Circolarità riflessiva e fasi della ricerca sociale

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Anita Bacigalupo
Dottorato in Sociologia applicata e metodologia della ricerca sociale – XXII ciclo
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LA CIRCOLARITÀ RIFLESSIVA NELLE FASI DELLA RICERCA SOCIALE
Maggio 2007
“La ricerca della verità! Si nasconde… e voi scienziati la cercate ovunque. Scavate un
po’ qua e un po’ là. Scavate in un posto… “Etualà!” l’atomo è formato da protoni;
scavate in un altro posto… “Éureca!” il triangolo A B C è uguale al triangolo A¹ B¹ C¹.
Per me è diverso. Anch’io scavo cercando la verità, ma nel frattempo le succede
qualcosa. Si modifica. E così io, al posto della verità, trovo un gran
mucchio…pardon…non dirò di che.”
Tratto dal film “Stalker” di A. Tarkovskij (1979)
1. Il problema della riflessività nella ricerca sociologica
Il tema della riflessività può essere presentato all’interno del dibattito epistemologico che si è
sviluppato intorno alla problematica del rapporto tra sapere di senso comune e conoscenza
sociologica. Le premesse del discorso epistemologico nelle scienze sociali, che rispondono a
domande quali «Che tipo di fatti sono i fatti studiati dalle scienze sociali?» (Sparti, 2002:247),
hanno stimolato la ricerca epistemologica e filosofica sul linguaggio come attività performativa di
realtà e sulla dicotomia tra realtà oggettiva e realtà interpretata. Cosa significa affermare che i
fenomeni sociali sono strutturati nel – e attraverso il - linguaggio (Hughes e Sharrock, 1997)? Che
tipo di conseguenze ne derivano da un punto di vista epistemologico? Che tipo di rapporto si
struttura tra soggetto e oggetto della ricerca sociale? Qual è il ruolo del ricercatore? Il dibattito sulla
“costruzione sociale della realtà” ci porta dritti al cuore del tema che discuterò in questo paper: la
natura dell’oggetto che viene socialmente costruito dagli scienziati sociali, sia nelle fasi della
ricerca che nei suoi esiti.
Prima di entrare nel merito del tema mi sembra opportuno riportare una breve introduzione del
concetto di riflessività dato che questo attraversa tutto il lavoro del sociologo, dalla scelta delle
teorie di riferimento alla fase di pubblicazione degli esiti della ricerca. Il concetto di riflessività è
stato oggetto di molteplici interpretazioni ed analisi e, pertanto, nella pratica sociologica si possono
1
distinguere diverse definizioni che corrispondono a differenti problematiche nel lavoro di ricerca.
Nonostante queste differenze, possiamo rintracciare alcune caratteristiche che ci permettono di
utilizzare lo stesso termine per parlare di processi diversi. Tutte le problematiche riflessive che
incontriamo nel lavoro di ricerca sono in ultima analisi riconducibili al problema del rapporto tra un
oggetto e un soggetto di ricerca che hanno la stessa natura: una natura sociale. Il cardine del
discorso della riflessività è, quindi, il ruolo che il ricercatore assume nella ricerca e il rapporto che
sviluppa, durante la ricerca, con gli attori sociali1.
Per Bourdieu (1992) la riflessività è un’autoanalisi del sociologo che riflette sulle condizioni di
possibilità della propria disciplina e che sottopone sé stesso al medesimo esame critico a cui
sottopone il proprio oggetto d’indagine. Il ricercatore è il soggetto che avvia un processo di
oggettivazione sul mondo sociale; nella relazione di potere che s’instaura tra soggetto ed oggetto
della ricerca è il ricercatore che definisce, analizza, categorizza e descrive il proprio oggetto
scientifico. Per Bourdieu, quindi, la questione della riflessività è un problema di potere, connesso
alla possibilità politica di far parte di un istituzione che legittima il tipo di sapere prodotto sul
mondo sociale (Bourdieu e Wacquant, 1992:32).
Sparti definisce la riflessività «una circolarità ricorsiva» (Sparti, 2002:253) connessa al doppio
livello ermeneutico, ovvero alla capacità interpretativa posseduta sia dal ricercatore sia dagli attori
sociali. È nel processo riflessivo che vengono prodotti i significati, ovvero i risultati, storici e
contingenti, dei modi di agire e pensare degli attori sociali (compresi i ricercatori). In questo senso
la caratteristica primaria del tipo di conoscenza che viene prodotta in sociologia è che non rimane
indifferente al proprio oggetto di studio. Questo gioco di riflessi possiede un caratteristica
fondamentale: nessuno è escluso dal processo di feedback. La scienza ed il senso comune si
guardano, si condizionano e s’influenzano a vari livelli.
Melucci (1998) si concentra su un problema diverso: l’autore afferma che mentre nella ricerca
qualitativa i problemi della riflessività occupano un grande spazio di riflessione, in quella
quantitativa si sono sviluppate delle procedure di ricerca sempre più sofisticate senza però
un’adeguata attenzione ai problemi ed ai limiti che il ricercatore incontra nelle fasi della ricerca.
L’esigenza di oggettivazione e di naturalizzazione del proprio sapere continua ad oscurare le
problematiche effettivamente incontrate nei processi di raccolta dati e in quelli di interpretazione
1
Sebbene in questo paper il tema della riflessività sarà analizzato a partire dalle fasi della ricerca sociologica, è
necessario sottolineare che, a partire dagli anni ’70 con il contributo della Scuola di Edimburgo, sono emersi alcuni
indirizzi critici di ricerca interessati all’analisi della riflessività nella scienza naturale. Da un lato sono stati condotti da
scienziati naturali studi sul proprio ruolo all’interno dell’interazione con gli oggetti di ricerca; un esempio in questo
senso è il libro “Quando il lupo vivrà con l’agnello” dell’etologa francese Vinciane Despret (2004). Dall’altro i
sociologi sono entrati nei laboratori ed hanno analizzato i meccanismi sociali che permettono la conduzione degli
esperimenti, la produzione e la comunicazione del lavoro scientifico (Hacking, 2000).
2
dei risultati. Secondo Melucci, i problemi a monte della ricerca sociale sono quindi il rapporto tra
ricercatori ed attori sociali ed il modo con cui questo rapporto viene narrato ed esplicitato. Di
seguito vorrei sviluppare alcuni degli spunti teorici di questi autori per analizzare il tema della
circolarità riflessiva nelle diverse fasi della ricerca sociale.
2. Riflessività e struttura della ricerca
Procedere seguendo le fasi della ricerca mi sembra un modo interessante e proficuo per presentare
la questione della riflessività nella sua complessità. A questo scopo ho deciso di dividere il processo
di ricerca in cinque momenti. Per prima cosa analizzerò le implicazioni riflessive delle scelte
teoriche ed epistemologiche di partenza che in parte strutturano anche la scelta del campo
d’indagine; in secondo luogo approfondirò la questione della scelta degli strumenti d’indagine
esplicitando le implicazioni epistemologiche che riguardano alcune tecniche; in terzo luogo
prenderò in esame i problemi riflessivi del momento dell’analisi e dell’interpretazione dei dati; il
quarto punto sarà dedicarlo al problema della redazione del testo, tema molto sviluppato in
antropologia, ma forse non sufficientemente nel discorso sociologico; infine esaminerò i processi di
circolarità riflessiva che interessano il momento della diffusione dei dati in relazione al pubblico di
riferimento degli esiti della ricerca. Come vedremo, le fasi della ricerca non sono rigidamente
separate e definite: «le decisioni prese in ciascuna fase hanno delle conseguenze teoriche e pratiche
sulla fase successiva» (Gobo, 1998:87).
2.1 Scelte teoriche e campo d’indagine
Partiamo dall’analisi dei primi passi che muove un ricercatore nell’intraprendere un progetto di
ricerca. Ogni ricercatore, nella propria carriera formativa e lavorativa, costruisce la propria idea sul
mondo sociale e prende delle scelte di ordine epistemologico e teorico. Queste scelte implicano un
assunto di fondo che riguarda la natura dell’oggetto della ricerca sociologica: le due grandi
tradizioni sociologiche, quella positivista e quella interpretativa, offrono, in estrema sintesi, due
visioni molto diverse dell’ontologia dei fatti sociali e delle metodologie in grado di spiegarli o
descriverli.
L’alternativa interpretativa pone delle sfide di carattere epistemologico difficilmente ignorabili.
Rifacendoci a questo paradigma, possiamo raffigurarci il mondo sociale come il complesso insieme
di multiformi spazi interazionali in cui gli individui entrano in relazione tra loro modificando,
attraverso le azioni e i significati che queste veicolano, il contesto in cui agiscono (Fig. 1). Le
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implicazioni epistemologiche di questo approccio sono molteplici; in questa sede vorrei
approfondirne almeno due.
La prima riguarda il ruolo del ricercatore all’interno del mondo sociale. In quanto individuo il
ricercatore partecipa alla costruzione del proprio oggetto di studio intervenendo sia come attore
sociale, dotato di un set di ruoli specifici, sia come ricercatore, andando ad agire nel contesto della
ricerca. Come abbiamo visto, questa è il carattere peculiare della riflessività ed è un tema che
ritornerà in tutto l’articolo, proprio perché è l’elemento caratterizzante di tutte le fasi della ricerca
sociale.
-
S/Oggetto di studio pre-intepretato (interpretazione di I livello).
Concetti di senso comune.
Scelte del ricercatore (metodologia, tecniche di ricerca, oggetto di ricerca, campionamento,
tipologia di domande, ecc).
