Gianna Prosperi LA VITTIMOLOGIA E LA VITTIMA “CULTURALE” IL CASO PARADIGMATICO DELLE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI Copyright © MMX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–3067–7 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: febbraio 2010 INDICE Prefazione ......................................................................... 13 Introduzione ...................................................................... 15 Capitolo I L’enigma multiculturale 1. Cultura, identità e convivenza fra culture..................... 2. Multiculturalismo, società multiculturali e riconoscimento ............................................................ 3. Universo femminile, diritti umani e multiculturalismo 17 34 47 Capitolo II La donna nel dialogo interreligioso 1. Donna e religione ........................................................ 2. Donne: vittime inconsapevoli dell’universo maschile 3. Rispetto delle tradizioni o comportamento deviante? . 53 62 68 Capitolo III La vittimizzazione “culturale” 1. Vittima e vittimologia ................................................. 73 2. L’approccio positivista, radicale e critico ................... 87 3. I prodromi della vittimologia radicale o dei diritti umani 91 3.1. L’ambiente sociale secondo Mendelsohn ................................ 93 9 10 Indice 4. La “vittima culturale”: Elias ........................................ 5. La “vittima culturalmente legittimata”: Fattah ............ 96 102 Capitolo IV Le mutilazioni genitali femminili 1. La circoncisione maschile e femminile ....................... 2. Le mutilazioni genitali femminili ................................ 2.1. Le motivazioni. Tradizione, religione, cultura ......................... 2.2. I luoghi .................................................................................... 2.3. Le conseguenze ....................................................................... 2.3.1. Complicazioni sessuali ......................................... 2.3.2. Complicazioni psico–sociali ....................................... 113 124 135 147 160 163 167 Capitolo V Il centro “Careggi” 1. La situazione in Italia .................................................. 2. Il caso “Careggi” ......................................................... 3. Il Centro “Careggi” e l’analisi qualitativa ................... 4. Il Rito Alternativo. Una possibile mediazione culturale? 5. Alcune considerazioni sul rito alternativo ................... Appendice ......................................................................... 169 173 181 188 192 198 Capitolo VI L’evoluzione giuridica della risposta istituzionale al fenomeno 1. Il quadro internazionale ............................................... 2. La legislazione italiana anteriore alla legge 7/2006 .... 3. La legge 7/2006 ........................................................... 209 217 220 Indice 11 Capitolo VII Esempio paradigmatico di vittimizzazione “culturale”? Bibliografia ....................................................................... 239 Webgrafia .......................................................................... 247 12 Indice CAPITOLO I L’ENIGMA MULTICULTURALE SOMMARIO. 1. Cultura, identità e convivenza fra culture. – 2. Multiculturalismo, società multiculturali e riconoscimento. – 3. Universo femminile, diritti umani e multiculturalismo. 1. Cultura, identità e convivenza fra culture Il concetto di cultura è sicuramente uno dei concetti più importanti ed insieme complessi per la sua centralità all’interno della riflessione delle scienze sociali e al contempo, dibattuti per l’intricata e troppo ampia definizione. È difficile affermare tuttora se la cultura sia un fattore aggregante o disgregante. D’altronde lo dimostrava già Sellin nel 1938 con la sua “Teoria sui conflitti culturali” in cui era proprio la cultura a preparare il terreno per un probabile comportamento deviante o criminoso dei migranti, oltre che a minare le basi di una possibile socializzazione con le popolazioni ospitanti, e a creare disgregazione, pregiudizi, discriminazioni e rigetto piuttosto che aggregazione, accettazione e rispetto. Teoria che trova il suo equivalente nel concetto di “culture shock” di Oberg che mette a nudo le cause del disagio dato dal contatto con le “culture altre” inevitabile caratteristica delle attuali società multiculturali1. 1 PASQUINELLI C., Infibulazione, Meltemi, Roma 2007, p. 32. L’autore chiama in causa ciò che Oberg definisce “culture shock” ovvero il disagio e la frustrazione che il contatto con una cultura straniera può generare. Infatti, entrare in un Paese straniero con un bagaglio culturale che pone in evidenza la propria diversità può creare una reazione di rifiuto nel popolo ospitante e senso di inadeguatezza con conseguente frustrazione e ansia, un vero shock per lo straniero nella comunità ospite. Secondo Oberg tale shock non è immediato ma graduale poiché ripercorre quattro momenti: luna di miele o euforia, crisi, recupero e adattamento. Il primo stadio si esplica inizialmente, quando l’arrivo in un nuovo paese genera euforia, curiosità per la nuova cultura che rappresenta una continua ed eccitante scoperta, tuttavia a questo momento segue una fase di crisi data dalla reazione di rifiuto del popolo ospitante o dall’insorgere di problemi di diversa natura, che provoca ansia, isola- 17 18 Capitolo I In molti si sono pronunciati sul concetto di cultura cercando di darne una possibile definizione, ma quale fra tutti può essere considerata quella che più rispecchia le reali potenzialità e complessità descrittive ed esplicative del termine? La parola “cultura” è stata e continua tuttora ad essere