Allorché all’anziano studioso non è rimasto che il vuoto incolmabile della solitudine, però, l’amore inatteso e ricambiato per Fauna Farley, trentaquattrenne donna delle pulizie del college, giunge a salvarlo dalla deriva, nonché a farlo desistere dal progetto di pubblicare un memoriale sull’intera vicenda. Provato dalla tragedia e privo della lucidità necessaria per portare a termine questo suo proposito in un primo tempo Silk aveva cercato l’aiuto di uno scrittore di professione, Nathan Zuckerman, narratore intradiegetico e alter ego di Roth fin dalle pagine di The Ghost Writer (1979). Questi si appassiona alla sua vicenda anche per ragioni di affinità intellettuale: come tutti ad Athena, infatti, Nathan crede che Coleman sia, come lui, ebreo. Sbagliandosi, dal momento che “per quanto il mondo sia pieno di gente che va in giro credendo di conoscere te o il tuo vicino, l’ignoto è davvero senza fondo”. E in effetti l’origine remota della rovina del professore va ricercata non tanto nella cattiveria di colleghi e allievi, quanto nel segreto col quale egli convive da oltre mezzo secolo: il peccato originale del passing – uno dei motivi più diffusi della fiction afroamericana, qui eccezionalmente impiegato da uno scrittore bianco –, sul quale negli anni Venti ha scritto pagine mirabili Nella Larsen, e alla cui banalizzazione mediatica ha contribuito più di recente l’esasperata chirurgia estetica di Michael Jackson. Esiliatosi dalla comunità d’origine, e condannatosi al silenzio in quella nella quale insegue il sogno americano di un’esistenza costruita sulla misura del proprio talento, Silk è in realtà un mulatto dalla pelle molto chiara che ha nascosto al mondo la sua vera origine. Un nero che si fa passare per bianco, illudendosi in tal modo di riscattare la propria condizione di outsider – pratica niente affatto rara nella comunità mulatta fin dal diciannovesimo secolo e particolarmente diffusa in quella harlemita a partire dagli anni Venti –, è destinato a soccombere a una società spietata e violenta come quella americana. E poiché niente è più violento e spietato delle trame ordite all’ombra di un College di periferia da una decostruzionista repressa nella quale si incarna tutto “quel genere di prestigiosa trombonaggine accademica di cui gli studenti di Athena avevano bisogno come di un buco in testa”, al professore non sarà risparmiata l’umiliazione postuma di un’accusa non meno infamante e paradossale di quella che aveva provocato la sua rovina accademica. A Silk, morto insieme all’amante in un incidente stradale (che è, di fatto, un omicidio compiuto a sangue freddo dall’ex marito di Fauna, reso folle dalla gelosia e, soprattutto, dall’esperienza in Vietnam), viene infatti addebitato il tentativo di infangare la reputazione di Delphine Roux, con tanto di effrazione dell’ufficio e manomissione della posta elettronica (una messa in scena grazie alla quale la direttrice del Dipartimento rimedia a un errore che altrimenti le sarebbe costato la carriera). Se in ultimo il segreto di Coleman resterà inviolato – con l’eccezione, oltre che della sua famiglia d’origi- 38 ne, di Zuckerman, trasformato dalle circostanze in una sorta di involontario detective etico –, un implacabile contrappasso restituirà al Nostro il ruolo postumo di paria spettantegli per nascita. La sua scandalosa relazione e le accuse della Roux, manco a dirlo, gli negheranno i Festschrifts e l’ingresso nella Hall of Fame di Athena. E tutto ciò perché, nella tassonomia tripartita dei docenti del college messa a punto dall’ineffabile Delphine (i “Pannolini”, ossia, i giovani “papà di professione… poco stimolanti sul piano intellettuale, pedestri”, i “Cappelli”, alias “i writers in residence, gli incredibilmente pretenziosi scrittori americani ospiti dell’università”, e gli “Umanisti”, “i più vecchi, rustici e