (dal 1804 circa) Gauss riesce finalmente a raggiungere una serenità interna, evidenziata anche dal fatto che egli stesso battezza le sue scoperte come “geometria non euclidea”. Quasi contemporaneamente anche un altro studioso, Lobacevskij, raggiunge gli stessi risultati di Gauss, a più di 4000 Km. di distanza e senza che vi sia stato alcun contatto con il matematico tedesco. Gauss arriverà poi alla conclusione che entrambe le geometrie (quella euclidea e quella non euclidea) hanno uguale «diritto alla cittadinanza». Secondo Toth, questa metafora ha grande importanza. In primo luogo, per un motivo storico-politico: infatti Gauss è un accanito sostenitore della monarchia costituzionale, nella quale tutti devono essere posti sullo stesso piano. Egli inoltre ha mostrato che la verità del soggetto, l’etica, è sovrapposta alla geometria e non viceversa. Allora se una delle due geometrie è vera, è vera anche l’altra: il diritto di esistere appartiene ad entrambe, senza alcuna discriminazione. La scelta dell’una o dell’altra è comunque “arbitraria”. E questa è la differenza rispetto a Kant, che considerava “arbitraria” solo la scelta della geometria non euclidea. L’esistenza delle due geometrie è, dunque, la dimostrazione di un’unica verità: che la scelta dell’una o dell’altra è assolutamente libera. La nuova verità della geometria non euclidea lascia intatta la verità di quella euclidea: se la seconda parte dell’affermazione che la somma degli angoli di un triangolo è uguale ad un angolo piatto, la prima, viceversa, parte dall’affermazione che la somma degli angoli non è necessariamente uguale a un angolo piatto. S.Ba. Aspetti filosofici della letteratura russa Inoltrandosi nella storia della letteratura russa da Pusckin a Dostoevskij e Tolstoj, Georg Friedländer, dell’Istituto Puskin di Mosca, ha condotto presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, dal 19 al 22 ottobre 1992, un seminario dal titolo: ASPETTI FILOSOFICI DELLA LETTERATURA RUSSA, mettendo in rilievo momenti significativi nella tradizione letteraria russa che hanno dato sviluppo al pensiero filosofico. Lo sviluppo del pensiero filosofico in Russia non segue inizialmente una linea autonoma ma, fino al XVII secolo, è legato alla religione orientale e quindi a Bisanzio. La nascita di movimenti eretici e di una scienza laica, libera dall’influsso della Chiesa, avviene solo nel Settecento, in seguito alla penetrazione del Cattolicesimo e del Protestantesimo attraverso la Polonia e la Ger- CONVEGNI E SEMINARI mania. Ed è proprio con Pietro il Grande, che nel 1713 spostò la capitale a Pietroburgo, che la letteratura russa comincia ad accogliere influenze e suggestioni tipiche della cultura europea. Pietro il Grande incrementò la vita culturale russa dando inizio all’accademia delle Scienze e all’Università di Pietroburgo. Inoltre, essendo del tutto assenti nel grande paese figure di spessore filosofico, si rivolse a Leibniz e la suo allievo Wolf per istituire una linea di pensiero autonoma. Diversamente da quanto avviene in Germania, ha osservato Georg Friedländer, lo sviluppo della filosofia in Russia non è generato dall’Accademia o altre istituzioni; è legato prevalentemente alla letteratura e si concentra, in primo luogo, su riflessioni concernenti la grandezza di Dio e il ruolo dell’uomo nell’universo assieme a tematiche di sfondo sociale, quali il rapporto nobiltà-servitù della gleba. L’Ottocento si apre in Russia con le Favole di Krylov, ricche di folklore e leggende, ma nel contempo protese verso la realtà contemporanea e le suggestioni straniere. Il Romanticismo trova qui un terreno culturale e psicologico particolarmente sensibile, tipico del processo di trasformazione in atto in ogni ambito del sapere. Quando in Occidente Byron ha pubblicato i primi due capitoli del Don Juan, Manzoni Il Conte di Carmagnola e Goethe il Wihlelm Meister, trionfa l’opera di Aleksandr Puskin, che regala alla letteratura del grande Paese risonanza mondiale. Il tratto caratterizzante della sua produzione letteraria, ha osservato Friedländer, sta nell’ampio arco di tematiche e personaggi da lui analizzati con acume e chiarezza. Figura difficilmente inquadrabile in una sola corrente o definizione, Puskin è stato accostato al genio universale di Goethe o a Leonardo da Vinci, ma egli è prevalentemente un poeta-artista, pronto a rielaborare creativamente tutto ciò che lo circonda. Sin dagli anni del liceo, pur non potendo seguire delle regolari lezioni di filosofia, Puskin compone delle poesie giovanili di squisito contenuto filosofico dove è ben presente l’introspezione e uno schietto entusiasmo nei confronti della vita e dei suoi valori. Egli non si pone, come i suoi predecessori, il problema sul registro linguistico più appropriato da usare; l’opera riflette il fluire della vita ed è pertanto musicale e spontanea e le trame dei suoi romanzi, pur essendo estremamente lineari, ricoprono un disegno complesso. E’ tipico del talento di Puskin, ha notato Friedländer, riuscire, attraverso semplici soggetti, ad analizzare i problemi basilari dell’esistenza umana. L’adozione di un realismo lirico nella descrizione dei vari aspetti della vita russa lo porterà nei Racconti di Belkin ad una purezza estetica raggiunta nonostante la scarna semplicità dei personaggi. Se con Puskin si dà inizio alla letteratura russa moderna, Fedor Dostoevskij, ha osservato Friedländer, delinea un filone ben determinato e consistente nella narrativa. Impressionato dalla miseria del sottoproletariato urbano, scrive il suo primo romanzo, Povera gente, incentrandolo sulla pietà per l’uomo socialmente subalterno ed emarginato, sulla simpatia per i puri di cuori e sulla vocazione umanitaria, temi che farà suoi e che ritorneranno in Umiliati e offesi e nei Fratelli Karamazov. Benché Dostoevskij non avesse una particolare formazione filosofica, fu convinto assertore dell’interrelazione esistente tra filosofia e letteratura. Successivamente pubblica Il sosia, narrazione che ribadisce il profondo interesse dell’autore per la problematica psicomorale legata allo sdoppiamento della personalità, in cui l’alter ego compare come una persecuzione. In Dostoevskij, diversamente da Freud, l’inconscio non ha una dimensione astorica, ma è legato alla civiltà e precisamente a quei tre stadi della vita dell’uomo che dalla mitica età dell’oro approdano, col futuro, al sogno di una nuova armonia, passando per lo stadio intermedio del presente come epoca di malattia e passaggio, dimidiata tra il bene e il male. Tra il primo e il secondo periodo si colloca l’esperienza della condanna a morte in Siberia, che segnerà la sua produzione al punto tale da fargli scoprire al suo ritorno il “positivo” sul piano spirituale anche nella rappresentazione del mondo degli emarginati. Tale analisi psicologico-introspettiva, e la capacità di illuminare la condizione di “condannato”, troverà con Memorie del sottosuolo, la sua migliore realizzazione. L.R. Fenomenologia del politico Nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, dal 2 al 6 novembre 1992, Klaus Held, dell’Università di Wuppertal, ha tenuto un seminario sul tema: LA FENOMENOLOGIA DI HUSSERL E DI HEIDEGGER E I GRECI , sottolineando l’esigenza filosofica di un rinnovamento dell’apertura umana al mondo. La fenomenologia può fornire, secondo Klaus Held, un importante contributo nel delineare l’attuale orizzonte della filosofia. E’ però necessario riconsiderare il pensiero di Edmund Husserl che, pretendendo cartesianamente di dare nuovo inizio al filosofare, ripropone in effetti la distinzione greca tra epistéme e doxa. Se la prima rimanda alla “percezione dell’unità”, propria della scienza rigorosa, la seconda esprime i “mondi particolari”, cioè la settorialità dell’esperienza soggettiva. Husserl, come i Greci, si risolve fondamentalmente a tagliare i ponti con l’esperienza naturale a favore dell’atteggiamento filosofico. Tuttavia, ha osservato Held, il senso teoretico e storico della 54 fenomenologia presenta tratti del tutto nuovi, in quanto essa esige la tematizzazione del mondo. Il logos del fenomenon, infatti, è la teoria dell’apparenza, e in quanto tale è l’analisi della correlazione tra diverse esperienze soggettive, che vengono perciò non negate, ma coordinate fra loro per il fine della conoscenza. Martin Heidegger, ha proseguito Held, sviluppa ulteriormente il tema del mondo quale elemento centrale della fenomenologia, ponendo la distinzione tra vita autentica e inautentica, in cui si esprime l’apertura al mondo all’interno della polarità svelamento-nascondimento. L’uscita della latenza è possibile laddove entra in gioco la tonalità emotiva, quello «stupore ammirato per il fatto di esserci», che i Greci indicavano con il termine taumazein. Uscire dall’agire strumentale della quotidianità, significa “sostare” presso le cose, scoprendo i rimandi di senso che caratterizzano l’ordine del kosmos. Nel momento in cui l’uomo deve deliberare e sosta presso le sue possibilità d’azione si svela invece il mondo politico, con i problemi politici legati alla convivenza sociale. La scienza del kosmos e la democratizzazione della polis sono i modi in cui i Greci avevano scoperto il mondo. Eraclito paragona l’ordine del kosmos (logos) con quello della polis (nomos) e critica la doxa in quanto contrapposta all’epistéme. Ciò può sembrare in contraddizione con il concetto di democrazia fondato sul confronto tra le opinioni. Invero bisogna distinguere la doxa come atteggiamento naturale, per cui ognuno resta nel proprio mondo particolare, dal logon didonai, di cui parla lo stesso filosofo di Efeso, che è invece un rendiconto a viva voce motivato da ragioni. In tal modo l’opinione resta soggettiva ma punta, come il giudizio riflettente di Kant, a trascendere l’interesse particolare per trovare unità nel comune mondo politico: la democrazia. Anche la cosmologia, come studio delle leggi connesse all’ordine di mondo, non esula, pur nella sua unità di riferimento, dalla prospettiva individuale. Si origina infatti da quello stupore che permette di sostare presso le cose e che è esperito come tonalità emotiva. Il rapporto dei Greci con la totalità passava per la famiglia, la pratica quotidiana, il ciclo del raccolto: il kosmos era l’oikos, il luogo della conservazione della vita, l’ambito domestico che si sottrae alla dimensione pubblica della polis. Tale intimità con il cosmo è oggi scomparsa nella tendenza alla specializzazione dei saperi, anche se ancora non si può fare a meno di quella nozione di “familiarità”, adoperata da Husserl, necessaria per comprenderne, ad esempio, gli attuali problemi di ordine ecologico. Per superare l’oggettivismo moderno occorre far riferimento, come nella Crisi delle scienze europee, all’ambito precategoriale e intuitivo della Lebenswelt. Tornare all’evidenza originaria significa per Husserl riscoprire la di- CONVEGNI E SEMINARI mensione intuitiva del mondo della vita, ma anche rapportarla all’orizzonte universale attraverso il principio di correlazione. La crisi del moderno, ha osservato Held, implica un’anamnesi che scopre nell’oblio la sigla dell’epoca presente: perde infatti ogni importanza il mondo com’è per noi e si guarda soltanto alla sua inseità. L’orizzonte individuale relativo, attraverso il quale si poteva scorgere quello universale, è sostituito dalla categoria di totalità. Questo rifiuto della soggettività implica la perdita l’originaria libertà d’interesse della teoria; la filosofia e la scienza si lasciano assorbire in modo assoluto dall’aspetto professionale, riducendo il sapere a mera tecne, cioè ingegnosità finalizzata ad uno scopo. Senza il limite husserliano del suo dissolvimento nell’infinito, la finitezza assume un carattere del tutto nuovo in Heidegger, laddove la dimensione dell’apertura si schiude a partire dalla latenza, dal sottrarsi dell’uomo alla comprensione. L’oggettivismo moderno si rafforza nel passaggio dal fuoco all’energia come elemento vitale della scienza. Quest’ultima infatti non ha qualità, è puro quantum di forze: l’universo è dunque una sorta di deposito di cui l’uomo può disporre. Tutto sembra a disposizione e viene utilizzato in chiave meramente tecnica e funzionale, venendo meno il senso degli infiniti rimandi, del riserbo per cui ogni cosa connette ad altro da sé. Con ciò si esaurisce anche la possibilità dell’esistenza autentica e si spiega quella politicizzazione da cui nasce il totalitarismo. La fenomenologia, ha osservato Held, deve allora mettere al centro del suo interesse l’ambito politico in una connessione di ethos e kairos, di libertà e situazione favorevole, riscoprendo l’aspetto soggettivo dell’interiorizzazione che passa per la coscienza del limite: il totalitarismo è infatti un tentativo di negare l’individualità e di fornire all’ethos un carattere vincolante. Recuperare lo stupore, quindi il riserbo che lo sostiene, è possibile attraverso una tonalità emotiva che Heidegger chiama angoscia e che è disponibilità di fronte al ritrarsi. Ma anche la felicità può essere adatta a scoprire il sorprendente ripetersi della vita umana nell’altro. G.V. L’eresia gnostica Nel corso di un ciclo di lezioni su CRISTIANESIMO , GNOSTICISMO E FILOSOFIA NEL L’ELENCHOS DI IPPOLITO DI ROMA, tenute all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici dal 16 al 19 novembre, Jaap Mansfeld, dell’Università di Utrecht, ha ripercorso i principali nodi dottrinali della prima patristica nella refutazione dell’eresia gnostica, dando ampie informazioni sulle tradizioni del pitagorismo, del platonismo, dell’aristo- telismo e dello stoicismo nei primi due secoli dopo Cristo. Innanzitutto Jaap Mansfeld ha voluto chiarire struttura e fonti, scopi e metodi di un testo singolare come la Confutazione di tutte le eresie, nota altrimenti come Philosophoumena di Ippolito di Roma (235 d.C.). Nel primo libro, Ippolito ci offre una storia dettagliata della filosofia greca; nei successivi - sono dieci libri- sviluppa il confronto fra hairesis nel senso originario del termine: scelta di un modo di pensare e, per estensione, scuola filosofica, e hairesis nel senso derivato e cristiano: scelta illecita, quindi deviazione dottrinale, con l’intento di dimostrare che i sistemi gnostici sono in verità travestimenti della tradizione filosofica greca. Per far questo Ippolito ordina in un certo modo i frammenti, insiste sulla linea PitagoraPlatone, e nella refutazione degli gnostici definisce la loro diadioché illegittima di fronte a quella cristiana: i cristiani sono gli eredi degli apostoli ispirati dallo Spirito Santo, gli gnostici, invece, non sono parte integrante dell’unica diadoché valida, che rimanda allo Spirito Santo e agli Ebrei, in questo sono debitori intellettu ali de i greci. Il primo sistema gnostico considerato da Ippolito è quello di Basilide, di cui viene in particolare sottolineata la derivazione dalla filosofia aristotelica; la dottrina di Basilide, secondo la quale nella pleròma vi sarebbe tutto l’essere, il mondo stesso, la specie, gli individui, è infatti assimilata alla divisione aristotelica del genere in specie e individui: un Aristotele, questo, di chiara provenienza platonica. Ciò che è implicito nell’Elenchos di Ippolito, ha osservato Mansfeld, è che l’unica tradizione filosofica valida è quella pitagorico-platonica: Ippolito parla indifferentemente di Pitagora e Platone; Aristotele è soprattutto un allievo di Platone, Empedocle ed Eraclito sono essenzialmente dei pitagorici. E così, in Valentino, la serie degli eoni che si genera dal Padre, richiama l’aritmo-geometria pitagorica, dove l’Unità produce gli altri numeri e la linea, la superficie, il solido si generano dal punto. Infine, Empedocle ed Eraclito, pitagorici secondo Ippolito, sono le fonti degli eresiarchi, Marcione, Noèto e Callisto. Dei sistemi di Empedocle ed Eraclito abbiamo una brevissima descrizione, ma già deformata ed adattata al suo scopo: costruire un legame stretto fra Pitagora, Empedocle ed Eraclito, attribuendo indifferentemente all’uno dottrine dell’altro. Secondo Ippolito, l’eretico Marcione riprenderebbe anche troppo palesemente la “teologia” empedoclea: da una parte Amore, il cui scopo è l’omogeneo, l’unità; dall’altra Odiom il demiurgo cattivo del mondo, che introducendo la diversità crea gli esseri di questo mondo. Inoltre, Ippolito interpreta la Musa, cui Empedocle in un frammento si rivolge per attingere la Verità, come la potenza 55 mediatrice fra le due forze opposte del bene e del male. Come nei capitoli su Empedocle, i frammenti sono combinati in modo da creare la somiglianza con Marcione, così, in quelli su Eraclito è evidente, secondo Mansfeld, una riorganizzazione delle “oscure” sentenze eraclitee che produca una somiglianza col sistema di Noèto. Ippolito trova in Eraclito dottrine proto-cristiane quando questi parla dei cicli dell’universo come il risultato di successive conflagrazione e rinascite, che richiamano la resurrezione dell’anima e del corpo. Mansfeld tuttavia non ha mancato di sottolineare il valore che per lo storico della filosofia può avere un testo come i philosophoumena di Ippolito. Pur piegando ai suoi scopi le dottrine “elencate” - e anzi proprio per questo - Ippolito è un testimone prezioso del clima intellettuale del proprio tempo. Nei Philosophoumena ritroviamo citazioni di testi gnostici che altrimenti non conosceremmo, l’eco di problemi interpretativi contemporanei, tracce che ci informano del modo in cui una tradizione interpretativa poteva costruirsi nei primi due secoli dopo Cristo, sospesa tra fedeltà letterale ai testi dei maestri, Pitagora e Platone, e “necessaria” libertà d’interpretazione. A.I. Omaggio a Pareyson La scomparsa di Luigi Pareyson nel settembre del 1991 è all’origine di due recenti commemorazioni dell’opera e del pensiero di uno dei maggiori pensatori di questo secolo. Organizzata da Armando Rigobello dell’Università di Roma “Tor Vergata”, in collaborazione con l’Accademia Spagnola di Storia, Archeologia e Belle Arti di Roma, si è tenuta una giornata di studi dedicata a L’ESTETICA DI LUIGI PAREYSON . Di tono maggiormente celebrativo, la commemorazione organizzata al Piccolo Regio di Torino il 25 marzo 1993, ha raccolto innanzitutto la folta schiera degli allievi, da Gianni Vattimo e Giuseppe Riconda agli allievi più lontani, come Massimo Cacciari, che hanno affiancato l’intervento di due filosofi insigni, con i quali Pareyson intrattenne sempre rapporti di amicizia e collaborazione, Hans-Georg Gadamer e Xa v i er Ti l l ie tt e. Valerio Verra ha aperto i lavori della giornata di studi su L’estetica di Luigi Pareyson ricordando la figura del maestro e soprattutto la fertile riflessione estetica da lui inaugurata, che in forme quanto mai ampie e variegate continua ad occupare ancora oggi buona parte della discussione estetico-filosofica italiana e internazionale. L’estetica di Pareyson è stata affrontata soprattutto dalla prospettiva della ben nota “teoria della formatività”, su cui i vari relatori si sono intrattenuti, ma non ha CONVEGNI E SEMINARI Gianni Vattimo, Umberto Eco, Luigi Pareyson, Hans Georg Gadamer potuto fare a meno di essere messa in relazione ai numerosi aspetti del pensiero pareysoniano: dall’ontologia al personalismo, dal pensiero tragico all’ermeneutica, dal primo esistenzialismo all’ultima sua riflessione su tematiche inerenti al sacro e al tragico, condotta essenzialmente sui vari numeri dell’ “Annuario di Filosofia”, da lui mirabilmente creato e diretto. Xavier Tilliette ha esplicitato alcune tra le numerose aperture tematiche dell’estetica pareysoniana mettendone in evidenza le connessioni con una riflessione sulle cifre della trascendenza, mentre Franco Fanizza e Maurizio Ferraris hanno sottolineato i rapporti spesso conflittuali emergenti dal confronto tra l’orizzonte estetico idealistico e crociano e quello pareysoniano. Guido Morpurgo-Tagliabue ha inoltre interrogato l’estetica di Pareyson muovendo da alcune problematiche interne alla riflessione poetica aristotelica, mentre Francesco Piselli ne ha evidenziato le prolifiche ambiguità. Claudio Vicentini, ancora, ha mostrato le grandi possibilità dell’estetica pareysoniana letta a partire da una prospettiva di teoria teatrale e Roberto Salizzoni l’ha suggestivamente messa a confronto col pensiero esteticofilosofico russo. Gianni Carchia si è soffermato sul rapporto tra estetica ed ermeneutica in Pareyson alla luce di alcune suggestioni provenienti dalla riflessione filosofica francese contemporanea e Ser- gio Givone ha riflettuto sulla connessione di arte, mito e religione nel pensiero pareysoniano, sottolineando l’emergenza di un pensiero tragico e della differenza. Infine, Mario Perniola ha concluso i lavori della giornata di studi da lui stesso coordinata, mostrando come anche nella riflessione filosofica dell’ “ultimo” (per così dire) Pareyson, caratterizzata dalla frequente presenza di problematiche di carattere teologico-religioso, si nasconde in realtà un’autentica esigenza riflessiva di tipo estetico significativamente con i temi del male, del mito e del simbolo. Il pomeriggio torinese in ricordo di Luigi Pareyson nasceva da una precisa occasione editoriale: l’uscita da Einaudi degli scritti di Pareyson su Dostoevskij, che a due anni dalla morte dell’autore appare un po’ come il battesimo extra-accademico di un pensiero rigoroso e schivo, mai sedotto dalle sirene dell’attualità e dai richiami della pubblicistica alla moda. Stranamente, è proprio quel nucleo severo, il lungo e doloroso confronto col problema del male e la costante apertura “metafisica” (testimoniate “in compensio” dalla lezione di congedo accademico del 27 ottobre 1988), a richiamare oggi l’attenzione di chi riscopre il pensiero di Pareyson a distanza. Ma anche, oltre a questo, la possibilità di intendere l’ermeneutica in una forma, se vogliamo, meno “postmoderna”: ossia meno legata al declino degli orizzonti “for56 ti” e più vicina all’esperienza diretta dell’opera d’arte intesa come luogo ontologicamente denso, come luogo di verità. I brevi interventi di Italo Lana e del direttore Dianzani, in rappresentanza dell’Ateneo torinese, hanno aperto la strada agli ospiti Hans-Georg Gadamer, Xavier Tilliette e Massimo Cacciari: tre interventi, tre culture, tre “stili” di commemorazione così diversi da risultare complementari, in una sorta di curiosa armonia prestabilita. Quello di Hans-Georg Gadamer si è presentato come un omaggio al collega scomparso nella forma della lezione accademica, e precisamente di una lezione sul tema “arte e verità”. Un Gadamer poco “gadameriano”, perché la prospettiva dello storicismo, e dell’ermeneutica come erede dello storicismo, è rimasta decisamente in ombra a favore di un’insistita riflessione sul tema della presenza: la “presenza intemporale” dell’opera d’arte, prima e al di là della sua vita storica e del suo costituirsi come orizzonte mobile di significato. Quella che è venuta a profilarsi è insomma l’idea di un fondo “religioso” e “metafisico” dell’opera d’arte, da intendere in un senso vicino al kantiano “sapere senza concetto”: nel senso che il bello risponde di se stesso, non ammette canoni oggettivi, e assorbe chi ne fruisce in un istante non dialettizzabile. Questo sacrificio integrale della dimensione storico-dialogica potrebbe apparire CONVEGNI E SEMINARI molto strano da parte di Gadamer - quasi una conversione in extremis a un credo antiermeneutico - se non nascesse appunto come un omaggio alla memoria di Pareyson e come un dialogo a distanza. Un dialogo così discreto da non chiamare mai in causa il suo interlocutore, e tuttavia così radicale da “sposarne” la prospettiva estetica in una sorta di delicato e affettuoso mimetismo. Il principio gadameriano della Horizontverschemelzung (fusione d’orizzonte), messo da parte e quasi rinnegato nei contenuti teorici del discorso torinese, ha continuato a funzionare come forma trascendentale del discorso stesso in un sottile esercizio di ermeneutica in atto o anche, romanticamente, di filosofia a due voci. Con l’intervento di Xavier Tilliette, si è assistito a una fitta pagina da journal intime: un profilo di Luigi Pareyson al tempo stesso affettuoso, elegante e non privo di tratti di ironica malizia. A ricordare il collega scomparso è stato questa volta l’ “amico francese”, tutto preso dal ricordo della «figura magra e china», dalla «sembianza grave e meditativa» che la malattia avrebbe reso col passare degli anni ancora più austera. E’ toccato poi allo stesso Tilliette rievocare le tappe salienti della ricerca e dell’opera pareysoniana: dai giovanili e pioneristici studi sull’esistenzialismo, all’Estetica, a Verità e interpretazione, dove il problema della libertà si coniuga a un’ontologia dell’ “inesauribile”, fino alla “strana bellezza” e allo “splendore notturno” degli ultimi scritti, dove i temi dell’ermeneutica e della libertà si aprono sull’orizzonte del pensiero tragico. Lo spiritus rector, l’angelo-guida di quest’ultima fase è naturalmente Schelling, “felice scoperta” dell’età