applicata a disparate realtà assumendo, ovviamente significati diversi, a volte opposti. Tuttavia, se vogliamo cercare di comprendere il senso attuale del concetto di cultura e la sua utilizzazione nelle scienze sociali, risulta fondamentale ricostruire la sua origine. La prima definizione del concetto di cultura si deve a Taylor che la definisce come «quel complesso insieme che include conoscenze, fede, arte, morale, legge, usanze e altre capacità acquisite dall’uomo come membro della società» 2 . La cultura quindi, parte integrante di ogni singolo attore sociale che determina assieme a fattori individuali, etici e sociali il comportamento, sarebbe data da un insieme di modelli astratti di valori e norme morali e comportamentali appresi direttamente o indirettamente attraverso l’interazione sociale3. Parsons definiva tale aspetto come il “carattere normativo della cultura” che collega la stessa alle componenti motivazionali dell’azione, fornendo così agli individui gli elementi per orientare il proprio comportamento. Affinché la cultura abbia questa funzione regolatrice, che faccia da “bussola” è necessario che vi sia alla base un sistema di valori solido, riconosciuto e accettato dalla maggioranza4. D’altronde la cultura, veniva evidenziata da Parsons come mento e forte nostalgia per la cultura di origine. Tale fase risulta determinante poiché da essa dipenderà la permanenza nel nuovo Paese o il rientro nel Paese d’origine. Se la fase di crisi ha un risvolto positivo, ad essa seguirà la fase di recupero caratterizzata da una sempre maggiore comprensione ed accettazione dei tratti caratteristici della cultura ospitante e soprattutto di quei tratti culturali che differiscono dai propri creando a volte una netta contrapposizione tra le due culture. Ha inizio così la quarta ed ultima fase di adattamento in cui si cerca di vedere le differenze culturali del Paese ospitante sotto una luce diversa che non è quella del rifiuto ma quella della tolleranza, adattandole al proprio stile di vita e cercando di fissare un ponte tra i due mondi. Si veda Oberg K., Culture shock: adjustment to neo–cultural environments, Practical Anthropology, 1960. 2 Così come richiamato in PONTI G., Compendio di criminologia, Raffaello Cortina, Milano 1999, p. 153. 3 Ibidem. 4 SCIOLLA L., Sociologia dei processi culturali, il Mulino, Bologna 2002, p. 52. L’autore tiene a riportare il pensiero di Parsons a proposito del concetto di cultura che accanto ad L’enigma multiculturale 19 uno dei sottosistemi che agiscono sull’azione sociale assieme alla personalità, il sistema sociale e l’organismo biologico. Essa svolge, secondo il sociologo, una funzione latente cioè fornisce all’individuo le direttive per l’azione sociale, apprese attraverso l’interiorizzazione e la socializzazione. È latente perché non agisce direttamente sull’azione ma dall’esterno anche se in maniera pregnante 5 . L’uomo, quindi, è plasmato dalla cultura poiché questa gli permette non solo di adattarsi al proprio ambiente, ma di modificare lo stesso addirittura ai bisogni del singolo, attraverso una parziale o totale trasformazione della natura. Il concetto di cultura pone fine alle spiegazioni “naturalizzanti” dei comportamenti umani poiché la natura è interamente interpretata dall’uomo attraverso la cultura. Niente è puramente naturale nell’uomo, anche ciò che è fisiologico fame, sonno, desideri, vengono regolati dalla cultura e le risposte naturali a questi bisogni potrebbero anche essere l’opposto delle risposte sociali agli stessi. È evidente, quindi, come ogni tipologia di comportamento sia in gran parte culturalmente orientata6. Il comportamento umano è ritenuto, in tale prospettiva, quasi del tutto esenun carattere adattivo, cioè quell’insieme di usi e costumi che favoriscono il rafforzamento nonché la sopravvivenza nel tempo di un determinato gruppo sociale, ne mostra un carattere astratto, di costrutto, definito normativo che è necessario verificare all’interno dei meccanismi sociali ai fini dell’indagine ma che non esiste come realtà direttamente constatabile. Così Parsons ne Il sistema sociale afferma: «La cultura è costituita – nei termini dello schema concettuale di quest’opera – da sistemi strutturali o ordinati di simboli che sono gli oggetti dell’orientamento dell’azione, da componenti interiorizzate della personalità dei soggetti agenti individuali, e da modelli istituzionalizzati dei sistemi sociali. I termini in base a cui sono qui analizzati i fenomeni culturali rappresentano – come accade per qualsiasi altra componente dei fenomeni dell’azione – costrutti teorici che lo scienziato sociale impiega per ordinare le sue osservazioni, per formulare i suoi problemi e per dare una cornice concettuale alle sue interpretazioni». Si veda Parsons T., The Social System, The Free Press, New York 1951; trad. it., Il sistema sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1981, pp. 335–336. 5 Ivi, pp. 52–53. Parsons delineò il cosiddetto schema AGIL per evidenziare gli elementi che concorrono all’azione sociale, mostrando di questi le funzioni. Così l’organismo biologico svolge la funzione dell’adattamento (A), stabilisce cioè un rapporto con l’ambiente fisico che viene modificato in base ai bisogni, adattati ovviamente all’azione sociale; la personalità svolge la funzione del conseguimento (G) cioè utilizza le energie e le risorse per conseguire dei fini; il sistema sociale pone in essere la funzione dell’integrazione (I) in quanto definisce le forme di coesione sociale e di solidarietà; la cultura, infine dispiega la funzione della latenza (L) già enunciata nel testo. 6 CUCHE D., La nozione di cultura nelle scienze sociali, il Mulino Itinerari, Bologna 2003, pp. 7–8. 