DIRITTO AL IM ASSO E TAR EN CI LIANA E ITA ION Z A N IT AL IA N FOOD C L AW A S S O I I AT O rivista di diritto alimentare www.rivistadirittoalimentare.it Anno VII, numero 1 • Gennaio-Marzo 2013 Contratti e mercati di prossimità e di territorio dei prodotti agroalimentari Francesco Adornato 1.- La base giuridica dei mercati di prossimità La nostra riflessione non può che prendere avvio dall’art. 39, par. 1, del Trattato di Roma, il quale, con riferimento anche all’argomento qui affrontato, costituisce la base “costituzionale”1 delle politiche agricole comunitarie e altresì nazionali in ragione della primazia del Trattato sul diritto interno2. Molto opportunamente, e non a caso, il tema propostomi è declinato al plurale, “mercati di prossimità”, perché plurale è intanto il profilo fenomenico (i mercati, cioè), ma, ancor più significativamente plurale è la sostanza giuridica dell’intero articolo 39, e non solo del suo secondo paragrafo3. Un’attenta e sistematica lettura, infatti, delle finalità della Pac4, di cui al primo paragrafo del citato articolo 39, ci consente considerazioni molto significative, attuali e d’orizzonte. Intanto, la finalità produttivistica di cui alla lettera a) (incrementare la produttività dell’agricoltura) stempera la sua connotazione economicistica alla luce, in primo luogo, della lettera b), che collega (e contamina) l’incremento medesi- 15 mo all’obiettivo di “assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola, grazie in particolare (sottolineatura nostra) al reddito individuale di coloro che lavorano in agricoltura”. Emerge, dunque, un contenuto sociale dell’agricoltura e delle (finalità delle) politiche agricole, l’equità, ulteriormente corroborato dalla lettera e) del medesimo par. 1 dell’art. 39, per via dell’obiettivo di “assicurare prezzi ragionevoli nelle consegne ai consumatori”. Mercato, dunque, ma non “mercatismo”5, nel senso che sembra delinearsi dall’insieme dell’art. 39, un modello di “economia sociale di mercato”6, il quale sembra, a sua volta, sostanzialmente richiamarsi all’impianto costituzionale italiano7. Ma ciò che a noi più preme sottolineare, in questa circostanza, sempre con riferimento all’art. 39, è ancora altro e conduce direttamente alla sostanza dell’argomento posto. La lettera c) del 1° paragrafo del citato articolo assegna, infatti, alla Pac la finalità di “stabilizzare” (to stabilise markets, nel testo inglese e de stabiliser les marchés in quello francese), usando il plurale non come riferimento generico e indistinto a lontani e sconosciuti Moloch8, ma volendo piuttosto richiamare sia le dinamiche economiche, che la pluralità delle forme, spaziali e modali, entro cui si realizzano gli scambi commerciali9: dunque, anche quelle riconducibili alla dimensione della c.d. filiera corta. Peraltro, sembra a noi che tale interpretazione sia corroborata dalla successiva e congiunta lettura della finalità di cui alla lettera d) di “garantire la sicurezza degli approvvigionamenti (to assure the availability of supplies; de garantir la sécurité des approvisionnements), in cui la declinazione (anche in (1) Vedansi, in merito, Corte di Giustizia (parere 1/91 del 14 dicembre 1991 – e sentenza 23 aprile 1986 (causa 294/83, Parti écologiste Les Vertes) per la quale “il Trattato CEE, benché sia stato concluso in forma di accordo internazionale, costituisce la Carta costituzionale di una comunità di diritto”. In dottrina, cfr. A. Germanò – E. Rook Basile, Manuale di diritto agrario comunitario, II^ ediz., Torino, 2010, 23; L. Costato – L. Russo, Corso di diritto agrario italiano e comunitario, Padova, 2008. (2) Sul punto, in particolare, L. Costato, Compendio di dritto alimentare, Padova, 2002, 28 ss., ove si riporta la Giurisprudenza Costituzionale. (3) Cfr. F. Adornato, Di cosa parliamo quando parliamo di agricoltura, in Agricoltura Istituzioni Mercati, 2004, 5 ss. (4) Come è stato rilevato, “procedendo all’analisi delle suddette finalità, è dato immediatamente riscontrare l’ampiezza delle stesse, quanto la difficoltà del loro contemperamento […]: cosicché la Corte di giustizia ha dovuto precisare che i detti obiettivi possono non essere perseguiti allo stesso modo tutti e simultaneamente, essendo invece necessario che risulti che le istituzioni si siano preoccupate di garantire il contemperamento degli scopi anche se, nella specifica normazione, abbiano dato preminenza temporanea a uno o all’altro fine, in relazione delle particolari circostanze in cui esse intervengono nell’ambito della loro ampia discrezionalità”: così, A. Germanò – E. Rook Basile, Manuale di diritto agrario comunitario, II^ ediz., Torino, 2010, 97. Molto significativamente, la Corte di giustizia, a proposito della Pac, già nel 1963 (causa 90-91/63) aveva stabilito che essa è una combinazione di provvidenze e norme giuridiche in base alle quali le autorità competenti cercano di regolare e controllare il mercato. (5) Su quest’ultimo profilo, cfr., recentemente, H. Joon Chang, 23 cose che non ti hanno detto sul capitalismo, Il Saggiatore, Milano, 2010, in particolare, 17 ss. (6) Cfr., sia pure nei suoi brevi accenni, A. Germanò – E. Rook Basile, op. cit., 49 ss. (7) Con riferimento al dettato costituzionale italiano, autorevolmente, S. Cassese, La nuova Costituzione economica, Bari-Roma, V^ ed., Padova, 2011, 3. (8) Cfr., in merito, G. Akerlof-R. Shiller, Spiriti animali, Milano, 2009. (9) Non a caso, da questo punto di vista, le filiere corte “oltre ad essere caratterizzate dall’assenza di intermediari fra i produttori e i consumatori, sono basate sulla dimensione locale della produzione, trasformazione e commercializzazione”: così, C. Cicatiello, S. Franco, Filiere corte e sostenibilità: una rassegna degli impatti ambientali, sociali ed economici, in La questione agraria, 2012, 3, 47. Proprio recentemente Habermas ha osservato che “i mercati sono sistemi autocontrollati che coordinano in modo decentrato una quantità inimmaginabile di singole decisioni”: cfr. J. Habermas, Un passo indietro, in La Repubblica, 23 settembre 2012. AL ASSO CI DIRITTO N IT AL IM E TAR EN LIANA E ITA ION Z A IA N FOOD C L AW A S S O I I AT O rivista di diritto alimentare www.rivistadirittoalimentare.it Anno VII, numero 1 • Gennaio-Marzo 2013 questo caso) plurale rimanda alla pluralità delle dinamiche e delle forme prima citata, mentre l’espressione “sicurezza” (proprio perché indistintamente indicata) rinvia sia ai suoi profili quantitativi (security), che qualitativi (safety)10. Ad avvalorare, conclusivamente, questa interpretazione plurale dei contenuti (anche) del primo paragrafo dell’art. 39 del Tfue soccorre, infine, il riferimento, nella citata lettera b), innanzitutto, alla popolazione agricola (nome collettivo che rimanda, cioè, ad una pluralità di figure, the agricultoral community; à la population agricole) e inoltre (in modo altrettanto esplicitamente plurale) a coloro che lavorano in agricoltura (persons engaged in agricolture; ceux qui travaillent dans l’agriculture). In sostanza ci troviamo davanti ad un impianto giuridico che disegna un sistema compiutamente plurale in agricoltura: delle attività, delle politiche, dei soggetti, dei mercati. 2.