CROCE
CAPITOLO 1
Croce occupa un posto di rilievo all’interno della tradizione storicistica Italiana; egli
ci aiuta a comprendere il pensiero filosofico italiano, in particolare la riflessione
spiritualista. Betti percorre una strada diversa, legata alla corrente ermeneutica.
Entrambi sono due figure emblematiche(cioè figure di spicco).
Per studiare la particolare configurazione che lo storicismo assume nel pensiero di
Croce va innanzitutto affrontato il problema riguardante il significato stesso di
storicismo; cioè se per storicismo si deve intendere l’affermazione crociana “che la
vita è realtà e storia e nient’altro che storia”, o quella meineckiana che esalta il
carattere individuale delle forze storiche umane. Per quanto riguarda Croce, che si
tratti di storicismo lo notiamo nelle sue dichiarazioni, ma anche nelle sue opere.
Và anche affrontato il problema del presunto o reale blocco dottrinale dell’idealismo
nell’età romantica, per capire cosa significano idealismo e romanticismo, talvolta
assimilati nell’identificazione di finito ed infinito.
In Hegel invece lo storicismo è idealista ed universale; per Hegel esiste una sola
realtà che è quella della ragione (è una filosofia ottimistica, non c’è posto per il male
e per il negativo).
L’antitesi è una molla della dialettica che ci permette di passare dalla tesi alla sintesi
attraverso appunto l’antitesi che nega la tesi realizzandosi in sintesi. Il negativo è un
momento transitorio per l’affermazione del bene. Istorismo e storicismo convivono in
Germania; lo storicismo di Croce si avvale della categoria dei distinti e non degli
opposti anche se li contiene; ma non si tratta della dialettica degli opposti di Hegel in
quanto non c’è sintesi.
Lo storicismo di Gentile è vicino ad Hegel ed è tradico: tesi, antitesi, sintesi.
Studiando Croce un problema fondamentale è ricostruire le origini della filosofia
italiana, ricostruzione attraverso la quale il nostro idealismo intende da una parte
legittimare il proprio presente filosofico ricorrendo alla tradizione e dall’altra intende
dare alla filosofia italiana un respiro europeo.
Gentile definì la filosofia di Croce: la filosofia delle 4 parole e delle 4 caselle perché
incasella lo spirito. La filosofia di Gentile è roboante figlia della tradizione, mentre
quella di Croce è più disponibile ad ascoltare altre voci culturali.
Bruno evidenzia la differenza tra Croce e Gentile per quanto riguarda la concezione
di filosofia; per il primo la filosofia è solo un momento della vita spirituale, per il
secondo supremo ed unico sapere.
Il periodo che và da Cartesio a Kant è chiamato età dei lumi o illuminismo;
quest’ultimo ritiene di potersi contrapporre al secolo precedente del buio e della
sfortuna perché costituito da positività ed esaltazione della ragione.
Secondo Croce questo progresso di cui tanto si parla è un progresso senza
svolgimento. È un processo nella quale si sente il potenziamento del pensiero
cristiano che ripete in termini laici i concetti cristiani di Dio, di paradiso terrestre,etc..
Lo storicismo presenta nel secolo decimottavo un solo e vero precursore,
Giambattista Vico; Croce sostiene che Vico è un autore geniale perché ha realizzato
cose che nel suo tempo non vennero capite e si diffusero successivamente, ma in
realtà Vico non si contrappose al suo tempo.
Croce vede in Vico la nascita dello storicismo; partito da ricerche erudite, Croce
passa alla storia e alla metodologia storica convinto che la storiografia non elabori
concetti, ma si limiti a riprodurre il particolare nella sua concretezza.
Egli inizialmente si interessò al Marxismo nel quale risentiva il fascino della filosofia
storica del periodo romantico, scoprendo così un Hegelismo più concreto e vivo di
quello di certi seguaci di Hegel, che riducevano il filosofo tedesco ad una sorta di
teologo o di metafisico platonizzante.
Croce si avvicinò al materialismo attraverso l’insegnamento di Labriola che gli mise
tra le mani nel 1895 un proprio manoscritto: in memoria del manifesto dei comunisti;
Croce lo lesse e rilesse e non potè più distogliersi da quei pensieri e problemi. Per
Croce la concezione materialistica era una concezione realistica della storia, una
somma di nuovi dati, nuove esperienze che aiutano lo storico a capire in maniera più
profonda gli eventi. Egli finisce per prendere le distanze dal materialismo ritenendo
che esso finisca per negare la libertà che avrebbe permesso il raggiungimento di un
traguardo sociale definitivo.