20 Capitolo I te dal controllo genetico. Soltanto in minima parte è istintivo, abbiamo difatti, risposte incondizionate a stimoli o anche bisogni fisiologici innati ma per soddisfarli viene svolta una serie complessa di azioni interamente appresa, interiorizzata e socialmente orientata. La capacità di apprendimento di cui è dotato l’essere umano mette a sua disposizione un’ampia gamma di reazioni e comportamenti previsti dalla società e cultura di appartenenza. Se allora il comportamento umano non è programmato geneticamente, cosa gli dà una forma? Ci può dare una risposta la nozione di cultura di Kluckhohn secondo cui «il concetto di cultura è reso indispensabile dalla documentata plasticità degli esseri umani. […] Anche processi apparentemente biologici come starnutire, camminare, dormire e altro, possono essere svolti secondo modalità specifiche». Questo tipo di comportamento appreso, che nei suoi aspetti specifici è comune a un gruppo di persone, trasmesso dalle generazioni più vecchie alle nuove, o da un gruppo ad un altro è detto “cultura”7. Kuckhohn, inoltre, definisce la cultura con svariate definizioni che contribuiscono a creare un insieme difforme, frantumato e multisfaccettato. Così afferma che la cultura è: “il complessivo modo di vivere di un popolo”; «l’eredità sociale che un individuo acquisisce dal suo gruppo»; «un modo di pensare, sentire e credere»; «un’astrazione derivata dal comportamento»; «una teoria formulata dall’antropologo sul modo in cui effettivamente si comporta un gruppo di persone»; «un deposito del sapere posseduto collettivamente»; «una serie di orientamenti standardizzati rispetto a problemi ricorrenti»; “un comportamento appreso”; «un meccanismo per la regolazione normativa del comportamento»; «una serie di tecniche per adeguarsi sia all’ambiente sia agli altri uomini»; “un precipitato di storia”; “una mappa, un filtro, una matrice”8. La cultura è pertanto un insieme di modelli non concreti, una serie di meccanismi di controllo “extragenetici ed extracorporei” che “orientano” il comportamento dell’uomo e 7 8 SMELSER N.J., Manuale di sociologia, il Mulino, Bologna 1995, p. 38. GEERTZ C., Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1998, pp. 10–11. L’enigma multiculturale 21 fanno di lui un’animale assolutamente dipendente da essi9. Gli uomini, quindi, non sono altro che degli animali incompleti che solo attraverso la cultura si completano e si perfezionano e lo fanno grazie alla loro estrema duttilità e grande capacità di apprendimento10. La cultura pertanto, ci completa, è dappertutto ed in particolare è nella nostra mente, ogni immagine nella nostra testa rappresenta la cultura; queste differiscono fra gli individui che vivono in società avanzate tecnologicamente e quelli che invece vivono nelle società ancora tribali. Secondo Laudin, che forse per primo ha cercato di parlare esplicitamente delle “vittime della cultura”, la cultura ha al suo interno cinque livelli e poiché sono presenti in tutte le culture, in tutte le società, possiamo chiamarli “elementi comuni dell’umanità”11. Tale analisi è interessante. Secondo Laudin, come in una piramide alla base abbiamo un livello biopsicologico, la fondazione biologica delle relazioni umane; età, sesso, razza, salute e abilità generali per le funzioni nelle situazioni sociali, sono fattori biologici non correlati, come tali, alla cultura. Questi sono universali e sono alla base del secondo livello. Tale secondo livello è rappresentato dall’ideologia che comprende i valori e le credenze. Queste rappresentano le linee guida sociali e personali che ci permettono di vivere in una società. Il livello successivo è quello attitudinale, ovvero il modo in cui tendiamo a guardare la vita stessa in tutte le sue dinamiche. Possiamo così tendere nelle esperienze quotidiane della vita, ad essere ottimisti o pessimisti, fiduciosi o sfiduciati, sicuri o insicuri. Il quarto livello di questa piramide immaginaria è inerente al comportamento. Esso è correlato ad altri tre livelli più bassi. Ci comportiamo in accordo al contesto sociale in cui siamo inseriti, se la società è liberale o restrittiva nelle sue visioni sulle persone, siano esse dalla pelle chiara o scura, se maschi o femmine e se tutto ciò può fare la differenza in termini di impiego o di altre 9 Ivi, p. 58. Ivi, p. 64. LAUDIN H., Victims of culture, Charless E. Merril Publishing Company, Columbus, Ohio 1973, pp. 7–10. 10 11 22 Capitolo I aspettative sociali e se le ricompense culturali alte o basse debbano andare a coloro che sono belli o molto intelligenti, a chi suona in modo eccellente o a chi, pur handicappato fisicamente è ritenuto di grande interesse ed importanza tanto quanto coloro i quali non sono impediti fisicamente. Infine, al quinto livello vediamo diverse situazioni sociali. Queste sono funzionali ai quattro livelli più bassi. I sociologi studiano le situazioni a volte senza sufficiente consapevolezza dei fattori bio–psicologici dai quali gli esseri umani sono motivati o scoraggiati, eccitati o depressi, pieni di sentimenti di disperazione o forti abbastanza da superare la disperazione e trattare un problema con coraggio. Possiamo considerare questi cinque livelli o variabili umane, in maniera più approfondita. Il primo livello della cultura è dato da un’associazione di fattori che comincia con la biologia e per estensione o implicazione, include la psicologia. Tutti gli esseri umani elaborano o esperimentano la cultura nello stesso modo biologico, proprio come una macchina fotografica, non importa quanto sia costoso, registra le immagini. La base biologica–psicologica della cultura può essere chiamata “situazione bio–psicologica”, per beneficio di