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TEORIA GENERALE
DEL DIRITTO
• Stato e diritto
• Ordinamento giuridico
• Fonti del diritto
• Norma giuridica
• Giuscibernetica
SIMONE
EDIZIONI GIURIDICHE
®
Gruppodella
Editoriale
Esselibri - Simone
Estratto
pubblicazione
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Vietata la riproduzione anche parziale
Finito di stampare nel mese di marzo 2008
dalla «Officina Grafica Iride» Via Provinciale Arzano-Casandrino, VII trav., 24 - Arzano (NA)
per conto della Esselibri S.p.A. - Via Ferdinando Russo 33/D - 80123 - Napoli
PREMESSA
Questo testo introduttivo alla teoria generale del diritto costituisce un primo approccio per il giurista a questa complessa, ma affascinante disciplina che analizza i fondamenti del diritto, della norma
e dell’ordinamento giuridico.
Nella stesura del lavoro si è tenuto conto delle potenziali difficoltà ermeneutiche dei neo-giuristi nei confronti di concetti che si richiamano a problematiche di filosofia del diritto e di dogmatica
giuridica.
Il lavoro analizza i capisaldi del sapere giuridico: dal concetto di
diritto a quello di ordinamento, dalle norme alle fonti, dalla giustizia
all’analogia chiudendo con un breve capitolo sulla giuscibernetica.
Questo testo, dunque, favorisce un approccio iniziale allo studio
del diritto e si presenta di particolare interesse ed utilità per gli studenti universitari che, in tempi rapidi, necessitano di uno strumento
agile e sistematico (come si rivela nei glossari posti a fine capitolo)
per raggiungere una preparazione ottimale all’esame.
Estratto della pubblicazione
CAPITOLO PRIMO
LO STUDIO DELLA TEORIA
GENERALE DEL DIRITTO
Sommario: 1. Nozione, oggetto, funzione. - 2. Rapporto tra teoria generale del diritto
e sociologia del diritto. - 3. Rapporto tra teoria generale del diritto e filosofia del
diritto. - 4. Metodi di studio della teoria generale del diritto.
1. NOZIONE, OGGETTO, FUNZIONE
La teoria generale del diritto è la disciplina che ha ad oggetto lo studio degli aspetti generali del diritto e che mira a definire concettualmente
alcune figure o espressioni giuridiche di uso comune, anche mediante la
comparazione tra diversi ordinamenti giuridici (JORI-PINTORE, CATANIA).
Dunque, è proprio all’uso generalizzato di determinate espressioni, cioè
all’impiego di queste in tutti gli ordinamenti giuridici, che si riferisce il
termine «generale» attribuito alla materia in esame (CATANIA).
Si parla in questo senso della teoria generale del diritto anche come «teoria strutturale», in quanto studia la struttura e la matrice del diritto e
degli ordinamenti giuridici (JORI-PINTORE).
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Quali sono le espressioni giuridiche oggetto di studio della teoria generale del diritto?
Tradizionalmente, oggetto di studio della teoria generale del diritto sono, ad esempio, i concetti fondanti come quelli di diritto, norma giuridica, ordinamento, ordinamenti, legge, validità,
efficacia, sanzione, fonte del diritto ecc.
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Per quanto riguarda l’ambito di operatività della disciplina è costituito
dallo studio del diritto positivo, cioè quello vigente ed operativo, e ciò,
come fra breve si vedrà, secondo parte della dottrina, costituisce una delle
differenze più importanti con la filosofia del diritto.
Estratto della pubblicazione
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Capitolo Primo
2. RAPPORTO TRA TEORIA GENERALE DEL DIRITTO E SOCIOLOGIA DEL DIRITTO
La sociologia del diritto è la scienza che studia il rapporto tra diritto e
società, il diritto come modalità dell’azione sociale.
La sociologia del diritto in sostanza analizza, da un lato, l’influenza del
diritto sui comportamenti degli individui nell’ambito della società in generale, dall’altro, viceversa, l’influenza che la prima ha sul diritto stesso (secondo la brillante definizione di Treves «la società nel diritto»).
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Quale è l’ambito di operatività della sociologia del diritto?
La sociologia del diritto, ha ad oggetto lo studio: 1) del sistema giuridico in generale (diritto)
in relazione alla comunità; 2) del rapporto tra diritto, azioni e comportamenti e della definizione di liceità o illiceità delle une e degli altri; 3) delle istituzioni giuridiche nel contesto sociale
(governo, famiglia, etc.); 4) dei ruoli professionali interessati dall’applicazione del diritto (legislatori; giudici; avvocati; organi della polizia); 5) delle opinioni dei singoli individui nei
confronti del diritto e sui valori che vi sono sottesi (FERRARI, TREVES).
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La differenza tra sociologia del diritto e teoria generale del diritto va
ravvisata, quindi, nel diverso oggetto di studio delle due discipline.
Fermo restando, infatti, quanto accennato nel paragrafo precedente sulla nozione, l’oggetto e la funzione della teoria generale del diritto, si deve
considerare che, a differenza di questa, la sociologia del diritto ha ad oggetto, in generale, tutto ciò che concerne la produzione e l’attuazione delle
norme giuridiche (TREVES, CARBONNIER) e, in particolare, lo studio
dell’agire sociale in relazione al diritto.
Secondo altra parte della dottrina (CATANIA), se la teoria generale del
diritto studia il significato che comunemente è attribuito alle più comuni
espressioni giuridiche e, quindi, ha ad oggetto lo studio della validità di
una norma giuridica, la sociologia del diritto analizza l’efficacia della norma stessa, in relazione all’impatto di essa, dal punto di vista fenomenologico, sul comportamento dei consociati.
Da ciò consegue che le due discipline in esame, pur differenziandosi, sono
allo stesso tempo complementari, in quanto l’effettività del diritto e, quindi, la
sua attuazione, è condizione essenziale per poter discutere della validità dello
stesso, secondo il noto brocardo: intanto vi è diritto, in quanto venga attuato.