matura e crocevia di tutti i principali temi pareysoniani. Quello stesso Schelling a cui Pareyson dedicava, da filologo appassionato, l’ “impareggiabile monumento” degli Schellinghiana rariora. E il baricentro teorico dell’intervento di Tilliette va cercato proprio in quel “discorso temerario” di schellinghiana provenienza che riconosce in Dio non già l’autore del male, ma comunque il suo “inventore”, nel senso che la scelta divina implica il male come sfondo, come ombra o residuo non attualizzato. per quanto Pareyson rifiutasse l’accusa di “demonizzare” Dio, di riproporre l’eresia gnostica, marcionita, del dio malvagio, resterebbe qui secondo Tilliette qualcosa di irrisolto, una difficoltà estrema con cui il cammino di Pareyson si chiude, quasi rassegnandosi, da credente, di fronte al mistero doloroso del Crocefisso. Divinum est pati. Dagli ultimi scritti di Pareyson - gli scritti dell’ultimo decennio - ha preso le mosse anche l’intervento di Massimo Cacciari, “allievo lontano” per sua stessa definizione, ma non per questo meno devoto e impegnato qui in una sorta di appassionato dialogo a distanza. La domanda dell’ultimo Pareyson è, secondo Cacciari, la do- manda fondamentale della metafisica: «Perché l’essente piuttosto che il nulla». E’ la domanda di Dio nei due sensi del genitivo (la domanda “su” Dio, ma anche la domanda che Dio, l’ente sommo, pone a se stesso); ed è insieme la domanda che denuncia i limiti del linguaggio rappresentativo, suggerendo una forma di scrittura diversa dalla forma filosofico-metafisica, una forma che non pretenda di «raggiungere l’inoggettivabile mediante il concetto». Se lo Heidegger della Introduzione alla metafisica rispondeva a quella domanda ponendo l’ambiguità di un Essere che è «quasi come il nulla», Pareyson radicalizza la posizione heideggeriana interrogandosi sull’origine di quella ambiguità. E l’origine dell’ambiguità è la libertà, intesa non già come semplice disposizione umana, ma come l’essere stesso, come il “nome” dell’essere. Qui “va a fondo”, dice Cacciari, ogni filosofia del fondamento, perché la libertà così intesa non fonda, ma è il puro inizio abissale, l’Ungrund. E questa radicalizzazione del problema heideggeriano è nello stesso tempo un “tradimento”, perché la libertà come inizio non è pensabile come puro Ereignis, come l’av-venire dell’essere, ma va pensata insieme come inizio e come scelta: la scelta di Dio che, mentre avviene, de-cide, ossia ritaglia nella possibilità lo spazio del bene. Se però la scelta del bene è il rifiuto del negativo come non-essere, occorrerà che il non-essere sia tuttavia presente in Dio; e si apre qui, osserva Cacciari, il grande agon del pensiero pareysoniano: il tentativo di mostrare come il male sia realmente sconfitto in Dio pur restando in qualche modo presente, come «traccia sbiadita», come «impronta», «voce inquietante, ma zittita». Tanto più che la possibilità, da parte dell’uomo, di ridestare il male sembra implicare una revoca della stessa scelta originaria, e quindi un fallimento effettivo e après coup della libertà divina. Conclusione drammatica e aporetica, questa, per Cacciari come per Tilliette, dove il linguaggio della filosofia sembra sfociare irreversibilmente nel tema religioso della Redenzione. G.P./F.Cu. Jean Paul: per una estetica della conoscenza Una precisa ricostruzione del significato dell’opera di Jean Paul, figura originale e controversa nel panorama filosofico-letterario della Germania di fine ‘700, è stato lo scopo del seminario dal titolo: IL PENSIERO DI JEAN PAUL. INTRODUZIONE A UNA DOTTRINA ESTETICA DELLA CONOSCENZA, tenuto da Gerd Held nei giorni 12-16 ottobre 1992 presso la sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Jean Paul (disegno di Vogel von Vogelstein) 57 CONVEGNI E SEMINARI Filosofici di Napoli. Etichettato variamente e sospeso tra la teoria stürmeriana del genio e un certo atteggiamento romantico, Johann Paul Friedrich Richter, meglio noto con lo pseudonimo di Jean Paul, è una figura insolita all’interno della letteratura tedesca, poco nota in Italia e superficialmente indagata in Germania. Elaborò lungo tutto l’arco della sua opera una lingua originale, bizzarra e pullulante di allegorie tratte dal pensiero comune come dall’arte. Dare una definizione della sua opera, ha osservato Gerd Held, risulta un’impresa vana: gli elementi di cui si compone il suo articolato linguaggio sono disclocati e insituabili e non hanno senso né valore se non in una assoluta atipicità. Di Jean Paul è proprio lo sforzo, comune anche a Novalis, Schiller e Lichtenberg, di superare la soglia tra letteratura e poesia. Certo è azzardato definirlo anche filosofo: Jean Paul non ha scritto né creato un sistema di pensiero; tuttavia all’interno della sua produzione esistono interessanti frammenti filosofici. Uno degli aspetti più innovativi ed immediati della sua opera è, secondo Held, il permanente dissidio tra l’io e il mondo, tra la fede e la pura verità scientifica. D’altro canto nella Clavis Fichtiana seu Leibgeberiana l’equazione problematica dell’io-non io viene parodiata; il carattere autocritico è molto interessante ed è simile ad un’autoliberazione dalla febbre dell’io. La Clavis, nel cui titolo c’è una chiara allusione alla chiave, simbolo per inoltrarsi nei meandri del sistema di Fichte, è al tempo stesso una critica filosofica del linguaggio e del pensiero. Qui Jean Paul, attraverso il Leibgeber, cioè datore di corpo, figura che compare anche nel Titan, supera il concetto idealistico del soggetto nel divenire infinito dell’io puro. Jean Paul, ha notato Held, vuole scagliarsi soprattutto contro il primo Fichte, quello della Dottrina della scienza, e la morte del Leibgeber rappresenta una liberazione dalla separazione interna del non-io e la realizzazione dell’Uno-Tutto. Tra il tono serio e quello satirico, ha osservato Held, la Clavis dimostra, secondo l’intento del suo autore, che si può scherzare e filosofare contemporaneamente; l’umorista non è soltanto un’alternativa al filosofo idealista, ma è parte di lui. E’ un espediente per difendersi dalla filosofia contro la filosofia; è il trionfo della metafora e dell’allegoria in quanto forme aperte, plasmabili a piacere e non conchiuse e unilaterali come una dottrina filosofica. Anche l’umorismo di Jean Paul si concreta nelle subitanee oscillazioni polari tra la Phantasiebildenkraft e il realismo magico: di qui l’appello sempre più frequente a quella “metafisica dell’occhio” che è la sola a poter produrre legami multilineari tra oggetti-oggetto e soggetti-soggetto. La critica che egli muove a Kant, invece, non può essere propriamente definita tale; più che una critica, ha affermato Held, è un richiamo dovuto alla sua sommaria cono- scenza del filosofo, che non andava oltre la prima edizione della Critica della ragion pura. Ma pur essendo la sua polemica indirizzata per lo più agli imitatori kantiani, non si può non sottolineare secondo Held il diverso modo di concepire l’unità che in Jean Paul ha le stesse proprietà di un frammento ed è pertanto provvisoria, limitata e parziale. Il filosofare estetico di Jean Paul, la riabilitazione della metafora e della sua capacità di ridurre le immagini in concetti e viceversa, unito all’appello alla forza combinatoria del Witz, arguzia, non possono non riconoscersi attuali. In tal senso, ha concluso Held, non è rischioso accostare Jean Paul a Wittgenstein, anche lui pensatore per immagini, e ai surrealisti, autori in cui la perdita del centro, e la conseguente predilezione per la molteplicità prospettica dell’ellisse, è segno tangibile di una realtà plastica. L.R. Ermeneutica del dolore Nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, dal 19 al 23 ottobre 1992, Salvatore Natoli ha tenuto un seminario dal titolo: FORME DI VITA E STILI DI PENSIERO. INDAGINI DI GENEALOGIA DELLA MORALE. In esso è stato affrontato il “fenomeno” del dolore a partire dall’interrogazione originaria sul suo “senso” e all’interno dei principali modelli di significazione che l’Occidente ha elaborato nel corso della sua storia e che costituiscono l’inquietante scenario che ospita e complica le nostre personali “esperienze” de l dol or e . Salvatore Natoli ha rinvenuto due scene, due tradizioni che hanno “detto” e “vissuto” il dolore in Occidente: quella greca e quella ebraico-cristiana. La flessione mista delle due tradizioni nella vicenda della modernità lascia intatta la loro differenza come origini storiche di esperienze peculiari, di “stili di vita” individuali e collettivi, cui il pensiero ha dato “forma”. Il greco parte dalla visione della natura come mescolanza di generazione e corruzione, di felicità e crudeltà: la perenne ciclica - trasformazione della physis costituisce lo sfondo su cui si alternano nei viventi piacere e dolore, in un rapporto di esaltazione reciproca. Ciò impedisce che l’uomo si ponga come esistente per-sé, slegato da ciclo; tuttavia, il tragico lo inchioda al dolore della sua individuazione, alla lotta eroica contro la propria singola morte che la natura prescrive. L’individualità tragica, prima di Parmenide e di Platone, è l’ebbrezza di uno stato contradditorio e lacerante. Il greco non può immaginare un mondo senza dolore: il dolore, non avendo ragione, non ha origine. L’unico atteg58 giamento possibile di fronte ad esso è agonico: resistere fino in fondo senza soccombere - senza perdere la propria forma umana... La Grecia antica non rifiuta come scandalo la sofferenza; il suo ethos è una sfida al dolore stesso, attraverso cui viene selezionato il più forte, colui che vivendo fa esperienza personale della bellezza e della crudeltà nella forma del doversi dominare. L’uomo greco è natura consapevole di sé: nella coscienza della lotta contro il dolore egli testimonia così, col contegno e finanche col grido, che chi soffre è vivo, benché aggredito dalla “malattia”. La visione giudaico-cristiana entra nell’Occidente come rifiuto originario del dolore, eskanton di un mondo senza sofferenza e senza morte, il cui avvento - sulla terra o nei cieli - appare garantito dall’esperienza che il popolo ebraico ha fatto di un dio di speranza, allontanamento e amore. Jahvé è il Dio che mette l’uomo alla prova; attraverso il Suo intervento e il dono della Legge il popolo ebraico ha un destino, e una storia che conduce alla salvezza. L’ebreo comunica con un Dio che, se da una parte gli promette salvezza, dall’altra si fa incomprensibile e lontano nella sua giustizia (libro di Giobbe): la fede ebraica vacilla di fronte alla sofferenza innocente. Nella Bibbia l’insopportabilità del dolore proibisce la rassegnazione di fronte ad esso, e postula una vita oltremondana che costituisca il compimento (la redenzione) del giusto al di là della sua assurda, incomprensibile sofferenza terrena. Prima il Cristo e poi la religione cristiana, ha osservato Natoli, prendono su di sé il bisogno di salvezza - di cancellazione del dolore - dell’ebraismo. L’elemento dominante dell’esperienza ebraico-cristiana del dolore è la presenza di un “Tu”-Dio; se questo Tu scompare, se la sofferenza rimane senza Dio, senza la sua giustizia o addirittura in virtù della sua necrosi (il Dio morto di Nietzsche), il mondo appare infernale, privo sia di bellezza che di felicità. Natoli ha poi delineato lo scenario complesso della modernità, mostrando l’intreccio che l’Occidente, come luogo dell’ethos, costituisce rispetto ai due modelli. Cartesio e Hobbes ne sono gli emblemi; infatti nel Seicento ci si avvia ad un progressivo distacco da Dio, da quel “senso” del mondo compreso a partire da Lui; la Chiesa si trasforma, da comunità in attesa della salvezza e del giudizio divino, in una istituzione mondana che non custodisce più la verità assoluta e unica del dogma. L’esigenza di assolutezza del fondamento trapassa nel soggetto, e la politica è il terreno su cui si misura l’azione, col criterio della felicità e dell’uguaglianza: la Rivoluzione francese delinea due vie possibili, quella razional-utopistica del giacobinismo, e quella storico-rivoluzionaria del marxismo, che l’umanità percorre nella sua terrena perfettibilità... Liquidata la trascendenza come “morte” di Dio, scienza e tecnica moderne lasciano intravedere la possibilità estrema di abolire il dolore: il mondo è reso più CALENDARIO Il 16 aprile presso il Centro Culturale Polivalente, Romano Màdera, docente di antropologia filosofica all’Università di Venezia, ha tenuto una conversazione intitolata: Homo religiosus et paganus, che si inserisce nel ciclo “Idoli”, ossia l’edizione 1993 della rassegna “Cosa fanno oggi i filosofi?”, dedicata quest’anno all’antropologia vastamente intesa. Il ciclo comprende altri incontri fino al 4 giugno: 23 aprile, Paolo Fabbri: “Animal loquens”; 26 aprile, Giacomo Marramao: “Homo oeconomicus”; 7 maggio, Adriana Cavarero: “De homine et foemina”; 14 maggio, Umberto Galimberti: “Homo idolum maximum”; 21 maggio, Danilo Mainardi: “Homo sapiens sapiens”; 28 maggio, Ersilio Tonini: “Genus Homo”; 4 giugno, Renato Barilli: “Homo ornatus”. Da ricordare che l’iniziativa è organizzata dalla Biblioteca Comunale di cattolica in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli e la Rivista “Nuova Civiltà delle Macchine”. ● Informazioni: Centro Culturale Polivalente, Piazza della Repubblica 31, 47033 Cattolica, tel. 0541/967802. Il corso di perfezionamento in estetica, presso l’Istituto Suor Orsola Benincasa, diretto da Aldo Trione, con la partecipazione di specialisti italiani e francesi, si svolge dal 26 aprile alla fine di giugno sul tema: Il trucco e l’anima. ● Informazioni: Istituto Suor Orsola Benincasa, via Suor Orsola, 80110 Napoli, tel. 081/411101. Nel mese di maggio 1993 si sono svolti due incontri alla Libreria Feltrinelli: il 6 maggio, Flavio Cassinari, Alfredo Civita, Ugo Fabietti, Carlo Sini hanno presentato il libro: Tempo di sogno, di Hans Peter Duerr (Guerini e Associati, Milano1992); il 27 maggio, Fulvio Carmagnola, Carlo Formenti, Federica Olivares, Fulvio Scaparro e Umberta Telfener sono intervenuti in occasione della presentazione del libro di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, Origini di storie (Feltrinelli, Milano 1993). ● Informazioni: Libreria Feltrinelli, via Manzoni 12, 20100 Milano. CALENDARIO lano, Dipartimento di Programmazione, Progettazione e Produzione Edilizia, via D’Ovidio 3, 20100 Milano, tel. 02/23995133. “Immanuel Kant, Critica della Ragion pratica” a cura di Vittorio Mathieu; “Blaise Pascal, Pensieri” a cura di Adriano Bausola; “Platone, Fedro” a cura di Giovanni Reale; “Platone, Simposio” a cura di Giovanni Reale. ● Informazioni: Biblioteca Nazionale Braidense, via Brera 28, 20100 Milano. Il Goethe Institut di Milano, in collaborazione con l’Istituto per il diritto allo Studio Universitario dell’Università degli studi di Milano, ha organizzato, l’11 maggio, per la serie “Filosofia in Germania oggi II”, una conferenza di Oskar Negt (Hannover) su La Scuola di Francoforte. Ha introdotto Francesco Moiso. ● Informazioni: ISU, via Festa del Perdono 7, 20100 Milano, tel. 02/ 809431. Il Centro Internazionale di Studi Semiotici e Cognitivi dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino, ha organizzato il 10-11 giugno 1993 un seminario dal titolo: Mind and Consciousness, con la partecipazione di Daniel C. Dennet e Richard Rorty, che sono intervenuti rispettivamente su: “Consciousness is not a Medium” e “Holism, Intrinsicality; and the Ambition of Trascendence”; l’11 giugno si è tenuta una tavola rotonda con la partecipazione di Samuel Guttenplan (Londra), Ernest LePore (Rutgers University) e Marco Santambrogio (Università di Bologna). Il 29-30 giugno e 1 luglio 1993 avrà luogo un seminario di Alessandro Duranti e Elinor Ochs su: The Cultu- Nel ciclo delle attività culturali della Fondazione San Carlo, il 12 maggio ha avuto luogo una conferenza di Marcel Fournier (Università di Montréal) su: Marcel Mauss o il dono di sé; il 21 maggio, per il ciclo di lezioni “Questioni del tradurre”, Clifford Geertz (Princeton) ha tenuto una conferenza dal titolo: Riflessioni sullo studio della cultura; il 27 maggio, in occasione della presentazione del volume delle Edizioni Paoline, La re of Discourse: How to Study Communication as a Cultural Practice. Questo il calendario degli figura di Cristo nella filosofia contemporanea, sono intervenuti Fran- co Ardusso e Silvano Zucal. ● Informazioni: Fondazione San Carlo, via San Carlo 5, 41100 Modena, tel. 059/222315. interventi: 29 giugno, “Constructing Culture Through Discourse” e “Methodology”; 30 giugno: “Constituing Language Activities” e “Methodology”; 1 luglio: “Constructing Social Identity” e “Methodology”. I lavori si svolgeranno in italiano ed inglese. ● Informazioni: Università di San Marino, Contrada Omerelli 77, 47031 San Marino, tel. 0549/882516. Il 22 maggio, in occasione della pubblicazione del volume La tentazione dell’oblio. Razzismo, antisemitismo, neonazismo di Franco Il Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, ha organizzato, dal 4 al 25 maggio, un seminario, dal titolo: Natura, tecnica, immaginario. Questo il calendario dei lavori: 4 maggio, Piero Derossi, Franco Trabucco, Federico Vercellone: “Tecnologia e/ o decorazione”; 11 maggio, Emilio Battisti, Maria Bottero e Elio Franzini: “Progetto di architettura e materialità dei processi”; 18 maggio, Giulio Giorello, Ezio Manzini e Pierluigi Nicolin: “Scienza, tecnica, architettura: immagini del mondo”; 25 maggio, Bianca Bottero, Valerio Di Battista e Maurizio Ferraris: “Decostruzione e tradizione”. ● Informazioni: Politecnico di Mi- Ferrarotti, si è tenuto un dibattito * * * * , organizzato da Editori Laterza, a cui hanno partecipato oltre all’autore Massimo Firpo, Nicola Tranfaglia, Gianni Vattimo. ● Informazioni: Ed. Laterza, P.zza Umberto I 54, Bari, tel. 0805216713 Dal 10 al 13 giugno 1993 avrà luogo a Stoccarda, al Centro culturale e dei Congressi, il Congresso della Internationale Hegel-Vereinigung sul tema: Vernunftbegriffe in der Moderne. Sono in programma interventi su (fra parentesi i relatori): 1. “La ragione nel razionalismo e nell’empirismo precritico” (A. Bühler, L. C. Madonna, J. Ecole, J.-L. Marion); 2. “Razionalità teoretica e pratica nelle persone” (R. Bittner, H. G. Frankfurt, T. Spitzley); 3. “Conoscenza della ragione in Kant e nei suoi allievi” (M. Il 27 maggio, presso la Biblioteca Nazionale Braidense, ha avuto luogo la presentazione dei primi volumi della Nuova Collana Testi a fronte, edita da Rusconi Libri. Giulio Giorello e Giovanni Reale hanno introdotto ai temi: “Aristotele, Etica nicomachea” a cura di Claudio Mazzarelli; 59 Baum, P. Guyer, P. Rohs); 4. “Razionalità e irrazionalità come tema dell’antropologia medica” (D. Baron, Erich Wulff); 5. “Ragione e ragionevole nel pensiero di Hegel” (A. Doz, K. Düsing, A. Nuzzo); 6. “Razionalità nel confronto culturale” (R. A. Mall, R. Ohashi, M. Savadogo); 7. “Critica o distruzione della ragione nella filosofia dopo Hegel?” (R. B. Pippin, H. J. Sandkühler); 8. “Il posto della ragione nella moralità” (A. Höffe, O. O’Neill, A. Peperzak); 9. Postmoderni al di là della ragione?” (M. C. Nussbaum, M. Seel, W. Welsch); 10. “Ragione all’interno e all’esterno della scienza” (L. Laudan, J. NidaRümelin, E. Ullmann-Margalit); 11. “Modelli di critica della ragione nel XX secolo” (A. Kemmerling, S. A. Kripke, H.-P. Schütt, G. Vattimo); 12. “Razionalità e irrazionalità del sistema sociale” (S. Benhabib. L. Ferry, W. Kersting). Nelle manifestazioni pubbliche serali sono intervenuti: M. Theunissen, E.-J. Mestmäcker e E. Scheibe. ● Informazioni:Internationale Hegel-Vereinigung, Philosophisches Seminar, Universität, Marsiliusplatz 1, D-6900 Heidelberg, Tel. 062 21 542482-542283. Dal 6 al 10 luglio 1993 la HumeSociety organizza a Ottawa (Canada) la XX. Hume Conference, dal tema: Hume and His Scottish Setting. Interventi su: “Hume and His Critic”; “Hume and the Practice of History in the Enlightenment”; “Hume’s Critique of Religion”. ● Informazioni: Prof. Dorothy Coleman, Secretary of the Hume-Society, Department of Philosophy, College of William and Mary, P.O. Box 8795, Williamsburg, VA 231878795. Dal 18 al 30 luglio a Leuven si terrà la III. Conferenza Internazionale di Linguistica Cognitiva. ● Informazioni: Dirk Heeraerts, ICLA93, Department of Linguistic, Katholieke Universiteit Leuven, Bliijde Inkomststraat 21, B-3000 Leuven Dal 15 al 21 agosto si terrà a Kirchberg il XVI. Simposio Internazionale Wittgenstein sul tema: Philosophy and the Cognitive Science. Sono previste le seguenti sezioni: “Linguaggio e conoscenza”; “La psicologia e la filosofia della mente”; “Metodologie della scienza cognitiva”; “Psicologia popolare e fisica naïf”; “Teorie della percezione”; “Intelligenza artificiale”; “Wittgenstein e la psicologia filosofica”. Organizzatori del simposio sono Barry Smith e Roberto Casati. ● Informazioni: Prof. Dr. B. Smith, Internationale Akademie für Philosophie, Obergasse 75, FL-9494 Schaan, Liechtenstein. La quinta scuola europea estiva CALENDARIO di logica, linguaggio e informazione si terrà all’università di Lisbo- na, dal 16 al 27 Agosto 1993. La scuola è organizzata sotto l’auspicio del FOLLI (European Foundation for Logic, Language and Information). Supporti finanziari alla scuola giungono da più parti, compresa la Commissione della Comunità Europea attraverso il progetto Erasmus, i National Research Councils e alcune industrie sponsors. Il principale obbiettivo del programma è la realizzazione di un collegamento fra linguistica, logica e computazione che interessi la modellizzazione di abilità umane linguistiche e cognitive. Il corso quest’anno coprirà una varietà di argomenti attraverso sei aree di interesse: Logica, Computazione, Linguaggio, Logica e Computazione, Computazione e linguaggio, Linguaggio e Logica. Le iscrizioni sono aperte dai primi di Marzo. ● Informazioni: FOLLI Office, Plantage Muidergracht 24, 1018 TV Amsterdam, The Netherlands Dal 22 al 28 agosto si terrà a Mosca il XIX. Congresso Mondiale di Filosofia, il cui tema sarà: Mankind at a turning point: philosophical perspectives. Direttore del comitato or- ganizzatore sarà il peruviano F. Miro Quesada, affiancato anche da F. Jacques (Francia), W. Kluxen (Germania), K. Satchidanomda Murti (India), T. Ntumba (Zaire), E. Sosa (USA), I. T. Frolow (GUS), V. A. Lektorsky (GUS), M. K. Mamardashvili (GUS), N. V. Motroshilova (GUS) e V. S. Stiopin (GUS). In sezioni plenarie, simposi, dibattiti e 34 sezioni speciali verrà trattato l’intero ambito della filosofia. ● Informazioni: International Organizing Secretariat, studia ega, viale Tiziano 19, I-00196 Roma. L’Istituto Banfi ha organizzato per il 4-5-6- novembre 1993 un Convegno dal titolo: Banfi tra le due guerre: modernità e crisi. Il programma, per ora provvisorio, è il seguente: 4 novembre, Fulvio Papi: “La terza immagine di Banfi”; Guido Davide Neri: “Il tema della crisi”; Luisa Bonesio: “Le figure dominanti di Nietzsche e Klanges”; Mauro Mocchi: “Banfi e Husserl negli anni Venti”; 5 novembre, Paolo Rossi: “La scienza nella filosofia banfiana”; Gabriele Scaramuzza: “Arte e avanguardia”; Lucio Perucchi: “Il rapporto con Simmel”; Amedeo Vigorelli: “L’interpretazione di Kierkegaard e dei teologi protestanti”; Jean Petitot: “Il rapporto con il razionalismo francese”; Livio Sichirollo: “Il comunismo di Banfi”; Luisa Bertolini: “Il rapporto con i neokantiani tedeschi”; Roberto Diodato: “Banfi e la filosofia cattolica”; Lorenzo Magnani: Banfi e Poincaré”. ● Informazioni: Istituto Banfi, via Pasteur 11, 42100 Reggio Emilia, tel. 0522/554360. CALENDARIO OPINIONI A CONFRONTO Nella “scheda”: I luoghi della filosofia. L’Università di Ginevra (“Informazione Filosofica”, n. 7, pagg. 15-16), di Leonardo Distaso, viene presentato un quadro del Dipartimento di Filosofia dell’Università ginevrina, che pur essendo veridico nelle sue linee generali, pecca di varie unilateralità e di giudizi un po’ corrivi e “tendenziosi”. In particolare, il quadro che viene tracciato dell’attività filosofica di Kevin Mulligan rischia di appiattirlo su posizioni, per così dire, “vetero-analitiche”, combinate con una presunta forma rinnovata di materialismo illuministico che, a detta dell’autore dell’articolo, darebbe adito a “esiti riduzionistici”: ora, è vero che nell’attività filosofica e storiografica di Mulligan viene valorizzata quella tendenza al “filosofare esatto”, le cui radici sono rintracciabili nella filosofia austro-tedesca tra ‘800 e ‘900 e che ha poi innervato sia il neopositivismo del Wiener Kreis, sia le pratiche filosofiche consuete nelle scuole analitiche anglosassoni. Ma nel resoconto di Distaso sembra quasi che si attribuisca a Mulligan tutta l’eredità negativa di tale tradizione - sintetizzabile in una pretesa avversione ad ogni metafisica che non sia quella connessa ad una visione scientifica del mondo, che l’autore dell’articolo bolla sprezzantemente come “scientista”. Ma qui occorre piuttosto intendersi sul significato dei termini: mi domando se la “metafisica descrittiva” di Strawson, o le varie forme di “ontologia formale”, non siano anch’esse forme di “metafisica” con piena cittadinanza nella costellazione analitica e se ad esse possa disinvoltamente assegnarsi l’etichetta di “scientiste”. Ne uscirebbe fuori, pertanto, una figura di filosofo analitico irriducibilmente chiuso ad ogni apporto proveniente da filosofie “altre” e pronto alla polemica contro ogni tendenza non assimilabile, dall’ermeneutica al decostruzionismo, in nome di una concezione “forte” della verità. Si tratta di una immagine caricaturale e deformante, che non rende affatto giustizia né alla filosofia analitica, né al filosofo in questione e non intende che la ricerca di argomentazioni rigorose e formalmente corrette è il miglior servizio che si possa rendere all’antagonista filosofico, affinché anche lui si senta stimolato a chiarire il proprio pensiero, traducendolo in un “linguaggio” eterogeneo rispetto a quello usualmente adottato. Infine, mi sembra generico o addirittura poco sensato ritenere che Mulligan riduca la volontà alla nozione di “io volitivo” e questo (sono parole dell’autore) sulla scorta di filosofie «del primo Brentano, del primo Husserl, del primo Wittgenstein e del primo Carnap»: non capisco da dove Distaso abbia desunto tale stravagante tesi che, al di là della figura retorica costituita dall’iterazione anaforica della parola “primo”, non ha alcun fondamento testuale. Sia l’approccio di Mulligan che, più in generale, della filosofia analitica al problema della volontà non è riducibile a ciò che pensa Distaso e, in ogni caso, il pensiero degli autori citati, e in particolar modo quello di Brentano e di Wittgestein, viene da Mulligan o da altri filosofi analitici (pensiamo ad esempio a Bernard Williams) considerato nella sua globalità e non soltanto in 60 una non meglio precisata prima fase. Teodosio Orlando Ho avuto modo di studiare con Kevin Mulligan durante la mia specializzazione all’Università di Ginevra. Non solo. Ho avuto modo di apprezzare Kevin Mulligan, oltre che per la qualità del lavoro, anche per il suo humor e la sua gentilezza, che rendevano interessanti ed al contempo simpatici gli incontri quasi quotidiani. Ho immediatamente riconosciuto stimolante la sua linea di ricerca anche se, devo dire, non sempre trovavo convincenti le conclusioni cui arrivava seguendo linee di pensiero evidentemente diverse dalle mie. Bontà mia, non mi permetto di discutere questo punto, non pretendo di dare distesa spiegazione a questioni che vanno sì sotto il campo della rigorosa argomentazione, ma molto ricadono volentieri nel dominio della persuasione! Dico questo perché penso che una doverosa quanto serena replica alle obiezioni portatemi dal mio amico fiorentino necessiti di un rendiconto non solo di contenuti argomentativi filosofici - contenuti che andrebbero discussi lungo l’arco intero di una carriera filosofica e non nelle poche righe di una pagina- ma anche di quell’insieme di insegnamenti minimali che l’agiografia quotidiana consente di cogliere, discernere, ritenere. In altre parole, io, con Kevin Mulligan, durante l’anno accademico in cui sono stato a Ginevra, ho avuto molti colloqui che mi sono serviti a chiarire i contenuti delle sue lezioni, di alcuni suoi scritti, di molte sue posizioni filosofiche. E non nascondo - perché dovrei, non sono un “tendenzioso malizioso o velato”, piuttosto un “tendenzioso perché di un’altra tendenza” - che spesso non ero d’accordo con quanto sosteneva il mio anglosassone interlocutore. La questione potrebbe anche chiudersi qui, in un certo senso; ma posso altresì, in altro senso, chiarire ulteriormente alcune tesi non per persuasione, ma per doverosa considerazione di ogni mio contraddicente. 