Raccolta dati - interpretazione e riflessività.
Mondo sociale
S/Oggetto di studio della sociologia
Cultura / subcultura
universo di significato
-
Conoscenza sociologica
Teoria - Analisi dei dati
Paradigma
Senso comune scientifico
Risultati della ricerca.
Interpretazione di II livello – riflessività.
Ricaduta della conoscenza sociologica sul senso comune (mass media, policies, ecc).
Azioni, relazioni e significati intersoggettivi
Ricercatore
Individuo
Fig. 1 – Mondo sociale, sapere di senso comune e conoscenza sociologica.
La seconda implicazione riguarda la natura dell’oggetto di ricerca. Il ricercatore sociale, infatti, ha
come oggetto di studio delle realtà contestuali estremamente complesse nelle quali vengono prodotti
4
e reiterati significati e saperi di senso comune. La conoscenza di senso comune è basata
sull’esperienza (Schütz, 1953); è fondata su un linguaggio situato (Melucci, 1998); è utile per
l’organizzazione delle informazioni che vengono dal mondo e per la loro comprensione (Geertz,
1983) e, infine, è molteplice anche all’interno di uno stesso orizzonte culturale (Hannerz, 1992). Gli
individui utilizzano questo tipo di conoscenza per interpretare il mondo in cui vivono e, la realtà in
cui agiscono gli attori sociali, è l’oggetto di ricerca della sociologia. Il lavoro del ricercatore,
secondo questa prospettiva, è quindi quello d’interpretare una realtà pre-interpretata. Gli oggetti di
pensiero delle scienze sociali sono riferite a – e fondate su - le categorie di senso comune, definibili
come costrutti di secondo livello (Schütz, 1953). Sparti (2002) suggerisce di ordinare su tre livelli i
diversi gradi d’interpretazione: al primo livello troviamo l’uomo della strada che interpreta il suo
mondo; al secondo livello il ricercatore interpreta il mondo sociale interpretato dell’attore (si parla
del mondo sociale); al terzo livello la riflessione epistemologica s’interroga sull’interpretazione
d’interpretazioni dello scienziato sociale (si parla del parlare del mondo sociale).
Le scelte epistemologiche, quindi, influenzano il posizionamento intellettuale del ricercatore
all’interno del panorama teorico della disciplina. Mettere in luce i presupposti epistemologici,
teorici e metodologici significa evidenziare e sottoporre ad analisi critica l’archeologia delle proprie
scelte professionali e delle proprie interpretazioni (Bourdieu e Wacquant, 1992). Bourdieu, infatti, è
sicuramente l’autore che meglio ha analizzato le condizioni sociostoriche di produzione del sapere
sociologico. Il posizionamento intellettuale influisce anche sulle domande cognitive che un
ricercatore è in grado di porsi a partire dal particolare sguardo che assume.
Un ulteriore elemento riflessivo riguarda la biografia del ricercatore e, quindi, la sua appartenenza
di classe, genere, etnia e generazione. L’accesso ad un determinato campo d’indagine può essere
negato o facilitato proprio in base alle caratteristiche personali del ricercatore o della ricercatrice.
Chiaramente non basta esplicitare questi aspetti biografici per eliminarne gli effetti distorcenti sugli
esiti della ricerca, ma, secondo Bourdieu, è necessario che il ricercatore analizzi i modi in cui queste
caratteristiche influenzano il proprio modo di fare ricerca, di accedere al campo e di relazionarsi con
esso, attraverso una vera e propria autoanalisi (Bourdieu e Wacquant, 1992). Il campo d’indagine
viene quindi definito prima dell’avvio della ricerca vera e propria e tale definizione deriva da
conoscenze teoriche e personali pregresse che possono essere esplicitate o meno dal ricercatore.
Prendiamo ad esempio due ricerche che possono aiutarci a chiarire alcune processi riflessivi,
impliciti od espliciti. Le due ricerche che prendo in analisi riguardano il tema del suicidio e sono
quella di Durkheim del 1897 (Il suicidio) e quella di Atkinson del 1978 (Discovering Suicide). Il
suicidio è si per sé un campo d’indagine molto problematico; per ricercatore che intenda studiare il
fenomeno da un punto di vista quantitativo non è possibile raccogliere dati di prima mano, ma è
5
costretto, per ovvi motivi, ad usufruire di dati secondari. Per il ricercatore qualitativo l’accesso ai
dati è comunque problematico perché dovrà studiare il fenomeno a partire dalle interpretazioni che
ne danno degli attori sociali che non sono i protagonisti dell’evento. La scelta di tale campo
d’indagine è, quindi, quasi sempre segnata da motivi che spesso esulano dall’interesse per il
suicidio in sé, ma che sono piuttosto collegati alle problematicità metodologiche dell’argomento.
Atkinson (1978), ad esempio, cerca di collocare il tema del suicidio nell’ambito della storia del
pensiero sociologico facendo una rassegna teorica il più ampia possibile; partendo dal presupposto
che il suicidio, nonostante le apparenze, non sia un tema centrale in sociologia, l’autore sottolinea
come i sociologi si siano occupati prevalentemente dell’argomento concentrandosi sugli aspetti
metodologici connessi alla raccolta dati. A favore di questa lettura, l’autore sostiene che Durkheim
abbia utilizzato il fenomeno del suicidio per dimostrare la validità delle sue idee sull’analisi dei fatti
sociali (utilizzo dei dati statistici e variazioni concomitanti) e per affermare una superiorità
scientifica dell’approccio sociologico su quello psicologico. Questa critica mossa da Atkinson ai
suoi colleghi ci offre lo spunto per sottolineare come la scelta del campo d’indagine parta dagli
interessi teorici e metodologici dei ricercatori e che, di conseguenza, fin dall’inizio di un analisi
sociologica lo studioso interviene nel direzionare lo sviluppo della ricerca.
Utilizzando queste due ricerche possiamo approfondire un altro aspetto della riflessività che
caratterizza questa fase dell’indagine sociologica. Abbiamo detto che le scelte epistemologiche,
metodologiche e teoriche del ricercatore possono essere esplicite o meno all’interno del testo, ma
comunque sono intuibili dal modo in cui il ricercatore descrive il procedimento e gli esisti della
ricerca. Durkheim, in un testo del 1985 (Le regole del metodo sociologico), esplicita alcuni aspetti
caratterizzanti della metodologia sociologica. In particolare, la realtà sociale è vista come oggettiva
ed esterna al ricercatore; infatti il ricercatore e l’oggetto di studio sono due entità separate e
mutamente indipendenti. La garanzia di un’oggettività scientifica, cara al progetto positivista, è data
dal fatto che lo studioso non deve essere influenzato e non deve influenzare il proprio oggetto di
ricerca; il compito dello scienziato sociale è, quindi, quello di scoprire le leggi che governano la
realtà sociale e a tal fine può ricorrere all’impianto metodologico che le scienze sociali condividono
con quelle della natura (Stefanizzi, 2003). Ne Il suicidio (1897) Durkheim non esplicita il proprio
posizionamento teorico e il linguaggio che utilizza nel testo sembra essere neutrale ed oggettivante,
proprio come richiesto dallo stile scientifico dell’epoca, ma come vedremo nei paragrafi sulla
raccolta e sull’analisi dei dati tali premesse sono un filtro, uno sguardo particolare sui fenomeni.
Analizzando il testo di Atkinson, invece, ci rendiamo conto di come alcune svolte epistemologiche
abbiano influenzato il modo di guardare alla realtà sociale e, di conseguenza, di fare ricerca.
L’interessante introduzione del libro Discovering Suicide ci mostra come l’intento iniziale di
6
Atkinson fosse quello di calcolare in modo più accurato i tassi di suicidi e, quindi, di ottenere una
descrizione del fenomeno più vicino alla realtà. Nel primo capitolo del libro, egli esplicita la propria
biografia (professionale) facendo un tentativo di riflessività epistemica (così la definirebbe
Wacquant, 1992); l’autore descrive abbastanza dettagliatamente il proprio percorso teorico e
riferisce di come l’incontro con certi autori e certe correnti di pensiero (dapprima l’interazionismo
simbolico e la labelling theory e poi l’etnometodologia) abbiano modificato profondamente le
premesse su cui basava il proprio lavoro, spostando definitivamente il focus delle domande
cognitive. Esplicitare queste storie professionali non “salva” la ricerca dalla presenza attiva del
ricercatore, ma serve allo studioso ad avere coscienza del proprio ruolo e ad evitare il rischio di
interpretarsi come neutrale e distante quando, nella pratica, agisce ed influenza il campo d’indagine.
2.2 Scelta degli strumenti d’indagine e raccolta dati
La fase dell’indagine sociologica che ho chiamato “scelta degli strumenti e raccolta dati” descrive il
momento della ricerca in cui lo studioso si trova nel campo, faccia a faccia con il proprio oggetto
d’interesse, e in cui deve decidere cosa osservare e raccogliere, e come farlo. La fase della ricerca
sul campo e la scelta degli strumenti d’indagine sono connesse alle premesse adottate dal
ricercatore; in questa sede c’interessa analizzare come i nodi problematici posti dal paradigma
interpretativo abbiano messo in crisi alcuni assunti del positivismo classico.