Tale opinione, come si vedrà nei capitoli seguenti, non è però condivisa
da altra parte della dottrina (BOBBIO), secondo la quale l’effettività (cioè
Estratto della pubblicazione
7
Lo studio della teoria generale del diritto
l’efficacia sociale) delle norme giuridiche, intesa come comportamento dell’individuo orientato dal diritto, costituisce una condizione essenziale, ma
non sufficiente, per poter considerare una norma giuridica come valida: validità, efficacia e applicabilità del diritto, infatti, discendono da un altro
fattore legittimante.
3. RAPPORTO TRA TEORIA GENERALE DEL DIRITTO E FILOSOFIA DEL DIRITTO
Il problema del rapporto tra la teoria generale del diritto e la filosofia
del diritto va analizzato tenendo presente, da un lato, l’evoluzione storica
delle due discipline, dall’altro, la differenza tra le stesse dal punto di vista
soprattutto dell’approccio e dell’oggetto di studio.
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Qual è la differenza tra teoria e ideologia?
La teoria è un atteggiamento conoscitivo che l’uomo assume rispetto ad un problema da cui
scaturiscono giudizi di fatto (vero, falso) al fine di informare gli altri su una determinata
realtà in modo neutrale.
L’ideologia, invece, è un atteggiamento valutativo che si oggettiva in giudizi di valore (giusto,
ingiusto) con lo scopo di influire nella realtà al fine di cambiare la stessa.
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Parte della dottrina (JORI-PINTORE) ha posto in evidenza come le due
materie inizialmente si fossero sviluppate in contrapposizione reciproca, atteso che ambedue miravano ad occuparsi dello studio del diritto in generale ma,
mentre la teoria generale era espressione degli studi dei «giuristi positivi», la
filosofia del diritto era il frutto degli studi dei «filosofi del diritto».
Dunque, la prima differenza va ravvisata nel diverso approccio al diritto
da parte dei giuristi, da un lato, e dei filosofi del diritto dall’altro.
Prima, tuttavia, di spiegare la differenza tra filosofi e giuristi, occorre introdurre e analizzare il concetto di giurisprudenza.
Con il termine «giurisprudenza» si indica generalmente «l’attività di chi si occupa del
diritto in maniera continuativa e professionale» (JORI-PINTORE).
Per giurisprudenza, in generale, si intende:
— la giurisprudenza giudiziaria (dei giudici);
— la giurisprudenza dottrinale (degli studiosi del diritto in generale) dei cd. «giurisperiti».
Dal concetto citato di giurisprudenza che è positiva, si differenzi la metagiurisprudenza, e
cioè «il discorso che si occupa della giurisprudenza» o mediante la «descrizione» dell’attivi-
Estratto della pubblicazione
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Capitolo Primo
tà dei giuristi (cd. metagiurisprudenza descrittiva) o mediante «la prescrizione di un modello
di discorso giuridico» (metagiurisprudenza prescrittiva): quest’analisi è riservata, prevalentemente, ai filosofi che la indirizzano ai giuristi (1) (JORI-PINTORE).
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Qual è la differenza tra giuristi e filosofi del diritto?
La differenza tra giuristi e filosofi del diritto va ravvisata nel fatto che, mente i primi si sono
sempre preoccupati dello studio del diritto positivo ed hanno un atteggiamento prevalentemente avalutativo, i secondi sono storicamente impegnati nella ricerca di un diritto «giusto» che
spesso viene identificato con il diritto naturale: la filosofia del diritto è «filosofia del diritto
naturale» (CATANIA).
Quindi, una prima distinzione tra le due discipline in esame va ravvisata nel fatto che, mentre
la teoria generale del diritto si occupa del «problema ontico del diritto», e cioè dell’esistenza del diritto positivo (dell’«essere»), attraverso l’analisi dei concetti generali ad esso
inerenti, l’approccio della filosofia del diritto, allo studio del diritto stesso, ha sempre avuto
un taglio di tipo «deontologico», mirando prevalentemente, tramite i giudizi di valore, alla
ricerca di un diritto giusto (del «dover essere»).
In questo senso, si parla anche di una contrapposizione tra diritto reale-positivo, da un lato, e di
diritto ideale-naturale dall’altro.
A tal proposito si è ritenuto che la differenza tra filosofi e giuristi potesse essere ravvisata nella
diversa forma mentis: i primi, quando hanno parlato di diritto, sono partiti dai diritti soggettivi,
in quanto hanno privilegiato uno studio della realtà «a parte subiecti», i secondi «a parte
obiecti», cioè si sono concentrati sul diritto oggettivo (ordinamento giuridico) (LEVI).
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Esiste un collegamento tra le due materie in termini di complementarietà, atteso che, indipendentemente dal diverso oggetto di studio, la filosofia
del diritto si occupa di concetti presupposti dal diritto positivo e necessari
ai fini dello studio dello stesso.
4. METODI DI STUDIO DELLA TEORIA GENERALE DEL DIRITTO
Sono due i metodi attraverso i quali la teoria generale del diritto può
studiare il diritto:
a) procedimento a posteriori: consistente nel confronto tra i singoli diritti;
(1) La dottrina tedesca ha identificato due tipi di giurisprudenza:
— la giurisprudenza concettuale (Begriffsjurisprudenz) che dà prevalenza ai concetti giuridici
astratti e alle deduzioni logiche da essi derivanti senza considerare la realtà sociale che è dentro
tali forme (approccio formalista-normativo);
— la giurisprudenza degli interessi (Interessenjurisprudenz) che, al contrario, interpreta il diritto
alla luce dei rapporti sociali che è chiamata a regolare, respingendo i soli ragionamenti di logica
(approccio fenomenologico)
Lo studio della teoria generale del diritto
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b) procedimento a priori: consistente nell’individuazione degli aspetti essenziali dei diritti.
I diversi metodi implicano il ricorso a due diversi approcci teoretici:
— se si parte dalla realtà del corpo sociale (realismo) o da dati oggettivi (positivismo) e dal
confronto tra le singole posizioni giuridiche, si traggono regole generali e si adotta un
procedimento induttivo a posteriori;
— se, invece, si parte dalla ragione umana (giusnaturalismo) o da una «metanorma» come le
norme base (normativismo) e da esse si fa derivare la ratio dell’ordinamento vigente (nazionale, internazionale), si adotta un processo deduttivo a priori.
Glossario
Diritto positivo: il diritto positivo è il diritto effettivamente vigente; è il complesso di
norme giuridiche che, in un dato momento storico e in un dato ordinamento giuridico,
regolano la vita dei membri di una società allo scopo di assicurarne la pacifica convivenza.