- “Politeismo” alimentare e filiere corte All’interno di un andamento generale di mutata composizione strutturale dell’agricoltura italiana11, i consumi alimentari si sono caratterizzati in questi ultimi anni, “per essere al centro di un processo di trasformazione più ampia, che investe una molteplicità di dimensioni associate all’acquisto, quali il prezzo (o meglio il rapporto qualità / prezzo), la componente di servizio, il grado di sostenibilità ambientale e sociale delle produzioni (biologico, equo e solidale, …), la funzione salutistica, ecc… Tendenze [queste] sostenute – anche – da fattori economico-occupazionali, quali l’incremento della disoccupazione, la modifica dell’organizzazione del lavoro e la riduzione del reddito disponibile, ma anche da elementi di natura demografica e sociale”12, tra 16 cui, in particolare, la trasformazione delle tipologie familiari e la crescita della popolazione straniera, che influenzano modalità, stile e percezione di determinati alimenti. Si è andata così consolidando, in modo (che potremmo definire) coerente “la dinamica che ha portato, nelle scelte alimentari più che in qualsiasi altro settore, alla ‘sovranità del consumatore’. Il Censis l’ha chiamato politeismo alimentare, in parole povere gli italiani quando si tratta di cibo non hanno un’unica ‘fede’, ma si barcamenano tra diverse convinzioni ed esigenze […]”13. In questo contesto maturano ed assumono ulteriore connotazione i fenomeni e le forme della c.d. filiera corta, ovvero “tutte quelle modalità di commercializzazione alternative alla grande distribuzione organizzata su scala globale che si caratterizzano, da un lato, per la riduzione o l’eliminazione degli intermediari fra produttori agricoli e consumatori e, dall’altro, per la dimensione locale delle transazioni commerciali”14. Sul piano squisitamente economico-commerciale, “la vendita diretta rappresenta quasi il 3% del totale dei consumi alimentari in Italia, ed è in continua e forte crescita”15, coinvolgendo “circa il 30% delle aziende [agricole] italiane, in particolare quelle di media dimensione, a indirizzo produttivo misto o specializzato nelle coltivazioni arboree e nei seminativi16. Tuttavia, “l’interesse per il fenomeno è giustificato dal fatto che le filiere corte toccano alcuni dei temi più attuali del dibattito sul cibo: la questione del paradosso alimentare; il problema del rapporto tra cambiamento globale, disponibilità di risorse naturali e produzione agricola; i conflitti economici che si generano tra attori diversi delle filiere agroalimentari; la questione delle interazioni fra città, luogo di consumo, e la campagna, luogo di produzione”17. (10) Cfr., in merito, L. Costato – P. Borghi – S. Rizzioli, Compendio di diritto alimentare, V ed., Padova, 2011, 3. (11) Su cui Inea, Rapporto sullo stato dell’agricoltura 2011, supplemento ad Agrisole del 16 dicembre 2011, specie 40 ss. (12) Ancora Inea, ult. cit., 43. (13) Così, G. De Rita, La crisi rende virtuosi i consumatori, in D. Cersosimo (a cura di), I consumi alimentari. evoluzione strutturale, nuove tendenze, risposte alla crisi, Gruppo 2013, Quaderni, edizioni Tellus, 2012, 134-135. (14) Così C. Cicatiello, D. Marino, S. Franco, Un focus sui consumatori che frequentano i farmer’s market, in I consumi alimentari, cit., 140. Dal punto di vista lessicale si registra una sovrapposizione tra il concetto di vendita diretta e di filiera corta, da un lato e, dall’altro, una molteplicità di forme commerciali che a questa dimensione appena citata, fanno riferimento, ovvero, tra queste, quelle così individuate: “1. Vendita diretta in azienda, fattoria, agriturismo; 2. Vendita diretta aziendale in punti aziendali organizzati: spacci, stand aziendali e punti vendita collettivi presso fiere, sagre e mercati rionali; 3. «farmer’s market» o mercati contadini; 4. Consegna a domicilio a singoli consumatori o a gruppi organizzati / «box scheme»; 5. Vendita per corrispondenza; 6. «e-commerce»; 7. Fornitura di prodotti a gruppi di acquisto; 8. Fornitura diretta dei prodotti alla ristorazione; 9. Cooperative di consumo, accordi produttori-commercianti; 10. Distributori automatici (latte crudo, spremute di arance, porzioni di frutta); 11. Raccolta libera sul fondo da parte dei consumatori («pick your own»); 12. Forme di vendita diretta innovative («vino su misura», «adotta una pecora»”. Così S. Giuca, Che cos’è la filiera corta, in Agricoltori e filiera corta. Profili giuridici e dinamiche socio-economiche, Atti del Convegno Inea, Roma, 30 maggio 2012 – in corso di pubblicazione). L’A. osserva come ci sia una sovrapposizione tra il concetto di vendita diretta e quello di filiera corta e come numerose esperienze di filiera corta abbiano natura concertativa. (15) Così, A.F. Pozzolo, I consumi alimentari in Italia in periodo di crisi, in I consumi alimentari, cit., 115. (16) Così S. Franco – D. Marino, Il mercato della Filiera corta. I farmer’s market come luogo di incontro di produttori e consumatori, a cura di S. Franco – D. Marino, in Gruppo 2013, Working paper, marzo 2012, n. 19, 3, che riportano i dati della Rete di informazione contabile agricola (Rica). (17) Così, S. Franco – D. Marino, Il mercato della Filiera corta, op. loc. cit. AL ASSO CI DIRITTO N IT AL IM E TAR EN LIANA E ITA ION Z A IA N FOOD C L AW A S S O I I AT O rivista di diritto alimentare www.rivistadirittoalimentare.it Anno VII, numero 1 • Gennaio-Marzo 2013 Peraltro, negli obiettivi della programmazione comunitaria 2014-2020 relativa allo sviluppo rurale, inserisce le filiere corte tra i sottoprogrammi (insieme ai piccoli agricoltori, ad es., alle zone montane, ai giovani agricoltori) tra i sottoprogrammi delle sei priorità nazionali, tra cui promuovere l’inclusione sociale, la riduzione della povertà e lo sviluppo economico nelle zone rurali18. Infine, da una specifica ricerca sulle “caratteristiche dei farmer’s market” [appositamente] selezionati, si è verificato che [nonostante l’unitarietà lessicale] esistono esperienze anche molto diverse fra loro, caratterizzate da modalità di gestione che influenzano in modo diretto le tipologie di prodotti venduti e l’organizzazione stessa del mercato [che] sembrano in grado di descrivere, pur con tutte le approssimazioni del caso, le pluralità (corsivo nostro) di esperienze attive in Italia”19. A ben vedere si tratta di un pluralismo che si esprime non solo con riferimento alle dinamiche economiche di vendita, ma rimanda, sorprendentemente, alla connotazione plurale delle figure soggettive venditrici, le quali per un lungo periodo storico-giuridico sono andate oltre la fattispecie precipua dell’imprenditore agricolo. 3.- Il percorso normativo dei mercati di prossimità e i soggetti venditori: dalla disciplina anteriore al codice del 1942 Una rapida disamina del percorso normativo in merito non solo conferma la fondatezza dell’assunto, ma offre una lettura illuminante ed attuale della dimensione proprietaria, specie in relazione alla sua “tensione dialettica” con l’impresa. Ovviamente, non sorprende la legislazione anteriore al codice del 1942, in cui vigente la duplicazione dei codici, civile e commerciale, la materia attinente all’agricoltura ha avuto come riferimento giuridico pressoché esclusivo lo spazio della pro- 17 prietà20, anche se, come è noto, tra la fione dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si svolse un intenso dibattito dottrinario, che, nel tentativo di definire i connotati dell’agrarietà, affrontò le zone grigie di confine tra materia agricola e materia commerciale21 e la dialettica proprietà/impresa22. L’unificazione dei codici, ma anche e soprattutto l’impostazione altrettanto unificata dell’attività economica, basata, dal punto di vista soggettivo, sulla figura dell’imprenditore e, da quello oggettivo, sul concetto di impresa23, aprono, come è stato autorevolmente rilevato, “al diritto agrario quelle