I quattro corpi. Persistenze e mutamenti nell’organizzazione simbolica del potere Gianmarco Navarini [Non citare senza il permesso dell’autore. In corso di pubblicazione in G.Bertrand, I.Taddei (a cura di), Le destin des rituels. Faire corps dans la ville] L’articolo discute certi aspetti dello scenario politico italiano contemporaneo, caratterizzato da un processo di « persistenza mutevole » dei rituali, prendendo sul serio l’affermazione che vede nelle pratiche cerimoniali un insieme di dispositivi volti a faire corps. Lo scenario presenta alcuni elementi di grande mutamento : la frammentazione dei rituali pubblici e delle rappresentazioni collettive da essi fabbricate ; l’incredibile apertura ed estensione nella portata di riti e cerimonie in quanto fenomeni comunicativi ; l’incremento della polisemia, la molteplice rilevanza dei significati dei riti all’atto pratico ; il loro sempre più frequente collocarsi, contribuendone alla riproduzione, all’interno di situazioni in cui predomina l’ambivalenza cognitiva, emotiva e simbolica. Parte costitutiva dello scenario è la rinnovata centralità assunta dal corpo nello spazio della politica, un’arena organizzata da una varietà di forme rituali che operano su quattro figure corporali: il corpo individuale e il corpo sociale, il corpo fisico e il corpo simbolico. 1. Elementi di persistenza mutevole Non sembrano oggi esserci più dubbi sul fatto che la politica, non solo come tecnica di presa delle decisioni ma come sistema di esibizione di autorità e fabbricazione simbolica dei campi del dominio, sia andata incorporando, con pratiche di riproduzione e re-invenzione1, una quantità forse inaspettata di forme rituali per le quali, pur tenendo 1 E.J. Hobsbawm, T. Ranger, L’invenzione della tradizione, Torino, 1987. conto le ovvie differenze di contesto storico e sociale, sorgono analogie talvolta sorprendenti con riti del passato o celebrati in « altre culture ». Per limitarci ai commenti di due autorevoli osservatori, « i troni possono essere fuori moda, e così pure i cortei, ma l’autorità politica ha ancora bisogno di una cornice culturale entro cui definirsi ed avanzare le sue richieste, e così pure la sua opposizione »2 ; anche per questo « la politique aujourd’hui reste ce qu’elle était hier, c’est-à-dire rituelle »3. Oltre allo studio dei congegni culturali con i quali il potere rappresenta se stesso, l’ironica affermazione di Geertz porta a considerare in che senso troni e cortei siano tutt’altro che passati di moda, invitando all’analisi del modo in cui diverse forme rituali siano ancora rilevanti nella fabbricazione dell’ordine simbolico e politico contemporaneo. Il commento di Augé sembra poi invitare alla ricerca di analogie tra rituali « primitivi » e moderni e tra le forme della politica di oggi e di ieri. Inviti di questo genere presuppongono uno sguardo analitico differente da quello di coloro che seguendo le tesi sull’inevitabile declino4 o impoverimento5 dei riti avevano visto nella de-ritualizzazione uno dei caratteri specifici delle società moderne. Senza cedere al fascino della credenza nel mito di un « eterno ritorno »6, si tratta di considerare i significati di una « persistenza mutevole » della ritualità nell’agire, per ciò che concerne l’ambito pubblico, del potere e della politica. Considerando « la vita » dei rituali in senso storico, ad esempio dal Medioevo ai nostri giorni, non sembra infatti possibile parlare di linearità o continuità processuale né in termini di declino né di sviluppo o di crescita. Sposando un linguaggio che alcuni chiamano « postmoderno » possiamo invece individuare un complesso fluire di accumulazioni e sedimentazioni costituito da rotture, tracce, risvegli, re-invenzioni che spesso assumono la forma del bricolage culturale, e dunque persistenze unite a rivisitazioni, certamente legate al carattere di « plasticità » e alla capacità dei riti di ibridarsi e adattarsi al fluire di mondi sociali mutevoli. In tale contesto le analogie con il passato e con altre culture risultano 2 C. Geertz, Centri, re e carisma. Riflessioni sul simbolismo del potere, dans Antropologia interpretativa, Bologna, 1988, p. 181. 3 M. Augé, Pour un anthropologie des mondes contemporains, Paris, 1994, p. 123. 4 A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Bologna, 1994. 5 M. Douglas, Antropologia e simbolismo, Bologna, 1985. 6 M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Torino, 1968. 2 interessanti, sul piano strettamente analitico, per un’indagine sulla persistenza dei riti come congegni di organizzazione simbolica del potere e in quanto fenomeni di rappresentazione collettiva, partecipazione politica, competizione e comunicazione simbolica. Un primo elemento che emerge in questa direzione è relativo al moltiplicarsi delle forme rituali nella scena pubblica. Anziché ridursi a dimensioni marginali per ciò che concerne l’organizzazione culturale delle società, le opere messe in atto da un’estrema varietà di rituali, civili e di Stato, concreti e mediatici, hanno assunto una straordinaria centralità, rivelandosi come proprietà non opzionali o residuali bensì costitutive dello spazio di intervento simbolico e materiale della politica. Basti pensare agli anniversari e alle feste nazionali7, alle commemorazioni e alle diffuse giornate della memoria, ai processi mediatici di drammatizzazione delle mobilitazioni collettive e alla ritualizzazione delle narrazioni pubbliche8, alla costruzione dei codici di senso sui nuovi conflitti e le guerre « sante »9, alla ritualità nella produzione del puro e dell’impuro nelle rappresentazioni delle nazioni come « comunità immaginate »10 e nella sacralizzazione dei confini tesi a marcare