Diritto naturale: si intende un diritto eterno ed immutabile, che trova fondamento, a
seconda delle differenti teorie, nell’uomo, in Dio, nella natura.
Trattasi di un diritto che, quindi, censura le norme «ingiuste» come nulle, perché contrarie al comune senso di giustizia (così, ad esempio, i giudici tedeschi, dopo la seconda
guerra mondiale hanno disapplicato molte norme dell’ordinamento nazista perché ritenute
«ingiuste» e quindi inapplicabili malgrado fossero state vigenti ed operative).
Estratto della pubblicazione
CAPITOLO SECONDO
IL DIRITTO E L’ORDINAMENTO GIURIDICO (1)
Sommario: 1. Il concetto di diritto: teorie generali del diritto. - 2. La teoria normativistica. - 3. La teoria istituzionalistica. - 4. La teoria relazionale (o teoria del rapporto
giuridico) (Kant - Del Vecchio - Levi). - 5. I rapporti tra ordinamento statale e internazionale. - 6. Il diritto oggettivo: rapporti con il diritto soggettivo. - 7. Il giusnaturalismo e il giuspositivismo. - 8. Il realismo giuridico.
1. IL CONCETTO DI DIRITTO: TEORIE GENERALI DEL DIRITTO
Ai fini dell’individuazione di una corretta definizione di ordinamento
giuridico, la dottrina ha tentato varie strade.
Occorre chiarire che sono tre le più note teorie sul concetto di diritto:
a) la teoria normativistica;
b) la teoria istituzionalistica;
c) la teoria relazionale (o teoria del rapporto giuridico).
Ciascuna delle teorie in esame, ancora la definizione generale di diritto,
rispettivamente, ai concetti primari e fondamentali, di norma giuridica (o
di ordinamento giuridico), di istituzione, di rapporto giuridico e da essi
ricava il concetto di ordinamento giuridico.
2. LA TEORIA NORMATIVISTICA
Secondo questa teoria, il diritto è un insieme di norme giuridiche, disposte
secondo un rigido ordine gerarchico e facente capo ad un’unica norma fondamentale (cd. grundnorm), diritto e norma giuridica, dunque, coincidono.
Principale sostenitore di questa concezione fu il giurista austriaco Hans Kelsen (18811973) fondatore della scuola di Vienna (che definì il diritto come «ordinamento del comporta-
(1) Diritto e ordinamento giuridico sono in genere utilizzati come sinonimi solo se considerati
nella loro oggettività. Il diritto, però, nel momento in cui viene attivato dal singolo individuo prende
il nome di «diritto soggettivo» e perde l’identificazione con il concetto di «ordinamento».
Il diritto e l’ordinamento giuridico
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mento umano») seguito dal filosofo italiano Norberto Bobbio (1909-2004) e dal filosofo britannico Herbert Hart (1907-1922).
Kelsen, in particolare, fa derivare il diritto da un norma base (grundnorm) che è il vertice di una piramide rovesciata e attribuisce vigenza a tutte
le altre di grado inferiore, in un unico ordinamento (monismo) che parte dal
diritto internazionale e, via via, segue con il diritto interno, etc.
Questa concezione è tuttora maggiormente condivisa dalla dottrina italiana (CATANIA, BOBBIO; JORI-PINTORE), perché ha il merito di considerare il diritto nel suo complesso, cioè come ordinamento giuridico,
come insieme di precetti obbligatori nella sua unità formale e non come
singola norma.
Occorre tenere presente come gli studiosi si siano più volte chiesti se fosse più giusto
pervenire alla definizione di diritto tramite l’analisi della singola norma giuridica o, al contrario, privilegiare quella relativa all’ordinamento giuridico nel complesso, come insieme di norme. In altri termini, la domanda che ci si pone è la seguente: per diritto si deve intendere la
singola norma giuridica o il complessivo ordinamento giuridico?
La dottrina considera per lo più questa seconda impostazione, avendo ritenuto infruttuoso,
ai fini della definizione del diritto, lo studio della norma giuridica singola.
Risale a Kelsen la distinzione tra teoria della norma giuridica e teoria
dell’ordinamento giuridico: in una delle sue principali opere, Teoria generale
del diritto e dello Stato, in particolare, l’autore viennese ha intitolato la parte
dedicata allo studio della singola norma giuridica, Nomostatica, quella relativa all’insieme di norme dell’ordinamento giuridico, Nomodinamica.
In linea con l’insegnamento di Kelsen, BOBBIO condivide l’idea secondo la quale, ai fini
della definizione di diritto, sia necessario prendere in considerazione l’ordinamento giuridico
nel suo complesso.
Il filosofo italiano, infatti, ritiene che non sia concepibile un ordinamento costituito da una sola
norma (la norma base), a meno che non la si ritenga in grado di disciplinare tutte le azioni degli
uomini secondo le formule, del «tutto è permesso», «tutto è proibito» o «tutto è comandato»: ciò
non è attuabile, attesa l’eterogeneità dei comportamenti che i soggetti possono porre in essere.
Lo stesso BOBBIO, comunque, nella sua «Teoria generale del diritto», ha trattato unitariamente la teoria della norma e la teoria dell’ordinamento giuridico, nell’ottica di uno studio
completo della teoria generale del diritto; quindi se, da un lato, ha analizzato la norma dal
punto di vista formale-strutturale, dall’altro ha, per così dire, «integrato» tale analisi con quella dell’ordinamento giuridico.
Caratteristica della teoria normativista è di aver preso in considerazione
solo le norme giuridiche che, come tali, fanno parte di un solo e unico
ordinamento giuridico (in tal senso si parla di teoria monista), che si fraEstratto della pubblicazione
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Capitolo Secondo
ziona, poi, in tanti ordinamenti inferiori, che fanno tutti capo alla norma
base (vedi capitoli seguenti), che ad essi conferisce validità ed efficacia.
A) Norme giuridiche e principi giuridici
Un aspetto molto importante, strettamente connesso alla teoria normativistica, è quello relativo alla rilevanza dei principi giuridici.