Una delle questioni maggiormente dibattute è quello della separazione o inclusione del ricercatore
all’interno del campo d’indagine. Secondo Melucci l’avvento e lo sviluppo delle teorie
interpretative hanno portato la disciplina ad una ridefinizione del rapporto tra l’osservatore e il
campo: «si potrebbe dire che dalla dicotomia osservatore/campo si passa alla connessione
osservatore-nel-campo» (Melucci 1998:22). Questo cambiamento di prospettiva ha portato alla
consapevolezza che l’opposizione tra osservazione neutrale ed intervento è ormai superata perché
ogni osservazione è anche intervento. Nel campo d’indagine l’osservatore è in relazione con il
proprio oggetto di ricerca; il tentativo, portato avanti dal progetto positivista, di neutralizzare il
ruolo del ricercatore viene, quindi, messo duramente alla prova dal riconoscimento del fatto che il
ricercatore interagisce con gli altri attori sociali tanto nelle pratiche della vita quotidiana quanto
nelle pratiche di ricerca. Per esempio, in antropologia si preferisce ormai l’utilizzo di terminologie,
quali collaborative ethnography, che mettono l’accento sull’interazione oggetto/soggetto della
ricerca ed abbandonano qualsiasi eco, di stampo positivista e malinowskiano, contenuti in termini
quali osservazione partecipante.
7
La riflessione metodologica sulle tecniche qualitative è, ormai da diversi decenni, coinvolta nel
dibattito sulla riflessività e sul coinvolgimento del ricercatore nel campo d’indagine. Prendiamo ad
esempio lo strumento per eccellenza della ricerca qualitativa in sociologia: l’intervista.
Sappiamo che le interviste possono essere di diverso tipo (non-strutturate, semi-strutturate, ecc.),
ma comunque le possiamo definire come situazioni create dal ricercatore che le guida ponendo delle
domande a -o indirizzando il- proprio interlocutore. La scelta di chi intervistare e della griglia di
domande da porre riflette l’idea che il ricercatore ha sulle dinamiche sociali e culturali che vuole
studiare. L’intervista, come strumento, cerca di minimizzare la presa di parola del ricercatore sul
proprio intervistato; alcuni problemi di riduzionismo, tuttavia, permangono: se, come afferma
Bourdieu, il sociologo è il soggetto dell’oggettivazione, anche nella ricerca qualitativa più attenta e
rigorosa, gli attori sociali oggetto di studio saranno descritti a partire dalle esperienze – e le
narrazioni- del ricercatore. Innanzitutto bisogna considerare le intenzionalità conoscitive coinvolte
durante un’intervista. Per esempio il ricercatore che organizza l’intervista è interessato a sapere
cosa pensa il testimone privilegiato su un determinato argomento; l’intervistato vorrà, invece,
veicolare la propria opinione sul tema in modo coerente e razionale (anche se non è scontato che
questo intento arrivi a buon fine). In effetti ciò che accade in un’intervista è la razionalizzazione di
pratiche che gli attori agiscono ed interagiscono nel loro vivere quotidiano entro una dimensione
ideale. L’intervista, secondo questa prospettiva non è in grado di restituire un quadro delle opinioni
e dei valori degli attori sociali e, quindi, dovrebbe essere analizzata come una pratica tra le altre2.
Alcuni dei problemi che abbiamo già rilevato nella discussione della tecnica dell’intervista possono
essere ripresi ed articolati per quel che riguarda il questionario. Se l’intervista semi-strutturrata o
non-struturata offre la possibilità all’attore sociale di parlare di sé, il questionario a risposta chiusa,
invece, amplifica alcuni dei rischi di riduzionismo sopra descritti. La questione del coinvolgimento
del ricercatore nel campo d’indagine, comunque, ha cominciato ad interessare anche le tecniche di
ricerca quantitative, soprattutto per quel che riguarda le modalità con cui vengono costruiti e
somministrati i questionari. Un tipo di problema, quindi, è la modalità della somministrazione: chi è
l’intervistatore? Come e dove vengono poste le domande? Sono domande che ripropongono i
problemi epistemologici già posti da Bourdieu3.
2
Molti degli spunti che ho utilizzato nella trattazione critica della tecnica dell’intervista mi vengono da V. Matera,
lezione del 9 maggio 2007, tenuta presso la Scuola di dottorato del Dipartimento di Sociologia dell’Università MilanoBicocca
3
É importante in questa sede ricordare che la teoria metodologica quantitativa è da sempre molto attenta al problema
della validità e dell’attendibilità dei dati; possono essere adottati accorgimenti e calcoli sugli errori, ma va ricordato che,
al momento, non sono ancora state trovate risposte in grado di risolvere i delicati problemi di una disciplina che ha che
fare con un oggetto di ricerca interattivo e riflessivo.
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La costruzione delle domande di un questionario è in sé una forma di costruzione del dato. Nel
pensare alle dimensioni, agli indicatori ed alle variabili adeguate, per la produzione di conoscenza
su un determinato argomento, il ricercatore immagina le possibili risposte. Per evitare errori nella
costruzione del set di domande si ricorre, solitamente, alla ricognizione della letteratura teorica
esistente, cercando di illustrare il tema nella sua complessità. Questo implica, comunque, che il
ricercatore abbia una serie di credenze e categorie antecedenti che vengono riflesse nel tipo di
domande del questionario. Prendiamo ad esempio un tipico modo di porre le domande nei
questionari che consiste nel chiedere all’intervistato di posizionare gli items proposti in una
graduatoria di preferenza. Questo tipo di richiesta è più vicino al modo di ragionare, categorizzare
ed interpretare il mondo dei sociologi che non a quello degli intervistati, visto che nella loro vita
quotidiana questi ultimi raramente sono portati a compiere questo tipo di ragionamento (Gobo,
1997). Hughes e Sharrock (2005), a questo proposito, osservano che le proposizioni di una scala
sono costruite in modo che gli intervistati abbiano un set di risposte già fornite (ad esempio «sì» o
«no»), allo scopo di permettere al ricercatore di attribuire un punteggio numerico per ogni
affermazione. Di conseguenza, uno dei problemi principali di questa tecnica è la riduzione delle
opinioni, dei valori e degli atteggiamenti degli intervistati entro una griglia standardizzata e
codificata: «tuttavia, se dobbiamo conformare i numeri alla possibilità di un conteggio numerico,
dobbiamo poter supporre che il punteggio 3 di un individuo A sia equivalente al punteggio 3 di un
individuo B. Inoltre, entrambi i valori devono riflettere - quindi misurare- una quantità maggiore
della proprietà espressa con 2 per l’individuo C» (Hughes e Sharrock, 2005:163). Secondo gli
autori, quindi, il questionario pone il problema del riduzionismo: non possiamo essere sicuri del
significato delle risposte fornite, a meno che non si ipotizzi l’equivalenza nell’intensità e
nell’intenzionalità con cui ciascun intervistato risponde.
La scelta di utilizzare le statistiche ufficiali come strumento d’indagine permette al ricercatore la
massima distanza dal proprio oggetto di studio, eliminando così i problemi connessi alla ricerca sul
campo. A partire dal lavoro di Durkheim sul suicidio, l’impiego delle statistiche ufficiali e lo studio
su campioni molto ampi verranno considerati come le modalità di ricerca che permettono di
cogliere, nel modo più attendibile, l’oggetto di studio della sociologia. Da un punto di vista
metodologico, l’analisi statistica permette di isolare i fatti sociali, di studiarli in modo scientifico e
neutrale, in accordo con i principi delle scienze sociali positiviste che prescrivono la distanza tra
soggetto e oggetto di ricerca e l’utilizzo di procedure efficienti e razionali di raccolta ed analisi dei
dati.
Nelle scienze sociali, tuttavia, non è possibile nessuna forma di conoscenza che non dipenda dalla
relazione con l’attore sociale. Nel caso dell’utilizzo delle statistiche ufficiali la relazione tra
9
soggetto e oggetto della ricerca è indiretta perchè subordinata alla raccolta dei dati da parte di altri
attori sociali (Ranci in Neresini, 1997). La possibilità di eliminare il contatto tra ricercatore e
oggetto di studio è del tutto illusoria, giacché il problema della riflessività si sposta dal ruolo attivo
del ricercatore alle modalità ed alle finalità politiche e conoscitive con cui vengono raccolti i dati.
Pur nella generale accettazione dei dati statistici ufficiali, alcune critiche hanno sollevato il
problema della rilevanza che essi dovrebbero avere nella ricerca sociologica. Già Durkheim si pose
il problema di quale tipologia di dato potesse essere più appropriata allo studio del suicidio come
fenomeno sociale e, quindi, all’analisi dei tassi con qui si manifesta e delle cause da cui dipende
(Durkheim, 1969). Partendo dalla constatazione che, data la particolare natura del fenomeno, i dati
sul suicidio non sono facilmente registrabili e anche qualora ne disponessimo (lettere lasciate dal
suicida, diari, ecc) questi non potrebbero essere considerati validi in quanto influenzati dallo stato
psicologico della vittima, Durkheim propone l’utilizzo dei dati statistici ed in particolare delle
indagini giudiziarie e delle statistiche ufficiali. Nonostante questi vantaggi, l’autore si rende
perfettamente conto dei limiti dei dati di cui dispone, infatti, afferma che «ciò che chiamiamo
statistica dei motivi di suicidio è in realtà una statistica delle opinioni che si fanno di questi motivi i
poliziotti, spesso subalterni, incaricati al servizio informazioni» (Durkheim, 1969:187).