convenienza. Tale termine si riferisce al comportamento umano non facilmente osservato dagli altri e del quale la persona coinvolta potrebbe persino non essere consapevole. Simile comportamento spesso può essere tracciato dai sistemi di valori e credenze attraverso cui le persone sono funzionali alla società, nel secondo livello di cui si è detto. Per esempio, un individuo potrebbe avere una propensione al pregiudizio verso altri individui; questo pregiudizio può essere positivo, negativo o neutrale. Potrebbe odiare qualcuno solo perché ha un colore della pelle diverso, ha un particolare sguardo, cammina differentemente o potrebbe sembrare di comportarsi in modo troppo femminile. Quando si hanno queste inclinazioni verso pregiudizi negativi, questi potrebbero essere la causa di valori e credenze che si adottano come propri, nell’orientamento della famiglia, da parenti vicini o dall’acculturazione. I valori e le credenze rappresentano la stima e l’attenzione che ognuno di L’enigma multiculturale 23 noi ha nei confronti di talune idee e l’accettazione della validità di un’idea mostra le ideologie caratteristiche degli individui; le ideologie possono anche caratterizzare gruppi, organizzazioni, istituti o la totalità della società in sé. Esse, dunque, possono influenzare la totalità della cultura e il loro studio come scienza, includere una ricerca sulle origini, sull’evoluzione e sull’espressione delle idee umane. L’ideologia o la “situazione ideologica” potrebbe essere il secondo livello se potessimo costruire una “struttura culturale”. Il terzo livello della cultura è rappresentato dalle attitudini. Queste, possono essere coscienti o incoscienti, processi che potrebbero sia precedere che seguire il comportamento o le altre due situazioni: quella biopsicologica e quella ideologica. Le attitudini che non sono osservabili, interagiscono con il comportamento ad esempio, il pregiudizio è un’attitudine che interagisce con la discriminazione, un comportamento. Un’attitudine è uno stato della mente, un modo di considerare una persona, una cosa, un’idea. Le attitudini sono alimentate dai valori e dalle credenze. Una volta formatasi è difficile modificare un’attitudine, così potrebbe essere più faticoso cambiare un’attitudine in una persona anziana piuttosto che in un bambino. Questo il perché dell’importanza delle prime esperienze dell’infanzia per la formazione dei valori e delle credenze umane che, a turno strutturano le attitudini. Il quarto livello della cultura è dato dal comportamento. Il comportamento è connesso alle attitudini proprio come è anche collegato alle ideologie o ai nostri valori e credenze. Non è un dato scientifico sapere che il comportamento è causato dalle attitudini, a meno che, attualmente, non si provi ciò come dato certo. L’approccio migliore da considerare è che le cinque variabili sono tutte interrelate fra loro in una struttura molto dinamica. Le relazioni fra questi fattori sono una struttura prodotta possibilmente dalle operazioni del cervello biologico e della mente culturale. Guardiamo intorno a noi e osserviamo la gente comportarsi in tutti i tipi di situazioni sociali lavorando, correndo, sorridendo, parlando, sedendo e stando fermi. Inoltre, “ascoltiamo” la gente fare molte delle stesse cose e possiamo supporre 24 Capitolo I che quando non stanno facendo ciò che possiamo vedere o sentire, lo stanno pensando. Anche questo pensare è una forma di comportamento che si esplica nella nostra testa. La complessa situazione biopsicologica, attitudinale e comportamentale rappresenta la situazione sociale della persona stessa. Questi quattro fattori, quando combinati con la situazione ideologica creano un tipo di relazioni dinamiche che includono la situazione sociale in sé. La cultura, quindi può essere considerata come una complessa base di fattori sempre presenti negli esseri umani. E poiché sono sempre presenti possiamo chiamarli umani. La situazione umana prevede un’interazione fra fattori variabili quali situazionali, biopsicologici, ideologici, attitudinali, comportamentali e sociali; l’umanità è un cerchio in cui le cinque variabili sono sempre presenti. La cultura è la mente e la società è il comportamento della gente in accordo con l’insieme delle menti comprese nei contesti che chiamiamo situazioni sociali12. Questo approccio seppur non teoreticamente orientato illustra molto bene che la cultura è ciò che struttura la vita umana nelle sue diverse sfaccettature e dinamiche. Kluckhohn sottolinea, inoltre, che essa non è acquisita con i mezzi biologici ma creata e insegnata soprattutto perché deve essere trasmessa di generazione in generazione creando così un importante processo, fondamentale per la socializzazione, di interiorizzazione delle norme, dei valori, delle opinioni13. Così ogni individuo eredita la “sua” cultura, l’elemento che distingue la società di cui egli stesso è membro; ma questa appartenenza ha un prezzo ovvero il condizionamento che l’individuo subisce e dal quale potrebbe potenzialmente prendere le distanze scegliendo le mete più conformi ai propri bisogni, ai bisogni ovvero di un individuo che in quanto uomo è unico ed irripetibile. 12 LAUDIN H., Victims of culture, Charless E. Merril Publishing Company, Columbus, Ohio 1973, pp. 7–10. 