1. Che Mulligan sia materialista non sono io che lo penso ma lui direttamente; di quale tipo di materialismo si tratti certo lui ne avrà un’idea: sta poi ai critici capire e valutare l’intera questione (che lascio senz’altro fare, meglio di quanto possa fare io). 2. Non bollo sprezzantemente Mulligan di scientismo: dico che è scientista. Con questo non penso che “essere scientista” equivalga ad essere portatore di qualche malattia! “Scientismo” è un preciso e legittimo concetto, come “illuminismo”, “umanismo”, “radicalismo”, “razzismo” ed “erotismo”. Stop. 3. (Qui debbo dar ragione al mio amico fiorentino: bisogna intendersi sui significati dei termini, al di là dell’adesione o meno al loro portato). 4. So bene che Mulligan persegue un dialogo tra tendenze filosofiche diverse tra loro: è suo l’impegno al confronto tra quella che viene chiamata “filosofia anglo-americana” e “filosofia continentale”; so anche che Mulligan, per essere anglosassone, è anche molto continentale e questo va tutto a favore della completezza della ricerca. 5. Sono del tutto d’accordo con l’obiezione OPINIONI A CONFRONTO CALENDARIO che sarebbe ora di finirla con la banale contrapposizione tra una filosofia analitica, portatrice di cio che è “forte”, “vero”, “stabile”, “significativo”, e una svolazzante filosofia estetico-ermeneutica che vaneggia immagini metaforiche di miti e leggende insensate, insegue poeti per i boschi, si strugge tra il tragico e il niente, interpreta e non sa cosa dice. Sono d’accordo: sarebbe ora di finirla. Ma non l’ho mica inventata io la filosofia analitica! E non capisco perché non si possa, finalmente e di nuovo, parlare di filosofia tout court: che bisogno c’è di aggettivarla? Per quel poco che ne ho capito, insisto nell’essere idealmente sintonizzato con tutto lo sforzo fatto dal “secondo Wittgenstein” per smantellare l’impianto metafisico della filosofia (analitica anglosassone). 6. Questo mi dà agio di poter rispondere anche alla questione del “primo” o “secondo” pensiero di qualcuno. A volte dovremmo essere un po’ più concilianti con gli storiografi e gli storici: se ci capiamo meglio dicendo brevemente che dallo Husserl delle Ricerche a quello delle Idee, o che tra lo Heidegger di Essere e tempo e quello di Cosa significa pensare? ci sono delle differenze, che c’è di male? D’obbligo è la riflessione su quelle differenze, che non possono e non devono ridursi ad abituali tratti convenzionali che interrompono il dovere di capire. Ma se siamo d’accordo su questo allora diventa innocente la semplificazione storiografica: semplificazione problematica, dunque. 7. Ciò mi consente anche di spiegare meglio la posizione di Mulligan sull’io volitivo. Non ho detto che la nozione di “io volitivo” Mulligan la deduce dal “primo” Brentano, dal “primo” Husserl, dal “primo” Wittgenstein e dal “primo” Carnap. Piuttosto è esatto dire che Mulligan ritiene corretta la tesi filosofica che la nozione di “io” abbia senso solo in quanto quest’io è un “io volitivo”, sganciato dalla designazione. E’ questa la tesi che Mulligan ritiene e mette a confronto con le filosofie del Brentano della Psicologia dal punto di vista empirico, dello Husserl delle Ricerche logiche, del Wittgenstein del Tractatus, del Carnap della Costruzione e della Sintassi. Ma, ripeto, la nozione di “io volitivo” Mulligan non la deduce da questi autori, poiché si appoggia per questo su alcune tesi di B. O’Shaugnessy, capitalizzate nel monumentale libro The Will. Dove io abbia desunto la tesi stravagante che Mulligan “flirta” con i pensieri giovanili dei filosofi in questione è presto detto. L’ho desunto dalle sue considerazioni fatte durante le lezioni, in cui egli stesso confessava tali stravaganze: «l’unico Husserl è quello delle Ricerche»; oppure: «il “primo” Brentano è quello che vale, poi egli si perde strada facendo»; ancora: «l’unica cosa che valga la pena di leggere di Wittgenstein - e neanche tanto - è il Tractatus», tant’è vero che a Ginevra circolava la battuta che, stando a Mulligan, per fare una buona filosofia si sarebbe dovuto fare un patto con Mefistofele per non invecchiare. Anche di Kant, del quale Mulligan si professa fiero oppositore, l’unico testo che avesse dignità di lettura è la Prima Critica. Quando gli ho ricordato che Kant aveva anche scritto altre due Critiche (in particolare una Critica del Giudizio che compie il percorso critico lasciato solo interrotto nella Prima), rispondeva che non rientravano nei suoi interessi (evidentemente legati ad una concezione troppo marburghese del criticismo kantiano). Per non parlare di Heidegger (che Mulligan vede come il fumo agli occhi), del quale si è degnato, con tutta evidenza, di commentare solo alcune parti di Essere e tempo (quelle sull’an- 61 DIDATTICA DIDATTICA a cura di Riccardo Lazzari Uovi manuali di filosofia Le recenti pubblicazioni di manuali di filosofia per i licei valorizzano soprattutto l’approccio diretto ai testi filosofici, purché questi siano inseriti nel contesto delle tradizioni e sostenuti da adeguati strumenti interpretativi. E’ il caso dell’opera di F. Cioffi, F. Gallo, G. Luppi, A. Vigorelli, E. Zanette, IL TESTO FILOSOFICO (Bruno Mondadori, Milano 1993), che con la recente pubblicazione del terzo ed ultimo volume, in due tomi, giunge al suo completamento; della STORIA E ANTOLOGIA DELLA FILOSOFIA (3 voll., Laterza, RomaBari 1993) di G. Cambiano e M. Mori; e del CORSO DI FILOSOFIA (4 voll., Bompiani, Milano 1993), diretto da S. Veca e realizzato da G. Mancini, S. Marzocchi, G. Picinali. Con l’apparizione dei due tomi del terzo ed ultimo volume del Testo filosofico, dedicati al pensiero dell’Ottocento e del Novecento, si conclude l’ampia impresa, avviata da Fabio Cioffi, Giorgio Luppi, Amedeo Vigorelli, Emilio Zanette, di costruire un complesso itinerario nel pensiero filosofico, scandito attraverso un’analisi di autori, opere e problemi (si vedano le recensioni dei due primi volumi nei fascicoli 5 e 6 di questa rivista). Franco Gallo ha contribuito alla realizzazione editoriale di questo terzo volume e alla stesura di numerosi capitoli. Diversi altri studiosi di filosofia hanno poi dato il loro contributo specifico alla costruzione di singoli capitoli dell’opera. Quest’ultima nasce pertanto dalla collaborazione e dall’incontro di più studiosi, senza tuttavia smarrire un’impronta unitaria, ma anzi mettendo a frutto le specifiche competenze disciplinari. Anche nel terzo volume compare un’articolazione della materia attraverso apparati d’introduzione ai temi e agli autori, schede di approfondimento e ampie selezioni di testi (non solo di quelli più ricorrenti nelle antologie scolastiche, ma anche di testi spesso trascurati o esclusi dall’approccio dell’insegnamento liceale); le singole unità didattiche sono inoltre suddivise per “temi e problemi”, per “opere” di particolare rilevanza storico-filosofica, per “auto61 ri”, e infine per “biografie” ed “intersezioni”. Sotto il primo titolo, per esempio, sono costruiti i capitoli iniziali sulla genesi dell’idealismo tedesco, sull’estetica e sulla filosofia della natura del Romanticismo; il pensiero di Hegel viene non solo ampiamente presentato sotto la rubrica “autori”, ma una specifica unità “opere” è dedicata all’analisi della Fenomenologia dello spirito, di cui si riportano distesamente alcune scelte testuali. Sotto il titolo “biografie” troviamo un capitolo su Kierkegaard. Fra le “intersezioni”, infine, ricordiamo l’ampio capitolo «Dalla crisi del meccanicismo alla meccanica quantistica». Il secondo tomo vede poi un’articolazione diversa della materia rispetto a quella dei precedenti volumi. Una prima parte di esso è costruita secondo le rubriche sopra indicate e comprende non soltanto unità didattiche incentrate sui momenti divenuti ormai “classici” del pensiero del Novecento (per fare dei nomi o per citare dei titoli generali, ricorrenti ormai anche nei programmi scolastici dell’ultimo anno: Croce, Husserl, Heidegger, Wittgenstein, l’esistenzialismo, l’empirismo logico), che vengono qui presentati con rinnovato rigore interpretativo, ma comprende anche capitoli incentrati su temi ed autori che solo una certa pigrizia intellettuale esclude dalle possibili scelte che l’insegnante può effettuare in sede di programmazione di un iter relativo al pensiero dell’ultimo secolo. Troviamo così, in posizione di rilievo, capitoli dedicati a «Io e mondo» nelle analisi fenomenologiche, alla Filosofia delle forme simboliche di Cassirer, alla Difesa del senso comune di Moore. Una particolare cura, inoltre, è dedicata alla filosofia italiana del Novecento, di cui si ricostruisce non solo la linea ideale Croce-Gentile-Gramsci, ma si focalizzano anche temi quali l’idealismo critico di Piero Martinetti, la ragione problematica di Banfi, lo scetticismo di Rensi e Levi, in modo da ottenere un’immagine per lo meno più variegata della nostra tradizione recente. Una seconda parte del volume, poi, è dedicata a ricostruire «orientamenti e tradizioni» della ricerca filosofica contemporanea ed è architettata mediante schede informative (corredate ciascuna da un lessico di DIDATTICA parole chiave) sui principali indirizzi, scuole e tradizioni (riconducibili, per es., alle voci “ermeneutica”, “falsificazionismo”, “strutturalismo”), che sono ormai consolidate nell’odierno dibattito teorico. Una sezione dal titolo «Problemi e discussioni» è poi dedicata ad un ampio ventaglio di nodi della ricerca contemporanea, relativi sia a questioni interne allo sviluppo del pensiero filosofico, che al rapporto tra riflessione filosofica e scienze naturali e umane. Ciascuna unità mette a confronto testi rappresentativi di diversi autori. Fra i titoli: “Che cos’è il linguaggio”, “Le macchine possono pensare?”, “Quando una teoria scientifica è vera?”. Un dizionario bio-bibliografico sui principali filosofi contemporanei completa questa sezione. L’apparizione del terzo volume del Testo filosofico è stata anche occasione per alcuni incontri non solo di presentazione dell’opera da parte degli autori a un pubblico di insegnanti, ma anche di confronto e di bilancio sul senso dell’insegnare filosofia oggi. Da incontri svoltisi presso i licei di diverse città, fra cui Vicenza (Liceo Classico “Zanella”), Caserta (Liceo Scientifico “A. Diaz”), Milano (Liceo Scientifico “Allende”) è uscito un orientamento dei docenti complessivamente favorevole all’architettura del manuale, sia per l’ampiezza che per l’articolazione degli apparati predisposti per agevolare la lettura dei testi (note, schede di lettura, dizionario). Si è riconosciuto come tale impianto favorisca una didattica che intende superare la lezione frontale e stimolare negli studenti particolari attività di ricerca, sorrette dall’aiuto competente dell’insegnante. Non sono mancate alcune critiche relative a specifiche carenze (per es. la mancanza di un’adeguato approfondimento della logica simbolica, l’assenza di testi di tipo storiografico, una certa complessità nell’introdurre taluni argomenti), ma, significativamente, tali critiche non hanno quasi mai investito l’aspetto della “ponderosità” dell’opera. E’ emersa invece (come dagli incontri svoltisi il 4 marzo presso la Facoltà di Magistero di Bologna e il 19 marzo presso la Facoltà di Lettere a Cagliari) la richiesta agli autori, da parte di insegnanti, di indicare percorsi didattici attraverso i quali poter selezionare i materiali, collegando fra loro le unità o parti di esse. Il Testo filosofico è stato anche presentato all’Università di Padova, nell’ambito di una tavola rotonda tenutasi il 19 novembre dello scorso anno, cui hanno partecipato, oltre a Giorgio Luppi, Enrico Berti, Sergio Moravia, Ugo Perone, sul tema: “Nuovi impegni e nuove tendenze nei manuali per l’insegnamento della filosofia nella scuola secondaria superiore”. Questo dibattito veniva proposto nell’ambito di un Corso di perfezionamento dell’Istituto di Storia della Filosofia, rivolto alla formazione metodologica e didattica degli insegnanti di filosofia e diretto da Giovanni Sentinello. Al centro del dibattito il tema del rapporto tra uso del manuale e lettura dei testi, discusso anche in relazione al nesso, non solo didattico ma squisitamente teorico, tra testualità e storia del pensiero. Il 15 aprile dell’anno in corso si è tenuta, presso il Dipartimento di Scienze Filosofiche dell’Università di Bari, una presentazione pubblica del Testo filosofico, cui hanno partecipato, oltre a Franco Gallo e Amedeo Vigorelli, Davide Bigalli e Francesco Fistetti. Presentando l’opera ad un pubblico prevalentemente di insegnanti della scuola secondaria, Francesco Fistetti ha sottolineato come essa venga incontro al crescente “bisogno di filosofia”, successivo al fallimento delle ipotesi di assorbimento dell’insegnamento secondario della filosofia in quello delle scienze umane. Proprio l’attuale crisi di identità delle scienze umane, e la conseguente esigenza di autoriflessione circa il loro statuto e i loro metodi, rende tale “bisogno di filosofia” più stringente. Fistetti ha poi particolarmente apprezzato la scelta degli autori di restituire al “testo” la sua indispensabile centralità nell’apprendimento della filosofia e ha osservato come tale opera (una vera e propria “enciclopedia filosofica”), nella ricchezza della proposta didattica e nel rigore filologico dell’approfondimento, esalti la funzione “mediatrice” del docente. Fistetti ha sottolineato inoltre come il Testo filosofico si presti ad essere utilizzato anche nelle Università per la preparazione della parte istituzionale dell’esame di storia della filosofia e si rivolga ad una utenza qualificata e non limitata solo alla scuola secondaria. Davide Bigalli è partito dalla constatazione di una difficoltà ad individuare con sicurezza l’oggetto “storia della filosofia” di fronte alla pluralizzazione delle pratiche scientifiche e filosofiche. Egli ha ritenuto in questa prospettiva felice la scelta degli autori del Testo filosofico di identificare la pratica filosofica, nelle diverse epoche della storia, con una pratica testuale, non sempre ristretta agli ambiti scolasticamente tradizionali della storia della filosofia, e da rivisitare con finezza di approccio filologico ed ermeneutico. Gli interventi degli insegnanti presenti hanno in generale sottolineato la positività di una proposta didattica che, affidando al docente un essenziale e qualificato ruolo di mediazione culturale, sembra finalmente farlo uscire da quella posizione di “minorità” intellettuale cui una pratica burocratica della scuola lo ha sempre più relegato. La proposta di Giuseppe Cambiano e di Massimo Mori che presentano con la loro Storia e antologia della filosofia, è quella di un approccio allo studio della filosofia, dove l’inevitabile uso del manuale si coniughi con una intensa frequentazione dei testi degli autori. Tale obbiettivo non è però conseguito dagli autori mediante la semplice aggiunta di una appendice antologica all’esposizione storica, ma attraverso la 62 congiunzione paritetica (come sottolinea lo stesso titolo dell’opera) dell’elemento storico e di quello antologico. Ciascun capitolo presenta così una divisione in due parti. La prima consiste in un’esposizione storica esauriente, mai semplicemente nozionistica, attenta ad inserire gli autori nel più ampio contesto in cui sono nate le loro filosofie, a valorizzare dunque i riferimenti al quadro storico-politico, alle forme istituzionali di produzione e di trasmissione del sapere, al rapporto tra la filosofia e gli altri ambiti culturali. Gli autori cosiddetti “minori” non sono mai citati in modo puramente elencativo, ma inseriti nei capitoli su interi periodi o indirizzi filosofici ed esaminati nella misura in cui lo consente lo sviluppo di un discorso concettualmente organico. La seconda parte di ciascun capitolo è articolata attraverso un percorso testuale, costruito intorno ai fulcri tematici più rilevanti. La parte antologica è corredata inoltre da un ricco apparato esplicativo: ciascun brano infatti è preceduto da una presentazione relativa alla sua collocazione nell’opera da cui è tratto oppure all’inquadramento di quest’ultima nella produzione complessiva dell’autore; talora la presentazione verte sulle connessioni del tema con altri aspetti del pensiero del filosofo trattato ovvero tende alla ricostruzione della storia del problema. Ogni testo è poi accompagnato da numerose note esplicative a pie’ di pagina. Le due parti si presentano organicamente collegate mediante frequenti richiami. Sottolineano gli autori, nella loro Prefazione, come questa connessione fra le due parti abbia altresì la funzione di evitare il pericolo, cui è soggetto ogni manuale, di «stendere una patina di uniformità su tutti gli autori e periodi storici»: in questo senso, «la scelta antologica, cedendo direttamente la parola agli autori stessi su punti cruciali delle loro costruzioni filosofiche, mira anche a documentare la diversità delle forme letterarie, dei modi di scrivere e di argomentare, impiegati nel corso della storia della filosofia». Corso di filosofia è il titolo di una nuova proposta di manuale, realizzata da Giorgio Mancini, Stefano Marzocchi, Giambattista Picinali e coordinata da Salvatore Veca. Il Corso di filosofia si articola in un unico volume, Storia, di carattere storicointroduttivo alle idee e agli snodi della ricerca filosofica, e in tre volumi, Materiali, che contengono materiale antologico, selezionato intorno ad alcune grandi questioni ricorrenti del dibattito filosofico. Il manuale di Storia, rivolto in particolare all’approfondimento di una serie di pensatori, considerati fondamentali dagli autori, anche alla luce dei progetti didattici di riforma più recenti, segue il percorso storico della filosofia occidentale dalle origini fino al pensiero contemporaneo. Da una civiltà ancora dominata dal mito, in cui DIDATTICA l’uomo cerca di rispondere all’interrogativo circa l’origine delle cose e del mondo, si passa ad una civiltà rivolta alla ricerca “insonne” del “conosci te stesso” mediante l’uso del dialogo. La filosofia come “amore per il sapere” recupera il nesso tra verità e linguaggio ormai dissolto dalla sofistica; un nesso che, come viene illustrato chiaramente nel manuale attraverso le principali tappe storiche, rappresenta una delle questioni centrali nel dibattito filosofico del Novecento sul senso dell’essere. Così, alla fine del lungo cammino, simbolicamente tracciato nel manuale, si apre l’illimitato orizzonte ermeneutico di una filosofia che ritrova nel linguaggio una delle parole chiave di questa fine secolo. Come specifica Veca nella presentazione dell’opera, la parte storica è stata realizzata non sulla base del «criterio della esaustività e della completezza dell’informazione su singole scuole, tradizioni ed autori», bensì di una selezione ragionata, in modo da consentire un uso effettivo del volume (unico per tutto il triennio, e dunque utilizzabile anche secondo criteri diversi da quelli di una rigida compartimentazione dei programmi). Fedele alla forma dialogica con cui è impostato questo Corso di filosofia, il volume sulla Storia è affiancato da tre volumi di Materiali, che permettono all’insegnante di organizzare le lezioni in libertà, suffragando la propria esposizione con il rimando alle grandi questioni come verità ed etica, bellezza e storia politica e tempo, immagine del mondo, vita e morte, linguaggio, che ricorrono nel tempo all’interno delle problematiche filosofiche. I tre volumi che costituiscono i Materiali non vogliono fornire una semplice silloge di testi. I testi filosofici, avverte Veca, sono introdotti invece come «una sequenza di risposte a un ristretto nucleo di grandi domande, a quella manciata di problemi ricorrenti (questioni di verità e di etica, di bellezza e di storia, di politica e di tempo, di immagine del mondo, di vita e di morte), in cui da un lato sembra consistere quella che è stata chiamata la “conversazione umana” nel tempo e a cui, dall’altro, sembrano poter essere personalmente interessati i giovani che si avvicinano allo studio della storia delle idee e delle teorie filosofiche». In occasione della presentazione del Corso di filosofia presso la sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, si è tenuta una tavola rotonda, cui hanno partecipato Giuseppe Galasso, Fulvio Tessitore e Salvatore Veca. L’incontro si è aperto con l’intervento di Salvatore Veca, che ha richiamato i due approcci oggi prevalenti in tema di insegnamento della filosofia. Il primo, storicistico, considera unica via di accesso al sapere filosofico l’apprendimento della sua storia, riscontrandola sui testi antologici; da questo punto di vista, la filosofia si presenta come la serie dei tentativi di cia- scuna epoca di autorappresentarsi, o meglio, di fare da sé il proprio ritratto. Il secondo approccio, analitico, ritiene al contrario indispensabile concentrarsi sui problemi, indipendentemente dai contesti storici; di qui una filosofia che si muove unicamente per interrogativi, ai quali cerca di dare una risposta. Due paradigmi, questi, che risultano distinti, secondo Veca, ma non indipendenti l’uno dall’altro; infatti, essi interagiscono in vista di un unico fine: “l’insegnamento della filosofia”. Insegnamento che, ben altro dall’essere una “dieta monotona”, si