a n n o u n o n u me r o u n o I N T R E C C I quadernidiantropologi a culturale a n n o u n o n u me r o u n o I N T R E C C I quadernidiantropologi a culturale I N T R E C C I quadernidiantropologi a culturale Pe r i odi c or e gi s t r a t opr e s s oi lTr i buna l ediSa s s a r i R. G. S. n° 2 /2 0 1 1 VG1 8 0 /2 0 1 1 Indice 5 Intrecci. Due righe di presentazione. Proposte 9 Domenico Branca La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. Ricerche 35 Alessandro Pisano La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione. 59 Manuela Casu Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. 83 Valentina Mura La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. Riflessioni sul rapporto con i Rom. 105 Emiliano Branca Charivari. Condanna e repressione. 127 Stefano Pau Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. Lavoro 153 Davide Stocchero Riflessioni sull’antropologia culturale professionale’. in versione ‘applicata e 183 Moreno Tiziani, Lucia Galasso La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. L'attività di Antrocom onlus. 201 Gli autori Intrecci. Due righe di presentazione. Questo che state – virtualmente – sfogliando è il primo numero di una nuova rivista di antropologia culturale. Molti di voi si chiederanno il senso di un’iniziativa simile in un momento come questo. La crisi dell’antropologia in Italia è sotto gli occhi di chiunque la voglia vedere: chiusura dei corsi, sbocchi professionali praticamente nulli, neanche quelli, come l’insegnamento nei licei delle Scienze Umane o come l’impiego come funzionario per i beni DEA nelle Soprintendenze, che sembrerebbero fuori discussione. Anche le scuole di dottorato si sono drasticamente ridotte, così come le borse di studio nelle poche che sono rimaste. Sui forum e sui blog che si occupano di antropologia il ritornello è sempre uno: l’Italia non è un paese per antropologi. Ma può essere questa la soluzione? Al di là della libera scelta di ognuno, può la fuga dei cervelli essere l’unica prospettiva per chi vuole proseguire in questo campo? Certo, le politiche che gli ultimi governi hanno portato avanti sono a dir poco avvilenti. “Dalla cultura non si mangia”, ha detto l’ex ministro Giulio Tremonti. Eppure la risposta che diamo è un risoluto NO! È urgente – ed è in atto – una riflessione sulla nostra disciplina e su come possa inserirsi nelle dinamiche della società nel quale viviamo, non solo dal punto di vista lavorativo. Nella valorizzazione del patrimonio culturale, nelle policy nel campo delle migrazioni, nella pianificazione urbanistica: sono tanti i settori in cui potremo intervenire con competenza e cognizione di causa. A queste tematiche abbiamo scelto di dedicare una rubrica fissa all’interno della rivista – Lavoro – in cui raccontare esperienze di antropologia applicata e professionale o proporre riflessioni di carattere più generale, anche fortemente critiche, come quella pubblicata in questo numero, contro la formazione accademica e i suoi limiti. QUADERNI DI ANTROPOLOGIA CULTURALE, vol. 1, n° 1, Ma l’intento di Intrecci va oltre, offrendo la possibilità a studenti alle prime armi di confrontarsi con i meccanismi delle pubblicazioni scientifiche ben più autorevoli della nostra. Una delle cose che manca nella formazione antropologica italiana è la pratica di scrittura, soprattutto nella forma di articolo. Eppure è principalmente attraverso questo strumento che avviene la comunicazione scientifica, nel settore antropologico come in qualunque altro. Alla domanda “Che cosa fa l’antropologo?” Clifford Geertz rispondeva “Scrive”. È ovvio che c’è molto altro, ma è anche indiscutibile che mettere al corrente del lavoro fatto – o che si sta facendo – deve essere un obbligo, così come quello di sottoporsi al giudizio “tra pari”. Per questo le prime due rubriche di cui è composto Intrecci – Proposte e Ricerche – presentano contributi inediti e sottoposti a peer review, attraverso il procedimento del double blind. Quella che proponiamo è un’idea di antropologia culturale ampia, inclusiva, che superi certi steccati che le scienze sociali e umanistiche hanno artatamente costruito e che costituiscono spesso un ostacolo alla comprensione delle pratiche culturali. In questo senso, il sottotitolo “Quaderni di antropologia culturale” è da intendere in senso lato. Già in questo primo numero potrete leggere un articolo di storia sociale ed uno al confine dei cultural studies. Insomma, Intrecci vuole essere uno strumento di crescita per chi si affaccia al mondo dell’antropologia in Italia e vuole crescere a sua volta, dotandosi già dal prossimo numero di un comitato scientifico e aprendosi a contributi anche internazionali. Le nostre intenzioni non possono essere che delle migliori. Associazione Demo Etno Antropologica Ass.D.E.A. QUADERNI DI ANTROPOLOGIA CULTURALE, vol. 1, n° 1, PROPOSTE წინ ა და დე ბა πρότ ασε ι ς Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. Domenico Branca La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. Abstract This article analyses the debate about globalization as cultural uniformity. The interconnection between places, people, technology, economy, information, is commonly considered as a process of cultural levelling. This point of view asserts that cultural and social diversities will disappear inexorably in a brief period of time, because of Western and U.S. Imperialism. Conversely, the article states that although distances are increasingly reduced, and contacts become more frequent and pervasive, fear of homogenization appears to be unfounded. Messages, objects, practices are not automatically accepted by groups, communities, society; it’s the latter who decide whether to use the former [or not] and how. Messages, objects, practices are indigenized, creolized in a coherent and creative way, making them indigenous. Key words Globalizzazione; uniformazione culturale; indigenizzazione; ibridazione; creatività culturale. La globalizzazione, come oramai noto, ha originato una serie di dinamiche indagate in prospettiva interdisciplinare e da studiosi di differente orientamento teorico e metodologico (Sklair 1991, Featherstone 1996, Clark 1997, Giddens 2000, Friedman 2007). Tra le valutazione mosse, vi è quella che la considera un processo tendente all’omologazione delle differenze culturali, una sorta di ‘metodologia dell’uniformità’ che annienta le differenze e le peculiarità locali a favore di un appiattimento culturale. Hannerz, a questo proposito, afferma che oggi esiste Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 9 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. una cultura mondiale, ma che questa sia lontana dall’essere “una replica uniforme dei modelli unici”; appare, invece, come “un’organizzazione della diversità, un’interconnessione crescente di culture locali differenti” (Hannerz 2001: 129). Per Bauman (2001: 4) “i processi di globalizzazione non presentano quella unicità di effetti generalmente loro attribuita”, e Friedman specifica che “i processi globali che stanno trasformando la vita dei popoli in ogni parte del mondo non sono semplicemente una questione di diffusione della Coca-cola, sitcom e internet”, ma vanno visti in maniera molto più articolata e complessa, dal momento che sono frutto “di movimenti culturali” che producono ideologie transnazionali (Friedman 2002: 1). Come sintetizzano Breidenbach e Zukrigl in un loro interessante lavoro: Come cambia la cultura nell’era della globalizzazione? La discussione condotta finora cementa o il cliché di una fusione culturale mondiale o lo scenario di una frammentazione di società intatte. Opere come Jihad vs McWorld (Guerra Santa contro il McMondo) di Benjamin R. Barber [1996] vedono la frammentazione e l’omogeneizzazione come due poli di una evoluzione che si condizionano reciprocamente. Il termine Jihad, usato da Barber non solo per designare la guerra santa islamica ma ogni particolarismo locale, è così definito come reazione al livellamento mondiale dovuto a un mercato dominato dall’Occidente. Nel processo di fusione delle culture sorgerebbe una «monocultura americana» su scala planetaria, la quale mescolerebbe la varietà delle culture nazionali cresciute in un «omogeneo parco tematico globale» alla Disneyland (Breidenbach, Zukrigl 2000: 14). E ancora, più avanti: Per molti «globalizzazione» significa omogeneizzazione. I contatti crescenti tra società che in passato vivevano non avendo conoscenza le une delle altre e le loro reciproche dipendenze sembrano distruggere intere culture, o quanto meno appiattire la loro diversità. A questa 10 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. rappresentazione contribuisce il fatto che sempre più numerosi sono coloro che consumano le stesse cose e sono condizionati durevolmente dal consumo di massa. In un mondo in cui dappertutto si vede Dallas, si lavora con Microsoft e si gioca con bambole Barbie, le persone sembrano diventare sempre più simili (Ivi: 35). In realtà, continuano le studiose, la situazione reale è decisamente diversa. La globalizzazione non diviene strumento di omologazione, per lo meno a livello culturale, di appiattimento totale in un’ottica di americanizzazione e/o occidentalizzazione temuto da più parti, “non si manifesta dunque attraverso l’indebolimento delle diverse culture né tanto meno attraverso il conflitto tra segmenti culturali sparsi che sarebbero rimasti intatti nel corso della storia” (Amselle 2007: 88): come afferma il biochimico Kauffman,1 “inventeremo nuove forme culturali più velocemente di quanto non ci omogeneizzeremo” (De Biase 2001: 245). Al contrario, quindi, le resistenze a questa ‘metodologia dell’uniformità’ appaiono più vive che mai. La paura dell’Americanizzazione Quando si parla di globalizzazione culturale, ci si riferisce alla forza egemonica che riveste l’Occidente e, nella fattispecie, gli Stati Uniti. Questa considerazione tuttavia non tiene conto di diversi fattori, senza i quali l’analisi risulterebbe semplicistica e 1 Stuart Kauffman (1939) è un biochimico, teorico e ricercatore americano. Fra i suoi interessi principali, lo studio della ‘teoria della complessità’. Nel suo A casa nell'universo. Le leggi del caos e della complessità (2001), lo studioso dedica l'ultimo capitolo ad ‘Una civiltà globale emergente’. In questa parte l’autore applica la teoria della complessità anche a campi non strettamente legati ai propri interessi. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 11 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. incompleta. È vero che, come scrivono Berger e Huntington (2002), il quadro è complicato, e che sia indubbio che esista “una emergente cultura globale, con un’origine davvero molto americana” e come sottolinea Friedman, ci sia una “crescente egemonia di certe culture prevalenti; la diffusione dei valori, dei beni di consumo e dello stile di vita americani” (1994: 195). Nonostante questo, diamo ragione a Tomlinson – a livello sostanziale – quando afferma che si è molto lontani dall’emergere di una cultura unica, egemonica e globalizzata (2001: 104): I dati più evidenti a sostegno di quest’affermazione sono la ‘convergenza’ e la standardizzazione, a livello mondiale, dei beni culturali. Qualunque settore si prenda in esame, dall’abbigliamento agli alimenti, alla musica, al cinema e alla televisione (e a tutto ciò che si intende per ‘culturale’), non si può ignorare il fatto che oggi certi stili, marchi, gusti e pratiche abbiano una diffusione globale e possano essere riconosciuti praticamente ovunque nel mondo. […] Gli aeroporti internazionali – presunte vie d’accesso alla diversità culturale – sono esempi perfetti (anche se particolari) di questa sorta di ‘sincronizzazione culturale’: quasi identici in ogni parte del mondo, essi presentano stili di arredamento uniformi, offrono una ‘cucina internazionale’ e propongono nei duty-free shop un’intera gamma di noti marchi internazionali. In effetti, alcuni marchi globali e icone della cultura di massa sono diventati cliché – la Coca-Cola, i McDonald’s, Calvin Klein, la Microsoft, la Levi’s, Dallas, la IBM, Michael Jackson, la Nike, la CNN, la Marlboro, Schwarzenegger – alcuni persino sinonimi della stessa omogeneità culturale occidentale: ‘McMondo’, ‘cocacolonizzazione’, ‘mcdonaldizzazione’ e addirittura ‘mcdisneyzzazione’ (Ibidem). Ma – continua lo studioso – “il problema, rispetto all’argomento dell’imperialismo culturale, è che dà per scontata tale influenza, che compie un salto logico dalla semplice presenza dei beni culturali – ma che effettivamente risultano essere ‘marchi’ culturali – all’attribuzione di effetti culturali o 12 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. ideologici più profondi” (Ibidem). In definitiva per Tomlinson “semplicemente la cultura non si trasmette in questo modo unilaterale. Lo scambio tra regioni culturali e regioni geografiche comporta sempre l’interpretazione, la traduzione, la trasformazione e l’adattamento, e comporta ‘l’indigenizzazione’” nel caso in cui “la cultura ricevente fa valere le proprie risorse culturali, in modo dialettico, sui prodotti culturali d’importazione” (Ivi: 105). L’analisi di Tomlinson appare puntuale, anche se suscettibile di alcune doverose precisazioni: in primo luogo, l’autore si riferisce alla presenza nei “nostri aeroporti” di prodotti esclusivamente Occidentali e di massa. Questo non corrisponde a verità, dal momento che negli aeroporti sardi, italiani – ma anche irlandesi ed Europei in generale – si tende alla differenziazione nella vendita dei prodotti, puntando sulla promozione di cibi e vini locali, o altri prodotti tipici (a Dublino, ad esempio, si possono comprare prodotti tradizionali irlandesi dentro l’aeroporto, non reperibili in altri luoghi). Il secondo passaggio si riferisce alla nota serie televisiva statunitense Dallas; “diffusa a livello mondiale, è stato evidenziato che non necessariamente si è trattato del primo lampante esempio di americanizzazione televisiva, dato che in vari paesi il suo successo non è stato altrettanto unanime” (Lai 2006: 67). Ciò che appare indubbio, è l’egemonia culturale esercitata dall’Occidente e, soprattutto, dagli Stati Uniti d’America. “Fra le due guerre il suo principale strumento di diffusione era stata l’industria cinematografica, la sola che avesse una distribuzione mondiale di massa. I film americani venivano visti da un pubblico di centinaia di milioni di persone”, (Hobsbawm 2000: parte X); quindi “non è [...] sorprendente che la potenza di Hollywood rifletta, in un certo senso, la potenza economica, Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 13 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. finanziaria, politica, militare degli Stati Uniti. In altri termini, il cinema hollywoodiano riflette l’imperialismo americano” (Bourget 1985: 182).2 Tra i diversi modi in cui la potenza culturale statunitense si esprime, il cinema rappresenta di sicuro uno dei mezzi più potenti. Come afferma Noam Chomsky, intellettuale assai critico nei confronti della politica statunitense, ci troviamo nell’”anomala condizione [di un] pianeta unificato sotto un’unica superpotenza” (2001:10). L’America può in questo modo sapientemente amplificare la propria forza, peraltro smisurata, declinando congiuntamente un’egemonia economico-industriale, un’egemonia finanziaria data dall’identità della propria divisa con la moneta mondiale di pagamento, un’egemonia schiacciante sul piano tecnologico- militare [...], un’egemonia culturale data non tanto dalla penetrazione dell’immaginario americano di Hollywood e dintorni, quanto dalla pressione secolare alla monetizzazione e mercificazione di qualsiasi cosa e valore, figlia del primato del mercato liberale di genesi anglosassone che continua a coniugare secolarizzazione con capitalismo, modernità con statualità (Ivi:10-11). I messaggi, citando Hall (cfr 1973), vengono, è vero, decodificati dai membri di una data cultura, ma è indubbio che questi messaggi provengano – non sempre, chiaro – da una stessa fonte. La resistenza a questo tipo di logica consiste, dunque, nel risemantizzare, creativamente, questi segni, riconducendoli a qualcosa di noto al proprio orizzonte culturale o inventandone un senso e un significato nuovi. Questa egemonia culturale Occidentale e, soprattutto statunitense, non implica una uniformazione incondizionata dei tratti culturali 2 Per quanto riguarda il cinema non bisogna dimenticare potenze quali Bollywood (in India) e Nollywood (Nigeria), superiori come produzione di film anche agli Stati Uniti. 14 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. delle diverse società. Una tale preoccupazione era già avvertita; infatti, la prima antropologia ‘di campo’ si accorse che la colonizzazione aveva mutato in modo radicale e spesso violento le strutture socio-culturali e politiche delle popolazioni assoggettate e lavorò per cercare di salvare (la cosiddetta salvage anthropology) da un oblio imminente le peculiarità delle diverse comunità (Mead 1980, Malinowski 2004, Lévi-Strauss 2008, Benedict 2010; per una critica cfr. Geertz 1990, Sahlins 1993, Favole 2010). Senza voler criticare degli approcci teorici che sono esclusivamente riconducibili ad un preciso contesto storicoculturale, e senza assolutamente voler chiudere gli occhi di fronte alle nefandezze del colonialismo e dell’imperialismo – colpevole di essersi lasciato alle spalle decine di milioni di vittime, durante la sua avanzata (Bodley 1990, 1992: 37) – vogliamo, invece, porre l’accento sulla capacità che hanno gli uomini e le donne, di qualunque cultura, di resistere, nel senso di riuscire, creativamente, a ricostruire, combinare fra loro, i cocci di un sistema dotato di senso. È in quest’ottica che l’antropologia abbandona la despondency theory (Sahlins 2000) alla volta di un approccio che finalmente restituisca anche agli Altri la capacità e la dignità di progredire, in opposizione alla cristallizzazione in cui l’Occidente le ha relegate. Dunque, la considerazione omologante scarta, in maniera troppo semplicistica, le reali dinamiche che operano nel cosiddetto sistema-mondo (Wallerstein 1979), in ottica macrosociologica, e l’effettiva potenzialità delle popolazioni nonoccidentali di essere responsabili di un proprio, peculiare e cosciente progresso, come ‘agenti’ e non come ‘agiti’. Una considerazione di questo tipo, infatti, non è esente da implicazioni che ancora evocano tracce di una subalternità Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 15 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. culturale da parte delle popolazioni Altre. È possibile rintracciare storicamente, in seno all’antropologia, la convinzione che l’Occidente avesse agito prima da carnefice, salvo poi, mosso dai propri valori ‘indiscutibilmente’ alti, redimersi e tentare di salvare, quasi musealizzandole (Scheper-Hughes 2005), le culture in pericolo di estinzione. Ma ad oggi – come allora, naturalmente – le comunità indigene fanno parte della Storia, e in maniera consapevole. Sarebbe etnocentrico e fallace pensare che gli stimoli esterni vengano accettati in maniera passiva e identica in contesti culturali lontanissimi fra loro ed eterogenei. Si pensi alla tesi di Roger Bastide (1960) in merito alla ri-costruzione di una storia, a partire da brandelli, pezzi sparsi di cultura, da parte degli uomini e delle donne brutalmente resi schiavi e trasportati in modo forzato dall’Africa3 all’America e lì protagonisti di una re-invenzione creativa insieme agli indigeni americani, anche loro vittime di brutali forme di violenza (Taussig 2005); ancora, alle forme di consumo studiate da de Certeau (2010), ad esempio, che vede nel consumatore un selezionatore nella giungla dei migliaia di prodotti e messaggi da cui deve difendersi. Quel fenomeno definito come globalizzazione culturale, quindi, non si presenta come livellatore della diversità, come fenomeno omogeneizzante e distruttivo per la differenza della peculiarità locale. Le comunità – che siano quelle ‘esotiche’ di Futuna4 (Favole 2010) o quelle della Sardegna – non sono contenitori vuoti da riempire; la globalizzazione muta ma non appiattisce e “non implica necessariamente e neppure frequentemente omogeneizzazione o americanizzazione” 3 Vedi Schramm (2009) per le attuali dinamiche relative alla ricerca delle radici da parte degli afroamericani che si recano in Africa. 4 L’isola di Futuna è, insieme a Wellis, un territorio insulare francese nell'Oceano Pacifico, ubicato tra le isole Samoa e le Figi. 16 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. (Appadurai 2001: 34), una “occidentalizzazione del mondo” (Latouche 1992). Le culture, lungi dall’essere cassetti chiusi a tenuta stagna, interagiscono scontrandosi e incontrandosi, dando luogo a fenomeni sorprendenti, ma che poi risultano, in effetti, comprensibilmente umani. Citando Breidenbach e Zukrigl si può affermare che si possono addurre molti esempi del fatto che, a seconda della situazione storica, della struttura sociale e della cultura della società interessata, le influenze esterne vengono accolte, interpretate e fatte proprie in maniera estremamente diversa. Gli etnologi hanno enucleato due strategie principali nel modo di trattare le merci e le idee estranee, per lo più occidentali: la resistenza e l’appropriazione (Breidenbach, Zukrigl 2000: 42). Per ‘resistenza’ le due autrici intendono una forma di non adesione politicamente ponderata a ciò che è esterno. Il panorama globale, a livello economico, politico, culturale, appare talmente complesso e variegato che proporre una visione delle cose che teorizzi una artificiale ed ingenua divisione dei fenomeni in bianco o nero, appare quantomeno bizzarra ed antistorica. La complessità del mondo, ad esempio, non permette di poter dire che si sta giungendo ad una omologazione senza via di fuga da una parte all’altra del mondo. Gli individui possono adottare e adattare – o rifiutare – ciò che è esterno in base alle proprie esigenze. Ma c’è un altro livello, quello statale, che per ponderate scelte politiche opera resistenze che si rilevano di molteplice natura. Si va dalla lotta contro l’imperialismo linguistico condotta su tutti da Francia e Spagna, alla invocazione da parte delle destre radicali e xenofobe europee della tutela di presunti valori culturali sempiterni che, in virtù delle ‘nuove invasioni barbariche’, sono oggi in pericolo. Come afferma Ulf Hannerz: ”vi è ora una cultura mondiale, Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 17 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. ma faremmo meglio ad essere sicuri di capire ciò che questo significa”. Continua l’antropologo svedese: “È caratterizzata da una organizzazione della diversità piuttosto che da una replica di uniformità” (cit. in Cesareo 2007: 71). Per Sahlins, “la lotta dei popoli non-Occidentali per creare le proprie versioni culturali della modernità annulla la ricevuta opposizione Occidentale della tradizione vs cambiamento, ‘cultura’ vs tradizione, e più in particolare la sua versione del XX secolo, tradizione vs sviluppo” (Sahlins 1999: XI). L’ultimo paragrafo dell’articolo porta il paradigmatico titolo di Culture is not disappearing. La cultura non sta scomparendo. Anzi, ‘cultura’ – la parola stessa o qualche equivalente locale – è sulla bocca di tutti. Tibetani ed hawaiani, ojibway, kwakiutl ed eschimesi, kazaki e mongoli, nativi australiani, balinesi, kashmiri e Maori della Nuova Zelanda: tutti scoprono di avere una ‘cultura’. Per secoli possono appena averlo notato. Ma ora, come l’abitante della Nuova Guinea ha detto all’antropologo, “se non avessimo kastom5 saremmo proprio come gli uomini bianchi” (Sahlins 1993: 3). “Ora tutti hanno una cultura, solo gli antropologi potrebbero dubitarne”, afferma Sahlins (1999: XX) col suo particolare e ironico linguaggio. L’antropologo americano rende bene l’idea di come le culture, tutte le culture, siano sempre in grado di riprodurre se stesse, di esserci anche loro, con le proprie modalità e specificità, nel mondo moderno. Alcuni esempi etnografici Friedman definisce il concetto di indigenizzazione come “un 5 Kastom nelle aree anglofone, coutume in quelle francofone del Pacifico. Favole propone come traduzione il termine "cultura" (2010: 88, nota 4). 18 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. processo di radicamento [...], un generale processo di identificazione [...] che non dipende o meno dall’essere indigeno in termini standard di definizioni” (2000: 650). Classico, a questo proposito, è l’esempio della risemantizzazione (cfr Favole 2010) della Coca-Cola: Nessun oggetto importato, compresa la Coca-Cola, è completamente immune da fenomeni di ibridazione. In realtà, si scopre che la Coca, all’interno di certe culture, è spesso dotata di significati e usi diversi da quelli immaginati dai produttori. Per esempio può distendere le rughe (Russia), può resuscitare una persona (Haiti), e può trasformare il rame in argento (Barbados) [...]. La Coca può anche essere indigenizzata, il che accade quando viene mescolata con altre bevande: nei Caraibi con il rum, per ottenere il Cuba Libre; in Bolivia con l’aguardiente, per produrre il Ponche Negro. Infine, sembra che la Coca sia percepita come ‘prodotto locale’ in molti luoghi diversi: spesso, cioè, si troveranno persone convinte che la bevanda sia un’invenzione del loro paese, e non degli Stati Uniti (Howes 1996: 6). Si potrebbero aggiungere ancora altri esempi: il calimocho, bevuto in Spagna dai giovani perché poco caro, è un miscuglio di vino e Coca-Cola. Ancora, Amselle (2001) cita l’impiego che gli agricoltori Luo del Kenya fanno della Coca-Cola: questa viene utilizzata – indigenizzata – come bevanda rituale nelle cerimonie di iniziazione maschile (Guigoni 2004). Anche Friedman scrive a questo proposito, analizzando il comportamento dei Sapeurs, in Congo, “giovani del proletariato urbano che amano vestirsi bene e ostentare i loro stili di consumo con l’abbigliamento e altri beni” (Lai 2006: 59). Scrive Friedman: Il consumo di Coca-cola a Brazzaville è localmente significativo. Per essere qualcuno o per mostrare il proprio status basta mostrare la lattina importata sul parabrezza della propria macchina. La differenza non è semplicemente ostentazione, bensì un vero e proprio ‘cargo’ che Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 19 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. proviene sempre dall’esterno, una forma di benessere e fertilità, un segno di potere (Friedman 1996: 183, cit. in Lai 2006: 60). Un altro dei ‘segni’ enumerati come esempio della società capitalista occidentale che tutto appiana è il McDonald’s. Il sociologo George Ritzer (1993) scrisse un saggio sul fenomeno cosiddetto della McDonaldizzazione del mondo, ma riferendosi soprattutto all’aspetto inerente il lavoro. In ogni caso, la paura che spesso viene fuori da conversazioni, articoli, programmi televisivi, è che presto il mondo mangerà da McDonald’s, perdendo quella enorme ricchezza di diversità culturale che è il cibo. A smentire fortemente questa preoccupazione è la notizia recente che in Bolivia McDonald’s ha chiuso. Tutti gli sforzi impiegati dalla catena di hamburger ‘McDonald’s’ per inserirsi nel mercato boliviano sono risultati infruttuosi. A nulla è servito preparare la salsa ‘llajwa’, favorita nel paese latinoamericano, né portare i migliori complessi musicali locali dal vivo. Dopo 14 anni di presenza nel paese, e malgrado tutte le campagne effettuate, la catena si è vista obbligata a chiudere gli otto ristoranti che aveva aperto nelle tre principali città del paese: La Paz, Cochabamba e Santa Cruz de la Sierra. Si tratta del primo paese latinoamericano senza ‘McDonald’s’ e il primo paese nel mondo dove la multinazionale chiude per avere i conti in rosso per più di un decennio. L’impatto per i ‘creativi’ e responsabili di marketing è stato così forte che è stato realizzato un documentario dal titolo “Perché McDonald’s ha fallito in Bolivia”, dove si cerca in qualche modo di spiegare le ragioni che hanno portato i boliviani a preferire le empanadas (piatto locale composto da pane di farina o mais, ripieno all’interno) agli hamburger. Rifiuto culturale. Il documentario include interviste a cuochi, sociologi, nutrizionisti, educatori, storici ed altri, tutti concordi su un punto: il rifiuto non è degli hamburger né del loro gusto, il rifiuto è nella mentalità dei boliviani. Tutto indica che il ‘fastfood’ è, letteralmente, l’antitesi della concezione che ha un boliviano nel 20 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. preparare il cibo.6 Ma, paradossalmente, dall’altro lato andare al McDonald’s è una forma di resistenza politica: In Stati politicamente repressivi, i beni di consumo globale sono impiegati come segno della resistenza contro il proprio regime. I propugnatori della democrazia indonesiani vanno provocatoriamente al McDonald’s: «Mio figlio e io ci vendichiamo di Suharto andando ogni giorno a mangiare da McDonald’s» (Breidenbach, Zukrigl 2000: 52). Non necessariamente, quindi, viene accettato in maniera passiva qualunque prodotto o fenomeno culturale. L’imposizione egemonica esiste, certo; resta, però, fermo il fatto che gli individui e le comunità accettano o meno i messaggi e i prodotti esterni, e lo fanno esclusivamente in base alle proprie esigenze. Dall’altro lato, il prodotto egemonico diventa strumento politico, di resistenza al regime oppressore, capovolgendo l’idea secondo cui il prodotto globalizzato sia obbligatoriamente oppressore. Spesso, quindi, i fenomeni e/o i prodotti vengono indigenizzati. Si pensi al Natale a Trinidad, isola caraibica: Ovunque si ripuliscono e tinteggiano le case, si comprano mobili nuovi e si lavano le fodere di quelli vecchi. La casa viene decorata con rami di agrifoglio e Babbi Natale; alberi di plastica vengono ornati con ghirlande di carta, fili d’argento e altri accessori conosciuti in tutto il mondo. Completano i preparativi la neve artificiale, contenuta in barattoli e le cartoline natalizie spedite a parenti e conoscenti. Il giorno che precede la festa vengono confezionati i regali, per esempio asciugamani o un nuovo apparecchio stereo, spesso già acquistati molto 6 Consultato il 16/01/2012 su http://europeanphoenix.com/it/component/content/article/3-societa/210 lascia-la-bolivia-per-disinteresse-clienti-e-chiude-tutti-i-suoi-ristoranti. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 mcdonalds- 21 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. tempo prima e tenuti nell’armadio fino a quel momento. Si cucina e si frigge abbondantemente, si preparano le bevande, costate cifre notevoli. Alla buona riuscita della festa contribuiscono puncha cream, birra allo zenzero, black cake (simile al pudding natalizio inglese cotto al vapore), whiskey Johnny Walker, prosciutto, mele e uva (Ivi: 166). Anche se il Natale non è, evidentemente, una festa che abbia avuto origine a Trinidad, ciò non significa che sia meno autentica o meno sentita rispetto al Natale in Italia o in Europa. Per indigenizzazione si intende quel processo per cui un fenomeno e/o un oggetto vengono dotati di caratteri nuovi, peculiari della società che lo modifica; l’oggetto o il fenomeno diventano indigeni. Questo interessante e denso strumento concettuale è applicabile a diversi fenomeni della contemporaneità, ad esempio il calcio, lo sport internazionale; nel senso che il calcio è lo sport nazionale di una moltitudine di Paesi ma, com’è noto, nasce in Inghilterra nel XIX secolo e da lì si viene diffondendo nelle maniere più disparate per il pianeta (Gibbons 2001, Giulianotti, Robertson 2009), venendo ad assumere significati identitari profondi (Burdsey, Chappell 2001, Branca 2012). Un altro caso di indigenizzazione “sportiva” viene analizzato da Arjun Appadurai. Il concetto di ‘indigenizzazione’ di cui si serve l’antropologo si incentra, sostanzialmente, sulla trasformazione del cricket in India da espressione della società coloniale a sport nazionale indiano, in un complesso processo di interiorizzazione e ridefinizione dei significati sia interni che esterni. Il capitolo di ‘Modernità in polvere’ che tratta di questo è paradigmaticamente intitolato ‘Giocare con la modernità’. Dunque, siamo ad un primo livello di contestualizzazione: la situazione – si potrebbe dire quasi emotiva – di una ex-colonia nei confronti della madre-patria è spesso ambivalente; permane, 22 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. in ogni caso, un retaggio più o meno scomodo, una ricalibrazione nel periodo della decolonizzazione e del pieno raggiungimento dell’indipendenza: come afferma lo stesso Appadurai, in merito alla situazione indiana, per cui “in qualsiasi dibattito [...] un filone sotterraneo riguarda sempre la questione di cosa fare con i frammenti sparsi del retaggio coloniale: alcuni di questi frammenti sono istituzionali, altri sono ideologici ed estetici” (2001:119). Continua l’antropologo indiano individuando le modalità di separazione della ex-colonia dalla madre-patria: nel caso in esame, la fine dell’Impero comporta una ridefinizione anche per la ex-madre-patria, che si snatura; il suo essere permane però nelle ex-colonie le quali introiettano, in maniera diversa il retaggio. Ecco che l’India, che si volge ora al MedioOriente, all’Asia, agli Stati Uniti, conserva, riattualizza, rende indiano, un materiale spiccatamente inglese, anzi uno dei pilastri dimostranti la subalternità indiana verso la potenza coloniale; quello che c’è oggi nella cultura indiana “che sembra essere fortissimamente inglese, [...] è il cricket”, afferma Appadurai (Ibidem). Come è avvenuto, però, questo processo di indigenizzazione del cricket? A livello metodologico Appadurai pone due concetti; distingue tra ‘società morbide’ e ‘società dure’, volendo intendere con le prime “quelle forme culturali che si presentano con un insieme di collegamenti fra valori, significati e pratiche incarnate che risulta difficile da sciogliere e resistente alla trasformazione” (Ivi: 120). Al contrario, per forme ‘morbide’ egli individua quelle forme culturali “che consentono una separazione relativamente facile della pratica incarnata, del suo significato o valore, e consentono inoltre con relativa facilità una trasformazione a qualunque livello” (Ibidem). Nell’esplicazione dei processi secondo cui questo sport si è indianizzato, l’antropologo ipotizza Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 23 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. “che il cricket sia una forma culturale dura che modifica coloro che la vivono come forma socializzante più di quanto non muti essa stessa”. Ma allora – continua Appadurai – “il cricket [...] in quanto forma culturale dura, avrebbe dovuto resistere all’indigenizzazione e invece, in modo del tutto sorprendente, è diventato profondamente indigenizzato e decolonizzato” (Ibidem). Ciò deriva, secondo lo studioso indiano, dal fatto “che l’indigenizzazione è spesso il risultato di collettivi e spettacolari esperimenti con la modernità, e non è quindi necessariamente il prodotto di affinità sottostanti tra le nuove forme culturali e i modelli esistenti nel repertorio culturale tradizionale” (Ibidem). È interessante, per finire, notare quanto il cricket si sia indigenizzato non solo in India, ma in generale in tutte le ex colonie della Gran Bretagna. Nell’albo d’oro del campionato mondiale per nazioni, che si gioca dal 1975 ogni quattro anni, compaiono le vittorie di: Australia, quattro volte; Indie Occidentali Britanniche,7 2 volte; India, 2 volte; Pakistan e Sri Lanka, 1 volta. L’Inghilterra non ha mai vinto la competizione, ma è arrivata tre volte in finale, sconfitta – evidentemente – sempre dalle sue ex colonie. Questo fatto è indicativo di quanto il movimento del cricket – partito dall’Inghilterra e poi diffusosi nelle ex colonie – si sia indigenizzato fino a diventare forse più importante nelle ex colonie di arrivo piuttosto che nella madrepatria.8 L’indigenizzazione del cricket, l’India e la sua esperienza coloniale; la diffusione a livello globale di Halloween, la risemantizzazione della Coca-Cola. Ma si potrebbero aggiungere numerosi altri esempi; come già affermato la globalizzazione non è quel temuto strumento di appiattimento culturale, le culture 7 8 Sarebbero i territori anglofoni dei Caraibi. Consultato il 21/01/12 su http://it.wikipedia.org/wiki/Cricket_world_cup. 24 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. resistono, modificano, rendono propri i segni dotandoli di un nuovo significato; le culture non sono spettatrici passive di programmi egemoni, ma decodificano e selezionano elementi ‘esterni’ adattandoli (cfr Hall 1973). L’indigenizzazione è dunque l’adattamento di un fenomeno o di un fatto sociale, originariamente estraneo all’orizzonte culturale di un determinato gruppo, entrato a far parte delle strutture sociali, culturali, politiche o economiche del gruppo stesso in conseguenza di una scelta ponderata e adattato nei suoi tratti e caratteri che rispondono a determinate esigenze contestuali. Solitamente si identifica il termine ‘indigenizzazione’ come l’adattamento di un fenomeno e/o tratto culturale trasmesso da una cultura egemone ad una subalterna, per dirla con Gramsci. L’antropologo argentino García Canclini (2001) ha proposto il termine ‘ibridazione’ per descrivere l’interconnessione, il contatto, la liminarità a livello culturale che caratterizzano la contemporaneità. Ma l’ibridazione non è peculiarità dell’oggi, afferma García Canclini. È chiaro che dalla sua comparsa sulla terra l’uomo si sia incontrato e scontrato con altri gruppi umani, producendo culture che sono il risultato di sovrapposizioni e meticciamenti, dal momento che la dinamicità e la fluidità sono caratteristiche strutturali di ogni cultura. Gli esseri umani scambiano, rubano, prendono, prestano ad altri esseri umani, e fanno proprio talmente tanto un determinato cibo, un capo d’abbigliamento, una credenza, un’abitudine che la utilizzano, la brandiscono come emblema della propria cultura, della propria identità, da sempre esistente, da sempre uguale, per sempre uguale simbolo culturale. Basti pensare al kilt, il ‘gonnellino’ scozzese, emblema identitario della Scozia, simbolo identificativo e distintivo dagli inglesi, creato – paradossalmente – per celebrare un re inglese (cfr Trevor-Roper 1987) e, Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 25 Branca D., La globalizzazione nell’interazione con le culture native. Linee di tendenza. nonostante questo, ad oggi uno dei simboli che identifica immediatamente la Scozia nel mondo, e abito orgogliosamente esibito dagli indipendentisti. Conclusioni Dagli esempi etnografici citati emerge una forte autonomia – e in diversi contesti geografici – per quanto riguarda la scelta di determinati oggetti culturali che sarebbero imposti dall’Occidente egemone e, soprattutto, dagli Stati Uniti. È emersa relativamente di recente in antropologia una nuova modalità di interpretazione, nota come ‘creatività culturale’, la quale afferma che gli individui e le comunità decidono, in primo luogo, se accettare ciò che gli viene proposto/imposto e, in secondo luogo, le modalità con cui farlo. Siamo molto lontani dalla concezione omologante secondo cui tutti diventeremo americani. Il pericolo che una cosa del genere possa accadere, credo, non è molto realistico. Certo, è innegabile che ci siano degli Stati nel mondo economicamente, politicamente, militarmente, culturalmente più forti. Ma, allo stesso tempo, affermare che tutto il resto del mondo diventerà culturalmente come l’Occidente risulta davvero insostenibile. Gli individui elaborano secondo le proprie necessità, mischiano, tagliano e incollano, stravolgono il senso ed il significato rendendo un prodotto, un fenomeno od un oggetto completamente irriconoscibile, fino a renderlo qualcosa di proprio, di indigeno. 