I dati raccolti sui motivi di suicidio, sono spesso frutto di accertamenti lacunosi e di interpretazioni
e spiegazioni operate dai funzionari durante il rilevamento. Secondo Durkheim, tali informazioni
riflettono giudizi di valori basati su supposizioni deboli; si tratta, quindi, di «giudizi improvvisati
che pretendono di attribuire una precisa origine ad un singolo caso basandosi su alcune
informazioni frettolosamente raccolte» (Durkheim, 1969:187). Non appena il funzionario crede di
aver scoperto un evento di rottura nella vita della vittima, ritiene accertata la causa che verrà poi
classificata a seconda dei casi entro etichette quali “rovesci di fortuna e miseria”, “dispiaceri di
famiglia”, “amore, gelosia, dissolutezza, sregolatezza, gioco”, “dispiaceri vari”, “malattie mentali”,
“rimorsi o timori di condanna in seguito ad un crimine”, “dolori fisici”, “collera”, “disgusto per la
vita”, “cause sconosciute”4. Durkheim non ritiene affidabili tali fonti di dati per due ordini di
motivi: perché rispecchiano in maniera evidente il giudizio di colui che raccoglie l’informazione e
perché, qualora fossero raccolte in modo attendibile, non rappresenterebbero le «vere cause»
dell’evento. Sono affermazioni come queste che ricordano al lettore la precisa collocazione
epistemologica da cui l’autore guarda al proprio oggetto di studio e ne interpreta la dimensione
sociale.
4
Le etichette riportate sono alcune delle voci riportate nel «Prospetto XVII – Parte di ogni categoria di motivi su 100
suicidi annuali per ciascun sesso» (Durkheim, 1969:188). Le modalità con cui venivano definiti e categorizzati i suicidi
variano di paese in paese e riflettono stereotipi culturali o subculturali; l’impossibilità di operare delle comparazioni
accurate è stato un elemento di forte critica nei confronti del lavoro di Durkheim (Quassoli, 1991).
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Durkheim è, quindi, impegnato attivamente nel progetto scientifico positivista, tanto che propone di
abbandonare l’intento di ricostruire una «casistica morale» a favore dello studio scientifico delle
concomitanze sociali, e dello studio sui dati socio-demografici(confessione religiosa, status
familiare, gruppo professionale, ecc.) in funzione dei quali varia il tasso di suicidio.
L’affermarsi di nuovi paradigmi epistemologici ha permesso la messa in discussione dell’esistenza
stessa di una qualche entità definita a cui è possibile riferirsi con il termine suicidio. «In particolare,
ci sembra opportuno sottolineare come non siano tanto le statistiche disponibili ad essere
intrinsecamente problematiche, bensì le decisioni, le transazioni di ordine cognitivo e interattivo, e
le registrazioni dei pubblici ufficiali che costruiscono le testimonianze empiriche sulla cui base
verranno compilate le tabelle statistiche» (Quassoli, 1991). Si tratta quindi di problemi concernenti
l’attendibilità e la validità5.
Per quel che concerne l’affidabilità dei dati, gli assunti generalmente riportati a favore delle
statistiche ufficiali sono essenzialmente di tre tipi.
-
In primo luogo le tecniche statistiche sono uno strumento efficiente di registrazione e di
tabulazione degli eventi; l’implicito di questo assunto è l’esistenza di una realtà oggettiva le cui
leggi possono essere spiegate attraverso l’utilizzo di metodologie specifiche.
-
Un secondo argomento, che da Durkheim in poi costituirà un elemento a sostegno
dell’affidabilità dei dati, si fonda sulla stabilità dei tassi di suicidio calcolati su base nazionale.
Come nota Quassoli (1991), «il ragionamento è circolare; infatti, la costanza dei tassi indica il
carattere sociale del fenomeno e il suo legame con la struttura della società, allo stesso tempo,
però, data la non aleatorietà e il profondo radicamento sociale del fenomeno, ci si aspetta che i
tassi siano costanti e, nel qual caso, anche attendibili».
-
L’ultimo assunto, banalmente, afferma che non vi sono elementi sufficienti che dimostrino in
modo definitivo né l’attendibilità né l’inattendibilità del dati statistici, per cui, in mancanza di
alternative efficaci, gli studiosi possono continuare sulla propria strada.
Un tentativo interessante di critica radicale ai metodo di analisi quantitativa e all’affidabilità dei dati
statistici è quella mossa da Douglas nel 1967, riassumibili entro cinque spunti fondamentali6:
1. Le molteplici fonti ufficiali tra cui poter scegliere.
5
Con attendibilità intendiamo il grado con il quale una certa procedura di traduzione di un concetto in variabile produce
gli stessi risultati in prove ripetute e con lo stesso strumento rilevazione (stabilità) oppure con strumenti equivalenti
(equivalenza); concerne, quindi, la riproducibilità del risultato. Per validità invece ci riferimento al grado col quale una
procedura di traduzione di un concetto in variabile effettivamente rivela il concetto che si vuole rilevare; concerne il
contenuto semantico di un concetti generale e quello dell’indicatore prescelto per il concetto stesso (Corbetta,
1999:125)
6
Non ho consultato direttamente il testo di Douglas (The Social Meaning of Suicide, Princeton, New Jersey, Princeton
University Press, 1967) ma per la trattazione di questo problema ho preso spunto dalla sintesi fornita da Quassoli
(1991).
11
2. Le differenze tra sub-culture in relazione all’occultamento del suicidio; nelle statistiche
ufficiali assistiamo ad una perdita di informazioni sulle specificità locali e, di conseguenza,
ad una ricostruzione dell’evento semplificata rispetto alla complessità del fenomeno.
3. Le differenze nel grado di integrazione sociale di coloro che compongono le statistiche
ufficiali;
4. le differenze nell’imputazione dei motivi;
5. le differenze nel grado di organizzazione e razionalizzazione della raccolta.
Qualora si risolvano i problemi legati all’attendibilità del dato, non possiamo essere certi che la
procedura di traduzione di un concetto in una variabile sia valida da un punto di vista semantico. Le
critiche mosse alla validità dei dati riguardano,infatti, il problema delle definizioni utilizzate dai
pubblici ufficiali nel momento della rilevazione dell’evento; infatti esistono molteplici modi con cui
un azione può essere categorizzata sotto l’etichetta suicidio. Soltanto nel caso in cui la definizione
operativa utilizzata dal pubblico ufficiale e quella del ricercatore collimino, si potranno considerare
i dati sociologicamente rilevanti e si potrà essere certi che entrambi stiano parlano dello stesso
oggetto. Prendiamo per esempio la definizione che Durkheim dà di suicidio: «ogni caso di morte
direttamente o indirettamente risultante da un atto positivo o negativo compiuto dalla stessa vittima
pienamente consapevole di produrre questo risultato» (Durkheim, 1969:63). L’autore, interessato a
scoprire le cause sociali del suicidio ed ad elaborarne una tipologia, si pone il problema della
definizione che egli vuole dare ma non quello di esplicitare il tipo di definizione sottesa ai dati
statistici che utilizza; per Durkheim, infatti, le statistiche ufficiali rappresentano dei dati concreti
utili per la spiegazione della realtà sociale.
Le analisi critiche sulla validità dei dati, come ad esempio quella di Douglas, si preoccupano di
decostruire in modo sistematico alcuni processi di ordine definitorio e metodologico della fase di
raccolta dati, ma non abbandonano in modo definitivo l’idea che possa esistere un oggetto definibile
col termine suicidio indipendente dalle interpretazioni che di esso vengono fatte. Come afferma
Giddens (1994:49), invece, le statistiche ufficiali «non rappresentano semplicemente le
caratteristiche analitiche dell’attività sociale, ma ancora una volta sono parte integrante
dell’universo sociale dal quale vengono estrapolate ed acquisite». In altre parole rappresentano
l’insieme delle attività pratiche a cui gli individui fanno ricorso per dare spiegazione del proprio
mondo sociale (Hughes e Sharrock, 2005). In linea con quanto appena detto, l’etnometodologia si
presenta come l’approccio interessato allo studio delle procedure di produzione dei dati ad opera di
coloro i quali definiscono, classificano e registrano gli eventi come suicidi. L’argomento di studio
diventa quindi la produzione del dato come rappresentazione di una specifica reazione sociale ad un
comportamento considerato deviante. «Ci sembra importante sottolineare come ciò non significhi
12
negare l’attributo di fatto sociale al suicidio, semmai ridefinire gli oggetti d’indagine eliminando
ogni eco naturalistico, reinscrivendoli, in quanto prodotto socialmente significativo, nel contesto di
attività pratiche organizzate entro cui sono sorti e da cui vengono continuamente alimentati»
(Quassoli, 1991).
L’etnometodologia propone quindi di concentrarsi sulla raccolta dati come pratica sociale; questo
spostamento d’attenzione introduce un ulteriore tema di riflessione. Le statistiche ufficiali vengono,
infatti, prodotte per finalità amministrative che spesso non coincidono con gli interessi scientifici
dei ricercatori. Come sottolinea Atkinson (1978) se il nostro scopo è quello di arrivare ad una
spiegazione scientifica del funzionamento di determinati fatti sociali, i dati dovrebbero essere
raccolti seguendo le indicazioni del sociologo; di fatto le rilevazioni indirette obbligano il
ricercatore a formulare le proprie domande cognitive in relazione ai dati disponibili. Inoltre,
nell’analisi del modo in cui si costruiscono i dati, è possibile riconoscere una serie di meccanismi
che mostrano come la produzione di statistiche sui suicidi non sia altro che un processo di
mediazione e negoziazione continuo e circolare.