esemplifica nella forma di «conversazione umana nella catena delle problematiche del tempo storico», in cui ogni persona convive con una varietà essenziale di fini e di ragioni, spesso conflittuali, attraverso le quali articola il rapporto con se stessa e con il mondo. La precisazione è fondamentale, perché caratterizza uno spazio politico specifico, quello dell’organizzazione della polis. Apprendere filosofia significa dunque, per Veca, intraprendere un viaggio verso nuove mete, nuovi orizzonti, che ravvivando sempre più il desiderio incessante del conoscere, contribuisce in modo originale ad espandere «il cerchio della solidarietà umana». In tal senso, l’insegnamento della filosofia abilita a partecipare, ad essere in compagnia dell’altro: rinnovamento e tradizione si presentano, metaforicamente, come due “squadre” di una stessa partita, la cui sola interazione porta alla vittoria. L’intervento di Giuseppe Galasso ha inteso segnare un goal a favore dell’insegnamento storico (e non storicistico) della filosofia, che a suo avviso rappresenta l’unica forma in grado di conferire rigore e direzione a un pensiero che procede ripercorrendo il sapere filosofico del passato e confidando nell’attività creativa ed individuale della mente umana. Riferendosi al pensiero di Gadamer, e in particolare alla sua filosofia ermeneutica come espressione dell’aprirsi dell’uomo al mondo, Galasso legge il nesso individuo-società in termini dialettici. Da qui la necessità non solo di diffondere la filosofia all’interno del suo stesso mondo, ma di considerarla come sapere privilegiato di fronte al progressivo vuoto ideologico che affligge il mondo contemporaneo. Apprendere filosofia significa dunque non solo acquisire specifiche abilità relative alla conoscenza del pensiero e allo stile speculativo dei filosofi, ma vivere insieme con gli altri. L’importante ruolo svolto dalla filosofia nel sollecitare la riflessione, e non nel trasmettere passivamente nozioni in sé compiute, ha rappresentato il centro dell’intervento conclusivo di Fulvio Tessitore. Allo scopo di proporre un punto di equilibrio nella dimensione storica, in cui sia possibile cogliere la poliedricità profonda che affiora nei sistemi filosofici, ogni volta diversi, Tessitore predilige una filosofia che sia «trascendenza senza metafisica», una trascendenza basata sulla ricerca empi63 rica e non ancorata nelle strettoie del “trascendentalismo logico”. Questo sarebbe appunto il rimedio contro quel grande difetto della cultura che considera la filosofia esclusivamente scientia scientiarum; il pensiero umano vive della tensione tra l’ambizione alla verità - nel tentativo di cogliere in un sistema tutto il reale - e la storicità che, invece, ridimensiona queste pretese. L’uomo, infatti, si realizza sempre e ogni volta in maniera originale, nell’immediatezza dell’esperienza vissuta. La temporalità della vita di ogni essere, come essere storico, rappresenta la caratteristica principale dell’uomo. Di qui la sua costitutiva storicità in quanto essere parlante, perché solo il movimento dialogico del discorso della filosofia, ha osservato Tessitore, può abbandonare la ricerca dell’essere, per potersi concentrare su quella del senso della vita che, sulle orme di Humboldt, trova nel linguaggio il fondamento e l’esito della propria riflessione. (R.I. per il resoconto della presentazione a Napoli del Corso di filosofia) Convegni Organizzato dall’ARIFS ( Associazione per la Ricerca e l’Insegnamento di Filosofia e Storia) si è tenuto a Brescia dal 19 al 21 Marzo il XVII Convegno nazionale per l’aggiornamento degli insegnanti sul tema: LA FILOSOFIA ITALIANA TRA UMANESIMO E RI NASCIMENTO , con il coordinamento scientifico di Claudio Cesa e con la partecipazione di noti studiosi quali Cesare Vasoli, Gianfranco Fioravanti, Alfonso Ingegno, Paola Zambelli, Germana Ernst, Michele Ciliberto, Davide Bigalli, Paolo Galluzzi. L’obiettivo fondamentale del convegno è stato quello di rivisitare le tradizionali categorie interpretative dell’Umanesimo e del Rinascimento alla luce dello specifico ruolo giocato in quella fase storica dal pensiero filosofico italiano. Nella sua introduzione, Cesare Vasoli ha esordito ricollegandosi al giudizio espresso da Delio Cantimori alcuni decenni fa circa lo scarso valore scientifico delle tradizionali etichettature della cultura dei secoli XV e XVI elaborate in base a discutibili criteri storico-ideologici, a partire dai notissimi studi sul Rinascimento di Burkhardt. Dopo aver ricostruito la genesi e l’evoluzione delle differenti interpretazioni di questo concetto, Vasoli ha insistito sulla complessità di quella stagione culturale e sull’avvio di profonde trasformazioni che essa determinò in ogni campo. In questa prospettiva, la filosofia italiana dell’epoca, ha osservato Vasoli, assunse in modo non subalterno, ma critico il rapporto con la DIDATTICA cultura classica, intrecciando tradizioni diverse nella prospettiva di un radicale rinnovamento del pensiero. Gli interventi successivi hanno approfondito in modo convergente la varietà e la complessità di questo quadro di insieme. Gianfranco Fioravanti ha analizzato con molta attenzione sia la forza teorica e istituzionale della filosofia delle Università, eredi e mediatrici della tradizione aristotelica, dotata di una poderosa macchina dialettica e di un sistema di sapere complessivo capace di abbracciare tutte le scienze. L’impatto della nuova cultura umanistica, che nacque al di fuori e contro quella tradizione, fu tale da incidere sulla fortificata cittadella degli studi universitari, determinando nel secolo XVI un rinnovamento interno dello stesso aristotelismo, a cui si potrebbe non senza ragione attribuire la definizione di “aristotelismo umanistico”. Sulla filosofia umanistica è intervenuto Alfonso Ingegno, che ha messo in rilievo la crisi della scolastica ad opera dei filosofi più rappresentativi della nuova cultura. L’interesse filologico portò Valla ed Erasmo ad una rilettura su basi morali e non metafisiche delle Sacre Scritture. Anche Marsilio Ficino tentò una apologia della religione cristiana attraverso il suo inserimento in una tradizione millenaria, precedente lo stesso Platone, di tipo spiritualistico, che egli definì come una sorta di philosophia perennis. Non dissimile fu l’intenzione di Pico della Mirandola di ricercare alle radici delle differenti tradizioni filosofiche un’unica verità attraverso una operazione di sincretismo teorico atto a ricomporre su un unico piano convergente linee di pensiero assai distanti tra loro. In questo contesto, ha notato Paola Zambelli, va inserito nella sua originalità e specificità la figura di Pietro Pomponazzi. Anche in Pomponazzi c’è una attenzione filologica per i testi della tradizione filosofica, a partire dai quali egli sviluppò audaci tesi naturalistiche - non solo la negazione della immortalità dell’anima, ma anche l’idea della “magia come arte fattiva” e delle forze naturali come le autentiche forze che muovono le sfere celesti -, teorie affidate a manoscritti non pubblicati ma di circolazione clandestina, per timore della censura ecclesiastica, che furono di riferimento per la posteriore tradizione libertina del sec. XVII. Un altro terreno fondamentale di innovazione teorica fu quello della riflessione politica, come ha evidenziato Davide Bigalli nella sua relazione sul pensiero politico del 1500. La grande novità di Machiavelli, ha fatto notare Bigalli, consiste nella sua concezione dello Stato, non più definito sulla base della dottrina tradizionale delle differenti forme istituzionali - aristocrazia, monarchia, democrazia -, ma sul presupposto della sua natura di costruzione artificiale atta a dominare le passioni e a regolamentare i rapporti collettivi. In sintesi, Bigalli ha proposto un approccio al pensiero di Machiavelli non in quanto visione antropomorfica del potere identificato nella persona del Principe ma come fenomenologia del potere. Michele Ciliberto ha messo in rilievo le ragioni della attuale renaissance del pensiero di Bruno e del suo spessore prettamente filosofico. Centrale è il suo concetto di vita-materia infinita che toglie all’uomo qualsiasi primato ontologico e lo colloca in una situazione di ineluttabile finitezza, quale accidente finito tra innumerevoli accidenti finiti entro un universo infinito. Al sapiente tocca il compito di comunicare alle masse le mutazioni “vicissitudinali” della realtà umana e fisica, in aperta e frontale opposizione alle tenebre con le quali - a giudizio di Bruno -la religione cristiana ottenebra le menti degli uomini. Analoga missione profetica permea il pensiero di Tommaso Campanella, di cui Germana Aisler ha messo in rilievo la ricchezza, la complessità e - anche - le ambiguità. Nonostante limiti e contraddizioni evidenti, filtra nel suo pensiero una costante apertura per le novità in campo filosofico e scientifico, come attesta il suo assiduo confronto con le posizioni di Machiavelli da un lato e di Galileo dall’altro. Il suo riferimento alla religione ambiguamente intesa ora come pura religione naturale, ora identificata con il Cristianesimo - si tinge di utopia, in quanto egli la immagina come cardine di un nuovo ordine sociale armonioso e felice in un momento storico tragico e contrassegnato dalla oppressione e dalla violenza. Paolo Galluzzi nel suo intervento ha fatto il punto sulle differenti interpretazioni del metodo di Galileo, prendendo le distanze sia da coloro che ne enfatizzano - come fa nei suoi recenti studi il canadese S. Drake - il momento praticosperimentale, sia da coloro che sottolineano i suoi legami con l’aristotelismo. Al contrario, Galluzzi ha riaffermato con forza la validità dell’interpretazione di Koyré, tesa a evidenziare il primato della elaborazione teorica in Galilei rispetto alla evidenza osservativa, carattere che conferisce grande arditezza alla sua avventura intellettuale. Prendendo in esame le leggi del movimento fisico, emerge con chiarezza la sostanziale novità della rete concettuale di Galileo rispetto a quella tradizionale. E’ toccato a Cesare Vasoli il compito di tirare le fila dei differenti contributi nella sintesi conclusiva e di evidenziarne una serie di interessanti convergenze interpretative. In primo luogo, è emersa la necessità di una revisione delle tradizionali interpretazioni del Rinascimento, inadeguate rispetto alla complessità dei 64 fenomeni culturali che lo hanno caratterizzato. Un secondo aspetto ha messo in rilievo la varietà degli apporti che si intrecciano nella ricerca e nel dibattito filosofico: non c’è solo platonismo, ma anche la continuazione e , in qualche caso, la rivitaliz zazio ne de ll’aristotelismo.Anche lo spiritualismo di ascendenza platonica non deve essere letto come una pura e semplice riaffermazione del Cristianesimo, ma come il tentativo di affrontare una situazione di crescente lacerazione tra religione istituzionalizzata e suggestioni spirituali di antica origine e tradizione. In tutte le relazioni si è sottolineata la grande varietà di spunti della filosofia rinascimentale ed insieme la fortissima spinta innovativa. Giunto a piena maturazione, il Rinascimento ha messo in luce anticipazioni e precorrimenti del pensiero moderno, ed in questo la filosofia italiana del tempo ha ricoperto un ruolo fondamentale. Per dirla con Weber, il moderno cominciava a prendere corpo come il mondo del politeismo ed in questo senso il Rinascimento aveva già iniziato ad indirizzare le sue ricerche. Alla fine del convegno, Giancarlo Conti, presidente dell’ARIFS, ha presentato il programma del prossimo convegno di filosofia che riguarderà Platone e avrà come sede il Centro dei Congressi di Firenze (Piazza Adua) nei giorni 19 e 20 novembre 1993. Gli interventi saranno i seguenti: venerdì 19 Novembre, ore 9.00, Francesco Adorno: “Socrate e Platone”; Giuseppe Cambiano: “Platone, i sofisti e la letteratura socratico-platonica”; Carlo Augusto Viano: “Idee e mito in Platone”; Mario Vegetti: “Platone e la scienza ”; Marg her ita Isna rdi Parente:”Oralità dialettica e politica”. Sabato 20 novembre, ore 9.00, Bruno Gentili: “Poesia e mito in Platone”; Luc Brisson: “Recenti orientamenti della storiografia platonica”; Bruno Centrone: “L’immagine di Platone nei manuali scolastici”. Sabato 20 novembre, ore 15: tavola rotonda conclusiva, coordinata da Carlo Augusto Viano. Termine delle iscrizioni: 30 settembre 1993. Inviare richiesta di iscrizione, unitamente alla ricevuta di £.75.000 sul c/c posta le n. 128 082 59 intestato a : A.R.I.F.S. - casella postale 103 - 25100 Brescia (Causale del versamento: “per quota associativa”). Per ulteriori informazioni: tel/fax 030.3757341, dalle 15 alle 16, esclusi festivi, prefestivi. F.S. RASSEGNA RIVISTE RASSEGNA RIVISTE a cura di Silvia Cecchi TEORIA Vol. XII, n. 2, 1992 ETS, Pisa Il romanzo dell’identità. Metafisica ed ermeneutica, di V. Sainati: il tema dell’identità da Parmenide ad Heidegger. Universalismo e particolarismo nell’etica contemporanea, di O. Guariglia. L’ermeneutica e il problema della fine, di A. Fabris: recensione di M. Ruggenini, I fenomeni e le parole. La verità finita dell’ermeneutica (Marietti, Genova, 1992), e di V. Vitiello, Topologia del moderno (Marietti, Genova, 1992). forme del cosmo; la protolingua del cosmo ed il rapporto con la lingua dell’uomo. Riserva di alterità, di R. Prezzo: la donna come simbolo dell’alterità e la proiezione su di essa delle caratteristiche dell’estraneo. Verso un’etica della necessità, di F. Polidori: il vincolo che lega il Medesimo e l’Altro. Estranea familiarità, di G. Berto: la nozione di Umheimliche a partire da un saggio di Freud del 1919-1920. Molteplicità e alterità, di R. Cristin. Recenti studi fichtiani, di G. Rotta: recensione di P. Baumanns, J. G. Fichte. Kritische Gasamtdarstellung seiner Philosophie (Alber, Freiburg/München, 1990), e di P. Rohs, J. G. Fichte (C. H. Beck, München, 1991). L’innesto impossibile: l’alterità imperfetta del confronto ebraico-cristiano, di R. De Benedetti. Poesia e verità, a cura di M. Corsi: le lettere di Luigi Scaravelli a Clotilde Marghieri. L’essere “altrove” dell’etnografia, di R. De Biasi. L’altro io, di E. Greblo: la riflessione etica di R. Hare. Invito a pranzo da Kant, di A. Heller: la filosofia della cultura in Kant. AUT AUT Tra ermeneutica e semiotica, di P. Ricoeur. n. 252, novembre-dicembre 1992 La Nuova Italia, Firenze Tema della rivista: “Retoriche dell’alterità”. Retoriche dell’alterità, di P. A. Rovatti: l’articolo analizza la questione dell’alterità dal punto di vista della retorica, cioè degli atteggiamenti teorici e pratici, attraverso cui essa si dà nel linguaggio. Il nemico, categoria dell’alterità, di A. Del Lago: l’alterità come sintomo della spoliticizzazione del pensiero a seguito della crisi della metafisica, con particolare attenzione alla sfera dell’ostilità. Alterità cosmiche, di G. P. Comolli: pur essendosi così allontanato dalla natura, l’uomo ha avuto modo, più di ogni altro essere, di contemplare da vicino le ELENCHOS Vol. XIII, 1992, n. 1-2 Bibliopolis, Napoli Tema della rivista: “Sesto Empirico e il pensiero antico”. Appaiono in questo numero doppio, unico dell’annata, le relazioni presentate al convegno internazioinale di studi dal titolo: “Sesto Empirico e il pensiero antico”, organizzato dal Centro di studio del pensiero antico del CNR (Sestri Levante 28/5-1/6 1991). Il convegno ha messo in luce non solo la posizione di Sesto in relazione alle più importanti correnti filosofiche dell’antichità, ma anche lo stato degli studi relativi allo scetticismo ed alla figura di Sesto. 65 Sextus Empiricus and the atomist criteria of truth, di D. Sedley: sulla base dei riferimenti agli atomisti in M VII 46-262, l’intervento analizza la classificazione data degli atomisti da Sesto che riprende da Enesidemo e da Antioco di Ascalona il materiale della sua trattazione. L’esposizione dei sofisti e della sofistica in Sesto Empirico, di C. J. Classen: la posizione di Sesto in relazione a Protagora, Gorgia, Prodico, Seniade, Eutidemo, Dionisodoro. Die sogenannten kleinen Sokratiker und ihre Schulen bei Sextus Empiricus, di K. Döring: i riferimenti di Sesto a Socrate e ai Socratici. Sesto, Platone l’Accademia antica e i Pitagorici, di M. Isnardi Parente: il riferimento di Sesto a Platone, ai Platonici e ai Pitagorici riguarda soprattutto questioni di esegesi di alcuni passi di difficile interpretazione. Sesto Empirici e l’Accademia scettica, di A. M. Ioppolo: Sesto tende a distinguere la posizione dello scetticismo da quella dell’Accademia scettica. Sextus Empiricus and the Peripatetics, di J. Annas: secondo una tesi storiografica accreditata le citazioni di Aristotele e degli Aristotelici da parte di Sesto sembrano derivare più da una manualistica che da una conoscenza diretta e sono usate per lo più in chiave antistoica. Sextus Empiricus und die Stoiker, di K. Hülser: gli Stoici sono per Sesto i dogmatici per eccellenza; lo scontro tra le due posizioni assume significati interessanti anche alla luce della riflessione moderna. Sesto e gli Scettici, di F. Caizzi Decleva: riflettendo sulla figura di Sesto non come fonte, ma come autore, vengono messi in luce i rapporti tra Sesto Empirico, Eneside- RASSEGNA RIVISTE mo e l’Accademia scettica. IL CANNOCCHIALE n. 2, maggio-agosto 1992 EDS, Napoli révolutions” nel pensiero di Condorcet, di G. Piazza: una lettura di Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain di Condorcet, a partire dall’interpretazione di G. G. Granger (La mathématique sociale du marquis de Condorcet, PUF, Paris, 1953). Teoresi del fondamento (II), di P. Miccoli. La verità e l’annuncio. Il significato religioso del pensiero di Heidegger, di G. Sadun Bordoni: la presenza di un tema religioso sullo sfondo del pensiero heideggeriano emerge significativamente attraverso il problema della verità. In un’ottica di questo tipo troverebbero soluzione anche tutte le difficoltà interpretative relative alla “svolta”. La geometria caotica della mente. Complessità e creatività del sistema cerebrale, di F. Ianneo: un approccio interdisciplinare che, partendo dalle più recenti acquisizioni della neurofisiologia, coglie la complessità strutturale di una personalità mentale. “Il nome della rosa” e la semiotica di Eco, di J. Kèlemen. FENOMENOLOGIA E SOCIETA’ Vol. XV, n. 2, 1992 Edizioni Piemme, Alessandria Introduzione a “cultura e comunicazione”, di K. Eder: attraverso una rapidissima disamina della “svolta culturalistica” che è stata operata all’interno della sociologia, il breve articolo rileva il nesso tra cultura e discorso, consentendo di inquadrare meglio il ruolo della cultura all’interno delle varie condizioni sociali. Il paradosso della “cultura”. Oltre una teoria della cultura come fattore consensuale, di K. Eder: contrariamente a quanto sostiene la teoria tradizionale della sociologia, tanto di Weber, quanto di Parsons, secondo cui la cultura è un fattore che lega la società, viene dimostrato come in realtà la cultura sia un elemento di dissociazione. Le teorie contemporanee della giustizia: vicolo cieco o necessità?, di P. Van Parijs: versione in parte modificata dell’ultimo capitolo di un opera, Che cos’è una società giusta?, che l’autore sta approntando per la casa editrice Seuil di Parigi, l’articolo analizza le teorie contemporanee della giustizia, sottolineando al tempo stesso quali aporie comportano le soluzioni proposte. Aristotele e i rapporti di dominio, di F. Ingravalle: breve nota sull’XI Symposium aristotelicum del 25/8-3/9 1987. La crisi euripidea del mito e il post-moderno, di G. M. Cordero: se la Sofistica mette in luce la contraddizione che esiste a livello etico tra normatività e desiderio, volere e comportamento ispirato alla norme dell’ethos, Euripide, il tragediografo che più da vicino si ispira al pensiero sofistico, appare certamente inattuale rispetto all’ambiente in cui vive, in quanto avverte lo iato tra disposizione razionale e volontà, realizzando una sorta di fallimento del razionalismo che aporeticamente può essere proposto al pensatore post-moderno. Rethinking the christian philosophy debate: an old puzzle and some new points of orientation , di T. D’Andrea: esame dei principali interventi nel dibattito sulla “filosofia cristiana”. Descubrimiento de América: derecho natural y pensamiento utopico, di M. Fazio: sul dibattito e sui problemi teorici sollevati dalla scoperta dell’America: la dignità umana degli indigeni, la giustificazione delle guerre di conquista, la nascita del pensiero politico utopistico. Perché una filosofia politica? Elementi storici per una risposta, di M. Rhonheimer. L’umanesimo del lavoro nel Beato Josemariaà Escrivà: Riflessioni filosofiche, di J. J. Sanguineti. L’etica del discorso e i suoi nemici, di F. Giani: recensione della raccolta di saggi dal titolo: Etiche in dialogo, curata da M. T. Vasconcelos e M. Calloni (Marietti, Genova, 1990), da cui emerge la rilevanza e l’attualità intellettuale della filosofia pratica, introdotta da due interventi programmatici di Apel ed Habermas. L’antropologia tomista e il body-mind problem (alla ricerca di un contributo mancante), di L. Borghi: la relazione mentecorpo nell’antropologia tomista. Eticità e modernità. Sul filo della riflessione weberiana, di G. Balistreri: l’articolo propone una riflessione sulle conclusioni di Weber sul significato etico della Modernità; se da un lato il mondo moderno si configura come una rottura dell’unitarietà della vita e come una parcellizzazione dell’anima che non è più in grado di conformarsi ad un cosmo ordinato, oggettivo ed unitario di valori, dall’altro proprio questa situazione rende possibile per il soggetto una scelta soggettiva, ma responsabile, delle proprie decisioni, scelta che si pone come vero e proprio destino a cui il soggetto liberamente si vota. La mimesi e la metafora nella poetica di Aristotele, di A. Malo. ACTA PHILOSOPHICA Vol. I, n. 2, 1992 Armando editore, Roma Edmund Husserl ed Edith Stein. La questione del metodo fenomenologico, di A. Ales Bello: la ricostruzione della formazione fenomenologica e della ricezione della dottrina di Husserl da parte di Edith Stein. Per una metafisica problematica e dialettica, di E. Berti: il problema della metafisica in rapporto ai recenti interventi di Habermas, con il suo attuale attacco al ritorno metafisico di origine gadameriana, e alle posizioni di W. Pannenberg, che pone la necessità di un rinnovamento della metafisica. Senso tragico della storia ed “Heureuses 66 Unidad del conocimiento y fundamentacion de la metafisica en la Critica de la razon pura, di P. Giralt. Ethical theology and its dissolution in Kant, di A. Ramos. FILOSOFIA Vol. XLIII, n. 3, settembre-dicembre 1992 Mursia, Milano L’attualismo di Gentile e la morte dell’arte, di V. Mathieu. La forma e il limite, di G. Gallino: l’esperienza del Bildungsroman inaugurato da Goethe e l’idea di una normatività dell’ironia come limite per la forza dirompente della soggettività romantica. L’inno della perla: una risposta al problema gnostico, di S. Nosari: all’interno della prospettiva gnostica di una ricerca della coscienza come processo di perfezionamento del proprio stato ontologico e liberazione dalla schiavitu mondana, l’articolo esamina L’inno della perla, versione poetica del mito soteriologico gnostico. La posizione storiografica del pensiero di Carlo Mazzantini, di A. Rizza. L’”Antibancor” e la filosofia del danaro, di M. Pinottini: presentazione del volume dell’autore: L’Antibancor (Padova, Ed. di RASSEGNA RIVISTE Ar, settembre 1992). RIVISTA DI FILOSOFIA NEOSCOLASTICA Vol. LXXXIV, n. 2-3, aprile-settembre 1992 Vita e Pensiero, Milano. L’interpretazione di Platone della scuola di Tubinga e della scuola di Milano, di H. Krämer: l’ autore interviene a proposito della decima edizione dell’opera di Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone: rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle dottrine non scritte (Vita e Pensiero, 1986). Precisazioni metodologiche sulle implicanze e sulle dimensioni storiche del nuovo paradigma ermeneutico nell’interpretazione di Platone, di G. Reale: critica di alcuni pregiudizi di natura teoreticistica, storica, ideologica circa il nuovo paradigma interpretativo di Platone offerto dalla Scuola di Tubinga e, in Italia, da quella di Reale. Una nuova edizione italiana di Platone, di A. Bausola: presentazione dell’edizione dell’opera di Platone a cura di G. Reale: Tutti gli Scritti (Rusconi, Milano, 1991). Inmportanza storica e teoretica del pensiero neoplatonico nel pensare l’Uno di Werner Beierwaltes, di M. L. Gatti. Plotino e Ficino: autorelazione del pensiero, di W. Beierwaltes: Ficino rappresenta senz’altro uno degli interpreti più significativi del pensiero plotiniano, sia per la sua acutezza interpretativa, che per la sua profonda conoscenza della lingua greca che gli permise di entrare in sintonia con il grande pensatore tardo-antico. In particolare, la questione relativa all’autorelazione del pensiero, sia