differenze tra entità collettive, al ritualismo incorporato nelle pratiche di produzione del discorso ufficiale e istituzionale11 : lontano dall’essere abbandonate diverse forme rituali, sia discorsive che pratiche, hanno invaso la scena pubblica contemporanea, e hanno visto aumentare la loro rilevanza e complessità tanto da diventare, o rimanere, dimensioni costitutive dell’esistenza del « politico ». Un secondo elemento riguarda un fenomeno che oggi, in Italia, sembra toccare qualsiasi situazione di raduno osservabile come un rituale. Anziché de-ritualizzata la società vive un momento di straordinaria fioritura di aggregazioni che ripropongono esperienze di incontro collettivo intensamente cerimoniali. Oltre al grande investimento della religione cattolica in riti di massa quali le beatificazioni e le santificazioni ( circa 1.800 nel pontificato di Giovanni Paolo II ) e in varie forme di pellegrinaggio, il diffondersi di 7 A. Etzioni, Toward a Theory of Public Ritual, dans Sociological Theory, 18, 1, 2000, p. 44-59. 8 V. Turner, Antropologia della performance, Bologna, 1993. 9 P. Smith, Codes and Conflict: Toward a Theory of War as Ritual, dans Theory and Society, 20, 1, 1991, p. 103-138. 10 B. Anderson, Comunità immaginate, Roma, 1996. 11 M. Foucault, L’ordine del discorso, dans Il discorso, la storia, la verità : interventi 1969-1984, Torino, 2001. 3 raduni cerimoniali è dovuto alla ripresa postmoderna di ciò che rientra nella varietà degli eventi di folklore: sagre popolari, feste di paese, fiere di consumo, attività di promozione commerciale, varie forme di turismo ( religioso, agroalimentare, ecc. ), diversi celebration-day, e la conseguente gigantesca invasione di scene altamente teatrali e spettacolari sia sui media che nella vita reale. La ri-fioritura di questa enorme varietà di rituali ha contribuito a generare, oltre a forme di integrazione settoriale ed estemporanea, un interessante fenomeno che possiamo chiamare contaminazione di linguaggi. Seppur distinti e in apparenza rigidamente separati, i campi odierni della politica, dello sport, della religione istituzionale e dello spettacolo latu sensu vanno sempre più condividendo, nelle loro messe in scena, medesime forme di linguaggio simbolico, comuni repertori di performance e di azione ritualizzata. Un terzo elemento concerne la frammentazione. In Italia non esiste più, sempre che sia esistito altrove o in passato, il grande rito civile unitario : un rituale che tiene insieme tutti i membri della società. Qualsiasi rito pubblico, dalle feste nazionali ai funerali di Stato, sembra non essere più in grado di far convergere i sentimenti, le esperienze e le rappresentazioni del mondo presenti tra la globalità degli individui e dei gruppi a cui il rito pretende di parlare. I grandi riti istituzionali vedono incrinata la loro potenza rappresentativa unitaria, mancano cioè di offrire immagini ed esperienze della società che siano condivise dalla medesima società presa nel suo insieme, ma più in generale i riti di massa ( siano essi ufficialmente definiti come religiosi, civili o politici ) non sono più in grado di costruire un’unica esperienza simbolica dell’ordine persino tra i propri partecipanti. Un quarto elemento riguarda l’apertura e l’estensione. In virtù della potenza dei media come veicoli di partecipazione immaginaria e a distanza, i riti non parlano più solo a coloro che nel concreto li organizzano o vi prendono parte ma estendono il loro discorso a una vastità di luoghi, gruppi e attori sociali. Così facendo « si aprono » poiché raggiungono enormi platee, diversi pubblici, e di conseguenza vedono una virtuale estensione del loro senso. Così che apertura ed estensione dei riti equivale all’apertura ed estensione dei loro significati. Non solo il rituale tende a essere codificato per un pubblico molto più vasto di quello dei propri membri, ma ogni ricevente si trova nella situazione di poter intendere, o decodificare, il senso del rito come meglio crede o ha l’impressione di credere. Inoltre, nella cosiddetta società « dell’informazione » i riti stimolano enormità di commenti ( non solo tra i membri partecipanti ma anche negli spettatori, nei media, e tra i membri che si misurano con i commenti esterni ), i quali ne generano di ulteriori, innescando processi discorsivi all’interno dei quali i significati del 4 rito non sono più certi o stabiliti una volta per tutte ma oggetto di negoziazione, manipolazione, interpretazione. In breve, i riti civili e politici contemporanei sono « aperti » nel senso che non garantiscono più esiti certi e predefiniti sul piano simbolico e comunicativo. Di conseguenza, il principale carattere che vanno assumendo sta nella loro inevitabile polisemia : presentano proprietà sempre più accentuate di polivalenza simbolica e spesso di ambivalenza. Contaminazione di linguaggi, frammentazione, apertura ed estensione, polisemia attraversano oggi pressoché ogni forma di rituale pubblico e sono fattori costitutivi di un nuovo fenomeno : la « catena dei rituali ». Con ciò si intendono almeno due cose. La prima è che i riti civili, religiosi e politici si parlano tra loro, dunque un rito ne chiama altri, talvolta producendone di nuovi, anche diversi tra loro nei termini in cui vengono ufficialmente definiti. La seconda è che un rituale a cui è attribuita valenza politica diviene oggetto di contesa interpretativa, innescando spesso contro-riti o altre forme di contrasto, celebrate in successione o in contemporanea ( di frequente, in Italia, nell’occasione della Festa nazionale del Venticinque aprile, nel caso delle manifestazioni per la pace o pro-guerra in Iraq ecc. ). In questo scenario i rituali, in quanto forme