Un limite della teoria normativistica consisterebbe, infatti, nel fatto che,
quando si parla di diritto come «insieme di norme giuridiche», in realtà,
sembra farsi riferimento solo alle norme giuridiche espresse e cioè a quelle
che sono dotate di formulazione linguistica.
In realtà, indipendentemente dalla forma espressa delle norme giuridiche, ciò che risulta importante è che sia rispettato il cd. principio di esprimibilità, secondo il quale deve sempre «essere possibile esprimere con parole i significati normativi» (JORI-PINTORE).
Dunque, rientrano nel concetto di «norma» anche i principi ad essa sottesi, i cd. principi impliciti.
I principi di un ordinamento giuridico, infatti, costituiscono quel complesso di valori fondanti che sono alla base di ogni norma giuridica che
fa parte di quell’ordinamento: quando si parla di «ratio» o «fondamento» di
una norma giuridica, proprio ai principi in essa espressi si fa riferimento e la
cui individuazione è possibile tramite un procedimento induttivo, simile a
quello costituito dal quel tipo di analogia definita «iuris» (vedi infra).
Tuttavia, accanto ai principi impliciti, sono individuabili anche principi
espressi, come ad esempio quelli costituzionali.
Principale esempio è quello dell’implicito pacta sunt servanda (si devono rispettare gli
impegni assunti) dal quale deriva la norma a tutela del creditore, dello Stato e di qualsiasi
soggetto che ha assunto un obbligo nei confronti di un altro soggetto.
3. LA TEORIA ISTITUZIONALISTICA
Secondo la teoria istituzionalistica il diritto non può ridursi solo ad un
«mero insieme di norme» ma è, invece, un fenomeno più complesso che fa
capo all’«istituzione», cioè all’«organizzazione».
È questa la definizione di diritto del noto giurista italiano Santi Romano (1875-1947),
nella sua grandiosa opera «L’ordinamento giuridico».
Altro sostenitore della teoria in esame è il giurista francese Maurice Hauriou (18561929) nell’opera «Teoria dell’istituzione e della fondazione» che esalta il primato dell’organizzazione «sulla norma».
Estratto della pubblicazione
Il diritto e l’ordinamento giuridico
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Secondo Santi Romano (che introduce il «momento sociologico» nella
definizione di ordinamento) intanto un ordinamento può qualificarsi come
«giuridico», in quanto risulta organizzato.
Il giurista, in sostanza, parte dall’antico aforisma latino «ubi societas ibi
ius, ubi ius ibi societas»(dove c’è società c’è diritto, dove c’è diritto c’è
società), per illustrare la sua concezione del diritto. Il diritto, dunque, è
organizzazione, per cui non è concepibile una società senza diritto, una
società che, cioè, non sia organizzata: il diritto coincide con l’organizzazione, con «la struttura della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità, come ente per sé stante».
Il concetto di diritto, dunque, deve contenere già in sé l’idea di «ordine
sociale» e, come tale, escludere qualsiasi arbitrio o forza non preordinata
al bene dei consociati.
Secondo SANTI ROMANO tre sono i caratteri salienti del diritto:
1) la società, considerata la contestura umana in cui il diritto viene all’esistenza;
2) l’ordine normativo, cioè un insieme di norme a cui il diritto è finalizzato;
3) l’organizzazione, come strumento per attuare l’ordine, che nasce quando
una società si dà un ordine normativo, cioè, si «istituzionalizza» (2).
Per individuare le caratteristiche fondamentali della teoria in esame e le
differenze con quella normativistica, si noti che, a differenza di quest’ultima, che ravvisa l’essenza della giuridicità di una società nell’insieme di
norme giuridiche, la teoria istituzionalistica ritiene che le norme (cioè l’ordine normativo) siano solo strumentali all’organizzazione della società stessa
e non esauriscono da sole il concetto di «diritto».
Il diritto nasce nel momento in cui un gruppo sociale disomogeneo si autorganizza ordinatamente: tale passaggio crea l’«istituzione» (vedi ante n. 3).
Fuori dal quadro dell’istituzione, l’individuo non ha uno status giuridico, cioè, non ha obblighi e diritti, è l’«istituzione», dunque, che legittima lo «status» dell’appartenente ad essa.
Ciò significa che esistono più «istituzioni», cioè più ordinamenti giuridici (internazionale,
nazionale, regionale, etc.) e si afferma, così, il pluralismo giuridico, in contrasto con il monismo Kelseniano.
(2) In presenza dei tre elementi indicati, infatti, è possibile considerare come ordinamento giuridico anche la Chiesa cattolica, l’organizzazione interna di un’azienda, o addirittura una società a
carattere «delinquenziale».
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Capitolo Secondo
Nello stesso senso, peraltro, si è ritenuto che, alla base della teoria istituzionalistica, vi sia la concezione secondo la quale «le norme giuridiche vengono in rilievo solo in un momento successivo alla nascita dell’ordinamento giuridico» il quale, anzi, «preesiste» ad esse (JORI-PINTORE).
Si è inoltre osservato che, a differenza della teoria normativistica, quella
istituzionalistica si caratterizzerebbe per il fatto di prendere in considerazione non soltanto le norme giuridiche dello Stato, ma anche tutte quelle
collegate, in un modo o in un altro, all’organizzazione dell’ordinamento di
riferimento (v. nota (2)).
In questo senso, la teoria di Santi Romano è detta pluralista, in quanto
ritiene che ciascuna istituzione o formazione sociale (famiglia, scuola, società, etc.) abbia un ordinamento proprio, anche se gerarchicamente sottoposto ad uno superiore.
Parte della dottrina ha osservato (BOBBIO e CATANIA) che questa concezione del diritto finisce per attribuire il carattere della giuridicità a qualsiasi tipo di società, anche quelle come la famiglia che si basano anche su
regole non giuridiche.
BOBBIO sostiene, invece, che le norme non seguono, ma precedono l’istituzione in quanto nello svolgimento del processo di istituzionalizzazione occorre
fissare i fini e le regole e, quindi, le norme, che sono alla base dell’istituzione.
4. LA TEORIA RELAZIONALE (O TEORIA DEL RAPPORTO GIURIDICO) (KANT - DEL VECCHIO - LEVI)
Secondo questa teoria il diritto è rapporto intersoggettivo, un fenomeno
sociale che trova origine nella società.
