LECTURA DANTIS dedicata a Mons. Giovanni

LECTURA DANTIS
dedicata a Mons. Giovanni Mesini
“il prete di Dante”
Divina Commedia. Inferno
letto e commentato da
Padre ALBERTO CASALBONI
dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna
Canto IV
8 ottobre 2007
Siamo nel Limbo, il primo dei nove cerchi concentrici, di una cavità, l’inferno, a forma di cono,
finché giungeremo nell’ultimo, proprio nel centro della terra, dove troveremo l’immensa sagoma di
Lucifero, metà da una parte, metà dall’altra, a significare il punto centrale, discriminante, dei due
emisferi, quello boreale, il nostro, e quello australe.
Vi soggiornano i giusti, che non ebbero il battesimo, particolarmente quelli morti prima della venuta
di Cristo; ma vi sono anche molti bambini, morti precocemente, anch’essi prima che fossero
battezzati. Dante dice di turbe molte e grandi... d’infanti e di femmine e di viri. Del resto abbiamo
visto che l’ampiezza del cerchio dice maggiore moltitudine, ma minore gravità del peccato, gravità
che invece si accentua man mano che si scende verso il centro della terra.
Per inciso, ricordo che sulla Civiltà Cattolica, il 5 maggio scorso, è apparso il Documento della
Commissione teologica Internazionale su “La speranza della salvezza per i bambini che muoiono
senza battesimo” che modifica parzialmente la severa dottrina tradizionale sull’argomento. Questo
documento non chiude la porta del cielo ai bambini non battezzati, ossia deceduti con la macchia
della colpa di Adamo trasmessa a tutti i suoi discendenti, e pone degli interrogativi su questa colpa.
Ma la teologia ai tempi di Dante sull’argomento era drastica; data l’alta mortalità infantile, questa
credenza ha causato grandi crucci e scrupoli ai genitori cristiani: ne è indice la pratica,
particolarmente diffusa in Francia, dei “santuari di rianimazione” per implorare da Dio, con
preghiere ed elemosine il momentaneo ritorno in vita di questi doppiamente infelici, giusto l’attimo
per il battesimo.
Viene comunque spontanea la domanda, ma perché Dante pone il Limbo nell’Inferno, per quanto ai
margini dell’inferno vero e proprio, ma sempre inferno?
È dottrina conseguente, non potendo queste persone entrare in Paradiso, come abbiamo visto nel
canto precedente, subiscono la pena del danno, la privazione della visione di Dio, che è l’inferno
vero e proprio, pena infinitamente più grave di tutte quelle corporali pur nelle forme più gravi,
perché privi del dono della Fede, e solo il battesimo, dice Dante, è porta de la fede che tu credi.
Questa la dottrina.
Occorre rilevare un corollario. importante per il Limbo particolarmente, ma anche per gli altri
cerchi: la condanna del peccato non si traduce necessariamente in disprezzo della persona;
indubbiamente, come si diceva in sede di presentazione dell’opera, i personaggi dell’inferno sono
generalmente abietti, ma vi si trovano anche persone assai degne sotto altri profili: Gran duol mi
prese al cor quando lo ‘ntesi, però che gente di molto valore/ conobbi che ‘n quel limbo eran
sospesi; benché con circospezione, possiamo dunque estendere questa espressione anche ad altre
persone, in altri luoghi.
Ma vediamo ora come il Poeta rende in poesia la dottrina.
Dante per un tuono era svenuto, per un altro, rinviene, e si ritrova nel primo cerchio: qui lo colpisce
l’atmosfera, vi domina un senso di infinita tristezza, per quanto composta, e il buio, manca la luce
di Dio, siamo nel cieco mondo. Dante intravede l’aspetto tutto smorto di Virgilio, e s’impaurisce, lo
crede smarrito; e invece no, è solo pietà, non timore: Virgilio sta soffrendo qui, insieme con tutti gli
altri, la sua pena del danno: Di questi cotai son io medesmo”; “Quivi... non avea pianto mai che di
sospiri/ che l’aura etterna facevan tremare”. Domina sempre la consapevolezza di una condizione
eterna, di duol sanza martìri, dolore lacerante, benché senza sofferenze fisiche: semo perduti... e
sanza speme vivemo in disìo. Un desiderio eterno, lancinante, ormai senza oggetto e senza speranza:
“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” era scritto al sommo di una porta.
