È una parola stupenda, troppo spesso tenuta in ostaggio dall

I SOGNI VERI
CAMMIN ANO
PER IL M ONDO
COVER STORY
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È una parola stupenda, troppo
spesso tenuta in ostaggio
dall’introspezione. Invece
se si dà credito ai sogni, anche
le imprese più incredibili
diventano possibili.
Queste pagine sono dedicate
a tutti coloro che voglion
buttar fuori i loro sogni
VITA — settembre 2015
C
—di Giuseppe Frangi
iascuno cresce solo se sognato». È bellissima questa frase di Danilo Dolci, che meglio
di ogni altro giro di parole spiega il senso
di questo servizio di copertina di Vita. Quel
“ciascuno” riguarda le persone, noi, perché tutti siamo stati sognati, cioè desiderati, da chi
ci ha fatto nascere e magari ha anche sognato idee,
progetti, futuro per noi. Ma al posto di “ciascuno”
potremmo anche mettere “ogni cosa”. Ogni impresa, ogni avventura dell’uomo è stata infatti prima
in qualche modo sognata. È il sogno che dà l’energia per osare, per fare quel balzo che rende realistico e verosimile l’inimmaginabile. È l’energia del sogno che trasmette l’audacia per tentare. E questo
accade in ogni ambito della vita. “Butta i sogni fuori dalla testa” è l’input lanciato dalla copertina di
Vita disegnata da Olimpia Zagnoli. È un invito, che
le storie raccontate nelle prossime pagine vogliono
rendere del tutto persuasivo. Perché chi ha l’energia di assecondare i propri sogni, non rende felice
solo se stesso, ma rende più felice il mondo. Accade così alle centinaia di ragazzi coinvolti dalla straordinaria “non-scuola” di Marco Martinelli, accade
così a tutti coloro che grazie a Reinhold Messner
scalano la montagna senza bisogno di essere alpinisti, accade ai cittadini di Matera, che con un sindaco come Raffaello De Ruggieri possono davvero
sognare di essere i primi “abitanti culturali” d’Italia. Naturalmente c’è un sogno nella testa di ciascuno dei 500 imprenditori sociali che dal 10 settembre si trovano a Riva del Garda per l’appuntamento
annuale organizzato da Iris Network. Un sogno “da
buttar fuori” nell’arena della vita. In cui credere e
su cui investire.
settembre 2015 — VITA
COVER STORY
Ermanna Montanari
e Marco Martinelli, fondatori
del Teatro delle Albe
COME... SI COSTRUISCE UN SOGNO
Marco Martinelli, regista e attore, insieme alla moglie
Ermanna Montanari, da 20 anni lavora ad un
progetto straordinario. Lo hanno chiamato la “non
scuola”. Porta in scena i ragazzi, da Scampia a
Ravenna, da Milano a Lamezia, facendone non solo
attori, ma uomini e donne sottratti alle mode
—di Anna Spena
E
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MARTINELLI.
SEMINAR TEATRO,
OVVERO
LA MESSA IN VITA
Sopra, Martinelli dirige i 200
ragazzi in l’Eresia della felicità
al Castello Sforzesco di Milano
VITA — settembre 2015
siste una gratitudine magnifica negli occhi di Gianni e Valeria. Tangibile. Con una forza piena, evidente.
Gianni e Valeria sono l’esito di un sogno
realizzato, quello di Marco Martinelli e di
sua moglie Ermanna Montanari, entrambi artisti. Gianni, 27 anni, di Scampia,
nel 2005 si è imbucato nella “non-scuola” che Martinelli teneva a Napoli. Con
Valeria, 25 anni, anche lei allieva della
“non-scuola”, oggi lavorano nella compagnia teatrale Punta Corsara (vedi box).
Sono la prova tangibile che un sogno vero ne genera sempre un altro.
«La storia della non-scuola, è lunga»,
esordisce Martinelli, poi sorride. La costruzione di un sogno, di un sogno vero,
è spesso una storia lunga.