Il diritto è, dunque, ravvisabile nel rapporto tra due soggetti soltanto, da
cui scaturisca un diritto (cioè una potestà giuridica) per l’uno ed un obbligo
per l’altro (es.: da un’obbligazione discendono diritti e doveri che legano
l’obbligato al creditore).
Il filosofo tedesco Emanuele Kant nella sua «Dottrina del diritto» (1797)
ravvisava nel rapporto tra soggetti che hanno diritti e doveri reciproci un
«rapporto giuridico» che, a sua avviso, da solo è l’espressione più saliente
e genuina del diritto.
Il «diritto», per KANT, costituisce «l’insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio dell’altro
secondo una legge universale di libertà».
Estratto della pubblicazione
Il diritto e l’ordinamento giuridico
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È facile cogliere la differenza con la teoria precedente: per la teoria
relazionale non è necessario, perché si possa parlare di diritto, che il rapporto tra due soggetti sia compreso in un sistema più ampio di rapporti, costituito da una società organizzata.
BOBBIO rileva, però, che non si possa comunque prescindere dalla concezione normativistica, in quanto un rapporto tra due soggetti può essere
qualificato come giuridico, solo se l’ordinamento giuridico tale qualifica
gli attribuisca. Infatti, si evidenzia, prima del riconoscimento giuridico, si
può parlare solo di «rapporto di fatto» e non di rapporto giuridico.
Tale assunto non è stato però condiviso da altra parte della dottrina, in
particolare da Alessandro Levi, noto sostenitore della teoria relazionale.
Nella sua Teoria generale del diritto (1953), infatti, Levi non ha ritenuto
che un rapporto tra due soggetti possa essere qualificato come giuridico
solo se riconosciuto come tale da una norma giuridica, ma ha osservato che
non vi è «comportamento umano del quale non sia predicabile la giuridicità quando lo si consideri nel suo aspetto intersoggettivo – non vi è relazione
tra soggetti la quale non sia anche un rapporto giuridico».
Levi, in sostanza, identifica la giuridicità con la socialità, ritenendo
che così come ogni rapporto giuridico è anche rapporto sociale, anche ogni
rapporto sociale, in un certo senso, può definirsi giuridico, se si analizza la
questione tenendo presente che ogni rapporto fra due soggetti è comunque
collegato a norme che lo considerano lecito o illecito.
Ciò comporta un «allargamento» del concetto di diritto, nonché del concetto di «positività» (del diritto) in quanto è necessario «considerare come
norma giuridica ogni norma, da chiunque posta e da chiunque osservata,
dalla quale discenda una disciplina intersoggettiva di comportamenti». È
proprio tale intersoggettività (reciprocità e complementarietà tra obbligo
giuridico e pretesa al mantenimento dell’obbligo) che caratterizza l’universo giuridico ovvero il momento giuridico dello spirito umano.
Dello stesso avviso è altra parte della dottrina (CICALA), secondo la
quale «nessun momento della vita fisica o psichica dei consociati può dirsi
giuridicamente indifferente, perché in nessun caso può far difetto nell’ordinamento giuridico una norma che ad esso si riferisca, o espressamente regolandolo, o riguardandolo indirettamente con un comando o un divieto
generale».
La teoria relazionale è stata criticata dai sostenitori della teoria istituzionalistica sarebbe
ispirata ad una concezione del diritto estremamente «individualistica» e intersoggettiva.
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Capitolo Secondo
A differenza, infatti, della teoria istituzionalistica, secondo la quale il diritto costituisce un
prodotto della società, la concezione relazionale privilegia sempre e comunque la volontà «dei
singoli individui».
Occorre infine mettere in evidenza che mentre la teoria relazione ha il suo fulcro nell’esperienza giuridica privatistica, nella quale la vita giuridica si presenta come un insieme di
rapporti, dei quali l’autonomia dei privati ne è il contenuto precettivo; le altre due poggiano,
invece, su una base pubblicistica (l’idea di istituzione si attaglia in pieno alla dimensione
pubblica e collettiva della vita; come l’idea di norma riporta all’idea di una autorità che regola
i comportamenti dei consociati).
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Qual è il rapporto tra le tre teorie?
Le tre teorie sono tra loro complementari, nel senso che ognuna di esse conferisce importanza ad un aspetto sicuramente diverso, ma comunque fondamentale, del diritto (BOBBIO):
a) quella normativa, privilegia il diritto come «regola giuridica»;
b) quella istituzionalistica evidenzia il punto di vista «organizzativo»;
c) quella relazionale focalizza l’attenzione sull’aspetto intersoggettivo.
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Anche per BOBBIO (teoria normativista) LEVI si contraddice in quanto, riducendo l’essenza dell’ordinamento al rapporto diritto-dovere, dimentica che alla base di esse vi è il momento normativo: il diritto soggettivo, infatti, altro non è che il riflesso di una norma autorizzativa, mentre il dovere è il riflesso di una norma imperativa.
Diritti e doveri, dunque, si rifanno sempre e comunque a regole di condotta, cioè alle
norme giuridiche.
5. I RAPPORTI TRA ORDINAMENTO STATALE E INTERNAZIONALE
I normativisti (in quanto monisti) tendono a ridurre ad unità i rapporti
tra ordinamento interno ed ordinamento internazionale.
I seguaci di tale concezione, a loro volta, si dividono in due categorie:
— sostenitori del primato dell’ordinamento internazionale, che affermano
che gli ordinamenti statali derivano la loro legittimazione dall’ordinamento internazionale, il quale determinerebbe la loro competenza e porrebbe vincoli ai lori poteri (KUNZ-VERDROSS);
— sostenitori del primato dell’ordinamento interno, che ritengono che il
diritto internazionale sia fondato sul principio di autobbligazione degli
Stati e negano l’esistenza di un ordinamento internazionale distinto ed
autonomo da quello dei singoli Stati (JELLINEK).
Estratto della pubblicazione
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Il diritto e l’ordinamento giuridico
Gli istituzionalisti sono, invece, dualisti e separatisti, in quanto considerano l’ordinamento interno e quello internazionale come distaccati, reciprocamente coordinati, in condizioni di parità.