rispetto al pensiero divino e assoluto, sia rispetto a quello umano e finito, viene sviluppata da Ficino in rapporto a Plotino e alla luce della mediazione agostiniana. L’interpretazione di Plotino della teoria platonica dell’anima, di T. A. Szlezak: all’interno dei concetti della tradizione platonica l’articolo sviluppa l’analisi della teoria dell’anima plotiniana. Interpretazione e critica di Plotino della concezione del tempo dei suoi predecessori, di A. Trotta: in Enneade III, 7 Plotino elabora il proprio concetto di tempo come vita dell’anima in rapporto al mondo attraverso una lunga preparazione, che passa anche da un’analisi delle dottrine postplatoniche del tempo, allo scopo di sottolineare la relazione problematica tra tempo e movimento e mettere in luce il primato ontologico della successione temporale nei confronti del movimento stesso. L’essere del tempo è fondato per Plotino nell’anima del mondo come atto che svolge l’unità dell’eterno nella successione; creando il tempo l’anima crea il mondo sensibile e il movimento. Teologia cosmica e metacosmica nella filosofia greca e nello gnosticismo di A. P. Bos: se lo gnosticismo ellenistico è pervaso dal desiderio di conoscere l’Origine e il Fondamento dell’uomo e di tutte le cose, appare evidente come il fondamento della comprensione piena del fenomeno della Gnosi sia il richiamo alla tradizione della filosofia greca. tico” di Gadamer, dalla “teleologia oggettivistica” di Spaemann e di Jonas e dal “rinnovamento della metafisica” di Henrich. Nello stesso tempo, proprio dal fronte antimetafisico di stampo heideggeriano emerge la necessità di un “rinnovamento della metafisica”, quale viene proposto da un teologo della speranza come Pannenb e r g . Il concetto di metafisica, di P. Faggiotto: l’articolo tenta di formulare una definizione di metafisica legato alla struttura dell’esperienza umana. La funzione e la portata della critica alle idee nel Parmenide di Platone, di M. Pezzolato. Interpretazione esistenziale della metafisica, di G. Penzo. I metaxù nella Repubblica: loro significato e loro funzione, di C. Marcellino. L’inevitabilità della metafisica del postmoderno, di A. Poppi. La struttura del mondo soprasensibile nella filosofia di Giamblico, di G. Cocco: la moltiplicazione delle ipostasi soprasensibili, caratteristica peculiare del neoplatonismo di Giamblico, rappresenta il tentativo di rifondare ontologicamente e concettualmente il politeismo pagano; più che sulla filosofia, la metafisica di Giamblico appare perciò fondata su problematiche religiose. Sull’ingresso della metafisica, di V. Possenti: la conoscenza dell’essere e l’esperienza del Sé in M. Heidegger. Gli influssi del platonismo sul neostoicismo senecano di M. Natali: benché la formazione di Seneca sia decisamente stoica, nel suo pensiero sono presenti spunti spiritualistici di origine platonica, che incrinano, sul piano storico-filosofico, il trionfante materialismo, preparando la successiva ripresa della tradizione spiritualista. Metafisica: pensiero forte o pensiero debole?, di U. Regina: l’uso del termine metafisica in Heidegger. Una via d’accesso alla metafisica: l’ulteriorità come dialettica, di A. Rigobello: l’articolo ritrova uno spazio per la metafisica in un pensiero che sia ulteriore rispetto al dominio analitico dei vari settori dell’esperienza, propri della riflessione contemporanea. Critica del neoparmenidismo e semantizzazione dell’essere di C. Vigna: un confronto con il pensiero di E. Severino. Originalità filosofica dei Pensieri di Marco Aurelio, di L. Crovi. Tomismo e democrazia, di J. F. Nothomb: il senso della democrazia in Maritain. John Niemeyer Findlay, un platonico fra i neopositivisti: ritratto biografico, di M. Marchetto. Appunti per un profilo storico-filosofico del pensiero di Hegel, di M. Roncoroni. L’educazione alla verità: il valore del “senso comune” in Vico e in Pareyson, di F. Russo. PER LA FILOSOFIA Anno IX, n. 26, settembre-dicembre 1992 Massimo, Milano Il filosofo scienziato Ludovico Geymonat, di D. Coviello. Tema della rivista: “Le vie della metafisica”. CON-TRATTO Per una metafisica problematica e dialettica, di E. Berti: nel nostro secolo le dichiarazioni di “morte” della metafisica di tipo nietzcheano e heideggeriano hanno avuto una valida alternativa nelle proposte di una razionalità dialogica ed argomentativa offerte dalla seconda generazione della Scuola di Francoforte, in particolare da Habermas ed Apel. L’articolo discute perciò la recente presa di posizione di Habermas contro il “ritorno alla metafisica” rappresentato dal “neoaristotelismo ermeneu- Anno I, n. 1, dicembre 1992 Il Poligrafo, Padova La parte tomista della rivista è dedicata al tema: “Nichilismo e Gnosi”; la parte contemporanea è dedicata al tema: “Ermeneutiche leopardiane”. Le radici del pensiero debole: nihilismo e fondamenti della matematica, di G. Basti e A. Perrone. Nichilismo. Genesi filosofica e rifles- 67 RASSEGNA RIVISTE si sulla cultura contemporanea, di E. Corradi: l’articolo si sviluppa attorno a tre nodi tematici: il rapporto tra nichilismo e carattere complesso del nostro tempo; la genesi filosofica del nichilismo e i suoi principali sviluppi; i riflessi del nichilismo sulla mentalità post-moderna. fisica e della conoscenza. Dominio dell’istante, dominio della morte alla ricerca di uno schema gnostico, di E. Samek Lodovici: la concezione gnostica del tempo e dell’istante appare connessa al pensiero rivoluzionario marxista; per i compagni e per la società del rivoluzionario, dominio della morte significa un nuovo modo di pensare l’istante, cioè di percepire il tempo. Narrazione e futuro. A proposito di Temps et Récit e dell’unità della storia, di G. Mari. Trotsky e le orchidee selvatiche, di R. Rorty: un articolo autobiografico sulla genesi delle proprie idee. Il presente respira attraverso la storia, di M. Cruz. determinata azione compiuta da chi spiega e rivolta a chi ascolta, entrambi “attori sociali”. Le due funzioni della spiegazione, quella “normativa” e quella di “identificazione”, hanno in comune il fatto di produrre (o riprodurre) una forma di organizzazione dell’ordine sociale. Gnosi antica e “sapientia” tomista. Elementi per un confronto speculativo, di A. Porcarelli. Narrazione e tradizione, di C. Sini: la serie dei cinque interventi è dedicata alla figura di Paul Ricoeur ed al tema “narrazione, tempo, soggetto”. Tracce della differenza ontologica: Kant, Hegel, Heidegger, di F. Cassinari: il saggio sostiene un’analogia di struttura e di motivi nell’atteggiamento ermeneutico di Heidegger nei confronti di Kant ed Hegel. Attraverso l’esame dei testi di questi filosofi in rapporto alla lettura datane da Heidegger, l’autore chiarisce come sia possibile trovare decisive chiavi di accesso per la comprensione del pensiero heideggeriano nella sua originalità, nonché per cogliere in esso alcune aporie, soprattutto quella relativa alla nozione di “superamento” della metafisica. Scrittura e poesia. Conversazioni con Edmond Jabès, a cura di E. Manfredotti. Elogio di Epimeteo. di U. Curi. Heidegger a Zollikon, di C. La Rocca. Soggetto (l’io e l’altro), di S. Givone. Lettura sintomale ed ermeneutica psicoanalitica, a cura di I. Domanin: resoconto del convegno su Louis Althusser, tenutosi a Milano presso l’Università degli Studi (56 Febbraio 1992). Cammino di un lettore. Conversazione con Cesare Galimberti di A. Folin. Leopardi platonicus?, di M. Cacciari. Indifferenza e natura. Una presenza gnostica in Giacomo Leopardi, di R. Panattoni: l’accostamento, comunque problematico, tra Leopardi e la gnosi antica viene qui proposto attraverso il riferimento alla libertà umana in rapporto alla natura. “Quasi una finta imago”, di A. Folin: la meditazione leopardiana sul concetto di immagine. Il segno e il velo della differenza. Sull’Indice dello Zibaldone, di A. Calzolari e M. R. Torlasco. Notturno, di A. Prete: il tema del notturno nei Canti leopardiani. Il soggetto come identità e l’identità del soggetto di S. Moravia. Narrazione e “fragilità”. Su alcune variazioni in Paul Ricoeur, di P. A. Rovatti. Individuo. persona, diritti: quale base razionale per l’etica?, di E. Lecaldano: i due ultimi articoli affrontano il tema della dimensione della soggettività sulla scorta dei risultati emersi in un seminario organizzato da IRIDE. Variazioni barocche, di F. Jarauta: sulla base della trattazione di Benjanin, il breve intervento sottolinea l’importanza del barocco nella genesi della modernità. REVUE PHILOSOPHIQUE DE LOUVAIN Reale relativismo, di E. LePore: il realismo di Putnam. Tema della rivista: “Metafisica e ontologia”. A proposito di de Finetti, di M. G. Sandrini. Lecaldano e la legge di Hume, di M. Vacatello: recensione di E. Lecaldano: Hume e la nascita dell’etica contemporanea (Laterza, Bari, 1991). Le concept de philosophie première dans la Métaphysique d’Aristote, di J. Follon: una lettura ontoteologica della filosofia prima di Aristotele, quale scienza delle cause prime e perciò delle sostanze divine; secondo l’interpretazione tradizionale essa è perciò eziologia e teologia, ma anche ontologia, dato che le cause prime si riferiscono all’essere. ITINERARI FILOSOFICI “Physique” et “métaphysique”chez Aristote, di P. Destrée. Etimologie della Ginestra, di G. Scalia. IRIDE n. 9, maggio-agosto 1992 Ponte alle Grazie, Firenze Epistemologia e verità, di D. Davison: l’articolo vuole mettere in discussione il concetto di verità che emerge dalle teorie intuitive e dalle contrapposte teorie relativistiche della verità. Le strutture del mondo del senso comune, di B. Smith: l’articolo dimostra che il mondo del senso comune può essere trattato, dal punto di vista ontologico, come oggetto di un’indagine autonoma che può a sua volta aiutare a capire le strutture della realtà Anno II, n. 3, maggio-agosto 1992 Università degli Studi, Milano Figure del Fondo. La filosofia e il soggetto nella Montagna Incantata di Thomas Mann, di M. Fortunato. Spiegazione dell’agire, agire dell’esplicazione, di D. Sparti: un’indagine relativa alla nozione di spiegazione, la cui analisi, presentata nel quadro pragmatico dello spiegare come pratica teorico-comunicativa, viene spostata da un piano epistemologico ad uno pratico. L’articolo interpreta lo spiegare come attività tipicamante comunicativa che comporta la ridescrizione di una 68 Vol. 90, novembre 1992 Editions de l’institut supérieur de philosophie De l’ontologie à la théologie; lecture du livre Z de la Métaphysique d’Aristote, di G. Gérard: il libro Z della Metafisica rappresenta una chiave di volta nell’economia della filosofia aristotelica, poiché qui Aristotele individua nella teologia il senso profondo della tematica ontologica. La stylométrie et la question de Métaphysique K, di C. Rutten. Le statut de l’Un dans la Métaphysique, di L. Couloubaritsis: nonostante la generale convinzione che Essere ed Uno siano concetti e termini convertibili reciprocamente, RASSEGNA RIVISTE l’autore sostiene che, al di là di pochi casi limite, il rapporto tra Essere ed Uno sia regolato dalla complementarietà. Une nouvelle approche de la philosophie d’Ernst Cassirer, di S. Loft: recensione di J. M. Krois: Cassirer: symbolic forms and history (Yale University Press, New Haven, London 1991). l’animale. aspetti del pensiero di Husserl, con particolare attenzione al concetto di noema. René Descartes et Pierre Charron, di M. Adam: l’articolo analizza in che senso il pensiero di Charron (1541-1603), accanto a quello di Montaigne, possa essere considerato una fonte di quello cartesiano. LES ETUDES PHILOSOPHIQUES Coup d’oeil sur la philosophie italienne contemporaine: le “trascendentalismo della prassi” et la philosophie critique de M. Dal Pra, di L. Rizzerio. REVUE PHILOSOPHIQUE DE LA FRANCE ET DE L’ETRANGER n. 4, ottobre-dicembre 1992 PUF, Paris Tema della rivista: “Cartesio e la tradizione umanista”. L’image de l’homme chez Descartes et chez le cardinal de Bérulle, di J. L. Vieillard-Baron: la differenza tra la posizione di Cartesio e quella di Bérulle sulla concezione dell’uomo appare emblematica di un cambiamento avvenuto nella cultura e nella mentalità nel corso di quegli anni. Se per Bérulle l’uomo, pur rivestendo un ruolo centrale nell’universo, come per Cartesio, si colloca all’interno di una visione rinascimentale della cosmologia, per Cartesio esso partecipa del meccanicismo dell’universo. Anche per quanto riguarda l’analisi della volontà umana e delle passioni la visione di Bérulle è in un certo senso antiumanista, perché si riconnette alla tradizione agostiniana, mentre per Cartesio il libero arbitrio è la più nobile delle funzioni umane. ottobre-dicembre 1992 PUF, Paris Tema della rivista: “Poesia e filosofia nell’idealismo tedesco”. Sensibilité et dualisme dans les Lettres sue l’éducation esthétique de l’homme, di M. Castillo: il superamento del dualismo kantiano tra ragione e sensibilità è ottenuto da Schiller attraverso la scoperta della dimensione estetica che apre anche una curvatura politica nella sua riflessione. Poésie, philosophie et science chez Friedrich von Hardenberg (Novalis), di D. Lancerau. Enthousiasme et ironie. La dialectique artistique selon K. W. F. Solger, di J. Colette: le considerazioni sull’arte e sull’artista di Solger nel dialogo Erwin (1815) e nelle Lezioni d’estetica (1829). Hölderlin: fragment d’une esthétique spéculative, di J. L. Vieillard-Baron: la sintesi tra l’atto del poetare e quello del filosofare vengono esaminati a partire dalla Dichterberuf (1801) e dalle esplicazioni teoriche redatte ai tempi dell’Empedocle (17981800). Poésie et mysticisme dans la dernière philosophie de Schelling, di M. C. Challiol. Descartes philosophe et écrivain, di J. Lafond: l’articolo ricostruisce con precisione l’interesse mostrato da Cartesio nei confronti del dibattito coevo relativo al ruolo e alle forme della letteratura. Empédocle et Zarathustra: sept versions de la morte libre, di M. Kerkhoff. Doute pratique et doute spéculatif chez Montaigne et Descartes, di G. Rodis-Lewis. PHENOMENOLOGICAL INQUIRY L’homme et le langage chez Montaigne et Descartes, di F. de Buzon: il rapporto che lega Cartesio a Montaigne è piuttosto complesso: più che accettare completamente o completamente rigettare alcuni aspetti della filosofia di Montaigne, Cartesio utilizza alcuni suoi argomenti, ad esempio scettici, in una direzione opposta allo scetticismo. L’unica tematica in cui Cartesio evoca esplicitamente Montaigne è la questione del linguaggio e della differenza tra l’uomo e Vol. XVI, ottobre 1992 The World Institute of Advanced Phenomenological Research and Learning Belmont A phenomenological interpretation of John Locke’s distinction between sensible and intellegible ideas, di Y. Tomida: l’interpretazione della teoria lockeane delle idee alla luce della teoria husserliane del significato. Husserl and his analytic interpreters: some revealing questions, di R. Cobb-Stevens: scopo dell’articolo è cogliere il senso ed esaminare criticamente le recenti interpretazioni date dalla scuola analitica ad alcuni 69 Conceptions of freedom: Hegel, Sartre and confucianism, di Y. Chen. Sartre conception of freedom, di W. L. Mc Bride. Innocence, guilt and totalitarianism, di M. L. Pfeiffer: una breve riflessione su Humanisme et Terreur (1947) di M. MerleauPonty. Heidegger and the fundamental ontology of language, di R. Raj Singh. The world of language: Merleau-Ponty and Mead, di P. L. Bourgeois e S. B. Rosenthal: il pensiero di Merleau-Ponty e Mead affonda le proprie radici in una concezione olistica, che rifiuta un approccio semplicemente riduzionista alla questione del linguaggio. Communication in the context of cultural diversity, di C. O. Schrag: la questione del rapporto tra comunicazione e comunità a partire da Ragione ed Esistenza di Jaspers. Allegory and maxim: power and faith, passions and virtues. Queen Christina of Sweden, a citizen of the world: from Stockholm to Paris to baroque Rome, di M. Kronegger. Is philosophy as a rigorous science still topical today?, di A. Ales Bello. JOURNAL OF THE HISTORY OF PHILOSOPHY Vol. XXX, n. 4, ottobre 1992 Washington University, St. Louis Plotinus’ account of participation in Ennead VI 4-5, di S. K. Strange: un aspetto non sufficientemente analizzato dalla critica plotiniana, eppure di grande importanzaper una corretta e completa comprensione della metafisica plotiniana, è il problema della partecipazione del sensibile alle idee, questione al centro anche del commento di Proclo al Parmenide platonico. Si tratta di un’analisi . Mathematical construction, symbolic cognition and the infinite intellect: reflections on Maimon and Maimonides, di D. R. Lachterman. Leibniz’s adamic language of thought di M. Losonsky: prendendo spunto dalla diversità di posizione tra Locke e Leibniz sul problema del linguaggio, l’articolo vuole ricostruire ed evidenziare l’importanza dell’adesione di Leibniz alle linee di fondo della teoria adamica del linguaggio; attra- RASSEGNA RIVISTE verso un breve excursus sulla storia di questa posizione, l’articolo mostra come essa non si proponga soltanto come teoria del linguaggio, ma anche come teoria del pensiero Hume on the duties of humanity, di R. Shaver: il dibattito tra doveri della giustizia e doveri dell’umanità nel XVIII sec. Fichte, Lask and Lukács’s hegelian marxism, di T. Rockmore: nella formazione di Lukács l’approdo al marxismo non avviene soltanto sulla base dei presupposti hegeliani, ma risulta fondamentale anche la meditazione sulla filosofia classica tedesca. Più in particolare la soluzione marxiana del problema kantiano della cosa in sé appare come il frutto della riflessione sul pensiero di Fichte, attraverso la mediazione di Lask. Bergson’s concept of order, di R. Lorand: il concetto di ordine è fondamentale in tutta la filosofia occidentale e soprattutto nel pensiero di Bergson. L’articolo prende in esame appunto la posizione del filosofo francese, tenendo presenti i due presupposti bergsoniani: ci sono due tipi di ordine; il disordine non esiste. frammento scoperto nel 1913 e la cui redazione é stata generalmente attribuita a Hegel, l’articolo prende in considerazione i più recenti interventi critici attorno al frammento, con particolare attenzione allo studio di F. P. Hansen “Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus”. Receptions Geschichte und Interpretation (Berlin, New York 1989). n. 3, 1992 Walter de Gruyter, Berlin, New York Anmerkungen zur schottischen Aufklärung (in Aberdeen). Neue Briefe von Baxter, Beattie, Fordyce, Reid und Stewart, di H. F. Klemme. La construccion del texto, di M. E. Vasquez: l’articolo si propone di chiarire il senso del rapporto tra letteratura e filosofia. ARCHIV FÜR GESCHICHTE DER PHILOSOPHIE Markt, Motive, moralische Institutionen. Zur Philosophie Adam Smiths, di G. Streminger. LES ETUDES PHILOSOPHIQUES (luglio- Go-carts of judgement: exemplars in kantian moral education, di R. B. Louden: gli esempi morali individuali occupano nella riflessione morale di Kant un ruolo superiore a quello generalmente riconosciuto ad essi, benché non possano essere considerarti sufficienti per un’educazione morale. DAIMON n. 5, 1992 Universidad de Murcia Sind Tiere Bewussthaber?, di H. Schmitz. Fichte und die Metaphysik des Unendlichen, di W. Pannenberg: l’articolo segue le tappe dello sviluppo della filosofia della religione di Fichte. Kein Platz für phänomenale Qualitäten und Leib- Umwelt-Interaktion?, di G. Pohlenz: l’analisi trascendentale e le tendenze della scienza empirica. Hegels Idee von Europa, di D. Innerarity. Aesthetica und Anaesthetica, di B. Recki: recensione di O. Marquard: Aesthetica und Anaesthetica. Philosophische Überlegungen (Paderborn 1989) Das Verschwinden des Originals, di H. J. Gawoll: dopo aver ricostruito le vicende relative alla attribuzione dello älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus, Cinco curisidades desde la novela gotica, di J. Seoane. De la filosofia a la literatura: el caso de Richard Rorty, di C. Thiebaut: il neopragmatismo di Rorty occupa un posto centrale all’interno delle discussioni relative al rapporto tra filosofia analitica e tradizione continentale. Attraverso questa sintesi egli realizza un legame forte tra filosofia e letteratura. ZEITSCHRIFT FÜR PHILOSOPHISCHE FORSCHUNG Vol, 46, n. 3, luglio-settembre 1992 Vittorio Klostermann Verlag, Frankfurt a/M Borges y la filosofia del tiempo, di M. Schultz. Tema della rivista: “Filosofia e letteratura”. Elegy and identity, di S. Campbell: l’articolo sviluppa, a partire dal Rinascimento, l’analisi di esempi storici circa la rottura dell’identità dovuta alla morte . El autor, la ficcion, la verdad, di A. Campillo: a partire dalle considerazioni di Derrida e Foucault sul rapporto tra autore, vita ed opera, l’articolo propone un’analisi storica della categoria di autore, allo scopo di ripensare la relazione tra filosofia e letteratura occidentale. “Back from Moscow, in the URSS”, di J. Derrida. Idylle und Müssiggang in der Literatur des 18. Jahrhunderts, di R. Münster. La letencia o la ficcion de verdad. Sobre el método del discurso de M. Blanchot, di A. Poca: attraverso l’esperienza di Blanchot della scrittura, l’articolo analizza il rapporto tra soggetto e linguaggio; importantii riferimenti a Bataille, Klossowski, Deleuze, Foucault, Derrida. 70 settembre 1992, PUF, Paris). Tema della rivista: “La teoria computazionale dello spirito; filosofia e scinze cognitive”. Segnaliano, tra gli altri articoli, un intervento di H. Putnam: La nature des états mentaux. FILOSOFIA E TEOLOGIA (Vol. VI, n. 3, settembre - dicembre 1992) affronta il tema: “Religione e Sacro tra moderno e postmoderno”, con interventi su Hegel (Religione e filosofia in Hegel, di S. Rostagno), su Lukács (Menschwerdung e Gottesreich nel giovane Lukács, di L. La Porta), su Adorno (Filosofia e modernità in Th. Adorno, di I. Poma), su Habermas (Religione e teoria critica. Il potenziale critico della religione di fronte al progetto di Habermas, di J. M. Mardones). AESTHETICA (n. 36, dicembre 1992, Cen- tro Internazionale Studi di Estetica, Palermo) presenta un volume monografico curato da A. Van Sevenant dal titolo: La decostruzione e Derrida. IDEE (Anno VII, n. 21, settembre-dicem- bre 1992, Milella, Lecce) presenta, tra gli altri, un intervento di R. Convertini su L’idea di tempo tra filosofia e psichiatria. REVUE DE METAPHYSIQUE ET DE MORALE (A. Colin, Paris) ha presentato, nell’annata 1992, i seguenti numeri monografici: “Gli Universali” (1/1992); “Neuroscienze e filosofia; il problema della coscienza” (2/1992); “Dossografia antica” (3/1992); “Cassirer” (4/1992). NUOVA CIVILTA DELLE MACCHINE (Anno XI, n. 1, 1993, Nuova Eri, Roma) presenta le riflessione di alcuni autori sul tema: “La felicità”. L’ambiguità del concetto di felicità è tale da stimolare fortemente la riflessione filosofica, ma anche quella psicologica, scientifica e storica. Ecco perché, accanto ad interventi più strettamente filosofici, troviamo alcuni articoli NOVITÀ IN LIBRERIA NOVITÀ IN LIBRERIA AA.VV. Medieval philosophy and theology: vol. 2 University of Notre Dame Press, gennaio 1993 pp. 208, £ 13,50 Secondo volume di una rivista annuale dedicata a studi originali della filosofia e della teologia medievale. Incoraggiando un ampio raggio di argomenti e approcci, essa cerca di stimolare la conversazione e lo scambio attraverso i moderni confini delle discipline e fra metodologie di ricerca e tradizioni opposte. AA.VV. Physikalisierung des Lebens. Interpretationen und Quellen zur wissenschaftskritischen Rekonstruktion del “Lebens” - Begriff Vlg.f. Interkult. Komm. febbraio 1993 pp. 255, DM 32 AA.VV Immaginari a confronto a cura di Carlo Chiarenza e William L. Vance Marsilio, aprile 1993 pp.212, L. 32.000 I saggi di questo volume, scritti da studiosi americani e italiani, si propongono di far luce sui meccanismi, più o meno nascosti, che controllano l’immaginario individuale e collettivo. AA.VV. Die Europaidee im deutschen Idealismus und in der deutschen Romantik Bad Homburg febbraio 1993 pp. 138, DM 28 AA.VV. Studi di filosofia trascendentale a cura di V. Melchiorre Vita e Pensiero, marzo 1993 pp.348, L. 52.000 Il testo analizza il tema dell’identità e della differenza, che è tra i più sollecitanti del pensiero contemporaneo e che per molti aspetti costituisce un ritorno all’antico problema dell’analogia. Il volume raccoglie contributi discussi all’interno di un seminario promosso dal Dipartimento di Filosofia e dal Centro di Metafisica dell’Università Cattolica. Ankersmith, F. R. Mooij, J.J. A. (a cura di) Knowledge and language: Vol. III. Metaphor and knowledge Kluwer Academic Publishers gennaio 1993 pp.216, £ 64 Terzo volume di un’opera in tre volumi, il testo sostiene che è essenziale considerare la metafora quando si indaga su come si arrivi alla verità nella scienza e nel rapporto quotidiano con la realtà. Il ruolo della metafora viene esaminato in campi che vanno dalla poesia e l’arte alla medicina e alla teoria politica. AA.VV. La figura di Cristo nella filosofia contemporanea Ed. Paoline, marzo 1993 pp. 598, L. 35.000 Prefazione di B. Forte. In una sorta di colloquio con Cristo vengono rivisitati i grandi filosofi degli ultimi due secoli: Kant, Schleiermacher, Hegel, Kierkgaard, Feuerbach, Marx, Engels ecc... Agazzi, Evandro (a cura di) Bioetica e persona Franco Angeli, aprile 1993 pp.512, L. 50.000 Nel volume viene messa alla prova l’ipotesi che l’impasse della discussione bioetica risalga essenzialmente alla forte disparità delle teorie etiche, che stanno alla base delle prese di posizione bio-etiche, e che sembrano inconciliabili in forza della forte divaricazione dei rispettivi principi. I saggi qui raccolti lumeggiano la complessità di questa tematica e indicano di quali ulteriori chiarimenti ci sarebbe bisogno per riuscire a utilizzare fecondamente questo concetto. Annas, Julia (a cura di) Oxford Studies in Ancient Philosophy Volume 10: 1992 Clarendon Press, febbraio 1993 pp.304, £ 35 Decima pubblicazione annuale (1992) della serie di saggi sulla filosofia antica, questo volume tratta un’ampia scelta di argomenti di filosofia antica passando in rassegna i testi principali. Antonio Rosmini Introduction à la philosophie A cura di J.