d’azione pubblica e collettiva e come processi caratterizzanti le pratiche politiche e di potere, sembrano oggi costituire più che altro un insieme di repertori, risorse incorporate nella cultura politica della società e che virtualmente sono a disposizione di chiunque intenda e riesca a farne uso in quanto attore partecipe di una « scena del potere »12 che di fatto è diventata una vera e propria arena. Veniamo così a discutere un elemento che attraversa i precedenti e che assume una rinnovata centralità nei repertori contemporanei. Mi riferisco al lavoro che i rituali operano sul corpo politico in stretto rapporto con le rappresentazioni più che mai vive, e tuttavia non più unitarie ma frammentate, del corpo della società. Si tratta di un faire corps che permane come fenomeno costitutivo delle rappresentazioni dello spazio in cui si manifesta il potere, e che da sempre opera su quattro figure : il corpo individuale e il corpo sociale, il corpo fisico e il corpo simbolico. Di questo antico lavoro viene oggi rinnovata l’intensità di un duplice processo : il corpo è costituto, trattato, sempre più come oggetto simbolico che tuttavia interviene sul piano fisico ; il corpo è celebrato come sacro e al tempo stesso come sacer13, un corpo sacrificabile. 12 G. Balandier, Le pouvoir sur scènes, Paris, 1992. 13 G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, 1995. 5 2. Corpi esibiti, corpi in lotta La politica italiana si mostra come un’arena in cui si celebra un sistema simbolico costituito da pratiche di allestimento dei campi di dominio e di rappresentazione dei rapporti di potere, le quali operano attraverso un complesso gioco di spazi14 e un rinvigorito lavoro sui corpi15. Gli spazi della politica pubblica sono di due tipi, nel senso che alludono a una duplice rappresentazione del mondo : quello della vita concreta, delle occasioni cerimoniali di raduno collettivo e dei riti di massa ; e il mondo discorsivo, virtuale, dei media. In virtù di un elaborato sistema liturgico i due spazi si parlano tra loro : oltre a fabbricare liturgie proprie16 i media amano commentare e reincorniciare il senso di ciò che viene celebrato nel mondo ordinario, inscrivendolo in un dato ordine del discorso, d’altro canto i raduni e i riti pubblici sembrano rispondere o rifarsi a ciò che di loro viene detto dai media. Ma la cosa più interessante è che questo scambio, gioco di spazi, viene messo in atto con un sottile lavoro sui corpi. Un rituale che bene incarna questo genere di lavoro è il dibattito televisivo tra politici. Il dibattito è un rito non solo perché si ripete con una certa frequenza nel tempo, perché nei momenti elettorali ha pressoché sostituito il vecchio rituale del comizio, perché si riferisce a una situazione istituzionale di immenso valore e dunque sacra per i partecipanti, o per le procedure che impone, riferite al carattere strutturato dei contesti pubblici di enunciazione e grazie alle quali il rituale definisce la qualificazione che devono possedere gli individui che parlano ( e che, nel gioco di un dialogo, dell’interrogazione, della recitazione, devono occupare una certa posizione e formulare un certo tipo di enunciati ) ; esso definisce i gesti, i comportamenti, le circostanze, e tutto l’insieme di segni che devono accompagnare il discorso ; esso fissa infine l’efficacia supposta o imposta delle parole, il loro effetto su coloro che sono rivolte, i limiti del loro valore costrittivo17. 14 M. Abélès, Politica, gioco di spazi, Roma, 2001. 15 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, 1976. 16 D. Dayan, E. Katz, Le grandi cerimonie dei media, Bologna, 1993. 17 M. Foucault, L’ordine del discorso… cité, p. 24-25. 6 Un dibattito è un rito nel senso durkheimiano del termine, una situazione in cui i partecipanti dimostrano di essere parte di una comunità morale18, e mentre lo fanno, ridanno vita a rappresentazioni credibili del carattere politico di questa comunità. Ma i dibattiti hanno incrementato le loro proprietà rituali da quando, in Italia, si sono definitivamente trasformati in veri e propri duelli, quotidianamente celebrati anche al di fuori delle campagne elettorali. Il passaggio al duello implica uno slittamento nell’orientamento del discorso : si dibatte non per informare ma per vincere, e vincere significa battere l’avversario dopo aver ingaggiato un corpo a corpo. I duelli mettono in scena gare verbali, spettacoli della parola e di lotta per la parola, ma a venir messo in gioco non è solo il linguaggio bensì l’intero corpo dei contendenti. In virtù del potere delle telecamere, che celebrano e al tempo stesso profanano il corpo fisico dei politici, i partecipanti indossano corpi come fossero armi da combattimento ; sebbene di solito si tratti di armature simboliche, corpi in lotta come figure espressive. Inoltre, i corpi bardati per l’occasione intervengono sul piano fisico, disciplinando e modificando realmente il corpo dei lottatori. Non solo i politici si preparano ai duelli curando attentamente l’alimentazione e organizzando scientificamente il look, dal vestiario al trucco di scena, ma può capitare che chiedano soccorso alla chirurgia per modellare corpi sempre pronti all’esibizione, a battersi con la massima prestanza. In certi casi, si può dire che la chirurgia plastica ed estetica, allineata ai dettami dello spettacolo e orientata a rinvigorire il corpo attraverso un suo ringiovanimento, viene applicata al fine di procurare l’antica immagine di autorità dotata di corpi immortali, sempre pronti alla battaglia e destinati a durare in eterno ( in Italia, il caso più eclatante si è avuto con i ripetuti lifting e infine il trapianto di capelli del premier Berlusconi ). La parola « duello » fa venire in mente le sfide cortesi, in genere tra nobili, che in passato venivano lanciate con la scusa di difendere l’onore di qualcuno, rigorosamente disciplinate da regole strettamente rispettate, e il cui esito prevedibile era la morte di uno degli sfidanti. Qualcosa di simile avviene nei duelli politici contemporanei, ma con alcune differenze di rilievo. La prima è che non ci si batte per onore, sebbene la lotta sia spesso tra « onorevoli », ma per forme di obbligazione legate a logiche dei media : la necessità del politico di apparire per continuare a esistere, e l’obbligo di esibirsi in lotta al fine di distinguersi, non confondersi con altri. La seconda è che l’esibizione non è 18 G. Navarini, L’ordine che scorre. Introduzione allo studio dei rituali, Roma, 2003. 