possibilità che erano estranee agli schemi dei vecchi codici indifferenti per questo riguardo ad uno degli aspetti inconfondibili, più vitali dell’economia nazionale”24. Nel libro della proprietà del nuovo codice vengono, infatti, relegati tra gli aspetti statici del fenomeno agricolo (quelli connessi alla disciplina del fondo ed ai rapporti giuridici ad esso inerenti, ivi compresi gli aspetti di natura pubblicistica), mentre nel libro del lavoro “sono raccolte le norme relative all’esercizio dell’impresa agricola intesa come attività professionale del titolare di un complesso di elementi organizzati al fine produttivo”25, configurando, in tal modo, una piena legittimazione dell’aspetto dinamico (e progressivo) dell’agricoltura. Se è vero che il nesso tra proprietà e impresa adombrato nella relazione al codice26 “non risponde ad un criterio logico né ad un bisogno sistematico”27, è altresì innegabile il loro costante rapporto dialettico28, al punto che ancora oggi si considera l’art. 2135 cod. civ. “punto di emersione quanto mai significativo dell’irrisolta – appunto – dialettica tra i due istituti”29. Occorre, allora, accogliere l’autorevole invito di chi ha sostenuto che questo rapporto, perché non finisca per apparire, soprattutto in agricoltura, “una etichetta vuota di contenuto”30, necessita di un’indagine, sia pure sintetica, diretta a “controllare in qual modo si è pervenuti a dare risalto all’ «impresa» accanto alla «proprietà»”31. (18) Cfr. Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del consiglio sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (Feasr), Cam (2011), § 27 definitivo, Bruxelles, 12 ottobre 2011, art. 8. (19) Così, C. Cicatiello, D. Marino, S. Franco, Un focus sui consumatori, cit., 143. (20) Cfr. la fine ricostruzione di A. Jannarelli, Il dibattito sulla proprietà privata negli anni trenta del Novecento, in Diritto romano attuale, 2006, 16, 33 ss. e, successivamente, in Agricoltura Istituzioni Mercati, 2007. (21) Anche qui vedasi la precipua ricostruzione di Jannarelli in A. Jannarelli – A. Vecchione, L’impresa agricola, Torino, 2009, 4 ss. (22) Vedasi, sul versante forestale, F. Adornato, L’impresa forestale, Milano, 1996, 8 ss. (23) Cfr., in merito, R. Nicolò, Codice civile, in Enc. dir., VIII, Milano, 1960, 246. (24) Così, F. Vassalli, Il nuovo codice civile, in Nuova Antologia, 1942, giugno, 159, e, successivamente, in Motivi e caratteri della codificazione civile, in Studi giuridici, vol. III, tomo II, Milano, 1960, 617. (25) Così F. Maroi, L’agricoltura nel libro del lavoro del nuovo codice civile, in Riv.dir.agr., 1942, 123 ss. (26) Cfr. Relazione al libro del lavoro del codice civile, approvato con r.d. 30 gennaio 1941, n. 17, in Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, vol. 1 ter, Roma, 1941, 15. (27) Così N. Irti, Proprietà e impresa, Napoli, 1965, 1. (28) Considerato uno dei motivi fondamentali del nuovo codice da R. Nicolo, in Riflessioni sul tema dell’impresa e su talune esigenze di una moderna dottrina del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1956, I, 182 ss. (29) È opinione di R. Alessi, in L’impresa agricola, cit., in Il Codice civile. Commentario, a cura di P. Schlesinger, Milano, 1990, 4. (30) Così M. Giorgianni, Il diritto agrario tra il passato e l’avvenire, in Riv .dir. agr., 1964, I, 21ss., ora in Scritti minori, Napoli, 1988, 575. (31) Ancora Giorgianni, op.loc.cit.. Altrettanto esplicito è G.B. Ferri, in Alla ricerca del tempo perduto a cercarlo dove non si trovava, in Proprietà produttiva, cit., 94, il quale afferma che “il punto di partenza intorno alla definizione codicistica dell’imprenditore agricolo deve (…) prender le mosse prim’ancora che dall’assetto che il legislatore del 1942 ha dato a questo istituto, dall’esame delle novità che il nuovo codice ha introdotto in materia di diritto di proprietà”. AL ASSO CI DIRITTO N IT AL IM E TAR EN LIANA E ITA ION Z A IA N FOOD C L AW A S S O I I AT O rivista di diritto alimentare www.rivistadirittoalimentare.it Anno VII, numero 1 • Gennaio-Marzo 2013 Ritenendo, anche noi, proficue e feconde “le ricerche storiche nel diritto agrario”32, proveremo ad evidenziare, attraverso una ricostruzione storico-giuridica, l’evoluzione normativa della vendita diretta proprio per coglierne i tratti peculiari, il cui percorso sembra oggi mostrare i segni di un “ritorno al futuro”. Ovviamente, vigente la citata separazione dei codici, civile e commerciale, non fa specie se la legge n. 327/1934, nel disciplinare il commercio in forma ambulante e nel prevedere per gli agricoltori un regime di favore rispetto a quello previsto per i commercianti in sede fissa33, individuava i primi ne “i capi di famiglia agricoltori proprietari di terreni conduttori o coltivatori diretti, [ne] i mezzadri e i fittavoli, i coloni e gli enfiteuti e le persone delle relative famiglie [facenti] parte dell’azienda, [ma] che non fossero con queste in rapporto di dipendenza come salariati”34. L’accesso al mercato ambulante35 era subordinato alla richiesta al podestà della licenza di vendita, da rilasciarsi previa iscrizione, sia nel “Registro degli esercenti mestieri ambulanti”, sia nel “Registro delle ditte tenuto dall’ufficio provinciale delle corporazioni”36, e in ragione del versamento di un deposito cauzionale di 100 lire (fino al reddito annuo di ricchezza mobile di lire 4.999)37. A ben guardare, le ragioni di questo favor risiedevano nella politica economica e sociale del fascismo. Bisogna pur preoccuparsi – fu l’affermazione di Bottai in un discorso nel 1930 – che le sperequazioni al compenso di lavoro non inducano i coloni e i piccoli affittuari a spostare la propria attività […]38. Preoccupazione che andava inquadrata all’interno di una più specifica politica antiurbana del regime da tempo avviata. “La crisi agraria – infatti – che si ra manifestata come la 18 prima ed immediata conseguenza della rivalutazione [della lira], in molte zone si presenta nella classe dei proprietari irrisolvibile attraverso il tradizionale ricorso all’accentuata pressione economica sulla manodopera, proprio a causa della possibilità di «fuga» che la città continuava ad offrire alle masse contadine più sfruttate, ai giovani contadini più insofferenti alla vita rurale”39. Consentire, dunque, l’esercizio dell’attività di vendita anche ai coloni e, più in gnerale, agli agricoltori, serviva ad assicurare l’equilibrio nel controllo dell’offerta di manodopera nelle campagne. Lo stesso intervento pubblico nel secondo dopoguerra ha tentato – negli anni sessanta, senza peraltro riuscirci – di orientare secondo le linee dello sviluppo economico difforme dal paese”40, tenendo conto, cioè, del fatto che “il sistema produttivo nelle campagne fosse costituito da una moltitudine di piccole aziende … [e, non a caso] in campo sociale, nelle intenzioni erano soprattutto i programmi a favore della piccola proprietà contadina a essere considerati…”41. Senza minimamente voler affermare una continuità tra le politiche agricole del regime fascista e quelle del secondo dopoguerra, va osservato che analogo trattamento di favore di cui alla citata legge n. 327/1934 era riservato agli agricoltori che intendeva vendere i prodotti dei loro fondi è stato previsto dalla legge 31 marzo 1959, n. 12542. L’art. 3, infatti, esonerava dall’applicazione delle norme di cui al r.d.l. n. 2174/1926 (Disciplina del commercio di vendita al pubblico) coloro che intendessero esercitare il commercio all’ingrosso dei prodotti ortofrutticoli, delle carni e dei