Antonio e Cleopatra tra politico ed erotico

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Giulia Tiozzo
ANTONY AND CLEOPATRA: TRA POLITICO ED EROTICO
Come gli altri drammi romani, Antony and Cleopatra fu pubblicato per la prima volta
nell’In-folio del 1623. La composizione si può però far risalire al 1606-07, ed è quindi
una delle ultime grandi tragedie composte da Shakespeare. Fonte diretta del dramma
furono le Lives of noble Grecians and Romans di Plutarco da Cheronea tradotte in
inglese (dal francese di Jacques Amyot) da Sir Thomas North. Shakespeare seguì
fedelmente la fonte, comprimendo gli avvenimenti storici (41-30 a.C.) in 12 giorni di
azione. Le omissioni e le aggiunte sono poche ma per questo ancor più significative. Ad
esempio in Shakespeare troviamo esaltate le doti di indiscussa leadership di Antonio,
invece solo accennate in Plutarco, in modo da farne una figura composita e
problematica, in cui gli aspetti di grandezza sono il doppio dei suoi stessi difetti. Inoltre
sono accentuate anche le divisioni all’interno del mondo romano che è al contempo
dominato dal principio dell’efficienza politica e della doppiezza. Per quanto riguarda
Cleopatra, Shakespeare sembrerebbe averne fatta una creatura più corrotta e infida ma
allo stesso tempo vitale e fertile.
Il conflitto che viene messo in scena è al contempo storico-politico, individuale e
poetico. É sia una grande tragedia d’amore che un grande dramma politico.
L’infatuazione per Cleopatra è il motivo che spinse Antonio ad abdicare dal triumvirato
ma questo non spense il conflitto con Ottaviano per il dominio dell’impero romano. Il
conflitto con Ottaviano non è solo una questione di potere tra i due ma coinvolge due
visioni del mondo e due culture contrastanti. È non solo l’incontro tra il mondo romano e
quello egiziano, l’incontro della potenza con la bellezza ma anche quello del culto
dell’arma con quello del piacere. La contraddittorietà è infatti una delle caratteristiche
portanti del dramma; abbiamo ambivalenza ai due poli del conflitto politico,
ambivalenza tra i personaggi e nei personaggi e vi è ambivalenza anche tra i mondi che
tali personaggi incarnano.
I tredici versi iniziali sono come una prefigurazione dell’intero dramma che viene
riportato allo spettatore prima ancora che entrino in scena i protagonisti. Filone stesso ci
invita a considerarlo come un quadro simbolico che va guardato e osservato con
attenzione. In questo primo passo è subito palesato il parallelo divino tra Marte e
Antonio, e la sua infatuazione oltre misura per Cleopatra, “a tawny front” una fronte
scura, gli elisabettiani ritenevano infatti che la regina egizia fosse di stirpe africana.
Interessante è poi nei vv. 9-10 la trasformazione dell’Antonio condottiero che Filone
dice essersi fatto ventaglio “fan” e mantice “bellow”, per raffreddare gli ardori di una
zingara. Questo ventaglio-mantice che rappresenta l’amore di Antonio-Marte fa
risplendere Cleopatra, più bella della stessa Venere, descritta nel secondo atto da
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Enobardo come in una quadro, circondata da bambinetti paffuti simili a Cupidi con in
mano dei flabelli, ventagli cerimoniali, simboli in Egitto dell'autorità e della regalità, con
i quali facevano ciò che disfacevano, “and what they undid did” (II, III, 198-205). Con
questo strumento i Cupidi parevano appunto infiammare le guance stesse che
rinfrescavano, esattamente come qui la lussuria della “Royal wench” (II, III, 226)
sottoposta all'eros di Antonio non può bruciare più di quanto venga sventagliata. Questo
dettaglio raffigura quindi con un'immagine materiale e addirittura meccanica, la
produzione e l'alimentazione dell’Eros che, cresce quanto più viene soddisfatto, come
quello suscitato dalla regina che rende vogliosi quanto più soddisfa, “she makes hungry,
where most she satisfies” (II, III, 237-8), con un insaziabile appetito che supera di gran
lunga l’intellegibile.
Siamo quindi fin dai primi versi di fronte alla figurazione di una Cleopatra-Venere
portatrice di un’aura erotica del potere, dal fascino disarmante che letteralmente disarma
Marte dalla sua corazza da guerriero. Lo stesso termine «fascino», ha una interessante
radice etimologica di ambito sessuale: fascinum, per gli antichi romani, era un talismano
a forma di genitale maschile, usato per scacciare il malocchio.
Nella v scena del atto I prima Cleopatra pensa a ciò che Venere fece con Marte e poi ad
Antonio che sta montando un cavallo e di cui invidia la felicità (I, v, 18-34). Cleopatra
identifica Antonio con Marte e se stessa con il cavallo felice. Più specificatamente ciò
che Cleopatra invidia è il fatto che il cavallo venga montato e debba sopportare il peso
“bear the weight” di Antonio che poi definisce come un demi-Atlas. Questo cavaliere
dimezzato è una figura curiosa: Antonio era stato definito fin dai versi iniziali già
analizzati “the triple pillar of the world” dove triple significa terzo e la definizione si
riferiva con inequivoca evidenza al suo essere triumviro, uno dei tre pilastri del mondo.