sorpassati…, antiquati e tradizionali che hanno letto tutto” e che “qualche volta la fanno sentire superficiale”), il professore appartiene proprio a questi ultimi. Pertanto, nel paradossale romanzo a tesi di Roth, la vicenda non può avere che un esito: se al giorno d’oggi “non ci sono più criteri…, ma semplicemente opinioni”, e chi lavora in un college ha “dimenticato cosa significhi insegnare”, infatti, l’umanista Coleman Silk è condannato al fallimento in quanto “unico sul pianeta, non ha altra prospettiva che la prospettiva letteraria totalmente disinteressata”. La vita studentesca nella Madrid di fine Ottocento Nino Recupero È il primo giorno di università, nella facoltà di Medicina di Madrid, come lo narra Pio Baroja nel romanzo El árbol de la Ciencia (1911): un classico tra i romanzi di formazione, tra i maggiori dello scrittore di origine basca, che di solito si classifica come protagonista della “Generazione del ’98” mentre merita di esser meglio conosciuto come forse l’unico grande autore veramente europeo della Spagna del Novecento. Gli studenti avevano riempito i banchi quasi fino in cima. Non c’era ancora il cattedratico, e tra gli alunni più turbolenti, qualcuno cominciò a battere per terra col bastone; diversi lo imitarono e si produsse un gran frastuono. speciale/l'accademia immaginata Improvvisamente si aprì una porticina nel fondo della tribuna, e apparve un vecchio signore, tutto imbacuccato, seguito da due assistenti giovani. L’apparizione teatrale del professore e dei suoi aiuti provocò mormorii; uno tra i più sfacciati cominciò ad applaudire, e vedendo che il vecchio cattedratico non solo non si offendeva ma salutava in segno di ringraziamento, tutti applaudirono ancora di più. – È ridicolo – disse Hurtado. – Pare che a lui non sembri – rispose Aracil, ridendo – ma se è tanto sciocco che gli piacciono gli applausi, lo applaudiremo. Il professore era un poveruomo, presuntuoso e ridicolo. Aveva studiato a Parigi, e aveva acquisito i gesti e le posture manierate di un francese petulante. Cominciò il suo discorso di saluto, enfatico e altisonante, con un tocco sentimentale: parlò del suo maestro Liebig, del suo amico Pasteur, del suo compagno di studi Berthelot, della Scienza, del microscopio… Aveva l’aspetto severo di un padre nobile a teatro, e uno studente sfrontato intonò con voce cavernosa i versi di don Diego Tenorio quando, nel dramma di Zorilla, entra nell’osteria del Lauro: Che un uomo del mio rango Discenda a sì infima magione! Gli studenti più vicini scoppiarono a ridere, mentre tutti si voltarono a guardare i disturbatori. – Che c’è, che succede? – disse il professore inforcando gli occhiali e avvicinandosi alla ringhiera della tribuna. – Da quelle parti qualcuno ha perduto i ferri? Chi siede vicino a quest’asino che raglia con tale perfezione, è pregato di allontanarsi, perché i suoi calci devono essere necessariamente mortali. La prima parte del romanzo, dedicata agli anni di formazione universitaria del protagonista, Andrés Hurtado, riflette con forte immediatezza l’esperienza del suo autore, tanto che la critica può mettere a confronto passo a passo il romanzo con il secondo volume delle Memorie di Baroja. L’università di Madrid, l’insegnamento, la vita studentesca nei primi anni del decennio 1890 sono dipinte in maniera molto realistica. La trasfigurazione artistica (prevalentemente in chiave pessimistica, per il Nostro) qui non ci interessa tanto quanto il quadro dell’università ottocentesca, scientista e positivista, che si è mantenuto come modello europeo fino alla seconda metà del Novecento. È un’università nella quale si studia duro, e non tutti passano gli esami; chi resta indietro, il ripetente, il rezagado, deve contentarsi di piccoli e faticosi incarichi nell’internato, che tutti gli studenti frequentano unendo teoria a pratica. L’ambiente