13 SMELSER N.J., Manuale di…, op. cit., p. 39. L’enigma multiculturale 25 Tuttavia, sono innumerevoli le potenzialità che l’uomo possiede e che non sono manifeste, pertanto diventa quasi impossibile “reagire alle condizioni”, divergere dalla cultura. È molto più semplice essere in linea con essa e lasciare che quest’eredità eserciti in toto il suo potere14. In quanto plasma la personalità di coloro che vi appartengono, la cultura esercita, di certo, un notevole controllo sul loro comportamento. D’altronde non era Freud ad evidenziare la presenza in noi di un “SuperIo” quale arbitro morale frutto di tutti i parametri sociali che ognuno di noi interiorizza, pronto a sanzionare le azioni che non rispecchiano tali parametri? Geertz, infatti, proprio sulla base di questa constatazione definisce la cultura come «un insieme di meccanismi di controllo, schemi, prescrizioni, regole, istruzioni, per governare il comportamento». Gli esseri umani devono alla cultura il potersi rifare ad una serie di comportamenti ordinati e orientati ad un fine, se così non fosse, il comportamento sarebbe ingovernabile perché dato da un insieme di atti sconnessi e caotici15. Tuttavia, se la cultura controlla il comportamento umano oltre anche certi limiti, si può arrivare a definirla come “istanza repressiva” o come “cultura vittimizzante”? Freud ha esplorato il conflitto tra la cultura e il lato istintivo della natura umana. La cultura spesso reprime le pulsioni soprattutto quelle sessuali e aggressive anche se non lo fa mai totalmente ma definendo delle condizioni che possono portare a delle gratificazioni 16 . Può spingere a realizzare determinati comportamenti che anche se irrazionali e vittimizzanti, vengono posti sotto una particolare ottica tale, da farli apparire non solo gratificanti ma indispensabili per essere riconosciuti come appartenenti ad un data comunità culturale. La cultura, tuttavia, pur potendo modellare il comportamento umano è, di fatto, limitata da un certo numero di fattori come le 14 CRISCENTI A., Complessità sociale e pedagogia critica, in Pennisi A. (a cura di), La giustizia penale minorile: formazione, devianza, diritto e processo, Giuffrè, Milano 2004, p. 4. 15 SMELSER N.J., Manuale di…, op. cit., p. 39. 16 Ivi, pp. 39–40. 26 Capitolo I limitazioni biologiche dell’organismo umano, i limiti delle capacità individuali riguardo l’apprendimento o la memorizzazione di informazioni, l’ambiente fisico, come anche i fattori ambientali che possono rendere improbabile lo sviluppo di particolari modelli culturali e, infine, l’ordinamento sociale che deve vietare alcuni atteggiamenti per far sopravvivere le culture stesse 17 . Il disparato dispiegarsi di queste barriere contribuisce a creare le differenti culture, la diversità fra i gruppi umani che, secondo Boas, è di natura culturale e non assolutamente razziale. È la cultura a creare le diversità umane ed egli rilevava non differenze di natura tra primitivi e civilizzati ma solo di cultura quindi, differenze acquisite e non innate18. Le culture sono notevolmente varie, ogni cosa differisce da cultura a cultura, avendo al loro interno diversità, differenze o tratti caratterizzanti che attribuiscono a quella cultura una unicità ed identità nella quale i componenti si ritrovano19. Inoltre, Malinowski attribuisce alla cultura un carattere funzionale poiché egli afferma che la cultura «deve essere intesa come mezzo per raggiungere un fine, cioè strumentalmente o funzionalmente»; ovvero all’interno di ogni comunità sociale, ogni norma, ogni tradizione, ogni opinione esiste per assolvere ad un compito funzionale alla società e al suo mantenimento, una funzione che Malinowki definisce “funzione 17 Ibidem. CUCHE D., La nozione di cultura…, op. cit., p. 24. L’autore, dà rilievo a come Boas (Si confronti Boas F., Race, Language and Culture, The Free Press, New York 1940) contrariamente a Taylor (Si veda Taylor C., Multiculturalism and the Politics of Recognition: An Essay, Princeton University Press, Princeton 1992) da cui pure aveva preso il concetto di cultura, parlava delle culture più che della cultura, proprio a sottolineare che la diversità fra popoli risiedeva nelle caratteristiche culturali e non in quelle razziali. Inoltre, si era impegnato a porre in evidenza l’assurda connessione fra i tratti fisici e quelli mentali, implicita nella nozione di razza, dominante all’epoca, in realtà non equiparabili a causa dell’appartenenza a due classi di analisi differenti. Boas, dimostrò come i tratti morfologici cambino rapidamente per le sollecitazioni ambientali; quindi il concetto di razza inteso come l’insieme di tratti fisici caratterizzanti un gruppo di individui non era per lui scientificamente fondato. Le razze, secondo l’antropologo non sono immutabili a causa dell’estrema plasticità dei soggetti. Lo stesso Bauman (Si veda BAUMAN Z., Modernità liquida, Laterza, Roma–Bari 2002) utilizzava il concetto di liquidità o fluidità ad indicare la capacità di cambiamento e di adattamento che caratterizza l’individuo contemporaneo. Confronta anche PRINA F., Devianza e politiche di controllo, Carocci, Roma 2003, p. 22. 19 GIDDENS A., Fondamenti di sociologia, il Mulino Bologna 2000, pp. 28–29. 18 L’enigma multiculturale 27 vitale” ovvero l’apporto che ogni singolo fattore culturale dà al mantenimento dell’intera cultura, per garantire l’integrazione. La problematica dell’integrazione, centrale all’interno della teoria funzionalista, viene ripresa anche da Radcliffe–Brown il quale riproponendo l’analisi funzionale afferma che «la funzione di ogni attività ricorrente consiste nella parte che tale attività svolge nella vita sociale considerata come un tutto, e pertanto nel contributo che essa dà al mantenimento della continuità strutturale»20. La cultura pertanto rappresenta il perno centrale in una società è ciò che garantisce l’integrazione all’interno di un gruppo; fa da “collante” per i membri di uno stesso gruppo sociale, non solo viene trasmessa ed interiorizzata ma soprattutto dà un senso di appartenenza, di protezione, di solidarietà e contribuisce a forgiare il senso di identità del gruppo