prodotti ittici, obbligandoli, invece che al rilascio della licenza di commercio, soltanto alla comunicazione alla Camera di commercio, (32) Trattasi di una risalente, e condivisibile, considerazione di G. De Semo, Corso di diritto agrario, Firenze, 1937, 10. (33) Secondo l’art. 4, comma 3, l. n. 327/1934, erano sottratti alla regola fissata dal r.d.l. n. 2174/1826 – disciplina del commercio di vendita al pubblico – secondo cui la concessione era subordinata alla rispondenza dell’attività “alle caratteristiche economiche della Provincia, alla densità della popolazione e alle reali esigenze della produzione, del commercio e del consumo. Recentissimamente, su questi profili, I. Canfora, Dalla terra al territorio: il ruolo dell’agricoltore nella filiera corta, in Agricoltori e filiera corta. Profili giuridici e dinamiche socio-economiche, in F. Giarè, S. Giuca, Inea, Roma, 2012, 32. (34) Così l’art. 46, r.d. n. 2255/1939, Regolamento per l’applicazione della legge 5 febbraio 1934, n. 327, che disciplina il commercio ambulante. (35) Agli effetti della legge n. 327/1934, secondo l’art. 1, era considerato venditore ambulante colui il quale avesse venduto a domicilio dei compratori, ovvero su aree pubbliche, purché la vendita non venisse effettuata sui mercati all’ingrosso o su banchi fissi di mercato al minuto coperti, ovvero in chioschi, baracche e simili, fissati stabilmente al suolo. (36) Vedi artt. 7 e 8 r.d. n. 2255/1939. (37) Secondo l’art. 9 della legge n. 327/1934, il rilascio della licenza non poteva essere negata quando fosse risultata provata la loro qualità di produttori diretti (corsivo nostro), venditori al minuto di prodotti al domicilio del compratore e sui mercati. In questo caso, gli agricoltori erano esonerati anche dal deposito cauzionale. (38) Il discorso di Bottari è riportato da C. Severini, La mezzadria nel regime fascista, Livorno, 1930, 341 ss. (39) Così, D. Preti, Economia e istituzioni nello Stato fascista, Roma, 1980, 60. (40) Così, L. Segre, Politica agraria e interventi pubblici, fra Piani Verdi e Comunità economica europea, negli anni sessanta, in G. Consonni, F. Della Peruta, G. Ghisio (a cura di), Stato e agricoltura in Italia 1945-1970, Roma, 1980, 365. (41) Ancora, L. Segre, op. cit., 365 e 369. (42) Norme sul commercio all’ingrosso dei produttori ortofrutticoli, delle carni e dei prodotti ittici, che ha dato avvio alla liberalizzazione dei mercati all’ingrosso di detti prodotti. Cfr., in merito, E. Romagnoli, Natura agricola della vendita al minuto, in Giur. agr. it., 1975, 144 ss. (43) Nella relazione di maggioranza alla legge in questione non si accenna all’impresa agricola, ma si fa riferimento generale agli scopi di liberalizzazione della normativa. AL ASSO CI DIRITTO N IT AL IM E TAR EN LIANA E ITA ION Z A IA N FOOD C L AW A S S O I I AT O rivista di diritto alimentare www.rivistadirittoalimentare.it Anno VII, numero 1 • Gennaio-Marzo 2013 industria e agricoltura della loro intenzione di esercitare la vendita all’ingrosso. L’art. 10 di detta legge dichiara “ammessi al mercato all’ingrosso, per la vendita dei prodotti appena citati i produttori (corsivo nostro) singoli e associati, anche se non iscritti nell’apposito albo tenuto presso la Camera di commercio, i consorzi e le loro cooperative di produttori e gli enti di colonizzazione. In sostanza, pur in piena vigenza del codice civile e della normativa sul coltivatore diretto, la legge fa riferimento non esclusivo, né esplicito, all’imprenditore agricolo, ma a “coloro (corsivo nostro) che intendano esercitare il commercio all’ingrosso” (dei prodotti ortofrutticoli, ittici e delle carni), includendovi in modo implicito, all’art. 3, gli imprenditori, salvo, poi, prevedere in modo esplicito, all’appena riportato art. 10, i produttori, figure del tutto differenti, come è ben evidente, dagli imprenditori43. Se nell’appena citata fattispecie trattavasi di vendita all’ingrosso, la legge 9 febbraio 1963, n. 5944, stabilisce all’art. 1 che i produttori singoli e associati non erano tenuti a munirsi delle licenze di cui al regio decreto legge 16 dicembre 1926, n. 2174 per la vendita al dettaglio nell’ambito del proprio comune o dei comuni viciniori dei prodotti ottenuti nei rispettivi fondi per coltura o allevamento […]. A tale proposito, l’art. 2 individuava i produttori agricoli ne “i proprietari di terreni da essi direttamente condotti o coltivati, i mezzadri, i fittavoli, i coloni, gli enfiteuti e le loro cooperative e consorzi”. Anche nella legge 11 giugno 1971, n. 426 (disciplina del commercio), questa indistinzione lessicale45 permane, visto che nel registro degli esercenti il commercio all’ingrosso e al minuto, nelle varie forme in uso, devono iscriversi anche i produttori agricoli, salvo i casi previsti dalle vigenti disposizioni di legge. Vorrei ricordare che la Corte di Cassazione, intervenendo, con riferimento alle disposizioni di cui all’art. 1 legge n. 558/1971, sulla vendita nei giorni domenicali e festivi, in vigenza della legge n. 59/1963, fa riferimento anch’essa in modo generico all’agricoltore che svolge attività di vendita dei prodotti ottenuti nel fondo […] e/o al produttore agrico- 19 lo46. Non a caso, Carrozza, a proposito della legge n. 558/1971, in un Suo scritto apparso subito dopo l’appena citata sentenza, ha significativamente osservato che la legge ha usato espressioni empiriche e nel contempo estensive, che hanno come riferimento soltanto l’attività di vendita in sé, prescindendo sia dall’esercizio di svolgimento che dalle forme con cui viene praticata47: coerentemente, questi connotati dell’empirismo e dell’estensività possono essere riferiti anche alle figure soggettive agricole, indicate nei testi di legge in esame e nella pronuncia della Cassazione, con un riferimento indistinto [agricoltore e/o produttore]. A noi sembra, leggendo retrospettivamente le normative qui riportate, che non possa individuarsi una scelta di politica del diritto finalizzata, attraverso il riconoscimento della molteplicità sia delle figure venditrici, che delle “varie forme in uso”, ad ampliare il consumo, a rendere più accessibili, anche a vantaggio dei consumatori, i costi di produzione, ad incrementare la produzione stessa, a riconoscere, antesignanamente, forme “plurali” di soggetti operanti in agricoltura. A dire il vero non sfugge a questa impressione anche un testo normativo fondamentale e recente quale quello di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59)48. L’art. 30, comma 4, prevede, infatti, che la disciplina sul commercio a dettaglio su aree pubbliche49 non si applichi ai coltivatori diretti, ai mezzadri e ai coloni (corsivo nostro) i quali esercitino sulle aree pubbliche la vendita dei propri prodotti ai sensi della legge 9 febbraio 1963, n. 59. Certo è sorprendente rilevare che, alle soglie del terzo millennio, una legge citi la figura del colono. Però, a parte il fatto, come ricordano le illuminanti, classiche pagine di Enrico Bassanelli50, che la colonia è una fattispecie giuridica a declinazione plurale (ad meliorandum, parziaria e perpetua), non è fuori luogo osservare che, al momento della entrata in vigore del decreto legislativo n. 114/1998, la colonia miglioratoria e quella parziaria potendo ben essere state convertite in affitto ai sensi dell’art. 25 della legge n. 203/198251, non c’era motivo di ricomprendere i coloni (rec- (44) Norme per la vendita al pubblico in sede stabile dei prodotti agricoli da parte degli agricoltori produttori diretti. Cfr., in merito, D. La Medica, La