A - Shared definition of suicidal situation
B -Coroners
C - Individuals who commit suicide
D - Researchers
E – Press, TV + other media
F – Journal conferences
Fig. 2 - Fonte: (Atkinson, 1978: 145)
Lo schema qui riportato è un tentativo di chiarire come le definizioni di suicidio condivise in una
società in un determinato tempo (A) sono anche condivise, con più o meno intensità, dai medici
legali (coroners) (B), dagli individui che commettono il suicidio (C), dai ricercatori (D), e dalle
persone che lavorano nel campo dei media e delle comunicazioni. Come indicano le frecce,
13
ciascuna definizione personale influenza, in modo diretto od indiretto, quella degli altri attori
coinvolti in questo network. Lo schema di Atkinson è un’indicazione, seppur lacunosa e
determinista, di dar risposta al problema del significato delle azioni pratiche coinvolte nella raccolta
dei dati statistici sul suicidio.
Rimanendo sempre all’interno del tema delle finalità con cui vengono raccolti i dati statistici, mi
sembra rilevante fare un esempio di come le statistiche ufficiali possano riflettere intenti politici
precisi e produrre conseguenze reali nel mondo sociale. L’esempio in questione è quello del
censimento prodotto, negli attuali stati africani del Randa e del Burundi, durante il periodo coloniale
belga (Fabietti, 1999). In quest’area, prima dell’arrivo dei coloni, esisteva un potere centralizzato,
composto da gruppi che si autodefinivano in base alla classe occupazionale e da “clan” definiti sulla
base delle proprietà della terra. Al loro arrivo, i coloni, risignificano questi gruppi alla luce delle
proprie categorie razziali di tipo gerarchico: la minoranza Tutsi, che tradizionalmente deteneva il
potere politico formale, venne definita come aristocrazia camitica (discendenti di Cam figli di Noè).
Tale definizione permise ai coloni di allearsi ai Tutsi e a questi ultimi di adeguarsi alle nuove
categorie per mantenere i privilegi a loro concessi; in quanto popoli camiti, infatti, i Tutsi
acquisirono agli occhi dei coloni lo status di popolazione “antica ma civilizzata”, in opposizione
agli Hutu che si videro definire come contadini di lingua bantu ed in quanto tali esclusi
dall’istruzione e dal potere politico. Allo stesso modo, gli hutu, prima del periodo coloniale,
detenevano un potere di tipo rituale, grazie al quale era possibile ricostituire il benessere dell’intera
comunità. Esisteva quindi un patto tra queste due classi sociali che permetteva un sorta di equilibrio
tra governati con potere rituale e governanti con in mano il potere politico effettivo. Nella gestione
pratica del potere la differenza nell’accesso alle risorse facilitò la stratificazione di queste due classi
sociali entro linee etniche gerarchiche. Nel 1930 ai coloni belgi si presentò il problema di costruire
il censimento in modo da poter controllare la popolazione. Non esistendo tipologia su base razziale
gli addetti alla rilevazione di dati utilizzarono il numero di bovini posseduti da ciascun individuo
come criterio fondamentale di distinzione etnica. Chi possedeva dieci o più buoi fu definito Tusti,
mentre chi ne possedeva meno di 10 divenne Hutu. «Per sempre» (Fabietti, 1999:165). Come
conseguenza del censimento, lo status di signori Tusti o di servi Hutu poteva dipendere da uno o
due buoi e, con esso, anche l’accesso o meno all’istruzione e all’amministrazione pubblica. I
colonizzatori, quindi, utilizzarono nel censimento quegli accorgimenti tecnici in grado di
categorizzare la popolazione esattamente entro la realtà sociale che essi stessi avevano contribuito a
creare.
2.3 Analisi dei dati.
14
In questo paragrafo mi ripropongo di affrontare il tema della riflessività nel suo intrecciarsi alle
modalità con cui il ricercatore analizza i dati raccolti; prenderò in esame, a tale scopo, alcuni temi
che, a mio avviso, possono costituire le radici profonde di questa relazione.
Partiamo da lontano, ed in particolare dalle modalità di costruzione del sapere scientifico e della sua
relazione con il pensiero di senso comune. Quali sono i meccanismi cognitivi che permettono al
ricercatore di formulare delle analisi sui dati? Schütz (1953) può essere un utile riferimento teorico
nella comprensione del ruolo che l’esperienza gioca nella produzione di conoscenza sul mondo, sia
essa scientifica o di senso comune. La scienza produce conoscenza e teorie in accordo a ciò che si
registra nell’esperienza empirica (osservazione, raccolta dati, ecc.), mentre il senso comune è un
tipo di sapere fondato sull’esperienza pregressa non messa in discussione, in grado di costruire
astrazioni complesse sulla realtà empirica fino a trasformarle in oggetti concreti. Secondo Schütz,
nella conoscenza scientifica così come in quella di senso comune, i fatti puri e semplici non
esistono, ma derivano dalle modalità con cui la nostra mente riesce a conoscere il mondo:
astrazioni, generalizzazioni, formalizzazioni e idealizzazioni; la nostra conoscenza della realtà,
quindi, si fonda sempre su degli atti interpretativi (Schütz, 1953). Le riflessioni di Schütz ci aiutano
a cogliere il retroterra cognitivo da cui prendono forma le modalità con cui il ricercatore descrive il
mondo sociale. Quando un ricercatore si trova davanti ad una fenomeno sociale selezionerà il
materiale a seconda dei nessi causali, delle metafore, degli ideal-tipi, delle categorie analitiche
individuate e costruite sulla base di un particolare processo conoscitivo comune all’esperienza di
tutti gli esseri umani. Per esempio, l’immaginazione sociologica viene definita da Mills (1959) «una
qualità della mente che lo aiuti (sic) a servirsi dell’informazione e a sviluppare la ragione fino ad
arrivare ad una lucida sintesi di quel che accade e che può accadere nel mondo e in lui» (Mills
1959:15). Da Mills in avanti, l’immaginazione sociologica è stata considerata una proprietà in grado
di arricchire l’analisi, di connettere i singoli eventi alla totalità del mondo sociale evidenziandone
ambivalenze, contraddizioni e dimensioni spurie. Che tipo di ruolo giocano la creatività, le
intuizioni, i colpi di genio che, spesso, guidano il ricercatore durante la fase di analisi dei dati7?
Includere nello studio sulla riflessività considerazioni di questo tipo significa non solo prendere in
considerazione l’apporto che le scienze cognitive possono offrire alla riflessione epistemologica,
ma, anche e soprattutto, esplicitare il ruolo agito dalle strutture latenti -dinamiche e circolariall’interno del contesto della ricerca.
La relazione tra strutture latenti e pratiche di ricerca è stata analizzata anche da altri punti di vista.
Negli anni ’70 la Scuola di Edimburgo (Bloor e Barnes) proponeva un programma forte di
sociologia della conoscenza che cercasse di comprendere tutti gli aspetti del rapporto tra sapere e
7
A questo proposito si pensi agli studi sull’abduzione di Peirce (1878) e di Eco (2004).
15
contesto sociale. Il riferimento teorico di questa corrente di pensiero è Wittgenstein ed in particolare
il concetto di gioco linguistico; parlare un linguaggio fa parte di un’attività nella quale giocano un
ruolo fondamentale i processi di apprendimento e di interiorizzazione delle regole intersoggettive
che permettono la comprensione tra gli interagenti e la conseguente messa in atto di comportamenti
adeguati alla situazione. La realtà, quindi, non può essere compresa fuori dal linguaggio, ma solo
nel processo negoziale in cui il parlante crea e ricrea le grammatiche di significato all’interno della
propria forma di vita. Partendo da questi spunti Bloor sostiene che la scienza sia uno dei possibili
giochi linguistici presenti nel mondo sociale connesso ad una particolare forma di vita. Proprio in
conseguenza dell’interconnessione tra linguaggio e azione sociale, il programma forte della
sociologia della conoscenza si propone di analizzare la scienza «all’interno dei processi concreti del
suo farsi» (Crespi,1996:72). In continuità con Bloor, Marradi (2003) ha messo in evidenza come gli
scienziati utilizzano nel loro lavoro quel tipo di conoscenza tacita che permette agli attori di
organizzare la propria esperienza pratica nel mondo sociale. Con conoscenza tacita il metodologo
italiano intende «tutto quel patrimonio di conoscenze che la mente umana possiede e usa per
guidare azioni e comportamenti, ma che non è in grado di esplicitare, oppure può esplicitarle […]
con grande sforzo, in occasioni molto particolari, e comunque in modo nebuloso e parziale»
(Marradi, 2003:321). Secondo Melucci (1998:17) «una più approfondita conoscenza dei
meccanismi costruttivi della mente ha infatti sgombrato definitivamente il campo dall’idea che essa
semplicemente rispecchi la realtà» (Melucci, 1998:22). Analizzare il proprio modo di produrre
conoscenza come interno al linguaggio ed influenzato da strutture latenti ci permette di riconoscere
come, oltre alle conoscenze professionali, anche quelle “personali” del –ed “implicite” alricercatore intervengono in ogni fase della ricerca.