-M. Trigeaud Bière, febbraio 1993 pp.340, F 145 Antonio Rosmini (1797-1855) nell’Origine del pensiero, pubblicata nel 1830, pone i fondamenti della sua filosofia: unire l’atto metafisico di pensare all’atto corporeo di sentire. Albert. H. et al. (a cura di) Mensch und Gesellschaft aus der Sicht des kritischen Rationalismus Editions Rodopi, febbraio 1993 pp.260, Dfl 40 Esposizione delle posizioni di base della teoria critica della società della Scuola di Francoforte. Il problema anima-corpo e la concezione della società aperta. Dalla società totalitaria a quella aperta negli ex paesi socialisti. Metodo. Problemi della scienza della società. Aschheim, Steven E. The Nietzsche legacy in Germany, 1890-1990 University of California febbraio 1993 pp.368, $ 48 Aschheim propone una cronaca magistrale della presenza del filosofo nella vita e nella politica tedesche, dalla fine del secolo scorso fino alla recente riunificazione. Allouch, Jean Louis Althusser, récit divan: lettre ouvert à Clément Rosset à propos de ses notes sur Louis Althusser EPEL, febbraio 1993 pp.58, F 65 Una risposta all’interpretazione del caso Althusser proposta dal filosofo Clément Rosset. Come collocare Althusser senza lasciarsi prendere dalla sua impostura? L’assassionio di sua moglie ne fa parte? Secondo l’autore il dibattito attuale prolunga il non luogo a procedere pronunciato in seguito alla perizia psichiatrica. Ayer, A. J. et al. (a cura di) A dictionary of philosophical quotations Blackwell Publ.,febbraio 1993 pp.352, £ 25 Nel corso della storia, i filosofi sono venuti a contatto con la questione di come si debba vivere e perché, con problemi politici, scientifici, lingui- 71 stici. Il presente dizionario esamina da vicino la tradizione filosofica mostrando i pensieri, i paradossi, gli errori e le falle che accompagnano la speculazione umana. Azzaro, Salvatore Politica e storia in Fichte Jaca Book, marzo 1993 pp.168, L. 28.000 Il pensiero politico in Fichte è inscindibilmente legato alla sua interpretazione della Rivoluzione francese. La storia della ricezione critica del pensiero politico fichtiano parte proprio dalla Francia ed esamina la critica tedesca e quella italiana. Baranoff-Chestov, Nathalie Vie de Léon Chestov 2: Les dernières années La Différence, gennaio 1993 pp.288, F 120 In questa seconda parte in cui si raccontano gli ultimi anni di Chestov (1930-1938) ritroviamo i momenti più fecondi (e anche quelli più dolorosi) della vita del pensatore. Barr, James Biblical faith and natural theology: The Gifford lectures for 1991 Clarendon, gennaio 1993 pp.256, £ 30 Il libro esamina la questione se si conosca Dio solo in quanto esseri umani o se sia necessaria l’assistenza della Bibbia o di Dio. La presente raccolta di saggi esamina quanto dice in proposito la stessa Bibbia e ne considera l’impatto sulle idee religiose. Barry, Robert A theory of almost everything: A religious and scientific quest for ultimate answers Oneworld Publ., febbraio 1993 pp.224, £ 9,95 In cerca di una “teoria del tutto” questo libro esplora cose complesse quali la teoria psicologica, la fisica quantistica e la teoria della relatività di Einstein, proponendo una teoria olistica dell’io che mette in collegamente idee di realtà scientifiche e religiose. NOVITÀ IN LIBRERIA Baumgartner, H. M. Jacobs, W. G. (a cura di) Philosophie der Subjektivität? Zur Bestimmungdes neuzeitlichen Philosophierens. Akten des Kongresses der Internationalen SchellingGesellschaft 1989 Frommann-Holzboog febbraio 1993 pp.606, DM 99 Benso, Silvia Pensare dopo Auschwitz Ed. Scientifiche, marzo 1993 pp.262, L. 34.000 L’opera, strutturata in due parti - filosofica la prima, teologica la seconda - muove dall’affermazione di Adorno secondo cui «è necessario pensare in modo che Auschwitz non si ripeta». Memore di tale imperativo, l’autore va dunque alla ricerca di categorie di pensiero atte a tener conto dell’interruzione irriconciliabile e irredimibile che Auschwitz presenta nell’orizzonte storico. Berkeley, George Oeuvres 3:Alciphron ou le Petit philosophe A cura di G. Brykman PUF, gennaio 1993 pp.424, F 280 Nel 1732 il filosofo irlandese proponeva un’apologia diretta della religione cristiana, appoggiata dalla critica del libero pensiero: sette dialoghi in cui l’immaterialismo non viene trattato affatto e in cui il celebre principio “Esistere, cioè essere percepiti” e l’inesistenza della materia non rappresentano che dei mezzi obliqui per la difesa del cristianesimo. Berlinger, R. - Schrader, W. (a cura di) Gnosis und Philosophie. Miscellanea Prefazione di A. Böhlig Editions Rodopi, febbraio 1993 pp.200, Dfl 75 Berry, Phillipa Wernick, Andrew (a cura di) Shadow or spirit: Post-modernism and religion Routledge, gennaio 1993 pp.288, £ 12,99 Il volume affronta il moderno miscuglio di teoria, cultura e politica, che ha portato al nuovo incontro fra umanesimo e dibattiti sulla religione. Gli autori sfidano la premessa invalsa che il pensiero contemporaneo occidentale sia legato al nichilismo. Beyer, Uwe Christus und Dyonysos. Ihre widerstreidende Bedeutung im Denken Hölderlins und Nietzsches Lit, febbraio 1993 pp.500, DM 78 Bezzola, Tobia Die Rhetorik bei Kant, Fichte und Hegel. Ein Beitrag zur Philosophiegeschichte der Rhetorik Niemeyer, febbraio 1993 pp.172, DM 68 Bocchi, Gianluca Ceruti, Mario Origini di storie Feltrinelli, marzo 1993 pp.240, L. 32.000 Il volume è un’introduzione ai nuovi saperi (scientifici, filosofici, spirituali) che si stanno elaborando per affrontare le sfide che caratterizzano questa fine di secolo: Origini di storie inaugura, infatti, una scrittura inconsueta per la filosofia e la divulgazione scientifica: uno stile accessibile a un pubblico più ampio degli addetti ai lavori, che però non semplifica i problemi affrontati. Bienenstock, Myriam Politique du jeune Hegel: Iéna, 1801-1806 PUF, gennaio 1993 pp.288, F 196 In contrapposizione alle tre linee interpretative tradizionali dell’hegelismo (linguaggio, lavoro, comunicazione) questo saggio cerca di riappropriarsi del senso del progetto filosofico totale di Hegel, esaminando il modo in cui si sviluppa il suo sistema in un momento cruciale della sua formazione. Böhler, D. - Neuberth, R. (a cura di) Herausforderung und Zukunftverantwortung. Hans Jonas zu Ehren Lit Verlag, febbraio 1993 pp.142, DM 24,80 Bigré, Gérard Métier philosophe Hésiode, gennaio 1993 pp.320, F 95 Ecco un libello in forma dialogica sulla crisi delle idee e sulla crisi del pensiero attuale che cerca al contempo di dimostrare la necessita di una riabilitazione della filosofia. Boituzat, François Un droit de mentir? Constant ou Kant? PUF, febbraio 1993 pp.128, F 48 E’lecito mentire per salvare la vita di un amico? Lo studio di questo problema casuistico consente a B. Constant di denunciare quanto vi è di arbitrario, in morale, nella proibizione incondizionata della menzogna. Kant ritorna sulla questione mettendo in luce l’inutilità della polemica avviata dal suo contraddittore. Blackburn, Pierre Connaissance et argumentation Renouveau pédagogique gennaio 1993 pp.488, F 149 Il testo espone le nozioni fondamentali delle più recenti teorie filosofiche sulla natura della conoscenza. Per gli studiosi di scienze umane o per le classi preparatorie alle scuole commerciali. Bottiroli, Giovanni Retorica. L’intelligenza figurale nell’arte e nella filosofia Bollati Boringhieri, aprile 1993 pp.320, L. 35.000 Il libro muove dalla situazione della retorica nel mondo attuale caratterizzato da una retoricità diffusa. In un confronto serrato con i maestri della linguistica e della semiotica, da Jakobson a Greimas, e con le correnti di pensiero che oggi riflettono sul linguaggio, Bottiroli rimette in questione la natura della retorica, le assegna una nuova identità e un compito non settoriale. Bloch, Olivier Spinoza au XXe siècle PUF, febbraio 1993 pp.608, F 400 Se lo Spinoza del XVIII secolo era il prototipo del razionalista ateo, se quello del XIX si presentava sotto l’immagine dominante di un filosofo mistico, nel XX abbiamo visto apparire quella di uno Spinoza rivoluzionario, padrone della sua vita, mediatore e agente di trasmutazioni per tutti i sistemi di pensiero. Botto, Evandro Etica sociale e filosofia della politica in Rosmini Vita e Pensiero, marzo 1993 pp.296, L. 44.000 Più che un territorio a sé stante, la filosofia della società e della politica si presenta in Rosmini come uno dei crocevia dell’intera filosofia della pratica, come il punto in cui si incontrano filosofia della morale e filosofia del diritto, filosofia della storia e filosofia della religione, in forza del loro comune riferimento ad una ben definita “ontologia della persona”. Blosser, Philip Schimomisse, Eiichi Embree,Lester - Kojima, Hiroshi (a cura di) Japanese and western phenomenology Kluwer Academic Publishers febbraio 1993 pp.468, £ 89,50 Sviluppato dal primo grande incontro di fenomenologi giapponesi e occidentali, tenutosi a Sanda City. Prevalentemente filosofico, tratta il pensiero di Husserl, ma mostra anche i collegamenti con le scienze umane e figure come Dilthey e Fink, nonché con lo Zen e con la tradizione giapponese. Brandl, J. et al. (a cura di) Metamind, knowledge, and coherence. Essays on the philosophy of Keith Lehrer Editions Rodopi, febbraio 1993 pp.232, Dfl 35 72 Brentano, Franz - David, Pascal (a cura di) De la diversité des acceptions de l’être d’après Aristote Vrin, febbraio 1993 pp.208, F 183 Questa leggendaria dissertazione di Franz Brentano, pubblicata a Friburgo nel 1862, prende come filo conduttore della propria interpretazione della metafisica il seguente leit-motiv: “l’essere è plurale”. Bröckling, Ulrich Katholische Intellektuelle inder Wiemarer Republik. Zeitkritik und Gesellschaftstheorie bei W. Dirks, R. Guardini, C. Schmitt, E. Michel und H. Mertens W. Fink, febbraio 1993 pp.144, DM 38 Questi intellettuali cercano di sfuggire alle aporie delle salde credenze sulla rivelazione e del pensiero secolare dei moderni, attualizzando diversi frammenti del cosmo cattolico in frantumi. Brun, Jean La Philosophie de Pascal PUF, gennaio 1993 pp.128, F 38 Assai poco amato dai filosofi francesi, Pascal ebbe l’audacia, secondo loro, di chiedere il conto alla ragione. Critico demistificatore, in realtà Pascal denunciò le pretese assolutistiche dei relativismi, le fughe nei sogni e la ricerca di un rifugio nel consenso, tanto acclamato al giorno d’oggi. Brzezinski, J. - Nowak, L. (a cura di) Idealization III: Approximation and truth Editions Rodopi, febbraio 1993 pp.288, Dfl 135 Indice: Introduzione, approssimazione e verità. Cambi, Paolo (a cura di) Tra scienza e storia. Percorsi del neostoricismo: Eugenio Garin, Paolo Rossi Sergio Moravia Unicopli, marzo 1993 pp.167, L. 27.000 L’avventura del neostoricismo a partire dagli anni Cinquanta, analizzando il contributo di Garin e della sua “scuola” alla definizione dell’immagine della filosofia come intersezione critica, aperta, problematica tra sapere e società, ragione e storia. Canguilhem, Georges La connaissance de la vie Vrin, febbraio 1993 pp.198, F 60 G. Canguilhem si interroga sullo straordinario opportunismo del rapporto degli esseri viventi con il proprio ambiente, sull’originalità di questa presenza in quel mondo che chiamiamo vita. Caporali, Riccardo Heroes Gentium. Sapere e politica in Vico Il Mulino, marzo 1993 pp.304, L. 34.000 NOVITÀ IN LIBRERIA Carruthers, Peter The animals issue. Moral theory in practice Cambridge UP, febbraio 1993 £9 Carruthers esplora diverse teorie morali e conclude che il contrattualismo (nella tradizione di Kant e di Rawls) è quello che offre la cornice più accettabile. In una prospettiva di questo tipo gli animali restano privi di un diretto significato morale. Ciò tuttavia non vuol dire che non vi siano costrizioni morali nel trattare con essi. Cicéron Tusculanes- 3: Le Bonheur: IVe et Ve Tusculanes Ariéa, febbraio 1993 pp.157, F 95 I presenti libri ricapitolano in un certo senso il suo insegnamento, disegnando l’immagine di un uomo che trova nel compimento dei suoi doveri la tranquillità interiore. Clark, Austen Sensory qualities Clarendon, febbraio 1993 pp.264, £ 27,50 Parecchi filosofi dubitano che si possa fornire una spiegazione convincente delle capacità sensoriali, del modo in cui le cose appaiono, impressionano o sembrano a un soggetto percipiente. Clark affronta questo problema apparentemente intrattabile e suggerisce che una soluzione in effetti sia possibile. Clergue, André Mon père je m’arcuse Lacour, gennaio 1993 pp.379, F 145 Herbert Marcuse (1898-1979), filosofo americano d’origine tedesca, è uno dei rappresentanti del freudmarxismo. A. Clergue dedica un esame approfondito a Eros e civilizzazione. Cometti, Jean-Pierre Lire Rorty: Le pragmatisme et ses conséquences Eclat, gennaio 1993 pp.304, F 150 Dopo i primi saggi dedicati al pragmatismo, all’inizio degli anni ’60 Richard Rorty è diventato uno dei principali attori di un’evoluzione che conduce al giorno d’oggi un certo numero di filosofi analitici a riesaminare i presupposti della tradizione da loro rappresentata. Corey, M. A. God and the new cosmology: The anthropic design argument Rowman & Littlefield, febbraio 1993 pp.352, £ 19,95 Basato sui fatti naturali fisici e cosmologici recentemente scoperti, il libro si propone di rivoluzionare la nostra concezione dei rapporti fra scienza e religione, usando prove scientifiche per dimostrare l’esistenza di Dio al di là di ogni ragionevole dubbio. ca “straniera”. Il saggio abbozza una storia della percezione che può servire come strumento. Corvi, Roberta Invito al pensiero di Popper Mursia, marzo 1993 pp.384, L. 15.000 Un’invito all’esame critico del pensiero di Popper. Una cronologia parallela tra la biografia del pensatore e i fatti della storia politica, filosofica e culturale; il profilo di Popper e la sua personalità intellettuale. Analisi delle opere, dei temi trattati e gli orientamenti della critica. Dagognet, François Etienne-Jules Marey: A passion for the trace Zone Books, febbraio 1993 pp.208, £ 24,25 Etienne-Jules Marey elaborò tecniche fotografiche per lo studio della locomozione animale che influenzarono l’invenzione della cinematografia. In questo resoconto, focalizzato sul significato del suo lavoro, e cioè di riuscire a catturare la traccia di ciò che normalmente è il mondo invisibile del movimento, emerge la storia di Marey. Couloubaritsis, Lambros Aux origins de la philosophie européenne: de la pensée archaïque au neoplatonisme De Boeck-Wesmael febbraio 1993 pp.673, F 230 Il saggio studia le principali correnti filosofiche che sono all’origine della filosofia occidentale, dal VII secolo prima della nostra era all’anno 529, data simbolica della chiusura della scuola neoplatonica di Atene a opera dell’imperatore bizantino Giustiniano. Daly, Herman E. Townsend, Kenneth N. Valuing the earth: Economics, ecology, ethics The MIT Press, gennaio 1993 pp.400, £ 16,95 Raccolta di saggi che si propone di ampliare il pensiero economico inserendo l’economia nel suo proprio contesto ecologico ed etico. Vi si dimostra che, contrariamente alle attuali preoccupazioni macro-economiche, non si può sostenere la crescita continua su un pianeta dalle risorse limitate e che ciò è moralmente sbagliato. Cresci L.R. - Piccirilli, L. L’Athenaion Politeia di Aristotele Il Melangolo, marzo 1993 pp.176, L. 20.000 Cronin, Kieran Rights and christian ethics Cambridge University Press, febbraio 1993 pp.346, £ 37,50 Kieran Cronin in questo libro si propone di dimostrare come una prospettiva cristiana possa rivelarsi un contributo fecondo per il linguaggio dei diritti. A tale scopo egli esamina alcune delle difficoltà insite nell’uso di questo linguaggio, attingendo da esempi tratti dalla letteratura di filosofia morale e dalla giurisprudenza. Dascal, M. - Gerhardus, D. et al. (a cura di) Sprachphilosophie / Philosophy of language / La philosophie du langage. Ein internationales Handbuch zeitgenössischer Forschung vol. I de Gruyter, febbraio 1993 pp.872, DM 680 Rassegna sullo stato della ricerca in 120 articoli, divisa in due volumi. I volume: Ricognizione spazio-temporale, persone, posizioni. (II volume: Controversie, concetti, aspetti filosofico-linguistici in altri campi) Cropsey, Joseph - Strauss, Leo Storia della filosofia politica Vol. I Il Melangolo, aprile 1993 pp.300, L. 35.000 Il volume, giunto negli Stati Uniti alla quinta edizione nel giro di poco più di vent’anni, è fra le più ampie e dettagliate rassegne del pensiero politico occidentale. Questo primo volume comprende, oltre i classici, anche storici come Tucidide, pensatori arabi come Alfarabi, ebrei come Mosè Maimonide, offrendo in questo modo un panorama articolato, originale e esaustivo del operiodo preso in considerazione. Davies, Brian An introduction to the philosophy of religion Oxford University Press febbraio 1993 pp.270, £ 30 Questa edizione riveduta mette particolarmente in rilievo questioni che di recente sono diventate filosoficamente controverse. Il libro fornisce un esame critico delle questioni fondamentali della religione e dei modi in cui sono state trattate dai grandi pensatori. Czerwinsky, Peter Gegenwärtigkeit. Simultane Räume und zyklische Zeiten im Mittelalter W. Fink, febbraio 1993 pp.524, DM 180 Quando le forme di pensiero mutano storicamente in maniera così decisiva che le testimonianze delle altre culture ci sono accessibili solo limitatamente, ogni ricerca su di esse dovrebbe prima di tutto e costantemente riflettere la loro logi- Davies, Brian The thought of Thomas Aquinas Clarendon, febbraio 1993 pp.408, £ 14,95 Introduzione a tutto il pensiero dell’Aquinate, che non fa alcuna divisione arbitraria fra le proprie idee filosofiche e quelle teologiche. Il testo mette in relazione il pensiero dell’Aquinate con autori successivi e precedenti allo stesso Tommaso. 73 Del Noce, Augusto Filosofi dell’esistenza e della libertà Giuffrè, marzo 1993 pp.676, L. 75.000 Saggi su Spir, Chestov, Lequier, Renouvier, Benda, Weil, Vidari, Faggi, Martinetti, Rensi, Juvalta, Mazzantini, Castelli, Capograssi. Della Porta, Giovan Battista Della celeste fisionomia a cura di L. Caruso Belforte, marzo 1993 pp.164, L. 60.000 Edizione anastatica del testo in volgare del 1616. L’opera tenta di spezzare le basi stesse dell’astrologia, esaltando la “potenza visiva” dell’uomo. Pur essendo venata da influenze e tradizioni alchemiche, rivela una curiosità alle condizioni materiali e operative, preparandosi al barocco napoletano. Derrida, Jacques Dissemination The Athlone, gennaio 1993 pp.400, £ 14,95 Il libro propone le opere più importanti e feconde: “La pharmacie de Platon”, “La double seance” e “La dissemination”, originali letture di Mallarmé: “La dissemination” costituisce anche una rivalutazione della logica del senso e della funzione della scrittura nel dibattito occidentale. Derrida, Jacques Otobiographies L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio Il Poligrafo, marzo 1993 pp.96, L. 22.000 Questa conferenza fu tenuta da Derrida nel 1976 a Charlottesville, presso l’Università della Virginia. L’occasione era data dal bicentenario della Dichiarazione d’Indipendenza, ma da questa procedeva con un commento sull’incipit di Ecce Homo fino alle conferenze nietzscheane Sull’avvenire delle nostre scuole, per chiudersi sul problema della libertà accademica. Un testo dunque che può apparire stravagante nella sua eterogeneità, ma che è reso coerente da un filo conduttore: il rapporto tra nome e istituzione, che Derrida sintetizza nel problema della firma. Descamps, Christian Philosophie et anthropologie Ed. du Centre Pompidou gennaio 1993 pp.192, F 120 Una riflessione sulla nostra estraneità e su quella altrui attraverso la filosofia e l’antropologia. Descamps, Christian Surréalisme et philosophie Ed. du Centre Pompidou, febbraio 1993 pp.160, F 120 Gli autori affrontano qui i rapporti dei surrealisti con l’ambito filosofico. NOVITÀ IN LIBRERIA Descartes, René La morale: textes choisi A cura di N. Grimaldi Vrin, febbraio 1993 pp.186, F 45 Il volume raccoglie, in ordine tematico, tutti i testi in cui Descartes espone la propria morale. Destutt de Tracy, Antoine Mémoire sur la faculté de penser: 1798-1802 Fayard, febbraio 1993 F 200 Alla fine della Rivoluzione, Destutt de Tracy, aristrocratico che ha rinunciato ai suoi titoli, vecchio costituente, legislatore, presenta all’istituto nazionale diverse memorie di filosofia, ripubblicate qui per la prima volta, che espongono una storia critica della conoscenza umana del linguaggio e una logica. Dewey, John Logique: la théorie de l’enquête PUF, febbraio 1993 pp.696, F 320 Apparsa nel 1938, la Logica di Dewey è letteralmente una logica dell’inchiesta e della ricerca, di qualsiasi ricerca, di quella formale come di quella epistemologica, di quella teorica e di quella pratica. La logica di Dewey è un’esperienza e una ricostruzione continua dell’esperienza. Dilworth, Cr. (a cura di) Idealization IX: Intelligibility in science Editions Rodopi, febbraio 1993 pp.411, Dfl 180 Donnelly, Margaret E. Reinterpreting the legacy of William James American Psychological Ass. gennaio 1993 pp.400, 22,50 Il testo esamina il modo in cui i “Principi di psicologia” potrebbero essere stati rivisti alla luce dell’ultimo approccio di James pluralistico, pragmatico alla filosofia e alla psicologia. Psicologi, filosofi e storici mettono alla prova questo e altri punti, concentrandosi sull’importanza attuale dell’opera di James. Dörrie, H. - Baltes, M. Der Platonismus im 2. und 3. Jahrhundert nach Christus. Bausteine 73-100: Text, Übersetzung, Kommentar Frommann-Holzboog febbraio 1993 pp.440, DM 567 Doyé, S. et al. (a cura di) J. G. Fichte-Bibliographie (1969-1991) Editions Rodopi, febbraio 1993 pp.200, Dfl 70 Il volume porta avanti la prima bibliografia di Fichte, pubblicata da H. M. Baumgartner e W. Jacobs (1968), fino all’attuale stato della ricerca. Ecole Française de Rome (a cura di) La Langue latine, langue de philosophie: actes/colloque organisé par l’Ecole française de Rome, Rome, 17-19 mai, 1990 Ecole française de Rome, gennaio 1993 pp.346, F 360 Il latino è diventata la lingua del pensiero filosofico al termine di un’evoluzione spirituale continua, dopo la messa a punto di una riflessione morale spontanea che si diversificherà e si rafforzerà grazie al teatro. Un vocabolario latino si crea per esprimere i concetti elaborati dagli autori di espressione greca. Fiorato, Pierfrancesco Geschichtliche Ewigkeit. Ursprung und Zeitlichkeit in der Philosophie Hermann Cohens Königshausen & Neumann, febbraio 1993 pp.200, DM 48 Fleischer, Margot Der “Sinn der Erde” und die Entzauberung des Übermenschen. Eine Auseinandersetzung mit Nietzsche Wissenschaftl. Buchges., febbraio 1993 pp.370, DM 74 Che cosa può avere oggi Nietzsche da dire a una filosofia che si occupa dell’esistenziale? Soltanto nella contrapposizione critica si può trovare una risposta e pervenire a una nuova esperienza di pensiero dalla filosofia di Nietzsche. Ellwood, Robert S. Introducing religion: From inside and outside Prentice Hall US, gennaio 1993 pp.256, £ 23,55 Questa panoramica introduttiva ai saggi religiosi parte dai problemi, i quesiti e le esperienze religiose quotidiane. Sottolineando il concetto di religione come “scenario per il vero io”, il libro fornisce una trattazione equilibrata dell’espressione religiosa, attingendo esempi da molte religioni mondiali. Floistad, Guttform (a cura di) Contemporary philosophy: A new survey: Vol.7. Asian Philosophy Kluwer Acedemic Publishers, gennaio 1993 pp.416, £ 89 Settimo volume di una collana che ripercorre la ricerca filosofica negli ultimi decenni in vari paesi. Centrato sulla filosofia asiatica, comprende contributi di studiosi indiani, giapponesi e coreani e discute argomenti chiave dell’induismo, del taoismo, del buddismo, del confucianesimo e dello sciamanesimo. Elster, Jon Ulisse e le sirene. Indagine sulla razionalità e l’irrazionalità Il Mulino, marzo 1993 pp.294, L. 34.000 I temi affrontati nel volume sono: La razionalità perfetta: vedere la vetta; La razionalità imperfetta: Ulisse e le Sirene; La razionalità difficile: alcuni problemi irrisolti nella teoria del comportamento razionale; L’irrazionalità: contraddizioni della mente. Flueler, Christoph Rezeption und Interpretation der Aristotelischen ”Politica” im späten Mittelalter John Benjamins, febbraio 1993 pp.551, Dfl 200 Fenves, Peter (a cura di) Raising the tone of the philosophy: Late essays by Immanuel Kant transformative critique by Jacques Derrida The John Hopkins University febbraio 1993 pp. 208, £ 24 Il libro raccoglie importanti saggi di Kant, disponibili per la prima volta in inglese, e presenta una traduzione revisionata dell’opera di Derrida su Kant, che esplora le connessioni fra decostruzione e filosofia. Foucault, Michel et al. Techologien des Selbst S. Fischer, febbraio 1993 pp.192, DM 34 «Nel lavoro come nella vita, la cosa più importante è diventare qualcosa che non si era all’inizio». (Michel Foucault) Frenken, Martin Transzendentale Theorie der Einheit. Studien zur Kategorienlehre Kants und Fichtes Editions Rodopi, febbraio 1993 pp.200, Dfl 60 Secondo il motto dell’epoca moderna, per il quale bisogna confrontare le sicurezze con la verità, si può fare ricorso solo all’Io in quanto fondamento di tutte le cose. Soltanto Fichte riesce a svelare l’Io come originaria e completa unità del tutto. Ciò consente in primo luogo la deduzione di categorie universali con rigore sistematico. Ferguson, Frances Solitude and the sublime. Romanticism and the aesthetics of individuation Routledge, febbraio 1993 pp.256, £ 35 Ferguson delinea lo sviluppo di due resoconti del sublime, l’empirismo di Burke e il formalismo di Kant, sostenendo che essi sono stati definitivi per i dibattiti successivi sul significato dell’estetica, compreso il criticismo decostruttivo. 