Per ROMANO, l’ordinamento giuridico internazionale è un’istituzione, ma ciò deriva dall’indagine sulla presenza nella comunità degli Stati di quei caratteri essenziali di ogni sistema
di diritto, sopra detti.
L’avversa dottrina negava questi caratteri, affermando che la società internazionale non è
una società giuridicamente organizzata, perché manca di un potere centrale cui siano sottoposti i singoli Stati. Questa tesi, è oggi molto affievolita per il peso, sempre maggiore, che le
Nazioni Unite fanno sentire sulla comunità internazionale.
Il concetto di organizzazione, nota ROMANO, non implica necessariamente un rapporto
di superiorità e di correlativa subordinazione.
Un esempio è l’accordo normativo, fonte del diritto internazionale, il quale produce una
volontà unica e superiore a quella dei singoli Stati (cioè quando il diritto internazionale acquista il carattere di ius supra partes), tutto ciò implica un’organizzazione, anche semplice, della
comunità interstatuale, la quale, anche se non dispone di organi propri, dovrà riconoscere una
posizione di subordinazione di tutti gli Stati membri verso un potere non soggettivo, impersonale, che determina l’esistenza della comunità.
È questo il senso da dare all’espressione «organizzazione», per rendere il concetto di istituzione nel diritto internazionale.
6. IL DIRITTO OGGETTIVO: RAPPORTI CON IL DIRITTO SOGGETTIVO
Nel termine «diritto», normalmente, si comprendono sia le «norme giuridiche» (cd. diritto oggettivo), sia il complesso di situazioni giuridiche
soggettive da questo riconosciute (cd. diritto soggettivo). Diritto oggettivo
e diritto soggettivo costituiscono «i due lati o aspetti del concetto di diritto,
inteso nella sua accezione integrale» (LEVI).
Come già osservato, però, per definire l’ordinamento giuridico ci si riferisce al diritto oggettivo, in quanto «insieme di norme», avendo poco rilievo in questa sede lo studio dei diritti soggettivi, manifestazioni dinamiche del diritto oggettivo cui ricorrono i singoli soggetti.
CARBONNIER qualifica il diritto oggettivo «grande diritto» in contrapposizione al «piccolo diritto», costituito dai diritti soggettivi.
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Che si intende per diritto soggettivo?
Trabucchi definisce il diritto soggettivo come «il potere attribuito alla volontà del soggetto di
agire (cd. facultas agendi, cioè «facoltà dell’agire») per il soddisfacimento dei propri interessi, potere riconosciuto e garantito dall’ordinamento giuridico (diritto cd. oggettivo).
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Capitolo Secondo
La dottrina tradizionale divide i diritti soggettivi in:
A) assoluti: hanno efficacia erga omnes (verso tutti) come i diritti della personalità, il diritto
alla vita, alla salute, alla libertà personale ecc.; il diritto di proprietà (il proprietario ha il
diritto soggettivo di godere del suo bene);
B) relativi: sono i diritti di credito, definiti come la pretesa del creditore ad un determinato
comportamento da parte del soggetto obbligato, e cioè il debitore, in tal caso il diritto si
dice relativo perché non può essere fatto valere erga omnes, ma solo nei confronti del
debitore.
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Parte della dottrina osserva come altro problema, relativamente al rapporto tra diritto soggettivo e diritto oggettivo, sia quello relativo all’individuazione di quale di essi abbia priorità rispetto all’altro e cioè se sia il diritto oggettivo (positivo) ad individuare il diritto soggettivo o se, al contrario,
sia quest’ultimo a preesistere al diritto oggettivo e sia da questo soltanto
tutelato.
Si osserva, a tal proposito, che le opzioni interpretative sono due e sono
le conclusioni delle diverse correnti filosofiche: il giusnaturalismo ritiene
che ogni uomo ha in se l’idea di giusto e che ad esso impronta in primis il
suo comportamento (diritto soggettivo), mentre il giuspositivismo attribuisce valore prioritario all’ordinamento (diritto oggettivo) a prescindere da
ogni giudizio umano.
7. IL GIUSNATURALISMO E IL GIUSPOSITIVISMO
Il giusnaturalismo (3) fu una corrente di pensiero compiutamente teorizzata nel 1600 dal filosofo e politologo olandese Ugo Grozio.
Idea centrale del pensiero giusnaturalista è quella secondo la quale «costituisce legge solo il dettato giuridico conforme a giustizia»: questo è il
diritto naturale.
Contrapposto al giusnaturalismo fu il giuspositivismo, corrente di pensiero che si affermò alla fine dell’Ottocento, secondo la quale l’unico diritto
esistente è quello vigente, costituito dalle norme giuridiche.
Contrariamente al giusnaturalismo, il giuspositivismo ritiene che il diritto, solo per il fatto di essere vigente, è efficace ed applicabile a prescindere da qualsiasi giudizio di valore sulla giustizia o meno delle sue norme.
(3) L’idea della ragione umana come fonte primaria del diritto naturale (recta ratio, quod omnia
animalia docuit, cioè quello che ragionevolmente tutti gli essere animali pensano) è molto antica e
risale, tra gli altri, ad Aristotele e Cicerone.
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Il diritto e l’ordinamento giuridico
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Importante sostenitore di questa corrente di pensiero fu il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679).
Thomas Hobbes nella sua opera «Leviatano» (mostro marino con il viso femminile e le cui
squame rappresentano i cittadini) teorizza l’egoismo e lo spirito di sopraffazione come istinti
naturali dell’uomo nella formula «homo homini lupus», istinto che la politica stimola e accresce.
Secondo HOBBES l’unico criterio di valutazione del giusto e dell’ingiusto è data dalla
legge positiva, il «comando del sovrano» («è giusto ciò che è comandato, per il solo fatto che
è comandato»).
HOBBES giunge così a questa conclusione: per uscire dallo «stato di natura» (stato intollerabile, poiché non esistono leggi in cui agisce secondo i propri interessi, non c’è criterio atto
a distinguere il giusto e l’ingiusto, tranne l’arbitrio del singolo) gli uomini stipulano un accordo (pactum subiectionis) in cui rinunciano ai diritti che avevano in natura, per trasmetterli ad
un sovrano: tra questi diritti c’è anche quello di decidere ciò che è giusto e ingiusto.