vendita diretta dei prodotti agricoli, in Dir. giur. agr. amb., 2009, 29 ss. (45) Di indistinzione lessicale parla L. Costato in un suo scritto del 2001, Il diritto agrario: rana di Esopo o diritto alimentare?, in Nuovo dir. agr., 2001, 357. (46) Cfr., Cass., Sez. I civ., 9 novembre 1988, n. 6019. (47) Cfr. A. Carrozza, Vendita diretta dei prodotti agricoli e disposizioni sull’orario di apertura dei negozi e degli esercizi di vendita al dettaglio, in Riv. dir. agr., 1989, II, 230. (48) Per una sintetica e più generale valutazione dl decreto legislativo rispetto ai suoi rimandi al settore agricolo, cfr. I. Canfora, op. cit., 32-33, la quale, osserva che detto testo normativo non si discosta dalla precedente legislazione per quanto riguarda “la semplificazione delle regole dettate per le attività commerciali alla vendita diretta di produttori agricoli”. (49) Ovvero, secondo l’art. 27, comma 1, lett. b), le strade, i canali, le piazze, comprese quelle di proprietà privata gravate da servitù di pubblico passaggio ed ogni altra area di qualunque natura destinata ad uso pubblico. (50) Cfr. E. Bassanelli, Colonia ad meliorandum, Colonia parziaria, Colonia perpetua, in Enc.dir., VII, Milano, 1960, 493-510. (51) Diverso e più favorevole per il coltivatore è stata la disciplina della colonia perpetua, che dopo aver oscillato tra lo ius in re aliena ed il dominium, “alla fine, nel secolo scorso, il diritto di godimento integrale e perpetuo si trasformò nel dominio pieno, accompagnato per giunta dal potere di riscattare il canone, cancellando ogni vestigia del rapporto con il dominus originario”. Così, E. Bassanelli, Colonia perpetua, cit., 511. AL ASSO CI DIRITTO N IT AL IM E TAR EN LIANA E ITA ION Z A IA N FOOD C L AW A S S O I I AT O rivista di diritto alimentare www.rivistadirittoalimentare.it Anno VII, numero 1 • Gennaio-Marzo 2013 tius, gli affittuari) tra i destinatari della deroga di cui all’art. 30 del d.lgs. n. 114/1998, a meno che non si fosse voluto fare riferimento ai coloni che erano rimasti tali anche in vigenza della citata ultima legge. E ciò vale, ovviamente, anche per i mezzadri, pur se il profilo giuridico manifesti diversa densità rispetto a quello dei coloni. In questo caso, se la nostra interpretazione è corretta, come a noi pare, l’appena citata deroga nella disciplina del commercio ricomprende, oltre ai coltivatori diretti, anche figure non imprenditoriali, atteso che, ad esempio, nella colonia parziaria, come rileva Bassanelli, “la direzione dell’impresa, nel campo tecnico ed in quello amministrativo, è affidata al concedente (art. 2167 e art. 2145, comma 2, richiamato dall’art. 2169) ed il colono presta il lavoro secondo le direttive di lui (artt. 2169 e 2147), se non proprio alle sue dipendenze”52. 4.- Al decreto legislativo di orientamento n. 228/2001 Il d.lgs. 228/2001 di orientamento e modernizzazione pone fine a questo percorso, restringendo l’individuazione delle figure deputate alla vendita. Per l’art. 4, comma 1, infatti, (solo) “gli imprenditori agricoli, singoli o associati, iscritti nel registro delle imprese di cui all’art. 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, possono vendere direttamente al dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità”. Come si evince immediatamente, l’art. 4 ha sostituito il termine «produttori agricoli» di cui alla riportata legge n. 59/1963 con quello più esplicito e meno ampio di «imprenditori agricoli», pur senza prevedere alcun requisito professionale: ad essi sono, inoltre, equiparate le cooperative di imprenditori agricoli e loro consorzi, quando utilizzano per lo svolgimento delle attività di cui all’art. 2135 cod. civ. prevalentemente prodotti dei soci (art. 1, comma 2, d.lgs. 228/2001). Equiparazione estesa alla società di persone e alle società a responsabilità illimitata, costituite da imprenditori agricoli, che esercitino le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti agricoli ceduti ai soci. Per quanto in apparenza la norma sembra aver fatto chiarezza, va immediatamente rilevato come già l’art. 4 del 20 d.lgs. n. 99/2004 (sulla “semplificazione” amministrativa in agricoltura), crei una divaricazione interpretativa con l’art. 4 del d.lgs. n. 228/2001, stabilendo che “la disciplina amministrativa di cui all’art. 4 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, si applica anche agli enti e alle associazioni che intendano vendere direttamente prodotti agricoli”53. Un valente orientamento dottrinario ha ritenuto che l’intero primo comma dell’art. 4 d.lgs n. 99/2004 sia una norma di irrilevanza pressoché totale. Per quanto riguarda gli enti e le associazioni qualificabili come imprenditori agricoli, secondo questa tesi la norma non aggiunge nulla di nuovo, mentre per quelli privi di tale qualifica il riferimento all’avverbio “direttamente” finisce per rendere la normativa semplificatrice pressoché inapplicabile a tali soggetti perché esso si riferirebbe alla sola vendita al dettaglio di prodotti agricoli effettuata dagli stessi produttori agricoli54. Come è noto, non pochi giusagraristi hanno espresso giudizi severi sulla sciatteria tecnica del legislatore della c.d. “legge di orientamento”, ma, insipienza giuridica a parte, la ratio del citato art. 4 del d.lgs. n. 99/2004 può rinvenirsi nell’allargamento della platea dei soggetti legittimati all’esercizio dell’attività di vendita, come regolata dall’art. 4 del d.lgs n. 228/200155, lungo una linea che già da tempo abbiamo definito della “agricoltura plurale”: nei suoi contenuti, nei soggetti e nelle politiche56. L’impianto e il senso dell’art. 4 d.lgs. n. 99/2004 risiedono, infatti, a nostro parere, non tanto nel passaggio dai produttori al prodotto in coerenza con il risalente orientamento merceologico dl Trattato di Roma, quanto proprio in quella figurazione soggettiva ulteriore a cui si estende la disciplina delle attività di vendita (già) previste, anche in forma itinerante, per gli imprenditori agricoli57. Ci si può interrogare, dunque, sull’ambito applicativo della norma, viste la chiarezza e l’ampiezza del suo dettato, che non esclude le associazioni e gli enti con scopo di lucro. Se la disposizione non introduce alcuna novità per quanto riguarda gli enti e le associazioni che esprimono forme di organizzazione collettiva degli imprenditori agricoli, intende però ricomprendere gli enti collettivi senza scopo di lucro e gli enti non profit, le cooperative e le associazioni senza fini di lucro dell’area non profit che operano nell’ambito del commercio equo e solidale, le istituzioni pubbliche di assistenza e di beneficenza (Ipab)58. (52) Così, ancora, E. Bassanelli, Colonia parziaria, cit., 500. (53) Cfr., infatti, le osservazioni critiche di E. Casadei, Commento all’art. 1 d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228, in Le nuove leggi civili commentate, 2001, 723 ss. (54) Cfr. F. Albisinni, Commento all’art. 4 d.lgs 29 marzo 2004, n. 99, in Riv. dir. agr., 2004, I, 256. (55) Norma delegata che si segnala anch’essa, come ha attentamente rilevato Albisinni, “per le incertezze del linguaggio adottato e per la modesta attenzione all’esigenza di assicurare il coordinamento con altri comparti normativi e l’inequivoca individuazione delle norme applicabili […]”; cfr. F. Albisinni, in I tre «decreti orientamento» della pesca e acquicoltura, forestale e agricolo, a cura di L. Costato, in Le nuove leggi civili commentate, n. 3-4, 2001, 735. (56) Cfr., in merito, F. Adornato, Di cosa parliamo quando parliamo di agricoltura, cit. (57) Espressione questa, peraltro, di un disegno volto a garantire la più ampia possibilità di commercializzazione dei prodotti agricoli. (58) Cfr., in merito, S. Manservisi, Commento all’art. 4 del d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99, in Nuove leggi civili commentate, 2004, 887 ss. AL ASSO CI DIRITTO N IT AL IM E TAR EN LIANA E ITA ION Z A IA N FOOD C L AW A S S O I I AT O rivista di diritto alimentare www.rivistadirittoalimentare.it Anno VII, numero 1 • Gennaio-Marzo 2013 5.