8 PRIMO PIANO Martedì 18 Ottobre 2016 Specialmente quello della letteratura. Segue le mode del tempo ed è orientato solo a sinistra Il Nobel non sancisce il valore Ha ritenuto la Deledda più meritevole di Pirandello DI MARCO BERTONCINI L a scomparsa di Dario Fo ha prestato occasione per rinnovare riserve e critiche contro il conferimento del Nobel 1997 per la letteratura. La coincidente attribuzione del Nobel a Bob Dylan ha scatenato una diatriba tra favorevoli e contrari, sia per lo specifico del personaggio insignito, sia per la scelta di un cantautore. Bisognerebbe far piazza pulita di simili questioni. C’è un solo modo: rendersi una buona volta conto che, nonostante la fama planetaria del premio, non si deve assegnargli alcun valore di merito. Non c’è gloria, non c’è valore, c’è soltanto moneta (un milione di euro, poi ridotti ma non troppo, per il vincitore). Il riferimento va compiuto ai premiati per la letteratura, ma può tranquillamente rivolgersi pure ai Nobel per la pace, vigorosamente lottizzati, decisi da un gruppo di politici norvegesi in maggioranza orientati a sinistra, assegnati anche a chi nulla aveva operato per la pace (come Barack Obama prima della presidenza). Secondo il testamento di Alfred Nobel, il premio per la letteratura è da assegnarsi a chi produca l’opera di tendenza idealistica più notevole. Quindi i valori estetici importano ben poco. La stessa giuria fin dall’inizio si arrabattò a capire che cosa significasse quel riferimento all’idealismo, che ovviamente non ha alcun rapporto con la corrente filosofica. Un italianista ordinario a Göteborg, Enrico Tiozzo, ha scritto meritori e documentati saggi e libri sui tormentati conferimenti dei Nobel letterari, condizionati da conoscenza e ignoranza delle lingue dei papabili, dall’influenza di taluni membri della giuria, dall’in- Dario Fo terpretazione della volontà del testatore (Giosue Carducci patì difficoltà per i suoi trascorsi ribelli, depurati dalla maturità monarchica). Nel ’74 furono insigniti del Nobel due scrittori (caso unico) entrambi componenti dell’Accademia Svedese, cioè dell’istituzione che designa i vincitori. Vi sono Nobel appannaggio di personaggi che non si possono certo considerare operanti nella letteratura, dall’antichista Theodor Mommsen al politico Winston Churchill. Abbondano gli scrittori nordici (di Svezia, Norvegia, Finlandia, Islanda, Danimarca). Numerosi sono gli sconosciuti o scarsamente meritevoli, che nella loro attività possono vantare come unico pregio proprio il Nobel. Guardando in casa nostra, e lasciando stare il clamoroso caso di Fo anteposto a qualche centinaio di scrittori italiani, non si può certo sostenere che Grazia Deledda fosse ai vertici della letteratura italiana. Quanto a Salvatore Quasimodo, si ricorda il titolo di un articolo di un celebre critico nostrano: «A caval do- nato». Di fatto, quel premio al poeta siciliano ebbe come concreta conseguenza un travaso di bile nell’escluso Giuseppe Ungaretti, raggiunto successivamente da un’altra crisi di rabbia e di gelosia per il laticlavio a vita concesso al rivale Eugenio Montale (il quale fu insignito a sua volta del Nobel anni dopo la morte di Ungaretti). Negli ultimi decenni a Stoccolma hanno pensato bene di premiare a turno scrittori nelle periferie del mondo, per dirla con papa Bergoglio. Come il papa conferisce la berretta cardinalizia a sconosciuti presuli di diocesi di sconosciute isole, così il Nobel per la letteratura va in Mauritius o Santa Lucia, non di rado con predilezioni per personaggi di sinistra. Una lottizzazione geopolitica, dunque, cui si deve reagire considerando il premio un evento di scarso rilievo. Il valore di uno scrittore non si misura con la conquista del Nobel. © Riproduzione riservata DA FASCISTA NERO (ANZI REPUBBLICHINO) È DIVENTATO FASCISTA ROSSO MA SEMPRE FASCISTA È STATO Dario Fo è stato un uomo coerente Fu nemico per tutta la vita della democrazia liberale DI F GIANFRANCO MORRA unerali stupendi, come lui li voleva. «Una risata vi seppellirà» era la sua parola d’ordine, e una risata di migliaia di persone, nella sua Milano, lo ha accompagnato all’ultimo palcoscenico. Dopo una vita di lotta, nella quale espresse con toni parossistici le finalità immutabili della sua vocazione: lamento moralistico e aggressività politica. Ha accompagnato quasi un secolo di storia italiana, sempre con una straordinaria coerenza. Ma come, non ha cambiato gabbana? Pochi hanno ricordato, nei necrologi, la sua adesione al fascismo di Salò, la sua opera di «rastrellatore di partigiani», come si espresse la magistratura. E meno ancora hanno parlato del suo salto, caduto il fascismo, nell’antifascismo radicale. Meglio così, Fo non era uomo che cambiava le sue idee. Ha detto giustamente: «facevo il doppio gioco», mezzo fascista e mezzo partigiano. Il giovane fascista rosso da adulto divenne un comunista nero. Parlava di libertà, ma pochi erano totalitari come lui. Crudele il giudizio della Fallaci in una prosa del 2002: «Prima fascista nero, ora fascista rosso». La «Carta di Verona» della Repubblica sociale riconduceva