74 Frye, Northrop La duplice visione. Linguaggio e significato della religione Marsilio, aprile 1993 pp.104, L. 22.000 In un continuo gioco di rimandi, Frye affronta, da un lato, i grandi temi della contemporaneità: guerra, capitalismo e comunismo, chiesa e Stato, Hitler e Stalin, religione islamica e fondamentalismo, spiritualità e corpo; e dall’altro lato, la fitta tessitura mitica e metaforica della Bibbia soprattutto, ma anche di altre grandi creazioni letterarie da Blake a Dante, a Shakespeare, a Eliot. Galgan, Gerlad J. Interpreting the present: Six philosophical essays University Press of America, febbraio 1993 pp.268, £ 21,50 I presenti saggi esplorano il rapporto fra linguaggio metafisico ed epistemologico e la transizione fra il medievale Libro Cristiano della Natura alla concezione moderna della soggettività. Galgan si propone di costruire un passato filosofico e di ricavarne il mondo moderno di “dèi senza dèi”. Gallie, W. B. Filosofie di pace e di guerra. Kant, Clausewitz, Marx, Engels, Tolstoj Il Mulino, marzo 1993 pp.216, L. 20.000 La visione moderna della pace e della guerra deriva da autori impegnati in campi del sapere del tutto diversi, che hanno però in comune il rifiuto dell’idea settecentesca di guerra come meccanismo intrinseco alla società occidentale. Gamm. Hans J. Standhalten im Dasein. Friedrich Nietzsches Botschaft für die Gewgenwart List, febbraio 1993 pp.360, DM 48 Abbozzo di un’etica “per l’epoca dopo Marx e Cristo”. Gebauer, Richard Letzte Begründung. Eine Kritik der Diskursethik von J. Habermas W. Fink, febbraio 1993 pp.224, DM 58 Gethmann, C. F. - Kloepfer, M. Handeln unter Risiko im Umweltstaat Springer, febbraio 1993 pp.115, DM 38 Il saggio si incentra sulla questione di quali mutamenti istituzionali e di altro genere si debbano intraprendere perché lo stato possa occuparsi dei problemi di recente riconosciuti delle attività a rischio. Il libro tratta l’argomento sul versante filosofico e giuridico. NOVITÀ IN LIBRERIA Gigante, M. Cinismo e epicureismo Bibliopolis, marzo 1993 pp.128, L. 20.000 Gil, Thomas Kritik der Geschichtsphilosophie. L. von Rankes, J. Burkhardts und H. Freyers Problematisierung der klassischen Geschichtsphilosophie M und P, febbraio 1993 pp.273, DM 39,80 Goldberg, S. L. Agents and lives: Moral thinking in literature Cambridge University, febbraio 1993 pp.349, £ 40 Il libro propone un ripensamento della tradizionale idea “umanista” della letteratura, esaminando il modo in cui la letteratura è stata valutata per il suo cosiddetto “apporto morale”. L’autore spazia nella letteratura dal Rinascimento, arrivando a includere scrittori come George Eliot e Pope. Goldman, Laurence The culture of coincidence Clarendon Press, febbraio 1993 pp.460, £ 45 Il presente saggio analizza il terreno fra legge, linguistica e antropologia proponendo un’etnografia sulla grammatica e la pragmatica dell’incidente, argomento raramente preso in esame. Graham, George Philosophy of mind: An introduction Blackwell Publishing, febbraio 1993 pp.224, £ 10,99 Introduzione alla filosofia della mente, che si occupa di argomenti quali mente/corpo, identità personale, coscienza, intenzionalità e libera volontà. Il libro tratta anche questioni come “l’esperienza dopo la morte”, la mente degli animali e di Dio, malattia mentale e felicità. Gran, Pierre La culture par le grands textes et leur commentaires P. Grand, gennaio 1993 pp.109, F 85 L’autore cita e commenta alcuni estratti di opere filosofiche classiche, divise per temi: il caso e la vita, la materia e lo spirito, la libertà, la morale. Per tutti i lettori. Grice, Paul Logica e conversione. Saggi su intenzione, significato e comunicazione Il Mulino, marzo 1993 pp.384, L. 48.000 Alcuni fra i temi del pensiero griceano che si sono rivelati fondamentali per la filosofia analitica: la distinzione tra significato naturale e non naturale e quella tra significato convenzionale e non convenzionale di parole e frasi; la definizione del significato secondo le “intenzioni” del parlante, ecc. Grimaldi, Nicolas Ontologie du temps: l’attente et la rupture PUF, febbraio 1993 pp.224, F 198 Dimostrando che la coscienza pura è pura attesa, questo saggio descrive come l’attesa strutturi trascendentalmente ogni rappresentazione che noi possiamo avere del tempo. Hodgson, David The mind matters: Consciousness and choice in a quantum world Clarendon, febbraio 1993 pp.496, 12,95 Questa monografia argomenta contro l’attuale visione meccanicistica ortodossa del cervello e sviluppa l’idea che “la mente conta”. L’autore spazia fra argomenti quali la coscienza, il ragionamento informale, i computer, l’evoluzione, l’indeterminatezza quantistica e la non località. Haar, Michel Nietzsche et la métaphysique Gallimard, febbraio 1993 pp.294, F 72 Il volume riunisce più saggi su Nietzsche. L’autore, professore di filosofia, ha già pubblicato parecchi studi su Heidegger. Hoff, Benjamin Il Tao di Winnie Pooh Guanda, marzo 1993 pp.160, L. 26.000 Winnie Pooh e i suoi compagni colti nel loro lato filosofico; un certo modo di fare, un certo modo di essere affine agli antichi principi cinesi del Tao. Halder, H. - Müller, M. Philosophisches Wörterbuch. Erweiterte Neuesausagbe Herder, febbraio 1993 DM 24,80 Hopkins, Burt C. Intentionality in Husserl and Heidegger: The problem of the original method and phenomen of phenomenology Kluwer Academic Publishers febbraio 1993 pp.320, £ 66 Una riconsiderazione della “controversia” fenomenologica fra Husserl e Heidegger sullo status proprio del fenomeno di intenzionalità Lo scopo è di determinare se la critica ermeneutica di quest’ultimo sull’intenzionalità sia sensibile al resoconto riflessivo di Husserl del proprio “sachen selbst”. Haller, Rudolf (e altri) Il circolo di Vienna Pratiche, marzo 1993 pp.140, L. 16.000 Quattro filosofi di generazioni diverse scrivono brevi riflessioni intorno al circolo di Vienna, uno dei momenti più significativi dell’elaborazione filosofica del Novecento. Hammacher, Kl. - Schottky, R. Schrader, W. H. (a cura di) Transzendentalphilosophie und Evolutionstheorie Editions Rodopi, febbraio 1993 pp.270. Dfl 80 Hügli, A. - Lübcke, P. (a cura di) Philosophie im 20. Jahrhundert. Band 2: Wissenschaftstheorie und Analytische Philosophie Rowohlt, febbraio 1993 DM 39,90 Nel libro vengono esposti i filoni principali della filosofia contemporanea in Europa e negli USA e i filosofi più autorevoli. Hare, R. M. Essays in ethical theory Clarendon, febbraio 1993 pp.270, £ 11,95 Questa raccolta di saggi costituisce il retroterra teoretico all’opera dell’autore sulla filosofia morale. Il suo tema centrale è il paradosso per cui se i giudizi morali fossero semplicemente affermazioni di fatto, non si potrebbe evitare il relativismo. Husserl, Edmund Méditations cartésiennes: introduction à la phénomenologie Vrin, febbraio 1993 pp.256, F 59 Pubblicato nel 1931, a seguito di una serie di conferenze tenute alla Sorbona di Parigi, nel 1929 l’opera riprende dal punto di partenza il “cogito ergo sum” cartesiano e sviluppa il tema della fenomenologia trascendentale. Haslett, David Ethics and economic systems Clarendon Press, febbraio 1993 pp.224, £ 30 Confrontando i sistemi economici da un punto di vista filosofico, questo saggio indaga gli argomenti etici per i differenti tipi di sistemi economici. L’autore soppesa vantaggi e svantaggi dei sistemi presi in esame e discute i possibili compromessi accettabili. Husserl, Edmund Lezioni sulla sintesi passiva Guerini, aprile 1993 pp.329, L. 50.000 Husserl delinea una fenomenologia della percezione che affronta la struttura dell’esperienza visiva, soffermandosi sulle forme del dubbio, della negazione, della riacquisizione della certezza: la certezza del mondo esterno. Heil, John et al. (a cura di) Mental causation Clarendon, febbraio 1993 pp.352, £ 35 Raccolta di saggi scritti da insigni filosofi che affrontano il problema della causalità mentale partendo da punti di vista ampiamente diversi. 75 Isoldi Jacobelli, Angela M. Kant Giunti, marzo 1993 pp.128, L. 10.000 Il complesso itinerario delle riflessioni kantiane attraverso l’esame delle opere, le matrici culturali e l’influenza esercitata sulla ricerca filosofica dell’800 e del ‘900 nei paesi europei e d’oltreoceano. Ivaldo, Marco Libertà e ragione. L’etica di Fichte Mursia, marzo 1993 pp.344, L. 40.000 Alcuni elementi di contesto, in particolare la maturazione dei primi concetti etici negli scritti religiosi e politici giovanili: l’idea di filosofia trascendentale e i concetti fondamentali che fungono da orizzonte metaetico della dottrina morale; l’etica trascendentale elaborata da Fichte; la prospettiva dell’etica trascendentale superiore. Jaspers, Karl Volontà e destino Il Melangolo, aprile 1993 pp.228, L. 25.000 L’opera ripercorre in quattro tappe (I. Famiglia e infanzia, II. Anamnesi, III. Diario 1939-1942, IV. Da Heidelberg a Basilea) le vicende pubbliche e private di Jaspers uomo e studioso, vicende che sono strettamente intrecciate agli avvenimenti della storia dei primi settant’anni del nostro secolo. Jordan, William Ancient concepts of philosophy Routledge, gennaio 1993 pp.224, £ 10,99 Nel corso del libro l’opera degli antichi viene inserita nel contesto del pensiero più recente sulla natura e il valore della filosofia. Il saggio dimostra che abbiamo molto da imparare dalle idee dei filosofi antichi sulla vita di un filosofo. Kamlah, A. et al. (a cura di) Hans Reichenbach und die Berliner Gruppe Vieweg, febbraio 1993 pp.350, DM 90 Per il 100º anniversario della nascita di Hans Reichenbach nel 1991 si è tenuto ad Amburgo un Convegno internazionale, il cui tema centrale era la filosofia dell’empirismo logico. Kanitscheider, Bernulf Von der mechanistischen Welt zum kreativen Universum. Zu einem neuen philosophischen Verständnis der Natur Wissenschaftl. Buchges. febbraio 1993 pp.272, DM 49 Il libro si propone di promuovere presso una cerchia allargata di lettori, grazie alla mediazione di una conoscenza scientifico-naturale e di una riflessione filosofico-naturale, la comprensione di un mondo che diventa sempre più complesso. NOVITÀ IN LIBRERIA Kaulbach, Ernest N. Imaginative prophecy in the B-text of Piers Plowman D. S. Brewer, febbraio 1993 pp.192, £ 29,50 Un’esplorazione della teoria psicologica araba (in particolare di Avicenna) sottesa al “Piers Plowman” che illumina i rapporti fra agenti e altre figure apparentemente non psicologiche. Il libro descrive anche il contesto in cui la psicologia araba raggiunse un poeta inglese del XIV secolo. Keal, Paul (a cura di) Ethics and foreign policy Allen & Unwin (UCL Press), febbraio 1993 pp.260, £ 11,95 Pensato per mettere in relazione le questioni etiche con gli affari internazionali, il libro si concentra sulle questioni morali sollevate dalla conduzione della politica estera australiana. Kenny, Anthony Aquinas on mind Routledge, gennaio 1993 pp.192, £ 30 Il testo discute parti della teoria dell’Aquinate valide ancora oggi. Il libro si concentra su una attenta lettura della sezioni della “Summa Theologiae” dedicate all’intelletto e alla volontà umana e ai rapporti fra anima e corpo. Kervégan, Jean-François Hegel, Carl Schmitt: le politique entre spéculation et positivité PUF, gennaio 1993 pp.35, F 272 Il testo propone un confronto fra il sistema hegeliano e il pensiero di Carl Schmitt (1888-1985), facendo come se Schmitt avesse tentato di ricostruire un hegelismo senza dialettica e senza ragione speculativa. Ketelhodt, Friederike von Verantwortung für Natur und Nachkommen Centaurus-Vlg.-Ges. febbraio 1993 pp.214, DM 48 Knuuttila, Simo Modalities in medieval philosophy Routledge, febbraio 1993 pp.256, £ 35 I saggi sulle nozioni modali hanno sempre avuto un ruolo importante nell’analisi filosofica. La storia di questi concetti è la storia di una varietà di premesse che hanno dato forma a una parte del discorso razionale. Kraut, Richard (a cura di) The Cambridge companion to Plato Cambridge University gennaio 1993 pp. 596, $ 12,95 Il presente volume contiene dodici nuovi saggi che trattano delle idee di Platone sul sapere, sulla realtà, la matematica, la politica, l’etica, l’amore, la poesia e la religione. Vi sono inoltre analisi dello sfondo intellettuale e sociale del suo pen- siero, dello sviluppo della sua filosofia e del suo stile. cana e improntano le sue istituzioni politiche centrali. Kremer-Marietti, Angèle Nietzsche et la rhétorique PUF, gennaio 1993 pp.272, F 210 Il libro offre una visione sistematica del rapporto fra Nietzsche e la retorica, mentre la sua filosofia emerge come una grande impresa ermeneutica, nella quale si annegano il gioco e il simbolo, il segno e l’immagine. Lachelier, Jules Du fondement de l’induction: et autres textes Fayard, febbraio 1993 F 160 Lachelier, della Scuola Normale Superiore, attraverso i suoi corsi alla Normale, con il modo con cui ha svolto i propri compiti di ispettore generale delle lettere e della filosofia, con le sue pubblicazioni, ha contribuito a restaurare gli studi di filosofia nell’università francese nel primo terzo del XIX secolo. Krieger, Martin Geist, Welt und Gott bei Christian August Crusius. Erkenntnistheoretischpsychologische, kosmologische und religionsphilosophische Perspektiven im Kontrast zum Wolffschen System Königshausen & Neumann, febbraio 1993 pp.548, DM 98 Il saggio esamina a fondo l’originalità delle teorie sul mondo di Crusius elaborate a delimitazione della metafisica di Wolff, e la conoscenza divina, mettendone in luce il significato per lo sviluppo della filosofia di Kant. Lamport, F. J. Justice and difference in the works of Rousseau: ”Bienfaisance” and “Pudeur” Cambridge University Press, gennaio 1993 pp.276, £ 35 Secondo Rousseau, il miglior rapporto fra disuguali è quello di “beneficenza”, del dare, ricevere e ricambiare benefici. Il ibro affronta il problema, insito nei suoi scritti, se sia effettivamente possibile l’esistenza di un rapporto giusto e generoso fra ineguali. Kristeller, Paul Greek philosophers of the hellenic age Columbia University gennaio 1993 pp.128, £ 14,95 Centrato sulla storia della filosofia antica fra il III e il I secolo a.C., il saggio si basa su scritti primari greci e latini dei filosofi in questione e su frammenti, parafrasi e testimonianze delle loro opere perdute. Landsberg, Paul-Louis Essai sur l’expérience de la mort: Le problème moral du suicide Seuil, febbraio 1993 pp.155, F 28 Meditazioni di questo filosofo personalista, allievo di E. Mounier, nato nel 1901 e morto nel 1944, a proposito di questa prova e di questa tentazione umana. Laurent, Alain Histoire de l’individualisme PUF, febbraio 1993 pp.128, F 38 L’individualismo riposa sulla convinzione che l’umanità sia composta non da insiemi sociali (nazioni, classi...), ma da individui, da esseri viventi indivisibili e irriducibili gli uni agli altri, gli unici che sentano, pensino e agiscano veramente. Kuksewicz, Zd (a cura di) Aegidius Aurelianiensis: Quaestiones super De generatione et corruptione Grüner, febbraio 1993 pp.237, DM 130 Labarrière, Pierre-Jean L’utopie logique L’Harmattan, gennaio 1993 pp.143, F 80 Vivace nei periodi di mutamento culturale, la tradizione utopica si arricchisce oggi di aspetti complementari che mettono in opera una logica dialettica, logica che sviluppa anche un rapporto all’origine liberato dalla fissità delle rappresentazioni. Lawson, Thomas E McCauley, Robert N. Rethinking religion: Connecting cognition and culture Cambridge University gennaio 1993 pp.240, £ 12,95 In questo libro gli autori cercano di elaborare un approccio cognitivo alla religione, fornendo una panoramica critica di approcci già affermati allo studio della religione e fanno una perentoria dichiarazione in favore della combinazione di interpretazioni e spiegazioni. Lacey, J. Michael Haakonssen, Knud (a cura di) A culture of rights: The Bill of Rights in philosophy, politics and law 1791 and 1991 Cambridge University gennaio 1993 pp.496, £ 14,95 Questi saggi, di autorevoli studiosi di storia, filosofia, giurisprudenza e teorie politica, si propongono di fornire nuove prospettive sui mutevoli e mutati contenuti del pensiero e della consapevolezza sui diritti che stanno al centro della cultura politica ameri- Le Blanc, Charles Mathieu, Rémy Mythe et philosophie à l’aube de la Chine Impériale: études sur le Hauinan Zi Université de Montreal De Boccard, gennaio 1993 76 pp.240, F 165 Testimonianza privilegiata della rinascita delle arti, delle lettere e delle scienze che segna l’avvento della dinastia Han, lo Hauinan Zi (Libro del maestro di Huainan) riflette le concezione sintetica dell’uomo, della società e della natura nel II secolo a.C. a partire dai principi posti dai pensatori taoisti. Le Diraison, Serge Zernik, Eric Le corps des philosophes PUF, febbraio 1993 pp.272, F 144 Il testo si accosta al corpo attraverso quattro problematiche che costituiscono altrettanti momenti importanti della filosofia occidentale: Platone o il Rieducatore del corpo; Descartes o il corpo senz’ombra; Nietzsche o il corpo a corpo; Merleau-Ponty o le pieghe della carne, del corpo soggetto alla carne del mondo. Lecourt, Dominique Duroux, Françoise Canguilhem, philosophe et historien des sciences Albin Michel, febbraio 1993 F 140 In questo volume sono raccolte le comunicazioni del congresso organizzato a Parigi nel 1990 dal Collège international de philosophie; l’opera cerca di dare conto della complessità del pensiero di Canguilhem passando per tutte le sue dimensioni, scientifica, filosofica, etica e politica. Leibniz, Gottfried W. Saggi di teodicea Rizzoli, aprile 1993 pp.520, L. 16.000 La Teodicea si presenta come l’opera di una vita, il tentativo compiuto da Leibniz di esporre in modo sistematico la parte più rilevante del suo pensiero, di mettere ordine in meditazioni la cui traccia risale agli anni della gioventù. Lenk, Hans Philosophie und Interpretation. Vorlesungen zur Entwicklung konstruktionistischer Interpretationsansätze Suhrkamp, febbraio 1993 pp.288, DM 20 Lesch, W. - Schwind, G. (a cura di) Das Ende der alten Gewißheiten. Theologische Auseinandersetzung mit der Postmoderne Matthias-Grünewald-Vlg., febbraio 1993 pp.168, DM 36 Lesher, J. H. (a cura di) Xenophanes of Colophon: Fragments. Univ. of Toronto, febbraio 1993 pp.380, $ 45 Senofane di Colofone fu un poeta filosofo che visse in varie città del- NOVITÀ IN LIBRERIA l’antico mondo greco tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C. Lévy, Carlos Cicero academicus: recherche sur les Académiques et sur la philosophie cicéronienne Ecole française de Rome gennaio 1993 pp.697, F 590 Troppo spesso considerato un trattato dedicato esclusivamente ai problemi della conoscenza, le Accademiche vengono da C. Lévy nuovamente poste nella doppia prospettiva della filosofia ellenistica e dell’itinerario personale di Cicerone, nello stesso tempo filosofo e uomo politico. Lütterfelds, W. (a cura di) Evolutionäre Ethik zwischen Naturalismus und Idealismus. Eine moderne Theorie der Moral Wissenschaftl. Buchges. febbraio 1993 pp.252, DM 45 Il volume mostra come l’etica evoluzionistica, nell’ampio arco tensivo delle posizioni filosofiche contrapposte, venga discussa in modo estremamente controverso. Il saggio vuole portare un contributo al dibattito per rendere fruttuosa un’etica evoluzionistica e tenta una mediazione fra le concezioni etiche idealistiche e quelle naturalistiche. Macherey, Pierre Avec Spinoza: études sur la doctrine et l’histoire du spinozisme PUF, gennaio 1993 pp.272, F 172 Una lettura di Spinoza “al presente” che consente di riformulare problemi attuali che noi ci poniamo qui e oggi, attraverso il riesame di alcuni punti dottrinali, dai paradossi della conoscenza immediata alla questione della fine della storia. Mahajan, Gurpreet Explanation and understanding in the human sciences OUP India, gennaio 1993 pp.136, £ 8,95 Il saggio affronta diverse questioni importanti che hanno dominato il dibattito nella filosofia delle scienze sociali e costituisce una trattazione lucida delle faccende legate all’adeguatezza delle diverse forme di spiegazione. Mahon, Michael Houcault’s Nietzschean genealogy. Truth, power and the subject State Univ. of New York febbraio 1993 pp.288, $ 19 Il primo studio di ampio respiro sull’impatto degli scritti di Friedrich Nietzsche sul pensiero di Michel Foucault. Malebranche, Nicholas Treatise on ethics (1684) Kluwer Academic Publishers, febbraio 1993 pp.240, £ 59 Nel suo “Trattato sull’etica” Malebranche elabora una scienza dettagliata, “sperimentale” dell’etica in due parti: l’etica della virtù e l’etica del dovere. Vengono distinte sei fonti di motivazione (dalla percezione alla passione) ed esplorati i nostri doveri verso noi stessi, verso gli altri e verso Dio. pp.412, Dfl 160 Il libro sostiene che a dispetto delle tendenze antifunzionalistiche di Wittgenstein, espresse chiaramente nell’idea di filosofia come attività di analisi linguistica, in realtà la sua filosofia è costruita su un particolare schema concettuale (oscillante). Montaigne, Michel de The complete essays Penguin Books, febbraio 1993 pp.1344, £ 9,99 Nessuno nella civiltà occidentale ha mai tentato di fare ciò che intraprese Montaigne. Questi si muove di pensiero in pensiero, spesso allontanandosi da un’idea solo per ritornarvi dopo esservisi imbattuto altrove. In questi saggi, Montaigne espone il suo progetto per una vita e una morte saggia dell’uomo. Marin, Louis De pouvoirs de l’image: gloses Seuil, febbraio 1993 pp.255, F 150 Testi che per la maggior parte appartengono all’età della rappresentazione, vengono qui letti e riscritti secondo il genere della glossa: letture, riscritture che li spostano altrove e li aprono su un oggetto che va a ruba e di cui tuttavia non cessano di parlare e di scrivere: l’immagine. Montaleone C., Sini C. Remo Cantoni filosofia a misura della vita Guerini, marzo 1993 pp.224, L. 32.000 La figura di Remo Cantoni (19141978), allievo di Antonio Banfi e esponente di spicco della “scuola banfiana”, docente di Filosofia morale, ricordato attraverso i contributi di alcuni intellettuali. Matteï, Jean-François Pythagore et les pythagoriciens PUF, febbraio 1993 pp.128, F 38 Il libro costituisce più un’esposizione di un sistema coerente con una prospettiva illumminante che parte da alcuni testi di Platone, che non una semplice intuizione delle dottrine pitagoriche. McBride, Joseph Albert Camus: Philosopher and litterateur Macmillan Press, febbraio 1993 pp.288, £ 19,99 Il libro segna una riaffermazione della scrittura di Camus che indaga la natura e le origini filosofiche del pensiero di Camus sull’”autenticità” e “l’assurdo”, concetti espressi in “Il mito di Sisifo” e “l’Outsider”, dimostrando che egli non fu solo una figura letteraria, ma anche un filosofo. Moro, Tommaso L’utopia o la migliore forma di Repubblica Laterza, marzo 1993 pp.200, L. 8.000 La prima costruzione immaginaria di uno Stato ideale. Nell’Inghilterra del primo Cinquecento si delinea la struttura economica, sociale e religiosa di uno Stato