26 Intrecci. 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Born in the Genoese, spread throughout the western Mediterranean as a result of population movements, the farinata arrived in Sassari, probably at the turn of the nineteenth and twentieth century, following the initiative of some entrepreneurs and then spread widely throughout the urban area. As a result of a ‘bottom-up’ globalization, in these consumption choices the connection between food and society soldered in an active process of construction of a collective identity. Key words Farinata; Sassari; identità; globalizzazione; indigenizzazione. Che i due macrofenomeni noti in letteratura come ‘globalizzazione’ e ‘identità’ siano intimamente connessi è ormai appurato. Gli studi sulle dinamiche culturali connesse alla globalizzazione hanno da tempo messo in evidenza la presenza di processi di differente natura e dimensione, strettamente interrelati (Amselle 1999; Appadurai 2001; Giddens 1994; Hannerz 1987, 2001; Nederven Pieterse 2009; Robertson 1999; Schiller 1992). Va in primo luogo riscontrata la costante risemantizzazione, la continua negoziazione di significati, frutto dell’azione critica e dell’agency degli attori sociali, che bilancia la Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 35 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione spinta omologante che si supponeva inevitabile conseguenza della diffusione della produzione industriale occidentale, sia culturale che di beni di consumo (Campbell – Davies – McKay 2004; Lewellen 2002: 94; Tomlinson 2001). È, inoltre, documentata (Breidenbach – Zukrigl 2000; Köstlin 2008), accanto a queste forme culturali massificate e probabilmente come reazione alla loro pervasività, l’azione volta a riscoprire e valorizzare pratiche a ragione o a torto etichettate come ‘tradizionali’, a volte frettolosamente abbandonate e altrettanto frettolosamente ricostruite, a volte reinventate (Boissevain 1992; Hobsbawm – Ranger 2002) in obbedienza ad un autocostruito ‘noi’ “di cui entrare a far parte” (Baumann 2003: 25) da proporre come paradigma identitario e da opporre a processi di uniformizzazione. Il cibo, in quanto terreno di incontro tra pratiche individuali e collettive, in quanto “metodo simbolico per sottolineare la propria appartenenza” (Secondulfo 2004: 50) e, attraverso pratiche di consumo, affermare identità socialmente costruite (Lupton 1996; Guigoni 2004a; Featherstone 2007; Montanari 2006; Bourdieu 2010) non si sottrae a questo vero e proprio processo di autopoiesi. I soli requisiti di endogenesi o arcaicità si rivelano non sufficienti alla comprensione delle modalità mediante le quali solo alcune tra le molteplici pratiche che un gruppo pone in atto nella propria vita sociale e culturale vengano connotate come identitarie, come cercherò di dimostrare in questo articolo a partire da un esempio etnografico. Analizzerò qui una pratica alimentare, la produzione e il consumo di fainé nella città di Sassari, in cui l’esogenesi rispetto al contesto analizzato e l’introduzione in tempi relativamente recenti non hanno impedito l’acquisizione di un marcatore identitario attraverso un processo di indigenizzazione (Sahlins 1993). 36 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione È necessaria però anzitutto, per una più efficace comprensione del fenomeno, una descrizione etnografica delle pratiche di consumo e della trasmissione dei saperi legati all’alimento in questione, integrata con una ricostruzione storica che utilizzi le fonti orali e scritte disponibili ed una comparazione con gli alimenti simili diffusi in tutto il Mediterraneo occidentale. La farinata tra storia e leggenda La farinata, come è nota la fainé al di fuori del contesto sassarese, è una focaccia salata, preparata con una miscela di quattro ingredienti: farina di ceci, olio, sale e acqua. Se tre delle componenti sono facilmente reperibili in loco, l’approvvigionamento di farina di ceci ci fornisce subito importanti informazioni sull’origine del piatto: La farina di ceci continua a venire da Genova, sempre da Pegli. Ci sono dei mulini in Italia, a Pegli e a Torino. Il resto degli ingredienti è locale. 1 La farinata viene cotta al forno in teglie di rame di forma circolare fino ad assumere un colore dorato. Anche per quanto riguarda le teglie la provenienza è per lo più ligure: Le teglie le vendono anche qua ma non è che siano molto buone… le prendiamo a Savona e da Isili qualche volta perché c’è un ramaio abbastanza bravo.2 È quindi alla Liguria, e all’area del genovese in particolare, che dobbiamo rivolgerci per individuare il vero e proprio centro di diffusione della farinata in tutto il Mediterraneo occidentale. 1 2 Intervista a Mario Marongiu il 22/05/2010. Intervista a Mario Marongiu (22.05.2010). Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 37 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione Genova ha rivestito un ruolo di assoluto primo piano come potenza marinara e commerciale durante il Medio Evo, subendo successivamente un ridimensionamento in un primo tempo dalla concorrenza di rivali quali Pisa e Venezia e successivamente dallo spostamento del baricentro delle rotte commerciali verso l’Atlantico come conseguenza delle esplorazioni geografiche (Braudel 1982). Sulla nascita della farinata è stato elaborato un corpus di leggende, reperibili in rete, che legano l’invenzione del piatto ad episodi storici particolarmente significativi. La prima ha come cornice storica un cruciale avvenimento della storia medievale europea, la battaglia della Meloria del 1284, in cui i genovesi sconfissero i rivali pisani assumendo temporaneamente il controllo del Mediterraneo: Le galere genovesi, cariche di vogatori prigionieri si trovarono coinvolte in una tempesta. Nel trambusto alcuni barilotti d'olio e sacchi di ceci si rovesciarono, inzuppandosi di acqua salata. Poiché le provviste erano quelle che erano e non c'era molto da scegliere, si recuperò il possibile e ai marinai vennero date scodelle di una purea informe di ceci e olio. Nel tentativo di rendere meno peggio la cosa, alcune scodelle vennero lasciate al sole, che asciugò il composto in una specie di frittella. Rientrati a terra i genovesi pensarono di migliorare la scoperta improvvisata, cuocendo la purea in forno. 3 La seconda presenta una situazione più drammatica: Tale Guglielmo di Pegli, console dei genovesi a Famagosta nel 1277, di ritorno nelle natie terre di Laviosa in Pelii trovò la landa in preda alla carestia. Poiché nel periglioso viaggio per mare si scontrò vittorioso con un barco saraceno saccheggiandone come d’uso il carico e traendone schiavi i remiganti, mise a disposizione delle plebi affamate le granaglie 3 Consultato il 03.05.2012 su <http://www.tanti.it/italiano/index_ita.html>. 38 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione ivi trovate, ovvero 80 giare di ceci. Li ceci furono macinati al molino Lomellini sul Varenna, e non adattandosi bene l’impasto a forma di pane, furono utilizzati per la cottura, a guisa di schiacciata, i tondi scudi saraceni.4 I due racconti concordano, quindi, nel consegnare le origini della farinata all’età dell’oro della città di Genova, quel periodo, tra l’XI e il XIV secolo, in cui la Repubblica Marinara ebbe un ruolo da protagonista nelle vicende politiche europee ed esercitò la propria influenza in larga parte del Mediterraneo. In quest’ottica diventa sostanzialmente irrilevante il fatto che le due leggende differiscano sulle modalità pratiche di invenzione del piatto. È molto più importante il fatto che in entrambi i casi l’origine sia collocata in un ambito mitologico: in un caso perché legata all’apogeo del potere genovese conquistato sui mari della Meloria, nell’altro perché determinato dall’intervento di un vero e proprio deus ex machina di ritorno da terre lontane che risolve la tragedia della carestia nella madrepatria. Furono inizialmente i mercanti i primi a diffondere la farinata anche in quelle zone, come il litorale toscano e la città di Pisa, che hanno conteso alla città ligure il predominio sui mari: Sembra che l'origine della cecina [nome locale della farinata, ndA] in tempi lontani sia ligure, arrivata in Toscana con i commerci via terra attraverso la Lunigiana, e via mare attraverso le soste delle navi da Pisa fino a risalire l'Arno fino a Firenze dove si ritrova la ‘farinata fiorentina’.5 Consultato il 03.05.2012 su <http://www.ponentinopegli.org/article.php?story=20050425230857575> . 5 Consultato il 03.05.2012 su <http://germoplasma.arsia.toscana.it/pn_prodtrad/modules/MESI_Menu/ Prodotto.php?ID=182>. 4 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 39 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione Al movimento delle merci talvolta è corrisposto un trasferimento di popolazione. Questi gruppi di provenienza ligure hanno portato con sé nei luoghi di nuova destinazione pratiche culturali ed abitudini alimentari consolidate. È a queste migrazioni che si deve la presenza di varianti della farinata nell’area provenzale e a Gibilterra, destinazione di flussi migratori da Genova nel XVI secolo (Archer 2006). L’arrivo della farinata a Carloforte, nell’isola di S. Pietro a sud ovest della Sardegna, è databile al 1738, quando una parte dei pegliesi residenti nella città di Tabarka, nell’odierna Tunisia, migrò verso l’isola (Tiragallo 2008). La città tunisina era stata concessa alla famiglia genovese dei Lomellini, legata al potentato dei Doria, per la pesca del corallo nel 1544, anno della migrazione dei primi pegliesi che possiamo considerare terminus ante quem per quanto riguarda l’invenzione del piatto nella madre patria.6 La farinata, a cavallo tra Ottocento e Novecento, ha oltrepassato l’oceano Atlantico arrivando in Argentina e in Uruguay, ancora una volta trasportata da migranti genovesi in cerca di fortuna. La farinata è diventata col tempo una «istituzione gastronomica» (Manzitti 2008: 11) nei due paesi sudamericani. In vari siti internet si trovano altri dettagli storici che rimandano a decreti emessi dalle autorità genovesi nel 1447 con l’intento di disciplinare la preparazione del piatto, se non ancora più indietro nel tempo alla ricerca di origini greche e latine.7 Consultato il 03.05.2012 su <http://www.pegli.com/sto_colo.php> (14.11.2010). Cfr. anche Guigoni 2004. 7 Si veda la voce “Farinata” in Guarnaschelli Gotti 1990: 373, nella quale è inclusa la ricetta tratta da La vera cucina genovese di Emanuele Rossi, pubblicato nel 1865 e la voce “Farinata di ceci” su Wikipedia che raccoglie tutte le informazioni non verificabili sull’argomento. 6 40 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione Queste informazioni, pur se da accogliere con cautela in assenza di rimandi bibliografici o d’archivio verificabili, sono comunque di un certo interesse e degne di segnalazione, in quanto testimonianza di un rapporto tra popolazione e cibo ormai consolidato. Quando la farinata diventò la fainé Come è difficile, se non impossibile, determinare con esattezza il periodo di elaborazione della ricetta della farinata, altrettanto complesso risulta dare un’indicazione precisa della sua introduzione a Sassari. Un informatore, intervistato sull’argomento, appare al contrario molto risoluto: La fainé a Sassari fa parte della storia. È genovese di nascita però a Sassari la fainé c’è dal 1700.8 Se la prima parte dell’affermazione può essere condivisibile, la seconda non è suffragata da prove documentali certe. È noto che l’origine delle relazioni di natura commerciale e politica tra le città di Sassari e di Genova si colloca nel Medio Evo ed è verosimile che i rapporti tra i due centri siano proseguiti anche dopo la fine della supremazia genovese, ma il campo delle ipotesi è l’unico su cui sia lecito avventurarsi. È opportuno quindi concentrarsi sulla storia del XX secolo, per il quale disponiamo di un maggior numero di fonti, specialmente orali, a cui attingere. È infatti ancora vivo il ricordo di molti dei personaggi legati al mondo della fainé. Molti sono di origine ligure, come gli Ottonello, Baciccia o Ambrogino Pelle, altri invece sardi, come i fratelli Valentino, Carlo e Zizzu Pira, 8 Intervista a Mario Marongiu (22.05.2010). Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 41 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione provenienti da Dorgali. È interessante notare il fatto che tra le prime figure legate alla produzione di farinata non ci siano sassaresi. Nella loro opera Storia popolare della città di Sassari Franco Enna e Pino Pomata (2008: 16) hanno proposto una datazione per l’introduzione della fainé a Sassari all’immediato dopoguerra, basandosi su ricordi personali propri e su quelli dei loro amici (Enna – Pomata 2009). Una lettera, pubblicata su La Nuova Sardegna a firma di Antonio Luiu (2009), ha segnalato l’inesattezza dell’informazione, retrodatando la diffusione della fainé a Sassari almeno alla fine dell’Ottocento.9 L’esame delle fonti orali al momento disponibili permette di concordare con la tesi di Luiu ma non di identificare con certezza né quale fu il primo forno inaugurato né chi ne fu l’artefice. Chi ha vissuto gli anni a cavallo tra le due guerre ha, infatti, dato versioni cronologicamente contrastanti sui protagonisti dell’arrivo della fainé. Due forni si contendono il primato: il primo è ancora attivo ed è situato in via Usai; il secondo, ormai chiuso da tempo, si trovava in una traversa di via Luzzati. Entrambi si collocano nella parte alta del rione storico, in prossimità del centro cittadino (v. fig.1). Per quanto riguarda il forno di via Usai non c’è accordo sui Luiu argomenta così la sua proposta di datazione: “La presenza a Sassari della fainé va, però, oltre il ricordo delle persone che oggi frequentano ancora questo mondo, perché è attestata proprio con l’indicazione del grido di richiamo dei venditori, in una pubblicazione del 1899 nella quale Ignazio Longiave riporta appunto i ‘gridi’ con i quali i venditori ambulanti e quelli operanti nel mercato civico in quegli ultimi anni del XIX secolo invitavano all’acquisto dei loro prodotti”. Tra i testi dell’autore, conservati nella Biblioteca Universitaria di Sassari, non c’è però alcun riferimento all’informazione. 9 42 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione primi proprietari. Stando a quanto sostenuto da una nipote (Moirano Ottonello Griva 2005), fu Emanuele Ottonello ad aprire la rivendita. Questa sarebbe poi stata ereditata dai figli: “dopo la seconda guerra mondiale i miei zii, Mario e Gerolamo (‘Gerumin’ per gli intimi), proseguirono l’attività fino ai primi anni Sessanta per poi venderla” (ivi). L’acquirente fu la famiglia Sassu, che rinnovò il locale ed installò l’insegna ancora presente nella via. La famiglia Marongiu, imparentata con i Sassu, è l’attuale proprietaria dell’attività. Tino Grindi10 invece attribuisce l’apertura dell’attività ad un certo Baciccia: La fainé, antica pietanza tradizionale genovese e carlofortina, agli inizi del secolo scorso, per iniziativa di un imprenditore genovese, di cui ricordo il soprannome ‘Baciccia’, approdò a Sassari in un antico magazzino di via Usai» (Grindi 2005). Sostiene la tesi del forno di via Luzzati Carlo Pira: il ristoratore, intervistato sull’argomento, riporta però informazioni di seconda mano apprese dal fratello Valentino e da non meglio precisati articoli di giornale: La fainé a Sassari, come mi ha detto mio fratello e qualche volta che ho sentito, ho letto qualche pezzo di giornale, molti molti anni fa… la fainé è stata portata da Genova, dai genovesi ed era nata in un vicolo chiuso in via Luzzati che adesso c’è un negozio di vernici lì.11 Al di là del disaccordo tra le fonti, trattandosi principalmente di ricordi personali, si va definendo un processo di inserimento della fainé a Sassari non ad opera di un singolo pioniere ma per Gli interventi qui riassunti si riferiscono ad un acceso dibattito sull’origine della fainé, sviluppatosi tra alcuni intellettuali locali sulle pagine del principale quotidiano sassarese, La Nuova Sardegna. 11 Intervista a Carlo Pira (8.06.2010). 10 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 43 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione 44 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione azione di più soggetti accomunati dalla stessa provenienza, la ‘famiglia di genovesi’ a cui fanno riferimento Enna e Pomata (2008: 217). È probabile che l’interesse per il nuovo alimento dimostrato dai sassaresi abbia attirato verso la città l’attenzione di ristoratori genovesi, spesso improvvisati e alla ricerca di soluzioni per sbarcare il lunario. Emblematica a riguardo è la figura di Ambrogino Pelle: “D’estate Ambrogino vendeva gelati, ma d’inverno rischiava la fame, perciò si inventò questa soluzione, che fece la sua fortuna” (ibid: 216). Accanto ai genovesi anche persone di altra provenienza iniziano ad interessarsi alla fainé, a dimostrazione di come la vendita di fainé fosse diventata una reale opportunità commerciale. I fratelli Pira di Dorgali arrivarono a Sassari in tempi diversi: il primo a giungere in città e ad avvicinarsi al settore della ristorazione fu Valentino: Un mio zio se l’aveva portato e aveva iniziato a lavorare come cameriere in uno di questi grossi bar in piazza d’Italia ai portici. Lì poi lui ha conosciuto un certo Terzo Proietti, un continentale, e ha imparato a fare la fainé. Non so di dov’era questo. 12 Valentino, nella descrizione che ne fornisce il fratello, appare come un uomo molto intraprendente e disposto anche a tentare imprese commerciali pionieristiche: una volta appresa la ricetta della fainé ha provato a produrla anche in altri comuni, alla ricerca di mercati ancora privi di concorrenza come Carbonia o La Maddalena. L’insuccesso di questi tentativi lo ha riportato a Sassari nel secondo dopoguerra, dove è stato raggiunto dagli altri fratelli e dove ha aperto un altro forno di fronte a quello storico di via Usai. Il secondo forno è rimasto sino al 1987, 12 Intervista a Carlo Pira (8.06.2010). Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 45 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione quando Carlo Pira ha venduto ai Marongiu per trasferirsi in un’altra zona lontano dal centro storico. I Marongiu hanno tenuto aperta l’attività trasformandola però in un ristorante pizzeria. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono gli anni della definitiva affermazione della fainé, con l’apertura di numerose rivendite in tutto il centro storico sassarese (v. fig.1). Accanto ai forni storici, con tavolate che permettevano agli avventori di consumare la fainé direttamente all’interno del locale, molti nuovi esercizi scelgono la formula della sola vendita. Si innesca così una dinamica che permetterà alla fainé di legarsi ad un altro settore della ristorazione in ascesa, quello delle pizzerie da asporto e delle consegne a domicilio, che le permetterà di espandersi parallelamente allo sviluppo urbanistico di Sassari in tutti i nuovi quartieri residenziali di più recente costruzione. Ai giorni nostri la quasi totalità delle pizzerie da asporto offre, tra i prodotti a disposizione del cliente, anche fainé di varie dimensioni e con vari condimenti. Il prodotto risulta, almeno a detta di un intervistato, più scadente: Praticamente oggi dove c’è pizzeria c’è fainé… uno si alza la mattina e dice “Oggi mi apro una pizzeria” e l’altro “Oggi mi apro la fainé”, perché danno questi contributi facilmente… poi cosa fanno… si mettono i soldi in tasca, non pagano né fornitori né nessuno e se ne vanno così… la fainé non lo so come la fanno. 13 Un elemento rimasto costante ancora oggi è la stagionalità della produzione. La fainé è un prodotto sostanzialmente invernale e le rivendite di fainé aprivano solo durante quel periodo: Gli Ottonello vivevano a Genova e si trasferivano qua il periodo della 13 Intervista a Carlo Pira (8.06.2010). 46 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione fainé, da novembre fino a febbraio, facevano due o tre mesi l’anno. Il resto dell’anno rimaneva chiuso. 14 Altri commercianti diversificarono la loro offerta rimanendo aperti nella restante parte dell’anno come gelateria. Oltre al già citato Ambrogino Pelle, anche Carlo Pira affiancava le due attività per rimanere attivo anche nei periodi in cui il forno rimaneva chiuso. La fainé tra case, strade e ristoranti Pur con le medesime origini liguri, alle tipologie della farinata sono associate modalità di preparazione e di consumo differenti. Nelle varie località in cui è presente, la farinata è andata incontro ad un processo di adattamento ai gusti dei soggetti che la consumano, innescando un mutamento sia nella dimensione spaziale che temporale. Anche gli ingredienti base possono variare per venire incontro alle preferenze dei consumatori: a Savona esiste una variante, denominata farinata bianca, che è in tutto simile alla classica ma impiega farina di frumento al posto di quella canonica di ceci, dandole il colorito più chiaro da cui deriva il nome.15 Per quanto riguarda il contesto sassarese le modalità di preparazione variano da ristoratore a ristoratore. I produttori attivi hanno appreso come miscelare gli ingredienti attraverso due distinte forme di trasmissione che presuppongono un diverso rapporto tra ‘maestro’ e ‘allievo’. La prima si attua mediante cessione di una ricetta già pienamente codificata, in cui le quantità relative ad ogni Intervista a Mario Marongiu (22.05.2010). Consultato il 03.05.2012 su <http://www.buttalapasta.it/articolo/cucinaligure-la-farinata-bianca-o-farinata-di-grano/20701/> . 14 15 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 47 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione ingrediente sono fisse e stabilite dal maestro; in questa forma può non esserci alcuna fase di apprendistato: l’allievo può iniziare la produzione immediatamente dopo l’acquisto della ricetta. Loro ci hanno dato la loro ricetta… loro quando hanno venduto a noi ci hanno dato il locale e la ricetta, con il personale che c’era allora… dopo, pian piano, abbiamo cambiato.16 La seconda invece presenta necessariamente una fase di formazione: il forno diventa una bottega e l’apprendista, in una dinamica del tutto simile ad ogni bottega artigiana, acquisisce le tecniche osservando e riproducendo il lavoro del maestro (Angioni 1986): non peso sale né farina né misuro acqua. Una volta che ho imparato io col mestolo controllo se andava bene o andava male. Se c’usciva la mano dell’acqua allora bisognava aggiungere farina, però togliere acqua non puoi. Se molto denso piano piano aggiungi farina, regoli, stando attenti perché se troppo denso non viene bene, se troppo liquida non lega, quindi bisogna regolarsi. 17 Un’altra caratteristica che presenta una notevole variabilità è la farcitura, aggiunta all’impasto base appena prima di essere infornato. A Genova è molto frequentemente condita con i cipollotti, con i bianchetti18 o con il rosmarino. A seconda del gusto del consumatore si può inoltre spolverare la farinata con il pepe, che spesso viene fornito dallo stesso ristoratore. A Sassari l’introduzione dei condimenti sembra essere recente: Intervista a Mario Marongiu (22.05.2010). Intervista a Carlo Pira (8.06.2010). 18 Bianchetti è il nome dialettale con cui vengono chiamati in Liguria gli avannotti di pesce azzurro. 16 17 48 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione Prima la fainé era solo normale, al massimo con cipolle… i condimenti sono recenti.19 L’innovazione si è affermata con un tale successo che, accanto alla fainé semplice, tutti i produttori accostano anche quella condita. Le aggiunte più comuni sono le cipolle e la salsiccia, ma si possono trovare anche con acciughe, pancetta, funghi, carciofi, peperoni o zucchine. Uno dei ristoranti storici ancora attivi a Sassari propone una fainé ‘alla Benito’, dal nome del fondatore dell’attività, farcita con molti degli ingredienti elencati. In alcune località la produzione di farinata è legata a quella di altri alimenti. A Carloforte la si trova nei tascelli, attività specializzate nella vendita di pizza al taglio. In Uruguay il consumo è associato a quello della pizza: tradizionalmente la si mangia a caballo, “distesa su una fetta di pizza con la mozzarella fumante” (Manzitti 2008: 11). A Livorno è, invece, prodotta dai tortai insieme alla focaccia: Il modo tradizionale di mangiarla è il “cinque e cinque“, come si chiama qui da noi: in questo caso la sottile torta di ceci viene messa calda dentro una focaccia morbida. Il nome deriva dal fatto che parecchi anni fa il suo costo era di cinquanta centesimi per la focaccia e cinquanta per la torta di ceci.20 Queste modalità di consumo classificano la farinata come street food a tutti gli effetti (Guigoni 1994). La fetta acquistata veniva incartata per poi essere mangiata, per l’appunto, in strada, creando quindi una netta separazione tra il luogo di produzione e il luogo di degustazione. A Sassari la realtà appare Intervista a Mario Marongiu (22.05.2010). Consultato il 03.05.2012 su <http://www.gingerandtomato.com/itinerarigastronomici/cecina-farinata-torta-di-ceci-cinque-e-cinque-molti-nomi-peruna-sola-specialita/>. 19 20 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 49 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione molto più sfaccettata. Durante il secolo di storia documentata della fainé si possono individuare almeno tre distinte pratiche legate all’alimento, collegate ad altrettante tipologie di ristorazione, come indicato nella tabella seguente: PRATICA DI CONSUMO TIPOLOGIA DI RISTORAZIONE acquisto e consumo all’interno dell’esercizio → ristorante attrezzato con tavole e panche acquisto nell’esercizio e consumo in altri luoghi, perlopiù abitazioni → forno da asporto, con o senza servizio di consegna a domicilio acquisto e consumo in strada → venditore ambulante È da notare il fatto che la fainé non è mai stata, perlomeno a Sassari, un cibo di produzione casalinga: la produzione di questo alimento è sempre stata prerogativa esclusiva dei professionisti della ristorazione. In rete è facile trovare siti che spiegano chiaramente la ricetta ed è lecito pensare che qualcuno abbia provato a realizzarla autonomamente, ma si tratta di casi del tutto marginali. Se la prima modalità indicata è legata ai ristoranti storici ancora attivi, la seconda, pur essendo oggi associata prevalentemente al consumo domestico, ha permesso in passato forme di consumo differenti, molto simili a quelle tradizionali livornesi: Alle 6 del mattino stavo già cucinando la fainé in via Mercato… allora c’era, e l’hanno chiuso da poco, un panificio in via Rosello… allora c’era il bar Campari aperto al macello che era un ritrovo la mattina di quelli che andavano a strillare in giro, vendevano i giornali in giro. Alle 5.30 / 6 lì si trovavano gli spazzini, che allora passavano casa per casa a ritirare la spazzatura, tutti gli operai del mercato, che arrivavano i mezzi a scaricare la frutta e la verdura… cosa facevano… andavano al panificio e si compravano una focaccia calda calda, venivano da me e 50 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione mi dicevano “Valentì, mettimi due fette d’affainé!” e così mangiavano. 21 Solo l’ultima delle tre tipologie permette di associare inequivocabilmente la fainé agli altri cibi da strada. L’ambulante ha rappresentato per lungo tempo una comune modalità di accesso alla fainé, percorrendo le strade cittadine alla guida di «carretti trasportatori a pedali, simili a quelli americani dei gelati; solo che al posto del congelatore c’era un fornello con la brace sempre accesa, che teneva calde le fette di fainé» (Enna – Pomata 2008: 217). Alle grida di questi personaggi si devono anche molti dei nomi con cui la farinata è nota: Calentita, Belecauda, Abbrusgenti22 sono i richiami con cui gli ambulanti attiravano i potenziali clienti. In genere si riforniva dai ristoranti, acquistando ad un prezzo ridotto l’alimento già pronto: per esempio venivi tu che avevi la licenza di ambulante, avevi il carrettino a tre ruote col fuoco sotto e la teglia sopra… io per esempio ti davo 10 chili d’affainé… se io per esempio la vendevo a 100 lire a te perché me la prendevi così te la davo a 60 lire, 50 lire anche, poi quello che ricavava era a lui. Gli davo la fainé già fatta. Loro mettevano le teglie una sopra l’altra, anche dieci teglie una sopra l’altra. 23 Il prodotto era di qualità inferiore rispetto a quello acquistabile nei ristoranti e questo aveva conseguenze soprattutto sul prezzo di vendita, ma l’ambulante sopperiva a questo fornendo il servizio di consegna a domicilio che, almeno inizialmente, i forni storici non prevedevano. La concorrenza rappresentata dalla vendita di fainé nelle pizzerie da asporto ha finito per causare la crisi di questa forma di commercio, ormai del tutto scomparsa. Il ruolo degli ambulanti è stato comunque Intervista a Carlo Pira (8.06.2010). Abbrusgenti è un altro nome con cui è conosciuta la farinata a Sassari. 23 Intervista a Carlo Pira (8.06.2010). 21 22 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 51 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione fondamentale per due motivi: da una parte hanno fatto conoscere il piatto anche tra quegli strati della popolazione che non potevano permettersi la frequentazione dei ristoranti; dall’altra hanno anticipato di qualche decennio quella che è la modalità di consumo più diffusa ai giorni nostri, quella a domicilio. Si può sostenere quindi che, almeno a Sassari, la farinata ha abbandonato la connotazione di street food che ne aveva favorito l’affermazione, diventando un cibo da mangiare seduti ad un tavolo di casa o di ristorante. La fainé come cultura La riduzione delle forme di consumo ha proceduto di pari passo all’incremento della rilevanza con cui la popolazione sassarese ha percepito l’alimento. Questa dinamica potrebbe apparire paradossale: più le modalità tradizionali lasciavano spazio a quelle oggi dominanti, più la fainé faceva proprio quel marcatore identitario cui accennavo in apertura. In realtà questo processo non ha nulla di paradossale ma è anzi perfettamente coerente con le dinamiche della globalizzazione presentate inizialmente: Il mcdonaldismo non ha solamente prodotto l’unificazione del gusto in tutto il mondo, ma ha anche riacceso i sentimenti di un moderno regionalismo. Bisogna accettare il fatto che la crescita della cultura regionalistica (e non solamente nel cosiddetto mondo occidentale) si è realizzata in quanto contropartita della unificazione (Köstlin 2008: 172). Le leggende sulla farinata citate in precedenza sono un’applicazione in ambito locale di un processo molto più generale: è ampiamente documentata in letteratura la tendenza a rivestire di un velo di arcaicità anche alcuni tratti culturali privi 52 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione di alcun radicamento nel passato (Clemente – Mugnaini 2008; Trevor-Roper 1983). In questo senso il fatto che i racconti possano essere spuri e nati in epoca contemporanea non fa che rafforzare quanto detto. L’alimentazione, infatti, in quanto carica “di significati culturali, sociali e simbolici” (Guigoni 2009: 13), fa proprie le stesse dinamiche e va incontro agli stessi processi cui sottostà qualsiasi altro aspetto della cultura umana, di cui essa è componente fondamentale, diventando “snodo centrale nella costruzione dell’identità, sia individuale, sia di gruppo, etnica” (Guigoni 2006). Questo processo autopoietico ingenera forme identitarie esternate (Fabietti 1998: 139) e performativamente costruite (Bromberger 1993), risultato di “strategie attivamente articolate” (Malighetti 2007: 8), attraverso le quali un gruppo si rappresenta e si percepisce. L’identità performativa si manifesta, quindi, come un processo di auto-percezione selettiva, consapevole e dinamica che un gruppo ha di sé stesso: è ‘selettiva’ perché non tutte le pratiche culturali sono considerabili ‘identitarie’; è ‘consapevole’ perché il gruppo sceglie in maniera chiara i tratti culturali attraverso i quali intende descriversi; è infine ‘dinamica’ perché, analizzato in una dimensione diacronica, il carattere ‘identitario’ risulta storicamente determinato e presenta un continuo mutamento che lo rende perennemente in evoluzione. L’antropologia contemporanea ha analizzato in maniera puntuale l’impiego strumentale che di questo carattere fanno alcuni movimenti politici (Aime 1999; Biorcio 1997; Bowen 2005), arrivando però alla conclusione che “il fatto che alcuni individui affermino di appartenere a un certo gruppo è un dato di fatto che nessuna operazione di decostruzione dell'etnia, per quanto giustificata scientificamente, può eludere” (Fabietti 1998: 134). Se questo “dato di fatto” si rende drammaticamente evidente quando diventa giustificazione per guerre e genocidi (Hayden Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 53 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione 2005; Remotti 1996, 2010) lo rimane anche in circostanze non conflittuali. È questo il caso della fainé. Gli interventi di intellettuali locali sulla questione della tutela (Grindi 2005) o l’inserimento dell’alimento all’interno delle iniziative turisticogastronomiche proposte dal Comune di Sassari24 sono conferma del fatto che “l’appartenenza e l’identità non sono scolpite nelle roccia, non sono assicurate da una garanzia a vita, che sono in larga misura negoziabili e revocabili” (Baumann 2003: 6) e indici di una ormai avvenuta “appropriazione culturale adattativa” (Breidenbach – Zukrigl 2000: 167; Tomlinson 2001: 105). Pur senza avere alle spalle un forte potere politico, economico o mediatico, come è avvenuto per altre pratiche ‘indigenizzate’, ampiamente analizzate nella letteratura antropologica, quali il cricket in India (Appadurai 2001), Halloween (Bonato 2006), il Natale (Breidenbach – Zukrigl 2000: 166) o il consumo di Coca Cola (Howes 1996), la farinata è andata incontro ad un processo di de/riterritorializzazione: da localmente determinata come genovese, è divenuta globale per divenire, in una fase successiva, la fainé sassarese ed entrare nel novero dei prodotti alimentari ‘tipici’. Una forma di globalizzazione ‘dal basso’, resa possibile dalla sua peculiare diffusione, sempre al seguito di persone e non attraverso strategie commerciali o battage pubblicitario, che ha permesso alla fainé di affermarsi non in antitesi ma in armonia con quanto elaborato autonomamente dalla società sassarese, sino a diventare intimamente connessa con essa. Consultato il 03.05.2012 su <http://www.taribari.org/taribari/wpcontent/uploads/2007/12/faine.pdf>. 24 54 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pisano A., La farinata diventa fainé. Un esempio di indigenizzazione Bibliografia AIME M. 1999 “Identità etniche o politiche?”, in J.L. Amselle, Logiche meticcie. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Torino, Bollati Boringhieri, pp. 7-28. AMSELLE J.L. 1999 Logiche meticcie. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Torino, Bollati Boringhieri (ed. or. 1990, Logiques métisses. Anthropologie de l’identité en Afrique et ailleurs, Paris, Payot & Rivages). ANGIONI G. 1986 Il sapere della mano, Palermo, Sellerio. APPADURAI A. 2001 Modernità in polvere, Roma, Meltemi (ed. or. 1996, Modernity at Large. Cultural Dimension of Globalization, Minneapolis – London, University of Minnesota). ARCHER E.G. 2006 Gibraltar, Identity and Empire, New York, Routledge. BAUMANN Z. 2003 Intervista sull’identità, Bari, Laterza. 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Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue* Abstract This article demonstrates the intimate relationality that exists between bilingualintercultural education and the revindicating socio-political processes of Indigneous peoples in the Peruvian amazon. A description of FORMABIAPs core curriculum allows us to observe and examine the path of self-representation/determination undertaken by students and future teachers of bilingual-intercultural education. The final analysis of this educative process makes clear that interculturality is interpreted in different ways depending on the referential positioning of people/s that engage with it. Key words Educazione interculturale bilingue, Formabiap, autorappresentazione indigena, oralità e scrittura. Amazzonia peruviana, L’esperienza di FORMABIAP Formabiap (Programa de Formación de Maestros Bilingües de la Amazonía Peruana) nasce nel 1988 in una congiuntura temporale favorevole che vede da un lato la crescita della partecipazione politico sociale da parte della popolazione indigena e dall’altro l’interesse della cooperazione internazionale per il tema dell’interculturalità e dell’educazione bilingue. Il Programma, Il presente articolo è stato prodotto durante la frequenza del corso di dottorato in Studi filologici e letterari dell’Università degli Studi di Cagliari, a.a. 2011/2012 - XXVI ciclo, con il supporto di una borsa di studio finanziata con le risorse del P.O.R. SARDEGNA F.S.E. 2007-2013. * Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 59 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. frutto dell’accordo tra l’ISPP( Instituto Superior Público Pedagógico) di Loreto e AIDESEP (Asociación Interétnica de desarrollo de la selva peruana), fu elaborato in primo luogo con lo scopo di soddisfare le necessità educative di una regione plurilingue e multiculturale come quella amazzonica.1 È necessario infatti tenere conto che all’epoca erano fondamentalmente due le istituzioni che si occupavano della formazione di maestri in educazione interculturale bilingue: l’ILV (Instituto Lingüístico de Verano) con sede a Yarinococha e la Escuela Bilingüe dell’UNAP (Universidad Nacional de La Amazonía Peruana) (Trapnell-Calderón-Flores 2008: 35). Formabiap si occupa della formazione docente iniziale, rivolta ai ragazzi che hanno terminato la scuola secondaria e intraprendono la formazione per diventare maestri interculturali bilingui e della formazione docente continua, che consiste nel monitoraggio del lavoro dei maestri già formati che lavorano nelle comunità. I ragazzi che accedono a Formabiap sono membri di comunità appartenenti alle 65 Federazioni indigene riconosciute da AIDESEP2 e situate nell’intera area amazzonica peruviana; per questa stessa ragione gli alunni a seconda dell’area geografica di provenienza presentano situazioni linguistico culturali e esperienze scolastiche differenti. L’obiettivo di Formabiap è offrire una proposta educativa culturalmente pertinente nel rispetto della cultura e dei valori indigeni e per questa ragione fin dagli inizi furono contrattati degli specialisti indigeni, conoscitori della cultura e della lingua del popolo a cui appartenevano, in modo da favorire l’introduzione del sapere e della lingua indigeni all’interno Si stima che nell’Amazzonia peruviana il numero di lingue indigene parlate siano 39 (Sichra 2009 :317). 