Eppure, pensa Dante, qualcuno deve esserne uscito, secondo la nostra fede - discese agli Inferi,
recita il Simbolo apostolico; Virgilio gli spiega che era qui giunto da poco, quando ci vidi venire un
possente, con segno di vittoria coronato a portare con sé Adamo, Abele, Noè, Davide e via via tutti
i santi personaggi biblici; li elenca, ma intanto proseguono il cammino; Dante, fra quel buio,
intravede un fuoco che illumina un emisferio di tenebre, che formava cioè una semisfera illuminata,
e vi discerne “orrevol gente”, ossia persone autorevoli e piene di dignità; qui, spiega Virgilio,
risiedono coloro che in vita riscossero grande onore per i loro meriti, così ricompensati.
Mentre si avvicinano, si sente una voce: Onorate l’altissimo poeta: l’ombra sua torna, ch’era
dipartita: è l’onore che quattro dei maggiori poeti dell’antichità, Omero, Orazio, Ovidio e Lucano,
tributano a Virgilio mentre gli si fanno incontro. Dal canto suo Virgilio riconosce in Omero la
massima espressione della Poesia, quel segnor de l’altissimo canto/ che sovra li altri com’aquila
vola. C’è onore per tutti, dunque, per Omero, per Virgilio, e per gli altri tre: un modo per Dante di
pagare il tributo alle sue fonti classiche; ma anche un modo per esprimere la consapevolezza del
proprio valore quando aggiunge “volsersi a me con salutevol cenno”... e più d’onore ancora assai
mi fenno,/ ch’ e’ sì mi fecer de la loro schiera,/ sì ch’io fui sesto tra cotanto senno”.
Entrano nel nobile Castello sette volte cerchiato d’alte mura,/ difeso intorno d’un bel fiumicello che
i poeti attraversano come terra dura. Non sfugge l’allusione al passaggio del Mar Rosso; neppure il
fatto che il castello ha sette mura e sette porte, il sette è numero simbolico di tante realtà, qui forse
con allusione alle sette arti medioevali.
Ebbene all’interno si stende un prato di fresca verdura, dove soggiornano persone che hanno
illustrato l’umanità sotto i diversi profili, dall’onor militare, quali Ettore ed Enea, alla filosofica
famiglia, con particolare riferimento ad Aristotele, il maestro di color che sanno, dalla geometria
all’astronomia, Euclide e Tolomeo, fino alla medicina, Ippocrate e Galeno; non manca neppure un
cenno ad Avicenna, medico e filosofo, e ad Averroè, anch’egli medico, filosofo e teologo,
musulmani entrambi, arabo questo, persiano l’altro, che ci hanno restituito i classici greci, in
particolare Aristotele.
Io non posso ritrar di tutti a pieno - si scusa Dante, perché il lungo tema incalza. Tuttavia il quadro
è abbastanza ampio per farci intendere il debito che deve alla classicità; la Divina Commedia è
piena di rimandi alla filosofia, alla scienza e, in particolare, alla mitologia, all’epica e alla storia
antica.
Così la sesta compagnia in due si scema, perché i due pellegrini sono costretti a lasciare i quattro
poeti con i quali si erano intrattenuti parlando cose che ‘l tacere è bello,/sì com’era ‘l parlar colà
dov’era, si erano cioè detti tante cose che il tempo ora non permette di riferire.
Escono così dalla quiete del Castello per immergersi nell’aura che trema, nel buio infernale, in
parte ove non è che luca.