ideale, quello appunto esistente nella immaginaria isola di Utopia. Morris, Charles W. Symbolism and reality: A study in the nature of mind John Benjamins Publishing Company, gennaio 1993 pp.128, £ 32 Il libro si propone di dimostrare che il pensiero e la mente non sono entità, né processi che comportano una sostanza psichica distinta dal resto della realtà, ma li si può spiegare come il funzionamento di parti dell’esperienza in quanto simboli di un organismo di altre parti dell’esperienza. Mele, Alfred R. Irrationality: An essay on “Akrasia”, self-deception, and self-control Oxford University gennaio 1993 pp.194, £ 12,95 L’autore dimostra che certe forme di irrazionalità (azione incontinente e inganno di sé) rifiutate da molti filosofi perché logicamente o psicologicamente impossibili, sono in effetti possibili. Mourelatos, Alexander P. D. (a cura di) The pre-socratics: A collection of critical essays Princeton University, gennaio 1993 pp.580, £ 13,95 La presente raccolta vuole introdurre il lettore ad alcune delle scuole presocratiche più rispettate nel XX secolo. Vi sono traduzioni di opere importanti di studiosi europei fino a questo momento non disponibili in inglese, oltre agli argomenti principali e agli approcci attuali. Merleau-Ponty, Maurice Il visibile e l’invisibile Bompiani, marzo 1993 pp.320, L. 34.000 La discussione delle impostazioni filosofiche di Kant, di Husserl e di Sartre problematizza la contrapposizione fra il “visibile e l’invisibile” su cui è fondata la metafisica occidentale: si profila una nuova considerazione dell’Essere, un diverso stile di pensiero e di scrittura filosofica. Milkov, Nikolay Kaleidoscopic mind. An essay in post-Wittgensteinian philosophy Editions Rodopi, febbraio 1993 Munk, Linda The trivial sublime: 77 Theology and american poetics Macmillan, gennaio 1993 pp.208, £ 35 Il saggio colloca il sublime americano in ciò che apparentemente è triviale: nei piccoli oggetti comuni, nelle persone umili e di bassa estrazione, insomma in ciò che il filosofo Stanley Cavell chiamava l’”ordinarietà” del linguaggio americano. Letture radicali di opere di Ralph Waldo Emerson e di Herman Melville. Musgrave, Alan Common sense, science and scepticism: An historical introduction to the theory of knowledge Cambridge University febbraio 1993 pp.324, £ 12,95 Questa opera epistemologica costituisce una ricognizione introduttiva, di base storica, del dibattito fra dogmatismo e scetticismo, schierandosi quasi sempre per lo scetticismo per dimostrare che il desiderio di sgominarlo spesso a portato a dottrine idealistiche o antirealistiche. Neumann, Walter G. Kritishe Theorie der Kultur heute. Der Mensch zwischen revolutionärer Selbsterhaltung und evolutionärer Selbstverwicklichung Die Blaue Eule, febbraio 1993 pp.140, DM 34 Newman, Andrew (a cura di) The physical basis of predication Cambridge UP, febbraio 1993 pp.256, £ 30 Il testo difende un’immagine realistica degli universali metafisici, dove l’idea di universale viene caratterizzata prendendo in considerazione il linguaggio e la logica, l’idea di possibilità, le gerarchie di universali e causalità. La tesi è che né il linguaggio né la logica siano buone guide alla natura della realtà. Nuttall, Jon Moral questions: An introduction to ethics Polity Press, febbraio 1993 pp.240, £ 11,95 Il testo discute valori e giudizi ed esamina l’educazione morale e religiosa e la punizione. Nuttall osserva la moralità sessuale con capitoli dedicati alla pornografia, all’aborto, alla ricerca fetale e ai bambini, e analizza le questioni morali concernenti la morte, i diritti degli animali e le teorie morali. O’Meara, Dominic J. Plotinus: An introduction to the “Enneads” Clarendon, gennaio 1993 pp.152, £ 22,50 Introduzione all’opera di Plotino, autore del III secolo a.C. Punti importanti della sua filosofia vengono discussi in relazione a testi scelti, si tratteggia la sua grande influenza sulla tradizione intellettuale occidenta- NOVITÀ IN LIBRERIA le. Informazioni bibliografiche per ulteriori letture. comme pratique philosophique PUF, febbraio 1993 za” la civiltà unidimensionale denunciata dalla filosofia. O’Meara, John J. Studies in Augustine and Eriugena Catholic University of America febbraio 1993 pp.375, £ 53,95 Il libro si propone di rendere disponibile a studiosi e studenti lo sviluppo del pensiero di uno dei maggiori studiosi di Agostino, John J. O’Meara. I 23 saggi puntano principalmente agli interessi filosofici che contribuirono alla conversione di Agostino al cristianesimo e all’uso di Agostino fatto da John Scotus Eriugena. Philp, Mark - Fitzpatrick, Martin - St Clair, William (a cura di) The political and philosophical writings of William Godwin Pickering & Chatto febbraio 1993 £ 395 L’opera contiene tutti i maggiori scritti politici, filosofici ed educazionali di William Godwin, uno dei più grandi filosofi della sua epoca. Il suo lavoro sul governo e sulla libertà individuale, “Political justice”, ne fece l’esponente di spicco del radicalismo inglese nell’ultima metà del XVIII secolo. Reboul, Olivier Garcia, Jean-François Rhétorique de... Université de Strasbourg gennaio 1993 pp.116, F 90 Una raccolta di testi che mettono in evidenza il ruolo dell’argomentazione nel campo della comunicazione. Platon Le Souci du bien Arléa, febbraio 1993 pp.125, F 85 A cura di M. Gondicas Due dei dialoghi socratici più noti, Liside e Carmide, volti a definire il bene, aspirazione primordiale dell’uomo, in piena luminosità di coscienza. Reimmann, Jacob Fr. Historia universalis atheismi et atheorum falso et merito suspectorum Introduzione di W. Schröder Frommann-Holzboog febbraio 1993 pp.722, DM 490 Oliner, Pearl M. Oliner, Samuel P. Baron, Lawrence Blum, Lawrence A. Krebs, Dennis L. Smolenske, M. Zuzanna (a cura di) Embracing the other: Philosophical, psychological, and historical perspectives on altruism New York University gennaio 1993 pp.456, £ 44,95 Il presente testo è nato primariamente come risposta alla recente ricerca sulla manifestazione di un altruismo della vita reale, e cioè ai saggi sui salvatori non ebrei di ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Il libro affronta questioni in diverse discipline, pur restando centrato su argomenti comuni. Pagano, Maurizio Hegel. La religione e l’ermeneutica del concetto Ed. Scientifiche, marzo 1993 pp.246, L 32.000 Si individua nel nesso tra i due momenti, logico e ermeneutico, il punto focale del pensiero di Hegel; una ricostruzione del primo confronto della teologia cattolica con Hegel, condotta da un contemporaneo del filosofo, Franz Anton Staudenmaier. Pallavidini, Renato Hegel critico dell’autoritarismo Arnaud, marzo 1993 pp.160, L. 25.000 Il confronto critico con la Rivoluzione francese alle origini dei modelli teorici del giovane Hegel. Panaccio, Claude Le mots, le concepts et les choses: la sémantique de Guillaume d’Occam et le nominalisme d’aujourd’hui Vrin, gennaio 1993 pp.288 F 172 La vecchia questione del nominalismo si ritrova al cuore della filosofia analitica contemporanea: come possono il discorso e il pensiero articolarsi in un mondo esterno popolato di cose singole? L’autore mette in parallelo le idee di Occam, francescano inglese, con quelle di Fodor, Goodman e Quine. Redeker, Hans Helmut Plessner oder die verkörperte Philosophie Duncker und Humblot febbraio 1993 pp.241, DM 84 Rescher, Nicholas Rationalität. Eine philosophische Untersuchung über das Wesen und die Rechtfertigung von Vernunft Königshausen & Neumann febbraio 1993 pp.300, DM 48 Il testo di questo libro comprende tutto il materiale dell’edizione inglese. In più qui sono state aggiunte una trentina di pagine di nuovi materiali, che chiariscono e spiegano i rapporti fra diversi ambiti di problemi. Platone Apologia di Socrate a cura di Elisa Avezzù Marsilio, marzo 1993 pp.136, L. 12.000 Pöltner, Günther Evolutionäre Vernunft. Eine Auseinandersetzung mit der evolutionären Erkenntnistheorie Kohlhammer, febbraio 1993 pp.240 Quéran, Odile Trarieux, Denis (a cura di) Les discours du corps: une anthologie Presse Pocket, febbraio 1993 pp.50 Una raccolta di testi sulla rappresentazione del corpo, il suo ruolo nella costituzione dell’identità e il problema della sua conoscenza. Reuland, Eric - Abraham, Werner (a cura di) Knowledge and language: Vol. I. From Orwell’s problem to Plato’s problem Kluwer Academic Publishers gennaio 1993 pp.264, £ 77 Primo volume di un’opera in tre volumi, indaga il ruolo della struttura concettuale nei processi cognitivi, esplorandolo da diversi punti di vista, fra cui la filosofia del linguaggio, la linguistica, la psicologia e l’estetica. Quine, Willard Van Orman La poursuite de la verité Seuil, febbraio 1993 pp.153, F 99 Il saggio condensa, con approfondimenti, l’insieme delle idee di questo filosofo americano sulla significazione cognitiva, la referenza oggettiva e le basi della conoscenza. Reuland, Eric - Abraham, Werner (a cura di) Knowledge and language: Vol. II. Lexical and conceptual structure Kluwer Academic Publishers, gennaio 1993 pp.264, £ 67 Secondo volume di un’opera in tre volumi, il testo affronta la natura dell’interfaccia fra struttura concettuale e linguistica, sforzandosi di fornire una cornice teoretica del rapporto fra senso come entità linguistiche ed entità del mondo reale. Raulet, Gérard Herbert Marcuse: Philosophie de l’émancipation PUF, gennaio 1993 pp.256, F 80 Il pensiero di Marcuse viene confrontato oggi alla capacità del capitalismo di generare “miscugli” che mettano in scacco ogni critica. La congiunzione di un individualismo sfrenato e del dominio planetario della tecnica sembra realizzare al di là di ogni “speran- Rizzi, Lino Eticità e stato in Hegel Mursia, marzo 1993 pp.368, L. 40.000 La teoria hegeliana dell’Eticità appa- Paty, Michel Einstein philosophe: la physique 78 re come un grande sforzo di comprendere il modo in cui le sfere dell’economia, del diritto e della politica costituiscono sistemi tra loro distinti solo “operativamente”, ma come “eticamente” siano funzioni dirette alla realizzazione degli individui. Rocca, Ettore L’essere e il giallo. Saggio su Merleau-Ponty Pratiche, marzo 1993 pp.150, L. 18.000 Come e dove sorge la domanda filosofica e perché la domanda sull’esperienza o sull’essere è al tempo filosofia che si interroga sulla sua stessa possibilità sono gli interrogativi, centrali per la filosofia del Novecento, filo conduttore per accostarsi al percorso di pensiero di Merleau-Ponty. Rousseau, Jean-Jacques Il contratto sociale Rizzoli, marzo 1993 pp.222, L. 9.000 Il ritratto di una società etica e politica insieme, in cui l’individuo non obbedisca ad alcuna volontà estranea o superiore, ma a una volontà generale che egli stesso sceglie e che quindi viene a coincidere che la sua. Rousseau, Jean-Jacques Le fantasticherie del passeggiatore solitario Einaudi, marzo 1993 pp.151, L.18.000 Meditazioni sui temi della religione, dell’educazione, del diritto sociale; argomenti tutti che gli avevano causato inimicizie ed amarezze. Rousseau si interroga, e cerca di spiegare a se stesso l’origine di tali delusioni, ma lo supera con lo slancio entusiasta che egli porta ai suoi ideali umani e religiosi. Rovatti, Pier Aldo Trasformazioni del soggetto Il Poligrafo, marzo 1993 pp.144, L. 26.000 I saggi che compongono il volume hanno al loro centro la discussa proposta di una “pensiero debole”. Questa proposta, formulata nel 1983, si articolava intorno al nome di Friedrich Nietzsche, ma anche a quello di Husserl, Lacan, Serres; si trattava del problema di un luogo diverso da dare alla soggettività, dinanzi a una modificata descrizione del potere. La lettura di questo lavoro permette di ricostruire qualcosa come un corpo omogeneo di domande: bisogno, soggettività, potere e pratica del pensiero. Runzo, Joseph (a cura di) Is god real? Macmillan, febbraio 1993 pp.288, £ 40 Raccolta di saggi dedicata al dibattito attuale sul realismo teologico. C’è una realtà divina, trascendente indipendente dal pensiero umano? Negli NOVITÀ IN LIBRERIA scritti di importanti esponenti di entrambe le parti, il libro presenta un dialogo fra realisti e non realisti. Due anni dopo o Ricordi di una singolare esperienza fra la caduta del muro e la riconquista” aggiornano lo scritto. Rupp, G. (a cura di) Was leisten die Geisteswissenschaften für die Zukunft? Beiträge zum Modellversuch “Geisteswissenschaftliches Studium Fundamentale” an der Universität Bochum Brockmeyer, febbraio 1993 pp.168, DM 16,80 Schoeman, Ferdinand David Privacy and social freedom Cambridge UP, febbraio 1993 pp.240, £ 30 Il libro attacca la premessa, comune a molte filosofie morali, che il controllo sociale in quanto tale sia una forza intellettualmente e moralmente distruttiva. Ryle, Gilbert Gilbert Ryle and the philosophy of mind Blackwell Publishing gennaio 1993 pp.256, £ 45 Raccolta di scritti di Gilbert Ryle, professore di filosofia a Oxford dal 1945 al 1967. Il libro comprende anche due omaggi a Ryle: uno di John Mabbot, suo intimo amico, sull’uomo Ryle; l’altro è di David Gallop, suo ex studente, sul Ryle filosofo. Sarvepalli Radhakrishnan Indian philosophy: Vol. 1 OUP India, gennaio 1993 pp.738, £ 12,95 L’opera si propone di fornire un resoconto chiaro dei più elevati concetti dell’induismo. In essa vi si trovano mescolati concetti orientali e terminologia occidentale, così da rendere accessibile e istruttivo il testo anche a chi si dovesse accostare all’argomento per la prima volta. Sarvepalli Radhakrishnan Indian philosophy: Vol.2 OUP India, gennaio 1993 pp.808, £ 12,95 Scheffer, Thomas Kants Kriterium der Wahrheit. Eine systematische Interpretation der Argumentation für die Anschauungsformen und Kategorien a priori in der “Kritik der reinen Vernunft” de Gruyter, febbraio 1993 pp.311, DM 136 Schmidt, Amos Materialismus zwischen Metaphysik und Positivismus. Max Horkheimer Frühwerk. Darstellung und Kritik Westdeutscher Vlg. febbraio 1993 pp.384, DM 62 Schmidt, Hermann J. Das Ereignis Nietzsche ausgehend von Röcken. Gedenkvortrag auf der Gedenkveranstaltung zum 90. Todestag von Friedrich Wilhelm Nietzsche am 25.8.1990 in der Pfarrkirche zu Röcken Dortmund, febbraio 1993 pp.35, DM 4 Le note e un “Supplemento 25.8.1992: Shields, Philip R. Logic and sin in the writings of Ludwig Wittgenstein Univ. of Chicago febbraio 1993 pp.176, $ 31 Shields dimostra come una matrice etica e religiosa pervada anche gli scritti più tecnici sulla logica e il linguaggio e che per Wittgenstein il bisogno di stabilire limiti chiari è un’esigenza allo stesso tempo logica ed etica. Shin, Sang-Hie Wahrheitsfrage und Kehre bei Martin Heidegger. Die Frage nach der Wahrheit in der Fundamentalontologie und im Ereignis-Denken Königshausen & Neumann febbraio 1993 pp.224, DM 48 Schomberg, Rene von Science, politics and morality Kluwer Academic Publishers febbraio 1993 pp.180, £ 46 Insigni autori di diversi paesi europei e americani forniscono una prospettiva incrociata sui problemi decisionali politici in condizioni di incertezza scientifica. Si discutono esempi tratti dalla biotecnologia e dalle scienze ambientali. Smith Ferguson, Martin Diogene di Enoanda. L’iscrizione epicurea Bibliopolis, aprile 1993 pp.660, L. 200.000 L’edizione di Smith, che consta di introduzione, testo critico, traduzione, commento e indici, è l’unica a presentare tutti i frammenti noti dell’opera di Diogene, filosofo e filantropo che la fece incidere sul muro di una stoa a Enoanda nella Licia settentrionale. Fondata sul controllo di tutti i blocchi di pietra scopeti e riscoperti dagli inglesi, questa edizione presenta centinaia di letture e supplementi inediti. Schulte, Joachim Experience and expression. Wittgenstein’s philosophy of psychology Clarendon Press, febbraio 1993 pp.192, £ 25 Il saggio usa i dibattiti sui concetti psicologici degli ultimi manoscritti di Wittgenstein come base per la ricostruzione degli argomenti e delle elucidazioni concettuali di Wittgenstein. Il testo fornisce prospettive sulla filosofia della psicologia, sull’estetica e sulla teoria del significato. Sorel, Georges Le illusioni del progresso Bollati Boringhieri, aprile 1993 pp.240, L. 24.000 Pubblicato nel 1908, poco dopo le Considerazioni sulla violenza, questo libro affronta con più ampio respiro storico e filosofico gli aspetti ide- Sen, Amartya Libertà e benessere Marsilio, aprile 1993 pp.140, L. 15.000 Una proposta di radicale ridefinizione dei criteri utilizzati per identificare il tenore di vita viene qui avanzata da Sen, che ci invita a non separare gli strumenti oggettivi da quelli soggettivi e filosofici che appartengono al bagaglio ideale di ciscun individuo. ologici di quella che Sorel considerava la subalternità del socialismo riformista al progetto illuministico della borghesia. Sorell, Tom The rise of modern philosophy. The new and traditional philosophies from Machiavelli to Leibniz Oxford UP, febbraio 1993 pp.360, £ 40 Il saggio esamina il pensiero di tredici autori in ogni campo della filosofia e delle scienze e cerca di dimostrare che la frattura fra le “nuove” filosofie e quelle tradizionali classiche non è così totale come si pensa in genere. Soulez, Philippe La guerre et les philosophes: de la fin des années 20 aux années 50 Universitaire de Vincennes febbraio 1993 pp.320, F 140 Scritti di J. Barnes, J. A. Barash, J.M. Besnier e altri.Come il precedente (Les philosophes et la guerre de 14) il presente volume riunisce analisi sugli atteggiamenti individuali o collettivi dei filosofi, da Aron a Wittgenstein, di fronte alla problematica dell’orrore che il nazismo, ancora oggi, ci costringe a pensare. Southgate, Beverley C. ”Covetous of truth”: The life and work of Thomas White, 1593-1676 Kluwer Academic Publishers gennaio 1993 pp.196, $ 60 Il lavoro è dedicato alla vita e all’opera di Thomas White, importante ed eclettico pensatore del XVII secolo. Ci viene presentato come il capo di un’influente fazione dei cattolici inglesi, come un accanito oppositore dello scetticismo e come la possibile sintesi del pensiero scolastico con la “nuova filosofia”. Sparles, Harvey B. ✂ Osservazioni …………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… Suggerimenti ……………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… 79 NOVITÀ IN LIBRERIA Teaching as dialogue: A teacher’s study University of America febbraio 1993 pp.216, £ 21,95 Il testo osserva il significato e il contesto della conoscenza e afferma che la natura dell’apprendimento induce speranza e ispirazione per il futuro; sostiene anche che il dialogo permette agli studiosi di perseguire il sapere sviluppando forza e ingenerando un senso della finalità. Spat, Werner Philosophie und Grundprobleme der modernen Astrologie. Neues zu einem “alten” Thema Die Blaue Eule febbraio 1993 pp.173, DM 39 Stalder, Henry J. Rational realism. About relative ration and relative reality Haag & Herchen, febbraio 1993 pp.116, DM 19,80 Sterling, Marvin C. Philosophy of religion: A universalist perspective University Press of America, febbraio 1993 pp.234, £ 21,95 Il libro tenta di chiarire e valutare i concetti chiave della religione come anche quelli che sono caratteristica esclusiva di particolari tradizioni religiose. L’autore vede un’armonia di fondo fra le differenti religioni mondiali e ne sottolinea i punti di contatto. Thanbichler, Christian Die Abstraktion und die Unglaublichkeit des Irrtums menschlichen Denkens Die Blaue Eule febbraio 1993 pp.91, DM 23 Tiedemann, Paul Über den Sinn des Lebens. Die perspektivische Lebensform Wissenschaftl. Buchges. febbraio 1993 pp.352, DM 39 Come può l’uomo di oggi ancora trovare la pienezza del senso? Il libro presenta una fenomenologia dei diversi concetti di senso che sono stati elaborati nel corso della storia umana. L’autore li confronta con il concetto di senso prospettivo, che a suo parere potrebbe essere portante per l’epoca moderna. Torrance, J. (a cura di) The concept of nature Clarendon, febbraio 1993 pp.208, £ 12,50 Una serie di saggi di filosofi della scienza che trattano le principali fasi dello sviluppo storico della concezione scientifica della natura. Uebel, Thomas E. Overcoming logical positivism from within. The emergence of Neurath’s naturalism in the Vienna Circle’s protocol sentence debate Editions Rodopi, febbraio 1993 pp.377, Dfl 140 Tommaso d’Aquino e Ignazio di Loyola. tazione di Hegel come moderno pensatore. Vadée, Michel Marx, penseur du possible Méridiens-Klincksieck, febbraio 1993 pp.568, F 180 Il libro dimostra che nella sua critica dell’economia politica, nella sua concezione della storia e nel suo materialismo filosofico, Marx ammette diverse forme di possibilità: astratte o teoriche, concrete o storiche e soprattutto una possibilità reale, quella di un “regno della libertà”. Wittgenstein, Ludwig Le cours de Cambridge, 1932-1935: etablis par Alice Ambrose à partir des notes d’Alice Ambrose et de Margaret Macdonald TER, febbraio 1993 pp.267, F 169 Oltre agli appunti presi alle lezioni fra il 1932 e il 1935 in questo volume si troverà il Quaderno giallo in cui sono annotate le lezioni e le discussioni informali che precedono le differenti sedute di dettatura del Quaderno blu. Vi si trovano trattate ampiamente le questioni sollevate da quest’ultimo, precisate in alcuni punti centrali. oss, Stephen (a cura di) Essays on the philosophy and science of Rene Descartes Oxford UP, febbraio 1993 pp.336, £ 16 Questi saggi di importanti studiosi di Descartes, mai pubblicati prima in inglese, costituiscono una rassegna della ricerca contemporanea sulla filosofia e la scienza cartesiana. Unger, Peter Identity, consciousness and value Oxford University gennaio 1993 pp.358, £ 15 Il tema dell’identità personale ha dato l’avvio recentemente a vivaci dibattiti filosofici. In un contributo alla discussione, l’autore di questo trattato presenta un resoconto psicologicamente orientato, ma con una base fisica, della nostra identità nel corso del tempo. Warnock, G. J. Berkeley Gregg Revivals, febbraio 1993 pp.240, $ 35 In questa nuova edizione riveduta della sua introduzione a Berkeley, l’autore esamina tutte le maggiori opere e idee filosofiche di Berkeley e discute i suoi contributi a questioni ancora dibattute oggi. Il libro vuole essere un aiuto per il lettore a imparare qualcosa sulla filosofia grazie a questo saggio su Berkeley. Vacca, Roberto La via della ragione Bompiani, marzo 1993 pp.256, L. 30.000 Che cos’è la “nuova morale”? A questa e ad altre domande si cerca di rispondere ripercorrendo la storia del pensiero e analizzando l’assurdità insita nelle “regole fisse”, o il cammino della “ragione” dalla Bibbia al Talmud, o l’autonomia del diritto, o cercando di saldare il pensiero di Westphal, Merold Hegel, freedom, and modernity State Univ. of New York Pr., febbraio 1993 pp.288, $ 19 Westphal è uno dei più insigni commentatori contemporanei di Hegel. La sua opera propone numerose prospettive stimolanti e riesce straordinariamente bene a presentare la rilevanza di Hegel per tutta una serie di questioni e pensatori contemporanei, e dunquel’agi- ✂ ome e cognome ……………………………………………………………… ndirizzo ……………………………………………………………………… ……………………………………………………………………… elefono ……………………………………………………………………… omputer usato ❏ IBM-Compatibile ❏ Macintosh ❏ Ms-Dos ❏ Windows ❏ System 6.x ❏ System 7.x ❏ Cd-Rom ❏ Monitor a colori ❏ Floppy 3.5” HD uono di prenotazione ❏ Desidero prenotare fin d’ora n°… copie su floppy disk da 3,5” per Ms-Dos/ Windows ❏ Desidero prenotare fin d’ora n°… copie su floppy disk da 3,5” per Macintosh al prezzo scontato di £ 120.000 (iva esclusa)* 80 verranno indicate in seguito *le modalità di pagamento Wöhrle, G. (a cura di) Anaximenes aus Milet. Die Fragmente zu seiner Lehre Steiner, febbraio 1993 pp.88, DM 48 Wolandt, G. - Breil, R. (a cura di) Ostdeutsche Denker. Vier Jahrhunderte philosophischer Tradition von Jakob Böhme bis Moritz Löwi Vertrieb., febbraio 1993 pp.262, DM 36 Wollgast, Siegfried Vergessene und Verkannte. Zur Philosophie und Geistesentwicklung in Deutschland zwischen 1526 und 1700 Akademie, febbraio 1993 pp.342, DM 130 Wright, Crispin Truth and objectivity Harvard University gennaio 1993 pp.262, £ 19,95 Basandosi sulle lezioni Waynflete tenute a Oxford nel 1991, Wright propone una prospettiva originale sul luogo del “realismo” nella ricerca filosofica. Egli propone una nuova cornice per il dibattito sulle affermazioni dei realisti, che pensano la verità come assolutamente oggettiva, e gli anti realisti, per i quali non è così. Wuketits, Franz M. Verdammt zur Unmoral? Zur Naturgeschichte von Gut und Böse Piper, febbraio 1993 pp.240, DM 39,80 L’autore presenta l’abbozzo di un’”etica evoluzionistica”, libera dagli astratti principi della filosofia morale. Egli propugna l’applicazione dell’etica all’interno di precisi confini biologici e il distacco da ogni rappresentazione idealistica. Zoglauer, Thomas Das Problem der theoretischen Terme. Eine Kritik an der strukturalistischen Wissenschaftstheorie Vieweg, febbraio 1993 pp.250, DM 80 La tradizionali proposte risolutive (per esempio di Sneed e di Stegmüller)