7 quasi mai disciplinata da regole e quando ci sono vengono rigorosamente infrante, spesso con grande gusto di chi assiste allo spettacolo per poi commentarlo in attesa di un nuovo incontro. La terza è che la cortesia, nel linguaggio e nelle maniere, e sebbene possa risultare un’arma con cui andare vittoriosamente a bersaglio19, sembra completamente esclusa da queste forme di duello, sostituita da un giocoso vocabolario di sgarbi e aggressioni, un linguaggio « sportivo » ( i talk-show politici sono stati contaminati dai dibattiti sportivi, nel senso che ne hanno preso a prestito il battagliero formato comunicativo ) necessariamente polemico e che allegramente mima la guerra20. Tutto ciò che rimane dell’antica forma sta nell’esaltazione della cornice della sfida, e nell’esito che i partecipanti, il conduttore e gli spettatori forse si attendono : l’agonia e la morte di qualcuno tra i contendenti. Ovviamente si tratta di morte non reale ma simbolica, temporanea, e in virtù della quale il corpo del politico appare al tempo stesso come sacro e come sacer, sacrificabile. Si ripropone così, in forma nuova, il principio di reciprocità che l’antropologo Pierre Clastres21 aveva individuato in certe comunità « primitive » : al privilegio e dovere del capo di prendere la parola corrispondeva l’obbligo di assumersi il rischio di esporsi al pubblico, con la possibilità di ricevere gloria e onori così come di essere schernito, deriso, umiliato. Il dibattito televisivo rivisita questo principio : il rischio di umiliazione che grava su chi vuole fare il capo è procurato non da un obbligo che istituzionalmente accompagna il privilegio, ma dall’azione di altri che hanno la medesima ambizione e che per questo entrano nel rituale trasformandolo in arena, ring, lotta per la vita e la morte. La massima posta in gioco in un duello politico è infatti la morte, per annientamento, del corpo simbolico dell’avversario, una distruzione che avviene mediante lotte tra « facce »22, ossia corpi fisici ed espressivi. Seguendo come unica regola quella che dice che non c’è innalzamento senza umiliazione23, succede che al 19 S. Harris, Being politically impolite: extending politeness theory to adversarial political discourse, dans Discourse & Society, 12, 4, 2001, p. 451-72. 20 M. Foucault, Polémique, politique et problematisation, dans D. Defert, F. Ewald (éd), Dits et écrits, Paris, 1994. 21 P. Clastres, La société contre l’état. Recherches d’anthropologie politique, Paris, 1974. 22 23 E. Goffman, Il rituale dell’interazione, Bologna, 1971. H. Garfinkel, Conditions of Successful Degradation Ceremonies, dans American Journal of Sociology, 61, p. 420-442, 1955. 8 corpo umiliato di uno corrisponda il corpo innalzato dell’altro, di modo che certi corpi risplendono solo in virtù del sacrificio di altri che si degradano, e il tutto avviene in una catena di sfide per l’umiliazione che pare senza fine. Con l’unico risultato di una generale degradazione della sfera politica nel suo insieme24. Ora, la rilevanza dei duelli sta nell’aver intensificato la personalizzazione e spettacolarizzazione della politica, mettendo in scena corpi del potere sacri e sacrificabili, e nella capacità di rappresentare, mediante un esiguo numero di individui entrati in sfida unicamente per i loro corpi simbolici, un grande corpo sociale in frammenti, i cui potenziali membri, pur non conoscendosi, si fanno l’idea di lottare tra loro. In breve, i duelli politici sono oggi il rituale che più di altri invoca una società il cui corpo non è unitario ma frammentato, e con ciò finisce per alimentare divisioni, reali o inventate, tra diversi corpi sociali. L’efficacia del corpo simbolico di un politico, nei dibattiti come in altre esibizioni, si appoggia sulla capacità di rappresentarsi come « delegato » di un certo corpo sociale, e di solito il capitale linguistico e simbolico che il politico riesce a mettere in gioco nei duelli è pari alla forza di mantenere salda questa rappresentazione. Sostenendo questa tesi, Bourdieu25 sottolinea come il principale effetto dei rituali sia di marcare, rinforzare, le linee di divisione e le barriere di esclusione nel campo istituzionalmente autorizzato della presa della parola. Il duello celebra coloro che l’istituzione ( in genere un partito ) ha consacrato come delegati, cioè portavoce autorizzati del discorso pubblico, glorifica lo scontro tra i loro corpi simbolici, e allo stesso tempo istituisce una differenza tra i soggetti consacrati ( e i corpi sociali che rappresentano ) e coloro che consacrati non sono poiché non hanno accesso al rito ( e quindi i corpi sociali che non sono per nulla rappresentati ). Osservati in questo modo, i dibattiti-duelli assomigliano alle cerimonie fondate sull’etichetta nella società di corte francese studiata da Elias26, nel senso che svolgono funzioni per certi versi analoghe anche se in contesti ovviamente differenti. Come il cerimoniale dell’etichetta, secondo Elias, svolgeva la potente funzione di rappresentare le linee di demarcazione e istituire i rapporti di dipendenza tra i tre campi del dominio ( il campo del Re, dei nobili, e del popolo ), così il rituale dei duelli televisivi istituisce e mette in scena i rapporti tra i campi del dominio della politica contemporanea ( il campo 24 G. Navarini, Le forme rituali della politica, Roma-Bari, 2001. 