Il cavaliere viene qui invece identificato con un Atlante che sorregge le grandi colonne
in sella ad un cavallo. È interessante chiedersi quale potrebbe essere l'altra metà di
questo semi atlante. Potrebbe essere il cavallo stesso o Cleopatra. Già fin da Agostino
Eva veniva considerata la parte bassa di Adamo. Venere può quindi essere immaginata
una parte di Marte come Cleopatra è la passione di Antonio, che senza il cavallo che lo
sostiene sarebbe solo un cavaliere a metà, che senza la sua parte bestiale non potrebbe
aspirare ad essere completo.
Nei primi tre atti dell’opera il contrasto fra Roma e l’Egitto vene delineato
separatamente dalla divisione che affligge intimamente Antonio, tra la ragione storica e
Cleopatra. In scena la storia d’amore procede parallelamente agli avvenimenti storici ma
in Antonio il piano della politica e quello dell’Eros sono irrimediabilmente inscindibili.
Questo ha comportato, a livello scenico, numerosi spostamenti d’azione e un
conseguente alto numero di scene, quaranta, molte più di quelle usate nelle altre opere.
Abbiamo infatti continui spostamenti fra tre differenti continenti, da Alessandria
d’Egitto all’Italia, alla Sicilia, alla Siria, ad Atene e ad altre parti dell’impero egiziano e
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romano. Molto alto è anche il numero dei personaggi, 34 personaggi dicono almeno una
battuta ma, anche se per numero rimaniamo nella media delle opere di Shakespeare di
questa portata, l’alto numero di personaggi amplifica i punti di vista dilatando le
vicende.
Come notò Gabriele Baldini un moto pendolare di oscillazione caratterizza l’intera
vicenda con spostamenti fa i vari piani fino ad un’impennata finale che vede il
superamento del politico e dell’erotico da parte del poetico. L’iperbole e il paradosso
inerenti ai personaggi investono infatti anche il linguaggio e, come abbiamo visto,
l’azione drammatica.
Il mondo romano è caratterizzato da immagini molto concrete e da una terminologia
burocratica. Il mondo d’Egitto è di contro rappresentato mediante numerosi immagini di
fluidità e d’acqua, quasi come se Shakespeare stesse tracciando un giudizio velato di
questi due imperi geograficamente e politicamente distanti. Cleopatra è infatti
identificata con il Nilo e con Iside, dea della fertilità e della luna, la fleeting moon (V,II,
239). L’acqua diventa teatro costante di dissipazione per gli amanti (II, V, 10-2), luogo di
sensualità (II, II, 190-218), come nei famosi versi in cui il rude soldato Enobardo
descrive quando Antonio si innamorò di Cleopatra al primo incontro sul fiume Cidno.
L’acqua è anche intesa come fonte di corruzione nelle parole di Cesare (I, IV, 44: con
una similitudine paragona il comportamento volubile della folla ad un “flag” che
abbandonato alla corrente, va avanti e indietro “lackeying the varying tide”). Una grande
massa d’acqua accompagna poi anche il destino di Antonio che verrà definitivamente
sconfitto sul mare di cui Cesare è padrone incontrastato (II, II, 163: by sea he is an
absolute master). Al contempo peròl’acqua, assieme al limo, si fa anche portatrice di
vita e di ricchezza, con un duplice simbolismo che incarna lo stesso paradosso di
corruzione e fertilità che come un’onda appare e riappare in Cleopatra. Per la regina
d’Egitto Antonio è poi per sineddoche paragonato ad un delfino, re delle creature
acquatiche secondo la dottrina medievale ed elisabettiana, i cui piaceri “were dolphinlike” (V, II, 89).
Questa ricorrente immagine dell’acqua non esprime solamente il conflitto fra due
mondi storici ma anche l’andamento paradossale delle vicende personali. Questo emerge
ad esempio dal confronto di due invocazioni speculari, quella di Antonio che implora
affinché Roma si dissolva nel Tevere (I, I, 33: Let Rome in Tiber melt) e quella di
Cleopatra che di rimando chiede che l’Egitto si liquefaccia nel Nilo (II, V, 78: Melt
Egypt into Nile). In questi versi si esprime non solo l’irresponsabilità politica di Antonio
che sembrerebbe rinnegare tutti i suoi doveri per un’infatuazione amorosa, e
l’irresponsabile incuranza di Cleopatra, ma anche un forte desiderio da parte dei due
amanti di dissolversi essi stessi in un cupio dissolvi, termine da intendersi letteralmente
come lo definì San Paolo nella I lettera ai Filippesi dove la parola ἀναλῦσαι (analysai)
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esprime proprio il concetto dello scioglimento dell’anima dal corpo e quindi della morte.