Questa è una concezione convenzionale della giustizia, secondo cui non esiste un giusto
per natura, ma solo un giusto per convenzione).
Per HOBBES, dunque, la validità e la giustizia di una norma non si distinguono, poiché
quando sorge lo Stato nasce la giustizia, ma nasce ad un tempo col diritto positivo, cioè insieme con la validità.
Conseguenza della teoria di HOBBES è la riduzione della giustizia alla forza, poiché,
dato che non esiste altro criterio di giustizia che quello del comando del sovrano, bisogna
accettare come giusto ciò che piace al più forte e il sovrano, fra tutti, è certamente il più forte
(anche se non è detto che sia il più giusto).
Il motivo per il quale la questione relativa al rapporto tra diritti soggettivi e diritto oggettivo sia legata alle correnti di pensiero citate tiene conto
della concezione che entrambe hanno avuto del diritto oggettivo:
— per i giusnaturalisti: il diritto vigente, cioè il diritto costituito dalla
norme emanate dal Legislatore e statuito dalle sentenze dei giudici, costituisce la positivizzazione di principi immutabili.
Per questa corrente di pensiero, cioè, esiste da sempre un coacervo di
diritti naturali, imprescindibilmente legati alla «retta» ragione umana,
presente in ogni individuo e necessariamente riconosciuti dal diritto oggettivo: intanto un diritto può dirsi vigente, in quanto ha come fine di
rendere positivi i diritti naturali.
Questi diritti (soggettivi) sono definiti, quindi, naturali, in quanto preesistono al diritto oggettivo e da questo devono essere osservati senza
eccezione: siffatta visione del diritto soggettivo viene definita «sintetica» (JORI-PINTORE).
Secondo i giusnaturalisti, dunque, sono i diritti soggettivi, connaturati alla natura dell’individuo, a preesistere al diritto oggettivo;
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Capitolo Secondo
— per i giuspositivisti: il diritto vigente non necessariamente deve costituire la positivizzazione dei diritti naturali: e ciò significa che il diritto
oggettivo deve essere considerato «positivo» anche se «calpesta i diritti
naturali».
Il diritto soggettivo è individuato, dunque, dal diritto positivo e dalla
tutela che questo decide di riconoscergli e non preesiste ad esso.
Questa visione del diritto soggettivo viene definita atomistica (JORI-PINTORE).
Secondo i giuspositivisti, dunque, è il diritto oggettivo a preesistere
ai diritti soggettivi (cd. «priorità logica» del diritto oggettivo).
8. IL REALISMO GIURIDICO
Alle correnti di pensiero appena trattate si affianca anche il realismo
giuridico, con il quale si intende far riferimento sia alla corrente di pensiero
statunitense sia a quella scandinava (scuola di Uppsala), in Italia seguita
dal compianto Rolando Quadri.
Trattasi di una corrente di pensiero, che, al contrario del giusnaturalismo e del giuspositivismo, privilegia l’efficacia delle norme giuridiche,
soprattutto in riferimento alla realtà sociale e alla volontà del corpo sociale,
che assurge a principale protagonista della vita dell’ordinamento che, con la
sua volontà, determina il diritto positivo: il diritto per il realismo è «lo spirito del popolo», in quanto le azioni umane formulano le regole di condotta
cui i consociati si adeguano.
Il diritto, quindi, non è unico, ma esistono tanti diritti, sia in relazione ai
diversi popoli, sia in relazione ai diversi momenti storici di un medesimo
popolo.
Il realismo contrasta, quindi, sia con il giusnaturalismo che con il giuspositivismo:
— con il primo perché privilegia un diritto reale contro un diritto ideale
(giusnaturalismo), quello che deriva dalla effettiva volontà del corpo
sociale;
— con il secondo perché considera il diritto non dal punto di vista formale
(giuspositivismo), ma concreto ed effettivo, in relazione alle statuizioni
e ai principi dettati dal corpo sociale ed al diritto effettivamente applicato nella società.
Estratto della pubblicazione
Il diritto e l’ordinamento giuridico
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Il vero diritto è, dunque, quello che viene elaborato ed effettivamente
applicato in Tribunale dai giudici (cd. diritto giudiziario) (4) o quello che la
volontà del corpo sociale reitera con comportamenti costanti e concludenti
(diritto consuetudinario).
Si è, infatti, sostenuto che è soltanto il giudice colui che «crea» il diritto: CATANIA osserva come ciò comporti «l’eliminazione del dualismo essere-dover essere». Se si considera, infatti, che al «dover essere del diritto» è collegato il concetto di legge (norma giuridica) e
all’«essere del diritto» è collegato il concetto di diritto applicato effettivamente dai giudici,
per i sostenitori del realismo, in particolare di quello americano, questa differenza tra legge e
diritto applicato non sussiste più, in quanto è il giudice ad essere il vero «creatore» del diritto
nel momento in cui applica concretamente la legge.
È in questo senso che il realismo parla di diritto cd. vivente che, per poter essere considerato valido, oltre che efficace, è necessario che sia applicato dai giudici.
Il diritto vivente è «fatto o serie di fatti da cui il giudice trae la conoscenza delle aspirazioni giuridiche che si vengono formando nella società»
(CATANIA).
Sono i giudici che, nel loro ruolo, conferiscono validità ad un diritto
che, prima di quel momento, è soltanto efficace.
Tuttavia tale impostazione ha creato una certa perplessità in quanti hanno evidenziato come, in tal modo, venga ad essere minato il fondamentale
principio della certezza del diritto. Infatti, attribuendo al giudice il potere
di decidere ogni volta in modo diverso, dandogli la possibilità di «creare
diritto», sicuramente non è più possibile prevedere con certezza le conseguenze giuridiche di una determinata condotta, in quanto oggetto di «statuizioni» diffuse, cioè adottate da differenti giudici.
Per quanto riguarda la consuetudine, il pensiero realista ritiene che risponda meglio alle esigenze del corpo sociale di cui è la più genuina espressione.
Attribuire tanta importanza al cd. «diritto giudiziario» ed alla consuetudine ha imposto una «revisione» delle fonti del diritto: ciò spiega perché il
realismo giuridico ha avuto maggior fortuna nei paesi di common law, come
negli Stati Uniti d’America e nei paesi anglosassoni.