«Devo partire da me ed Ermanna»,
racconta Martinelli. «Immagina che a 19
anni ti innamori fortemente di una persona, nasce tutto da lì. La non-scuola
nasce perché io mi sono innamorato di
Ermanna e lei di me. Eravamo due bambini, due asinelli. Asinelli nel senso che
non sapevamo nulla del teatro e della vita. Asinelli nel senso che ci siamo costruiti a vicenda. L’unica certezza che avevamo è che eravamo innamorati e che,
entrambi, avevamo qualcosa dentro, un
fuoco che ci bruciava».
Oggi, ma da sempre, lavoro e amore si
confondono per loro. «Che bella la confusione», sorride Marco. «Tutto si confonde, tutto si fonde».
Ermanna e Marco si sono sposati giovanissimi, a 21 anni. Senza grandi risorse, con ancora poche competenze in
materia di teatro, guidati solo da due
certezze: fare teatro, e soprattutto farlo insieme. I primi anni sono quelli che
Marco chiama “di apprendistato selvaggio”. Studiavano da autodidatti, facevano qualche laboratorio, qualche seminario, però, è in quei momenti che si inizia
a tracciare la strada del percorso da intraprendere. «Volevamo fare la nostra
scuola», dice Marco. «Il nostro maestro
era l’errare. Attribuiamo a questa parola
i due sensi che ha: quello di camminare,
andare, senza dimenticare che “l’errante” è anche quello che sbaglia. Sapevamo già che avremmo imparato dai nostri
errori. La verità è che ci siamo costruiti a vicenda. Siamo stati maestro l’una
per l’altro».
Nel 1983 Marco ed Ermanna incontrano Luigi Dadina e Marcella Nonni,
compagni di strada. Insieme, loro quattro, fondano, nello stesso anno, il Teatro
delle Albe. «Il nostro sapere teatrale stava crescendo», dice Marco, «facevamo
più spettacoli; qualcuno riusciva bene,
qualcuno no. Un po’ guadagnavamo con
il teatro, un po’ con dei lavoretti. Io d’estate ho fatto lo spazzino, Ermanna serviva ai tavoli di un bar. Ti facevi le scorte per l’inverno. Il teatro, nei primi anni,
non ti poteva dare da vivere, non eri nessuno e soprattutto nessuno ti conosceva. È sempre così per i gruppi all’inizio».
Poi gli spettacoli sono diventati più
belli, il Teatro delle Albe inizia ad uscire dai confini di Ravenna. Marco non distingue il momento in cui il teatro diventa lavoro, e soprattutto non riconosce il
passaggio che da apprendista di teatro
lo vede trasformarsi in regista, drammaturgo, artista affermato. «Siamo ancora
apprendisti. Si apprende fino alla fine. È
un’eterna formazione, come la vita; anche la vita è un’eterna formazione. Bisogna imparare sempre a vivere, cambiamo fisicamente, invecchiamo. Ci sono
ostacoli e domande sempre nuove».
Ma, un punto di svolta, esiste. «Una
favola», la definisce Marco, «non saprei
raccontarla in altro modo. Era il 1991, il
direttore dei teatri di Ravenna doveva
andare in pensione. Noi in città eravamo gli unici veri appassionati di teatro.
Eravamo un gruppo di strani anarchici che si era costruito il proprio mondo.
Quando mi ha chiamato per dirmi se volevamo prendere noi la gestione dei teatri avevo 35 anni».
Il sogno che li aveva fatti muovere,
prende corpo. Uno spazio per fare arte,
vivere di teatro. L’obiettivo era non tradirlo quel sogno, farlo crescere, prosperare. Generare altro da sé e diventare sogno per altri. «Quel dono che ci ha fatto
il comune di Ravenna e il destino», continua Martinelli, «poteva essere un cavallo di Troia. Un dono che un poco ci
poteva snaturare. Noi siamo nati e continuiamo ad essere presi da una passione e da un senso del teatro che non può
esistere come evasione stupida. Il teatro
è lo specchio di quello che è l’umano, un
senso di bellezza profonda, incarnata».