stesso21. Identità e cultura sembrano essere strettamente connesse fra loro, entrambe determinano la condotta dell’individuo, l’una come qualcosa che si forma nel tempo e che contraddistingue l’individuo nell’assetto sociale come in quello culturale, l’altra come qualcosa che potenzialmente l’individuo ha dentro di sé e che acquisisce e rafforza grazie al suo gruppo sociale, come un’eredità che viene trasmessa a cui non può sfuggire e che lo marchia a fuoco sin dalla nascita. Così le “radici” rappresentano l’identità culturale ovvero ciò che “definisce l’individuo in modo certo”. L’identità culturale è pertanto, preesistente all’individuo che non può far altro se non aderirvi, anche inconsciamente attraverso l’interiorizzazione, a meno che non voglia sentirsi escluso e ricoprire la carica “dell’outsider”. È come se l’identità culturale fosse innata nell’individuo in modo da inscriverlo in confini ben stabiliti definitivamente. Da una certa prospettiva si potrebbe parlare quindi di eredità culturale negli stessi termini dell’eredità biologica, l’individuo cioè, nascerebbe già con dei caratteri propri di una cultura che lo porterebbero a distinguersi 20 21 IZZO A., Storia del Pensiero Sociologico, il Mulino, Bologna 1994, pp. 281–282. SMELSER N.J., Manuale di…, op. cit., p. 44. 28 Capitolo I dalle altre già esistenti e a maturare così una propria identità22. L’attore sociale, che lo voglia o no, è parte integrante di un’etnia, fa propri quasi meccanicamente usi, costumi, tradizioni, religione, modi di fare e di pensare che differiscono da altri e che lo contraddistinguono culturalmente 23 . Le diverse etnie quindi, si collocano all’interno di un’unica “razza biologica”, contrariamente a quanto ancora oggi si dibatte sull’esistenza di diverse razze, sotto il profilo biologico. Si tende, infatti, a fare una sorta di divisione e classificazione bio–antropologica e culturale delle razze, giudicate superiori o inferiori per colore della pelle, dei capelli, per quoziente intellettivo o altri tratti. In realtà non esistono “razze” ma solo variazioni, differenze derivanti da incroci tra le popolazioni e dal grado di contatto tra le stesse. Tali differenze vengono utilizzate il più delle volte per sancire la supremazia di un popolo su di un altro e per creare quindi pregiudizi e discriminazioni razziali che contribuiscono alla 22 CUCHE D., La nozione di cultura…, op. cit., pp. 105–112. L’autore pone a confronto diverse posizioni riguardanti il concetto di identità culturale, le primordialiste che considerano l’identità etno–culturale come qualcosa di primordiale poiché l’appartenenza al gruppo etnico pone le basi prima ancora delle appartenenze sociali. L’identità sarebbe così un qualcosa di intrinseco al gruppo di appartenenza in grado di trasmettersi all’interno e attraverso il gruppo stesso. La concezione oggettivista che definisce l’identità come un insieme di fattori oggettivi (l’origine comune, la lingua, la cultura, la religione…). Infatti, per gli oggettivisti, un gruppo che non è portatore di quei criteri oggettivi non può costituire una realtà etno–culturale e di conseguenza non può rivendicare una propria identità culturale. Per contro, la concezione soggettivista, pone in rilievo l’errata considerazione dell’identità come un qualcosa di estremamente statico, tipico di una collettività immutabile. Invece, l’identità etno–culturale deve essere considerata come un sentimento di appartenenza o come un’identificazione ad un determinato gruppo che può variare in qualsiasi momento. Tuttavia, se a quest’ultima prospettiva si deve il merito di aver riconosciuto il carattere variabile dell’identità, al contempo le si può criticare il voler ridurre l’identità ad una questione di scelta, di libero arbitrio dell’individuo quando invece l’individuo è già predeterminato nelle sue scelte che, pur maturandosi con la socialità, se risultano difformi dal contesto vengono etichettate come devianti. Inoltre, Cuche rileva che per Barth non esistono identità in sé né identità per sé poiché l’identità si forma per e con il rapporto con l’altro, l’ego e l’alter risultano una diade essenziale per la formazione dell’identità che può essere auto–identità (definita da se stessi) o etero–identità (definita dagli altri). La seconda, in particolare, può portare ad una stigmatizzazione del soggetto o del gruppo soprattutto quando si tratta di una minoranza etnica come possono essere rifugiati o emigrati, gruppi cioè in una situazione di distacco dal proprio luogo d’origine e dalle proprie radici, che li pone nella condizione di subire una nuova identità attribuita dal gruppo predominante. 23 SMELSER N.J., Manuale di…, op. cit., p. 190. L’enigma multiculturale 29 concretizzazione di forme di vittimizzazione psicologica e a volte anche fisica; dovrebbero invece essere intese come «variazioni fisiche scelte dai membri di una comunità o società come etnicamente significative»24. Le società “altre” non vengono ammirate per la loro diversità ma discriminate e vittimizzate perché ritenute portatrici di ideologie, valori, atteggiamenti definiti inferiori perché rispondenti a canoni differenti dai propri o da quelli cui si è abituati a vedere. L’incontro con “l’altro” ha condotto e continua ancora oggi a condurre, il più delle volte, verso un processo di deterioramento, oltre che di chiusura totale e di distruzione di possibili rapporti con le diverse etnie, proprio perché diverse. La chiusura di gruppo si combina spesso con un tipo di fenomeno chiamato “etnocentrismo” ovvero diffidenza verso gli estranei unita ad una tendenza a giudicare le altre culture secondo la propria; si tende, così, a considerare al centro di tutto solo il proprio punto