25 P. Bourdieu, La parola e il potere… cit. 26 N. Elias, La società di corte, Bologna, 1980. 9 di azione dei leader, delle élite politiche, e dei cittadini spettatori-elettori ). Il terzo campo evocato dai dibattiti, o meglio, l’entità sociale che viene esclusa se non altro perché priva di delegati consacrati e autorizzati come duellanti, allude a un corpo sociale indefinito, fatto di individui realmente esistenti sebbene mancanti di una propria rappresentazione pubblica e unitaria. Tuttavia, un’entità di questo genere « si pone », si costituisce simbolicamente come corpo, nella misura in cui entra in azione, cioè quando i suoi membri partecipano concretamente a un proprio rituale di massa. 3. Il corpo sociale in cerca di religione civile Un rito di massa ( adunate, parate, marce, sfilate, cortei ecc. ) è sostanzialmente un assembramento, un accatastamento di corpi che si trovano uniti in una comune forma di agire, codificata e coordinata. Il rituale qui trasforma per davvero corpi individuali e fisici in un unico grande corpo sociale e simbolico : movimenti e attività dei singoli vengono sottoposti a regimi comportamentali sovraindividuali, il singolo perde la sua specificità e si fonde nel tutto con il quale e nel quale si muove, e con ciò viene attivata l’immagine-rappresentazione di un unico grande corpo in azione. Con riferimento ai riti nazionali, questa immagine-rappresentazione è stata spesso tematizzata all’interno della prospettiva chiamata « religione civile »27 : lavorando fisicamente e simbolicamente sui corpi e per un grande corpo, certi riti esprimono il tentativo di rappresentare la società, chiamandola nazione, e mostrando come in essa viva un legame che la tiene insieme come corpo unitario, dotato di membra tra loro connesse. Il grande corpo è rappresentato come religioso poiché fondato su legami orizzontali e dispositivi verticali. I legami orizzontali sono dati, in genere, dal patto sociale di fondo che si presume sussista tra i membri, da forme di rispetto per valori ultimi e da un sistema di obbligazioni morali. Il dispositivo verticale si riferisce invece a forme di delega nei confronti dell’autorità che incarna il patto, a garanzia del rispetto dei valori e delle obbligazioni. Dal momento che nel rito la delega di potere è rinnovata in termini simbolici, l’autorità che la incorpora stabilisce per l’occasione un’equivalenza 27 R. Bellah, Civil Religion in America, dans Beyond belief, New York, 1970. 10 con i simboli del patto, cioè si costituisce come « centro simbolico »28 della comunità. Beninteso, questo centro è ciò che condensa simbolicamente i legami orizzontali tra individui, ma di per sé non coincide con l’autorità. Il rituale evoca il centro simbolico della nazione, lo rappresenta in virtù di una celebrazione del corpo sociale, e al contempo mette in gioco un dispositivo verticale che dà l’occasione all’autorità politica di incorporare il centro. In breve, l’autorità ( in genere il Presidente o il Primo ministro ) non è ma occupa il centro simbolico al fine di garantire l’esistenza sia di questo sia la propria. In Italia, le celebrazioni che ufficialmente hanno il compito di procurare l’idea che una religione civile nazionale esista per davvero, la festa della Liberazione ( l’anniversario del Venticinque aprile ), la festa del Primo maggio e la festa della Repubblica del 2 giugno, costituiscono nei fatti cerimonie nelle quali, nonostante gli sforzi delle autorità istituzionali, il centro simbolico che viene celebrato non parla di unità bensì di spaccature e conflitti che attraversano diversi corpi sociali. Il Venticinque aprile e il Primo maggio, tradizionalmente al cuore della cultura di centro-sinistra, sono riti ancora fortemente temuti e osteggiati dalla cultura di centro-destra, i cui rappresentanti del resto sono potentemente esclusi da una legittima partecipazione se non altro perché in contrasto con i simboli e i valori cardine della religione civile promossa dalle due feste : l’immagine di una nazione la cui Costituzione è nata con la Resistenza, e quindi l’antifascismo ; l’ideale di una società che, liberata dalla dittatura, può sussistere solo se rinnova un patto sociale fondato sui diritti dei lavoratori, e quindi il lavoro come valore e fondamento della cittadinanza sociale e politica. D’altro canto la festa del 2 giugno, re-istituita dal Presidente della Repubblica Ciampi con lo scopo dichiarato di riportare in vita una religione civile nazionale, ha sinora fallito il suo compito per ragioni differenti, la prima delle quali va forse cercata nell’eccessiva esaltazione della Patria, un costrutto simbolico caricato di valori in un contesto nel quale più che unificare il costrutto sembra sollevare contraddizioni, sospetti, ambivalenze. Essendo la nazione impegnata in attività militari, fortemente osteggiate da gran parte del Paese, è tornata l’idea che amor di Patria significhi guerra e dunque, secondo il vecchio detto pro patria muori, sacrificio di corpi umani. Del resto, l’idea è stata rinforzata dalla solenne cerimonia funebre, con lutto nazionale e di Stato, per i morti nell’attentato di Nassiriya del novembre 2003. Anziché promuovere una religione civile eventualmente sostenuta da un nuovo culto dei caduti, il