intellettuale è vivace, e che questa vivacità stia dalla parte studentesca è caratteristico, appunto, della generazione di fine secolo in Spagna: spietata è la critica, come si vede nel brano citato all’inizio, contro quei docenti che appaiono superati, parrucconi o imitatori dei francesi. Ma la critica può essere spietata perché questi studenti leggono e si aggiornano. Li vediamo così passare le nottate al caffè chiacchierando di ragazze e di corride, ma anche di storia e di politica; e il protagonista legge e discute coi suoi amici la Critica della ragion pura di Kant e Schopenahauer. Al caffè, Sanudo e i suoi condiscepoli non parlavano che di musica, dell’opera al Teatro Real, e soprattutto di Wagner. Wagner era il messia, Beethoven e Mozart i precursori. Alcuni beethoveniani non accettavano Wagner, non dico come il messia, ma neanche come un continuatore dei suoi predecessori, e non parlavano altro che della Quinta e della Nona, in estasi. Anche nell’Italia di allora la disputa tra seguaci di Wagner e di Verdi fu sintomo dell’ansia di rinnovamento europeo della cultura di un paese che ancora cercava se stesso. Nel romanzo di Baroja, la scienza è l’ossessione di una generazione di spagnoli, che misura la propria arretratezza rispetto al resto d’Europa, e che proprio nell’avvento di una società scientifica spera per la rinascita del paese. Illusioni, perché con la scienza si uccide il sentimento e, come mostra la vicenda del protagonista, la pratica della scienza ha come unico sbocco il suicidio (in forme simili a quelle con cui, trenta e più anni dopo, anche l’Autore si darà la morte, asetticamente, da esperto clinico). Ma che l’Università fosse il nido dove fermentava questo pensiero, è il dato che emerge dal romanzo. A San Carlos era verità indiscutibile che [don José de] Letamendi era un genio, una di quelle aquile che sopravanzano il loro tempo… Andrés, ansioso di trovare una qualsiasi cosa che portasse al fondo dei problemi della vita, lesse il libro di Letamendi con entusiasmo. L’applicazione delle Matematiche alla Biologia gli parve ammirevole. Divenne subito un convertito. …una sera, Andrés andò al caffè dove si riunivano Sanudo e i suoi amici e cominciò a parlare delle dottrine di Letamendi, e spiegarle e commentarle. … uno di loro cominciò a ridere. – Perché ride Lei? – chiese Andrés sorpreso. – Perché in ciò che Lei dice c’è una gran parte di sofismi speciale/l'accademia immaginata 39 e di falsità. Tanto per cominciare, le funzioni matematiche sono molto più numerose che la somma, la sottrazione, la divisione e la moltiplicazione… Andrés, che era andato al caffè credendo che le sue proposizioni avrebbero convinto gli studenti di ingegneria, restò perplesso e imbarazzato di fronte alla propria sconfitta. Rilesse il libro di Letamendi, continuò a seguirne le lezioni, e si convinse che tutta quella storia della “formula della vita” e dei relativi corollari, che gli era sembrata prima seria e profonda, non era altro che gioco di prestidigitazione, talora ingegnoso, talora volgare, però sempre priva di realtà né metafisica né empirica. Più in là, Baroja denuncia ancora la meschinità del ceto docente, la corruzione aperta, il disimpegno e la crudeltà dei medici responsabili delle corsie d’ospedale. Nonostante tutto ciò, ne riesce il quadro di una istituzione il cui scopo primario è formare la persona, dare un senso al sapere, prima ancora che attrezzare quello che, secondo i canoni dell’epoca, è il professionista. Il concorso maledetto Luciano Granozzi U n concorso universitario non se lo fabbrica il candidato tutto da solo. Si tratta di una regola elementare del fair play accademico, di un assioma inviolabile all’interno di un sistema fondato sulla cooptazione. A meno di non rischiare la vita, aggiungerebbe Gaston Leroux. Le Fauteil hanté, comparso in feuilleton