www.servizisocialionline.it Sezione Articoli di servizio sociale Maxine Gray e Cobra Bubbles… Ma chi è l’assistente sociale? Autore: D.ssa Annalisa Arcolin – giugno 2015 Il tema delle rappresentazioni dell’assistente sociale nei media sta diventando uno dei temi cardine della promozione della professione, tanto da far creare al Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali un’apposita sezione sul sito intitolata proprio “Le rappresentazioni del Servizio sociale nei media”. Tale sezione contiene anche le riflessioni emerse dal Seminario Internazionale tenutosi a Roma il 4 maggio 2015 che ha presentato i primi risultati di una ricerca condotta in Germania, Gran Bretagna e Italia. Il comunicato stampa del CNOAS, relativo a tale evento, recita “Professioni: Assistenti sociali, “troppo spazio alla tv del dolore”.……..Un’ “immagine parafulmine” costretta troppe volte anche a surrogare carenze e mancanze di altri soggetti e che si fa carico delle conseguenze derivanti dalle continue riduzioni delle risorse economiche messe a disposizione dalle istituzioni. Quella del comunicare sul proprio agire professionale è – comunque ‐ una sfida interessante e non eludibile, volta a de‐costruire proprio quelle rappresentazioni e quegli stereotipi negativi sedimentati nel tempo.” La rappresentazione della professione, quindi, è imprescindibilmente collegata alla comunicazione. È necessario ricostruire il senso della parola “comunicazione” per comprendere come questa possa influire sulla visione dell’assistente sociale e della professione. L’etimologia della parola “comunicazione” deriva dal latino “communicare” e “communicatio” (da cum+ munere e dal greco koinonia) ed ha il significato di condividere, trasmettere, partecipare rinchiudendo in sé un’intenzione, un’azione ed una condizione che permette la trasmissione delle informazioni, la soddisfazione di un bisogno umano, d’interazione sociale sempre più caratterizzata dall’utilizzo di mezzi tecnologici e mediatici. Detto questo, non bisogna dimenticare che il soggetto nella comunicazione ha sempre un ruolo attivo e contribuisce, non determina, alla costruzione di significati condivisi (i significati sono invece determinati dalla comunicazione stessa e dal contesto di riferimento). Gli assistenti sociali conoscono bene il valore della comunicazione e la valorizzano all’interno di strumenti tipici della professione come, ad esempio, il colloquio. Il valore “professionale” della comunicazione richiede la consapevolezza dell’operatore del senso di condividere, di trasmettere, di partecipare al fine di raggiungere un obiettivo che è reciprocamente accettato dagli interlocutori. Ma qual è l’obiettivo dell’assistente sociale? Il codice deontologico ci dice che “La professione è al servizio delle persone, delle famiglie, dei gruppi, delle comunità e delle diverse aggregazioni sociali per contribuire al loro sviluppo; ne valorizza l’autonomia, la soggettività, la capacità di assunzione di responsabilità; li sostiene nel processo di cambiamento, nell’uso delle risorse proprie e della società nel prevenire ed affrontare situazioni di bisogno o di disagio e nel promuovere ogni iniziativa atta a ridurre i rischi di emarginazione.” Chiarito ciò, rimane da chiedersi perché l’assistente sociale non riesce a comunicare adeguatamente la propria professionalità, il proprio agire ed i macro obiettivi tipici della professione. Da studi condotti dalla Fondazione per la Comunicazione Sociale “Pubblicità Progresso” emerge che “La comunicazione sociale si riferisce ad attività finalizzate ad avvicinare i cittadini a norme o servizi: le attività che promuovono valori o diritti; quelle di chi fa rappresentanza socio-economica; le attività delle imprese quando comunicano qualcosa di non commerciale. Scopo della comunicazione sociale è quello di aumentare il livello di consapevolezza e conoscenza dei cittadini relativamente a problemi di interesse generale, anche nella prospettiva di modificare comportamenti o atteggiamenti“ (http://www.pubblicitaprogresso.org/pubblicazione/per-comunicare-la-complessita-serve-illinguaggio-giusto/). Gli “interessi” degli assistenti sociali, sono proprio quelli di promuovere servizi, valori, diritti, aumentare il livello di consapevolezza rispetto a problemi di interesse generale e modificare comportamenti o atteggiamenti che in qualche modo possono aumentare il rischio di disagio. Altro tema preponderante nella visione delle professione è quello degli stereotipi. Chiara Saraceno, nella lectio magistralis “Gli stereotipi: una gabbia cognitiva con rilevanti effetti pratici”, afferma che “uno stereotipo è una opinione precostituita su persone e gruppi, che prescinde dalla considerazione dei singoli casi. È l’esito di un processo di ipergeneralizzazione e ipersemplificazione per cui si attribuiscono a tutti gli individui che hanno determinate caratteristiche (spesso una sola) – il sesso, il colore della pelle, la religione, l’etnia, la nazionalità, una disabilità – modi di essere, competenze e incompetenze, comuni, prevalenti rispetto alle loro caratteristiche e differenze individuali. Queste attribuzioni non sono fondate su alcuna evidenza empirica solida, tantomeno su una consapevolezza dei processi sociali che soggiaciono alla eventuale maggiore prevalenza di una determinata caratteristica comportamentale in un gruppo piuttosto che in un altro…….Per