Il Teatro delle Albe non voleva trasformarsi in un gruppo di burocrati,
funzionari attaccati alla poltrona. «L’unico modo per superare questo pericolo», spiega Marco, «era tenere spalancate le porte dei teatri. Aperte a tutti.
Soprattutto ai giovani, sono loro i germogli che tengono un luogo vivo. Così
nasce la non-scuola, come antidoto al
grigio, come controveleno».
A 35 anni Marco ed Ermanna decidono di andare dove ci sono i ragazzi, nelle scuole. Fare teatro con gli adolescenti è il “punto di messa in vita”, come lo
chiama lui. Non è una messa in scena,
ma una messa in vita: l’inizio.
settembre 2015 — VITA
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COVER STORY
Marco Martinelli:
«La “non-scuola” si basa su una sola regola:
è aperta a tutti. È uno spazio di libertà
e creazione che appartiene ad ogni essere
umano. Ogni corpo racconta qualcosa.
Ogni volto è un romanzo»
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«Ai ragazzi, d’istinto, proponemmo i
classici. Shakespeare, Molière, Aristofane. “Che cos’è l’amore per voi?”, gli
chiedevamo. L’amore è un terreno caldo. “Sogno di una notte di mezza estate”
di Shakespeare è tutto improntato sull’amore, sul fatto che di giorno ne ami una
e di notte ti viene da amarne un’altra.
E questo succede a tutti, no? Soprattutto nell’adolescenza, dove l’amore è una
scoperta quotidiana; un territorio sconosciuto. Sei in questa età di mezzo, bellissima, sbilenca, strampalata, dove vuoi
essere tutto, puoi anche essere tutto con
l’immaginario e la fantasia. È un’età fortemente teatrale, puoi incarnare tutte le
parti. Chi sarò da grande? Questa è la domanda che brucia».
La “non-scuola” a Ravenna ha un grade successo; in tre anni da 80 ragazzi che
partecipano si arriva a 400. Con una
struttura semplice, precisa e incredibilmente sempre nuova, perché la novità
la fanno i giovani, con le paure, i desideri, le passioni. Una volta alla settimana si va nelle classi, si presenta un testo
classico che scompare per riapparire solo quando gli adolescenti capiscono che
c’è un legame evidente tra loro e l’autore. Aristofane e le parolacce, Shakespeare e l’amore.
Si crea un’altra vita, un’altra storia
rispetto al testo da cui si era partiti. A
crearla sono i ragazzi. «Il segreto della
“non-scuola” sta proprio in questa alchimia», racconta Martinelli, «alchimia tra
i classici e gli asinelli che dimostra come alla base di tutto ci sia Dioniso. C’è
quel dio del teatro che i greci veneravano 2500 anni fa e che ancora oggi è dio
del teatro quando il teatro è vero, quando è potente. A Dioniso eravamo fedeli
VITA — settembre 2015
anche prima della “non-scuola”, anche
lui è “asinino”».
Passano 15 anni dalla nascita della
“non-scuola”, è il 2005. I membri del Teatro delle Albe da quattro sono diventati 35. «Io ed Ermanna decidemmo di
saldare i due percorsi che fino a quel momento erano stati paralleli», spiega Marco. «Allo spettacolo “I Polacchi” partecipano anche 12 adolescenti che avevano
lavorato con noi alla “non-scuola”».
Il sogno è bene lasciarlo camminare...
Nel 2005 Ermanna e Marco accolgono la
sfida intuitiva di Goffredo Fofi, “amico e
critico appassionato del nostro lavoro”
lo descrive Martinelli. «Goffredo», racconta Marco, «ci disse: “beh, è facile fare
la ‘non-scuola’ a Ravenna. Venitela a fare a Scampia”. Pensare di lavorare a Napoli era una bella sfida. Ogni settimana
facevamo 12 ore di treno, una follia. Una
follia voluta».