L’iniziale interesse per il Marxismo gli permetterà di scoprire l’importanza
dell’attività economica che liberata dal legame con la natura diventerà una categoria
autonoma. Proprio per il suo interesse per la concretezza Croce all’inizio si avvicinò
e fu a favore del marxismo in quanto guardava agli interessi particolari come la
storia: egli si allontanava da Hegel teorico e si avvicina a Marx, che guardava più alla
concretezza. Successivamente egli si allontana dal Marxismo perché sostiene che
esso nega la libertà.
Marx sostiene che ogni classe dipende dai propri interessi, ma quando questi interessi
raggiungono il culmine della contraddizione entrano in conflitto e da questo conflitto
nasce la dialettica storica; con la rivoluzione del proletariato abbiamo la dominazione
di una classe rispetto ad un’altra, quindi Marx auspicava ad una società senza classe,
ma nella pratica ciò non ha avuto una realizzazione ed è rimasta solo un utopia. La
polemica nei confronti del marxismo compromette i rapporti tra Labriola e Croce,
infatti se per la filosofia labriolana il materialismo storico era strettamente legato al
socialismo, per Croce era impossibile il passaggio dalla teoria marxista alla pratica
socialista. Croce non amava parlare di essenza e quindi si è allontanato da Marx che
ne parlava tralasciando la realtà.
Nel capitale di Marx veniva studiato il problema sociale del lavoro e il modo in cui
questo problema veniva affrontato nella società capitalista.
Croce pensava che orientarsi verso lo studio delle essenze lo avrebbe allontanato
dalla realtà concreta: per lui l’essenza è il duplicato in un cielo empirico della cosa
stessa. L’elemento economico che aveva portato Croce ad avvicinarsi a Marx
successivamente sarà inserito nella sua dialettica formata da 4 elementi:
arte - iniziazione del particolare
filosofia – conoscenza dell’universale
economia – abolizione del particolare
etica – abolizione dell’universale
Croce chiamava la sua filosofia il nesso tra distinti e spirito, che si manifesta in modi
distinti. Egli cercò di sottrarre la storia al dominio scientifico, questo intento si
esprimeva attraverso la riduzione della storia a forma artistica; il rifiuto di
considerarla scienza e l’avversione contro ogni forma di filosofia della storia.
Mentre la scienza elabora concetti, assume il particolare sotto il generale, la storia
descrive, narra, conosce i fatti storici nella loro individualità e concretezza.
La scienza non piace a Croce perché elabora concetti in linee generali. Egli
successivamente polemizza contro il positivismo basato sulla scienza; il positivismo
era la trasformazione in filosofia della rivoluzione industriale, che a quel tempo aveva
cambiato l’economia. Ciò che egli rimproverava agli studi del tempo era di non
sapere organizzare il discorso estetico, il suo carattere, il suo compito.
L’obiettivo di Croce era realizzare un’estetica che cerca di chiarire i dubbi che l’arte
si portava dietro dai tempi di Aristotele; egli realizzerà tante estetiche che finirà per
sconfessare se stesso. Quello che bisogna notare è ciò che la concezione estetica
crociana significò nella cultura italiana, soprattutto rispetto alla sua tradizione, una
nuova ondata di idealismo più concreto, più vicino alla realtà umana.
Croce definisce il positivismo <<rozza e contraddittoria filosofia>> che doveva
essere assorbito dalla filosofia vera e propria. La scienza viene catalogata da Croce
come supporto all’arte del conoscere, ma non conoscenza essa stessa; essa foggia
pseudo-concetti che non hanno valore conoscitivo. Egli non vuole condannare del
tutto il ruolo della scienza, ma secondo lui non è lecito aspettarsi che la scienza possa
risolvere la piena redenzione dei dolori, dei mali e delle follie che affliggono l’umano
genere.
Superato nei “lineamenti di logica” del 1905 il dualismo spirito-natura, Croce si
poneva il problema di conciliare due esigenze fondamentali: 1)garantire all’interno
dell’attività dello spirito il divenire, il passaggio da una forma all’altra; 2)garantire
l’immanenza dello spirito nelle sue determinazioni per salvaguardare l’unità e
l’identità.