il fascismo alle sue origini di socialismo nazionale: lotta di classe contro la plutocrazia, il capitalismo, le banche, gli ebrei. Che rimasero i bersagli di Fo anche dopo la «redenzione»: il suo antisionismo, concentrato nella pièce «Fedayn» (1972), era totale, considerava lo Stato di Israele simile all’apartheid del Sudafrica e peggio ancora del nazismo; l’11 settembre nell’attentato alle Twin Towers lesse «una violenza figlia legittima della cultura della violenza», se non, forse, «un complotto petrolifero»; deluso della destalinizzazione, si aprì alla rivoluzione culturale cinese ed alla sinistra extraparlamentare. Di poveri e diseredati ha parlato in continuazione, di gulag in nessun luogo. Si comprende allora il suo impegno totale nella rivoluzione antropologica degli anni Sessanta e la sua attività con il «Soccorso rosso militante» per difendere terroristi come quelli che bruciarono a Quintavalle due ragazzi di 22 e 8 anni. Durissimo fu il suo attacco al commissario Calabresi. Non solo con la pièce «Morte accidentale di un anarchico» (1970), ma anche sottoscrivendo quella lettera degli «intellettuali» di sinistra, che finì per stimolare coloro che lo assassinarono. Anche questi non mancò di difendere. Con decisione e lucidità si oppose a tutti i valori dell’occidente, civiltà che riteneva fondata solo sul danaro e lo sfruttamento. Lo fece con le indiscutibili qualità di cui era dotato. Il «giullare» Fo non fu uomo di teatro nel senso tradizionale. Fu, tuttavia, un innovatore di indiscutibile inventività ed efficacia, per mezzo di farse e vaudeville, satire e fescennini, un cabarettismo politico di grande presa sul pubblico, con cui intendeva far rinascere il teatro popolare nel solco della commedia dell’arte. L’attribuzione del Nobel per la letteratura, dopo Carducci, Pirandello, Montale, fu almeno avventata, ancor più di quella che ora l’ha attribuito a Bob Dylan. Due Pop-Nobel rivelatori dello scivolamento della cultura occidentale nel pensiero unico della quotidianità gestita dall’industria culturale. Da alcuni anni si prevedeva che andasse a Mario Luzi, certo allora il più grande poeta italiano vivente: «ne ho piene le scatole», disse quando seppe che gli avevano preferito Mister Buffo. Nemico per tutta una vita della democrazia liberale, che aveva sconfitto i suoi due grandi amori, il fascismo e il comunismo, appoggiò con le sue rumorose «pernacchie» tutte le lotte contro lo spirito europeo. Più di mezzo secolo di dissacrazione e demitizzazione, così esasperate e insistenti che pochi avevano il coraggio di chiedersi: ma cosa propone di positivo? Lui non l’ha mai fatto, come non lo facevano i suoi discepoli della contestazione studentesca: «L’importante per ora è distruggere, dopo si vedrà». Anticlericale fu sempre e non simulò mai una religione che non voleva avere e le cui figure e dogmi buffoneggiava nei suoi lavori. Ha sempre deriso il gioco clericale alla «Famiglia cristiana» di vedere nell’anticlericalesimo una nostalgia religiosa. E certo non voleva neppure esequie da inciucio: «Io sono e rimango ateo». Era naturale che facesse parte della claque di papa Francesco, un nome che certo gli piaceva, al quale aveva dedicato quella che forse è la sua più spudorata falsificazione: «Lu santo jullare» (1999). Apprezzava Bergoglio per ciò che distruggeva: «un rivoluzionario che sta cambiando il volto della Chiesa». E il suo laico e religiosissimo funerale, nel nostro momento in cui tutti chiedono esequie religiose, è stato un esemplare spettacolo teatrale. Quella del sagrato del Duomo è stata la sua ultima okkupazione, ma col plauso universale dei poteri forti: presidenza della repubblica, governo, parlamento, comune, arcivescovado, la (nuova!) Rai. Le persecuzioni e le denunce per oltraggio di cui nel passato fu vittima, hanno lasciato il campo all’esaltazione frenetica, con cui il pensiero unico di regime lo ha santificato. Ha avuto un funerale con tutta la mitologia demodé degli anni Sessanta: il pugno chiuso, le bandiere di «Soccorso rosso», il ritratto di Che Guevara, il canto «Bella ciao». Come ha detto assai bene suo figlio Jacopo: «Siamo comunisti, atei e un po’ animisti». Non gli mancarono le cadute di stile, come quando fece ironia sulla statura di Fanfani e, con maggiore facilità, su quella di Brunetta. Ma nessuno potrà negargli la straordinaria capacità di capire, nei mutamenti sociali e politici, da che parte poteva trovare appoggi per la sua opera distruttiva dei valori della nostra tradizione europea. Dopo aver appoggiato i due più feroci totalitarismi del secolo, quello nazifascista e quello comunista, trovò una consolazione nel populismo becero del M5S, che lo ha proposto come Presidente della Repubblica. Le pernacchie di Fo sono diventate il vaffanculo di Grillo. Non senza ragioni, dato che parte notevole del paese apprezza i due attori comici. Ecco perché una riflessione su come Dario da perseguitato e reprobo degli anni Sessanta è divenuto maestro e modello di vita del nuovo secolo la dice lunga su quello che la nostra Italia è diventata. © Riproduzione riservata