rituale officiato sull’Altare della Patria ha messo in 28 C. Geertz, Centri, re e carisma… cit. 11 scena uno straordinario insieme di contraddizioni e ambivalenze. Come sosteneva Hertz29, il rito funebre serve alle società poiché con esso le società rinnovano la promessa di immortalità che tacitamente contengono : a fronte della morte, di corpi che vengono a mancare, la comunità di cui essi sono parte viene riunita nella promessa che la vita vincerà, che società e vita sociale nonostante tutto andranno avanti, con le azioni di prima e più di prima. Ma dato che i corpi sono venuti a mancare a causa della missione in Iraq, un conflitto ritenuto dai più illegittimo, il rituale di Stato ha finito per annunciare che « la vita che proseguiva » sarebbe stata la guerra, e che « Patria » stava ancora a significare quel corpo astratto che si glorifica con il sacrificio dei suoi membri, chiamati « eroi » per coprire la vergogna dell’annuncio. Di qui l’ambivalenza : per un verso una totale partecipazione al dolore, l’espressione straordinaria di una comunità di sentimenti riunita nel rito piaculare ; per un altro l’imbarazzo derivato dai medesimi sentimenti, insieme carichi di solidarietà e vergogna, obbligazione e sospetto, con il timore che l’espressione di solidarietà servisse a legittimare una guerra illegittima per la società civile. 4. Corpi come massa Altre cerimonie di massa mettono in scena corpi sociali differenti, oscurati sia dalle rappresentazioni della nazione sia dalle messe in scena dei dibattiti-duelli. Le mobilitazioni di protesta, in Italia tornate splendidamente in vigore a partire dal cosiddetto « risveglio della piazza »30, sono riti che bene incarnano l’emersione di corpi sociali altrimenti invisibili. Esse si pongono sia come eventi corali che esprimono voci escluse dai riti televisivi sia come entità che puntano a farsi comprendere « nell’universo di obbligazioni morali » istituito dal discorso politico31, e la loro rilevanza sta in ciò che rappresentano : un pezzo imponente di società civile, non mediatica e non coordinata dall’autorità politica dello Stato, che mostra di esistere e di agire come grande corpo collettivo. 29 R. Hertz, Sociologie religieuse et folklore, Paris, 1928. 30 G. Navarini, Le forme rituali… cit. 31 W. A. Gamson, Hiroshima, the Holocaust, and the Politics of Exclusion, dans American Sociological Review, 60, 1995, p. 1-20. 12 Come i rituali della società totemica studiati da Durkheim32, le mobilitazioni rispondono al bisogno dell’individuo di uscire da sé, di entrare a far parte di un tutto più grande, un gruppo o un movimento sociale. In questa fuoriuscita dal mondo e dal corpo individuale risiede il fenomeno dell’estasi e della trascendenza, nonché il sentimento di far parte di qualcosa che va oltre il singolo ma di cui egli è parte attiva e costitutiva, cioè la società. Durkheim sottolinea come ciò avvenga solo in certi momenti, ricorrenti ma episodici, fenomeni « staccati » dalla vita ordinaria, che poi altro non è che vita vissuta in termini individuali. Così che, pur non essendo elementi propri della consueta vita ordinaria, i grandi riti collettivi sono ciò che la rende possibile : il momento in cui gli attori, trovandosi impegnati in azioni comuni, recuperano energie, linguaggio e significati per tornare a vivere insieme agli altri, e dunque a fare società. Infine, i riti di massa costituiscono uno dei rari momenti in cui viene creata una rappresentazione tangibile degli individui riuniti come grande corpo, assieme a un’immagine del mondo così com’è o si vorrebbe che fosse. In breve, si tratta di fenomeni corporali, religiosi e politici : riti che svolgono la funzione di re-ligare, rimettere insieme corpi di persone la cui esistenza nella vita ordinaria è di solito strettamente individuale e quindi apolitica. Le mobilitazioni di massa e di protesta svolgono tutte queste funzioni, ma a differenza dei riti istituzionali o di Stato assumono forme che recuperano il carnevalesco, ponendosi come « rituali della parte inferiore del corpo »33, cerimonie e feste che emergono non dalla testa ma dalla pancia della società o da più sotto. Il carnevalesco fa di essi « riti di inversione »34, coreografie di un temporaneo disordine che vuole manifestare l’ordine di contraddizioni su cui poggia la società politica. Per questo sono « riti contro » e insieme « riti per » : opposizioni alla politica virtuale, mediatica, e al tempo stesso nuove forme di partecipazione politica. Ma soprattutto le mobilitazioni sono riti che offrono non uno spettacolo della parola bensì uno straordinario spettacolo del corpo : manifestazioni in cui conta « l’esserci », l’esserci fisico, con l’azione, il movimento unitario, la prossimità e il contatto tra corpi. Sono rituali che celebrano la fatica di una presenza, il sudore della marcia, il ritmo del movimento fisico. In quanto marce e cortei, le mobilitazioni sono come processioni, forme di pellegrinaggio che 32 É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris, 1912. 33 E. Muir, Riti e rituali nell’Europa moderna, Firenze, 2000. 34 M. Gluckman, Order and Rebellion in Tribal Africa, London, 1963. 