Per Croce la realtà è l’unico universale che noi possediamo, esiste nell’attività
dell’uomo, nella sua storia(concezione monistica).
Per Hegel l’unica realtà è il divenire.
Per Croce il pensiero coincide con la realtà, quindi le categorie della realtà sono
categorie del pensiero. L’immanentismo crociano nasce come continuo sforzo di
superare la trascendenza dell’universale rispetto alla realtà.
Croce parla di persistente trascendenza di Hegel, mentre lui la vuole negare in virtù
dell’immanenza.
Per Kant la conoscenza è formata da: forma-categorie, spazio-tempo e da contenutoproviene dal mondo esterno.
Questo tipo di dialettica c’è l’abbiamo con Eraclito e poi con Kant che ne parla nella
critica della ragion pura quando parla delle idee e si tratta di una dialettica antinomita,
cioè c’è una tesi e un’antitesi ma non c’è la sintesi.
La dialettica di croce è dialettica dei distinti; quella di Hegel degli opposti.
La dialettica è svolgimento, è arte del dire(essere padroni del linguaggio).
I sofisti persuadevono a livello politico il popolo, con la dialettica riuscivano a
rendere più forte un discorso che era debole. La dialettica di Kant ha un carattere
snoseologico e logico perché la ragione vuole conoscere. La dialettica di Hegel ha un
carattere metafisico e logico. La dialettica di Kirkegaard è out-out, c’è una scelta tra
3 figure
Merito di Hegel, per Croce, è di aver conciliato nella sua dialettica degli opposti, il
pensiero dell’unità con il pensiero dell’opposizione risolvendo l’antica polemica fra i
monisti e i dualisti.
Il pensiero non è statico e le categorie sono distinte e le unisce lo spirito, che si
presume sia dinamico ma non è così perché manca l’essere.
Croce critica il trascendente di Hegel perché c’è : tesi-antitesi-sintesi. Inoltre lo
continua a criticare perché attribuire alla dialettica un momento iniziale significa
estrarre tale momento dall’attività dello spirito.
Nella prima estetica di Croce è presente il contrasto e la tensione tra il Croce
sistematico che mirava ad ordinare la realtà in forme atemporali, nella quale si
scandisce eternamente l’attività dello spirito, e Croce dal vivo senso storico
consapevole che la vita è inesauribile. Bisogna sfatare il mito che Croce sia
sistematico in quanto lui non ama solo la sistematicità che è ordine, ma questo
ordinamento dev’essere utile per far scattare la molla per nuovi ordinamenti.
Aver trasformato tutta la realtà in spirito comportava l’accoglienza di esperienze
spirituali, quali la scienza, la politica, il diritto, etc.. Croce afferma che l’uomo, nello
stesso momento pensa il tutto, non essendo possibile pensare ad un concetto senza
metterlo in relazione con gli altri.
Lo storicismo crociano e quello tedesco rappresentano il duplice aspetto che lo
storicismo assume di fatto nella cultura europea contemporanea. Croce a differenza di
Hegel non và alla ricerca della metafisica; infatti, egli scrive che i concetti di
metafisica e filosofia sistematica sono avventati, quasi estranei. Croce affida
all’intuizione particolare la connotazione di quella particolare forma di conoscenza
tipica della poesia.
L’atto estetico per Croce è espressione, è un’attività di fantasia che si esprime
attraverso l’arte. La posizione di Croce è complessa perché afferma e poi nega quello
che afferma.
L’arte non è sufficiente quando è imperniata in un’intuizione artistica perché non
direbbe nulla; l’arte dev’essere espressa in modo artistico, lirico. La liricità esige una
sua spiegazione.
L’atto estetico, scrive Croce nelle tesi è attività che elabora e trasforma le impressioni
in qualcos’altro.
L’arte è arte, non ha uno scopo che sia al di fuori di sé; l’arte non è un fatto fisico,
non ha nulla a che vedere col piacere e col dolore in quanto tali. Il piacere che prova
l’artista è una particolare forma di piacere, quello della contemplazione
disinteressata.
Secondo Croce l’intuizione artistica è uno dei momenti teoretici dello spirito e
riguarda la conoscenza dell’individuale, delle cose singole, produttrice di immagini.