- Mercati di prossimità e agricoltura urbana Le problematiche fin qui affrontate, mercati di prossimità e vendita diretta, assumono, in particolar modo sotto il profilo delle figure soggettive, ulteriore significato ed ampiezza alla luce del recente e sempre più progressivo fenomeno dell’agricoltura urbana59. Un fenomeno che va inquadrato all’interno di nuove e gravi problematiche non più eludibili, come: (in)sicurezza alimentare, scarsità delle risorse energetiche, variazioni climatiche, uso sostenibile delle risorse (e dell’acqua in particolare), tutela e valorizzazione del paesaggio (non ultimo quello urbano), gestione compatibile dei beni comuni, specialmente di quelli strategici (dal cibo ai minerali), mutamenti climatici, biodiversità, movimenti migratori, sovraffollamento urbano e coesione sociale, identità socio territoriali e società inclusiva, solo per riportarne alcuni. Non a caso nel recente documento della Commissione europea, sulla Politica agricola comune verso il 202060, il filo conduttore è rappresentato dalla consapevolezza della gravità delle sfide che la Pac deve affrontare: in particolare, quelle della sicurezza dell’approvvigionamento alimentare, dell’ambiente e del cambiamento climatico e dell’equilibrio territoriale. In questo quadro, emergono nella loro particolare complessità e con drammatica urgenza le problematiche relative all’antropizzazione urbana, nel cui contesto si condensano alcune delle più esemplificative vicende della contemporaneità, come quella di intere popolazioni in fuga dalla miseria e dalla guerra. Nel 1900, solo il 10% della popolazione viveva in città. Nel 2010 oltre la metà era concentrata in aree urbane sempre più dense e per il 2030 si prevede che oltre l’80% degli abitanti del pianeta vivrà in città61. Accanto all’inarrestabile processo di inurbamento va altrettanto significativamente segnalato, secondo dati Nasa, che il consumo umano della produzione vegetale terrestre stimato in quantità equivalente di carbonio, nel periodo dal 1982 al 2007, è passato (in particolar modo tra il 1995 e il 2005) dal 20 al 25% della produzione vegetale totale del pianeta, con una maggiore concentrazione nelle aree urbane, che arrivano a consumare anche 30.000 volte di più di quelle non urbane. Squilibrio riconfermato, peraltro, più in generale, se si considera che ogni cittadino negli Stati uniti consuma l’equivalente di 6 tonnellate di carbone di origine vegetale rispetto alle 2 tonnellate consumate in Asia meridionale. Se il livello nord americano si estendesse global- 21 mente, il consumo mondiale raggiungerebbe rapidamente il 50% delle risorse vegetali disponibili. Dunque, se questa tendenza fosse confermata, si avrebbe “un’esasperata ricerca di produttività nella gestione agricola con una conseguente forte pressione sull’ambiente naturale e a spese di chiunque altro utilizzi, ad esempio, il carbonio, a spese dell’habitat e delle riserve idriche”62. Un tempo “le popolazioni arcaiche cercavano di legarsi al territorio, rinunciando al nomadismo per sviluppare l’economia agricola e difendersi dai nemici: le città diventavano luoghi sicuri, protetti e fortificati”63. Al contrario, nella globalizzazione, il diritto di vivere il territorio si espande, supera le frontiere e comprende l’intero pianeta alla ricerca di un’esistenza dignitosa e di uno spazio ad essa funzionale: in questo senso, povertà e migrazioni sono temi strettamente collegati L’antropizzazione e l’inurbamento pongono in una diversa ed asimmetrica luce i rapporti economici, sociali e culturali e modificano il contesto delle relazioni tra Nord e Sud del mondo, tra città e campagna, tra ceti e tra le persone stesse. Dunque, come alimentare nel modo più sano e meno inquinante la popolazione delle aree metropolitane? Come superare le divaricazioni tra queste aree e quelle non urbane? Come tutelare l’impronta agricola delle città? Come contribuire a rendere le città più socialmente coese ed inclusive? A tale ultimo proposito, forse non a caso, New York è diventato il principale laboratorio mondiale di urban farming, per via anche di diversi progetti urbanistici già realizzati e socialmente molto significativi. Basti pensare alla trasformazione del cortile interno al Contemporary Art Center di Queens in un enorme orto urbano distribuito su grandi bidoni verticali, o alla costruzione a Brooklyn di una scuola con annessa serra dove i ragazzi (500 in tutto, dall’asilo alle medie) coltiveranno il cibo da mangiare a pranzo: scuola e serra godranno di ampie zone a pannelli fotovoltaici per abbattere i consumi di combustibili fossili. Ma, probabilmente, la novità importante è costituita dal primo edificio completamente carbon natural di Manhattan, chiamato “Solar 2”, il cui connotato più particolare è costituito da una serra integrata verticale a coltura idroponica, ovvero senza terra. In questo caso il nutrimento necessario viene direttamente sciolto nell’acqua con cui vengono irrigate le piante, inserite in doppia fila nell’intercapedine fra (59) In particolare, per agricoltura urbana intendiamo un’attività localizzata entro l’area urbana o ai suoi limiti che produce distribuisce una varietà di prodotti alimentari e servizi, “(ri)iutilizzando gran quantità di risorse umane e materiali, prodotti e servizi all’interno e intorno a quell’area e in cambio fornendo gran quantità di risorse umane e materiali, prodotti e servizi a quell’area” (L. Mougeot, Agricolture: concept and definition, in Growing Cities Growing Food: Urban Agriculture on the Policy Agenda, Ruaf Foundation, 2001). (60) Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo. Al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, La PAC verso il 2020: rispondere alle future sfide dell’alimentazione, delle risorse naturali e del territorio, Bruxelles, 11 ottobre 2010, COM(2010) 672. (61) E. Comelli, L’agricoltura urbana salverà il mondo, in nova 100.il sole 24 ore.com/2010/03. (62) http://www.nasa.gov/topics/earth/features/carbon-capacity.html, 2010. (63) C. Bordoni, in Introduzione a Z. Bauman, Il buio del postmoderno, Reggio Emilia, 2011. AL ASSO CI DIRITTO N IT AL IM E TAR EN LIANA E ITA ION Z A IA N FOOD C L AW A S S O I I AT O rivista di diritto alimentare www.rivistadirittoalimentare.it Anno VII, numero 1 • Gennaio-Marzo 2013 due superfici di vetro ed appoggiate su vassoi trainati da cavi laterali su entrambi i lati dell’edificio. Per quanto riguarda gli effetti, la presenza delle piante riduce i costi (anche ambientali) di riscaldamento, raffreddamento e insonorizzazione, migliora la qualità della vita attraverso una migliore captazione della luce esterna, offre un vantaggio economico agli abitanti dell’edificio grazie alla vendita del raccolto ortofrutticolo. Un altro esempio, fino a ieri impensabile, viene da Londra. In piena City, al posto di un grattacielo di 48 piani (progettato da Richard Rogers), la centralissima Leadenhall Tower, la cui costruzione si era fermata (nel 2010) per via della crisi immobiliare, sorgerà una fattoria urbana con piattaforme