Un ulteriore questione che, a mio avviso, può essere inclusa in un’analisi riflessiva attenta alle
condizioni di possibilità della produzione di conoscenza sociologica è quella del senso comune
interno alle varie discipline accademiche. Come ci hanno insegnato i classici dell’epistemologia
scientifica, in particolare Khun (1962) e Feyerabend (1975), la scienza è una forma d’istituzione
sociale che produce conoscenza e si modifica anche in relazione ai meccanismi sociali che
intercorrono tra – e internamente a - le discipline. I criteri di scientificità, come il fenomenismo o la
condanna dei giudizi di valore, sono, dunque, veramente gli unici principi che regolano lo sviluppo
della conoscenza scientifica? Oppure, oltre alle modalità di funzionamento della nostra mente,
intervengono anche fattori sociali, politici ed economici? Perché allora non esplicitare, in modo
riflessivo, tutti gli elementi che, di fatto, intervengono nella produzione del sapere?8 Per quel che
8
Un esempio interessante, nell’ambito delle scienze dure, può essere quello descritto in modo originale da
Ramachandran e Blakeslee (1998) sulla scoperta del Helicobacter pylori come causa dell’ulcera. In questo caso
16
riguarda il momento dell’analisi dei dati, quindi, possiamo affermare che ogni attività di codifica
presuppone l’intervento di una conoscenza non rintracciabile nei dati di cui si dispone.
L’analisi riflessiva dei processi di codifica deve, quindi, essere in grado di esplicitare l’intensità e le
possibilità d’intervento delle componenti latenti e cognitive del ricercatore; allo stesso tempo, il
ricercatore riflessivo dovrà cogliere le modalità con cui egli stesso categorizza il mondo sociale e le
conseguenze pratiche che le sue interpretazioni producono nel mondo sociale. Uno stimolo
interessante ci viene da Bourdieu (1992), il quale segnala il rischio, insito in ogni lavoro di analisi,
di ridurre le problematiche pratiche del mondo sociale entro le categorie teoriche dell’accademia.
Secondo l’autore, questo tipo di deformazione, che definisce “intellettualistica”, è insita
nell’atteggiamento non riflessivo del ricercatore che guarda al mondo sociale come ad un
palcoscenico distante; di contro Bourdieu esorta ad una «esplorazione sistematica delle categorie di
pensiero impensate che delimitano il pensabile e predeterminano il pensabile» (Bourdieu e
Wacquant, 1992:33). Un’altra indicazione ci arriva dalla “labelling theory” ed è connessa alle
conseguenze pratiche prodotte nel mondo sociale dalle categorie sociologiche. «Definendo un quark
“quark” non fa nessuna differenza per il quark. Non diventano diversi per il fatto di essere definiti
così da noi. […] Ma se chiamo Stefano un alcolizzato, ciò ha effetti su di lui, sia perché Stefano
stesso comprenderà come viene chiamato, e tenderà a riclassificarsi alla luce di quella categoria, sia
perché coloro che lo circondano –i suoi “altri”- lo riconosceranno e tratteranno diversamente da
prima» (Sparti, 2002:257). L’oggetto della sociologia è un soggetto in grado di percepire
intersoggettivamente i messaggi che arrivano dalla società; seguendo il teorema di Thomas (1928)
«se gli uomini definiscono delle situazioni come reali, esse diventano reali nelle loro conseguenze».
Se il lavoro dei sociologi è quello di fornire descrizioni, generalizzazioni e definizioni sul mondo
sociale, è responsabilità, deontologica e politica del ricercatore, prendere in seria considerazione il
fatto che l’attività di ricerca e di analisi non è a senso unico, perchè «se assumere un identità
significa essere suscettibili di ricevere una descrizione, cambiamenti di descrizioni […]
provocheranno cambiamenti in ciò che possiamo essere e non essere» (Sparti, 2002:257). I
ricercatori, tendenzialmente, manipolano i dati in relazione alle finalità conoscitive che perseguono,
cercando di avvalorare, attraverso stralci d’intervista o numeri percentuali, la propria
interpretazione del fenomeno. Legando i fatti alla teoria, i ricercatori cercano di legittimare il
proprio discorso e la propria «onnipotenza interpretativa del ricercatore» (Colombo, 1998:251),
ovvero il potere di oggettivare il fenomeno entro una delle possibili cornice interpretative.
emergono con molta chiarezza sia la differenza che intercorre tra il momento della scoperta scientifica in senso stretto e
il momento del suo riconoscimento accademico, sia quegli elementi, sociali e personali dello scienziato, che permettono
il cambiamento dello statuto di legittimità di tale scoperta.
17
2.4 Il testo, il pubblico e il sapere prodotto.
La ricerca sociale si caratterizza per la produzione finale di un testo scritto, in cui il ricercatore
rende pubblico ed accessibile ai lettori «ciò che si è visto o si è pensato» (Colombo, 1998:245). Il
momento della scrittura è stato per lungo tempo interpretato come un meccanismo lineare in grado
di trasformare i dati raccolti entro un testo scientifico; l’oggettivazione del mondo sociale studiato è
ciò che permette ad un testo accademico di essere considerato tale. Infatti, come afferma Gobo
(1998), la stesura del rapporto di ricerca è una delle fasi più delicate ed importanti per almeno due
ragioni: in primo luogo perchè in ogni processo di scrittura si continuano ad analizzare i dati e può
essere considerato come un momento di ripensamento del lavoro; in secondo luogo perché è proprio
attraverso la lettura del testo che la comunità di riferimento valuterà la scientificità o meno dello
stesso. Nella storia della sociologia, e di tutte le scienze sociali, la questione della legittimità è
strettamente connessa alla natura dell’oggetto di ricerca; «si tratta del problema dei criteri di
attribuzione dello statuto scientifico, ossia del criterio di demarcazione fra discorso scientifico e
discorso di senso comune» (Sparti, 2002:8). Che tipo di conoscenza produce il sapere sociologico?
Il rapporto tra conoscenza sociologica e senso comune si configura come «un rapporto di
contrapposizione dialettica che si presenta “problematico”, data l’esistenza di un ampio disaccordo
sull’insieme dei fenomeni cui si riferisce con l’espressione “senso comune”, sulla natura e,
soprattutto, sulla posizione che dovrebbe occupare in relazione alla conoscenza sociologica»
(Stefanizzi, 2003:82). Nel dibattito epistemologico che si è sviluppato intorno a questi problemi
l’approccio positivista considera la conoscenza scientifica in posizione gerarchicamente superiore
rispetto al sapere di senso comune. In questa prospettiva il senso comune è visto come un tipo di
conoscenza approssimativa che non è in grado di definire e spiegare la realtà oggettiva in modo
rigoroso; ciò che distingue la conoscenza scientifica dalla doxa è l’applicazione di determinati
criteri di scientificità9 e di metodologie specifiche in grado di ripulire l’indagine dalle distorsioni
prodotte da questo tipo di sapere e dall’intervento del ricercatore. Come abbiamo già visto,
interpretare l’influenza delle conoscenze di senso comune come «errori di misurazione» (Ranci,
1998:34) significa cercare di nascondere sotto il tappeto la mancata possibilità di essere neutrali ed
omettere dal disegno della ricerca quelle procedure che effettivamente contribuiscono alla
produzione della conoscenza sociologica. All’interno dell’approccio interpretativo, invece, questo
aspetto della ricerca non è negato; nonostante vengano riconosciute le differenze che intercorrono
tra il linguaggio sociologico e quello di senso comune, quest’ultimo viene interpretato come una
risorsa per l’indagine sociale perchè è proprio attraverso la conoscenza che gli attori hanno dei loro
mondi che si sviluppa il sapere sociologico.
9
Per citare alcuni di questi criteri si pensi al fenomenismo, al nominalismo, alla condanna dei giudizi di valore, al
nomismo metodologico. (Stefanizzi, 2003:39).
18
Questo tipo di dibattito ha prodotto una separazione tra discorsi letterari e discorsi scientifici
considerandoli sia come stili di scrittura diversi ma anche come modalità antitetiche di produzione
del sapere10. È solo nel secondo dopoguerra che questo confine viene a sfaldarsi11: la scrittura del
testo sociologico comincia ad apparire come una pratica di costruzione di senso e le scelte narrative
diventano decisioni costitutive del mondo sociale (Colombo, 1998). Attraverso la scrittura del testo,
il ricercatore non si limita a riportare un procedimento di traduzione della propria analisi dei dati,
ma dà forma alla propria interpretazione del fenomeno e, di conseguenza lo costruisce; ogni testo è
portatore d’intenzionalità e ricalca le finalità conoscitive, politiche e discorsive del ricercatore.
Esistono, quindi, diversi stili narrativi che rispondono, appunto, ad intenzionalità diverse e che
riflettono gli approcci e/o i bisogni epistemologici dei ricercatori; lo stile narrativo riguarda
contemporaneamente la forma con cui è scritto un testo e la modalità di costruzione di un preciso
contenuto scientifico. Colombo (1998), ipotizzando che i ricercatori siano consapevoli della propria
influenza sul campo d’indagine, suggerisce tre stili narrativi: realista, processuale e riflessivo.
Nel testo realista, il ricercatore controlla e minimizza la propria presenza, presentando i risultati
della ricerca in modo da rendere lo stile del testo chiaro, lineare e neutrale; a tal fine, si mettono in
atto delle strategie d’invisibilità che trasformano il testo in una descrizione dei fatti e dei processi di
ricerca indipendenti dal ricercatore. Secondo Colombo, questo stile narrativo è quello
maggiormente diffuso nella sociologia contemporanea perchè si configura come la modalità di
scrittura che attualmente gode di maggior legittimità scientifica; infatti, presentare i propri risultati
in maniera “obiettiva”, così come i fatti sono accaduti, assicura il contenimento della soggettività
del ricercatore in favore di una descrizione della realtà oggettivata. Inoltre questo stile narrativo
permette la redazione di un testo che riproduce una «significazione piana», e non retorica, dei fatti
e non di fiction (Colombo, 1998:249). Esistono delle strategie narrative che permettono di
accentuare la credibilità dei risultati della ricerca: la prima riguarda le credenziali accademiche
dell’autore e le citazioni e i riferimenti bibliografici “prestigiosi”; la seconda strategia si riferisce
all’introduzione nel testo di dettagli che suggeriscono l’accuratezza nella raccolta dati e la validità
delle interpretazioni. Inoltre, l’ordine e la precisione di questi dettagli permette all’autore di creare
nel lettore un’analisi guidata nell’interpretazione dei dati.