13 costituiscono communitas35, corpi uniti da una forza morale ; e in quanto « catene umane », sono forme che celebrano una comunione nel rispetto, abbracci collettivi che lottano per difendere qualcosa di comune e pubblico, e che spesso riguarda molti e non solo coloro che partecipano direttamente alla sua difesa. Infine, le mobilitazioni sono corpi messi in gioco, che rischiano per davvero, anche sul piano fisico. Lo stesso corpo dei dimostranti, quando è disarmato, pressoché « nudo », è assunto come emblema, simbolo dell’unica proprietà che come tale è rimasta al soggetto, il solo mezzo per agire, comunicare, far sentire la propria voce. Proprio perché questa voce a un tempo « contro » e « per » è sostenuta unicamente dal corpo, non solo le mobilitazioni sono guardate con sospetto dai media, ma la voce si spegne quando membra del corpo incendiano e distruggono, e quando diversi corpi sociali si scontrano tra loro. In questo senso le mobilitazioni di massa per il G8 di Genova, nel luglio 2001, hanno segnato un punto di svolta nel simbolismo del corpo messo in scena dai cortei di protesta. Non solo la manifestazione ha sancito con tutta evidenza un contrasto semiotico e cromatico tra corpi ( pensiamo alla nudità del corpo costituito dalle processioni di mani alzate e dipinte di bianco dei pacifisti no-global, al corpo nascosto, protetto, nero e ritualmente organizzato per l’assalto dei black bloc, e al corpo scuro e tecnicizzato delle forze dell’ordine ), ma la violenza reale generata all’interno della cornice simbolica sembra aver riportato in vita un antico dispositivo, quello in virtù del quale il potere ufficiale si dimostra capace di risplendere attraverso un cerimoniale punitivo. Al di là della domanda eternamente aperta sulle effettive cause di violenza in una mobilitazione di massa, va infatti osservato che tanto più questa si esprime come scontro fisico, cruento e sanguinoso, quanto più è in grado di realizzare drammi nei quali il potere istituito si manifesta come autorità legittimata a punire. In tal senso, le mobilitazioni con esito mortale come il G8 di Genova sembrano svolgere funzioni analoghe, seppur in contesti radicalmente differenti, ai rituali medioevali della pena capitale studiati da Foucault. Nel Medioevo, il sanguinoso e drammatico martirio subito dal corpo fisico del condannato era un metodo per umiliare e distruggere pubblicamente il suo corpo simbolico, vale a dire ciò che il malcapitato rappresentava, o poteva rappresentare, in virtù della sua azione criminosa. Viene annunciato che la vittima è giustiziata perché ha offeso il sovrano il cui corpo coincide con il corpo collettivo della società. Così che la massa radunata per il supplizio svolge una doppia funzione, rappresentare il corpo 35 V. Turner, Antropologia della performance, cit. 14 sociale offeso e testimoniare la realtà dell’avvenimento, mentre il potere sovrano tanto più risplende come corpo simbolico quanto più il condannato è umiliato, torturato, fisicamente massacrato. In questa scena di legittima violenza pubblica, autorizzata e istituzionalizzata, il lavoro sul corpo sacer individuale è strettamente connesso alla rappresentazione materiale del sacro corpo del potere. Il corpo martoriato del condannato riflette il corpo sublime della sovranità, abbiamo cioè un corpo totalmente degradato in virtù del quale prende visibilmente corpo e risplende, grazie a un dispositivo rituale di inversione, il potere che realmente domina ( o vuole dominare ) una società come totalità integrata. È questo « un potere che non solamente non nasconde di esercitarsi direttamente sul corpo, ma si esalta e si rinforza nelle sue manifestazioni fisiche » ; il carattere pubblico di queste manifestazioni è infatti ciò a cui questa forma di potere aspira maggiormente : cercare « il rinnovamento del proprio effetto nello splendore di manifestazioni eccezionali », ovvero ritemprarsi « facendo risplendere ritualmente la propria realtà di superpotere »36. Qualcosa di simile sembra avvenire nelle più tragiche e violente mobilitazioni di massa contemporanee, dove l’intera società può assumere virtualmente il ruolo di testimone sia dell’offesa, la provocazione e la sfida all’autorità lanciata dai dimostranti, sia del legittimo potere di reprimere, umiliare e punire i corpi sociali trasgressivi, sia dell’effettiva distruzione di ciò che essi volevano rappresentare. Si ripropone così in contesto diverso ma in forma analoga il dispositivo rituale di inversione : quello di un potere che, in assenza di pene capitali, non nasconde di esercitarsi ancora direttamente sul corpo, esaltandosi nelle sue manifestazioni fisiche, e dove la tragedia può servire a ricordare che la sua temibile ambizione di superpotere è rimasta viva, ben oltre il Medioevo. 5. Persistenze nel congegno del doppio corpo In conclusione, vorrei accennare a certe persistenze del congegno rituale trattato nel celebre studio sul « doppio corpo del re » medioevale37. In particolare, il fatto che alcune istituzioni dispongono ancora al proprio vertice capi con duplice corpo, quello fisico che può morire e quello simbolico che mira all’eternità ; che nel rapporto di 36 M. Foucault, Sorvegliare e punire… cité, p. 62. 37 E. Kantorowicz, I due corpi del re, Torino, 1989. 15 dipendenza tra i due permane la supremazia del secondo sul primo ; che nella gestione delle « crisi », i momenti di malattia o morte del capo, l’esibizione del corpo umano che si deteriora possa risultare tanto un problema quanto una risorsa con la quale l’istituzione riproduce se stessa. Al soggetto che detiene massime cariche di potere, l’istituzione ( la Chiesa, un partito politico ecc. ) procura da sempre un secondo corpo, simbolico, costitutivo dell’immagine semplificata dell’istituzione, e quindi del corpo sociale che essa rappresenta e di cui il soggetto è capo. Dato che ogni istituzione per essere tale deve porsi come immortale, e manifestarne la pretesa nel tempo, il corpo simbolico che la rappresenta è portato a seguire, il più a lungo possibile, la medesima sorte. In breve, il « re » ha due corpi : quello fisico, soggetto alla natura umana, è destinato a perire ; quello simbolico, soggetto alle dinamiche istituzionali, aspira all’immortalità. Ora, uno