di vista considerandolo come predominante25. Un termine similare è “xenofobia” ossia paura e odio verso tutto ciò che è estraneo ad una società e cultura26. Ogni gruppo esalta se stesso, sancisce la sua superiorità disprezzando gli stranieri ovvero coloro che hanno dei “folkways” diversi27. Ogni società è stata o continua ad essere etnocentrica e ciò ha alimentato nel corso della storia diversi scontri etnici dando origine a svariati “meccanismi di esclusione” diretti a rafforzare le divisioni tra gruppi28. Il primo a prendere posizioni contro questo atteggiamento fu il sociologo Sumner, sostenendo che una cultura può essere capita solo nel suo contesto e sulla base dei valori che la caratterizzano, nessun tratto culturale può essere compreso se isolato dal resto. Tale posizione è nota oggi come “relativismo culturale” che può portarci a capire le differenze 24 Ivi, pp. 190–192. La peggior forma di pregiudizio, basato su distinzioni fisiche significative, è il razzismo. Il razzista non solo attribuisce valenze di superiorità o inferiorità a determinate razze, ma vi dà anche una spiegazione biologica. A tale pregiudizio seguono opinioni preconcette e discriminazioni anche molto gravi. 25 Ivi, p. 195. 26 SMELSER N.J., Manuale di…, op. cit., p. 43. 27 CUCHE D., La nozione di cultura…, op. cit., p. 27. 28 GIDDENS A., Fondamenti di…, op. cit., p. 195. 30 Capitolo I tra culture, anche se sottili29. Tuttavia, l’antropologa Ruth Benedict elaborò ulteriormente il concetto di relativismo culturale affermando che è fondamentale comprendere ogni cultura non solo tenendo ben presente il suo contesto ma cercando di vederla come inserita in un tutto poiché niente può essere compreso fino in fondo se separato dal resto30. Ogni cultura possiede determinati modelli di comportamento che per la loro unicità e particolarità risultano estranei ad individui appartenenti ad altre culture. Ovviamente qualsiasi tipo di attività ci sembrerà strana se descritta fuori dal proprio contesto invece di essere vista come parte di un tutto armonico; risulta difficile comprendere pratiche o credenze separatamente dal contesto di cui fanno parte, una cultura, infatti, deve essere studiata sulla base dei significati e dei valori che le sono propri31. È allora impossibile non far riferimento al relativismo culturale senza condividerlo e al contempo, senza ricadere nell’etnocentrismo. Tuttavia, è bene riesaminare il concetto di etnocentrismo poiché il termine, usato in precedenza solo nell’ambito delle scienze sociali, è passato attualmente ad un uso comune e di conseguenza attraverso un abuso del termine stesso, è divenuto progressivamente sinonimo di razzismo, venendo altrettanto condannato pesantemente al pari del primo. Se però, il razzismo è una forma di perversione sociale, l’etnocentrismo è un fenomeno sociologico del tutto normale, costitutivo di ogni realtà etnica quale meccanismo di difesa dell’in–group nei confronti dell’esterno. In questa direzione il fenomeno dell’etnocentrismo risulta necessario alla sopravvivenza di collettività etniche anche se, nel momento in cui si deve considerare e valutare una determinata cultura o comunità etnica è necessario adottare un atteggiamento scevro da ogni tipo di etnocentrismo o pregiudizio che sia32. In realtà non esiste cultura che non abbia significato per coloro che si riconoscono in essa; i significati devono quindi essere esa29 SMELSER N.J., Manuale di…, op. cit., pp. 43–44. Ibidem. 31 GIDDENS A., Fondamenti di…, op cit., p. 29–30. 32 CUCHE D., La nozione di cultura nelle scienze sociali, il Mulino Itinerari, Bologna 2003, pp. 144–147. 30 L’enigma multiculturale 31 minati con attenzione per non ricadere in atteggiamenti non solo etnocentrici ma anche intolleranti. D’altra parte un’esasperazione del relativismo, quindi un’eccessiva esaltazione delle differenze conduce ad una giustificazione dei regimi segregazionisti e il «diritto alla differenza viene snaturato in assegnazione ad essa»33. È bene riflettere se la tolleranza ed il rispetto delle differenze devono predominare in ogni caso o se alcune pratiche che testardamente onorano la tradizione pur ignorando i diritti della persona in quanto essere umano, debbano essere condannate e quindi cessare. Nel terzo millennio risulta anacronistico mantenere atteggiamenti di chiusura verso l’altro, verso culture diverse dalla nostra, in un momento in cui ci ritroviamo in una società non più “monoculturale” e “monoidentitaria”. È necessario vedere la diversità con occhi diversi, se pur critici, che facciano comprendere che nessuno è inferiore a nessuno, che il contatto e il confronto con qualcosa che va oltre il nostro modo di fare o di pensare è di sicuro arricchente e costruttivo e che la diversità non è opposizione ma un patrimonio che si deve saper tutelare e considerare nelle sue innumerevoli sfaccettature. «La diversità è sinonimo di vita» e società monoculturali e monoidentitarie non farebbero altro che andare contro la socializzazione e la stessa vita sociale34. Tutto ciò in considerazione dell’altro come risorsa importante per ogni società ma soprattutto come una vita da tutelare e a cui garantire i diritti in quanto essere umano, cercando di assicurargli una migliore qualità della vita. Una conditio sine qua non difficile da garantire così come difficile risulta la convivenza tra le differenti culture che inevitabilmente si incontrano e si scontrano su ciò che va contro l’integrità del soggetto. Molte culture portano avanti da generazioni, rituali violenti e sanguinosi che possono persino condurre alla morte e che se praticati in un Paese che non è il proprio ma quello ospitante, possono generare reazioni che hanno come obiettivo non la condanna delle pratica in sé ma la tutela della vita del soggetto. È inaccettabile condividere e assurdo comprendere pratiche rituali o religiose in nome del rispetto dell’identità culturale che però 33 34 Ivi, p. 144. MARTINIELLO M., Le società multietniche, il Mulino, Bologna 2000, p. 17. 