nel 1909 sul mensile Je sais tout (dove era stato preceduto da Arsenio Lupin), è la perfetta messa in scena di un concorso al più alto livello che si possa immaginare e ci pone una domanda davvero inquietante: si può arrivare ad uccidere nell’Accademia? L’Académie française, fondata nel 1635 col compito di vegliare sulle sorti della lingua francese, è composta da quaranta membri inamovibili eletti dai loro pari. Per quasi quattro secoli essa ha raccolto scrittori e poeti, filosofi e scienziati, uomini di Stato e di Chiesa che avessero particolarmente illustrato la lingua francese con le loro opere. Un consesso così variegato doveva offrire una fedele immagine del talento, dell’intelligenza, della cultura, dell’immaginazione letteraria e scientifica che hanno fondato il genio della Francia nel mondo. 40 L’elezione all’Académie française, contrassegnata dall’onore di indossare il celebre mantello verde nel corso delle solenni sedute sotto la Coupole, è tuttora considerata come una consacrazione suprema del lavoro intellettuale. Sul sigillo donato dal fondatore Richelieu è inciso il motto “all’immortalità”. Così, pur non godendo di una longevità superiore alla media, i suoi membri si fregiano del titolo di “Immortali”. Ma nel momento in cui Leroux colloca l’avvio del suo breve romanzo l’Académie è scossa da un’umiliazione senza precedenti: i Quaranta rischiano di essere condannati a rimanere soltanto trentanove perché nessuno vuole più candidarsi alla poltrona rimasta vacante per il decesso di Mgr d’Abbeville. Ben tre aspiranti sono morti in circostanze enigmatiche appena prima di potersi insediare. Il primo beneficiario di un’immortalità così fragile, il capitano di vascello Maxime d’Aulnay, autore del Voyage autour de ma cabine, è rimasto folgorato proprio mentre stava pronunciando la sua prolusione. A poche settimane di distanza la stessa sorte è toccata a Jean Mortimar, il poeta dei Parfums tragiques, e a Martin Latouche, dotto compilatore di una monumentale storia della musica in cinque volumi, entrambi incuranti dell’inequivocabile avvertimento di una lettera anonima. L’ambizione intellettuale, si sa, può essere smisurata; ma non al punto di sfidare una maledizione così micidiale. Ormai sembrerebbe impossibile trovare nuovi candidati se non si presentasse un assoluto outsider, Jules-Louis-Gaspard Lalouette, mercante di quadri e di anticaglie, autore di un modesto saggio sull’arte dell’incorniciatura. E’ lui l’eroe che si incaricherà di sfatare la maledizione, chiarire il mistero e vendicare così l’Immortalità sbeffeggiata. Il coraggioso, o incosciente, Lalouette verrà dunque eletto accademico all’unanimità nonostante un piccolo dettaglio. Lalouette non sa né leggere né scrivere; quel libro lui non l’ha scritto, l’ha dettato! Autore di ben trentaquattro romanzi - tra cui Il mistero della camera gialla, avvio della saga del detective Rouletabille, cugino di Tintin, e Il fantasma dell’Opera, oggetto di numerosi adattamenti musicali e cinematografici - Gaston Leroux è un grande rinnovatore della tradizione francese del romanzo popolare; un genere moribondo che egli travasa nel romanzo poliziesco con grandissima abilità nell’imbrogliare il lettore per stupirlo meglio, gusto del paradosso e toni da farsa fantastica alla Méliès. Così nella Poltrona maledetta si incontrano un vegliardo malefico, uno scienziato pazzo, un mago inquietante, un laboratorio sotterraneo, un gigante, alcuni temibili molossi, “un lungo lacerante grido umano” che, se atterrisce i timorosi accademici, li mette tuttavia sulla pista del “più grande crimine del mondo”. Ci sono quindi almeno due modi di leggere questo piccolo classico. Il primo è quello di godersi il virtuosismo della messa in scena, il gusto della battuta, la consumata abilità di Leroux nell’inserire al momento speciale/l'accademia immaginata