Sono state mosse diverse critiche a questo tipo di scrittura: la prima mette in discussione il
presupposto della narrazione realista per cui sia possibile controllare ed oscurare la presenza
10
Si pensi al dibattito seguito alla pubblicazione di On sociology di Goldthorpe (2006), dove l’autore sostiene che gli
approcci interpretativi non hanno diritto ad accedere ai finanziamenti accademici riservati alla scienza e suggerisce una
separazione tra l’etnografia, che assimila alle arti letterarie, e la sociologia “fisica”, ossia quella branca della disciplina
che ritiene possibile giungere ad una verità oggettiva sul mondo sociale.
11
Si pensi al contributo di Khun sulla conoscenza scientifica, di Capra sulle potenzialità distruttive della scienza, ma
anche dell’ermeneutica, della fenomenologia, dell’etnometodologia e del decostruzionismo. (Colombo, 1998)
19
dell’autore nella ricerca; la seconda critica la convinzione che sia possibile eliminare le distorsioni
riflessive grazie ad accurate procedure per l’analisi dei dati; la terza, invece, problematizza la
possibilità di poter descrivere un modo sociale attraverso un linguaggio tecnico volto ad enfatizzare
gli elementi di ordine, armonia ed equilibrio. Al di là delle critiche e «pur nella consapevolezza che
il genere narrativo realista è un genere possibile tra gli altri, non possiamo ignorare che esso fonda
la legittimità dell’esistenza di un discorso peculiare della scienza sociale» (Colombo, 1998:254).
Il secondo tipo di stile narrativo, quello processuale, è stato sperimentato dapprima in antropologia,
disciplina nella quale è diventato uno degli stili di scrittura prevalenti, e comincia ad interessare un
ampio di numero di sociologi (Colombo, 1998). Lo stile processuale si caratterizza per il tentativo
di descrivere il processo della ricerca nel testo. Partendo dal presupposto che la scienza si produce
all’interno dei processi storici e linguistici del mondo sociale, lo stile processuale non separa il
momento creativo della scrittura dall’attività politica della ricerca; infatti il ricercatore è parte attiva
della narrazione sociologica, agisce nel testo così come ha operato nel farsi della ricerca. Nello stile
processuale il testo è scritto in prima persona singolare; è il ricercatore che parla della propria
esperienza e del proprio ruolo nel campo di ricerca. L’utilizzo del cosiddetto presente etnografico
ha per lungo tempo assicurato la legittimità delle interpretazioni del ricercatore che è “stato là”, che
ha vissuto un’esperienza unica ed irripetibile. Per non guidare l’interpretazione del lettore, i fatti
vengono riportati nell’ordine in cui sono avvenuti e non vengono omessi gli errori, gli imprevisti
che aprono campi di conoscenza, le incomprensioni che stimolano la riflessione, i cambiamenti
interpretativi del ricercatore durante il processo di costruzione della ricerca. L’autore del testo
processuale responsabilizza il proprio lettore, non fornisce spiegazioni immutabili ed oggettive, ma
pone domande, suggerisce interpretazioni e ispira suggestioni; l’obiettivo non è tanto quello di
fornire il punto di vista dei nativi ma quello di ricreare il processo di ricerca attraverso evocazioni
dell’esperienza autobiografica del ricercatore sul campo. Questo intento viene tradotto in forma
scritta attraverso alcuni espedienti narrativi: la descrizione dell’insolito e del particolare (più che
della norma e dell’armonia); l’introduzione di elementi sensoriali (odori, gusti, ecc.); l’utilizzo di
metafore e/o di parti di testo in forma di dialogo.
La legittimità scientifica del discorso prodotto dal ricercatore «è garantita dall’esplicito
riconoscimento dei nativi. La narrazione processuale si conclude descrivendo in che modo, dopo le
difficoltà iniziali, i nativi accettano il ricercatore e gli riconoscono competenza “locale”» (Colombo,
1998:255). L’utilizzo di questo stile narrativo parrebbe assicurare la polifonia e la compresenza del
ricercatore e dell’oggetto di ricerca sul campo; ciononostante, le critiche mosse a questo tipo di
produzione letteraria si focalizzano proprio sui tipi di riduzionismo insiti in questo stile narrativo.
Latour (1997) afferma che perdendosi nella descrizione introspettiva, il ricercatore dimentica il
20
proprio oggetto di studio, descrivendolo solo per gli effetti che produce all’interno della relazione
soggetto/oggetto di ricerca; il centro del testo si sposta dalla descrizione degli Altri alla descrizione
del ricercatore con gli altri. Una seconda critica affonda la sua lama nella debolezza del presupposto
che non esiste nulla al di fuori dell’esperienza, unica ed irripetibile, che il ricercatore compie nel
campo; questo atteggiamento rende muti i lettori che non possono far altro che esprimersi sulla
capacità dell’autore di descrivere la propria esperienza entro un testo vivido, suggestivo ed
emozionante (Colombo,1998). L’ultima critica si concentra sulla pseudo-riflessività garantita da
questo stile narrativo; diventando il protagonista, il ricercatore dissemina per tutto il testo la propria
voce facendone perdere le tracce e mescolandola a quella degli Altri.
A questo punto Colombo propone un’alternativa allo stile realista e a quello processuale: la
narrazione riflessiva. Il ricercatore riflessivo è impegnato nel tentativo, mai del tutto raggiungibile,
di essere presente nel testo senza invaderlo, alternando la scrittura in prima ed in terza persona; di
esplicitare la propria politica discorsiva, raccontando da dove e per chi scrive; di mettersi in
relazione dialogica con altre interpretazioni del fenomeno mettendosi a confronto con altri punti di
vista. L’utilizzo della prima persona permette all’autore di rendersi visibile come io-narrante,
esplicitando così le proprie motivazioni, emozioni, sensazioni e il posizionamento teorico da cui
guarda al fenomeno studiato; la terza persona singolare, invece, viene utilizzata dal ricercatore per
prendere le distanze dal testo e per assumere un punto di vista analitico sull’esperienza di ricerca,
anche sulla base dei riferimenti metodologici, epistemologici e teorici presenti in letteratura. La
capacità di riflettere sul tipo di sapere che si sta producendo emerge quindi, da un lato, dall’analisi
del ruolo giocato dalle proprie caratteristiche personali nel processo di ricerca e, dall’altro,
dall’inclusione nel testo di interpretazioni e voci diverse dalla propria, siano esse accademiche o
“native”.
Attraverso questi espedienti retorici il testo riflessivo «pur rinunciando a un preteso privilegio di
neutralità scientifica del ricercatore, non si esime dal tentativo di offrire una descrizione ed
un’analisi il più possibile fedele e documentata delle relazioni e degli eventi così come sono stati
percepiti e, in alcuni casi, costruiti dal ricercatore» (Colombo, 1998:262). Un testo riflessivo è un
testo scritto con arguzia e scrupolosamente veritiero, in grado di non far credere al lettore che quello
che leggono è vero, rimanendo comunque interessanti; Latour (1997) auspica un equilibrio tra la
meta – riflessività, e quindi il tentativo di evitare che i lettori credano troppo al testo, e la infra –
riflessività, ossia il tentativo di evitare che i lettori non credano per nulla al testo. La polifonia del
testo riflessivo e il riconoscimento esplicito da parte dell’autore di star producendo un discorso
situato, posizionato e specialistico sollecitano il lettore ad interrogarsi in prima persona sulle
conclusioni del processo di ricerca; un testo riflessivo, infatti, non si conclude mai con una presa di
21
posizione unica e definitiva, ma cerca di rendere la complessità del fenomeno studiato proprio
dando voce alle intenzionalità discorsive e politiche presenti sul campo di ricerca (Colombo, 1998).
Se, come afferma Melucci (1998), la conoscenza sociologica diventa parte integrante della
produzione sociale, il ricercatore riflessivo deve sforzarsi di gestire e problematizzare la
responsabilità etica derivante dal potere di produrre discorsi sul -ed effetti concreti nel- mondo
sociale. «Infatti in società che fanno dell’informazione la loro risorsa centrale il potere diventa
sempre più la capacità di definire in modo privilegiato i codici attorno a cui la conoscenza si
organizza» (Melucci, 1998:25). Giddens (1994) considera la riflessività un elemento caratterizzante
delle società nella modernità, contraddistinte da una costante riflessione su sé stesse. Il
ragionamento di Giddens trova la sua origine nella differenza tra il pensiero tradizionale e quello
moderno; mentre nella tradizione, il senso comune si costruisce all’interno di un corpus di
conoscenze strutturato nella storia e nelle radici della comunità, nella modernità, invece, «le
pratiche sociali vengono costantemente esaminate e riformate alla luce dei nuovi dati acquisiti in
merito a queste stesse pratiche» (Giddens, 1994:46). Il sapere prodotto dai sociologi (e dagli altri
scienziati sociali) diventa fonte di nuovi dati per gli attori e rientra nei contesti che analizza. In
quanto sapere generalizzato sul mondo sociale, la sociologia produce un particolare tipo di sapere
che entra ed esce dai propri confini disciplinari per mescolarsi ad altri tipi di interpretazioni e
fraintendimenti. Giddens sottolinea, quindi, il peso della ricaduta del sapere sociologico sulla
conoscenza del senso comune e come le intersezioni tra i due mondi conoscitivi costituiscano i
campi interattivi all’interno dei quali le società moderne riflettono su sé stesse.