2 Consultato il 15/04/2012 su http://www.aidesep.org.pe/ 1 60 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. dell’aula e permettere agli studenti di ampliare il proprio universo cognitivo (Gasché 2002). Dunque l’approccio interculturale e rispettoso della diversità viene garantito anche dalla natura multidisciplinare del corpo docente di cui sono parte integrante gli specialisti indigeni (Trapnell 1990, 2008). L’intenso lavoro di ricerca ha permesso anche l’elaborazione di un curriculum alternativo per la scuola primaria3 atto a favorire un cambiamento decisivo nel tipo di educazione imposta ai bambini di etnia indigena e permettere allo stesso tempo ai maestri formati da Formabiap di poter applicare la metodologia interculturale appresa nella scuola. Uno degli aspetti più problematici oltre all’introduzione dei contenuti culturali autoctoni è stata la sistematizzazione e l’adattamento degli stessi, alla struttura curricolare che riflette un’impostazione del sapere di tipo occidentale. Ci basti pensare al rapporto tra uomo e natura nelle culture autoctone e come questo non corrisponda affatto alla visione ‘occidentale’ che è alla base dei curricula scolastici. La concezione dell’uomo come essere privilegiato e separato dalla natura e dagli animali, che gli studenti apprendono a scuola, è esattamente opposta al modello culturale proprio della loro cultura in cui ″Los humanos y los no humanos (plantas, animales, tierra, etc.) estaban relacionados entre sí en un universo moral compartido″ (Bowers 2002: 51). Alla visione occidentale di una natura che deve essere dominata e sfruttata come risorsa produttiva (Ibidem) si contrappone ″una visión de «sociedad» que trasciende las relaciones entre humanos e incorpora a diversos «seres» y «fuerzas» de la naturaleza con los cuales se establecen relaciones de cooperación e intercambio″ (Trapnell 1996:7) propria delle culture indigene amazzoniche. Programa Curricular Diversificado elaborato da Formabiap agli inizi degli anni 90. 3 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 61 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. A causa di un sistema educativo che segue modalità impostate secondo il pensiero scientifico occidentale, lo studente indigeno riceve una serie di messaggi e nozioni che non corrispondono alla propria visione del mondo e all’ambiente che lo circonda. Ne deriva dunque anche una diversa concezione dell’uomo che influenza la crescita dei bambini come individui. Il maestro in questo contesto gioca un ruolo importantissimo come conoscitore della realtà in cui va a insegnare e come mediatore tra ciò che impone il Ministero e le esigenze degli studenti. È anche possibile che nel processo di rielaborazione e riadattamento del curriculum debba discostarsi dal contenuto dei libri, come testimonia una ricerca condotta sul lavoro svolto da due insegnanti formati all’interno del Formabiap. […] las trabas que encontraron los maestros al tratar de darle un enfoque intercultural a los contenidos planteados en el currículo, en la medida que éstos formaban parte de una matriz organizada a partir de categorías hegemónicas, que condicionan la manera de aproximarse al estudio de la realidad. En algunas oportunidades el maestro tuvo que dejar de lado el PCD (Programa Curricular Diversificado) para trabajar desde las visiones y aproximaciones de su pueblo y ésto lo hizo consciente de lo limitada que resulta la estrategia de incluir contenidos indígenas dentro de una matriz organizada desde categorías ocidentales (Trapnell, Calderón, Flores 2008: 77). Il maestro quindi avrà il compito di adattare il curriculum a seconda del patrimonio linguistico-culturale dei propri studenti non solo a livello contenutistico ma anche nella struttura, in modo tale da favorire l’applicazione di un’educazione realmente interculturale. Il curriculum infatti non è da intendersi come un prodotto finito ma come una base che lo stesso maestro di EIB dovrà costruire nella pratica pedagogica insieme agli studenti e agli altri membri della comunità (Trapnell 1996). 62 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. In altri termini più l’educazione è coerente e pertinente con la realtà in cui vive il bambino più semplice e lineare sarà lo sviluppo cognitivo. Purtroppo la maggioranza degli studenti indigeni si ritrova ad affrontare due realtà completamente diverse se non spesso contrapposte: l’ambiente familiare e il contesto scolastico. Il difetto di fondo dell’educazione è la scissione netta che si verifica tra i contenuti appresi a scuola e la realtà sociale in cui gli studenti vivono. I risultati sconfortanti della ECE (Evaluación Censal Escolar) effettuata nel 2011 dal Ministero dell’Educazione e che ha riguardato gli alunni del 2˚ e del 4˚ anno della scuola primaria nelle aree di matematica e comprensione del testo4 sono la prova evidente di un sistema educativo che non funziona in maniera efficiente soprattutto in determinate zone del paese. La valutazione ha rivelato lo scarso livello raggiunto dagli studenti nell’area amazzonica: la regione di Loreto infatti occupa l’ultima posizione della graduatoria nazionale. Secondo un’ottica interculturale il sapere indigeno non deve essere solo il punto di partenza per l’insegnamento ma dovrà essere parte integrante del processo educativo in modo tale da permettere la costruzione di un curriculum che rifletta e rispetti la visione del mondo degli studenti indigeni. L’educazione scolastica dovrà dunque mirare contemporaneamente a due obiettivi: la valorizzazione e il recupero del sapere e dei valori indigeni e l’acquisizione del sapere e delle tecniche occidentali (Gasché 1997). L’interculturalità non dev’essere intesa come una somma di Patricia Salas O’Brien, Ministra de Educación, Resultados de la Evaluación Censal de Estudiantes 2012 consultato il 04/05/2012 su http://www.scribd.com/cochepi/d/87672631-Conferencia-de-PrensaMinistra-ECE-2012. 4 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 63 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. contenuti indigeni e occidentali senza nessuna attenzione alle due differenti visioni del mondo che rispecchiano: questo atteggiamento, derivante dalla tendenza nazionale a subordinare il sapere indigeno e relegarlo a un passato mitico e statico, da una parte comporta il rafforzamento della dicotomia tradizione/modernità e dall’altra ripropone la costante gerarchizzazione del sapere. Nella maggioranza dei casi l’interculturalità applicata dalle politiche educative ufficiali ha orientato il dialogo tra le culture verso un’unica direzione ossia l’inclusione del sapere indigeno nella cultura ufficiale senza che quest’ultima sia modificata o messa in discussione. Come sostiene Trapnell (1996:6) “Lo que ha venido dándose hasta la fecha, con el apoyo cómplice de la escuela, ha sido una sola mirada acrítica hacia lo que ha venido de fuera” Al contrario l’interculturalità dev’essere assunta come un impegno non solo da parte della popolazione indigena ma anche dal resto della società affinché le varie componenti culturali possano realmente dialogare determinando un cambio e una risistemazione della cultura egemonica (Walsh 2007). Il patrimonio culturale della regione amazzonica non deve essere omogeneizzato a quello nazionale, ma al contrario la scuola deve diventare strumento per garantire il rafforzamento di una realtà multiculturale e plurilingue come quella peruviana. La diversità deve essere percepita come ricchezza e non come un ostacolo verso la modernità. Parlare di interculturalità implica un impegno costante nel conoscere e capire l’altro, sforzandosi di abbandonare l’atteggiamento di discriminazione che ha sempre caratterizzato non solo l’attività educativa ma i rapporti tra lo Stato e la componente indigena del paese. Ritornando all’esperienza di Formabiap risulta evidente che elaborare un progetto educativo che incorpori la cultura indigena 64 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. e che soprattutto risponda alle esigenze degli studenti, sia un’impresa ardua in cui è necessario valutare di volta in volta gli aspetti positivi e negativi delle scelte adottate. A questo proposito appare esemplificativo il rischio della decontestualizzazione della formazione docente, dal momento che i futuri maestri vengono formati nella sede di Zungarococha,5 lontano dalle loro comunità d’origine. Dunque l’apprendimento pratico all’interno della comunità viene bloccato durante la loro permanenza nella scuola. Con lo scopo di ovviare questo problema il Programma prevede l’alternanza di periodi nella scuola a periodi nelle comunità in cui gli studenti svolgono anche lavori di ricerca e documentazione. Allo stesso modo la decisione di lavorare attraverso dei progetti che nel limite della coerenza si articolano nelle varie aree, testimonia la volontà di riprodurre il più fedelmente possibile le condizioni della comunità. Così mi viene spiegato in occasione di un’intervista dal professor Carlos Panduro: Trabajamos con proyectos que buscan recrear acá en Zungarococha, en las condiciones que tenemos […] y con la participación de los especialistas, una actividad socio productiva que se desarrollase en una comunidad, y entorno a esa desarrollamos todo el trabajo académico. Esa misma dinámica se plantea también para las comunidades en el caso de los niños en la escuela primaria intercultural bilingüe […] Hay un exercicio en la Formación para luego ver su aplicación en la Primaria.6 Questa metodologia presenta vari aspetti positivi: unione di Comunidad Educativa de Zungarococha, sede del Formabiap dal 1998, si trova a 40 minuti dalla città di Iquitos. 6 Intervista realizzata a Carlos Panduro Bartra, docente di storia (Área de Naturaleza y Sociedad), presso Formabiap sede di Zungarocha, Iquitos, 08/09/2011. 5 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 65 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. teoria e pratica, apprendimento di tecniche e dinamiche culturali tradizionalmente trasmesse al di fuori dell’ambiente scolastico, recupero delle stesse nel caso in cui sia venuta a mancare la loro trasmissione all’interno delle comunità. Molti studenti giungono a Formabiap con la convinzione che per diventare maestri sia necessario ripudiare le conoscenze e il sapere della propria cultura a favore di una formazione ‘occidentale’; si ritrovano invece a esercitarsi concretamente per la pratica docente futura osservando e determinando l’articolazione dei contenuti e delle conoscenze all’interno della dinamica educativa. L’obiettivo è ricreare all’interno di Zungarococha le stesse condizioni della comunità. È un modello d’istruzione che viene sviluppato per poi essere applicato dai maestri, nel momento in cui torneranno alle loro comunità per insegnare nella scuola primaria. Il maestro dovrà cercare di integrare il lavoro di tutte le aree in funzione dell’attività selezionata. Dunque nonostante il rischio della decontestualizzazione nel riprodurre certe situazioni in un contesto che è senz’altro differente dalla comunità, questo metodo possiede comunque un forte potenziale per la pratica docente futura. Il ruolo della scrittura La scrittura è apparsa fin dagli inizi del Programma come una priorità soprattutto in relazione al processo di rivalorizzazione delle lingue indigene e nella convinzione che attraverso la scrittura si possa conservare il patrimonio culturale e allargare le aree d’uso delle lingue autoctone. Scrivere in lingua indigena permetterebbe di promuovere, diffondere e salvaguardare la ricchezza culturale amazzonica, contribuendo in maniera determinante alla crescita dell’identità culturale indigena. In un paese in cui la scrittura ha rappresentato e in alcuni contesti 66 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. rappresenta ancora oggi un simbolo del potere, appropriarsene può significare legittimare la propria cultura e poter accedere agli ambienti in cui vengono prese le decisioni più importanti. Per questa ragione appare necessario operare una distinzione tra scrittura in lingua indigena e scrittura in lingua spagnola. Il discorso della scrittura appare ancora oggi abbastanza complesso se si considera che il mancato ricorso alla scrittura da parte delle popolazioni autoctone non è dovuto esclusivamente alla mancanza di un alfabeto, soprattutto nel caso di popolazioni che hanno un alfabeto da parecchi decenni. La motivazione di chi scrive è forse l’elemento chiave per comprendere il mancato ricorso a questa pratica e la scuola non può e non deve essere certamente l’unico ambiente in cui si stabilisce la necessità di questo mezzo di comunicazione. […] se puede afirmar que si los pueblos indígenas no se han apropiado de la escritura es porque esta se ha introducido en las comunidades sin tomar en cuenta cómo esta podría relacionarse con las prácticas sociales existentes de la comunidad. Así, no es necesario ser muy inteligente para darse cuenta de que un programa de alfabetización o una campaña de lectura en lenguas indígenas está condenado al fracaso en las comunidades donde los comuneros no le ven ninguna utilidad para el desarrollo de su pueblo, o donde la escritura no tiene ninguna conexión con las prácticas sociales de la comunidad (Vigil 2006). Nel momento in cui si incoraggia lo sviluppo di una tradizione scritta in lingua indigena bisogna anche tener conto del fatto che le lingue indigene sono state usate prevalentemente solo in forma orale e il ricorso alla scrittura, quasi sempre in lingua spagnola, era limitato ai contatti col mondo dell’ufficialità che faceva riferimento alla classi al potere. Inoltre a livello scolastico anche l’uso della scrittura in lingua indigena spesso ha comportato esclusivamente una traduzione dei concetti e dei Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 67 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. contenuti della cultura dominante generando un’altra forma di acculturazione. È necessario che la scrittura venga incorporata alle pratiche sociali delle popolazioni autoctone nel rispetto della loro visione del mondo e senza che ciò comporti necessariamente la perdita di valore dell’oralità (Ivi:2006). All’interno di Formabiap la lingua, scritta e orale, è considerata un elemento di identità nella misura in cui gli studenti se ne appropriano e promuovono azioni di recupero e rivalorizzazione. Il bilinguismo coordinato è difficilmente raggiungibile ma ci si impegna affinché gli studenti raggiungano un buon livello di comprensione e produzione in entrambe le lingue. Gli studenti che arrivano a Zungarococha possono avere la lingua indigena come L1 e lo spagnolo come L2 o viceversa e nella maggior parte dei casi hanno livelli di scolarizzazione piuttosto bassi. Per esempio gli studenti kukama, che hanno lo spagnolo come lingua materna, giungono a Formabiap con una conoscenza della lingua indigena minima a causa sia di un percorso scolastico esclusivamente in lingua spagnola sia a causa del processo di discriminazione che ha portato le intere comunità ad abbandonare l’uso della propria lingua. Anche gli anziani che conoscono la lingua indigena spesso evitano di usarla perché si vergognano e pensano che non abbia alcun valore, determinando la perdita del sapere proprio della comunità e della stessa lingua con cui veniva trasmesso. A maggior ragione dunque risulta determinante un impegno costante che favorisca e incoraggi la valorizzazione e il recupero del patrimonio linguistico e culturale indigeno. Un aneddoto del professor Carlos Panduro mette in luce il ruolo della scuola sia nel determinare il rapporto che gli studenti indigeni (in questo caso di etnia Tikuna) hanno con la scrittura sia nel differenziare le aree e le funzioni d’uso delle due lingue. 68 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. Teníamos un grupo de alumnas en educación inicial del pueblo tikuna y estaban trabajando conmigo un módulo relacionado con la historia de la comunidad y les he planteado que desarrollen un trabajo utilizando la lengua tikuna. […] De catorce que estaban en el grupo solo dos escribieron en lengua tikuna todas las demás en castellano. Yo les pregunté porque y me dijeron que era mucho más complicado escribir en tikuna que hacerlo en castellano, por la práctica de la lectoescritura que en la escuela había sido sólo y unicamente en castellano. 7 Tuttavia lo scarso uso della scrittura non significa che le popolazioni indigene non abbiano sistematizzato il loro sapere; in realtà lo classificano e organizzano in base a una visione diversa del mondo che risulta altrettanto valida quanto il pensiero occidentale. Anche l’attitudine a utilizzare il termine ‘pensiero scientifico’ in riferimento al mondo occidentale e invece ‘sapere tradizionale’ in riferimento al mondo indigeno riflette chiaramente una visione etnocentrica della cultura (Montoya 1990). A differenza della logica occidentale, il pensiero indigeno non concepisce il sapere come una realtà isolata bensì come parte attiva nella vita dell’uomo, orientata a garantire lo sviluppo e il benessere della società (Vásquez Medina 2008). È questo un altro punto da prendere in considerazione nel momento in cui vengono elaborati dei programmi scolastici interculturali, in modo che i contenuti non vengano organizzati secondo schemi e concezioni propri della logica occidentale. La cultura non è neutra anzi è sempre orientata secondo una visione/prospettiva ideologica (Sotil García 1997). Qualsiasi sistema educativo risponde a una precisa concezione dell’uomo e della società ed è quindi impostato ideologicamente e mai Intervista realizzata a Carlos Panduro Bartra, docente di storia (Área de Naturaleza y Sociedad), presso Formabiap sede di Zungarocha, Iquitos, 08/09/2011. 7 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 69 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. neutrale come potrebbe sembrare a prima vista. È dunque evidente la discrepanza tra l’educazione impartita nella regione amazzonica e le reali esigenze degli studenti che la ricevono, i quali non hanno né le stesse esigenze né le stesse prospettive o modelli di riferimento di uno studente che vive in un contesto ‘occidentalizzato’. Tutte le forme attraverso cui vengono trasmessi i contenuti educativi comunicano oltre alla nozione o norma esplicita anche dei messaggi impliciti, che sono frutto della selezione che i maestri o il Ministero compiono nell’elaborare il curriculum e i libri di testo. Questi stessi messaggi impliciti hanno degli effetti concreti e duraturi nella costruzione dell’identità dell’individuo. Si pensi all’insegnamento della storia nella regione amazzonica. I bambini apprendono una serie di avvenimenti storici che riflettono una cronologia storica nazionale: i riferimenti alla storia regionale sono sporadici e decontestualizzati e ignorano completamente il periodo storico di sviluppo autonomo delle culture native, precedente alla Conquista. L’insegnamento della storia rivela dunque un’impostazione etnocentrica facilitando l’imposizione della visione del mondo propria della cultura egemonica e ignorando le realtà regionali in cui vivono gli studenti. Quest’atteggiamento ha una chiara ripercussione sulla formazione gli studenti perché la scarsa rilevanza che viene data alla storia locale influisce nel processo di identificazione con la propria cultura (Sotil García 1997). Nei libri di testo l’unica storia presente è quella scritta e occidentale che riflette una visione degli avvenimenti non indigena e basata essenzialmente su una concezione del tempo lineare. Non viene presa neppure in considerazione l’idea che ogni popolo abbia una propria storia e che esista una tradizione orale che interpreta la storia dal proprio particolare punto di 70 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. vista. L’educazione appare come uno dei settori fondamentali per incoraggiare la rivalorizzazione della cultura indigena e soprattutto per favorire la creazione di un modello di sviluppo alternativo a quello imposto dallo Stato. In passato lo Stato ha sempre delegato la gestione del settore educativo a ong o istituzioni straniere come l’ILV (Instituto Lingüístico de Verano) (Stoll 1985, Montoya 1990, Greene 2009) dimostrando in questo modo un totale disinteresse per un settore chiave del paese. Nonostante la legislazione nazionale e internazionale garantiscano alle popolazioni autoctone il diritto di ricevere un’educazione pertinente e nella loro lingua materna, la condotta prevalente è stata quella di omologare e omogeneizzare la popolazione sulla base della lingua spagnola, nella convinzione che questo portasse alla formazione di un’identità nazionale. Il Convenio 169 sobre pueblos indígenas y tribales en países independientes della OIT (Organización Internacional de Trabajo) del 1989, nella parte VI Educación y Medios de Comunicación (articoli 26-31) stabilisce che le popolazioni indigene debbano ricevere un’educazione che risponda alle loro necessità, che garantisca l’apprendimento nella loro lingua materna e il raggiungimento di un buon livello della lingua nazionale, che membri della comunità vengano formati e possano partecipare nell’elaborazione e messa in pratica del programma scolastico (Brañas 2010), ma come spesso accade le leggi vengono puntualmente ignorate. Affermazione dell’identità indigena In un momento storico in cui le popolazioni autoctone lottano per la propria autodeterminazione e per vedere riconosciuti i propri diritti, l’educazione interculturale si colloca all’interno di Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 71 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. un processo di rivendicazione che non è solo culturale ma anche ideologico e politico. L’interculturalità concepita come strumento a favore della coesione sociale e del dialogo continuo nel rispetto della diversità culturale appare come condizione fondamentale per la consolidazione di una società che sia realmente democratica, a maggior ragione in paesi come il Perù, caratterizzati da conflitti e relazioni fortemente asimmetriche tra lo Stato e le comunità indigene (Zúñiga, Ansión 1997). Lo stesso Formabiap non si limita a formare maestri indigeni interculturali bilingui ma forma in primo luogo maestri che siano impegnati nella difesa e nella rivendicazione dei diritti della propria popolazione. Appena giunti a Zungarococha gli studenti affrontano un percorso per molti difficoltoso che li porta ad accettare e riconoscere la propria identità indigena. Per moltissimo tempo le popolazioni indigene hanno dovuto subire politiche discriminatorie che avevano come obiettivo l’eliminazione del loro patrimonio culturale a favore di un unico modello nazionale ‘occidentale’ e monolingue spagnolo. Questo spiega come soprattutto agli inizi Formabiap incontrasse la disapprovazione dei genitori o degli anziani delle comunità, che ritenevano la rivalorizzazione della cultura tradizionale un ostacolo al progresso e pensavano all’istruzione in termini di formazione scientifica occidentalizzata. La maggioranza dei ragazzi che entrano a Formabiap all’inizio non si identificano come indigeni, soprattutto nel caso in cui come i Kukama abbiano ricevuto una formazione scolastica di tipo occidentale, esclusivamente in lingua spagnola, che li ha portati al completo abbandono della loro cultura. Prendere consapevolezza del proprio essere indigeno è un processo difficoltoso, soprattutto in una realtà in cui l’elemento indigeno è sempre stato contrapposto in maniera negativa alla 72 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. cultura spagnola/occidentale e le stesse popolazioni autoctone hanno spesso assimilato in maniera anche inconscia questa presunta inferiorità. La perdita della lingua e delle pratiche culturali da parte di alcuni gruppi etnici dimostra come l’atteggiamento discriminatorio abbia portato nel tempo ad un impoverimento culturale del paese e ad un sentimento di rifiuto nei confronti del mondo indigeno amazzonico; in questo processo ha avuto un ruolo preponderante il disinteresse dimostrato dallo Stato, permettendo che iniziative private gestissero il settore educativo (Montoya 1990). L’impostazione acculturante ed etnocentrica della scuola ha comportato l’interiorizzazione e la trasmissione di generazione in generazione di atteggiamenti quali: la vergogna nel dichiararsi indigeno, il ricorso unicamente alla lingua spagnola davanti a persone non indigene e in generale un sentimento di inferiorità. Nel peggiore dei casi l’interiorizzazione di questi atteggiamenti ha comportato da parte dello stesso individuo il rifiuto e il disprezzo nei confronti della propria cultura d’origine e il relativo abbandono (Gasché 2008). Al contrario l’interculturalità opponendosi alla tendenza omogeneizzante praticata a favore della cultura dominante mette in luce l’impossibilità e l’impraticabilità di una realtà in cui la diversità culturale non venga percepita come ricchezza (Zúñiga, Ansión 1997). La scuola ha agito spesso secondo un’ottica etnocentrica, da una parte eliminando completamente il sapere indigeno dai programmi scolastici e dall’altra impartendo le lezioni esclusivamente in lingua spagnola, anche nei casi in cui i bambini fossero monolingue indigeni. Non ci deve stupire allora che un adolescente (ma questo discorso vale anche per gli adulti) giunga al punto di negare la propria identità indigena, dopo aver ricevuto per tutta la vita messaggi negativi in relazione a tutto ciò che è indigeno. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 73 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. In questi casi il sapere scolastico e quello locale hanno fatto riferimento a due realtà completamente diverse e contrapposte e la scuola è stata la causa di vari cambiamenti che hanno portano all’abbandono della cultura e dell’identità indigena a favore di una presunta ‘civilizzazione’ occidentale. Come dimostrato dalla ricerca condotta da Laura Rival (Rival 2000) presso la comunità degli Huaorani nell’Amazzonia ecuatoriana l’introduzione di un simile modello scolastico attraverso l’ILV, le missioni evangeliche e lo Stato ha generato: divisioni etniche, abbandono delle pratiche culturali tradizionali, dipendenza da modelli sociali esterni e occidentali, sedentarizzazione. Nelle occasioni in cui è stato ammesso l’uso della lingua indigena a scuola si è trattato spesso dell’applicazione di un metodo di transizione (Montoya 1990, Pozzi-Scott 1991 ) in base al quale l’uso della lingua indigena era limitato ai primi anni della scuola primaria, durante i quali lo studente raggiungeva una discreta padronanza della lingua spagnola, la quale successivamente diventava l'unica lingua usata in ambito scolastico. Nei casi in cui la scuola sia stata una delle cause principali dell’abbandono delle pratiche culturali indigene a favore della cultura nazionale dominante, appare evidente che la riaffermazione dell’identità indigena non possa avere la dimensione scolastica come luogo d’azione ma cercherà altri spazi e altri canali. É il caso degli Huaorani citati precedentemente o degli Arakambut di Madre de Dios studiato da Sheila Aickman (Aickman 2003) i quali tendono a mantenere separati l’ambito scolastico da quello comunitario con lo scopo di ridurre l’influenza negativa che la scuola nazionale ha sulle loro pratiche socio culturali. Come scrive l’autrice ”La separación de dominios culturales […] es un aspecto de su defensa contra la colonización”(Aickman 2003:256). Allo stesso tempo in risposta a 74 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. questo modello di scuola omogeneizzante le stesse popolazioni indigene amazzoniche, attraverso le loro federazioni, rivendicano il diritto a ricevere un’educazione bilingue interculturale, in modo che la scuola possa favorire la valorizzazione della cultura autoctona e l’affermazione dell’identità indigena (Paredes 2001, UNICEF, Eibamaz 2008). L’educazione interculturale bilingue contribuisce allo sviluppo negli studenti di un sentimento positivo di autoaffermazione personale, grazie al riconoscimento che la scuola attribuisce al loro patrimonio linguistico e culturale. Una scuola che miri al recupero e alla valorizzazione della cultura dei propri studenti deve in primo luogo superare l’ostacolo rappresentato dalla percezione negativa che hanno di sé stessi e del mondo indigeno (Gasché 1997). L’eib rappresenta uno spazio strategico, seppur non l’unico (Montoya 1990), per offrire alla società indigene elementi di inclusione e favorire l’affermazione di un’identità etnica. Altri paesi latinoamericani come Ecuador e Bolivia in questi ultimi anni sono lo scenario di una forte partecipazione e attivismo politico da parte delle popolazioni indigene, le quali rivendicano i propri diritti e mettono in discussione l’atteggiamento dello Stato (UNICEF, Eibamaz 2008). Tra le altre rivendicazioni emerge, come in Perù, il diritto a un’educazione che sia realmente interculturale bilingue e che includa le stesse federazioni indigene e i propri leaders come parte attiva nelle fasi di organizzazione e gestione del processo educativo. L’esperienza dei paesi sopra citati e del Formabiap nell’Amazzonia peruviana dimostrano come la partecipazione indigena possa favorire il raggiungimento di risultati di qualità e coerenti con la cultura degli studenti ( Vásquez et al. 2009). Al contrario un’eib che non consideri come parte attiva la componente indigena è destinata al fallimento perché, come le esperienze passate, si rivela il prodotto di una visione occidentale Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 75 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. che viene imposta dall’esterno, generando una serie di conflitti identitari, processi di abbandono e omogeneizzazione culturale . Ma su che basi definire indigena una comunità? In base alla cultura? All’eredità genetica? Al luogo in cui vivono i suoi membri? Alla lingua? Ai sensi dell’articolo 2 della legge 27811 sono considerati indigeni: Pueblos indígenas-Son pueblos originarios que tienen derechos anteriores a la formación del Estado peruano, mantienen una cultura propia, un espacio territorial y se autorreconocen como tales. En éstos se incluyen los pueblos en aislamiento voluntario o no contactados así como a las comunidades campesinas y nativas. La denominación “indígena” comprende y puede emplearse como sinónimo de “originarios”, “tradicionales”, “étnicos”, “ancestrales”, “nativos” u otros vocablos.8 Anche a livello legislativo il tentativo di individuare ciò che può essere considerato indigeno ha varie conseguenze. Rimanendo nell’ambito educativo si pensi in tutti questi anni all’atteggiamento negativo da parte dello Stato nell’ammettere l’esigenza di una scuola EIB a favore di comunità che non sono monolingui indigene, non riconoscendo l’importanza della rivalorizzazione della lingua, della storia e della cultura di una comunità anche nei casi di bilinguismo o monolinguismo spagnolo. Fino a qualche tempo fa in Perù una scuola poteva essere considerata EIB per la sola presenza nel corpo docente di un maestro di EIB e cessare di operare come tale nell’eventualità in cui lo stesso maestro fosse trasferito (Zúñiga 2008). Questo aspetto è stato recentemente oggetto di attenzione da parte del Ministero dell’Educazione che attraverso la Risoluzione Consultato il 12/03/2012 su http://www.bnp.gob.pe/portalbnp/pdf/ley_27811.pdf. 8 76 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. Ministeriale 0008 del 09/01/2012 ha stabilito i criteri sulla base dei quali una scuola può essere riconosciuta come interculturale bilingue: lingüístico e cultural y de autoadscripción.9 Se da una parte questa decisione rappresenta a mio avviso un segnale di cambiamento e di maggiore interesse da parte del Ministero nei confronti del settore educativo dall’altra è pur vero che non sempre le leggi vengono applicate e che l’educazione continua ad essere strettamente vincolata agli interessi politico-economici. Come dimostra la relazione della 48 sessione del Consiglio dei diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite10 lo stato peruviano continua a portare avanti delle politiche che non rispettano i diritti delle popolazioni indigene permettendo l’estrazione mineraria e petrolifera in territori ancestrali a danno sia delle condizioni ambientali sia del patrimonio culturale autoctono. Conclusioni Ancora oggi uno dei pregiudizi più diffusi è quello di considerare le comunità indigene come statiche e primitive negandogli in modo totalmente arbitrario la possibilità di portare avanti e diffondere un concetto di modernità differente ma non per questo meno valido di quello occidentale. Pero para esa percepción “europea” u “occidental” en plena formación, esas diferencias, esas diferencias fueron admitidas ante todo como desigualdades, en el sentido jerárquico. Y tales desigualdades son percibidas como de naturaleza: sólo la cultura europea es racional, Consultato il 25/05/2012 su http://www.minedu.gob.pe. United Nations, Economic and Social Council, Committee on Economic, Social and Cultural Rights 48th Session, (30 April - 18 May 2012). Consideration of reports submitted by States parties under articles 16 and 9 10 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 77 Casu M., Formabiap. Riscoperta dell’identità indigena attraverso l’educazione interculturale bilingue. puede contener “sujetos”. Las demás no son racionales. No pueden ser o cobijar “sujetos”. En consecuencia, las otras culturas son diferentes en el sentido de ser desiguales, de hecho inferiores, por naturaleza. Solo pueden ser “objetos” de conocimiento o de prácticas de dominación. En esa perspectiva, la relación entre la cultura europea y las otras culturas se estableció y desde entonces se mantiene como una relación entre “sujeto” y “objeto” (Quijano 1992: 443). Il modello di modernità diffuso dalla capitale continua ad essere considerato dalla maggioranza come l’unico valido nonostante la sua totale incoerenza e impraticabilità in una parte considerevole del paese, dimostrando una costante incomunicabilità tra la periferia e il centro. Lo stesso concetto di interculturalità non viene percepito dallo Stato come un discorso rivolto a tutta la popolazione, a favore della crescita di un’identità nazionale in cui tutti i peruviani possano riconoscersi, bensì come un percorso che solo la popolazione indigena deve compiere per uniformarsi alla realtà della capitale. Come spiega Mignolo “[…] cuando la palabra "interculturalidad" la emplea el Estado, en el discurso oficial el sentido es equivalente a "multiculturalidad." [...]En cambio el proyecto "intercultural" en el discurso de los movimientos indígenas está diciendo toda otra cosa, está proponiendo una transformación (Walsh 2002: 7)”. Bibliografia ABANTO A. 2011 “Educación Intercultural Bilingüe en el Perú. Supervisión de la Defensoría del Pueblo”, in Tarea, 76, pp. 17-20. AICKMAN S. 2003 La educación indígena en Sudamérica. 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Abstract In this article I’ll try to explicate the question of cultural diversities, in particular about Roma people, trying to define the most important links between Roma and political, social and scholastic institutions. I start speaking about the concepts of diversity and race from 1500 to the most recent studies that treat about the importance of education against racism and discrimination. I try to describe the situation of the Roma group of San Nicolò Arcidano, at school and with the other inhabitants. The situation oscillates between integration policies and segregation policies trying the difficult way of school education but carrying on with the segregation trough the construction of gypsies camp. Key words San Nicolò Arcidano, rom, alterità, intercultura, processi formativi. In questo articolo cercherò di trattare il discorso sull’alterità prima in generale, poi focalizzando l’attenzione sul rapporto della società e delle istituzioni con i Rom. Parte dell’articolo prende spunto dal mio lavoro di ricerca sul campo per la tesi di laurea magistrale1 che prevedeva, appunto, lo studio del rapporto tra le istituzioni e i Rom e l’attivazione di politiche di inclusione scolastica in contrasto con le politiche di esclusione urbana. La produzione dell’altro esiste in quasi tutte le società umane 1 2012, La comunità Rom a San Nicolò d'Arcidano. Esempi di intercultura e integrazione. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 83 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. (Aime – Severino 2009: 9) “le quali si autodefiniscono buone creando entità cattive che stanno al di fuori: un buon modo per incanalare pulsioni e tensioni” (ivi: 10). Se da una parte ciò contribuisce a creare coesione interna, dall’altro produce alterità, necessaria soprattutto in un periodo in cui l’affermazione dell’identità è sinonimo di negazione dell’altro, del diverso (ibid.). Il fatto di definire se stessi come rappresentanti dell’umanità, ad esclusione di tutti gli altri, di erigere il “Noi” (io e i miei simili, i miei prossimi, ecc.) come l’Uomo stesso, in opposizione al “non-Noi”m corrisponde all’atteggiamento che classicamente viene definito come etnocentrico. Esso consiste nel porre una distinzione fondamentale tra due categorie opposte e di valore diverso: “Noi, i civilizzati” contro “loro, i selvaggi”, in cui possiamo riconoscere l’opposizione tra natura e cultura (barbarie, primitività). (..) l’etnocentrismo porta alla disumanizzazione dell’altro (…). Nella modernità, la disumanizzazione dell’altro si compie attraverso la creazione politico-scientifica di categorie di “sotto-uomini”, cioè di quasi-bestie (Taguieff 1999:11-12) Un ruolo attivo nella costruzione dell’altro lo ha avuto il concetto di razza, termine che troviamo usato “a partire dal Cinquecento per indicare una discendenza, una schiatta, quello che in antropologia si chiamerebbe un lignaggio” (Dei 2011). Nell’Ottocento ha però assunto un significato diverso, ossia “un gruppo umano caratterizzato da specificità sia somatiche sia intellettuali e comportamentali che si suppongono fondate biologicamente e trasmesse per via ereditaria” (ibid.). La diffusione del termine tra XIX e XX secolo è andata di pari passo con quella delle dottrine razziste e la più famosa fu quella sostenuta nell’Essai sur l’inégalité des races humaines (1853-1855) del conte francese Arthur de Gobineau. Le conseguenze estreme di queste teorie si sono viste nell’Europa nazifascista a metà del 84 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. Novecento e, nonostante la fine della del Nazismo e il crollo del muro di Berlino, anche in epoche più recenti e in più parti del mondo. Oltre ad essere presenti in tutte le società, “(…) i pregiudizi razziali possano essere «altrettanto antichi quanto la storia a noi nota»” (Taguieff 1999: 9). L’antropologia culturale, da tempo, ha sottoposto i concetti di etnia e di razza a una critica lucida rispetto a ciò che era stato prodotto dall’evoluzionismo prima (Bindi – Faedda 2004: 13) e dai processi di dominazione politica, economica e ideologica: Il termine «etnicizzazione», che Amselle e Mbokolo (1985) propongono, intende proprio sottolineare come le etnie siano state molto spesso l’invenzione comune di amministratori coloniali ed etnologi (Fardon 1987) (…). I processi di rivendicazione nazionalistica da parte delle etnie (le quali, spesso prendendo a prestito il linguaggio degli antropologi, hanno invocato i loro diritti come soggetti politici, economici e culturali autonomi) hanno messo in luce come l’ETNICITÀ sia uno strumento positivo di identificazione e dall’altro il ruolo che gli antropologi hanno ricoperto e ricoprono (oggi quasi a richiesta) nella creazione di IDENTITÀ e tradizioni locali (Fabietti – Remotti 2009:271). Già con la Scuola di Manchester si misero in discussione i termini etnia e razza. Ad esempio, secondo Barth - il quale segue il pensiero di Narroll - il concetto di gruppo etnico è usato dall’antropologia per indicare una popolazione che: 1. is largely biologically self-perpetuating; 2. shares fundamental cultural values, realized in overt unity in cultural forms; 3. makes up a field of communication and interaction; 4. has a membership which identifies itself, and is identified by others, as constituting a category distinguishable from other categories of the same order. (Barth 1969) Nonostante la biologia abbia dimostrato la non scientificità Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 85 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. della divisione razziale, l’uso del linguaggio razzista è ancora forte, per due motivi: il primo – ipotizzando una buona fede – individua un semplice residuo linguistico; il secondo – non vi è più la buona fede – riconosce una precisa scelta linguistica e concettuale di tipo ideologico e politico. Si parla di etnie e razzismo, culture e intolleranza (…). Da ciò che si vede e si sente si è diventati intolleranti a tutto ciò che non rientri strettamente nella propria sfera identitaria (…). (Bindi – Faedda 2004:14) Inoltre, nel 1950, l’UNESCO dichiarò la non scientificità della classificazione in razze degli esseri umani. Le Dichiarazioni sulla razza e i pregiudizi razziali sono state poi approvate nel 1978 a Parigi.2 Sappiamo “ogni cultura si è costruita una propria identità solo mediante un confronto, talvolta anche conflittuale, con altre culture” (Pasqualotto 2007: 17). Ciò sta a significare che “nessuna cultura (…) può arrogarsi il diritto di una priorità cronologica o quello di una superiorità qualitativa” (ibid.). L’Italia, paese quasi esclusivamente di emigrazione fino a qualche decennio fa, è diventata, dagli anni ’70 anche paese di immigrazione (Pugliese 2006; Signorelli 2006; Ambrosini 2008). Questo cambiamento ha portato “a uno sfasamento della memoria storica (…) e oggi ci fa paura quel che noi eravamo solo fino a qualche decennio fa” (Aime – Severino 2009: 10). Lo stereotipo de ‘l’italiano brava gente’ viene smentito dall’arrivo dello straniero: La consapevolezza che «ormai gli extracomunitari ci sono», che «non se ne andranno tanto facilmente» e dunque «bisogna farci i conti», «imparare a conviverci» tanto più che «in fondo sono esseri umani come noi» e «noi siamo civili, mica siamo degli schiavisti», «gli italiani 2 http://www.arpnet.it/ahs/DICH-RAZZA-PREGIUD.htm 86 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. non sono razzisti, diamine!»; e al tempo stesso un sentimento profondo, che sembra invincibile, soffocato ma sempre pronto a riemergere, un sentimento di disagio, di diffidenza, di estraneità, addirittura di paura di un pericolo, di una minaccia confusamente avvertita: una sorta di tensione tra questi due atteggiamenti sembra molto diffusa e sembra fonte appunto di una certa angoscia (ibid.) (Signorelli 2006: 104). Ma chi è l’altro? E perché se ne ha paura? Roland Barthes, nel tentativo di definire l’altro si trova dentro una contraddizione: Io sono il prigioniero di questa contraddizione: da una parte, credo di conoscere l’altro meglio di chiunque e glielo dichiaro trionfalmente («Io sì che ti conosco! Solo io ti conosco veramente!»); e dall’altra, sono spesso colpito da questa evidenza: l’altro è impenetrabile, sgusciante, intrattabile; non posso smontarlo, risalire alla sua origine, sciogliere il suo enigma. Da dove viene? Chi è l’altro? Mi esaurisco in sforzi inutili: non lo saprò mai. (Barthes 1979: 107) Albert Memmi prova a dare una risposta a questa domanda sostenendo che “ogni volta che un individuo si trova a contatto con un altro individuo, o un gruppo diverso o a lui poco familiare, egli reagisce in un modo che preannuncia il razzismo” (Memmi 1989: 19). Ma prima del razzismo c’è il pregiudizio dovuto alla mancanza dell’esperienza dell’altro: Avere più esperienza dell’alterità significa avere più capacità di comparazione, cioè avere più capacità di relativizzare i modi di vita locali, cioè più expertise di prenderli per quello che sono, cioè delle costruzioni culturali e non delle verità valide per tutti (Piasere 2011: 54) La mancanza di esperienza ci porta a relegare qualcuno in un ruolo preciso e ciò ci permette di star dentro dei confini predefiniti che lasciano poco spazio alle alternative, perché ci danno la sicurezza di poter dire che l’altro è fatto in un certo modo e quindi possiamo prevederlo e conoscerlo senza doverci Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 87 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. però avere a che fare. L’altro ha quelle caratteristiche dettate dai luoghi comuni i quali, se rovesciati, provocano nel razzista uno spaesamento: Conoscere un genovese spendaccione, un napoletano triste o uno svizzero ritardatario (…) fa immediatamente pensare alle eccezioni che confermano la regola. Né fa cambiare idea conoscerne più d’uno. Insomma, il buon senso, necessario per sbrigare problemi della vita di tutti i giorni, può irrigidire o addirittura paralizzare la nostra capacità di comprendere tempestivamente con chi abbiamo a che fare (Barbujani – Cheli 2010: 29) Questo irrigidimento si rispecchia poi nella concezione dell’identità stessa, la quale viene vista come un’entità stabile, ma: Se fosse troppo dire che fortunatamente il mondo è sempre stato dei bastardi (e purtroppo, ma secondariamente, dei leghisti di ogni tempo), gli antropologi amano dire che i frutti puri, se mai ci sono o ci sono stati, quelli, i frutti puri, o che si vogliono e credono puri, impazziscono (Angioni: 2012) Nonostante le società presuppongano una dipendenza reciproca3 “la paura, l’ostilità e l’aggressione sono ugualmente presenti nelle relazioni tra gli uomini” (Memmi 1989: 21). Lo stesso Memmi definisce il razzismo come una “deficienza nelle relazioni con gli altri” come se si fosse allergici (ibid.), e infatti la 3 Secondo Memmi, “le nostre relazioni con gli altri possono essere di due tipi: imposte, basate cioè sulla sete di potere, sulla ricerca del dominio sugli altri per potere realizzare propri bisogni o propri desideri, oppure negoziate, fatte di un’intesa per reciproche forniture, di offerta di reciproche soddisfazioni. E affermò che «usciremo dalla barbarie il giorno in cui, riconosciute le nostre dipendenze, smetteremo di essere dei predatori e degli assassini dei nostri simili. Allora negozieremo i nostri scambi reciproci»” (Karli 1990, cit. in Memmi 1999. 88 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. parola ‘allergia’4 significa ‘reazione all’altro’. L’altro che è portatore di diversità simboleggia l’ignoto verso cui si è totalmente diffidenti o affascinati, che dà un senso di esotico. Da una parte c’è la paura, il terrore che sfocia anche in forme di odio e violenza, e dall’altra c’è una curiosità e un fascino per ciò che non si conosce. La mancanza di esperienza, la paura, l’incapacità di relazionarsi sono quindi tra i fattori principali della creazione del razzismo, il quale nasce: nel contesto di tensioni interculturali o interetniche, dove può innescarsi una dialettica delle identità: infatti, qualsiasi affermazione di identità o di appartenenza a una determinata comunità, da parte di un gruppo anche decisamente minoritario, rischia di esasperare il senso dell’identità di altri gruppi, primo fra tutti quello dominante o maggioritario (Wieviorka 2000). Per attenuare tali tensioni è necessario ragionare in termini di approccio interculturale, il quale: si propone in realtà come dialogo interculturale, dove ‘dialogo’ va fatto valere non nel senso banale del termine, ossia intendendolo come semplice confronto tra opinioni già definite e consolidate, ma nel senso più autentico, quello socratico del termine, ossia come incontro tra due o più interlocutori disposti a mettere in discussione tutti i loro presupposti e, se necessario, persino se stessi (Pasqualotto 2007: 20). Questo non significa dover “abbandonare i propri valori (…) ma comporta la capacità di mettere in discussione i modelli culturali con cui siamo cresciuti” (Balboni 1999:17). E “per capire un’altra tradizione, devo prima di tutto mettere in questione ciò che su di essa è stato detto nell’ambito della tradizione cui appartengo” (Leghissa 2002:91). 4 Allergia, dal greco antico ἀλλεργία, derivato di ἄλλος e di ἔργον. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 89 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. L’educazione interculturale Un buon laboratorio di interculturalità va visto, prima di tutto, all’interno delle scuole. È raro, infatti, trovare una scuola nella quale non siano presenti alunni e studenti di origini straniere.5 La Scuola, nonostante i numerosi tentativi di imporre le “classi separate” o le “quote” di un certo numero di stranieri per classe,6 ha spesso, al suo interno, docenti che lavorano per insegnare ai propri alunni l’importanza della diversità e il rispetto dell’altro tramite l’attivazione di progetti, anche extrascolastici, che prevedono sia attività ludiche che di ascolto attraverso le quali gli alunni vengono portati a riflettere e a confrontarsi. Dal punto di vista culturale, una scuola inclusiva persegue fondamentalmente due obiettivi: superare la mentalità etnocentrica e prendere coscienza della varietà delle risposte culturali. Il metodo possibile è quello del contrasto, utile a “sbanalizzare l’esperienza quotidiana”: il confronto con realtà diverse dalla propria può stimolare i ragazzi a vedere con occhi diversi il proprio modo di vita e a non darlo per scontato. Dal punto di vista sociale, una scuola inclusiva può diventare il centro di una rete di relazioni interne e territoriali che possano articolare un progetto di ricostruzione di legami e relazioni, ripensando se stessa come laboratorio sociale per imparare a gestire i conflitti e a costruire e valorizzare il capitale sociale (Martin 2010: 55). Una delle questioni più sentite dalla scuola è l’uso della lingua madre dei figli di migranti: “alcuni di essi parlano e comprendono la lingua o le lingue della propria famiglia, i più la comprendono, ma non la parlano bene o volentieri” (Modesti 2011: 151). L’insegnamento di più lingue nelle scuole è 5 http://www.csa.fi.it/area_interculturale/alunni_stranieri_2.html (consultato il 14/03/2012). 6 http://www.stranieriinitalia.it/attualita- classi_ponte_per_i_bambini_stranieri_6040 .html (consultato il 14/03/2012). 90 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. incoraggiato già da tempo dall’Europa, ma in Italia, sia per una mancata preparazione didattica degli insegnanti sia per mancanza di risorse e di personale, le scuole sono ancora indietro nell’adeguamento dei bisogni linguistici dei figli degli stranieri (ibid.). Ovviamente la questione linguistica è strettamente legata all’educazione interculturale. Modesti fa riferimento alla Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia del 1989 nella quale si legge che: Gli Stati parti concordano sul fatto che l’educazione del fanciullo deve tendere a: a) promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l’arco delle sue potenzialità; b) inculcare nel fanciullo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dei principi enunciati nello Statuto delle Nazioni Unite; c) inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali del paese in cui vive, del paese di cui è originario e delle civiltà diverse della propria; d) preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli, gruppi etnici, nazionali e religiosi e persone di origine autoctona; e) inculcare nel fanciullo il rispetto per l’ambiente naturale (art. 29, Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, 1989). Nel rapporto della Commissione Cultura ed educazione del Parlamento Europeo sull’educazione dei figli di migranti del 2009, dal titolo Istruzione per i figli dei migranti (Risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile 2009 sull'istruzione per i figli dei migranti (2008/2328(INI))7 si sostiene l’importanza del saper 7 http://www.unicef.it/doc/599/convenzione-diritti-infanzia-adolescenza.htm (consultato il 14/03/2012) Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 91 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. comunicare la propria cultura e comprendere quella altrui, ma affinché ciò accada è necessario che vengano riconosciuti i diritti di ciascuno. La conoscenza dello straniero deve avvenire in chiave dialettica: all’uguaglianza degli esseri corrisponde in parallelo il diritto alla manifestazione delle differenze, evitando sempre accuratamente che queste stesse non entrino in opposizione tra loro, che non prevalga, cioè, la tipica logica binaria occidentale, secondo la quale speculare al bianco vi è necessariamente il nero (Bindi – Faedda 2004: 15) È quindi importante che l’educazione interculturale preveda la lotta alla xenofobia, della quale sono vittime anche i minori nati in Italia da genitori stranieri. Il colore della pelle, il cognome, ne indicano l’origine ‘diversa’ e possono essere fonte di discriminazione, tra i bambini. Una formazione efficace dovrebbe tener conto dei meccanismi di potere che si sono avuti tra gli stati nazionali e i popoli (Modesti 2011: 155). In Italia, come denunciato sia dalle istituzioni politiche,8 sia dal mondo dell’associazionismo9 il problema del non riconoscimento dello Ius Soli10 fa parte di quei meccanismi di potere propri del razzismo istituzionale. Il diritto alla cittadinanza per i figli degli immigrati che nascono in Italia e che qui frequentano le scuole, è una questione fondamentale per la lotta alle discriminazioni anche in ambito scolastico.11 8 http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:137E:0001: 0005:IT:PDF (consultato il 14/03/2012). 9 http://www.corriere.it/politica/11_novembre_22/napolitano-politicaimmigrazione_3dad5690-14fa-11e1-9140-38f81e7faa5e.shtml (consultato il 23/11/2011) 10 L’ultima proposta di legge sul passaggio dallo Ius Sanguinis allo Ius Soli è quella firmata dai due deputati Sarubbi (PD) e Granata (FLI) nel 2009 e prevede le modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91. 11 http://www.litaliasonoanchio.it (consultato il 17/02/2012). 92 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. I primi due riferimenti normativi sull’educazione interculturale in Italia sono: la c.m. n. 301 dell’8 settembre 198912 e la c.m. n. 205 del 26 luglio 1990.13 Nel secondo, al secondo comma del VI capitolo, si precisa in che senso debba essere intesa tale educazione: L'educazione interculturale -si osserva- avvalora il significato di democrazia, considerato che la "diversità culturale" va pensata quale risorsa positiva per i complessi processi di crescita della società e delle persone. Pertanto l'obiettivo primario dell'educazione interculturale si delinea come promozione delle capacità di convivenza costruttiva in un tessuto culturale e sociale multiforme. Essa comporta non solo l'accettazione ed il rispetto del diverso, ma anche il riconoscimento della sua identità culturale, nella quotidiana ricerca di dialogo, di comprensione e di collaborazione, in una prospettiva di reciproco arricchimento (ibid.). Nella circolare ministeriale n. 73 del 2 marzo 199414 si dà rilievo a un relativismo che porti a considerare la ‘nostra’ cultura non sempre portatrice di valori positivi, così come nelle ‘altre’ culture. I valori: consentono di valorizzare le diverse culture, ma insieme ne rivelano i limiti, le relativizzano, rendendo in tal modo possibile e utile il dialogo e la creazione della comune disponibilità a superare i propri limiti e a dare i propri contributi in condizioni di relativa sicurezza (Modesti 2011: 155). 12 Nel docufilm “18 Ius Soli – Il diritto a essere italiani” viene denunciato più volte il fatto che, per poter partecipare a una semplice escursione scolastica, un alunno figlio di immigrati, nato in Italia, deve ogni volta fare richiesta dei documenti relativi al permesso di soggiorno. Più volte si rinuncia alla gita per le lungaggini della burocrazia finendo, così, discriminati. 13 http://www.edscuola.it/archivio/norme/circolari/cm301_89.html (consultato il 14/03/2012). 14 http://www.edscuola.it/archivio/norme/circolari/cm205_90.html (consultato il 14/03/2012). Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 93 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. Una delle parole più usate nei processi educativi di intercultura è il concetto base dell’antropologia: la cultura. Modesti sottolinea come l’uso di questo termine sia stato in qualche modo frainteso dagli educatori i quali oscillano “tra la tendenza a relativizzare le culture, o a renderle invisibili […] e la tendenza al culturalismo, ovvero alla riduzione della ricchezza dei percorsi di vita e delle esperienze dei ragazzi ad etichette o attribuzioni stereotipate” (ivi: 156). Il rischio di riscontrare quindi casi di razzismo istituzionale (Cozzi 2007; Bartoli 2012) è alto. Infatti non è raro trovare nei progetti delle scuole dedicati all’inserimento di alunni stranieri frasi che ricordano le teorie di Lombroso o il ‘mito del buon selvaggio’. In particolare vorrei portare come esempio una frase che si trova spesso nei progetti scolastici15 dedicati all’inclusione e alla scolarizzazione dei Rom, approvati in alcune scuole. Alla fine di un discorso sulla diversità tra la ‘nostra’ e la ‘loro’ cultura si legge: “Se ormai essi possono essere considerati semisedentari o sedentari, il nomadismo rimane come condizione mentale, sebbene in crisi di identità”. Innanzitutto è bene precisare che generalizzare sul nomadismo dei Rom16 è, oltre che fuorviante, pericoloso, in quanto nasconde un alibi tipico, o quasi, delle istituzioni che hanno a che fare con questi gruppi. Spesso le culture Rom vengono fatte risalire a uno stile di vita nomade, anche qualora si parli di persone che vivono stabilmente in un dato posto, come se si dovessero giustificare politiche intrise di precarietà e sgomberi forzati perché “tanto sono Rom”, sono nomadi, ed è nella loro cultura muoversi. Il voler per forza chiudere un certo gruppo di persone in canoni 15 http://www.edscuola.it/archivio/norme/circolari/cm073_94.html (consultato 14/03/2012). 16 http://utenti.quipo.it/Sportello/pgtnomadi.htm (consultato il 14/03/2012). 94 il Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. prestabiliti richiama, a mio parere, comportamenti propri dei coloni che costringevano gli indigeni a condurre una vita povera e di miseria, “perché tanto sono selvaggi ed è così che vogliono vivere”. Altra frase che si può leggere in questi progetti è la seguente: Nella comunità zingara la regola non nasce da un accordo comune per la convivenza, ma da un continuo processo di adattamento a realtà che mutano. I bambini crescono inventandosi la vita sulla base degli impulsi, degli istinti, dei bisogni. Appare evidente che l’incontro con la nostra società e con la scuola sia per loro difficile perché richiede l’adattamento ad una realtà completamente fondata e strutturata sulle regole e sul loro rispetto. Il bambino zingaro, quando viene a scuola, vive questo dualismo. Insomma, i bambini ‘zingari’ vivono come l’Émile di Rousseau, vivrebbero senza regole e agiscono solo tramite l’istinto. Per limitare certi atteggiamenti etnocentrici, che pongono la “nostra cultura” al di sopra dell’ “altro”, sarebbe opportuno dare un supporto agli insegnanti tramite mediatori linguistico-culturali che conoscano le culture di provenienza dei figli di migranti. Sempre nell’esempio dei Rom, mi è capitato di notare, durante alcune interviste, che gli alunni rom che sono stati in classe con certe maestre hanno continuato il loro percorso di studi anche alle superiori, altri invece arrivano alle medie che non sanno né leggere né scrivere. Questo dato è imputato da alcuni insegnanti al fatto che molti colleghi partono dal presupposto che se un bambino cresce in una data cultura – e basta leggere la citazione del progetto sulla scolarizzazione dei rom per rendersene conto – non ha voglia di imparare, è nella sua ‘indole’ e quindi nella ‘sua’ cultura rifiutare qualsiasi tipo di insegnamento. La cultura ‘altra’, la sua diversità e i pregiudizi legati a essa vengono usati come un alibi dalle istituzioni per Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 95 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. ovviare alla loro incapacità, o semplicemente alla loro noncuranza, nello svolgere il proprio ruolo nella società. La Scuola, parte di essa, lo fa nel non insegnare, i Comuni nel non creare spazi di incontro e creare spazi di segregazione. Anche quando l’obbligo scolastico viene adempiuto, e quasi per un miracolo la scuola viene completata, rimanendo dentro il ghetto degli analfabeti si ritorna ad essere analfabeti: l’istruzione da sola non riesce a strappare da una maniera di vivere – e si rinnega, allora, il poco di istruzione ricevuto, per potere così, almeno, ritornare a un modo di essere che aiuta a vivere (Callari Galli – Harrison 1997:74). L’abitare interculturale Legato all’accesso alla scuola è il discorso sull’alloggio. Non solo la scuola deve essere vista come un luogo di incontro e di dialogo. Anche la città e il vivere e convivere all’interno di essa svolge un ruolo importante. Se non si può parlare di segregazione in senso stretto, si può invece parlare di segregazione policentrica: che coinvolge un numero maggiore di aree (anche molto piccole) della città che attraggono un determinato gruppo socio-culturale – è il caso, ad esempio, dei Pakistani a Prato [Radini, infra] -, ma così presentata, essa non dà conto delle peculiarità protettive contenute dalla vicinanza delle reti parentali e amicali di connazionali (Bressan – Tosi Cambini 2011:19). “L’abitare è una dimensione cruciale della vita in società” (Vitale – Brembilla 2009: 163) e la condizione abitativa di molti gruppi zingari influisce sia sulla qualità di vita degli autoctoni sia degli stessi abitanti dei campi nomadi. La dimora è “il luogo in cui si apprende a ‘sapersi mantenere in pubblico’ e al tempo stesso in cui ci si può ‘riposare’ dalla scena pubblica ed è 96 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. nell’abitare che la persona si singolarizza e costituisce la sua personalità”(ivi: 165). Inoltre, “l’abitare è la palestra in cui si apprendono le didattiche elementari del vivere insieme” (ibid.). L’esclusione da un luogo idoneo in cui abitare “conduce a una spersonalizzazione e a un’umiliazione dell’individuo stesso” (ibid.) e ciò avviene soprattutto in quei casi di precarietà abitativa propria delle tante baraccopoli che si sono sviluppate nelle periferie delle città. Nel raccontare una delle sue prime esperienze con i Rom, Leonardo Piasere racconta della ricerca di un posto in cui accamparsi: Ma una volta trovatone uno ritenuto idoneo (…), il permesso veniva puntualmente rifiutato da chi di competenza adducendo motivi igienici. Per quello strano modo di procedere del cervello umano noto come “inversione”, lo zingaro che voleva allontanarsi dalle discariche altrui si sentiva negare uno spazio, perché accusato di essere una discarica ambulante. Ironia della sorte (…) in quei rari casi in cui veniva concessa la sosta in luoghi indicati da chi di competenza, succedeva che quei luoghi erano giusto privi di un punto d‟ acqua potabile (Piasere 1991: 182). La soluzione che in Italia viene attuata maggiormente è quella che prevede la costruzione dei campi: “L’allestimento, in positivo o in negativo, dei campi-sosta è dettato da motivi di ordine protezionistico verso i centri rituali o i centri abitati in genere ed è una forma di quello che Liégeois (1987a) ha chiamato ‘rigetto indiretto’” (Piasere 1991: 193). Loin de la Constitution, loin des réglementations protectrices, loin des institutions nationales et de leurs discours théoriques, c’est avec une réalité locale bien concrète – populations, collectivités, pouvoirs locaux – que doit quotidiennement composer le Rom. Un souci prioritaire est de trouver le meilleur compromis possible en matière de logement, qui permette de continuer à mener une vie sociale cohérente et d’exercer des activités économiques en évitant d’être l’objet trop marqué du rejet Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 97 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. de son entourage (Liégeois 2007: 145) Si concedono i campi sosta per tutelare i rom, poi, con i campi, ci si tutela dai rom (Todesco 2004: 103). Giorgio Agamben in Homo sacer afferma che il campo è diventato “il paradigma biopolitico dell’occidente” ed evidenzia, in modo convincente, come il campo sia lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola intendendo come stato di eccezione una zona di in distinzione fra esterno e interno, tra esclusione ed inclusione (ibid.) Il campo diventa il simbolo dell’ambiguità delle politiche di tutela che si dividono tra assistenzialismo e ghettizzazione. I campi producono alterità e diventano “un ottimo strumento per destrutturare e ricostruire l’identità rom da parte dei non-rom. E quindi per ricostruire l’identità non-zingara” (ivi: 104). La scelta del campo è, quindi, prettamente politica. Ogni qualvolta si parli di alloggi per i Rom si scatenano tensioni e conflitti i quali potrebbero emergere anche dalla probabile installazione di campi sosta. Nascono comitati contro la presenza zingara nelle città in quanto il loro stile di vita potrebbe intaccare alla sicurezza dei quartieri vicini. Questa segregazione e questo rifiuto hanno portato i rom a instaurare un meccanismo di autosegregazione e alla creazione dei rapporti con i gage (19) strettamente strumentali (Vitale – Brembilla 2009: 166). Ciò che emerge è sempre il discorso sulla sicurezza e l’emergenza quotidiana. Vari fatti di cronaca lo dimostrano, come, ad esempio, il pogrom di Torino (20). Nel Rapporto Il paese dei campi. La segregazione razziale dei Rom in Italia, pubblicato dall’European Roma Rights Center nel 2000, si denunciano molte situazioni di degrado e di razzismo contro i Rom da parte delle forze politiche, della stampa e dell’opinione pubblica: 98 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. La separazione fisica tra Rom e non Rom in Italia è tanto forte da lasciare quasi in ombra tutti gli altri aspetti. Molte altre questioni legate ai diritti umani prenderebbero altre proporzioni se i Rom non fossero ghettizzati nei campi autorizzati o completamente esclusi da qualsiasi altra decente soluzione abitativa. Gli abusi commessi durante le sistematiche azioni di polizia sarebbero inconcepibili senza la vulnerabilità derivante dall’indecenza della vita nei campi. La discussione sul diritto all’educazione sarebbe ben diversa se la frequenza dei bambini non fosse ostacolata dalla separazione fisica dagli istituti scolastici. Tuttavia, la condizione estrema di segregazione dei Rom in Italia, che non si limita alla presenza di un recinto e di un guardiano, ha forse messo in ombra gli altri problemi con cui si confrontano i Rom. Messe da parte le drammatiche insidie della segregazione, il nocciolo della questione emerge in primo piano: razzismo e discriminazione a sfondo etnico (ERRC 2000). Tutti questi aspetti sono stati spesso oggetto di denuncia da parte di organizzazioni internazionali e della stessa Unione Europea, in particolare per quanto riguardo la politica degli sgomberi. La segregazione è innanzitutto un processo che causa tre tipi di meccanismi: concentrazione spaziale di disagio e degli svantaggi sociali; separazione spaziale del contesto abitativo del gruppo considerato; svalutazione della rendita immobiliare nel contesto abitativo (Vitale – Brembilla 2009: 168). La segregazione viene poi mantenuta da altri meccanismi: la stigmatizzazione nella sfera mediatica; la diseguaglianza di istruzione; la diffusione di un’economia informale (ibid.). L’insieme di tutti questi meccanismi ha contribuito al mantenimento dello status di segregazione e: Se è vero che alcune istituzioni totali separano i propri abitanti dal flusso della socialità urbana, è pur vero che il campo nomadi è l’unico dispositivo di azione pubblica residenziale che ha riprodotto i suoi svantaggi di generazione in generazione, cumulando effetti sempre più negativi sulle coorti dei più giovani (ivi: 168-169). Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 99 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. La segregazione produce, in chi la subisce, un rafforzamento dell’identità e dell’appartenenza al gruppo e delle forme di socialità nel campo. Di contro si ha la creazione di un confine più forte noi/loro, confine simbolico-identitario che produce “nel rapporto con l’esterno un forte senso di alterità che risale in generalità in termini di ingiustizia, come sentimento di discriminazione misto a molto fatalismo” (ibid.). Anche in situazioni di convivenza pacifica l’esclusione urbana è causa di deficit nei rapporti, nella partecipazione alla vita cittadina e al raggiungimento delle scuole e degli uffici. Ci sono due frasi, ascoltate durante la mia ricerca, che sintetizzano in maniera chiara questo rapporto di tolleranza, più che rispetto da parte dei gagè, e del rapporto di rassegnazione e, contemporaneamente, di giustificazione all’esclusione e all’autoesclusione. Una è di un gagè che, all’inaugurazione di un villaggio rom disse “Ormai ce li abbiamo e li dobbiamo tenere”. L’altra è di una ragazza rom che, parlando di campi, di razzismo, mi disse “Siamo zingari”, tra rassegnazione e giustificazione. Conclusioni Se da una parte dalle istituzioni persistono manifestazioni di razzismo, di diffidenza e vera e propria fobia, dall’altra esistono comunque sforzi per abbattere le barriere sia mentali che fisiche – lotta culturale al razzismo e sensibilizzazione per superare l’idea del campo. Esistono sia fondi europei per l’inclusione dei Rom che nazionali o regionali, come la legge regionale 9/88, cosiddetta legge “Tiziana”(Melis 1995:177) ma, secondo quanto denuncia Spinelli, i politici fanno credere all’opinione pubblica che essa (l’integrazione) passa attraverso le tasche degli italiani. Assurdo. Pur esistendo associazioni e intellettuali delle comunità romanès, non vengono né 100 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Mura V., La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. interpellati né coinvolti nelle questioni che li riguardano (…). Un esempio concreto riferito a Ziganopoli: al settore scolastico sono stati destinati, negli ultimi decenni, ingenti finanziamenti di cui i bambini e i ragazzi appartenenti alle comunità rom non hanno visto benefici, perlomeno non pari ai mezzi impiegati (Spinelli 2012:145). Bibliografia A IME M. 2009 La macchia della razza. 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Le repressioni ecclesiastiche nei testi sinodali (XIV – XV secolo) A differenza delle autorità civili, la Chiesa per prima si è mobilitata nel condannare le pratiche di charivari.1 Attraverso le testimonianze dei testi sinodali, è possibile ripercorrere le evoluzioni delle denunce e delle repressioni, attuate dalle autorità ecclesiastiche, ai danni di un rituale che doveva rappresentare l'espressione più diretta del controllo e del mantenimento dell'ordine sociale. François Lebrun, in un suo studio (1977) afferma che lo 1 Rituale caratterizzato da frastuoni, urla e baccano che si svolgeva in tutta Europa, solitamente, in occasione di matrimoni male assortiti o non accettati dalla comunità. Il rito veniva sempre accompagnato da una musica assordante, provocata da strumenti quali pentole, piatti, campane, carabattole. Il rumore provocato da tali utensili doveva rappresentare una sorta di "serenata alla rovescia". Lo charivari, infatti, deve essere letto sotto un'ottica carnevalesca, come un momento di extra – ordinarietà, in cui il caos e il disordine sovrastano il cosmos e l'ordine. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 105 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. charivari, in Francia, ha conosciuto due forti ondate di repressione, diverse tra loro per motivi e contesto storico. La prima ondata avviene intorno alla prima metà del XIV secolo e la metà del XV secolo, la seconda dal XVII al XVIII secolo. L’autore elenca alcuni testi sinodali in cui è presente la condanna di questo rituale: Lione (1321-1326), Reims (1328-1330), Avignone (1337). Il primo problema che si incontra riguarda proprio l’apparizione del termine charivari; attraverso lo studio di questi documenti è necessario domandarsi se l’apparizione del termine possa coincidere con quella del rituale in sé. Lebrun avanza una tesi piuttosto cauta su questo tema. I testi sinodali appartenenti alla ‘prima ondata di repressione’ si differenziano inoltre per la denominazione della pratica vietata. Aux XIV e XV siècles, les termes latins et français varient quelque peu: charavaria (Lyon, 1321-1326); chalvaricum et charivarit (Avignon, 1337); charivari (Meaux, 1365); charavallium (Bourges, 1368); charivari et chelevalet (Tréguier, 1365); charwary (Troyes, 1399); charivari (Langres, 1404); chalvaritum (Avignon 1437) […] Par contre, les statuts synodaux du XVII siècle emploient tous, sans exception, le mot charivari (Ivi: 222). Tuttavia le denunce che appaiono nei testi del XIV secolo non condannano lo charivari in quanto tale, ma la sua carica troppo gioiosa e vitale, che troppo spesso sfocia in atti vandalici e degenera in violenze. Attraverso la lettura di alcuni testi della fine del Medioevo è possibile scorgere il motivo di queste repressioni: nello statuto di Troyes del 1399, lo charivari viene considerato un “ludus turpis et noxius”, mentre in quello di Tréguier del 1365 vengono elencate le conseguenze che comporta il rituale, “ex quibus frequenter proveniunt rancores et odia, interdum quoque vulnerationes et homicidia eveniunt”, e continua con lo statuto di Tours del 1431, 106 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. “mutilationes et homicidia sunt secuta”. È necessario ricordare che nei testi sinodali della fine del Medio Evo lo charivari appare legato solamente alle celebrazioni delle seconde nozze; nonostante questo rituale venisse condannato nello stesso paragrafo in cui erano presenti altri abusi – canzoni oscene in chiesa, rumori assordanti, disordini o la celebrazione del rito del ‘vino degli sposi’ 2 – lo charivari non veniva confuso con essi, ma anzi, conservava uno suo stretto significato. Differentemente, nei testi sinodali del XVII secolo, la sua valenza semantica si estende ricoprendo anche tutti gli altri abusi precedentemente elencati. Jean-Baptiste Thièrs, nel suo “Traité des joux” considera lo charivari in questa maniera: La canaille et le gens de nulle importance se font quelquefois un grand divertissement de ce qu'ils appellent charevaris, charivaris ou charibaris, afin de tirer quelque somme d'argent des nouveaux mariés ou de les charger de confusion. Il y a des lieux où cela ne se fait guère qu'à de secondes noces disproportionnées en effet ou en apparence. Mais il y en a d'autres où il se fait presque à toutes les noces (Burguière 1977: 187). L'atteggiamento che porta i testi sinodali ad assimilare in un unico contesto alcuni rituali, solo perché caratterizzati da rumori e frastuoni, è finalizzato al coronamento di un'opera di designificazione «che dovrebbe privare il rito dei suoi elementi di aggressività e della sua funzione di destabilizzazione» (Avanzi 2000: 178). Una preziosa testimonianza di tale concezione è offerta dai sinodi di Reggio Emilia del 1665 e del 1697 (Ibidem: 176-177). Le vin du mariage era un rito propiziatorio celebrato durante i matrimoni. La gioventù della comunità in cambio di un pagamento da parte degli sposi interrompeva lo charivari. 2 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 107 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. Nel XV secolo la sopravvivenza del rituale veniva garantita dal contesto socio-culturale delle città episcopali, le quali “avec leur nombreuse population de clercs migrants ont servi de creuset au XV siècle à la culture carnevalesque et joyeuse” (Ivi: 180); in un simile ambiente in cui vigeva una sorta di sub-cultura giovanile, le manifestazioni di ribellione sia culturale che simbolica avevano una determinata funzione: le varie feste che vedevano come protagonisti i giovani servivano per allentare e regolare le tensioni in un ambiente come quello delle città episcopali, popolato da baccellieri e da chierici vaganti, molto spesso giovani provenienti da altre città, per poi integrarli nella vita sociale. Ma se da una parte queste festività venivano accettate, dall’altra si vietavano les cérémonies qui avaient le plus de chances de dégénérer en violences ou qui insultaient les sacrements. La première vague de répression contre le charivari découle de cette politique de tolérance sélective face à l'activisme frondeur des jeunes et aux pratiques carnevalesques (Ivi: 181-182). Le repressioni ecclesiastiche nell'ambito della Controriforma Come si è detto precedentemente, François Lebrun data la seconda ondata di repressione tra il XVII e il XVIII secolo. André Burguière precisa la datazione indicando gli anni esatti l'uscita degli statuti sinodali: Dix statuts synodaux ou mandements épiscopaux le condamnent entre 1640 et 1699: il s’agit de ceux de Saint-Omer en 1640, Beauvais 1646, Châlons-sur-Marne 1657, Mâcon 1659, Amiens 1662, Beauvais 1669, Noyon 1673, Troyes 1680, Amiens 1696, Beauvais 1699 (Ivi: 180). 