E questo che la distingue dall’altro modello teoretico dello spirito, ossia la
conoscenza intellettiva che è rivolta all’universale, alla produzione di concetti, a
cogliere le relazioni delle cose.
L’intuizione è un atto immediato, spontaneo ad ogni riflessione.
L’artista non riflette ma rappresenta, non giudica ma immagina.
Secondo Croce facciamo poesia quando parliamo del sentimento e lo proiettiamo
davanti a noi, e non quando lo oggettiviamo. Non l’idea, ma il sentimento è per Croce
ciò che conferisce all’arte “l’aerea leggerezza del simbolo”; per Croce l’arte è sempre
lirica o epica e drammatica del sentimento. Ma non ogni intuizione è arte, ma solo
quelle che si presentano liricamente connotate.
Se l’arte è intuizione, ogni intuizione sarebbe arte. Croce rimase tutta la vita ancorato
alla tesi che con l’intuizione ci troviamo di fronte alla prima è più ingenua forma di
conoscenza, che anche se non appaga completamente il bisogno conoscitivo
dell’uomo è una tappa imprescindibile della vita dello spirito.
L’impossibilità di offrire un canone estetico fa tornare Croce tutta la vita su questo
problema. Nonostante il fatto che Croce ebbe una personalità egemonica non ebbe
seguaci in quel versante della filosofia in cui fu più sensibile alle voci del pensiero
contemporaneo.
Scrisse Verra :Benedetto Croce resta a tutt’oggi un autore di grandissima importanza
perché molte delle cose che ora vanno sotto il nome di ermeneutica o filosofia della
pratica fanno parte del suo lavoro.
Croce fu etichettato come idealista ed idealisti furono i suoi seguaci. Il percorso che
arriva fino a Gadamer si chiama istorismus: istorismo dell’individuale. Madame
sceglie l’arte come punto di partenza ed è in polemica per quella lotta ed unione tra
scienza dello spirito e scienza della natura.
Mentre l’ermeneutica tedesca ha nel historismus il suo luogo di cultura e il suo
impianto ideologico, la filosofia italiana non ha alle spalle lo storicismo, ma è figlia
dello spiritualismo ottocentesco e della sua metafisica.
I seguaci di Croce sono crociani e non ne varcano la soglia per imboccare altre strade.
BETTI (2 CAPITOLO)
Nell’età contemporanea dopo il salto dell’ermeneutica dal piano termico a quello
filosofico e dopo lo sviluppo delle scienze dello spirito, il problema
dell’interpretazione si pone in modo decisamente nuovo. Determinante è l’acquisita
consapevolezza che tutte le espressioni umane contengano in sé una componente
significativa, la quale deve essere riconosciuta come tale da un soggetto e trasportata
nel suo proprio sistema di valori e di segni. La questione ermeneutica che nasce è il
significato da attribuire all’incontro tra le due personalità: quella dell’autore
dell’opera e quella dell’interprete.
La riflessione contemporanea vede coesistere e contrapporsi diverse concezioni
dell’ermeneutica, diversi modi di intendere la sua natura e il suo compito.
Bianco scrive che l’ermeneutica è un fenomeno culturale complesso, un orientamento
di pensiero e di indagine che non può essere considerato unitario.
Lo studioso Betti non potrà evitare di porsi anche il problema della sua collocazione
all’interno del problema della storia, in Germania strettamente intrecciato a quello
dell’ermeneutica; in Italia invece circoscritto in un suo ambito autonomo. Egli non
potrà non affrontare neanche il problema del rapporto con l’ambiente storico italiano
che non è carico di elementi ermeneutici, come l’historismus tedesco. Quindi Betti si
mostra come una figura isolata, in quanto in Germania l’ermeneutica accompagna
passo passo lo storicismo e viceversa mentre in Italia non è così.
BETTI: figura egemone
CROCE: figura non egemone
Nel panorama culturale dell’ermeneutica contemporanea si colloca Betti, giurista e
filosofo; spingendo l’occhio nel suo lontano passato egli rivede un ragazzo animato
dal desiderio di adempiere con la massima esattezza a tutto quanto fosse in suo
dovere. Egli approfondì gli studi di filosofia: Croce, Kant, Gentile, Vico, Hegel,
ecc..Queste letture venivano compiute in parallelo agli studi di giurisprudenza,
dedicandosi soprattutto allo studio del Diritto Romano. Egli lesse la critica di Croce
che apprezzava per l’orientamento non conformista, al positivismo allora dominante.