uscire dagli stereotipi e valorizzare effettivamente le differenze occorre che l’esistenza di queste venga concepita insieme come la normalità dello stare al mondo, di cui occorre tenere conto nelle pratiche organizzative, di valutazione e di comunicazione, e come una dimensione plurale e dinamica. Tutti hanno una qualche differenza. Nessuno deve essere discriminato in base ad una sua differenza, ma neppure appiattito e congelato nella, o nelle, proprie differenze”. In quest’ottica nessuno di noi si porrebbe il problema di consultare un medico per un malessere o di rivolgersi al meccanico di fiducia per fare il tagliando alla propria auto, ma si porrebbe diversi interrogativi e resistenze a rivolgersi all’assistente sociale anche solo per chiedere informazioni sui servizi a cui potrebbe accedere. Questo probabilmente perché gli stereotipi legati alla professione vedono gli assistenti sociali come ladri di bambini, freddi burocrati, distratti esecutori delle regole del sistema, oppure, all’estremo opposto, eroi, amici, o, ancora, missionari che si donano completamente alla causa dei più deboli. Elena Allegri ha dedicato una pubblicazione all’immaginario dell’assistente sociale così come descritto dai media e dalla narrativa (Le rappresentazioni dell'assistente sociale. Il lavoro sociale nel cinema e nella narrativa. Caroccifaber 2006) dal quale, fra l’altro, emerge chiaramente che la televisione riflette opinioni, percezioni e rappresentazioni presenti nel sistema sociale creando una relazione diretta tra ciò che viene trasmesso (o meglio comunicato) e ciò che viene considerato “attraente”. In particolare i programmi televisivi comprendono diverse serie televisive, film anche di animazione, molti di produzione americana, che rappresentano spaccati di vita lavorativa e personale di professionisti tra i quali anche l’assistente sociale. Un esempio fra tanti potrebbe essere rappresentato da Maxine Gray, più nota come la madre del “Giudice Amy”. La serie televisiva statunitense racconta la storia di un giudice minorile, Amy Gray, e della madre Maxine, assistente sociale, narrando le vicende professionali delle due protagoniste, alle prese con le difficoltà giudiziarie nel sistema minorile, intersecate a vicende legate alla loro vita privata e sentimentale. In tale telefilm l’assistente sociale non viene connotata come figura negativa, ma bensì molto dedita al lavoro che svolge, a volte con modalità poco ortodosse e non sempre nel pieno rispetto delle regole. Se è vero che nella serie televisiva il ruolo dell’assistente sociale è limitato alle funzioni di tutela minorile, con l’esecuzione di diversi allontanamenti dal contesto familiare, è altrettanto vero che Maxine viene vissuta come una professionista di grande competenza ed attenta anche ai più piccoli segnali di disagio, tanto da guadagnarsi l’assoluta fiducia del proprio responsabile ed effettuando interventi “magicamente” risolutivi delle situazioni di disagio minorile. Inaspettata, per certi versi sconvolgente e sicuramente creativa è la figura dell’assistente sociale proposta nel film d’animazione della Disney “Lilo & Stitch” nel quale Cobra Bubbles, ex agente della CIA diventato un assistente sociale, fa visita a Nani, dopo la morte dei genitori, per determinare se è in grado di prendersi cura della sorella Lilo. L’approccio è inizialmente duro, d’impatto e crea molta paura in Nani, ma dopo varie vicissitudini fantastiche si scopre che il compito di Cobra non è quello di dividere la famiglia, ma bensì di proteggerla. Interessante per capire la rappresentazione dell’assistente sociale è anche il progetto “Social Workers go to Hollywood – Quando gli assistenti sociali incontrano Hollywood” che, partendo dall’analisi della professione, propone una visione multisfaccettata dell’assistente sociale attraverso quanto emerge dai fumetti, dalle canzoni, dai film ed i telefilm, arrivando alla conclusione che l’assistente sociale è generalmente donna e vista come arcigna ed intransigente o, al contrario, coinvolta emotivamente e a volte sentimentalmente. A fronte di tali evidenze come comunicare la professione? Domanda complessa e probabilmente con più risposte ed interpretazioni. Credo che la conoscenza di come viene descritta l’assistente sociale permetta di avere una quadro chiaro di come si viene “visti”, ma questo non basta. Occorre fare un salto e diventare comunicatori e imprenditori di se stessi, utilizzando l’osservatorio privilegiato che ognuno di noi ha all’interno del proprio contesto lavorativo. Sarebbe interessante poter proporre alla collettività un’immagine dell’assistente sociale in positivo, nel senso di comunicare non cosa non è o cosa non fa l’assistente sociale, ma bensì chi è e cosa fa l’assistente sociale. Un’assistente sociale promotore di empowerment in un’ottica auto ed etero percettiva, plurale e dinamica, della professione. Potrebbe essere una sperimentazione interessante quella di utilizzare la pubblicità per permettere alla comunità a cui ci rivolgiamo di comprendere cosa facciamo e tentare così di comunicare all’esterno la complessità che gli operatori fronteggiano quotidianamente. “La più semplice delle verità è così complessa che nessuna formula la esprime, e per esprimersi ha bisogno del contesto globale di una persona e di una vita.” Nicolás Gómez Dávila, Tra poche parole, 1977/92 Dott.ssa Annalisa Arcolin 12.06.2015