Lavorare a Napoli, lavorare a Scampia, è diverso rispetto a Ravenna. Il metodo della “non-scuola” si deve reiventare per abbracciare e radicarsi in un
tessuto sociale complesso. «Eravamo
abituati a lavorare con più scuole contemporaneamente», spiega Marco, «per
ogni scuola, poi, c’era uno spettacolo finale. A Napoli sperimentiamo per la prima volta la possibilità di unire i gruppi
per un unico spettacolo finale. Lavoravamo con i ragazzi del liceo classico Antonio Genovesi, del liceo scientifico Elsa
Morante, della scuola media Carlo Levi e
con il gruppo di adolescenti “chi rom… e
chi no” dell’associazione Gridas. Era un
rischio, io stesso non avevo mai lavorato
con tanti ragazzi insieme. Ma nel rischio
c’è sempre qualcosa che ti dà forza e poi
ti salva. Sono stati anni bellissimi quelli
napoletani, ma la prima volta che sono
arrivato mi sono detto “io ce la farò?” A
Scampia erano solo botte, non riuscivo
mai a parlare, a volte le prendevo pure
io per dividere i ragazzini».
La “non-scuola” napoletana prende
il nome di Arrevuoto, nome assegnato
dagli stessi ragazzi ai laboratori di Martinelli. Quando lui ha chiesto «Ragazzi
ma che stiamo facendo qui?», loro hanno risposto con la classica espressione napoletana «è stamm arrevutann».
La traduzione italiana dell’espressione
è più o meno impossibile. Ma ha a che
fare con qualcosa di bello, con qualcosa
di grande, con qualcosa che si muove e
che smuove.
Tutta la “non-scuola” si basa su una
sola regola: è aperta a tutti. È uno spazio
di libertà e creazione che appartiene ad
ogni essere umano. «Perché», come spiega Marco, «in tutti gli essere umani c’è un
livello di teatralità. Ogni corpo racconta
qualcosa. Ogni volto è un romanzo, una
vita, c’è dentro tutto».
La “non-scuola” è arrivata in tante regione italiane e in Paesi stranieri. Ma se
Ravenna è la madre, l’esperienza napoletana ha sapute generare altro da sé. «Dopo tre anni di Arrevuoto», racconta Martinelli, «nasce Punta Corsara».
Gianni e Valeria erano adolescenti
quando hanno conosciuto Marco. Partecipavano ai suoi laboratori e oggi fanno parte della compagnia dei “corsari”.
Vogliono fare del teatro il loro mestiere.
«Succede che a volte qualcuno si ammali
di teatro. Per Gianni e Valeria è successo.
La gratitudine che loro mi hanno dimostrato, è la stessa che io restituisco a loro», dice Martinelli. «Sono pieno di gratitudine per loro e per tutti gli altri ragazzi.
Tre dei 200 ragazzi
protagonisti dell’Eresia
della felicità
È questa gratitudine che mi tiene in vita,
come l’amore per Ermanna».
L’ultima prova che il sogno di Ermanna e Marco, era un sogno-sogno, di quelli che una volta usciti fuori dalla propria
testa entrano in quella degli altri, la si è
avuta lo scorso mese di luglio a Milano.
Il sogno è passato infatti per le mani di
200 adolescenti, vestiti in pantaloni neri e maglia gialla, ai testimoni-spettatori
che al Castello Sforzesco, sono stati ogni
sera più numerosi.
«In una delle sue poesie, Majakovskij
scrive “mi cucirò calzoni neri col velluto
della mia voce e una blusa gialla con tre
metri di tramonto”. Scegliere i costumi
per i ragazzi, quindi, non è stato difficile», spiega Martinelli. «Avevamo già in
mente da un po’ Majakovskij, non quello post rivoluzione russa ma quello che
vuole la rivoluzione russa, che desidera
il cambiamento. Le poesie giovanili erano perfette».