108 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. Non a caso questa nuova ondata di denunce e di condanne nei confronti dello charivari si innesta nel clima socio-culturale e politico post-tridentino e della Controriforma. Le ‘nuove’ condanne si differenziano da quelle ‘vecchie’ per un mutamento di significato dello stesso rituale. Lo charivari, dal XVI secolo, non viene più condannato esclusivamente per il suo carattere indecente, ma perché viene considerato eretico. Questo cambiamento di percezione del rituale cammina di pari passo con una rivalutazione totale dei divertimenti e degli svaghi popolari. Sono due gli elementi, entrambi figli del regime culturale post-tridentino, che hanno contribuito alla nascita di una nuova repressione nei confronti dello charivari: “une nouvelle conception de la piété, retenue, sérieuse, austère” (Ibidem) e la riaffermazione da parte della Chiesa della validità delle seconde nozze, argomento di cui parleremo successivamente. Per quanto riguarda il primo elemento, la Chiesa, attraverso l’impresa della Riforma, ha voluto imporre un nuovo tipo di pietà austera e pudica, che garantisse la sottomissione del fedele al magistero ecclesiastico. Si scorge una rottura tra la vecchia devozione medievale – una devozione in cui convivevano sacro e profano, gioia e pianto, elementi pre-cristiani e retaggi del paganesimo – e la nuova devozione post-tridentina, purificata da tutti gli eccessi e regolata secondo i dettami del nuovo ordine vigente. Lo charivari, trattandosi di un rituale strettamente legato a delle pratiche sia di svago che di controllo popolari e carnevalesche, venne inevitabilmente preso di mira. Una testimonianza relativa al clima di repressione generalizzata viene offerta da un'ingiunzione di Monsignor de Clermont, vescovo di Laon, piccolo centro della Piccardia, nel 1696 Nous voulons qu’il soit épuré dans notre diocèse de cette pompe et de Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 109 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. cet appareil profane que les payens avaient coutûme d’y employer: et à cet effet, nous défendons de conduire les futurs époux au son des violons à l’Église, soit pour les fiançailles, soit pour le mariage, même de sonner aux fiançailles, comme aussi tout ce qui s'appelle bienvenues, bouquets et autres semblables appareils qui ressentent l'esprit du paganisme (Ivi: 189). Nei testi sinodali appartenenti alla ‘seconda ondata’ di repressione è sempre presente l’intento di bandire e di eliminare tutti i comportamenti gioiosi della devozione popolare. Il divieto non si fermava solamente alla musica in chiesa o al rumore assordante tipico dello charivari, ma si estendeva addirittura a “les déguisements et actions indécentes contraires à l'honneur des temples et à la sainteté de ce sacrament» (Soissons, 1673); «les chansons déshonnêtes, danses dissolues” (Chalons-sur-Marne, 1657) (Ibid.). Peter Burke, a proposito di questo periodo parla di una “riforma della cultura popolare” (Burke 1980: 204), caratterizzata da un rigido controllo sistematico dei comportamenti collettivi ed individuali. Non è un caso, tuttavia, che tra i secoli XVI – XVII vennero pubblicati i catechismi, i galatei, i trattati di buona creanza (Elias:1980) L'élite culturale, rappresentata dalla Chiesa, operava una pressione culturale ed educativa finalizzata a ‘migliorare’ gli atteggiamenti, i valori, le dimostrazioni di fede della popolazione. Affinché ciò potesse avvenire era necessario mettere fuori legge alcuni comportamenti giudicati sovversivi e pericolosi per il mantenimento e per la conservazione del nuovo sistema; infatti “una lista completa raggiungerebbe davvero proporzioni enormi, ma anche un elenco riassuntivo dovrebbe comprendere: attori, ballate, burattini, carte da gioco, charivari [...]” (Ivi:204). Perché la cultura popolare faceva così tanto paura ai riformatori? Qual era il motivo di tutta questa repressione? Sia i 110 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. cattolici che i protestanti avanzavano due tipi di condanne, una sul piano teologico, l’altra sul piano morale. Su un piano prevalentemente teologico, Erasmo da Rotterdam considerava il carnevale non-cristiano “perché contiene «tracce dell'antico paganesimo» (veteris paganismi vestigia); [e inoltre] perché in tale occasione «il popolo indulge eccessivamente alla licenza» (populus... nimium indulget licentiae)” (Ivi: 205), L’arcivescovo di Milano, San Carlo Borromeo paragonava il carnevale ai Bacchanalia, e gli spettacoli teatrali a delle pratiche sataniche. Addirittura, i protestanti tacciarono alcune pratiche cattoliche come retaggi pagani e pre-cristiani, “paragonando il culto della Madonna a quello di Venere e facendo dei Santi i successori degli dei e eroi pagani” (Ibidem). Da un punto di vista prettamente morale, le feste incoraggiavano il ‘mondo al rovescio’, il libertinaggio, la fornicazione, i piaceri della carne, l'ebbrezza, l'ingordigia. Le danze e i canti avevano una simbologia legata all’atto sessuale, i pali di maggio3 e gli alberi della cuccagna erano visti come un simbolo fallico. Gli aspetti legati al controllo della sfera sessuale avevano una notevole importanza nelle condanne degli charivaris. Come riporta Fincardi: Poco prima della Rivoluzione Francese, secondo l'erudito rettore di una minuscola parrocchia rurale posta tra Lucca e Pisa, Bartolomeo Napoli, proprio questo incentivo che le scampanate offrono al popolo a elaborare narrazioni sboccate della vita privata delle persone, costituirebbe il loro aspetto più diseducativo, riprovevole per inciviltà. In occitano ramade, palo infiorato posto dai ragazzi del paese la notte del 30 aprile davanti alle finestre delle "ragazze da marito"; ogni albero veniva addobbato in maniera differente, il codice vegetale rendeva pubblica la condotta di ogni ragazza. 3 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 111 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. Rimasta propria di culture marginali, tale creatività risulta deviante dai principi etici a cui si attingono ormai le moderne istituzioni civili e religiose del XVIII secolo (Fincardi 2008: 140). L'aspra critica che don Bartolomeo Napoli muove nei confronti del rituale definito da egli «una musicaccia concertata di campanacci, bigongi, nicchi […] e in uno di voci sgraziate, e di schiamazzi» (Ivi: 141) denuncia i pericolosi effetti che i versi lascivi, con espliciti riferimenti sessuali, possono sortire nelle giovani donne e nei giovani uomini non ancora in età da marito: Pensate poi che sarà di que' giovanetti, che già hanno mutato temperamento di flemmatico in sanguigno, e sieno pure informati di tali cose, ma non ancora tocchi dal fuoco! O dal fumo della lascivia; o per un'indole più felice, che abbian sortito dalla nascita, o per una educazione e cura più attenta, che abbian ricevuto dai genitori! Gran pericolo vi ha da temersi, che eglino là correndo fra tanti tizzoni accesi, e sfavillanti di impurissima fiamma non se gli attacchi in mal punto l'ardore pruriginoso e l'ancor chiusa concupiscenza non allarghi il seno e attragga la vampa (Ivi: 144). Le condanne legate allo charivari sono una conseguenza di questo clima repressivo. Se i protestanti, attraverso la nuova etica nascente basata sull'autocontrollo, la sobrietà, il lavoro e la parsimonia – ‘ascesi intramondana’ (innerweltliche Askese), secondo un termine di Max Weber (1965) – cercavano di educare i loro fedeli, contrastando la Chiesa di Roma, i cattolici cercavano di non essere da meno, facendo fronte alle eresie regolamentando i comportamenti religiosi e non, al fine di reprimere qualsiasi tipo di condotta che non rispondesse ai codici della nuova pietà. Negli atti del Concilio di Trento si parla proprio del divieto di entrare in chiesa ubriachi in occasione delle feste dei santi: Né la celebrazione dei Santi [né] la visita alle reliquie [deve] essere 112 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. degradata dalla gente a baldorie e ubriachezza, come se le feste in onore dei Santi dovessero venire celebrate con bagordi e senza il benché minimo senso della decenza (Burke 1980: 215). Le seconde nozze Un ulteriore elemento che costituisce la ‘seconda ondata’ di repressioni nei confronti dello charivari è il nuovo atteggiamento che la Chiesa ha verso le seconde nozze. Il remariage era una delle cause maggiormente scatenanti uno charivari. Sin dal Concilio di Compiègne, nel 1329, le autorità ecclesiastiche hanno riconosciuto la stessa solennità delle prime nozze ai vedovi che si risposano; un comportamento insolito se si pensa che La Chiesa ha per lungo tempo privato di qualsiasi solennità le seconde nozze. Innanzitutto poiché l’imparentamento per via di matrimonio sopravvive alla vedovanza, un insieme di rapporti pratici e senz’altro banali – fino alla quarta generazione canonica – finivano nell'immoralità. In seguito, il personaggio della vedova ha assunto negli scritti dei moralisti, connotati sospetti, che la rendono subito ambigua e scarsamente frequentabile (Fabre 1993: 445). Nel XVI secolo le seconde nozze diventano totalmente legittime. Negli statuti sinodali del 1577, l'arcivescovo di Lione, Monsignor Depinac, dichiara la piena libertà, sia per gli uomini che per le donne di risposarsi nel nome di Dio: Jaçoit que de l’avis de l’Apôtre et par disposition du Droit et constitutions canoniques, déclare Monseigneur Depinac, archevêque de Lyon dans les statuts synodaux de 1577, il soit loisible à la femme, après la mort de son mari, se marier au nom de Dieu, et reciproquement à l’homme après la mort de sa femme (Burguière 1977: 187-188). Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 113 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. Tuttavia l’‘apertura’ della Chiesa nei confronti di un secondo matrimonio non deve essere letta come una sorta di liberalizzazione. Continuava ad esistere, sia nel diritto canonico che in quello civile, una certa ostilità nei confronti della figura della vedova, la quale era obbligata a mantenere un comportamento rigidamente controllato intra tempus luctus. Ma l'opinione che prevalse, sia nell'ultima metà del sec. XV, sia ancora nei secoli susseguenti, presso i commentatori così del diritto canonico che del diritto civile di ogni paese […] fu quella che dovessero intendersi corrette dal diritto canonico, e per ogni caso, tutte le pene legali per la vedova che passasse a seconde nozze entro l'anno del lutto, perché introdotte in favore dei figli, e di regola, neppure quelle stabilite contro la donna che avesse entro l'anno del lutto menato vita lussuriosa (Fadda 1906: 141-143). A questo punto è necessario domandarsi i motivi che hanno spinto la Chiesa a modificare il loro atteggiamento verso le seconde nozze. In primo luogo i testi sinodali del periodo della Controriforma erano finalizzati non solo a censurare e a condannare determinati comportamenti e rituali, ma anche a regolamentare la vita religiosa e i sacramenti. Il matrimonio doveva essere salvaguardato sia sul piano religioso che su quello sociale. Rendendo valido il remariage, la Chiesa cercava di arginare possibili motivi di disordini popolari: “il matrimonio era un modo per prevenire una nascita illegittima o per porre fine a un grave disordine pubblico come nel caso del concubinato” (Fauve-Chamoux 2002: 326). Le seconde nozze di un vedovo, o di una vedova erano, infatti, mal accettati dai ‘vicini’ nella misura in cui perturbavano l'equilibrio matrimoniale della comunità e potevano suscitare diverse tensioni. Il rifiuto di accordare la benedizione alle seconde nozze 114 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. svalutava la cerimonia e la sua sacralità e, agli occhi dei profani rendeva incerta l’indissolubilità del rito. In questa maniera, la Chiesa non possedeva più il comando sul sacramento, divenuto oramai di dominio popolare, per cui: L’assouplissement de la position de l’Église sur ce problème de la bénédiction des remariages est dû pour une grande part à la persistance des désordres que les autorités ecclésiastiques voulaient supprimer. En refusant la bénediction nuptiale aux remariages, l’Église donnait malgré elle une forme de légitimité à la méfiance populaire... et au charivari (Burguière 1977: 191). In tale contesto, lo charivari svolge, dunque, un ruolo estremamente importante: laddove il rituale ecclesiastico non garantiva una consacrazione completa, l’accompagnamento popolare – con il suo rumore dissonante, i suoi mascheramenti, i balli dissoluti, le disarmonie gestuali e sonore, le simbologie – donava al matrimonio un sostegno magico. Secondo l’interpretazione di Lévi-Strauss (1966), il rumore rituale – lo stesso che si usava celebrare durante le eclissi di sole – serviva ad esorcizzare una rottura pericolosa e conflittuale del normale equilibrio della comunità. Tuttavia, questa interpretazione di Lévi-Strauss non è esente da critiche, uno dei suoi limiti è quello di compiere: “un’analisi formale, da cui deduce la funzione, definita una volta per tutte dello charivari” (Ginzburg 1982: 164). A tal proposito E.P. Thompson muove una serie di critiche nei suoi confronti. Lo storico inglese dà importanza non tanto alla forma quanto alla funzione del rituale, determinate dal contesto sociale: Se lo charivari cacciava dal villaggio le persone contro cui era rivolto, se la sua semplice minaccia era sufficiente ad impedire certi comportamenti, e affermava in maniera manifesta un sistema di valori, Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 115 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. non abbiamo bisogno di andare oltre alla ricerca di un significato. Saremo più fedeli ai significati che gli stessi partecipanti attribuivano coscientemente ai loro atti; spingersi oltre, alla ricerca di un significato più profondo, finisce per diminuire la razionalità e la statura morale dei protagonisti , per sottovalutare la consapevolezza e la determinazione delle persone illetterate (Thompson 1981: 157). Lo charivari, attraverso la denuncia e la sanzione del comportamento svolgeva l’ambivalente funzione di punire il matrimonio ma anche di legittimarlo. A tal proposito, si cita un testo sinodale in cui si menziona Le paiement d'une somme d'argent dont devaient s'acquitter les victimes d'un charivari. Les statuts d'Odet de Châtillon, comte-évêque de Beauvais (1554) ordonnent «ut ab eis abstineant, ab eisdem conjugibus (il s'agit des mariés qui sont victimes de charivaris) pecunias aut aliud quovis modo extorqueant (Ivi: 380).4 La pratica di estorcere denaro alle vittime di uno charivari era conosciuta in Francia come le vin de mariage. I vedovi che si risposavano dovevano pagare una ‘multa’ per risarcire il corpo sociale leso, attraverso il pagamento avveniva il ‘ristabilimento’ dell'ordine e la ‘normalizzazione’ della coppia. Ma ormai il clima controriformistico ha provocato una frattura irreversibile nello stesso charivari: la pressanti denunce, le sanzioni, le condanne e le sistematiche repressioni attuate dalla Chiesa, hanno mutato la natura stessa del rito, avendo, quest’ultimo perso la sua funzione pseudo-sacramentale e acquisito un significato di censura e di Lévi-Strauss (1966) ha avanzato una tesi nella quale ritiene che lo charivari era rivolto solo ed esclusivamente nei confronti dei matrimoni non accettati dalla comunità, e connetteva il rumore rituale del rito al rumore – altrettanto rituale – che molte società compivano quando si manifestava un'eclissi. Per la critica a Lévi-Strauss cfr. E. P. Thompson, Rough music: lo charivari inglese. 4 116 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. denuncia. Le contexte même de la répression qui devient avec la réforme catholique de plus en plus globale et normative, l’incitait à devenir contestataire et rebelle comme tous les autres rites populaires associés au mariage avec lesquels on le confond et auxquels il communique ses moyens d’expression. Parallèlement, il tendait à rationaliser son discours et à s’enfermer dans une conduite justicière. Comme l’ont fort bien montré Natalie Z. Davis et Jacques Rossiaud, les groupes de jeunes, les institutions de classe d’âge, promoteurs en milieu urbain à la fin du XV siècle et au début du XVI siècle d’une activité carnavelesque qui canalise les tensions et freine la marginalisation des nouveaux adultes... ou des nouveaux venus, ont contribué à charger le charivari d’une agressivité dénonciatrice (Ibid.). In questa maniera lo charivari allarga il suo campo, prima delimitato quasi del tutto alle questioni matrimoniali, per estendersi alle questioni morali, sociali e politiche. Lo stato contro lo charivari Come afferma Yves Marie Bercé (1985) nel suo libro Fête et revolte le autorità civili affrontarono la questione dello charivari e degli altri rituali di derisione in un secondo momento rispetto alla Chiesa. Gli interventi statali si verificavano solo in occasione di episodi sanguinosi, di risse e di omicidi.5 A Reggio Emilia nel 1502 vengono redatti gli statuti della comunità i quali vietavano le celebrazioni notturne delle matutinatae. Se le autorità ecclesiastiche condannavano certi usi sia di giorno che di notte, quelle civili ponevano maggiore attenzione alle pratiche notturne poiché potevano costituire un Torino è stata la prima città in Italia ad adottare misure contro lo charivari. L'ordinanza del governo è del 1343. 5 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 117 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. attento all'ordine pubblico maggiore. Il testo dello statuto spiega le pene da infliggere ai trasgressori: Prohibemus per aliquem decaetero noctis tempore, fieri matutinatam, cum aliquo sono, sive instrumento cuiuscumque generis, vel cum voce, aut aliter, ante dominum, velfores alicuius: sub poena librarum quinque Communi Regii applicanda, pro quolibet ed qualibet vice: et in totidem, ei, qui hanc iniuriam sibi factam esse fuerit conquestus: cuius conquerentis sacramento credi omnino volumus, de personis in dicta matutinata existentibus, qui cas viderit et cognoverit. Et liceeat Militi et familiac Domini Potestatis, vel Capitaneo plateae, eas invenientibus, auferre eis delinquentibus omnia instrumenta sonatoria, ipsorum lucro cessura. Et haec etiam locum habeant in illis matutinatis, quae senibus nubentibus et viduis fieri consuevere: cum poena librarum decem, Communi Regii applicando pro quolibet, et qualibet vice, contra quos contrafacientes Dominus Potestas Regii possit procedere, etiam ex officio et prout sibi videbitur (Avanzi 2000: 184). Risentendo sempre del clima controriformistico, alcune città della Francia, a partire dal XVI secolo, iniziano ad enunciare esplicitamente i divieti del rito; nel 1538 è la volta del parlamento di Tolosa, ma nel corso del XVII secolo i divieti divengono abituali in altri grossi centri: “i parlamenti di Borgogna nel 1606, di Bordeaux nel 1639, di Aix-en-Provence nel 1640, e così via, richiamano la norma, che ha vigore in tutto il regno” (Fabre 2001: 446). Le condanne effettuate dalle autorità civili nei confronti dei rituali di derisione, tuttavia avevano un intento differente da quello della Chiesa; lo charivari non veniva perseguito perché eretico o blasfemo, bensì perché disturbatore della ‘quiete pubblica’. Troviamo, però, un insolito silenzio nei confronti della ‘corsa all'asino’; questo rituale non solo veniva tollerato ma, anzi, utilizzato come pena da scontare per determinati rituali. Martine Boiteux spiega che l’asouade è presente nella Roma 118 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. medievale: “Cette promenade est mentionnée en trois circostances: en relation avec la fête de la Cornomania, avec des mascarades carnavalesques et avec des condamnations judiciares” (Boiteaux 1977: 238). Tralasciando gli aspetti folklorici legati alle feste e al carnevale e concentrandoci maggiormente sugli aspetti giudiziari, noteremo che la condanna della corsa all’asino veniva inflitta a chi si ribellava o combatteva il potere pontificio. L’autrice riporta un testo del XII secolo di Falcone di Benevento, citato da Antonio Ludovico Muratori negli Annali d'Italia, in cui si parla di un castigo fatto ai danni di un antipapa: Tunc praeparato sibi camelo pro albo caballo, et pilosa pelle vevecum pro clamyde rubea, positus est in transverso super ipsum camelum, et in manibus ejus pro freno posita est cauda ipsius cameli: Talibus ergo indumentis ornatus in comitatu Pontificis praecedebat, revertens ad Urbem cum tanto dedecore, quatenus et ipse in sua confunderentur erbescentia, et aliis exemplum praeberet, ne similia ulterius attentare praesumant (Ivi:245). Anche nell’Inghilterra dei Tudor e dei degli Stuart, alcuni tribunali imponevano come pena la cavalcata sull'asino accompagnata dalla rough music. Ma tra il XVII e il XVIII avviene il capovolgimento della prassi. Nel 1655 a Bayonne “i giurati emettono un mandato contro privati che confessano di far correre l'animale che chiamano asino o asina” (Fabre 2001: 447). Un nuovo clima di religiosità e un intervento sempre crescente dei sovrani nella vita urbana investivano l’Europa. «È mutata l'ottica con cui il potere si afferma e il rapporto autorità/comunità ha assunto una dimensione molto più complessa in un sistema in cui si affina e diventa sottilmente ambigua la strategia di controllo sulle forme di vita comunitaria» Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 119 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. (Avanzi 2000: 185). Nelle città della Francia settentrionale questa situazione si presentava in maniera più marcata rispetto al Sud, in quanto «les souverains – alors espagnols – de la région dévèloppèrent dès le XVI siècle une Contre-Réforme conquérante, qui s’installa plus tardivement dans le royaume de France proprement dit” (Muchembled 1977: 239). A poco a poco le autorità, sia ecclesiastiche che civili, affermano che le feste popolari sono inutili e dannose; tuttavia riconoscono la funzione terapeutica che esercitano sul corpo sociale e più che proibirle cercano di inquadrarle nei quadri dell’ortodossia cristiana. Le feste private, le feste pubbliche, les ducasses,6 i matrimoni venivano sempre di più regolamentati. Il cattolico Filippo II promulgò un'ordinanza, nel 1560, in cui vietava di Chanter, ou jouer, faire divulguer, chanter, ou jouer publicquement, en compaignie, ou en secret, aulcunes farces, ballades, chansons, comédies, refrains, ou aultres semblables escriptz, de quelque matière ou en quelque langaige que ce soit, tant vieulx que nouveaulx, esquelz soyent meslées aulcunes questions, propositions ou faitz concernant nostre relligion, ou les personnes ecclésiasticques […] et, pour aultant que par cy-devant n'estant le mond si corrompu, ne les erreurs si grans qu’ilz sont présentement, l’on n’a prins de si près regard à yceulx jeux, farces, chansons, refrains, ballades et dictiers, comme le convient au temps présent, ouquel les mauvaises et damnables sectes, de jour en jour pullulent et s'accroissent davantaige (Muchembled 1977: 230).7 I divieti e le regolamentazioni non si fermano solamente alle festività, ma si espandono fino a sorvegliare e controllare rigidamente il loisir di tutti gli abitanti. Il nuovo regime inquadra i comportamenti e muta i rapporti sociali: “commence en effet un Feste tradizionali del Belgio e della Francia settentrionale. Su tale argomento cfr. Castan (1977) e la novella in lingua occitana dell'Abate Fabre Jean l'an prés in (Le Roy Ladurie:1983). 6 7 120 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. mouvement de contrainte des corps et de soumission des âmes qui ira s’accélérant au siècle de la Raison et à l’époque des Lumières” (Ivi: 231). Il declino della vecchia concezione dell’uomo “a sonné au cadran des horloges tridentines, absolutistes et patriciennes” (Ivi: 232); si crea, così, una nuova idea di uomo, sottomessa e cattolica. La legislazione repressiva del XVI secolo trasformò le festività in spettacoli per il popolo e restrinse sensibilmente le libertà delle Abbazie della Gioventù o come li definiscono: Very often by organizations which literary historians have called “sociétés joyeuses” or “fool-societes” or “play-acting societes”, but which I will call Abbeys, since that name comes closest to what they usually called themselves – the Abbeys of Misrule (Zemon Davis 1971: 43), le quali venivano sempre più inquadrate dai ricchi borghesi. Il nuovo ceto emergente, infatti, tutelato dalle nuove norme, diventa nemico diretto della Gioventù8 e dei suoi rituali derisori; tra il XVII e il XVIII secolo si presenta in Europa una sorta di ‘rivolta delle vittime dello charivari’, le quali chiedono alla Legge di essere difese da chi vuole intromettersi nella loro intimità e nella loro vita privata. Il rituale non viene più condannato perché “contro il sacramento del matrimonio” o in quanto disturbatore de “l'ordine pubblico”, ma, come condannano i parlamentari di Navarra nel 1769, in quanto attentano “alla libertà all'interno delle famiglie”. In seguito alla Rivoluzione Francese la serietà e la rispettabilità della nuova classe borghese si scontra con i tradizionali costumi “villani” e nel mentre cerca di conquistare Solitamente negli ambienti a forte sociabilità locale, come nel caso di alcune zone rurali, la popolazione utilizzava i propri mezzi per contrastare la censura ecclesiastica e per affermare un proprio potere di contestazione. 8 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 121 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. uno status sociale presenta e propone «la famille comme norme et modèle de la vie sociale, come sources de vertus et origine des “valeurs”, comme ensemble de conduites régulières et régulatrices». (Bonnain-Moerdyk, Moerdyk 1982: 392). Conclusioni Con molta difficoltà possiamo stabilire quando sia iniziata la decadenza dello charivari.9 Possiamo soltanto chiamare in causa alcuni eventi che hanno caratterizzato l’Era Moderna: la Controriforma e il nuovo Stato assolutista. Ormai anche nelle piccole comunità locali, le quali prima si reggevano su contratti interpersonali e su regole non scritte, devono fare i conti con uno Stato che si intromette sempre di più sui rapporti sociali. Un controllo sempre più serrato sui comportamenti, una nuova idea di pietà cristiana, un nuovo rigore religioso e una sempre maggiore censura sui comportamenti considerati eretici, chiudono per sempre un’era caratterizzata dalla sociabilità anonima (Chartier: 2001), da un tipo di società in cui il privato e il pubblico convivevano assieme senza negarsi l’uno con l'altro. L’uomo dell'Era Moderna, il cui comportamento è sempre stato osservato e giudicato, sviluppa un nuovo bisogno di intimità e di solitudine – non più quella solitudine anacoretica la quale secondo la concezione medievale veniva considerata come una punizione – ma un piacevole isolamento in cui coltivare i Piuttosto che di decadenza sarebbe più opportuno parlare di trasformazione delle pratiche di charivari; vi è una continuità nella funzione derisoria e sanzionatoria e nell'utilizzo di strumenti rumorosi tra i rituali dell'Ancien Régime e le manifestazioni dei movimenti sindacali del Sessantotto, dei movimenti studenteschi del Settantasette, dei cazelorasos in America Latina e dei movimenti No Global negli anni 2000 (cfr. Fincardi, 2005). 9 122 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. propri affetti e le proprie passioni. Anche nella sfera relazionale si intravedono i primi cambiamenti. La scelta del coniuge diventa progressivamente un problema di scelta individuale e non più legata alla famiglia o al contesto ecologico; il matrimonio, sempre di più, perde la valenza legata all’aspetto economico o di lignaggio per diventare un unione affettiva. La famiglia diventa il rifugio dell’intimità. Nel XVIII secolo, inizia ad intravedersi un lungo processo che porterà all’aumento dell’individualismo e della mobilità sociale, il cui protagonista sarà l’emergente ceto borghese. In una simile prospettiva, lo charivari perde la sua funzione di garante dell’ordine sociale e diventa sempre più un’intromissione nella vita privata degli individui e delle famiglie. Una simile riflessione, tuttavia, non deve essere estesa a tutte le realtà europee. Si presentavano, nel Vecchio Continente, realtà differenti, per questioni economiche, sociali, culturali e politiche. All’interno di uno stesso paese vi erano forti differenze, dovute spesso al contesto ambientale, come il divario tra centro urbano e centro rurale.10 Un rituale di giustizia popolare come lo charivari sopravvive laddove il contesto sociale lo permette; in cui l'ambiente vincola l’agire individuale di ogni persona e questi vincoli acquisiscono valore quasi giuridico; come nel caso di una novella di Giovanni Procacci intitolata proprio “La scampanata”,11 la quale racconta di uno charivari in Toscana intorno alla metà del XIX secolo: È una chiassata – rispose il notaio. - È la scampanata per quei due Sulla dissonanza tra la Gioventù come istituzione municipale e la Gioventù come complesso di pratiche cfr. Agulhon (1968). 11 Il termine “scampanata” era diffuso nell'Italia centrale e settentrionale. Il nome rimanda al suono della campana utilizzato per creare rumore. Detta anche “chiassata”, “campanate”o “far campanate”. 10 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 123 Branca E., Charivari. Condanna e repressione. vedovi là che discorrono insieme e saranno sposi tra pochi giorni. È una consuetudine del paese, e ciò che si fonda sulla consuetudine non è un’ingiuria, è un quasi diritto, diremmo noi. Ingiuria è quod non iure fit (Procacci 1961: 354-355). Bibliografia AGULHON A. 1968 Pénitents et Francs-Maçons de l'ancienne Provence, Paris, Fayard. AVANZI, R. 2004 “Sonitus, fragores, clamores dissoni, strepitus, rumores matutinatae”, in Charivari, mascherate di vivi e di morti, atti del convegno internazionale di Rocca Grimalda, 7-8 ottobre 2000, a cura di Franco Castelli, Alessandria, Edizioni dell'Orso, pp. 175-187. BOITEAUX B. 1977 “Dérision et déviance: à propos de quelques coutumes romaines”, in Le Charivari. Actes de la table ronde organisée à Paris (25-27 avril 1977), a cura di J. Le Goff, Schmitt, J-C, Paris-La Haye, Mouton, pp. 237-249. 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Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. Stefano Pau Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto Abstract Comics are often seen as a sub-genre of literature, instead of being judged as a genre itself, and it's very common now-a-days to ear the definition of “graphic novel”. Although this definition, a great part of the so called “graphic novels” are not fiction at all. In this article I try to underline the importance of saving the memory of terrible historical events through the medium of the comic, focusing my analysis on three Peruvian works published in Lima in recent years. The three of them deal with historical and social events happened in the last part of the XX century; they use images and words in order to preserve the memory, make the audience know more about their country and rise a democratic consciousness. Key words Fumetto, Perù, Sendero Luminoso, graphic novel. All'interno del vasto panorama culturale di Lima, capitale ricca di contraddizioni e animata da realtà diversissime fra loro, sta prendendo piede da ormai qualche anno un'interessantissima produzione fumettistica realizzata da autori giovani e impegnati che trovano in questo supporto comunicativo il mezzo appropriato a veicolare ansie, ideologie, visioni del mondo e della storia recente. Sono opere che si liberano dalla definizione alla moda di graphic novel, troppo vaga e ambigua e che sta decisamente stretta a una produzione che cammina su binari paralleli a quelli della pura fiction. Del resto non sono gli unici, in quanto “a number of the most acclaimed and commercially successful 'graphic novels' of recent years have not been novels at all, but non-fiction Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 127 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. memoirs in comics form” (Hathaway 2011: 250). La graphic novel, o novela gráfica nei paesi ispanofoni, in realtà non è altro che una definizione con la quale si cerca di nobilitare un mezzo che di per sé non avrebbe nulla da invidiare alla narrativa scritta: il fumetto non ha bisogno di essere assimilato al romanzo per essere un prodotto culturale degno di nota; come i romanzi, o come qualsiasi altro genere letterario, può essere di basso livello o di ottimo livello, e ciò dovrebbe bastare a classificarlo, analizzarlo e, a seconda dei casi, apprezzarlo. Riprendendo le riflessioni di Edward Said nell'introduzione di un capolavoro quale Palestina dello statunitense Joe Sacco: I fumetti sono un fenomeno presente ovunque, di solito associato all'adolescenza. Sembrano esistere in tutte le lingue e culture, da est a ovest. Le loro storie possono spaziare dal visionario e il fantastico fino al sentimentale e il buffo. […] Ritengo che alla maggior parte degli adulti […] appaiano frivoli ed effimeri, e c'è la convinzione che appena si cresce debbano essere messi da parte per occupazioni più serie, se non in casi molto rari (per esempio per Maus di Art Spiegelman) in cui un argomento scomodo e scabroso è affrontato da un vero e proprio maestro del fumetto (Said 2011: 9). Tuttavia l'etichetta di graphic novel sempre più spesso viene data a tutti quei comics che esulano dalla serialità; a quelli che trattano temi che vanno al di là della pura avventura di un protagonista a cui il pubblico lettore si affeziona settimana dopo settimana, mese dopo mese; a quelli che magari vengono pubblicati con una copertina rigida anziché una brossura. Nella capitale peruviana negli ultimi anni sono state pubblicate delle opere che già dai loro sottotitoli sottolineano quanto per loro sia inappropriata una simile etichetta: la prima è Rupay: historias gráficas de la violencia en el Perú 1980-1984; la seconda è Barbarie: comics sobre violencia política en el Perú, 1985128 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. 1990. Lo status di fumetto viene dunque riconosciuto e valorizzato, e allo stesso modo viene esplicitato l'argomento trattato nelle due opere: la violenza politica che sconvolse il Perù negli anni '80 (e nella decade successiva).1 È dunque questo uno dei rari casi a cui si riferisce Said nel brano citato poc'anzi: un argomento scomodo trattato attraverso tale medium, che rende più accessibili temi aridi, duri, di cui la gente spesso preferisce non sentir parlare. In questo modo il fumetto diventa un mezzo perfetto per parlare di sentimenti, di emozioni. Carlo Lucarelli, giornalista e scrittore, nell'introduzione a La strage di Bologna, un comic italiano che ha come tema questo terribile fatto di cronaca, scrive: “Le emozioni. La memoria è fatta di dati, di eventi, di nozioni anche, ma sopratutto di emozioni. Il conflitto armato interno sviluppatosi nelle ultime due decadi del XX secolo portò alla spaventosa cifra di circa 70.000 vittime. I principali responsabili di questa carneficina furono due movimenti eversivi, il Partido Comunista del Perú-Sendero Luminoso (SL) e il Movimiento Revolucionario Tupac Amaru (MRTA), e le Forze Armate nazionali. Il primo periodo del conflitto vide lo svilupparsi di una guerra non convenzionale; tuttavia la gravità delle azioni dei senderisti andò aumentando progressivamente, fino a quando divenne palese che gli assassinii sistematici e gli attentati stavano diventando un problema di carattere nazionale: Ayacucho per prima, e in seguito diverse altre provincie vennero dichiarate in “stato di emergenza” e lasciate nelle mani delle Forze Armate. Gli attentati dei senderisti si fecero più violenti, ma i metodi repressivi dei militari non differivano granché da quelli dei terroristi. Le truppe inviate nelle zone di emergenza operarono una repressione indiscriminata verso terroristi e presunti tali, arrivando alla violenta distruzione di intere comunità sospettate di essere complici di SL. Nel 1992, dopo anni di indagini, i servizi segreti riuscirono a mettere le mani sul leader di SL Abimael Guzmán, ma il processo di pacificazione nazionale si sviluppò lentamente, in quanto le zone d'emergenza continuarono a restare tali e le Forze Armate a esservi stanziate, forti anche della Legge di amnistia che nel giugno del 1995 rimise in libertà tutti i condannati per violazione dei diritti umani durante il conflitto. 1 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 129 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. Per tutto quello che ci succede attorno e per come siamo fatti noi in quanto esseri umani, le emozioni si raffreddano in fretta” (Lucarelli 2006: 5). Le emozioni si raffreddano, e lasciano il posto all'oblio e al silenzio. Le uniche due cose che i narratori possono fare, dice Lucarelli, è far rivivere le emozioni e mettere in fila i fatti che le hanno suscitate. Rupay e Barbarie operano in questo senso. Scavano nella memoria per far sì che gli errori del passato non vengano commessi nuovamente, e per dare almeno la dignità del ricordo alle 70.000 vittime del conflitto armato interno che vide contrapposte le Forze Armate dello Stato peruviano e i movimenti eversivi di Sendero Luminoso2 e del Movimento Revolucionario Tupac Amaru. Sendero Luminoso sorse negli anni '70 nella regione di Ayacucho in un'epoca caratterizzata dal forte disequilibrio di carattere economico e sociale esistente fra la Capitale e le provincie, le fratture causate dalla sproporzionata distribuzione della ricchezza e del potere, nonché una forte discriminazione etnico-culturale. Se a ciò si somma l'acuirsi della crisi economica durante gli anni '70, gli scioperi degli operai, i vuoti di potere venutisi a creare in molte zone rurali dopo il fallimento della riforma agraria (con immensi spazi che divennero spesso dominio dei narcotrafficanti), e soprattutto la diffusa diffidenza nei confronti dei partiti politici, atrofizzati da anni di governi militari, si può iniziare a comprendere come un movimento rivoluzionario come SL (e in seguito il MRTA) potesse porsi come alternativa percorribile. Sendero Luminoso riteneva fosse necessario minare alla base il nuovo sistema democratico che stava per nascere con le elezioni del maggio 1980 e diede dunque inizio alla Lotta Armata, che mirava alla distruzione dell'ordine costituito e alla creazione di una República Popular de Nueva Democracia. Caratterizzato da una forte gerarchizzazione interna e dal culto del leader Abimael Guzmán, portò avanti la sua azione di proselitismo fra i lavoratori, gli studenti e le masse, la cui adesione non era però sempre consensuale: non era raro, infatti, il ricorso alla violenza e alla coercizione. (Degregori 1990; Gorriti 1991). 