fantasiose, i cui prodotti saranno posti in vendita in una serie di chioschi nel cuore della City stessa. Ancora. Nel concorso Growing up 2009, bandito dalla città di Melbourne per riconvertire i tetti dei grattacieli a verde pubblico, è stato premiato un progetto che prevede l’impianto di un frutteto urbano (Urban Orchard), appunto sui tetti medesimi, con un sistema che si autoalimenta attraverso la produzione di energia dalle biomasse di scarto. Inoltre, ogni tetto riconvertito dovrebbe avere un punto vendita per i prodotti coltivati, aumentando in tal modo la loro sostenibilità. Ancora un dato significativo per il suo profilo sociale. Dal 1995, un’organizzazione no-profit di Seattle, la Seattle Youth Garden Works, (SYGW), ha impiegato giovani senza dimora o con problemi giudiziari in lavori agricoli per mantenere un piccolo orto in un parco della città, il South Park Neighborhood. Vancouver, per continuare con altre esperienze, oggi è una città all’avanguardia in tema di spazi lasciati ai cittadini sotto forma di orti coltivabili. La città di New York ha concesso a chi lo desidera, e dispone di uno spazio verde, se pur piccolo, di poter allevare polli per autoconsumo. Innumerevoli sono, poi, le stesse esperienze italiane, diversamente denominate: dagli orti sociali di Napoli agli orti collettivi di Chiasso, agli orti condivisi di Roma. Non a caso, per fare un recentissimo esempio, il Comune di Milano ha avviato un processo definito di neoruralizzazione attraverso un Piano di distretto rurale, denominato Distretto agricolo di Milano (Dam), il cui tema cardine è un’agricoltura integrata con il territorio e la cui formula gestionale consiste in una società cooperativa “Consorzio distretto agricolo milanese – Società consortile cooperativa agricola”. Sempre più numerose sono le amministrazioni sia delle metropoli, sia delle piccole città, sensibili alle nuove esigenze dei cittadini e consapevoli che l’agricoltura urbana e peri urbana potrebbe sfruttare tutte quelle aree marginali (o di frangia) presenti ai limiti delle città, ma anche internamente ad esse. Peraltro, nei paesi sviluppati, dove lo stesso consumatore attento è costantemente alla ricerca di prodotti di elevata (64) Environmental Heath, 2010 (65) In Il Sole 24ore, 19 febbraio 2012 22 qualità oltre che salubrità; le piccole produzioni urbane possono sicuramente soddisfare queste esigenze, sostanzialmente trascurate dalla produzione industriale intensiva. L’agricoltura urbana sembra anche in grado di superare alcuni limiti del sistema alimentare industriale, essendo altamente adattabile a diversi contesti e capace di liberarsi dalla dipendenza dei combustibili fossili, sfruttando efficientemente l’alta densità di risorse umane e materiali presenti negli ambienti urbani. Il modello dell’espansione urbana (urban sprawl) in Italia ha, infatti, causato la diffusione di ampie aree di suoli residui, ossia di terreni già influenzati dall’ambiente urbano nei loro scambi di massa ed energia, e la cui gestione agricola o forestale è stata interrotta. La loro estensione è probabilmente alta e, anche se non ci sono stime disponibili, si parla di decine di migliaia di ettari in tutta Italia. Questi suoli sono i più naturali candidati per le realizzazioni di arboricoltura urbana e per il recupero urbanistico delle aree di sprawl a fini produttivi. Proprio per rispondere all’esigenza di produrre generi alimentari in maniera più eco-sostenibile, l’Agenzia europea dell’ambiente (EEA) ha invitato le città a sviluppare “muri vegetali”, le c.d. “vertical farmers” dove coltivare piante commestibili. Grazie alle fattorie verticali, l’agricoltura potrebbe entrare a far parte integrante del tessuto urbano, consentendo di ridurre il consumo energetico, le emissioni di anidride carbonica e l’uso di risorse nella produzione alimentare. Accorciando la distanza che i prodotti agricoli devono compiere “dai campi alla tavola” ed eliminando la necessità di impiegare macchinari pesanti, l’agricoltura verticale potrebbe essere in grado di ridurre le emissioni di CO2. Inoltre, l’incremento della vegetazione all’interno delle aree urbane apporterebbe un ulteriore valore: l’assorbimento delle emissioni di anidride carbonica e la produzione di una maggiore quantità di ossigeno, ancorché sia necessario approfondire l’impatto dell’anidride carbonica e di altri inquinanti sulla produzione agricola urbana. Ancora, i vantaggi provenienti dall’agricoltura urbana possono essere individuati oltre che nell’abbattimento dei costi (soprattutto in considerazione dei progressivi aumenti del prezzo del petrolio) e nella fornitura di prodotti più freschi, anche nella riscoperta di benefici sociali e nel benessere psicologico derivante dalla pratica di questa attività64. Del resto, la dimensione territoriale dello sviluppo che le politiche comunitarie da tempo pongono al centro dell’attenzione invita ad abbandonare un approccio univocamente improntato ai principi della competitività e del successo economico, così come a quelli della mera salvaguardia dell’ambiente, per allargare lo spettro dei fattori in gioco anche agli aspetti sociali e culturali, come conferma peraltro il documento “niente cultura, niente sviluppo”65. AL ASSO CI DIRITTO N IT AL IM E TAR EN LIANA E ITA ION Z A IA N FOOD C L AW A S S O I I AT O rivista di diritto alimentare www.rivistadirittoalimentare.it Anno VII, numero 1 • Gennaio-Marzo 2013 “In questo contesto le accezioni di territorio e paesaggio tendono a ‘con-fondersi’, evidenziando l’importanza che la qualità dell’assetto spaziale riveste nei processi di trasformazione sostenibile, proprio in quanto supporto materiale e luogo di costruzione delle relazioni complesse (variamente sedimentate nel tempo) che legano una società al suo contesto di vita. Ne discende l’appello a puntare sul coordinamento, su base territoriale, di una molteplicità di campi d’intervento finora generalmente trattati in maniera autonoma, al fine di connettere e valorizzare diverse potenzialità locali”66. Di fronte a questi nuovi e diffusi fenomeni (Kleingarten in Germania, Allottment Gardens in Inghilterra, Huertos marginales in Spagna, Orti urbani, sociali, condivisi in Italia) che espandono i confini dell’agricoltura e mostrano i segnali di un’ “economia civile”, che va oltre i confini del profitto, non pochi sono i problemi giuridici e di politica del diritto e di politica agricola da affrontare. Si pone in primo luogo la questione della governance, all’interno di una visione in cui preponderante e fortemente emblematico appare il ruolo della sussidiarietà. Il fenomeno dell’agricoltura urbana non è, infatti, che l’ulteriore e specifica espressione di un più generale processo di modificazione dei bisogni sociali e dell’emersione di nuovi criteri di organizzazione dei servizi67. Nell’interpretare e gestire i nuovi caratteri assunti dai bisogni sociali, appare senza dubbio più idonea la titolarità di un soggetto radicato a livello locale, che opera sulla base di relazioni di prossimità. L’autogoverno delle comunità, che trova fondamento nel principio di sussidiarietà presente nella nostra Costituzione e nel Trattato di Lisbona, offre una prospettiva ulteriore rispetto alla tradizionale dicotomia pubblico-privato e/o Stato-mercato. Peraltro, nel caso dell’agricoltura urbana, la presenza di un gruppo sociale di riferimento, costituisce dal punto di vista giuridico un parametro distintivo per la configurazione di un bene comune68. I profili della governance che l’agricoltura urbana propone non