dei problemi che ancora oggi si presenta, allorché il capo viene a mancare, preannuncia una prossimità alla morte o è visibilmente deteriorato poiché malato, è sia come garantire l’immortalità dell’istituzione in quanto rappresentazione, evidentemente fondata sulla presenza pubblica del corpo fisico, sia come controllare le pratiche di successione del potere. Di recente, la nostra società ha manifestato una grande varietà di queste situazioni, ma i casi più eclatanti sono forse stati il lungo travaglio e poi la morte di Papa Giovanni Paolo Secondo e la malattia che ha colpito il leader della Lega Nord Umberto Bossi. Non potendo trattare nel dettaglio questi casi, mi limito a sottolineare due elementi, riconducibili al potere esercitato dall’istituzione nel trattare il corpo deteriorato e agonizzante del suo capo. Il primo riguarda il rapporto tra pubblico e privato. Oggi, il fatto che il « re » si ammali seriamente e rischi di morire, fa sì che il suo « privato mondo della vita » venga reso straordinariamente pubblico, anche se in modo selettivo. Ciò vuol dire che l’istituzione non può facilmente e impunemente privarsi del corpo fisico del suo capo né della sua visibilità, e ancor più quando il corpo è segnato dai destini terreni, infermità o malattia. Sicché l’istituzione fa del corpo precario del suo capo un vero e proprio oggetto rituale : deve resistere il più possibile come corpo fisico ( deve soffrire ma anche lottare, e ovviamente mostrarsi in pubblico, soprattutto parlare ) poiché in tal modo il « re » manifesta di onorare fino in fondo la sua « corona », il sacro ufficio, vale a dire l’istituzione, e poiché in tali frangenti altri attori hanno modo di preparare l’immortalità ( la continuità nel tempo, la successione ) di ciò che egli rappresenta. In tal senso, viene confermata l’antica legge del doppio corpo dei sovrani medioevali: essi non dispongono pienamente dei due corpi, poiché il loro corpo fisico è sempre sottomesso, nelle 16 situazioni ordinarie e ancor più in quelle straordinarie, a quello simbolico. Esiste cioè una dipendenza del corpo fisico rispetto al corpo simbolico-istituzionale : il primo può anche morire, o soffrire, ma lo deve sempre fare in onore e per lo splendore del secondo. L’altro elemento riguarda il rapporto tra le attività di esposizione e quelle di separazione e protezione. Il corpo malato, sofferente, deteriorato del « re » ( in breve, un corpo privato sia di facoltà ordinarie sia degli attributi di chi esercita potere, in primo luogo quello di riuscire a parlare, ossia procurare l’impressione di essere in grado di dare ordini ) va gelosamente separato, interdetto, protetto anche con il segreto da una totale invasione dello sguardo esterno. La stessa separazione è qui celebrazione dello straordinario, della sacralità che deve essere attribuita al corpo tanto più questi è simbolo di qualcosa che deve essere rappresentato come cruciale per la vita collettiva, istituzionale, politica. Tuttavia, come si è detto il corpo deteriorato non può essere totalmente nascosto, e viene dunque mostrato al pubblico con dovuta cura. Così che il segreto e la riservatezza da una parte, le pratiche cerimoniali di esibizione pubblica dall’altra, costituiscono nel loro insieme la grande cornice entro cui il corpo del « re », avvicinandosi alla fine, parla agli uomini in modo nuovo, ma con la forza di un congegno antico. Come il capo lotta sino alla fine per la vita, soffre ma senza nascondere il suo travaglio, così l’istituzione che rappresenta lotterà per la propria vita nel futuro. Come il « re » esprime sino all’estremo amore e attaccamento per il corpo sociale che incarna, così dovranno fare i membri di quel corpo per l’istituzione che, si dà per scontato, nonostante tutto sopravviverà. E quanto più il « re » si mostra attaccato al corpo simbolico, sminuendo quello fisico, tanto più ciò che rappresenta si incammina verso l’immortalità. Negli sviluppi del congegno, l’istituzione è spinta a mettere in campo tutto quanto gli è possibile per rafforzarsi, tanto che la malattia o la morte del « re », per quanto grande possa essere stato, sono oggi un problema ma anche oggetto di tecniche potenti, e indubbiamente straordinarie, per rigenerare l’intero corpo sociale che essa intende comandare. Naturalmente, il corpo sociale si rigenera in virtù di un rinvigorimento della fede nell’istituzione, e di tale rinnovata vigoria gli individui sono chiamati a prendere parte in virtù di ciò che il « re » ha espresso nel suo travaglio. Aver fede e sostenere l’istituzione che prosegue nella sua vita e nelle sue azioni, e nella sua politica, significa infatti evitare di tradire il « re ». Cosa che risulterebbe tanto più grave, imperdonabile, quanto più il « re » ha patito, mostrato di saper soffrire, sopportare il travaglio, e di averlo fatto nel solo nome della grande causa che unisce, in breve per l’istituzione. 17 Che poi l’istituzione continui a vivere, agire politicamente, come davvero avrebbe voluto il vecchio capo, è domanda che lo stesso congegno non consente di porre a voce alta. Del resto, ciò che l’istituzione si assicura è la propria successione attraverso quella simbolica del « re ». Un altro capo prenderà il posto di quello che si va spegnendo, e si può star sicuri che il nuovo parlerà ( e così dirà di fare, almeno in principio ) in nome del vecchio ; cioè si attiverà per una sua propria politica, ma legittimato da colui che l’istituzione, per mezzo del congegno rituale, ha potentemente rappresentato come sacro mandante. 18 Bibliographie Abélès Marc, Politica, gioco di spazi, Roma, Meltemi, 2001. Agamben Giorgio, Homo sacer. 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