Banti lesse nel 1909 la filosofia pratica che lo lasciò inappagato”la tendenza a
semplificare e ridurre tutto secondo ragione”. Molteplici ed appassionati furono i suoi
studi e le sue letture, dai suoi appunti sarebbero nati i primi scritti.
Betti fu uno studioso non interessato alle materie legali, quanto interessato a vedere le
interconnessioni fra le scienze umane e i loro nessi profondi. Egli era deciso a non
rinchiudersi nella sua specialità, ma a conservare il contatto tra la storia del diritto e
la storia generale della civiltà e delle idee. Secondo Betti l’eccessiva specializzazione
degli studi perde di vista l’uomo nella sua totalità spirituale, cioè nella sua
formazione spirituale e mentale.
L’uomo di massa è per Betti uno specialista, ma del tutto ignorante di ciò che non
rientra nel limitato campo della tecnica, della scienza o dell’arte; inoltre, egli non
possiede alcun interesse per le scienze dello spirito perché privo di personalità e di
capacità di giudizio, contro la specializzazione settoriale, la parcellizzazione delle
idee che portavano a sapere tutto del dettaglio, ma che nulla sapeva del quadro entro
cui il dettaglio gravitava.
In riferimento alla situazione in Italia Betti osserva che nella facoltà di giurisprudenza
l’insegnamento è frantumato in una serie di discipline non legate tra loro; anche la
terminologia di ciascuna è diversa. Lo studio della giurisprudenza secondo Betti non
educa giuristi autentici.
Le cose non andavano meglio in Germania: il diritto romano era in Italia, Germania e
in generale in Europa studiato in maniera troppo storicista o settoriale, o comunque
non studiato a sufficienza. Betti maturò ben presto la convinzione che lo studio del
diritto romano non dovesse andare disgiunto da quello del diritto odierno. Egli svolse
un’attività non specialistica ma eclettica, cioè si occupò di storia, filosofia, arte, ecc..
Egli considerava le norme giuridiche degli strumenti della vita sociale e l’ordine
giuridico un organismo in continua trasformazione che segue e rispecchia da vicino il
movimento delle trasformazioni della vita sociale.
L’atteggiamento di Betti si inseriva nel processo di revisione apertosi nel secondo
dopoguerra all’interno della scienza giuridica italiana. La revisione riguardava
soprattutto la rimozione del divario esistente fra diritto e filosofia del diritto. La
filosofia giuridica italiana era dominata dalla preoccupazione di giustificare la propria
legittimità e autonomia tanto nei confronti della scienza quanto nei confronti della
filosofia. La giurisprudenza italiana aveva la tendenza a rimanere chiusa nel proprio
settore, chiusura che aveva comportato e comportava l’estraneamento di essa rispetto
a quel movimento di revisione di metodi, compiti e fondamenti.
Grandi esponenti della tradizione giuridica come il Bonfante ed altri avevano una
concezione del fenomeno giuridico che implicava un profondo impegno di ordine
filosofico. Tra questi giuristi troviamo betti la cui opera aggiunge a tutto ciò l’apporto
di una mentalità e di una sensibilità più aperta e cosmopolita. Il taglio internazionale
dei suoi studi gli consentì di rappresentare un trait d’union fra le esperienze straniere
e il mondo accademico italiano. Betti elabora una teoria ermeneutica negli anni 195154 proponendo alla facoltà di giurisprudenza di Roma di riconoscere nello statuto
universitario un istituto di teoria dell’interpretazione. La nascita di questo istituto
voluto da Betti rientrava nell’esigenza di anti-specializzazione, ma soprattutto in
quell’esigenza di libertà che accompagnò sempre la sua opera: rivendichiamo
all’insegnante e all’educatore la libertà di manifestare il proprio pensiero. Sempre nel
1955 Betti pubblica le lezioni tenute nei suoi anni d’insegnamento, nasce la sua
“teoria generale dell’interpretazione”, il cui intento era quello di analizzare i processi
conoscitivi adottati dalle varie scienze dello spirito. Betti intendeva costruire una
scienza avente lo scopo di indagare la natura del conoscere scientifico, le sue leggi e i
valori di verità da raggiungere e di indagare sui metodi, la cui osservazione garantisce
la rettitudine e controlla l’esito epistemologico. A suo parere l’oggetto delle scienze
dello spirito è diverso da quello delle scienze della natura: in quest’ultime l’oggetto è
esterno all’io, nelle prime è il soggetto che viene ad assolvere il ruolo di oggetto;
l’interprete partendo dalla propria spiritualità deve riconoscere quella altrui,
rispettandone l’alterità.