In continuità con l’idea di Giddens, Melucci (1998) suggerisce come gli abitanti di società
altamente differenziate e fondate sull’informazione siano diventati dei consumatori di ricerche
sociologiche; i dati, infatti, vengono incorporati nelle pratiche quotidiane degli attori sociali.
Secondo l’autore, le pratiche sociali e il costituirsi del senso comune riflettono in modo circolare le
informazioni prodotte sulle tendenze, le opinioni e le azioni sociali influenzando il modo di agire e
di pensare degli attori stessi. Il costituirsi di un vero e proprio mercato della ricerca sociale
(accademia, professionisti, esperti, agenzie di ricerca, le istituzioni politiche ed economiche, i
media, fruitori, ecc.) produce effetti sugli interessi dei committenti, sui modi di interpretare i dati e
più in generale sulla produzione di conoscenza scientifica.
Ai fini di questo paper mi interessava parlare della redazione di un testo scientifico, ma è
importante ricordare che nella pratica di ricerca sociale, spesso, i testi vengono elaborati per essere
letti da addetti ai lavori non accademici. Significa, quindi, che il ricercatore deve trasformare
l’universo simbolico del proprio oggetto di studio entro un altro universo simbolico, quello di un
testo “laico” nel quale, non sempre, c’è la possibilità di riproporre questioni epistemologiche come
22
quella della riflessività. All’interno di ciascuna disciplina vengono dibattute problematiche
specifiche che interessano i ricercatori, ma che non hanno ancora fatto il proprio ingresso nella
vulgata comune; infatti, il committente di una ricerca non è tanto interessato a conoscere i
complessi meccanismi sociali di costruzione del sapere, ma, semmai, alla esplorazione o risoluzione
di un problema pratico. Come suggerito da Bosio12, una soluzione potrebbe essere quella di
coinvolgere il committente nella stesura del rapporto finale di ricerca, in modo da produrre un contesto, ossia una situazione di condivisione e co-costruzione ai fini di una spendibilità pragmatica del
sapere senza produrre un falso senso di oggettività scientifica.
3. Che cosa significa fare una sociologia riflessiva?
Da quanto emerso finora, i diversi approcci alla riflessività ci invitano a ripensare al rapporto tra
soggetto e oggetto della ricerca, ed in particolare, alla dimensione soggettiva del ricercatore entro la
pratica sociologica. La riflessività apre interrogativi epistemologici di enorme portata ma non si
pone nell’ottica di fornire soluzione rapide e a buon mercato.
La riflessività invita a praticare un ragionamento consapevole sulla costruzione del sapere,
sollecitando i ricercatori ad una pratica di ricerca tesa al riconoscimento dei legami che agiscono
tra le dicotomie: una pratica consapevole del processo, continuo e circolare, di reciproca influenza
tra ricercatore e campo e del carattere co-costruito di qualsiasi forma di conoscenza (Navarini,
2003); esorta, inoltre, i ricercatori ad un continuo ripensamento delle proprie scelte teoriche e
pratiche, non come indice d’insicurezza o d’incertezza del progetto e del processo di ricerca, ma
come un modo di fare i conti con le ambiguità in maniera virtuosa, trasformandole in risorse.
Se i problemi di cui abbiamo discusso in questo paper sono ineliminabili dal lavoro di ricerca, e se
non esistono facili soluzioni pronte all’uso, bisogna allora trovare le modalità di gestione di tali
problemi che permettano di lavorare entro un campo intersoggettivo in grado di forzare i confini
delle dicotomie soggetto/oggetto e mito dell’oggettività distante/autoriflessività totale.
Come è possibile, quindi, seguire una pratica di ricerca riflessiva? Quali indicazioni ci possono
essere d’aiuto per costruire un processo di ricerca intersoggettivo?
Per Bourdieu ogni ricerca sociologica necessita una riflessione sulle condizioni intellettuali e sociali
che la rendono possibile; ciò che è importante analizzare non sono i risultati in sé, ma il processo e
il procedimento con cui sono stati ottenuti. Innanzitutto, quindi, è necessario sottoporre ad analisi
critica ciò che l’autore definisce «l’inconscio scientifico collettivo inscritto nelle teorie, nei
problemi, nelle categorie […] dell’intendimento scientifico» (Bourdieu e Wacquant, 1992:33). Una
sociologia riflessiva, per Bourdieu, deve saper analizzare criticamente i molteplici aspetti del
12
Vedi Bosio A.C., La ricerca sociale applicata. Metodologie di Processo, Guidelines, 2007
23
coinvolgimento del ricercatore nel campo: la propria esperienza vissuta, la propria collocazione
professionale e soprattutto l’intera struttura cognitiva della disciplina.
Per il sociologo è possibile sottrarsi al circolo vizioso prodotto dalla sua presenza all’interno del
mondo sociale che studia solo a condizione che sappia servirsi delle conoscenza che egli ha del
mondo sociale «per cercare di neutralizzare gli effetti deterministi insiti nella relazione
oggetto/soggetto della ricerca» (Bourdieu e Wacquant, 1992:44). Per l’autore francese bisogna fare
una sociologia della sociologia, ossia utilizzare lo specifico sapere della nostra disciplina in modo
da arginare gli effetti di oggettivazione o di soggettivazione prodotti dal ricercatore sul proprio
oggetto d’analisi. Per questo motivo è necessario sottoporre la posizione dell’osservatore alla stessa
analisi critica a cui è stato sottoposto l’osservato, principio che, secondo Bourdieu, porta a costruire
gli oggetti scientifici in modo diverso, in modo riflessivo. La riflessività, per Bourdieu, è lo
strumento di analisi che i sociologi hanno a disposizione per indagare come l'interiorizzazione delle
strutture
esterne
condizioni
il
nostro
modo
di
rapportarci
all'oggetto
di
analisi
e
contemporaneamente permette al ricercatore di contestualizzarsi entro il proprio campo d’azione,
ovvero all’interno della propria disciplina che, a sua volta, diventa campo di azione riflessiva.
Come Bourdieu, anche Melucci (1998) non delinea soluzioni, ma solleva cinque problemi che una
metodologia riflessiva deve essere in grado di affrontare nella sua pratica. Innanzitutto è necessario
affrontare il problema della gestione pratica e teorica della molteplicità di prospettive, attraverso un
approccio dialogico che sappia mantenere la polifonia. Un altro problema riguarda il controllo: è
necessario trovare un equilibrio tra la possibilità di tornare alle procedure e alle pratiche di ricerca
senza inibire il processo creativo della ricerca. Come terzo problema Melucci riprende il tema della
legittimità: «è tutta interna alla comunità scientifica oppure viene dall’esterno? In che rapporto
stanno i diversi tipi di legittimazione? Se la comunità scientifica non è più il garante unico del
metodo, su cosa si fonda la sua identità e che cosa garantisce la cumulabilità della conoscenza?»
(Melucci, 1998:27). Il quarto problema riguarda il rapporto soggetto/oggetto della ricerca; l’autore
insiste sul privilegio di cui può godere il ricercatore che, nonostante sia un attore sociale come un
altro, ha il controllo sulle risorse conoscitive. Questo privilegio implica però delle responsabilità;
arriviamo così al quinto problema posto da Melucci: la responsabilità etica del ricercatore deve
tenere conto della tensione tra i poli «rispondere di» e «rispondere a» (Melucci, 1998:27). Il primo
dei due poli di riferisce alla biografia, alla collocazione e al posizionamento del ricercatore; mentre
il secondo si riferisce all’interazione con gli attori e, soprattutto, con le loro domande di giustizia
sociale.
Abbiamo visto come la riflessività agisca in tutte le fasi di ricerca e, nel corso della discussione,
abbiamo suggerito alcune strategie teoriche, metodologiche e retoriche utili ad inglobare all’interno
24
della ricerca questo tipo di riflessione. In conclusione di questo paper, possiamo soffermarci a
pensare ad una formalizzazione diversa per rappresentare il processo di costruzione di una ricerca
riflessiva. Lungi dall’essere un continuum lineare che dalle ipotesi si sviluppa entro un testo scritto,
possiamo immaginarci il processo di ricerca riflessivo entro uno schema complesso formato da
connettori e frecce che rimandano all’influenza reciproca tra fasi e momenti d’indagine (Fig. 3). La
ricerca riflessiva segue una logica avanti-indietro imposta dalla continua azione autoriflessiva del
ricercatore che, ad ogni fase, ridefinisce le categorie che utilizza, rimette a punto il farsi della
ricerca nel fare ricerca ed esplicita i ragionamenti che la strutturano (Gobo, 1998).
PROBLEMA
OBIETTIVI
DISEGNO
DI
RICERCA
STRUMENTI
E
RILEVAZIONE
CAMPIONI
DATI
RISULTATI
COMUNICAZIONE
Fig. 3 - Fonte: Bosio, La ricerca sociale applicata. Metodologia di processo (2007).
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