Eresia della felicità, questo il titolo
dello spettacolo, era nato nel 2011 per
PUNTA CORSARA
ECCELLENZA
DI SCAMPIA
il Festival di Santarcangelo, portando
in scena decine di ragazzi dalle varie
“non-scuole” avviate in Italia e all’estero. «Spiegare che cos’è Eresia è difficile: per me è un tuffo al cuore ogni volta che la faccio. È qualcosa di smisurato
che prende le persone; dai critici fino alle mamme con i bambini che, a teatro,
non sono mai state. La prima cosa che
dico ogni volta agli spettatori è “non avete pagato il biglietto, non siete spettatori ma testimoni. State qui con noi. Noi
lavoriamo”».
Tre ore di spettacolo che rompono
con il pregiudizio di adolescenti spenti, vuoti, assuefatti da tablet e cellulari.
Tre ore dove i ragazzi giocano a fare teatro ma con disciplina. «Eresia della felicità racconta benissimo e in poche ore
il processo del lavoro fatto in tanti anni.
Anche se, quando siamo lì, è importante non ripetere quello che abbiamo fatto prima. Io, che in quelle tre ore guido
i ragazzi, devo essere il primo a rimanere sorpreso di quello che sta avvenendo.
Punta Corsara è una compagnia teatrale nata
nel 2007 come progetto di impresa culturale
della Fondazione Campania dei Festival per il
Teatro Auditorium di Scampia ed è diventata
nel 2010 associazione culturale indipendente.
La compagnia è nata dopo i laboratori della
“non-scuola” di Marco Martinelli e come
evoluzione del progetto Arrevuoto, di cui
Martinelli stesso racconta in queste pagine.
Dalla “non-scuola” vengono ad esempio
Gianni Vastarella e Valeria Pollice che Vita
ha incontrato per la realizzazione di questa
inchiesta. Punta Corsara ha vinto il Premio
Speciale Ubu 2010 per i migliori attori under
Eresia è veramente uno scambio d’amore tra tutti noi».
Lo spettacolo inizia con un rito: tutti i 200 ragazzi, uno alla volta, gridano
il proprio nome. Tutti gli altri, insieme,
poi, lo ripetono. «È una cosa abbastanza giù di testa», sorride Martinelli, «ma
potente per chi guarda». Poi, nella prima parte, il regista lavora con un’ottava
dell’Orlando innamorato di Boiardo. «È
come se fosse un rap; io faccio da corifeo e loro, i ragazzi, mi vengono dietro.
Ogni giorno invento cose diverse, combinazioni nuove. I ragazzi sanno che in
quel momento nasce una cosa nuova».
La seconda parte è centrata su Majakovskij. I ragazzi che diventano un coro. A Milano il sogno è passato dalle loro
mani agli spettatori «perché ci è venuta l’idea alla fine di accarezzarli uno ad
uno. Nell’accarezzarli non c’era niente
di stonato». Non c’era niente di stonato perché, come hanno urlato i ragazzi
recitando Majakovskij, «su un cuore in
fiamme ci si arrampica con le carezze».
30 (e sia Gianni sia Valeria erano nel gruppo
dei premiati) e il premio Hystrio – Altre Muse
sempre nel 2010. Marco Martinelli e Debora
Pietrobono sono stati alla direzione artistica
e organizzativa fino al 2009, poi hanno
affidato la guida del progetto ad Emanuele
Valenti e Marina Dammacco, loro assistenti
sin dall’inizio del percorso. Oggi il gruppo dei
corsari è costituito da una dozzina di persone
tra giovani attori, organizzatori e tecnici.
Punta Corsara ha anche affiancato alla
programmazione un percorso di formazione
per i mestieri dello spettacolo rivolto a un
gruppo di venti borsisti tra i 18 e i 23 anni.
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