2 130 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. Rupay: historias gráficas de la violencia en el Perú 1980-1984 Rupay è un'opera collettiva realizzata da tre giovani limeños: Luis Rossell, Alfredo Villar e Jesús Cossio e pubblicata nel 2008; è un fumetto-documentario, e, come si legge nell'introduzione degli autori (Cossio-Rossel-Villar 2008: 3), non è un libro di Storia, bensì di 'alcune delle storie' accadute in Perù fra il 1980 e il 1984, primi anni della violenza politica che colpì principalmente i più poveri ed emarginati fra i cittadini peruviani: gli strati inferiori, i subalterni, i 'senza voce'. Nella presentazione dell'opera si sottolinea il fatto che il conflitto abbia avuto le maggiori ripercussioni sugli strati più deboli della società: ciò sta a indicare il carattere razzista e classista di quest'ultima, nonché la profonda indifferenza e disprezzo delle élite nei riguardi di ciò che avveniva lontano dalla capitale. Politici, mass-media, gli alti comandi militari preferiscono dimenticare il conflitto, ben sapendo di essere corresponsabili del livello di barbarie a cui si arrivò nelle ultime due decadi del XX secolo (v. Fig. 1). Sul blog (non più aggiornato) del poeta e critico letterario Paolo de Lima,3 già membro del gruppo poetico Neón, si trova un interessante intervista a uno degli autori, Alfredo Villar, in cui viene descritto il processo che ha portato alla creazione di Rupay (che in quechua significa 'bruciare, incendiare'). Il progetto, durato in totale circa tre anni a causa della complessità dell'argomento trattato, si è sviluppato inizialmente con una intensa fase di documentazione, imprescindibile per un tema di importanza capitale qual è il conflitto armato interno. Questa Consultato il 31/05/2012 su http://zonadenoticias.blogspot.it/2008/08/busco-memoria.html. 3 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 131 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. Fig. 1 – Copertina di Rupay. 132 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. prima fase, a carico principalmente dello stesso Villar, scrittore e critico di professione, consisteva nella scelta dei temi da trattare attraverso la lettura soprattutto dell'Informe della Comisión de la Verdad y Reconciliación,4 fonte principale ma non esclusiva del soggetto. Villar, infatti, ha incluso nella sua raccolta di dati anche la stampa dell'epoca: riviste, quotidiani e periodici di varia natura, nonché saggi e libri sull'argomento (Díaz Martínez 1985, Vargas Llosa 1990, Degregori 1990, Gorriti 1991) . Oltre a questa documentazione sui testi, la ricerca ha assunto le tinte di una vera e propria ricerca etnografica sul campo nella regione di Ayacucho, con lo scopo di raccogliere testimonianze dai protagonisti e dalle vittime del conflitto (è il caso ad esempio di Mamá Angélica Mendoza, fondatrice dell'ANFASEP, l'Associazione dei familiari degli scomparsi durante il conflitto). Il soggetto con i temi e gli episodi da trattare preparato da Villar, è stato in seguito elaborato da Jesús Cossio che ne ha estratto una sceneggiatura vivida e dal forte impatto, con inquadrature che proiettano il lettore all'interno della scena e l'inserimento di fotografie e illustrazioni che rendono ancora più emotivamente impressionante la lettura. Lo stesso Cossio è l'autore delle matite dell'opera, mentre a Luis Rossell è spettato un ulteriore lavoro di supervisione e la realizzazione dell'inchiostrazione. Un lavoro lungo e molto complesso che ha creato, come la definisce Villar, “una narrativa gráfica que es a la vez un documento y una ficción, un testimonio histórico y una creación literaria y artística”.5 L'intero Informe è disponibile sul sito http://www.cverdad.org.pe/ifinal/index.php consultato il 31/05/2012. 5 Ancora dal blog di Paolo de Lima, http://zonadenoticias.blogspot.it/2008/08/busco-memoria.html consultato il 31/05/2012. 4 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 133 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. Il contributo che quest'opera apporta al processo di recupero della memoria storica, avviene attraverso la rappresentazione di alcuni eventi simbolici che caratterizzarono i primi anni del conflitto armato interno, quelli fra il 1980 e il 1984. Eventi violenti che scossero profondamente l'opinione pubblica e soprattutto colpirono gli abitanti della sierra del sud del Paese. La prima parte del cómic-documental narra la cruda realtà di eventi come la prima azione senderista, l'incendio delle urne elettorali nel paesino di Chuschi, per poi passare all'assalto dell'avamposto della polizia di Tambo e allo 'spettacolare' attacco al carcere di Huamanga, con la liberazione di diversi militanti prigionieri. Viene di seguito narrata anche la rappresaglia che seguì l'assalto al carcere, con l'uccisione di alcuni presunti terroristi ricoverati in un ospedale. La crudeltà che si scatenò sia dal fronte istituzionale che da quello sovversivo in questi anni è ritratta con dovizia di particolari e con un tratto realistico ma di facile assimilazione, espressivo a tal punto da riuscire a far rivivere la drammaticità di eventi come l'assalto alla caserma di Vilcashuamán o il terribile eccidio di Uchuraccay. 6 Questo episodio è forse uno dei più dolorosamente angoscianti fra quelli immortalati nelle pagine del fumetto, forse anche per l'abbondanza di immagini fotografiche che catapultano il lettore dentro l'ambiente in cui si consumò il delitto. La critica all'Informe redatto dalla commissione presieduta da Mario Vargas Llosa si fa evidente nei disegni e nelle stesse fotografie, che smentiscono le teorie della commissione investigativa (v. Fig. 2).7 Per i vari episodi citati si rimanda in particolare all'Informe della CVR; per i fatti di Uchuraccay vedi anche Vargas Llosa 1990, Vich 2002, Ubilluz 2009. 7 Nel gennaio del 1983 nei pressi della comunità andina di Uchuraccay vennero brutalmente assassinati 8 giornalisti e una guida. Per investigare sull'accaduto venne istituita una commissione composta da tre illustri 6 134 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. La seconda parte dell'opera narra episodi altrettanto violenti e sconvolgenti, come le lotte fratricide fra gli eserciti popolari reclutati da Sendero Luminoso e i Comitati di Difesa Civile organizzati dalle Forze Armate. In particolare vengono descritti gli eventi che sconvolsero la zona di Chungui/Oreja de Perro, dove le violenze furono tali da far sparire intere comunità. In questa sezione il forte impatto emotivo è dato dall'inserzione di alcune delle testimonianze degli abitanti della zona raccolte in un libro intitolato “Chungui, violencia y trazos de memoria” (Jiménez 2005): i personaggi parlano in prima persona della propria esperienza del conflitto e ognuna delle sei testimonianze grafiche è accompagnata da un disegno del compilatore del libro, l'antropologo e illustratore ayacuchano Edilberto Jiménez. Fra i più significativi, ci sono quello che rappresenta l'uccisione di decine di bambini da parte di militanti senderisti o quello in cui intellettuali: il giornalista Mario Castro Arena, l'avvocato Abraham Guzmán e lo scrittore Mario Vargas Llosa, che la presiedeva. Il documento che presentarono dopo circa un mese di indagini individuava i responsabili degli omicidi nella popolazione della comunità nel suo insieme. A tal proposito, la Comisión de la Verdad y la Reconciliación, pur confermando che i colpevoli materiali furono effettivamente gli abitanti di Uchuraccay, denuncia la superficialità e la manipolazione della realtà effettuata dalla commissione di Vergas Llosa in merito alle cause che portarono al tragico episodio. Essa indicava come causa fondamentale (oltre ai problemi causati dalle colonne senderiste che operavano nella zona) la presunta violenza atavica delle popolazioni andine, una ferocia quasi belluina insita nella natura dei comuneros. Una stereotipizzazione superficiale che alterò la percezione dei fatti accaduti. La lacuna presente nella versione dei fatti fornita dalla commissione di Vargas Llosa consiste inoltre nella sottovalutazione di una questione fondamentale: il ruolo delle Forze Armate e del Governo, colpevoli di aver istigato gli abitanti di Uchuraccay al delitto, alla vendetta e alla giustizia sommaria, non più di qualche giorno prima del massacro. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 135 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. Fig. 2 – Pagina di Rupay. 136 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. sono rappresentati dei sinchis, dei militari dei corpi speciali antisovversivi, che dopo aver ucciso i propri nemici, asportano mani o orecchie dei cadaveri con lo scopo di consegnarli ai propri superiori in modo da guadagnarsi una promozione. Il tratto semplice e crudo delle illustrazioni, così diverse dai disegni di Cossio e Rossell, ha un effetto particolare sul lettore: lo veicola direttamente nel tremendo orrore vissuto dalle popolazioni della sierra peruviana, senza neanche il sottile filtro a cui ci si era abituati nelle pagine precedenti. In seguito, ad essere rappresentate sono due vicende quasi speculari: il massacro di Lucanamarca da parte dei militanti di Sendero Luminoso e l'uccisione di trentanove comuneros8 (fra cui anche sette bambini) a Soccos da parte dei militari dell'esercito, eccidio che ispirerà anche l'episodio culmine del film di Francisco Lombardi La boca del lobo (1988). La violenza dei metodi repressivi militari è palesata anche negli ultimi due episodi presenti nell'opera, che trattano delle torture perpetrate nello stadio di Huanta e nella base militare de Los Cabitos, veri e propri 'mattatoi' di uomini, in cui vennero seviziate un numero incalcolabile di persone, i cui resti venivano poi fatti sparire in delle fosse comuni o fatti a pezzi con le bombe. Le fosse comuni sono uno degli spaventosi segni che quel periodo di violenza ha lasciato. Si è parlato dell'esistenza di circa 4000 botaderos9 di cadaveri, fra cui si contano le sei rinvenute nella località di Putis. Proprio con la foto di una di queste fosse, si conclude l'opera di recupero della memoria operata da Villar, Cossio e Rossell. Le immagini che hanno trasmesso ai lettori, con il loro I comuneros sono gli abitanti dei villaggi delle Ande peruviane, che vivono secondo il principio dell'ayni termine quechua che si riferisce alla reciprocità, alla solidarietà comunitaria e al mutuo soccorso. 9 Letteralmente “discariche”: si tratta delle fosse comuni. 8 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 137 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. caratteristico bianco e nero, hanno la funzione di smuovere le coscienze e di invitare a non dimenticare. Non sorprende che l'unico colore presente nelle pagine di Rupay sia il rosso. Rosse sono le bandiere delle fazioni in lotta: quella rossa e bianca dello stato peruviano, e quella rossa con la falce e il martello dei militanti senderisti, ma soprattutto rosso è il colore del sangue, versato così spesso negli anni del conflitto. Il proposito degli autori, espresso da Villar nell'intervista di Paolo de Lima, è quello di divulgare la conoscenza di un argomento che, come suggerisce il titolo del fumetto, continua ad 'ardere', in quanto, nonostante i tentativi di 'pacificazione', molte domande rimangono ancora senza risposta e molte vittime attendono giustizia. Barbarie: comics sobre violencia política en el Perú, 1985-1990 Lo stesso spirito di inchiesta e di preservazione della memoria ha spinto uno degli autori di Rupay, Jesús Cossio, a iniziare a lavorare, nell'agosto del 2009, a un secondo volume, Barbarie, che tuttavia presenta alcune differenze sostanziali rispetto al lavoro precedente (v. Fig. 3). Se nel primo lavoro gli autori si concentravano in particolar modo sulla spiegazione del contesto in cui avvennero determinati fatti e abbondavano le didascalie recanti informazioni fondamentali alla comprensione, in Barbarie, pubblicato a ottobre del 2010, l'autore ha optato per una scelta stilistica diversa: partendo da una ricca bibliografia (ancora una volta di fondamentale importanza risulta l'Informe de la Comisión de la Verdad y Reconciliación e diverso materiale saggistico: Uceda 2004; Cristóbal 1987) e da un certosino lavoro di ricerca (anche 138 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. Fig. 3 – Copertina di Barbarie. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 139 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. sul campo), Jesús Cossio ha deciso di elaborare questa materia prima per la creazione di situazioni e dialoghi verosimili che potessero esprimere ciò che documenti storici, giornali e fotografie non riuscivano a comunicare direttamente. Questo processo di ficcionalización si basa però su registri del parlato presi dalla vita reale, ricavati ad esempio dalle testimonianze di vittime e carnefici ai processi. Ciò che risulta da questo esperimento è un fumetto crudo, in cui i dialoghi sottolineano gli abusi che vennero commessi dai vari schieramenti in campo. Un esempio nitido di questa strategia di narrazione è una sequenza relativa all'episodio della strage di Accomarca: vi sono rappresentati degli ufficiali dell'esercito che pianificano un'operazione volta a sgominare una presunta cellula terrorista; un sottufficiale formula una domanda terribile “Una domanda, signore: se, durante l'operazione, qualche abitante dovesse comparire nella valle, dobbiamo considerarlo come un terrorista?”;10 segue una vignetta muta in cui appaiono i due ufficiali in primo piano che fissano l'interlocutore, e conseguentemente anche il lettore, con aria impassibile, a cui segue una terza vignetta in cui campeggia il primissimo piano di uno dei due e la risposta secca: “Si” (v. Fig. 4). Barbarie, nonostante le differenze sostanziali, segue per vie diverse una sorta di filo conduttore ideale iniziato con Rupay, perlomeno dal punto di vista della cronologia, in quanto vengono ficcionalizados alcuni fra i più tremendi episodi del quinquennio tra il 1985 e il 1990, epoca del primo mandato del presidente della repubblica Alan García Pérez, verso il quale non mancarono le critiche per le decisioni prese riguardo al conflitto. E Alan García oltre ad essere il personaggio che apre il fumetto (è 10 La traduzione all'italiano è mia. 140 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. Fig. 4 – Pagina di Barbarie. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 141 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. infatti presente nella prima vignetta) è in modo più o meno esplicito il destinatario principale dell'opera. Lo stesso autore, nell'introduzione, sottolinea come abbia lavorato a ritmi sostenuti per riuscire a dare alla stampa il fumetto prima del termine secondo mandato del presidente García, conclusosi nel luglio del 2011. La ragione è molto chiara: Alan García e il suo governo acquiescente furono, nella seconda metà degli anni '80, tra i maggiori responsabili dello sproporzionato aumento della violenza nelle regioni del sud del Paese. Ciò avvenne soprattutto per la mancata supervisione dell'operato delle Forze Armate in quelle che ormai da anni erano diventate 'zone d'emergenza', in cui lo Stato di diritto non esisteva e i diritti umani venivano quotidianamente calpestati. Ancora una volta lo spirito con il quale l'opera prende vita è legata alla memoria, al bisogno di riportare alla luce le storie tremende di una terribile epoca di violenza. Ne vengono narrate cinque, e la crudezza delle immagini esplicita senza mezzi termini i livelli di vera e propria barbarie raggiunti in quegli anni. Nonostante siano sparite, rispetto a Rupay, le fotografie, le copertine di riviste, le illustrazioni e quel colore rosso che sottolineava la tragicità dei fatti narrati, le sequenze assumono in questo lavoro i ritmi serrati della realtà, le vignette aumentano le proprie dimensioni fino a occupare pagine intere, come ad esempio quella in cui appare una fossa comune colma dei cadaveri degli abitanti della zona di Pucayacu, assassinati e occultati dopo essere stati torturati per giorni dalle Forze Armate. È questo il primo degli episodi narrati, cui segue un ulteriore abuso perpetrato dai militari, la strage di Accomarca. Alla fine di ognuno di questi due episodi, l'autore sottolinea come questi delitti siano rimasti fondamentalmente impuniti: prove evidenti di quanto possa essere lenta e lacunosa la 142 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. giustizia. I due episodi che vengono rappresentati successivamente presentano due carneficine perpetrate dall'altro grande schieramento in lotta: i militanti del Partido Comunista del PerúSendero Luminoso. In particolare vengono narrate le vicende che portarono al massacro degli abitanti di due comunità, quella di Aranhuay (avvenuta nell'aprile del 1988) e quella di Paccha (dicembre 1989). Entrambi i villaggi soffrirono una sorta di 'castigo esemplare' per mano dei senderisti, in quanto gli abitanti vennero accusati di collaborare con le Forze Armate e di aver abbandonato la rivoluzione che avrebbe migliorato le loro condizioni di vita. Gli episodi rappresentati suscitano tanto più sdegno in quanto sono inframezzate da scampoli dell'intervista concessa al giornale El diario il 31 luglio del 1988 dal capo supremo di Sendero Luminoso, Abimael Guzmán Reynoso, conosciuto come Presidente Gonzalo.11 Le immagini di umiliazioni pubbliche, mutilazioni, omicidi e distruzioni di vario tipo vengono affiancate alla freddezza delle parole di Guzmán, che con distacco descrive come sia necessario pagare un tributo di sangue per raggiungere gli obiettivi: rovesciare lo status quo e instaurare una repubblica comunista rivoluzionaria. Infine, l'ultimo avvenimento narrato è quello della cosiddetta 'strage delle carceri', avvenuta tra il 18 e il 19 giugno del 1986, quando l'esercito soffocò nel sangue delle rivolte scoppiate in tre carceri di Lima: il caso più grave fu quello del carcere di Lurigancho, dove vennero brutalmente giustiziati dei prigionieri che già si erano arresi. Riprendendo le considerazioni che Rosemary V. Hathaway formula su Maus di Art Spiegelman, potremmo dire che lavori L' intervista completa è disponibile presso http://www.solrojo.org/pcp_doc/pcp_0688.htm consultato il 02/06/2012. 11 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 143 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. come Rupay e Barbarie costituiscono in parte dei lavori di etnografia alternativa, perché “like ethnography, the texts are concerned with depicting the complex relationships among personal histories and larger 'official' histories.” (Hathaway 2011: 249). Citando Charles Hatfield, la studiosa definisce Maus come un lungo saggio sul tentativo di descrivere l'indescrivibile: e descrivere l'indescrivibile, ossia l'orrore della realtà storica attraverso un linguaggio che unisca l'immediatezza delle immagini alla parola scritta, è in certa misura ciò che viene compiuto anche dai due fumetti peruviani di cui si è trattato. Fare ciò attraverso l'utilizzo e la ficcionalización di testimonianze dirette tuttavia potrebbe suscitare dei dubbi riguardo l'obiettività del punto di vista, ma questo è del resto il dilemma intorno al quale ruota qualsiasi ricerca di carattere etnografico: come si può riuscire a dipingere oggettivamente e accuratamente un quadro storico-sociale partendo da casi singoli? Ci si trova sempre di fronte a verità parziali? Avendo fra le fonti principali un documento importante e ricco di informazioni come l'Informe de la Comisión de la Verdad y Reconciliación potremmo dire che si evita questo rischio, anche se nella realtà la brutalità del conflitto armato interno viene ancora molto spesso messa in discussione, perfino dalle sentenze e dagli esiti dei processi a cui vengono sottoposti i responsabili dei delitti. Inoltre, riprendendo ancora la Hathaway e le riflessioni dell'autore di Maus che essa cita: What makes an ethnographic text speak to readers is, paradoxically, the very ways in which it 'narrativizes' its source material—the ways in which it translates and mediates raw data into a complex <<fiction>> that <<usefully steer[s] you back directly to reality>>, as Spiegelman describes the process. Without that kind of 'streamlining' and 'shaping' (to borrow Spiegelman’s words again), all you have is source material— and source material that has already been shaped both by the person 144 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. who amassed it and by his or her collaborators: the interviewer and interviewee, the photographer and the photographic subject. All ethnography is inherently biased; in its very bias, however, it also carries the capacity to “reveal beyond what one knows one is revealing” (Hathaway 2011: 263-64).12 Sta dunque alla sensibilità del lettore interpretare nella maniera corretta ciò che l'autore plasma a partire dai dati raccolti. Nella lettura di Rupay e di Barbarie è palese la condanna che gli autori formulano nei riguardi della violenza degli ultimi anni del XX secolo, ma soprattutto della politica dell'oblio che tende a sotterrare le realtà scomode. Novísima Corónica y mal gobierno Un simile atteggiamento di denuncia è espresso anche da un terzo lavoro di stampo fumettistico, per quanto non convenzionale,13 prodotto ancora una volta a Lima dal disegnatore Miguel Det: la sua Novísima Corónica y mal gobierno pubblicata a luglio del 2011. Il titolo riporta subito alla Nueva Corónica y buen gobierno, opera del primo cronista autoctono “Ciò che permette a un testo etnografico di comunicare al lettore è, paradossalmente, proprio il modo in cui esso 'narrativizza' il proprio materiale originale – il modo in cui traduce e interpreta i dati puri in una complessa 'fiction' che 'ti riporta direttamente alla realtà', come Spiegelman descrive il processo. Senza questo 'dare forma' e 'modellare' (usando ancora le parole di Spiegelman), ciò che si possiede è solo il materiale originale – e materiale originale che è già stato plasmato sia dalla persona che l'ha raccolto sia dai suoi collaboratori: l'intervistatore e l'intervistato, il fotografo e il soggetto fotografato. Tutta l'etnografia è intrinsecamente di parte: tuttavia, nonostante i limiti e i pregiudizi, è anche capace di 'comunicare più di ciò che una persona sa che si sta comunicando' ”. La traduzione all'italiano è mia. 13 Non è infatti il classico fumetto composto da vignette e nuvolette con i dialoghi. 12 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 145 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. peruviano, il primo esempio della resistenza indigena in ambito letterario, Felipe Guaman Poma de Ayala. Essa è appunto la cronaca della conquista del Perù da parte degli spagnoli e dei primi anni della colonia. Quest'opera, concepita nella prima parte del 1600, era accompagnata dalle illustrazioni dello stesso Guaman Poma, nelle quali venivano riaffermati i codici culturali autoctoni in maniera molto maggiore rispetto alla parte testuale. Miguel Det abbandona il testo discorsivo per riprendere invece il formato e lo stile delle immagini di Guaman Poma, le quillcas, e crea delle illustrazioni ricche di particolari, a volte persino confuse, in cui personaggi e scritte ricche di sarcasmo si intrecciano a rappresentare le bellezze e le brutture del Perù. Nell'opera di Guaman Poma, l'immagine risulta essere un mezzo di comunicazione più potente del linguaggio scritto (Adorno 1991: 110); tuttavia la cronaca in questione era un'opera indirizzata direttamente al re Filippo III di Spagna e la vena polemica dell'autore risulta chiara solo quando viene sottoposta a un'attenta analisi, è una polémica disimulada (ivi: 13): infatti, la combinazione di “dibujos idealizantes y prosa acusatoria, le permiten criticar sin ofender, protestar sin manifestar falta de respeto por el rey, y persuadir a éste con una indignación que no amenaza” (ivi: 118). Nel lavoro di Miguel Det la critica è invece esplicita, la realtà in tutta la sua crudezza viene sbattuta in faccia al lettore, che si trova fra le mani una piccola antologia della società e della storia peruviana attuale e passata. Dopo le prime sezioni dedicate alle origini del Paese, alla sua geografia, alla sua gente, alle risorse naturali, all'arte e alle feste, si giunge alle sezioni intitolate Los poderes fácticos y sus crímenes e Miseria y sociedad, senz'altro le più interessanti e ricche di spunti polemici. Vi vengono rappresentate le scomode realtà della corruzione in tutti gli strati della società, della lenta burocrazia, degli abusi polizieschi e 146 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. soprattutto degli scandali legati alla politica. La terribile fase della guerra interna viene narrata attraverso la rappresentazione di episodi simbolo e di realtà a cui la popolazione tristemente fece l'abitudine: l'inizio della lotta armata, gli abusi dei militari, gli attentati, la scoperta di fosse comuni, fino al regime di Alberto Fujimori degli anni '90 e la cattura di Abimael Guzmán. L'impegno politico dell'autore contro il regime Fujimorista si fa esplicito nelle immagini in cui rappresenta le nefandezze compiute dall'ex presidente e dal suo uomo di fiducia Vladimiro Montesinos, e quelle in cui invece presenta le plebiscitarie manifestazioni di protesta che puntualmente venivano soffocate dalle forze di polizia. La storia politica recente non riserva nessuna sorpresa positiva e le immagini di Miguel Det lo testimoniano senza pietà. La satira grottesca del disegnatore limeño colpisce il presidente Alejandro Toledo (2001-2006) e ancora di più il suo successore Alan García (al suo secondo mandato dopo quello della seconda metà degli anni '80, 20062011). L'autore non usa mezzi termini per sottolineare come durante il secondo 'Alanismo' sia cresciuto l'abisso che separa i ricchi dai poveri, come siano stati favoriti gli investimenti stranieri a scapito delle popolazioni e delle terre amazzoniche e come, ancora una volta, le proteste siano state soffocate nel sangue. Il linguaggio utilizzato da Miguel Det è schierato, non lascia spazio ai fraintendimenti, spesso è condito da insulti verso una classe dirigente colpevole di aver dissanguato il Paese, ma allo stesso tempo lascia trasparire un forte senso di disillusione che tuttavia non genera immobilismo e passività. Tutt'altro: la resistenza popolare diventa capace, per citare le stesse parole dell'autore, di esprimersi in forme culturali e artistiche ricche di un'allegria dirompente e di ineguagliabile bellezza (Det 2011: 4). Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 147 Pau S., Perù. Società e storia recente attraverso la lente del fumetto. In conclusione, sembra necessario sottolineare come sia fondamentale proporre un dibattito su questioni storico-sociali che spesso vengono insabbiate o nascoste. I messaggi veicolati dagli autori di Rupay, Barbarie e la Novísima Corónica y mal gobierno tendono alla preservazione della memoria e al raggiungimento di una coscienza democratica e partecipativa. Queste opere rappresentano la dura vita del Paese, una realtà che spacca in due la popolazione, fra chi soffre e chi, indifferente, cerca di coprirsi gli occhi; tendono inoltre a far sì che anche coloro che preferiscono dimenticare la tragedia possano prenderne coscienza, perché la conoscenza rappresenta il primo passo verso la democrazia. E il fumetto risulta essere un mezzo adatto a tale scopo: con un linguaggio che unisce le immagini alla discorsività, le opere esaminate contribuiscono a rendere fruibili al maggior numero di persone le conoscenze necessarie a confrontarsi con l'attualità, spesso suscitando polemiche e critiche, ma con l'obbiettivo ben chiaro di partecipare alla formazione di una società più consapevole e giusta; citando ancora una volta le parole di Edward Said potremmo dire che: Nel mondo in cui viviamo, saturato dai mezzi di comunicazione e controllato da poche persone che, dalle loro postazioni di Londra o New York, diffondono l'informazione e le immagini a esse legate, le parole e i disegni dei fumetti, con la loro assertività enfatica e a volte grottesca, in perfetta sintonia con le situazioni straordinarie che descrivono, possono essere considerate un antidoto di notevole efficacia (Said 2011: 12). 148 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Pau S., Perù. 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Starting from the relationship between the identity of the anthropologist and the different academic training available in the Italian university, it then tries to point out some common dilemmas felt by Italian young anthropologist about the social relevance of the discipline, some features of the labour market and the challenge of facing other professional social scientists with different background. After these social and psychological insights, the author tries to open a reflexive path analyzing one of the first article about professional anthropology in Italy, published in 1991. Using the informations emerged, the author suggests some ideas about what professional anthropology would need to flourish in the Italian contest, such as a strong commitment on life long learning and training and a clear analysis and deep evaluation of the labour niches that show good potentials for anthropological engagement in private sector, NGOs, communication, research, health, education. The Italian anthropologists don’t have a basic professional habitus and the formal university training doesn’t help them out to set it in a pragmatic manner. This article is a little move toward a more open and structured debate about professional anthropology in Italy. Key words Antropologia applicata, antropologia professionale, formazione continua. Mi è stato chiesto di preparare un documento che riprendesse e ampliasse le discussioni attorno all’applicazione pratica dell’antropologia culturale al di fuori dall’accademia. Queste discussioni, nate nel blog di ‘Intrecci’ e nel forum di ‘Anthropos’, si sono poi sviluppate in diversi luoghi virtuali arrivando a Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 153 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ toccare molti punti importanti della questione del potenziale lavoro antropologico professionale. È con un po’ di apprensione che affronto tali tematiche. Pare un po’ velleitario farlo di questi tempi: un mondo del lavoro e delle professioni autonome sotto scacco tra precarizzazione e restringimento continuo delle opportunità; un’accademia che vede i corsi di laurea in antropologia culturale eliminati o a rischio eliminazione in diverse prestigiose realtà; i mass media che perpetuano un continuo disinteresse o banalizzazione delle scienze sociali in tutta la sfera pubblica nonostante i repentini cambiamenti in atto a livello nazionale, europeo e internazionale sia dal punto di vista economico e socioculturale richiedano oggi più che mai tale tipo di lettura della realtà. C’è bisogno di parlare di conoscenze e di competenze antropologiche, di percorsi reali per costruirsi una capacità di intervento che sia riconosciuta e pertanto spendibile e retribuibile, di individuare opportunità, di esplorare delle nicchie sapendole poi abitare e far crescere, di continuare a formarsi e specializzarsi dopo la laurea, essendo questa l’inizio e non il termine del proprio percorso di apprendimento. Insomma, anche per i laureati in antropologia culturale arriva il momento di confrontarsi con il mercato del lavoro: cosa si può ragionevolmente fare se non si opta per la roulette accademica, per l’emigrazione o per l’abbandono precoce dell’amata antropologia? Sarà anche velleitario come approccio, ma vale la pena di essere tentato. Quali identità per l’antropologo? Le lauree triennali e magistrali in antropologia culturale sono di recentissima istituzione nel nostro ordinamento accademico, le ultime arrivate, a distanza di decenni, rispetto a quelle nelle altre 154 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ scienze umane e sociali. È utile ricordare che prima della nascita di lauree specifiche era possibile laurearsi in antropologia culturale sostenendo la tesi con il docente dell’omonima disciplina all’interno dei corsi di laurea in lettere, filosofia, lingue, sociologia o psicologia. Questo portava lo studente a costruirsi una doppia identità formativa che conduceva ad autodescrizioni del tipo ‘sociologo laureato in antropologia culturale’ oppure ‘dottoressa in lettere con indirizzo antropologico’. C’era quindi un corso formativo di un certo tipo, socialmente più riconosciuto, con un’iniezione specifica di antropologia acquisita durante una tesi di laurea che poteva comprendere o meno un periodo di ricerca sul campo. Attualmente questi due percorsi coesistono, nel senso che è possibile sia diventare dottori in antropologia culturale che dottori in qualche altro corso di laurea con un percorso che comprenda al proprio interno ‘dosi’ variabili di antropologia culturale. Questa premessa può essere importante per capire quanto l’identità dell’antropologo culturale nella realtà italiana sia molteplice fin dal percorso accademico. Scopo di questo contributo è fornire degli stimoli per riflettere su cosa si possa utilmente fare con una laurea in antropologia culturale in tasca, sia essa pura (triennale o quinquennale) o spuria (percorso di tesi innestato su altro corso di laurea). I due percorsi sono ovviamente diversi e peculiari, oltre ad avere una diversa serie di punti di forza e di debolezza quando, una volta conclusi, ci si avvicini al mondo del lavoro. In poche parole, perché la loro analisi richiederebbe un articolo dedicato, il percorso puro permette di acquisire una conoscenza dell’antropologia molto ampia e approfondita, mentre lo spurio è spesso settoriale e disomogeneo. Inoltre, il percorso puro spesso permette esperienze concrete di ricerca etnografica, mentre quello spurio prende spesso forma in termini di analisi concettuale o Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 155 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ bibliografica, restando povero dal punto di vista metodologico e esperienziale. D’altro canto, la prima opzione rischia di creare maggior disorientamento perché l’antropologia culturale non è ancora una disciplina ‘da mercato del lavoro’, mentre il percorso spurio, grazie all’interazione tra la formazione di base e quella antropologica, può favore l’emergere di un profilo professionale più spendibile (penso soprattutto a lingue e antropologia, o psicologia e antropologia). In realtà, esisterebbe una altro possibile percorso, quello della triennale diversa è la specialistica in antropologia, soluzione a mio parere veramente interessante che potenzia alcune caratteristiche della laurea spuria senza perdere i vantaggi di quella pura. Resta il fatto che riflettere a fondo su quale sia stato il proprio percorso di studio, e imparare a costruire una traiettoria ottimale per i propri interessi e idealità lavorative è uno dei passaggi più delicati e fondamentali da cui discendono conseguenze per gran pare della carriera lavorativa. Partire con il piede giusto, in questo come i molti altri ambiti, è fondamentale per ottimizzare l’investimento in istruzione. Un altro aspetto al centro del dibattito è quanta enfasi valga la pena di mettere sulla parola ‘antropologia’ una volta che si decida di operare mercato del lavoro. Una parte degli antropologi propone comunque di contraddistinguersi con questo termine, visto che è la disciplina propria all’interno della quale ci si muove, mentre altri tendono a smorzare l’impatto di questo termine decisamente impegnativo, vago e sconosciuto limitandosi a spiegare che si offrono servizi di ricerca, analisi o consulenza provenendo da una formazione ‘antropologica’, magari integrandola con altre conoscenze in ottica interdisplinare. Ognuno gestisce la propria identità come meglio crede, ma penso che gli appartenenti alla seconda categoria abbiano qualche argomento in più per validare la propria tesi 156 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ rispetto ai primi. I dilemmi del laureato in antropologia culturale. Quanto verrà qui abbozzato scaturisce da ormai un decennio di discussioni nella comunità di Anthropos, gestita dal network di Antrocom, e dal confronto con un buon numero di laureati in antropologia culturale che si affacciavano al mondo del lavoro una volta laureati, accantonate definitivamente le opzioni che più facilmente vengono alla mente, ossia il proseguire gli studi tentando di iniziare un dottorato o emigrare in cerca di miglior antropologia e miglior fortuna. Accantonate queste prospettive, non resta che fare seriamente i conti con cosa si possa fare con una laurea in antropologia in Italia. Una delle frustrazioni principali è quella che emerge dal contrasto tra la passione che si è profusa negli studi e la completa assenza di posizioni lavorative pensate ad hoc per gli antropologi. A cosa è servita, e a cosa serve, la mia genuina passione per questa disciplina se nessuno è in grado di riconoscerla e valorizzarla? Non esistono posizioni aperte per ‘antropologi culturali’ in Italia. Il mercato del lavoro non conosce la categoria, un po’ come l’anagrafe italiano non contempla alcune professioni da inserire nel campo ‘professione’ nel documento di identità. È con notevole sgomento che si apprende, l’indomani della laurea per alcuni, ma già durante gli studi per molti altri, che in quanto antropologi non si sarà mai cercati da nessuno. Non è una formazione socialmente rilevata perché non è, al momento, percepita come socialmente rilevante. Il termine stesso circola pochissimo sui media, non è una parola semanticamente presente per il pubblico e per la società civile, nemmeno per quella istruita. Ciò è un dato. La divulgazione mira a modificare questo stato di cose, con beneficio di tutti, ma i tempi sono Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 157 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ lunghi. Un'altra enorme frustrazione nasce dal confronto tra ciò che l’antropologo culturale potrebbe portare per favorire la comprensione e valorizzazione delle persone nelle nostre società (immigrazioni, globalizzazione, politiche pubbliche, mediazione, conflitti, contatti fra culture, ecc.) e la realtà delle proprie attività concrete. D’altro canto, l’ampiezza e la dispersività del sapere antropologico è spesso visto come un ostacolo alla focalizzazione verso opzioni professionali che conducano verso una expertise spendibile sul mercato del lavoro. La forma di conoscenza macroscopica e olistica propria dell’antropologia culturale è fortemente distonica rispetto a un mercato del lavoro parcellizzato, iperspecializzato e decisamente asfittico, con un grave ritardo nello sviluppo del settore terziario e quaternario. Un’ulteriore frustrazione emerge dal vedere come laureati in altre discipline, o personale nemmeno adeguatamente formato, lavorino in contesti dove l’antropologo porterebbe un grande valore aggiunto e potrebbe muoversi in maniera appropriata e professionale. L’ambito delle scienze umane e sociali è molto variegato e non è facile definire in maniera chiara chi sia adeguatamente abilitato a fare cosa. Ancora, mancano dispositivi formativi che aiutino a costruirsi un profilo professionale che incoraggi all’applicazione dell’antropologia nel mondo reale. I corsi essenzialmente teorici impartiti all’università aiutano a formarsi una mentalità antropologica che dà il meglio di sé nel assimilare contenuti attraverso lo studio di testi e renderli