Dunque, il realismo giuridico conferisce importanza alla validità delle
norme e ritiene che l’efficacia costituisca un presupposto della validità
stessa.
(4) Il diritto giuridico è la più genuina manifestazione del diritto vivente, per il continuo adattamento delle statuizioni emanate dai giudici in conformità ai rapporti sociali e ai bisogni concreti
della società.
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Cosa è la consuetudine?
La consuetudine è tradizionalmente considerata come «un comportamento costantemente
ripetuto dai membri di un gruppo nella convinzione di osservare una norma giuridica o,
comunque, nella previsione che anche gli altri assumano un comportamento analogo».
Essa si compone quindi di due elementi fondamentali: uno oggettivo e l’altro soggettivo.
L’elemento oggettivo si identifica con la cd. diuturnitas o l’usus, cioè con la costante ripetitività di un determinato comportamento nel tempo, mentre l’elemento soggettivo con la cd.
opinio iuris ac necessitatis, cioè con la convinzione, da parte di coloro che osservano la consuetudine, che tale comportamento sia obbligatorio.
Non necessariamente una consuetudine efficace è anche valida, in quanto l’efficacia è data
dalla ripetizione nel tempo di un determinato comportamento ma, perché la consuetudine sia
anche valida, occorre qualcosa in più.
Qual è il fondamento della consuetudine come fonte del diritto?
La «giuridicità» delle consuetudini viene differentemente spiegata:
— per la dottrina che si rifà al diritto romano e canonico, la consuetudine si identifica con la legge.
Entrambe, infatti, sono il frutto dell’accordo tra Stato e cittadini e la differenza è solo nella
tecnica di stipulazione: modo formale ed espresso per la legge, modo tacito per la consuetudine;
— per la dottrina anglo-americana (AUSTIN) il fondamento della consuetudine risiede nel
potere del giudice che la accoglie per risolvere una controversia: quando il giudice applica
la consuetudine liberamente essa diventa legge;
— per la scuola storica (SAVIGNY-PUCHTA) la consuetudine ha carattere giuridico indipendentemente dal legislatore o dal potere giudiziario, in quanto si basa sulla volontà
popolare che permette di distinguere le consuetudini dalla semplice usanza.
Cosa occorre perché una consuetudine efficace sia anche valida?
Perché una consuetudine sia valida, oltre che efficace, è necessario che a quel comportamento
ripetuto venga conferito dall’ordinamento giuridico il carattere della giuridicità (CATANIA).
Se, infatti, oltre alla diuturnitas, per poter parlare di consuetudine, è necessaria anche la convinzione della obbligatorietà di un certo comportamento, tale convinzione sarà possibile solo se vi
sia una norma, nell’ordinamento giuridico di riferimento, che tale obbligatorietà gli attribuisca.
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Glossario
Antinomia: (vedi cap. IV).
Norma giuridica: è il comando generale ed astratto rivolto a tutti i consociati, con il quale
si impone ad essi una determinata condotta, sotto la minaccia di una determinata reazione
(sanzione).
Analogia: è il procedimento attraverso il quale vengono risolti i casi non previsti dalla
legge, estendendo ad essi la disciplina prevista per i casi simili (cd. analogia legis) o, se il
caso resta ancora dubbio, ricorrendo ai principi generali del diritto (cd. analogia iuris).
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Il diritto e l’ordinamento giuridico
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Il ricorso all’analogia è possibile quando:
— il caso in questione non sia previsto da alcuna norma;
— tra la fattispecie prevista dalla legge e quella non prevista vi siano similitudini riguardanti gli elementi della fattispecie prevista, nei quali si ritrovi la giustificazione stessa
della disciplina legislativa (eadem ratio).
Società: aggregazione di individui diversi, accomunati da modelli culturali omogenei trasmessi di generazione in generazione e soggetti a innovazioni.
Gli individui formano una società quando:
a) rappresentano una collettività stabile;
b) condividono la stessa cultura;
c) sono consapevoli di appartenere ad uno stesso gruppo e si identificano con esso.
Estratto della pubblicazione
CAPITOLO TERZO
LE FONTI DEL DIRITTO
Sommario: 1. Ordinamenti giuridici semplici e complessi. - 2. Le fonti del diritto:
fonti di produzione e fonti sulla produzione. - 3. Principali fonti dell’ordinamento
costituzionale.
1. ORDINAMENTI GIURIDICI SEMPLICI E COMPLESSI
La dottrina distingue gli ordinamenti giuridici in semplici e complessi:
— ordinamenti giuridici semplici: sono quelli costituiti da una sola fonte
del diritto (esempio: il sovrano, il legislatore, ecc.);
— ordinamenti giuridici complessi: sono caratterizzati, al contrario, dalla
presenza di una pluralità di fonti.
Normalmente, gli ordinamenti contemporanei appartengono al secondo
tipo e sono caratterizzati da una pluralità di fonti di diversa provenienza.
Due sono i mezzi tramite i quali si producono norme giuridiche:
a) la «recezione» di norme preesistenti e derivanti da altri ordinamenti (cd. fonti riconosciute);
b) la «delegazione» della capacità normativa da parte dell’autorità superiore ad organi inferiori (cd. fonti delegate).
Esempio di recezione è costituito dalla consuetudine in quanto, nel momento in cui il
legislatore rinvia a questa non fa altro che «accogliere», nell’ordinamento giuridico, norme di
uso comune ad esso preesistenti.
Un esempio di delegazione si ritiene, invece, ravvisabile nei regolamenti che sono posti in
essere da organi amministrativi nel rispetto della legge (vedi paragrafi successivi).
Entrambi queste fonti sono definite dalla dottrina come derivate o indirette e si pongono
accanto alla fonte primaria diretta (la legge).
Il nostro ordinamento giuridico rientra negli ordinamenti complessi, in
quanto caratterizzato dalla presenza di una pluralità di fonti (es.: fonti derivanti da ordinamenti sovranazionali – Comunità europee – fonti di soggetti autonomi dell’ordinamento – Regioni –.
Alle Regioni, secondo la vigente Costituzione, spetta una parte della «Sovranità» che consente ad esse di essere titolari di un potere di legislazione
esclusiva) oltre alle fonti di secondo grado (atti di autorità amministrativa).
Estratto della pubblicazione
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