L’ermeneutica per Betti intesa come metodica generale delle scienze dello spirito.
Egli inizia ad apprezzare e approfondire i suoi studi giuridici a partire dal diritto
romano;l’aspetto fondamentale di questo diritto consisteva nel suo grande valore
storico e culturale che però non bisognava ridurre ad un morto diritto del passato.
Il diritto romano serviva infatti ad esercitare il principiante ed addestrarlo al
ragionamento giuridico, essendo esso uno strumento efficace di educazione giuridica.
Contro gli abusi, le deviazioni, i rischi che l’applicazione del metodo esclusivamente
erudito poteva presentare.
La dogmatica giuridica (il complesso di astrazioni concettuali) è dunque
indispensabile innanzitutto nella formulazione delle norme con le quali si stabilisce
che al verificarsi di un determinato tipo di fattispecie (cioè di particolari casi concreti
viene corrispondere un determinato tipo di trattamento giuridico). La dogmatica può
avere anche un compito puramente conoscitivo; il ricorso ad essa risulta
imprescindibile e funzionale rispetto allo studio storico.
Lo storico del diritto romano nel Novecento deve adoperare la dogmatica odierna.
Betti chiarisce questa espressione facendo una distinzione su due livelli: 1)dogmatica
del diritto moderno, complesso di concetti e principi; 2)mentalità giuridica odierna,
quella preparazione, quelle categorie giuridiche generali che un giurista possiede e
attraverso la quale conosce e interpreta il fenomeno giuridico.
Per Betti è un errore credere che chi adopera determinati mezzi tecnici possieda una
chiara consapevolezza degli stessi.
Una parte della nuova ermeneutica è più teologica che logica e da questo Betti prende
le distanze. L’ermeneutica di Betti riflette sull’oggettività e la comunicazione con gli
altri. Secondo lui l’opera una volta compiuta non appartiene più all’autore ma diviene
proprietà di tutti coloro che partecipano alla comunione di spiritualità dove l’opera si
inserisce, cioè di coloro che siano in grado di raccoglierne il messaggio e di
prenotarne il senso.
Per ricollegare all’autore la sua opera è necessario mettere in luce il fare demiurgico,
esso richiede al soggetto agente un impegno di dedizione e di sacrificio e mette in
essere un’opera indipendente dell’autore e obbediente a una propria legge autonoma.
I termini del processo sono sempre due: soggetto e oggetto, solo che qui il conoscere
è un riconoscere e un ravvisare l’altrui spirito che parla dello spirito pensante il quale
si sente ad esso affine nella comune umanità.
Nella prolusione del ’27 appare già chiaro l’orientamento bettiano verso una relativa
oggettività dell’interpretazione.
Betti incontrò gli analoghi interessi che portarono Croce ad occuparsi dell’arte:
terreno comune, indagine storiografica(esteticamente e storicamente connotata in
Croce, giuridicamente in Betti). Tra i due ci furono reciproche attestazioni di stima e
concordanza su questioni particolari. Betti subì inizialmente l’influenza di Croce
anche se progressivamente se ne distaccò fino a criticarlo severamente.
Betti fu un acuto studioso di storia dell’arte, del diritto della filosofia, ecc.. Secondo
lui è impossibile riprodurre perfettamente l’opera d’arte stessa, essa viene
continuamente reinterpretata dalle varie epoche storiche e dai vari individui.
Croce recensisce l’opera di Betti esprimendo esplicita adesione alle sue idee e
giudicando storicamente valido il suo metodo. Betti giudica illegittimo il tentativo
crociano di relegare nella sfera della ragion pratica i concetti di leggi e classi
elaborati dall’intelletto nello studio della realtà, quasi che essi (pseudoconcetti)
fossero al servizio del fare e non del conoscere, meri strumenti di orientazioni.