attengono, comunque, al rapporto tra processi istituzionali e tecniche proprietarie, ma anche alla cultura dell’innovazione. Infatti, la governance dell’innovazione è, in sostanza, un processo non solo di semplificazione istituzionale, ma anche di stimolo alla “formazione di luoghi di cambiamento radicale, capaci di incorporare l’innovazione come una componente sistemica, aperta al contributo di attori nuovi accanto a quelli tradizionali”69. L’obiettivo è, cioè, quello di costruire nuovi significati, visioni e procedure adeguati alla domanda di soluzioni appro- 23 priate che arriva dalle comunità locali, accompagnandosi di fatto con il principio della sussidiarietà orizzontale, il quale implica, appunto, una politica che esalti “le differenze per obiettivi comuni di interesse generale”70. Inoltre, sempre a proposito della sussidiarietà, qual è il rapporto tra questa e le regole di concorrenza? Se si accoglie l’opinione secondo la quale, trattandosi di <differenze solidaristiche>, “cioè alterazioni delle condizioni di omogeneità che hanno però la capacità di produrre effetti positivi per la collettività (di un’area, di una zona, di una regione, di uno Stato, eccetera”71, concorrenza e sussidiarietà verrebbero a configurarsi come due sistemi diversi, ma non esclusivamente alternativi. Per quanto minoritario intermini economici, il contributo dell’agricoltura urbana è, invece, rilevante in termini di coesione sociale, di tutela ambientale, di qualità della vita, di espressività delle nuove forme urbane. Del resto, in questa direzione, non possono essere sottovalutati i segnali che arrivano dalle politiche agricole comunitarie, le quali hanno progressivamente ridotto l’impegno verso il primo pilastro, supportando e in modo integrato i profili proposti dal secondo pilastro. Né qui occorre riprendere il significato delle nuove funzioni assegnate oggi all’agricoltura. Se, dunque, l’attività agricola di produzione (seriale) di beni destinati all’alimentazione si incanalerà sempre più definitivamente nel grande ed indistinto alveo delle regole di concorrenza, quali saranno i criteri della “distintività” agraria? E, se, paradossalmente ma non troppo, arrivassero proprio dai paradigmi dell’agricoltura urbana? 6.- Problematiche conclusioni Partendo proprio da quest’ultima considerazione, le conclusioni da trarre non possono essere, allo stato, che provvisorie, problematiche e prospettiche. I nuovi confini che l’agricoltura urbana sta disegnando in direzione della coesione sociale, della rinaturalizzazione delle città e delle metropoli, della pianificazione urbanistica, del paesaggio cittadino non sono prive di implicazioni. Esse toccano, innanzitutto, un’ancor più evidente configurazione plurale dell’agricoltura, nei suoi profili oggettivi e soggettivi, confermando la stessa pluralità dei mercati qui sostenuta. L’agricoltura espressa in queste nuove forme coinvolge certo in primo luogo l’impresa agricola e la sua centralità nel sistema giuridico e normativo, ma, al tempo stesso, va oltre e in questo andare oltre pone una riflessio- (66) Cfr. Galli, E. Marcheggiani , V. Piselli, Condizionalità e sviluppo rurale. Strategie di gestione del paesaggio rurale? Il caso Marchigiano, Convegno di Medio Termine dell’Associazione Italiana di Ingegneria Agraria, Belgirate, 22-24 settembre 2011 (67) Cfr. A. Paci-D. Donati (a cura di), Sussidiarietà e concorrenza. Una nuova prospettiva per la gestione dei beni comuni, Bologna, 2010. (68) Cfr M.R. Marella, Il diritto dei beni comuni. Un invito alla discussione, in Riv.crit.dir.priv., 2011, 105. (69) Così F. Di Iacovo, La costruzione delle politiche per l’agricoltura sociale in Europa: reti, policy, network e percorsi di cambiamento, in Impresa sociale, 2010 (ma finito di stampare in settembre 2012), specie 128 ss. (70) Cfr. F. Giglioni,, Alla ricerca della sussidiarietà orizzontale in Europa, in Sussidiarietà e concorrenza, cit. 131. (71) Giglioni, op.ult.cit. AL ASSO CI DIRITTO N IT AL IM E TAR EN LIANA E ITA ION Z A IA N FOOD C L AW A S S O I I AT O rivista di diritto alimentare www.rivistadirittoalimentare.it Anno VII, numero 1 • Gennaio-Marzo 2013 ne sostanziale sul criterio di agrarietà, innanzitutto. In secondo luogo, mette in discussione <<l’illuminismo>> del legislatore del 2001, che con la “legge di orientamento” si era attestato solennemente sull’impresa agricola, ancora centrale certo, ma, alla luce della “contemporaneità agricola”, forse non più esclusiva. L’agricoltura urbana ci interroga sul ruolo dell’accordo negoziale nei processi di sviluppo e del suo precipuo ruolo nel valorizzare le finalità (fatte proprie dalle politiche comunitarie) delle società inclusive. Ci interroga, ancora, su questioni fondamentali, appena prima accennate, ovvero al rapporto tra sussidiarietà e regole di concorrenza, sull’esigenza di una nuova governance nelle aree metropolitane e nel loro rapporto con quelle periurbane. Pone, infine, l’esigenza di una declinazione dei segni distintivi in questa nuova e complessa chiave di lettura del fenomeno agricolo globale, che è anche culturale e di cultura alimentare quale elemento portante della coesione sociale72. Sono filoni di ricerca che andranno necessariamente sviluppati anche perché disegnano, a nostro avviso, l’orizzonte sostanziale dell’agricoltura e del diritto agrario del prossimo futuro. ABSTRACT The Author firstly aims to demonstrate the plurality of the markets, included in which are also the so called short supply chains or in other words “all those forms of marketing that offer an alternative to large-scale distribution organized 24 on a global scale which are characterized on the one hand, by the reduction or elimination of the intermediaries between agricultural producers and consumers, and on the other, by the local dimension of the commercial transactions”. In this regard, the Author has pinpointed the legal basis as being in paragraph 39 of the Treaty of Lisbon (TFEU). Letter c) of the first section of the above mentioned paragraph assigns to the CAP the objective of ‘stabilising’ markets. The plural is used here not as a general and vague reference to distant and unknown Molochs, but rather to recall both the economic dynamics and the plurality of spatial and modal forms within which trade takes place, therefore comprising also those of the short supply chain. Secondly, the author also intends to demonstrate through a historical prescriptive examination of the legislation governing commerce, the way in which the plurality of the economic dynamics of sales surprisingly and precursory recalls the plural connotation of the characteristics of the vendors, who for a long historical legal period have gone beyond the exemplary case of the agricultural entrepreneur, even after the 1942 civil codification. The author points out that this ‘plurality’ has been blocked by decree no. 228/2001 which in paragraph 4, regarding selling activities, makes a sole and ‘enlightened’ reference to the agricultural entrepreneur. Finally, the author points out how this trend may turn out to be inadequate in dealing with the new problems posed by agriculture today which involve aspects such as social cohesion and the inclusive society on the one hand, and urban agriculture, on the other. (72) Sul tema dei segni distintivi, cfr. il recente e significativo lavoro di I. Trapé, I segni del territorio. Profili giuridici delle indicazioni di origine dei prodotti agroalimentari tra competitività, interessi dei consumatori e sviluppo rurale, Milano, 2012.