Queste due invocazioni sembrerebbero quindi essere dei presagi della loro tragica fine.
Il cupio dissolvi di Antonio si realizza come una maledizione autoindotta su più piani,
inizialmente come perdita della propria autorità (III, xiii, 90: Authority melts for me […])
e dei suoi vecchi amici e seguaci (IV, XII, 20-23) dei quali si augura il “dolciume
liquefatto coli sul fiorente Cesare”. È Cleopatra stessa a rendersi conto della disfatta
politica di Antonio, quando tenendolo morente tra le braccia annuncia alle donne che la
circondano che “The crown o’ the earth doth melt” (IV, xv, 63) , la corona del mondo si
dissolve, è morto colui che all’inizio del primo atto era stato definito la terza colonna del
mondo. Sul piano personale la cupio dissolvi di Antonio si attua invece come rinuncia
all’azione mediante la deposizione delle armi e la sua identificazione con le vuote
figurazioni delle nubi (IV, xiv, 1-14). Nel IV atto assistiamo infatti al trasformarsi del
politico in aperto conflitto, Antonio è ormai avvinto dall’Eros. La vicenda storica si
chiude quindi con la sua individuale sconfitta.
Esaminando invece l’oscillazione di Cleopatra si notano i repentini passaggi dal suo
lato nobile a quello più basso e corrotto, dalla la sovrana regalità e alla bassezza
cortigiana, fino a giungere ad una finale innalzamento dopo la morte del suo amato
Antonio.
Andando ad indagare il parallelismo tra i due amanti e le divinità lo si scorge fin dalla
I scena del I atto in cui Antonio è paragonato a Marte cinto dalla sua corazza (I, I, 4),
mentre Cleopatra supera in bellezza la stessa Venere (II, II, 200: O’er-picturing that
Venus […]) ed è identificata anche con un’altra dea, Iside, spesso invocata nel dramma.
Iside è la dea della fertilità e della luna, della quale Cleopatra, descritta da Cesare,
indossa i paramenti (III, VI, 17). Come precedentemente notato, Cleopatra stessa si
definisce come una “fleeting moon” (V,II, 239), una luna mutevole, con una possibile
allusione implicita ad Iside, anche se in questo passo siamo ormai nell’atto conclusivo ed
il doppio divino di Cleopatra non è più rintracciabile in Iside come nel resto della
tragedia ma con la costanza romana.
Marte e Venere, eros e potere, volontà di dominio e sessualità, non sono due poli
distinti e opposti né due divinità rivali, ma sono due facce della stessa medaglia,
archetipi ineliminabili della psiche umana che coesistono in una convivenza che per sua
natura non può essere pacifica. In questo dramma, come già anticipato, si assiste nel
finale alla sublimazione del predominio dei differenti poli con il superamento del
politico e dell’erotico da parte del poetico. Il moto ondulatorio conduce infatti ad una
rovesciamento quasi totale che progressivamente porta ad una sublimazione del ruolo e
della figura degli sconfitti. La sconfitta si traduce così in trionfo, l’anelito di morte si
lega all’intensità passionale secondo il principio del cupio dissolvi ed attraverso la morte
si esaltano la pienezza e l’intensità dalla vita. A dominare è sempre il principio
dell’ambivalenza e del paradosso, non per nulla di entrambi i protagonisti viene detto e
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dimostrato come i difetti siano fonte di virtù e le virtù macchiate dai difetti. È tanto vero
che la loro forza è la loro debolezza quanto il suo contrario; vediamo infatti che il loro
trionfo è tutto nella tragedia, rendendo solo in questo modo possibile chiudere il cerchio.
L’intensità passionale costantemente presente si raffina mediante la tragedia fino a
liberarsi sul piano del poetico con il superamento dell’umano, del mondo. Con il loro
ricongiungimento al di là della sconfitta e della morte, Antonio e Cleopatra celebrano
quindi la trascendenza dal mondo della storia. La storia e la stessa tragedia, elementi
prima fondamentali, si sublimano ora nell’esaltazione poetica. Nel V atto, in cui
predomina la figura di Cleopatra, assistiamo ad un poetico trionfo dell’Eros sulla morte e
la perdita, ancora in vita dei caratteri terreni per entrambi. Ci si trova di fronte ad una
Cleopatra quasi asessuata, il cui delirio interiore si manifesta in forma lucida e serrata.
Cleopatra vede oltre ciò che si vede, oltre il razionalismo romano, e morendo raggiunge
la sua massima rarefazione identificandosi con il fuoco e l’aria, “I am fire and air; my
other elements/ I give to baser life […]” (V, II, 288). La regina si fa parte del cosmo
abbandonando l’elemento terreno, contingentemente storico, e l’elemento dell’acqua che
l’ha caratterizzata per l’intera opera.
L’esaltazione suprema dell’amore si innalza al punto di oltrepassare il tempo e la
morte, ed il dramma che si era aperto in Egitto con l’idea di un dotage, un’infatuazione
sentile oltre misura, si chiude con il prevalere dell’hight horder del imponente solennità
romana.
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