Betti mutato l’atteggiamento nei confronti dello storicismo crociano estende l’uso
della dogmatica in funzione storica a tutti i campi storiografici, quasi che il
suggerimento crociano di estensione del metodo dogmatico-storico fosse stato
inconsciamente accettato da Betti.
Tutta la produzione di Betti è ermeneutica, che egli propugnò e difese attraverso tutti
i suoi scritti. Non c’è dubbio che è la teoria generale dell’interpretazione la sua opera
ermeneutica più completa; con tale opera egli intendeva offrire una serie di
discussioni dei vari problemi ermeneutici. “La teoria generale ermeneutica” è intesa
da Betti come una metodologia che interessa le scienze dello spirito. La precisazione
che i caratteri di tale metodologia devono essere non filosofici ma scientifici dimostra
come Betti ritenga corretto il metodo solo a patto che abbia le caratteristiche di un
sapere rigoroso.
Da questa tensione scaturisce tutta la dialettica del processo interpretativo dove il
raggiungimento dell’oggettività è possibile solo tramite l’impiego della soggettività.
Secondo Betti ogni spirito che agisce o che esprime un pensiero invia un messaggio
che un altro spirito è chiamato a ricevere proprio attraverso le forme interpretative.
Per affermare l’essenza del processo interpretativo e comprendere l’unità bisogna
risalire al fenomeno elementare che si attua attraverso il linguaggio parlato e scritto.
Per raggiungere tale scopo all’interprete si pone il triplice compito di distinguere: 1)o
strumento della forma rappresentativa, cioè la scrittura o l’epigrafe; 2)la forma
rappresentativa in se stessa; 3)il contenuto rappresentato, ossia il senso che viene
espresso attraverso il linguaggio o il simbolo.
Secondo Betti per intendere il senso di un discorso bisogna innanzitutto comprendere
che cosa esso presuppone: è necessario che tra chi parla e chi ascolta ci sia il mutuo
riconoscimento dei soggetti che comunicano tra di loro e dei contesti sui quali si
fonda la totalità del discorso. Il discorso per essere comprensibile deve presupporre
una cerchi comune di parlanti. Attraverso la parola il soggetto prende posizione
rispetto al mondo circostante la cui funzionalità è strumentale e sociale.
Per Betti l’unica vera conoscenza è linguistica; la conoscenza è tale in quanto si
avvale dell’espressione, ed ogni espressione è linguistica perché solo il discorso
parlato offre i mezzi per esprimere qualcosa. Ad esso connesso, il valore semantico
del discorso, ecc..
IL METODO: 4 momenti fondamentali
FILOLOGICO: l’interprete cerca di rendersi conto del costrutto linguistico dell’opera
letteraria o scientifica e cerca di ricostruire il nesso grammaticale e logico del
discorso in se stesso o inquadrato nella totalità della lingua. Il suo fine è intendere il
discorso meglio dell’autore stesso.
CRITICO: integra e supera il momento precedente, si entra in questa fase quando i
criteri filologici sono insufficienti a risolvere determinati problemi posti dal
contenuto del testo. L’intelligenza critica dell’interprete elimina le incoerenze e
contraddizioni e fa assumere compattezza al testo.
RICONOSCIMENTO: l’interprete cerca di trasferirsi nello spirito del testo, nel
mondo interiore del suo autore; il significato, l’intensità di una parola non possono
essere intesi se non nel contesto in cui essa fu detta e si trova.
Non c’è opera d’arte che si possa considerare come un’isola rescissa da tutto il resto.
TECNICO-MORFOLOGICO: consente di cogliere la particolare logica e la legge di
formazione del testo. L’oggetto da interpretare non è solo atto spirituale e momento
di vita, ma contenuto spirituale.
L’opera possiede senso oggettivo e tecnico, in quanto essa rappresenta la soluzione di
un problema costruttivo.
Il riconoscimento ci rimanda a Gadamer per il quale il lettore che riconosce non è il
soggetto ma è la tradizione,la fissazione e la trasmissione di forme rappresentative
mediate cui la cosa parla.
Per Gadamer la tradizione si traduce in storia degli effetti.
Per Betti la tradizione è riproduzione che si offre allo spirito che è chiamato a
ritrovarla e intenderla.