32 Capitolo I ledono i diritti del soggetto in quanto essere umano. È giusto trasformarsi in vittima nel nome della cultura di appartenenza? E chi giudica dall’esterno deve rispettare e rimanere a guardare o giudicare e condannare? Tuttavia, non è impossibile creare le condizioni per una buona convivenza che, secondo alcuni, abbia alla base non la tolleranza ma il riconoscimento e il rispetto delle differenze. I membri delle diverse etnie vogliono che li si consideri cittadini non “anche se” portatori di differenze da nascondere ma “in quanto” depositari di valori e diversità da mostrare liberamente. La tolleranza come atteggiamento da assumere è stato da alcuni criticato in quanto portatore comunque di discriminazioni. Rappresenta un comportamento neutrale che porterebbe ad un’equa considerazione della maggioranza così come della minoranza al di là delle loro caratteristiche. Essere neutrali significa essere imparziali cioè non vedere le diversità nella loro complessità e non fare differenze di trattamento. A questa visione si obietta che le “caratteristiche identitarie” non possono essere ignorate, tenute nascoste né rimanere invisibili all’attento sguardo sociale tantomeno possono gli individui spogliarsi delle loro identità, essendo queste parte di loro stessi35. Non si può porre come condizione necessaria per far parte di una data società la cancellazione dell’identità e delle caratteristiche di un popolo che fanno dello stesso un’etnia unica e irripetibile, per rivestire una nuova identità del tutto estranea, come fosse un abito che appartiene a 35 Secondo Cotesta, Isaac nella sua “Basic Group Identity” precisa come l’identità ed in particolare l’identità di gruppo, derivi dall’appartenenza ad un’etnia. Essa consterebbe in tutto quello che ogni individuo possiede alla nascita e che può ulteriormente acquisire o rinforzare. È data da una serie di legami innati definiti da Isaac come «degli idoli di tutte le nostre tribù» che legano e collegano un individuo agli altri per una serie di fattori individuali, sociali e culturali, sin dalla nascita. Infatti, ogni individuo alla nascita fa propri i tratti “dell’identità di base” del gruppo di appartenenza, ovvero: il corpo per i tratti somatici tipici di una etnia; tutto quello che rientra e che è finalizzato alla formazione dell’io e dell’identità individuale; il nome individuale e familiare come legame alla famiglia d’origine ed alla sua storia e come richiamo al gruppo stesso di appartenenza attraverso il linguaggio, gli usi, i costumi, la religione, i valori; riti caratteristici del gruppo come il battesimo, la circoncisione che aprono all’ultimo arrivato le porte della società; lo status della famiglia automaticamente ereditato dall’individuo che etichetta e delinea le condizioni di vita presente e futura dell’individuo. Si veda COTESTA V., Sociologia dei conflitti etnici, Laterza, Bari 2005, pp. 146–147; ISAAC H.R., Idols of the Tribe, Harper & Row, New York 1975. L’enigma multiculturale 33 qualcun’altro e che si è costretti ad indossare essendo stati derubati del proprio. L’inclusione dell’altro deve avvenire senza condizioni di ogni sorta e non con una “tolleranza neutrale” che imponga una neutralizzazione delle differenze ma con una “tolleranza reciproca” che dia importanza al pubblico riconoscimento ed apprezzamento delle differenze perché parte irrinunciabile dell’individuo. Solo così ci può essere un eguale trattamento di singoli individui, nel totale rispetto delle differenze36 ed una reale accettazione che avrebbe come fondamento ciò che Taylor chiama “riconoscimento forte” inteso come accoglienza in toto delle culture perché depositarie di un valore intrinseco e anche come assegnazione di forme di protezione da parte delle pubbliche istituzioni. Per Taylor il valore della cultura per il singolo risulta fondamentale poiché come attore sociale ha un «bisogno umano vitale di riconoscimento poiché dal riconoscimento o dal non riconoscimento, dipende l’immagine che egli avrà di sé»37. Ritroviamo in tale definizione la figura dell’“altro generalizzato” di Mead come anche quella dell’“io allo specchio” di Cooley. Sono le relazioni intessute dal soggetto che fanno di lui l’attore sociale che è o che diventerà così l’identità, afferma Taylor, «dipende dalle relazioni dialogiche con gli altri»38 e la coscienza che ognuno ha di sé, secondo Cooley, «non è altro che il riflesso dei giudizi che il soggetto ritiene gli vengano attribuiti dagli altri». Il tutto va a delineare ciò che Mead definiva una sorta di controllo, a garantire la sopravvivenza del gruppo sociale che vede a fondamento della propria esistenza, la condivisione di una relazione simbolica da parte dei vari membri39. 36 PALAZZANI L., Problemi bioetici e biogiuridici nella società multietnica, in COMPAGNONI F., D’AGOSTINO F. (a cura di), Il confronto interculturale: dibattiti bioetici e pratiche giuridiche: bioetica, diritti umani e multietnicità, San Paolo, Milano 2003, pp. 89–92. 37 Ivi, p. 96. Taylor, inoltre, pone in antitesi al “riconoscimento forte”, un “riconoscimento debole” che afferirebbe all’atteggiamento di neutralità e di “eguaglianza formale” che lo Stato assume nei confronti delle differenze con il risultato di rafforzare invece che eliminare le disuguaglianze a carico delle minoranze. 38 Ibidem. 39 BARBERO AVANZINI B., Devianza e controllo sociale, FrancoAngeli, Milano 2002, pp. 102–107.