nuovamente sotto forma orale agli esami. Al mondo del lavoro queste abilità, seppur importanti, interessano solo in parte perché non aiutano di per sé a creare valore aggiunto a ciò che si può offrire al mondo. Mancano, ad esempio, tirocini istituzionali dedicati, momenti potenzialmente preziosi per mediare tra 158 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ accademia e attività lavorativa Visto questo stato di cose, sarebbe opportuno attivarsi affinché gli studenti e i laureati in antropologia potessero beneficiare di un percorso di orientamento scolastico e professionale che integri un momento informativo (corsi disponibili, percorsi formativi peculiari, spendibilità dei titoli, condizioni del mercato del lavoro e previsioni, profili professionali realistici) ad un momento di autoformazione e autovalutazione attraverso gli strumenti del colloquio d’orientamento e del bilancio di competenze. Dovrebbe essere un compito delle istituzioni ma non è colto nella sua importanza. Può essere un’opportunità per dei servizi del terzo settore che vogliano sostenere l’inserimento lavorativo dei laureati in discipline culturali. Archeologia delle fonti scritte: cosa è successo nel 1991? Nell’aprile 1991 la rivista La Ricerca Folklorica ha pubblicato un numero monografico intitolato “Professione antropologo”e che riporta al proprio interno un contributo intitolato “La domanda sociale di competenze antropologiche nei settori pubblico e privato”. Si tratta di una sessione di lavoro con relazioni e interventi provenienti dalle due metà del cielo: da un lato i rappresentanti del mondo imprenditoriale e socioculturale (CONFAPI – Confederazione nazionale piccole e media industrie, Confindustria, Confederazione italiana coltivatori, Museo nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, Ufficio cultura del Mondo Popolare della Regione Lombardia, Cooperativa antropologi di Napoli, e altri ) e dall’altro il mondo accademico (tra gli altri Maria Laura Bonin di Trento, Vanessa Maher di Torino, e altri). Cercherò di analizzare alcune parti che trovo salienti, consigliandone poi la lettura integrale a chiunque sia interessato alla storia del dibattito dell’antropologia applicata e Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 159 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ professionale in Italia. Farò una sorta di esegesi, sperando di non risultare noioso né banale, perché trovo questo documento veramente rivelatore di ciò che costituisce la base, il nucleo profondo, della condizione dell’antropologia applicata in Italia. Già il titolo contiene informazioni molto utili per le nostre riflessioni. Innanzitutto, si parla di “domanda sociale”. Questo vuol dire che si fa propria la logica di un sistema di mercato, ossia di ‘domanda’ e ‘offerta’. Senza qualcuno a cui interessi ciò che abbiamo da offrire in quanto antropologi non esiste possibilità di entrare nel circuito sociale. Per domanda si intende quindi l’azione di una o più persone che attivamente richiedono una risposta per placare un bisogno, una necessità, risolvere un problema. Penso che affrontare la questione della ‘domanda di antropologia culturale’ sia centrale perché ciò ha ricadute enormi sulla struttura della professione stessa. Questione legittima e urgente, quindi, anche se la sede dell’elaborazione delle risposte difficilmente sarà l’accademia. Lo sarà forse il web, questo e altri giornali, associazioni e reti di colleghi che attraverso l’operatività quotidiana creano le condizioni per far nascere qualcosa di nuovo dal versante professionale. Il titolo prosegue con “competenze antropologiche”. Si presume che questo termine si riferisca a ciò che viene trasferito all’interno di un corso di laurea in antropologia. Uno studente si iscrive al rispettivo corso perché vuole diventare competente in quella disciplina, e sarà questa competenza che gli garantirà quel capitale cognitivo e creativo per svolgere attività e prestazioni remunerate dalla società perché utili a soddisfare certi bisogni. Ma di che competenze antropologiche parliamo? Spesso le competenze, ciò che so fare e realizzare concretamente, vengono schiacciate dalle cosiddette “conoscenze antropologiche”, ossia informazioni organizzate inerenti diversi ambiti del reale. Le 160 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ conoscenze si acquisiscono, si immagazzinano e si restituiscono principalmente per via linguistica, orale e scritta. Ciò produce oratori e scrittori, che è ciò che l’accademia richiede per perpetuare se stessa: persone che trasmettano la disciplina e contribuiscano alla conoscenza pura realizzando ricerche e scrivendo saggi e articoli. Questi sono i bisogni dell’accademia, e chi segue quel percorso formativo diventerà un produttore e trasmettitore di conoscenza antropologica. Riflettere a fondo sul rapporto fra conoscenze e competenze antropologiche è urgente perché è il cuore della costruzione di una identità professionale solida. Su quali competenze professionali può contare un laureato in antropologia? Se la professione è ancora in gran parte da inventare, codificare e testare sul campo, è difficile che le competenze siano già disponibili, codificate e pronte. Saranno presumibilmente incerte, abbozzate, in fase di test e di confronto con altre. Servirà un lavoro a ritroso: a partire dalla domanda della società, che va fatta emergere, occorre comprendere le risorse dell’antropologia culturale scavando nella sua storia e nella sua attualità fino ad acquisire le competenze tali per rispondere ai bisogni stessi. È un percorso riflessivo e operativo che richiede tempo, e che in gran parte sarà simile a quanto fatto da altre professioni imperniate sulle scienze umane e sociali. Il titolo conclude con “settori pubblico e privato”. La loro unione rappresenta la totalità della platea che può chiedere agli antropologi di soddisfare i propri bisogni tramite l’utilizzo di competenze antropologiche. Le logiche organizzative, politiche e economiche del pubblico e del privato differiscono, almeno ai miei occhi, in maniera radicale. Ciò che è più importante è che le prestazioni verso il pubblico sono remunerate con risorse provenienti dalla fiscalità generale nazionale, e quindi devono essere potenzialmente di interesse ampio, pubblico, di orientamento generale, ‘antropologico’ per definizione, diciamo. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 161 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ D’altro canto, lo spazio privato apre diverse possibilità di intervento in quando è potenzialmente infinito il grado di creatività e di particolarità sia della domanda che dell’offerta perché essa si basa su contrattazione privata tra le parti, senza necessità di interventi burocratici, valutazioni politiche e di opportunità elettorali. L’antropologia culturale è una sapere profondamente contestuale e credo che il contesto ‘pubblico’ e quello ‘privato’ differiscano a tal punto da portare alla costituzione di due antropologie applicate diverse e spesso scarsamente correlabili. Ciò non toglie che sia stimolante misurarsi con entrambi i contesti, avendo ben chiare in mente le loro peculiarità. Il percorso che traccerò all’interno del documento è ovviamente personale e dettato da ciò che colpisce me oggi, tenendo conto delle mie esperienze passate e presenti. Invito nuovamente tutti gli interessati a procurarsi il documento e realizzare la propria personale lettura e conseguenti riflessioni. Presenterò prima un breve riassunto dell’intervento e in seguito alcune brevi riflessioni spontanee. Lanfranco di Mario, di CONFAPI, ritiene che le piccole e medie industrie siano direttamente coinvolte nella discussione della professionalità dell’antropologo. Lamenta la carenza di una funzione pubblica che non supporta le PMI nello stare al passo con l’evoluzione velocissima dei processi produttivi, con le dinamiche della globalizzazione e con la necessità di stare sul mercato in maniera competitiva. La piccola impresa spesso non ha capacità culturale per comprendere l’evoluzione del mercato e quindi le competenze dell’antropologo potrebbero essere utili. Lamenta le carenze dell’istruzione pubblica e della formazione aziendale e conclude dicendo che le valutazioni sulla professionalità dell’antropologo non si risolveranno parlandone, ma solo vedendo i risultati concreti degli antropologi all’opera. 162 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ Di Mario porta l’attenzione sulle piccole e medie imprese italiane, l’ossatura del nostro sistema produttivo. L’internazionalizzazione delle PMI è sicuramente uno scenario che vede potenzialmente l’antropologia culturale come sapere strategico che possa mediare nei processi economici tra il tessuto economico italiano e quello di altri paesi e intere aree in rapido sviluppo (Est Europa, India, Cina e numerose realtà africane). D’altro canto, credo che in Italia, nel 1991, non esistesse nessun antropologo qui formatosi in grado di predisporre un piano di consulenza aziendale per PMI. L’intervento è piuttosto vago ma evocativo, prospettando una collaborazione possibile tra aziende, imprenditori e antropologi culturali. Aldo Giuliano, di Confindustria, si rifà subito alla business anthropology americana, e in particolare alle ricerche di business ethnography svolti al PARC della Xerox, che volevano capire ‘come si lavora negli uffici’. L’antropologia può dare un contributo nei processi di cambiamento culturale o di trasferimento o unificazione di culture diverse e preesistenti. Ritiene che al centro del mondo economico stiano la conoscenza e le nuove tecnologie della comunicazione e che il ruolo dell’innovazione tecnologica sia il motore dell’evoluzione sociale. Servono persone che sappiano governare il cambiamento e la tecnologia con l’obiettivo di migliorare la vita di tutti. Ritiene che l’antropologo non abbia minori competenze di altri professionisti che lavorano nella pubblicità, nell’analisi dei comportamenti di consumo, nella comunicazione e nella sponsorizzazione culturale. Anche se l’antropologo si forma nella società ‘primitive’, esso acquisisce strumenti che possono essere ben utilizzate nell’impresa. In particolare, i problemi dell’impresa che l’antropologo potrebbe affrontare sono quelli legati alla cultura aziendale, ai modelli di comunicazione e alla resistenza all’innovazione. La ragione dell’antropologo in azienda è quello Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 163 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ di capire la cultura aziendale, capacità che non hanno né gli imprenditori né i consulenti. Cita Olivetti, Apple, IBM. L’antropologo potrebbe essere al fianco della aziende con le proprie analisi per favorire processi di cambiamento, di fusione, di delocalizzazione, di privatizzazione o statalizzazione. Ma allora, se esiste tutto questo potenziale di incontro proficuo, perché le aziende non chiamano gli antropologi? Giuliano risponde “A mio avviso, non è l’azienda che ignora l’antropologo, ma è questi che ignora l’azienda, ignorandone i problemi, la realtà”. L’intervento di Giuliano è spesso preso a modello, tra i partecipanti, per la capacità di stimolare in maniera appropriata il dibattito fornendo buoni spunti. Lo stile e la competenza è decisamente da Ufficio Studi, così come l’aggiornamento sulle pratiche di ricerca internazionali in ambito antropologico/manageriale. Il concetto di ‘cultura aziendale’ è stato un punto di svolta per gli studi sull’impresa in ambito anglosassone, ma pare che in Italia questo concetto non sia mai stato preso sul serio. Non lo era allora come non lo è oggi. L’antropologia culturale italiana non ha mai visto nemmeno lontanamente come proprio oggetto di studio il mondo dell’impresa. Come conclude Giuliano, le imprese sentono di aver potenzialmente bisogno di antropologia ma non chiamano gli antropologi perché per prime sanno che gli antropologi, di impresa, non sanno nulla, e quindi non potranno mai rispondere ai loro bisogni. Come si cambia tale stato di cose, secondo Giuliano? Aprendo la mente degli antropologi stessi, inserendo tesi di laurea aziendali, tenendo corsi adeguati, facendo orientamento verso temi di ricerca innovativi e agganciati all’antropologia culturale internazionale. Maria Laura Bonin, antropologa a Trento, ritiene che esista 164 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ uno spazio per gli antropologi nelle aziende, lavorando lei stessa nel mondo della moda. Dice […] penso che il giorno in cui nascerà una generazione di studiosi disposta ad occupare questo spazio ne sarò contenta, perché non sarò più sola a portare avanti questo tipo di collaborazione considerata peccaminosa. Sostiene che gli antropologi, occupandosi di miti, potrebbero indagare quelli aziendali e del mondo della produzione e del consumo di oggetti, cercando di scoprire come le persone attribuiscono loro un significato. Attività questa sicuramente molto lontana dalla ricerca teorica che si svolge tradizionalmente in accademia. Intervento tanto breve quando denso da parte di una delle poche antropologhe che aveva il coraggio di lavorare con le aziende, una ‘peccatrice’ secondo molti colleghi ben più puri e ortodossi. Il mondo della moda, eccellenza italiana, è una possibilità di grande interesse per l’antropologia applicata perché intreccia questioni di gusto, di design, di rapporto tra cultura e stile, di collezioni etniche, di globalizzazione e codici comunicativi. Marisa Iori interviene in qualità di operatore museale a Roma. Lamenta il misconoscimento della professionalità tecnica dell’antropologo e i limiti della formazione antropologica universitaria rispetto al lavoro pubblico: gli strumenti conoscitivi elaborati nella nostra area di studi non producono infatti competenze immediatamente impiegabili sul mercato del lavoro pubblico, la cui complessità è data proprio dalla necessaria e non sempre risolta integrazione dialettica dell’aspetto teorico-scientifico con quello amministrativo-istituzionale. È strettissimo il rapporto tra riconoscimento della professione Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 165 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ e qualità della formazione. È impossibile al giorno d’oggi proporsi come professionisti sul mercato senza una formazione solida e approfondita a livello universitario unita a una formazione applicata che continui lungo tutta la vita attiva. Ritroviamo poi il rapporto tra strumenti conoscitivi e competenze impiegabili, altra chiave di volta da sviluppare e chiarire prima di poter pensare a qualsiasi strutturazione professionale dell’antropologia culturale. Bruno Pianta, operatore culturale della regione Lombardia, spiega che nel territorio in cui opera non si parla mai di antropologia anche se c’è una notevole richiesta di psicologi, esperti di gruppi, fotografi, esperti di audiovisivi, ecc. C’è pertanto una concorrenza notevole nel settore culturale tra gli antropologi e altre figure ben più abituate a muoversi nel mercato del lavoro. Gli antropologi rischiano di trovarsi disarmati. Sottolinea che negli interventi di Giuliano e Bonin bastava cambiare qualche termine e i loro discorsi potevano valere per psicologi, sociologi, grafici, artisti…gli antropologi dovranno lottare “con il coltello” contro altre competenze ben più agguerrite. Non esiste nessun Eldorado. Dice che in Lombardia manca una tradizione antropologica accademica e i funzionari pubblici ignorano del tutto cosa essa sia. Non esistevano corsi di antropologia, nemmeno clandestini. Non è un discorso di scarsa credibilità dell’antropologo, in Lombardia l’antropologo non esiste proprio. Accennando alla struttura della macchina pubblica, rileva il fatto che è il politico a decidere se approvare un progetto o meno, e che il funzionario può solamente spingere e incoraggiare. A decidere è sempre l’apparato amministrativo-legislativo, non quello funzionale. Intervento denso e opportuno, tocca temi centrali per la professione. L’antropologia è talmente ampia che moltissime 166 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ operazioni che legittimamente potrebbero rientrare nel suo dominio sono svolte da persone con altre formazioni, spesso in maniera più efficace e strutturata perché già preparati, fin dall’università, ad applicare le proprie conoscenze. È il caso degli psicologi sociali e culturali, degli educatori e dei formatori, dei sociologi spesso ottimi etnografi e metodologicamente ben attrezzati, esperti di turismo, progettisti sociali, di consulenti di varia estrazione che, da autodidatti, giungono a offrire servizi culturalmente sensibili senza aver mai frequentato un corso di antropologia. Tutte queste persone non sono antropologi, ma intercettano ampie fette di bisogno d’antropologia e lo soddisfano. È molto difficile individuare degli ‘atti tipici’ della professione antropologica, e forse non è nemmeno così utile in questa fase preliminare di analisi. Inevitabile però che l’identità e la riconoscibilità sociale sia assente. Il fattore competizione con altri e della competitività della propria preparazione è quindi centrale. Duccio Canestrini, redattore di Airone, porta il discorso dell’antropologia sul piano della divulgazione e del giornalismo. Lamenta la presenza di luoghi comuni e di approssimazione nel settore delle tradizioni popolari e dell’etnologia nelle riviste di viaggi e di culture. Consiglia di formarsi in maniera approfondita e poi dedicarsi ad esempio alla cronaca estera, come antropologi-reporter, producendo materiali di vario genere dai luoghi più diversi del mondo. Altra prospettiva quella di dedicarsi al giornalismo d’inchiesta rivolto a tematiche antropologiche, al cambiamento sociale, alle minoranze etniche, al mondo dell’arte e dello spettacolo. Secondo Canestrini è compito dell’antropologo rimanere equilibrato tra le diverse forze che da un lato spingono verso l’esotismo, che tutto appiattisce, e dall’altro verso il ‘bingobonghismo’, che tratta tutti gli altri come primitivi. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 167 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ Canestrini autorevolmente muove dal proprio settore di attività portando dei consigli pratici a chi, provvisto di una formazione antropologica, voglia intraprendere la via del giornalismo e della divulgazione di alto livello. Conoscenza approfondita di ciò di cui si parla, capacità di critica e sguardo sveglio sulla realtà sono gli ingredienti base per contribuire ad alzare il livello medio della pubblicistica etnologica e di viaggio. L’antropologia culturale applicata e professionale vent’anni dopo. Cosa è cambiato? Rispetto al periodo di pubblicazione dell’articolo appena analizzato sono cambiate molte cose sia nell’antropologia italiana che nel mondo, mentre altre sembrano rimaste inalterate. Nel primo ambito inserirei sicuramente la nascita di corsi di laurea dedicati interamente all’antropologia culturale, che garantiscono una preparazione più ampia, approfondita e solida. Metterei la rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che impattano radicalmente sugli stili di vita, sulle possibilità formative e informative, sulle dinamiche sociopolitiche e economiche. Oggigiorno l’antropologia culturale non può prescindere dall’evoluzione di internet e delle reti comunicative globali che creano spinte di trasformazione culturale straordinarie. Tra queste, emerge con sempre maggior forza l’uso delle tecnologie per la produzione e la diffusione dell’antropologia stessa, che vede forum, blog, social network e riviste open access come vettori principali per far uscire il sapere antropologico dalle torre d’avorio accademica, permettendogli contaminazioni, collaborazioni e confronti decisamente vitali in un contesto altrimenti piuttosto tradizionalista e asfittico. Tra le cose inalterate rispetto agli interventi direi sicuramente 168 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ il profondo disinteresse, nemmeno dissimulato, dell’accademia per qualsiasi prospettiva applicativa concreta dell’antropologia culturale. Tra le righe del documento analizzato emerge una chiara incomunicabilità tra il mondo produttivo e sociale e i rappresentanti della disciplina. Trapela l’imbarazzo reciproco, il non detto soverchia chiaramente il detto, in una danza statica che mirava probabilmente a far terminare il prima possibile quell’incontro tra persone che, di fatto, non hanno nulla da dirsi salvo frasi di circostanza per salvare la faccia senza compromettersi nel rispettivo ambiente di attività. Il mondo del lavoro, la realtà dell’impresa, le possibilità consulenziali, la dinamica domanda-offerta applicata alla conoscenza e alle competenze nelle scienze umane semplicemente non sono conosciute né comprese all’interno della logica dell’accademia così come è concepita in Italia. Non solo gli antropologi italiani, nella gran maggioranza, ignorano il versante applicato della loro disciplina, ne ignorano gli sviluppi internazionali e la storia creata dai practitioner statunitensi, ne ignorano le potenzialità ma, soprattutto, non ritengono sia di loro competenza. Chiedendo informazioni riguardo alle applicazioni pratiche del sapere antropologico agli antropologi italiani si ottiene, e parlo per esperienze personali, una espressione del viso che comunica chiaramente il seguente pensiero: ‘perché chiede a me queste cose?’. Non mi sembrava che ci stessero pensando ma non trovassero risposte, non è che ignorassero e lo ammettessero (non ci sarebbe nulla di male, non si può sapere tutto); pareva che la loro coscienza intellettuale non possedesse la categoria, non disponesse della possibilità, non com-prendesse la domanda. Potrei sbagliarmi, ma la sensazione è stata chiara. L’unica prospettiva antropologica applicata che esiste in Italia è quel poco nato attorno all’antropologia dello sviluppo nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, che conta qualche cultore che ha Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 169 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ concretizzato collaborazioni con qualche organismo internazionale come la FAO, la Banca Mondiale o qualche importante ONG soprattutto in temi di sviluppo agricolo e rurale. Il resto, e parlo di un mondo intero di conoscenze, pratiche, decenni di sperimentazioni internazionali nelle dinamiche culturali aziendali, di progettazione sociale, culturale e urbana innovativa, di gestione di risorse ambientali, turistiche, di ricerche applicati in settori militari, spaziali, di intelligence, nelle nuove tecnologie, nel counseling, nell’antropologia medica, nella formazione, nel management interculturale, non c’è praticamente traccia. Mentre l’antropologia applicata e professionale mondiale provava, certo con fatica, ad evolvere, in Italia tutti si fissavano l’ombelico ben soddisfatti della loro produzione intellettuale, evitando accuratamente di sporcarsi le mani, e di macchiarsi la carriera, con progetti nel settore applicato. Formazione continua, unica soluzione. Le attività applicate e professionali in generale necessitano di una certa specializzazione settoriale. È molto improbabile riuscire a operare come antropologi limitandosi alle conoscenze e alle competenze acquisite durante il corso di laurea. Questo non succede ormai per nessuna disciplina professionalizzante, dove la life long learning è diventata la regola per riuscire prima ad entrare, e poi rimanere, nel mercato del lavoro. Se a questo uniamo il fatto che all’iter formativo in antropologia culturale mancano alcune conoscenze e competenze di base per poter cominciare a operare professionalmente, si capisce come la laurea sia solo il primo passo di una lunga camminata per aspirare a diventare dei professionisti dell’antropologia che 170 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ possano garantire servizi di qualità. Come per altre formazioni, occorre effettuare una svolta pratica. Sapere che per fare ricerca occorre scrivere un progetto non significa saperlo fare. Sapere le fasi di una ricerca etnografica non significa saperla realizzare. Ed è questa la differenza fra il sapere e il saper fare. Finché gli esami di profitto accademici (cioè di livello delle conoscenze) saranno a crocette o domande aperte si sforneranno molti laureati capacissimi di compilarli, con l’unico inconveniente che nessuno nel mondo del lavoro ti darà un incarico retribuito che consista nel rispondere a domande aperte. È per questo motivo che la formazione applicata viene spesso demandata alla fase postlauream, dove sulla base delle conoscenze già acquisite si cominciano ad innestare e sviluppare competenze specialistiche legate al fare concreto attraverso la propria disciplina. Si cominciano a fare sessioni di etnografia, a scrivere progetti realistici con metodi realmente adottati nel mondo del lavoro, si opera in gruppo, si scrivono report come un ipotetico committente li vorrebbe probabilmente vedere, visto che la tesi di laurea come la commissione la vuol vedere si è già scritta una o due volte. Si acquisiscono nuovi linguaggi, si accede ad altra bibliografia, ci si confronta con problemi che emergono dalla realtà sociale aperta e non da qualche dipartimento universitario. In pratica, si comincia ad esplorare l’altra metà del cielo, quello dove ai problemi occorre portare una evoluzione concreta, non una disquisizione teorica. L’idea è che unendo le due metà del cielo, la teorica in una prima fase, la pratica in una seconda, si ottenga poi un professionista a tutto tondo capace di muoversi in autonomia e con competenza in diversi scenari professionali. Per iniziare questo percorso, lungo e non facile, esistono una serie di corsi di perfezionamento, master, scuole private e ambienti di vario tipo che vanno scelti in base ai propri interessi e competenze da acquisire e che sono un passo ormai obbligato per Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 171 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ costruirsi un profilo antropologico più spendibile sul mercato del lavoro non tanto in quanto tale (alla fine domanda di antropologia ce n’è pochissima) ma in quando capace, questo corso, di mettere nelle condizioni di produrre qualcosa che il mercato veda come utile, e quindi degno di essere retribuito. Sarà banale da ripetere, ma il mercato del lavoro cerca sempre meno titoli e sempre più capacità e abilità, spesso trasversali ai corsi di studi. Sarà sempre meno importante il portafoglio titoli e sempre più rilevanti il portafoglio competenze, il valore aggiunto che si saprà portare per far crescere il settore dove si opera. Questo appena tratteggiato è un percorso di natura formale che si impernia sull’università e su altri corsi erogati da altre scuole o centri formativi. Esiste però un altro tipo di traiettoria, a mio parere in molte condizioni è da privilegiare per diversi motivi, che definirei di tipo autodidattico. Con questo termine si intenda l’attivazione delle risorse personali per costruirsi un capitale di esperienze pratiche, competenze e conoscenze in modo peculiare a seconda delle variabili tempo, impegno, interesse, occasione e obiettivi. In altre parole, è il formarsi in autonomia e in relazione ai vari contesti di apprendimento in vista di un obiettivo che evolve con il tempo. È un metodo di formazione molto adatto se si vogliono affrontare ambiti nuovi e quindi incerti e in rapido cambiamento, oppure se si punta ad avvicinarsi a settori di nicchia per i quali non sono previsti percorsi istituzionali o, ancora e soprattutto, se mal si tollera, per questioni caratteriali o economiche, la prolungata permanenza all’interno del sistema formativo istituzionale. Sostanzialmente, una volta acquisita una preparazione teorica di base, triennale o quinquennale, si comincia a muoversi con iniziativa personale appoggiandosi a risorse diverse dalle agenzie formative. L’antropologia culturale, come altre arti, 172 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ pratiche creative, discipline di confine e mondi professionali è probabilmente uno dei campi d’elezione per l’autodidattica. In alcuni ambiti è addirittura necessario essere autodidatti, perché l’antropologia culturale italiana contempla ad oggi un numero molto ristretto di ‘interessi disciplinari’ rispetto al resto del mondo. Semplicemente, in interi ambiti di esperienza l’antropologia culturale non è ancora arrivata con le sue analisi e riflessioni. Ciò non toglie che siano campi di grande interesse, e spesso i più innovativi e lavorativamente promettenti. Fondamentale per attivare un processo autodidattico è la capacità di movimento personale, la curiosità, la voglia di esplorare e di connettere esperienze diverse per formare un bagaglio di conoscenze e competenze ampio, strutturato e originale. In un mondo dove i titoli di studio sono sempre più rapidamente obsoleti e le richieste del mercato del lavoro sempre più varie, schizofreniche e peculiari, aver intrapreso questa strada, sicuramente faticosa e incerta, può riservare delle sorprese positive in termini di impiegabilità e richiesta professionale. Inutile dire che il percorso autoformativo non si può imporre, in quando emerge dallo studente che si trasforma in studioso autonomo intento a costruirsi le possibilità stesse del proprio apprendere. È tipico di chi decide per questo scenario formativo la capacità di far interagire l’antropologia culturale con altre discipline anche lontane, l’aver fatto esperienze pratiche consistenti, ad esempio, nel terzo settore, in imprese di vario tipo, l’aver sviluppato un ‘curriculum nascosto’ in occasioni di attività extrascolastiche, in viaggi di vario tipo, sfruttando condizioni educative particolari, ecc. Spesso il percorso passa dalla pratica alla teoria, cioè mira a ricostruire le basi teoriche e metodologiche a posteriori rispetto a quanto appreso sul campo in un primo momento. Per un percorso professionale in antropologia culturale può Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 173 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ essere quindi importante più il proprio curriculum vitae (l’esperienza globale di vita) piuttosto che quello studiorum, che invece è vincolante per molte altre professioni più standardizzate. Le competenze richieste ad un antropologo culturale, in qualsiasi ambito lavori, sono tanto di natura cognitiva che di natura relazionale (soft skills), in quanto egli è spesso impiegato in contesti umani ad alta complessità e in condizioni di disagio o trasformazione. L’università non forma in alcun modo le risorse empatiche, relazionali e umane, che vanno pertanto forgiate in contesti opportuni e possono rivelarsi una ingrediente necessario per mettere in campo un agire professionale di qualità. Antropologia culturale applicata e professionale: quali possibilità? Come abbiamo già visto, grande è l’eterogeneità sotto il cielo antropologico. C’è chi comincia a fare esperienza sul campo da volontario fin dalla triennale, che acquisisce competenze trasversali in contesti extra-accademici, come lavorare in associazioni, fare assistenza ai disabili, attività di animatore, lavori serali e nei fine settimana per mantenersi agli studi e vedere da dentro il mondo del lavoro, riesce a prendere parte come uditore alle situazioni più diverse – ONG, gruppi di autoaiuto, consigli comunali. La capacità di movimento degli studenti di antropologia è veramente notevole, stando alle storie che mi è capitato di sentire e alle persone incontrate, sia realmente che virtualmente. Inutile dire che chi fa queste scelte ha poi una marcia in più una volta finito il corso di studi rispetto a chi ha, legittimamente, scelto di dedicarsi esclusivamente alla preparazione teorica. L’esperienza diretta sul campo, in qualsiasi attività, purché 174 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ fatta da apprendista antropologo ha dei risvolti formativi eccezionali: innanzitutto addestra precocemente a confrontare la teoria con la realtà, il funzionamento sociale e culturale descritto nei libri con il fluire della vita sociale reale. Quanto ci si rende conto che il proprio oggetto di studio e di lavoro sarà la seconda di queste, una ‘folgorazione preoccupata’ è ciò che si prova. Ancora, si impara a gestire la propria inadeguatezza nello spiegare perché si è lì, cosa si studia e la connessione tra le due cose: chiunque l’abbia fatto, sa che non è immediato. E nella professione di antropologo applicato capiterà sempre: saper presentarsi e spiegare in poche parole comprensibili ciò che si vuol fare credo sia il cinquanta per cento della professionalità. Farlo, è l’altro cinquanta. Poi, entrando in un settore particolare si verifica se si ha reale interesse per quell’ambito di attività, per quello spaccato di realtà: ecologia? Comunicazione? Formazione? Salute? Immigrazione? Aziende? Musei? Se non ho mai sperimentato nessuna situazione, non posso sapere cosa mi piace, posso solo supporlo. Infatti molto laureati in antropologia culturale non sanno dire quali siano i loro reali interessi, cosa vogliano approfondire. Finché tutto resta nel vago, nel potenziale, il proprio movimento personale risulta debole e discontinuo, scarsamente efficace. Ancora, si ha modo di conoscere persone, iniziare qualche scambio, scrivere qualcosa, costruire comunioni di intenti che possono tornare utili una volta completati gli studi, quando si hanno più conoscenze e più tempo per concretizzarle. Altra cosa importante, si apprende la lingua dei nativi. Se l’obiettivo è lavorare con le aziende, dobbiamo conoscere la loro lingua meglio di chi ci lavora dentro, così come ci preoccupiamo di apprendere quella delle popolazioni nei quattro angoli del pianeta dove gli antropologi fanno ricerca. Lo stesso vale per le ONG, per le istituzioni burocratiche, per le logiche del mercato. Spesso gli studenti Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 175 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ sottovalutano questa criticità tipica dell’antropologia fatta ‘a casa propria’: essendo nativi, credono di avere tutte le competenze per muoversi nel ‘loro’ ambiente. Niente di più sbagliato: spesso l’essere nativo, se non viene analizzato in profondità con una buona dose di riflessività e di autocritica, porta a posizionarsi sul campo in maniera problematica, pieno di stereotipi e stereotipie che offuscano gran parte della realtà. Muovendo da questi presupposti, e da altri che ognuno scoprirà in autonomia per prove ed errori, è possibile inquadrare velocemente alcuni ambiti dove gli antropologi culturale possono provare a muoversi una volta acquisita la giusta formazione. Ne indicherò brevemente alcuni che derivano dalla mia esperienza e da quella di antropologi culturali con cui ho maggior scambio di informazioni. Terzo settore/privato sociale no profit Con una opportuna formazione metodologica di etnografia, interviste, questionari si riesce a operare in associazioni, cooperative, ONG, centri di ricerca privati come analisti e progettisti sociali, addetti alla ricerche preliminari di fattibilità, conduttori di gruppi e responsabili di laboratori di vario tipo. Cominciano a emergere anche antropologi in ruoli di responsabilità amministrative e formative, dove una formazione sociale di base deve unirsi a doti manageriali e gestionali adeguate alla complessità del terzo settore. Si può intervenire nella fase di start up come consulenti, sondare il territorio per far emergere risorse e necessità latenti, supportare nella stesura di mission, vision e organizzazione societaria. Dal punto di vista dell’innovazione sociale gli antropologi culturali potrebbero concentrarsi sui servizi alla popolazione immigrata non solo da 176 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ integrare ma anche da supportare nei processi evolutivi: penso all’imprenditoria immigrata, all’orientamento scolastico e professionale di seconde generazioni, di supporto alla comunicazione tra gruppi di immigrati, all’empowerment di comunità. Interessanti anche le tematiche dell’invecchiamento, del benessere sociale dell’anziano e dell’attivazione di reti di supporto territoriale. Peculiare l’ambito della comunicazione sociale e della promozione del cambiamento culturale in vari ambiti quali disabilità, omosessualità, emarginazione sociale, infanzia, valorizzazione della diversità. I profili concorrenti in questo ambito sono soprattutto psicologi sociali e di comunità, pedagogisti, cooperanti allo sviluppo non antropologi, sociologi. Aziende e servizi for profit Le aziende richiedono supporto formativo e consulenziale per l’internazionalizzazione e lo sviluppo di una cultura dell’innovazione. Sono questi i due ambiti dove l’antropologia culturale può dare un contributo immediato al mondo dell’imprenditoria nostrana. Conoscenza delle lingue, del management e dei paesi esteri di riferimento sono condizioni imprescindibili per questo settore. Occorre sviluppare metodi di indagine seri per reperire informazioni utili a ridurre il rischio d’impresa e monitorare i processi di cambiamento aziendali. Gli strumenti etnografici, la prospettiva comparata, una forte conoscenza dei mercati sviluppata operando all’interno dell’azienda permette di costruirsi un profilo adeguato, meglio se incardinato su studi formali di business management. In diversi contesti le formazioni antropologiche e interculturali stanno dimostrando una netta superiorità rispetto alle formazioni manageriali più tradizionali. Settori quali il security management, il diversity management e le risorse umane sono ormai sempre più Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 177 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ ‘antropologizzati’. Spesso l’ingresso in azienda avviene ricoprendo altre mansioni, e sviluppando in seguito una traiettoria di carriera verso un ruolo dove la propria formazione antropologica sia uno strumento operativo quotidiano. I profili concorrenti sono dottori in economia aziendale, psicologi del lavoro, dottori in lingue, diplomati MBA, sociologi. Antropologia medica e della salute L’antropologo culturale interessato alle prospettive curative, del benessere e della crescita personale può integrare le proprie conoscenze con corsi strutturati di naturopatia, discipline olistiche, counseling di vario tipo, tradizioni occidentali e orientali volte alla crescita personale. Esistono scuole ben strutturate e con formatori di grande esperienza anche in Italia in tutte le discipline più conosciute. Accanto alla pratica professionale si possono innestare momenti di ricerca personali in collaborazione con associazioni e gruppi di ricerca legati o meno all’accademia sulle tradizioni spirituali più diverse, sulle meditazioni, sull’empowerment personale. Questo settore del ‘benessere non terapeutico’ è in grande crescita nel nostro e in molti altri paesi occidentali. Servono formazioni approfondite e attenzione alle normative di riferimento nazionale per non incorrere nell’accusa di abuso della professione medica o psicologica. Formazione e istruzione In qualità di antropologi culturali si può essere formatori per diversi enti privati. È opportuno un percorso ad hoc che permetta di acquisire i principali modelli formativi e strumenti operativi. Orientarsi nella formazione di persone immigrate, o seconde 178 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ generazioni, privilegiando aspetti linguistici e comunicativi, senza omettere di considerare ambiti formativi nuovi tarati su precise esigenze della popolazione immigrata. Interessanti i servizi di supporto all’istruzione, come doposcuola pomeridiani e centri di supporto per studenti in difficoltà, che spesso vedono la compresenza di ragazzi e ragazzi dalle provenienze più diverse. L’interazione tra antropologia culturale e pedagogia interculturale può dare buoni frutti in questi contesti. I profili concorrenti sono formatori, pedagogisti, educatori, psicologi dell’età evolutiva, sociologi. Ricerca e divulgazione Esistono delle possibilità nel fare ricerca sociale e culturale fuori dall’accademia presso enti privati, associazioni di categoria, o come ricercatori indipendenti. Gli antropologi culturali dovrebbero consolidare le loro capacità metodologiche soprattutto in termini quantitativi perché spesso è necessario fare ricerche con metodologia mista. L’etnografia è efficace in determinate condizioni e per determinati obiettivi, a volte costruire, somministrare e analizzare un buon questionario, o utilizzare dei test strutturati, dà risultati migliori in minor tempo. Spesso di tratta di fare ricerche su opinioni, atteggiamenti, preferenze, bisogni di una determinata popolazione, oppure riguardo a degli esiti di progetti, o ancora analisi preliminari che possano chiarire l’orizzonte operativo da intraprendere. Gli antropologi culturali potrebbero sforzarsi di mettere a punto degli strumenti di rilevamento ad hoc per indagare scenari di loro competenza. Interessanti a questo riguardo gli ambiti di ricerca più innovativi come le nuove tecnologie comunicative, il web e le sue applicazioni, i nuovi stili di vita, l’innovazione sociale, gli scenari della globalizzazione, le emergenze sociali, i gruppi di Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 179 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ pressione planetari, il cosmopolitismo. I profili concorrenti sono sociologi, psicologi sociali, tutti i laureati interessati all’analisi della contemporaneità e alla comunicazione. Eventi, arte, spettacolo Un settore in rapido sviluppo è quello della creazione e gestione di eventi culturali e artistici. Utile una formazione postlauream dedicata e peculiari abilità organizzative e manageriali. Il mondo dell’antropologia si intreccia con i beni culturali e la promozione/marketing di eventi sociali che trovano nell’esperienza offerta al fruitore la loro ragion d’essere. Una formazione ulteriori garantisce la capacità di gestire la complessità dell’event management dal punto di vista organizzativo, contenutistico e economico. Interessante anche la prospettiva consulenziale in qualità di antropologi culturali specializzati in particolari settori (museale, artistico visuale, artistico musicale ecc.). Conclusioni In questo contributo ho messo sul piatto alcune questioni che la comunità degli antropologi, così come si esprime sul web in diversi siti collegati, ritiene importanti per riflettere sul proprio sviluppo professionale. Ho accennato alle questioni di identità, ai percorsi formativi, alle conoscenze e alle competenze, alle frustrazione dello scoprirsi dottori in antropologia e non sapere cosa fare, al dibattito sull’antropologia applicata e professionale, ad alcuni atteggiamenti utili per non appendere subito l’antropologia al chiodo e un breve excursus su alcuni possibili posizionamenti operativi in diversi ambiti. Molto resta ancora da 180 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Stocchero D., Riflessioni sull’antropologia culturale in versione ‘applicata e professionale’ analizzare, strutturare e dibattere: inquadramenti normativi e burocrazia professionale, deontologia professionale, approfondimenti sulle competenze, metodologie applicate, buone pratiche internazionali, standard formativi, associazioni di categoria, bibliografie applicate e professionali, corsi utili e meno utili per formarsi, utilizzo dei social network, marketing e collaborazione con altre figure professionali….avremo modo di affrontare anche questi temi in modalità social web. Chiudo il contributo consigliando un volume che credo possa essere molto utile al lettore italiano anche se prodotto negli USA: Anthropology in practice. Building a career outside the academy di Riall W. Nolan – Boulder London (2003). Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 181 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. Moreno Tiziani, Lucia Galasso La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale: l'attività di Antrocom onlus Abstract The debate between the different anthropologies often focuses on methods and definitions, while the possibility of application is sidelined. We have to connect to this aspect, however, the question more often asked by graduates in these disciplines: is there job for anthropologists? The answer is not simple, considering the different variables that make up the problem. We must first identify the underlying issues, not always obvious, that concern the relationship between the anthropological disciplines and the areas in which it could be applied. We need to understand what is the role of the anthropologist in contemporary society and what may be its contribution, both in social, cultural, and economic terms. Antrocom, a non-profit organization, is an association of research and dissemination of anthropology. It has, among its institutional purposes, the enhancement of the anthropologist as a professional figure, able to respond to the real needs of society, through the realization of studies and initiatives that arise from the demands of citizens and their territory. Introduzione L'antropologia culturale ha visto negli anni una proliferazione subdisciplinare evidente; anche l'antropologia biologica è stata oggetto dello stesso processo, anche se in modo più circoscritto. Questa tendenza si spiega attraverso l'analisi di diversi fattori: uno di questi è di tipo linguistico: il fatto di definire la disciplina attraverso il significato più generico del termine, cioè 'studio dell'uomo', la rende vulnerabile a interpretazioni alquanto fuorvianti, tali da equiparare la figura dell'antropologo a quella Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 183 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. di un tuttologo. E la proliferazione subdisciplinare, dunque, non fa che amplificare questa equivalenza semantica. Nel contempo, la divisione tra antropologia culturale e antropologia biologica che si registra in diversi paesi europei ed extraeuropei, laddove è stata mutuata l'organizzazione del sistema formativo vigente in Europa, non permette di riconoscere i campi di ricerca che sono veri e propri ponti tra l'interpretazione culturale e l'interpretazione biologica dell'essere umano. Ad esempio, sia l'ecoantropologia sia l'ecologia umana studiano il rapporto tra una popolazione umana e l'ambiente in cui vive. Avendo approcci differenti al medesimo problema, le due discipline non sono sovrapponibili, ma fanno sicuramente parte di un'unica prospettiva sullo stesso orizzonte di ricerca. Una prospettiva che viene ignorata e che non ha permesso l'affermarsi di un approccio bioculturale sistematico allo 'studio dell'uomo'.1 Dobbiamo allora riscontrare un problema conoscitivo che riguarda l'antropologia, che si riflette all'esterno della disciplina stessa, allorquando l'antropologia viene considerata tuttologia, e al suo interno, nel momento in cui gli stessi antropologi non riconoscono le affinità che riguardano i loro stessi colleghi. E dunque se molti sanno dell'esistenza della figura dell'antropologo, pochi conoscono veramente di cosa si occupa. 1 A tal proposito è utile precisare che non si tratta di ricreare l'olismo che regnava nella disciplina nella seconda metà del XIX secolo, ma di riconoscere quel substrato comune sia all'antropologia biologica che all'antropologia culturale. Per spiegare questo approccio, facciamo spesso riferimento alla formazione dei medici e dei naturalisti: dopo un percorso formativo comune, sia i primi che i secondi si specializzano in una sottodisciplina particolare, ma sono comunque in grado di interfacciarsi con i loro colleghi. 184 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. Antrocom onlus: scopi, storia e organizzazione Nella primavera del 2002 queste problematiche divennero lo sfondo di un progetto che cercava di farvi fronte, ripensando l'antropologia come uno strumento applicativo per rispondere a problemi concreti. Inizialmente si partì da una constatazione: mancava un punto di incontro in rete per gli antropologi. I pochi gruppi usenet e le mailing list erano poco frequentate, anche per via della loro scarsa diffusione. Nacque così Anthropos, nell'aprile 2003, l'unico portale verticale in lingua italiana a riunire antropologi fisici e culturali, una comunità online pensata per favorire quell'incontro di cui si sentiva la necessità. A mano a mano che la comunità cresceva e si andava creando un gruppo affiatato di coordinatori, si sentì l'esigenza di dare struttura a questa esperienza. Nel marzo 2005 nacque Antrocom, rivista online liberamente consultabile che ospita saggi e articoli di antropologia biologica e antropologia culturale. Col tempo la rivista, già pensata per ospitare contributi di antropologi di diverse nazionalità, crebbe sia in termini di apprezzamenti che di contributi sino a trovare, nel 2011, un editore negli Stati Uniti e una distribuzione in tutto il mondo. La rivista fu il primo passo verso la formalizzazione di un progetto che si era avviato in puro spirito di volontariato e che voleva continuare su questa strada. Nel giugno 2006 nacque quindi l'associazione Antrocom, riconosciuta onlus l'anno successivo. Il nome fu scelto per richiamare gli scopi del progetto, già contenuti nel nome del dominio della comunità. Antrocom come antropologia e comunità, appunto, ma anche come antropologia e comunicazione. Uno spazio di incontro e confronto tra antropologi e tra antropologi e pubblico, un luogo in cui parlare di antropologia in termini semplici e dove si Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 185 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. potesse realizzare un'azione mirata a far conoscere l'antropologia e ad applicarla a casi concreti.2 Esisteva infatti, ed esiste tuttora, una domanda di antropologia che non è espressa in modo esplicito, ma è formulata in altri termini proprio perché il lavoro dell'antropologo non è conosciuto e non sono conosciuti gli ambiti applicativi dell'antropologia. Per riuscire nell'intento, l'associazione si approcciò al problema pensando al 'mercato' in cui questa domanda veniva espressa, alle azioni di 'marketing' da intraprendere e al 'target' da soddisfare. Il 'mercato' dell'antropologia e Antrocom onlus Pensare all'antropologia in termini di 'mercato' e di 'marketing' non è usuale, almeno nel contesto italiano. Per ragioni storiche e sociali, il lavoro dell'antropologo è di solito confinato alla ricerca pura. In tal senso, l'antropologia è un fine. Farla divenire un mezzo significa rivolgersi a un pubblico più ampio rispetto ai soli specialisti e a 'volgarizzarla' nel senso etimologico del termine. Un approccio che sia di ricerca pura non è in contrasto con quest'ultima visione dell'antropologia, bensì è in sinergia con essa. Senza la prima difficilmente esisterebbe la seconda. Non a caso, all'interno di Antrocom vi sono antropologi dediti alla ricerca così come antropologi che si spendono nella divulgazione e nella realizzazione di iniziative. E a volte i ruoli sono scambiabili. Chi viene a far parte dell'associazione può 2 Per maggiori dettagli sulla storia dell'associazione, si veda l'articolo di Galasso e Tiziani citato in bibliografia. 186 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. applicarsi nel campo che gli è più congeniale, e ciò si riflette nell'organizzazione stessa di Antrocom. Questa direttiva è uno dei motivi che ha spinto l'associazione, a partire dal 2008, a creare gruppi e sezioni regionali che sono parte integrante della struttura associativa. Le sezioni assolvono a un altro concetto fondamentale che muove il progetto Antrocom: essere presenti nelle realtà locali, dove è effettivamente più facile applicare i metodi antropologici alla vita quotidiana. Ognuna delle cinque sezioni che attualmente rappresentano Antrocom a livello regionale (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Campania e Sicilia) ha una sua specificità che è anche ricchezza per l'associazione stessa: antropologia applicata, antropologia sociale, valorizzazione delle tradizioni popolari e antropologia visuale sono alcuni degli ambiti in cui gli antropologi dell'associazione operano.3 La constatazione da cui parte l'azione di Antrocom è che esiste sì il mercato e una domanda tangibile, ma non c'è la corrispettiva offerta di professionisti dell'antropologia. La professione di antropologo, infatti, è in sostanza ancora da costruire. Da un lato ciò significa un 'mercato' non sfruttato, dove è possibile inserirsi cogliendo le opportunità a cui il singolo antropologo è più portato; dall'altro implica un maggior dispendio di energie per realizzarsi in un percorso in cui non vi sono strade già tracciate né strumenti già creati allo scopo. Da questo punto di vista, Antrocom onlus è una sorta di 3 L'associazione è aperta sia ad antropologi fisici che culturali. Per ragioni di carattere statistico e di possibilità applicative, attualmente gli antropologi culturali sono i più rappresentati, per quanto siano in fase di studio dei progetti finalizzati a dare più spazio all'antropologia biologica, che nel nostro paese sembra non riuscire a esprimersi al di fuori dell'ambito universitario. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 187 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. incubatore della figura dell'antropologo, che vuole valorizzare proprio come professionista. L'antropologo che lavora in Antrocom è stimolato a ideare e realizzare in autonomia i proprio progetti, con l'assistenza del caso da parte dell'associazione. Lo scopo, infatti, è di formare una figura professionale in grado di affrontare eventuali committenze in autonomia e di introdurlo in una rete di occasioni lavorative in cui già opera l'associazione, in modo da fornire una prima base di relazioni e contatti sfruttabili autonomamente per altri incarichi.4 Antrocom, Giornale Online di Antropologia, è uno strumento che coadiuva l'associazione in questa attività. Si tratta di un canale su cui il neoprofessionista può pubblicare, costituirsi un primo nucleo di pubblicazioni e farsi conoscere, anche all'estero, soprattutto da quando la rivista è editata anche in forma cartacea. La linea di azione appena descritta trova applicazione sia in progetti di tipo formativo sia di tipo esperienziale. Si tratta di due tipologie a stretto contatto tra loro e vicendevolmente influenzabili. Non può esserci infatti applicazione senza formazione e, nel contempo, la formazione deve fornire gli strumenti adatti all'applicazione. La formazione universitaria di un antropologo non contempla nozioni utili a interpretare la situazione lavorativa di cui stiamo discutendo in questo articolo e, relativamente al quadro attuale, sembra compito di organismi 4 Per spiegare questo concetto, spesso paragoniamo l'associazione a un ombrello: gli antropologi lavorano in autonomia, mentre Antrocom onlus si preoccupa di fornire l'assistenza, le relazioni e la logistica necessaria, 'riparandoli' dai problemi legati alla loro implementazione. A mano a mano che l'antropologo diviene più esperto, l'ombrello viene chiuso gradualmente. 188 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. terzi colmare questa lacuna. Alcuni esempi applicativi Dei progetti compiuti o in via di compimento da parte di Antrocom onlus, ne vengono qui descritti alcuni nelle loro linee generali. Sono particolarmente interessanti rispetto allo scopo di questo articolo, ovvero discutere la valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. Come tale, l'antropologo si deve confrontare con le richieste della società civile e ponderarne le necessità. Ponderare, in questo contesto, significa trovare il giusto equilibrio tra ricerca antropologica e soddisfacimento del bisogno in tempi accettabili, per quanto ciò risulti difficile soprattutto in contesti in cui le problematiche che fanno sorgere la necessità sono complesse e poco informative. Antrocom onlus Lombardia sta conducendo uno studio con l'obiettivo di comprendere e raccontare le esperienze e i progetti di vita degli ex detenuti in una fase storica di aumento del controllo sociale e di diminuzione delle risorse per la riabilitazione sociale.5 L'uscita dal carcere è di per sé un'esperienza che produce alienazione nel momento in cui il soggetto cerca di misurarsi con le dinamiche quotidiane del mondo esterno. Il meccanismo di reinserimento sociale agisce in modi spesso imprevisti nel divario tra aspettative dell'ex detenuto, modello di routine acquisito in carcere fino al momento del rilascio e potere 'modellante' dell'istituzione carceraria stessa. Da qui la ricerca, che esplora tre ambiti definiti: 5 L'argomento, di per sé vario e particolarmente interessante, è affrontato in diversi volumi. Qui si conigliano gli scritti di De Giorgi e Melossi, citati in bibliografia. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 189 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. l'esperienza soggettiva del reinserimento, l'analisi dei progetti già avviati allo scopo e il monitoraggio delle modalità di intervento degli operatori. Si tratta dunque di seguire da vicino sia gli ex carcerati sia gli operatori stessi, anche al fine di comprendere le procedure, individuare le carenze e ottimizzare il processo di reinserimento. Antrocom onlus Veneto ha focalizzato la sua attenzione sul dialogo tra archeologia e antropologia e sulla divulgazione del patrimonio storico e artistico del Triveneto, in collaborazione con società e associazioni che operano già in questo contesto. Gli antropologi sono chiamati a considerare il rapporto tra vestigia antiche, memoria e percezione del passato da parte di diverse componenti della società. Non si tratta dunque di semplice valorizzazione finalizzata a incrementare il turismo, ma di considerare il passato come base storica di una determinata società e integrazione del suo divenire sociale e culturale.6 Il progetto ha due scopi principali: fornire agli archeologi strumenti di interpretazione del passato di tipo antropologico, al fine di trovare nuovi spunti di ricerca; interpretare il paesaggio 6 A questo proposito, Antrocom onlus Veneto cita David Lowenthal (si veda in bibliografia), secondo cui il passato è ovunque, che sia celebrato o respinto, atteso o ignorato, il passato è onnipresente. La distruzione dei Buddha di Baghram non cancella il passato, al contrario, il vuoto talvolta può essere anche più significativo dell'oggetto, l'assenza a volte è più visibile della presenza. Un tempo confinato solo nei musei, il passato si esibisce nei vari paesi per puntellare regimi, celebrare antiche glorie, creare nuove nazioni. Partiti politici si combattono brandendo spezzoni diversi del passato di un paese, traggono dubbi paragoni e favoriscono audaci ricostruzioni nell'industria dell'heritage. Chi ha pochi monumenti antichi li ricrea nei parchi storici, che ne ha troppi a volte li ignora e li lascia andare in rovina. 190 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. antico e il paesaggio della memoria del Triveneto, considerandone gli aspetti meno conosciuti in termini di processo di studio, catalogazione e fruizione nel corso del tempo. Si tratta di una ricerca che vede ampie opportunità di applicazione anche in altri ambiti regionali e che tende ad armonizzare le richieste della contemporaneità con le esigenze di conservazione del patrimonio storico e archeologico. La Burattinaria Fest è stata la conclusione di un percorso di studio e ricerca sul campo condotto da Antrocom onlus Campania in Basilicata, per riscoprire le leggende e le tradizioni locali relazionandole al sentimento popolare odierno. La cittadina di Rapone, luogo dello studio, è stata al centro di questa riscoperta divenendo essa stessa protagonista. Le sue vie e i suoi cittadini sono stati testimoni di un evento distribuito su tre giorni e basato sul lavoro degli antropologi. La ricerca sul campo ha prodotto inoltre delle proposte operative per il riassetto urbanistico di Rapone e per una nuova lettura del territorio alla luce della riscoperta della memoria e dell'identità dei luoghi. Il progetto presentato alla X Biennale di Architettura di Venezia da Antrocom onlus, al seguito del gruppo di architetti Mass Studio, mirava a descrivere le relazioni tra struttura urbana, gruppi sociali e territorio in modo che le informazioni raccolte fossero impiegabili in campo architettonico. La progettazione di nuovi edifici, al di là delle difficoltà tecniche, impone l'analisi dell'impatto sull'ambiente e su eventuali insediamenti già presenti, alla luce di dinamiche culturali ed ecologiche già presenti. I dati raccolti dagli antropologi possono coadiuvare il lavoro di architetti e ingegneri nella programmazione di nuove opere, e le amministrazioni nella fase di razionalizzazione del territorio. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 191 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. A Santa Maria La Fossa, in provincia di Caserta, Antrocom onlus Campania è stata chiamata a realizzare uno spot audiovisivo per promuovere le politiche ambientali e territoriali del comune. Il progetto è stato realizzato con la collaborazione di UncoSo Factory e della Scuola di Cinema di Napoli. L'idea di fondo è rivalutare i luoghi di Santa Maria La Fossa per una nuova visione dell’immaginario collettivo e la restituzione di processi identitari, coinvolgendo gli abitanti del luogo, che in questo modo sono stati – e si sono sentiti – responsabilizzati verso la propria comunità e il proprio territorio. Nella costruzione di questo nuovo immaginario collettivo si è dato ampio spazio alle scuole. L'associazione è sempre stata molto attenta alla formazione, specialmente verso i più piccoli, consci del fatto che saranno le generazioni future a dover sopperire alle mancanze delle generazioni attuali. Partire dai bambini significa lavorare su un terreno pressoché scevro da condizionamenti e coltivare semi che avranno il tempo e le modalità per svilupparsi in maniera robusta. Una nuova opportunità per Antrocom si è palesata con la nomina a direttore scientifico del Museo della Civiltà Contadina e dell'Ulivo di Lucia Galasso, già Segretaria Nazionale di Antrocom onlus. In questo modo l'associazione può non solo confrontarsi con l'ambito della museografia e del ricco universo di ambiti di ricerca e attività che ruotano intorno all'universo dei musei etnografici, ma anche utilizzare il museo stesso come valido supporto sul quale iniziare tutta una serie di iniziative di più ampio respiro. Prendendo come linea guida la definizione di museo fornita 192 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. dall'ICOM (International Council of Museums),7 secondo cui Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo; è aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali dell’umanità e del suo ambiente: le acquisisce, le conserva, le comunica e, soprattutto, le espone a fini di studio, educazione e diletto. Si sta cercando di risvegliare un museo per troppo tempo lasciato nel torpore rimettendolo in comunicazione non solo con il suo territorio ma anche con gli interessi di coloro che vengono anche fuori dalla Ciociaria per visitarlo. Questo si sta attuando tramite iniziative che rivitalizzano la sua memoria materiale ma soprattutto che si concretizzano attraverso il 'fare' nuovamente la sua memoria immateriale. Il museo, infatti, deve essere un'istituzione culturale dinamica che rappresenti l'identità di un territorio e della comunità che lo abita. Non deve solo conservare la memoria di luoghi e persone, ma interagire con la gente e con le attività che essi svolgono quotidianamente. Le parole chiave utilizzate sono infatti 'fare' e 'comunicare', chiavi di volta per evitare che il museo rimanga un'istituzione passiva alla sguardo del visitatore. Così il 'fare' si sta concretizzando in tutta una serie di laboratori che riprendono le fila dei vecchi lavori artigianali (intreccio del vimini, filatura del 7 La definizione è tratta dal 'Codice Etico dell'ICOM per i Musei'. Il Codice etico professionale dell’ICOM è stato adottato all’unanimità dalla 15^ Assemblea Generale dell’ICOM a Buenos Aires (Argentina) il 4 novembre 1986. È stato modificato dalla 20^ Assemblea Generale a Barcellona (Spagna) il 6 luglio 2001, che lo ha rinominato Codice etico dell’ICOM per i Musei, ed infine revisionato dalla 21^ Assemblea Generale a Seoul (Repubblica di Corea) l’8 ottobre 2004. Il documento è citato in bibliografia. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 193 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. lino, panificazione...) che consentono al museo di far rivivere nuovamente gli oggetti che custodisce, tenendo i corsi al suo interno, animando così le sue sale con i ritmici gesti del lavoro manuale. Lavoro aperto ai ragazzi di Pastena così come agli appassionati che vengono fin da lontano per re-imparare una vecchia arte. Si cerca così di offrire qualcosa di realmente funzionante, di utile e appagante sotto il profilo di quello che Richard Sennett (2008) definisce “uomo artigiano” e nel contempo non si lascia morire la memoria di un tempo quotidiano fatto di fatica e di lavoro e troppo spesso oggetto di una retorica buonista che fa della vita contadina un paradiso perduto. Il tentativo di valorizzare tutto questo patrimonio non tanto materiale quanto immateriale è invece deputato alla comunicazione di cui il museo è oggetto di studio. Si è partiti da un sito web all'avanguardia nella grafica e ancorato alle piattaforme dei social network più importanti (Twitter, Facebook e Youtube) e si sta continuando attraverso la pianificazione di giornate di studio che diano profondità ai laboratori artigianali progettati. Il museo di Pastena è un laboratorio a cielo aperto per Antrocom, ma è anche una grande opportunità per tutti gli antropologi interessati a collaborare; uno strumento per chi ha voglia di fare anche se non strutturato accademicamente, una fucina per giovani menti e talenti. Ci piace immaginarlo come il primo museo demoantropologico concepito come un FABlab.8 8 FABlab è l'acronimo di fabrication laboratory. Nati come un progetto pilota presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT), i FABlab si sono diffusi in diverse nazioni, con lo scopo di offrire strumenti utili a soddisfare i bisogni progettuali delle persone comuni, che arrivano in questi laboratori con l'idea e la voglia di crearsi in proprio gli oggetti che possono essergli utili. Per un 194 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. Non a caso è allo studio la possibilità di aprire il catalogo del museo, recentemente finanziato dalla Provincia di Frosinone, a contributi di antropologi specializzati nelle tematiche del museo stesso. Gli esempi sopra riportati9 hanno cercato di mostrare gli ampi interessi e le attività di Antrocom onlus. Nel corso degli anni le iniziative portate a termine hanno contribuito a rendere più solide le premesse su cui è stata fondata l'associazione, ma anche a costruire un'immagine concettualmente concreta presso gli utilizzatori finali dei servizi implementati dall'associazione. Si tratta di un aspetto particolarmente interessante, alla luce del fatto che l'apparato che, all'interno di Antrocom onlus, si occupa della promozione e, in sostanza, della pubblicità, è di dimensioni relativamente ridotte. La presenza sul territorio e il dialogo diretto con gli utilizzatori finali, che spesso si identificano con gli stessi finanziatori dei progetti, sono risultati essere molto più efficaci e proficui. Ciò non toglie che, dalla nascita dell'associazione, i ricercatori impiegati nella realizzazione dei progetti abbiano dovuto formarsi continuamente sia dal punto di vista antropologico sia dal punto di vista burocratico e lavorativo. È vero infatti che l'associazione provvede all'espletamento delle pratiche necessarie all'avvio e al mantenimento di un progetto, ma si preoccupa nel contempo di formare i suoi Soci, specialmente se interessati dalla meccanica di realizzazione di approfondimento, si veda il libro di Neil Gershenfeld citato in bibliografia. 9 Per ulteriori esempi si può visitare il sito di Antrocom onlus all'indirizzo www.antrocom.org. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 195 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. uno studio sul campo, in modo che conoscano i passi da compiere e le istituzioni da interpellare nel caso vogliano cimentarsi nella libera professione. In ciò, le singole competenze dei Soci sono state importanti per avviare un processo di formazione interno. Da sole, esse non avrebbero potuto essere di tale utilità, ma l'averle messe in comune ha contribuito a limitare i costi e a velocizzare i tempi di apprendimento. Una proposta alle associazioni antropologiche In tal senso, la possibilità di prestare le competenze acquisite anche al di fuori dell'associazione sarebbe uno sbocco del tutto naturale sia per quanto riguarda gli scopi statutari, sia per le attività e le iniziative organizzate. Da qualche tempo, all'interno di Antrocom onlus, si sta pensando a una rete di associazioni antropologiche che possano dialogare tra loro, avanzare proposte concrete su obiettivi comuni e scambiarsi reciprocamente le competenze acquisite. Per quanto gli ambiti di operatività e le strutture organizzative delle singole associazioni siano diversi (non fosse altro che la loro nascita si deve, molto spesso, a bisogni diversi tra loro), è possibile immaginare un piano di lavoro comune e di interscambio che trovi concretezza in una organizzazione di carattere più ampio. Una sorta di 'federazione', dunque, che permetta l'apertura e il mantenimento di canali di collaborazione fattiva tra le associazioni stesse. Non si tratta sicuramente di un progetto semplice da realizzare. È necessario un confronto diretto e sincero tra le parti, nonché la lungimiranza di guardare a obiettivi che possono essere collocati anche in un futuro lontano. Tuttavia, 196 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. considerando il quadro attuale dell'antropologia italiana e le considerazioni esposte in questo articolo, i vantaggi di una tale operazione sono di gran lunga superiori alle difficoltà che si potrebbero incontrare. Di esempi federativi ce ne sono diversi. Probabilmente il più noto è costituito dall'American Anthropological Association, con sede negli Stati Uniti; in Italia si potrebbe guardare a realtà come la Federazione Italiana Scienze della Vita. Da notare che la prospettiva federale andrebbe a supplire le problematiche connesse con l'istituzione di un ordine professionale, ovvero la burocratizzazione, la mancanza di concorrenza e la carenza di regolamenti applicabili. Fermo restando che Direttiva D36/2005/CE emanata dall'Unione Europea relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali sconsiglia la creazione di ordini professionali.10 Conclusioni L'antropologia è uno strumento efficace e flessibile per comprendere le complessità che viviamo ogni giorno, siano esse di carattere sociale, culturale o biologico. Dare risposte articolate in tempi abbastanza brevi è divenuto un fattore determinante, soprattutto per garantire flessibilità operativa e capacità di risoluzione delle problematiche che si presentano di volta in volta. Ovvero, l'antropologia è capace di favorire adattamenti di diversa natura allorquando sia necessario seguire un cambiamento. Ma lo scarso riconoscimento che la figura 10 A tal proposito, uno degli Autori del presente articolo ha affrontato l'argomento in modo più dettagliato sul blog 'Professione Antropologo', citato in bibliografia. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 197 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. dell'antropologo ottiene non consente di operare attivamente su questi cambiamenti, nonostante si sia visto che le condizioni di mercato esistano. Soprattutto ora, che i mutamenti di quegli assetti economici che sembravano monolitici impone una seria riflessione e un ripensamento di un intero sistema culturale. L'antropologo deve, innanzitutto, saper riconoscere questi nuovi campi di intervento e deve saper utilizzare anche strumenti che, a prima vista, non fanno parte del suo bagaglio formativo. Deve, in poche parole, saper osare. Solo così, uscendo da un non-ruolo in cui la sua figura è stata confinata, potrà esprimere la sua professionalità. In questo, le associazioni di antropologi sono un aiuto e nel contempo uno stimolo, a patto di sapersi confrontare e trovare momenti di dialogo costruttivo sia al loro interno che all'esterno, conservando comunque le proprie specificità, essendo state plasmate dai bisogni e dalle necessità che hanno portato proprio alla loro nascita. Antrocom onlus, il cui progetto di base ha toccato nel 2012 i dieci anni di esistenza, è una delle associazioni che hanno iniziato a creare le condizioni per questo dialogo e per il riconoscimento della professione dell'antropologo. È però necessario andare oltre e visualizzare una nuova visione che spinga l'antropologia oltre i limiti autoimposti per far emergere quelle componenti di innovazione che sono proprie della disciplina. A partire dalla formazione, procedendo per piani e progetti concreti, bisogna ripensare l'intero percorso di costruzione dell'identità dell'antropologo. Costruzione che, in realtà, si muove su due piani distinti quanto compenetrati: ricostruzione verso l'interno, nel senso che il singolo antropologo deve prendere coscienza del proprio ruolo e della propria identità professionale; costruzione verso l'esterno, dove la 198 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. formazione dell'immagine pubblica deve passare per il contatto diretto con le istituzioni e soprattutto con i cittadini. L'antropologo deve dunque prendere possesso del ruolo che gli appartiene, utilizzando gli strumenti che ha a disposizione e il filtro conoscitivo della realtà che gli è proprio. L'associazionismo antropologico sembra aver riconosciuto il problema e aver indicato le possibili soluzioni. In alcuni casi ha proposto anche interventi concreti, che tuttavia vanno ampliati e ridiscussi alla luce degli ultimi cambiamenti socio-economici. Solo un approccio partecipativo riuscirà a proporre soluzioni durature nel tempo. Solo la persecuzione di un obiettivo comune porterà a quella condivisione e a quella sinergia necessarie per far emergere la figura professionale dell'antropologo senza passare attraverso uno sterile corporativismo. Bibliografia DE GIORGI, A. 2002 Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, Roma, DeriveApprodi. GALASSO, L. - TIZIANI, M. 2007 “Antrocom, an opportunity for Anthropology”, in Journal of Anthropological Sciences, 85, pp. 195-203, consultato il 15/06/2012 su http://www.isitaorg.com/jass/Contents/2007%20vol85/Articoli/Tiziani.pdf GERSHENFELD, N. 2008 Fab - Dal personal computer al personal fabricator, Torino, Codice Edizioni (ed. or. 2008, FAB: The Coming Revolution on Your Desktop-From Personal Computers to Personal Fabrication, New York, Basic Books) ICOM (INTERNATIONAL COUNCIL OF MUSEUMS), 2004 Codice etico dell’ICOM per i musei, consultato il 15/06/2012 su http://icom.museum/fileadmin/user_upload/pdf/Codes/italy.pdf Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 199 Tiziani M., Galasso L., La valorizzazione dell'antropologo come figura professionale. MELOSSI, D. 2002 Stato, controllo sociale, devianza, Milano, Bruno Mondadori. LOWENTHAL, D. 1985 The Past is a Foreign Country, Cambridge, Cambridge University Press. TIZIANI, M. 2011 Un ordine professionale per gli antropologi?, consultato il 15/06/2012 su http://www.professioneantropologo.it/2011/06/02/un-ordineprofessionale-per-gli-antropologi/ 200 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I, n°1 Gli autori Domenico Branca è dottorando in Antropologia Sociale e Culturale all'Universitat Autònoma de Barcelona dove lavora ad un progetto sull’etnonazionalismo fra gli Aymara del sud peruviano. Ha condotto ricerche sul campo a Derry (Irlanda del Nord) e in Sardegna. Emiliano Branca, studente magistrale di Servizio Sociale e Politiche Sociali all'Università di Sassari, si occupa dello studio della devianza e della marginalità minorile, della storia della famiglia e del controllo sociale letto attraverso una prospettiva storico-sociale. Manuela Casu, dottoranda in Studi filologici e letterari presso l’Università di Cagliari con un progetto incentrato sull’analisi del patrimonio culturale indigeno all’interno dei curricula scolastici di EIB (educación intercultural bilingüe) elaborati da Formabiap, ha partecipato al progetto di ricerca Amazonía: mitos occidentales y pensamiento indígena contemporaneo. Ha svolto ricerca sul campo ad Iquitos (Perù) e ha realizzato un laboratorio di scrittura creativa presso la scuola di Formabiap. Lucia Galasso, laureata in Antropologia culturale, è segretario nazionale di Antrocom Onlus, associazione di ricerca e di divulgazione antropologica, e Direttore scientifico del Museo della Civiltà Contadina e dell’Ulivo di Pastena (FR). Specializzata nello studio dell’evoluzione culturale, dell’antropologia alimentare e della storia delle religioni. Valentina Mura, laureata in antropologia culturale presso l'università di Sassari, si occupa di studi sulle comunità rom e di dialogo interculturale Stefano Pau, dottorando in Studi Filologici e Letterari con specializzazione in Letteratura Ispanoamericana, si occupa della raccolta e dell’analisi di opere di letteratura scritta e orale peruviana e dell conflitto armato interno peruviano dell'ultimo quarto del XX secolo. Alessandro Pisano, laureato in antropologia culturale a Sassari, ha condotto ricerche nel campo dell’antropologia delle migrazioni e dei processi di costruzione identitaria in Sardegna. Davide Stocchero, laureato in psicologia sperimentale e perfezionato in antropologia culturale a Padova, ha fatto ricerca sul campo in Guinea Bissau. Socio di Antrocom Onlus, si interessa di antropologia applicata e di innovazione culturale e sociale. Moreno Tiziani, presidente dell’associazione di ricerca e divulgazione antropologica Antrocom Onlus, si occupa di divulgazione dell'antropologia e delle sue potenzialità per le aziende e le istituzioni tramite articoli e consulenze. 203