Betti rifiuta di Croce lo storicismo assoluto,lo storicismo crociano nega anche la
possibilità di collegare le opere d arte inserendole nelle correnti di pensiero,nell
ordine dei problemi ecc…; non accetta la contestazione della legittimità di ogni
elaborazione interpretativa. Croce per Betti svaluta la tecnica in quanto rifiuta il ruolo
dei criteri nel processo genetico dell’opera d arte; per Betti il momento del criterio è
fondamentale e senza di esso non si dà interpretazione.
4 CANONI ERMENEURTICI DI BETTI: 1)canone dell’autonomia
ermeneutica,secondo cui il primo compito dell’interprete è rispettare l’alterità
dell’oggetto che ha davanti a se. Questo primo canone costituisce il pensiero-giuda
dell’ermeneutica bettiana; 2)canone della totalità e coerenza della considerazione
ermeneutica; qui l’oggetto è considerato come realtà che costituisce in se una totalità,
ed a sua volta inserita in una totalità; tre totalità ermeneutiche da tenere in
considerazione
nell’atto
dell’interpretazione:lingua,vitae(personalità
dell’autore),sfera di spiritualità a cui l’opera appartiene. 3) canone dell’attività
dell’intendere, l’interprete deve ripercorrere in se stesso il processo genetico e a
ricostruire e risolvere un pensiero, un’esperienza di vita che appartiene al passato; il
senso deve essere ricostruito dalla sensibilità e dall’intelligenza dell’inteprete.
Lo storicismo di Betti è unilaterale,pone l’accento prevalentemente sulla tradizione,
ma poco si sofferma sulla storicità di colui che comprende. Egli non ama l’unità ma il
dualismo. 3)canone dell’adeguazione dell’intendere, strettamente connesso al
precedente; egli consiglia all’interprete di mettere la propria vivente attualità in
intima adesione e armonia col messaggio che gli perviene dall’oggetto. Affinché
questo avvenga il soggetto che interpreta dev’essere simile a quello che gli parla, al
suo stesso livello e l’interprete deve sforzarsi di farsi congeniale a colui che parla.
Gadamer propone un mutamento di prospettiva rispetto alla tradizionale ermeneutica,
ponendo il problema ontologico come primario rispetto a quello epistemologico.
Betti contesta il nuovo modo di concepire l’ermeneutica in Germania. Egli distingue
tre tipi di interpretazione: ricognitiva, il cui intendere è fine a se stesso; riproduttiva,
l’intendere è finalizzato a far intendere; normativa, offre regole e direttive all’azione.
Tradurre per Betti è sostituire una forma rappresentativa non intellegibile con una che
riesca intellegibile ad una cerchia di lettore diversi da quelli a cui era rivolta la prima.
Attraverso la traduzione viene approfondito il senso del discorso originale.
Croce afferma che l’unica interpretazione possibile è quella letterale; invece Betti
rifiuta la traduzione letterale.
Per Gadamer il comprendere è il modo di essere dell’esistenza stessa come tale; egli
non intende limitare il campo dell’applicato alla sola interpretazione normativa come
fa Betti, ma estende questo principio a qualsiasi tipo di comprensione.
Betti non ama l’essere, ma gli uomini. Per Gadamer attraverso il presente si
interpretano i significati degli atteggiamenti del passato; per Betti il presente
incrementa e stimola l’interesse noetico all’intendere ma nella trasposizione.
Gadamer non ha delle riserve profonde nei confronti di Betti, anzi egli si accosta al
suo lavoro con stima. Betti è noto nell’ambiente filosofico tedesco in quanto in
possesso di una perfetta conoscenza della lingua che gli consente di comunicare
direttamente ciò che pensa. Betti è più vicino alla fenomenologia di HARTMANN e
Gadamer a quella di HEIDEGGER.
Quello che per Betti è possibile e per Gadamer no è il rapporto con il passato che
abbia carattere puramente contemplativo. Fra Gadamer e Betti ci sono anche affinità:
il riconoscimento della radicale storicità di soggetto\oggetto, della continuità della
tradizione, della circolarità tra passato e presente.
Per molti critici Betti non riesce a fondere le diverse tradizioni filosofiche che
accoglie nella sua teoria.
Betti dialogando con Gadamer scrive: i nostri differenti approcci si potrebbero
riguardare come singoli cammini concentrici inclusi nell’immenso, sconfinato
universo della conoscenza delle scienze dello spirito.