QUANDO LO SPINNING ALLENA L`ANIMA di Luisa Ghianda

QUANDO LO SPINNING ALLENA L’ANIMA
di Luisa Ghianda
A settembre, in piena crisi da signora di mezza età, mi sono detta: “Voglio diventare tonica
come… come... come Marina Berlusconi!!”, che mi stava sorridendo da una copertina
patinata, braccia e spalle fastidiosamente toniche in vista, come neanche quella gran
gnocca di Demi Moore sfoggiava in Soldato Jane. Beh, non potendo certo ispirarmi a Belen,
per età e senso critico, ho pensato che quella signora, anche lei di mezza età, potesse
essere accettabilmente “aspirazionale”, non per credo politico magari e nemmeno per
irraggiungibili beni mobili ed immobili, ma per quell’invidiabile corpo, indubbiamente tonico,
che sfoggiava nella foto.
Avrei certamente potuto dimostrare maggior carattere evitando di lasciarmi sedurre da un
modello proposto dai media, questo sì, ma Marina Berlusconi mi sembrò abbastanza
innocua, tutto sommato, o comunque più innocua dei modelli proposti da Maria de Filippi.
Riconosciuto il sentimento poco nobile che stavo provando, l’invidia, negarlo sarebbe stato
poco “maturo”. Non mi restava che legittimarlo, mescolandolo all’ammirazione, che pure la
signora meritava poiché, nonostante i probabili numerosi personal trainer al suo servizio, il
sudore
per
tirarsi
scolpita
come
la
Venere
di
Milo
era
tutto
suo.
Ora che avevo il mio indiscusso modello a cui tendere, dovevo solo organizzare i miei
allenamenti e accettare di sudare inelegantemente!
Un programma serrato 7 giorni su 7 aleggiava nelle mie fantasie più sfrenate.
E fu così che appro alla mia prima lezione di spinning.
Fu un disastro.
Totale malavoglia prima. Fatica bestiale durante. Male cane alle gambe il giorno dopo.
Eppure quella lezione mi aveva lasciato qualcosa che meritava di essere approfondito.
E poi ero ormai preda della mia dannata vanità, limite che non ero minimamente disposta
ad ignorare.
Così, vagheggiando il corpo della Marina, arrivo sgomenta, qualche giorno dopo, alla mia
seconda lezione di spinning. Affannata ed in ritardo come sempre, mi dirigo verso la sala.
Mi sono sbagliata? E’ tutto buio.
Nella sala, 15 biciclette disposte a ferro di cavallo, l’istruttore al centro, luci soffuse, musica
a palla.
M’inchino, saluto, chiedo scusa per il ritardo.
L’istruttore mi accoglie sorridente: “Vieni, vieni, abbiamo appena iniziato”. Certo è cordiale,
perché non mi conosce ancora e non sa che sarò sempre in ritardo, perché io vivo in ritardo.
Mi vede trafficare in modo maldestro con una bike, per cui mi offre il suo aiuto per sistemarla.
Una colonna sonora da paura avvolge l’atmosfera.
Salgo sulla bicicletta, ecco, adesso non ho più scampo, devo iniziare a pedalare.
“Ah, questa volta va molto meglio”, penso. Non è vero. Dopo qualche minuto faccio già una
gran fatica. L’istruttore ritma il mio sforzo con parole d’incoraggiamento. Lui pedala agile,
ma sembra non aver scordato cosa si prova da esordienti. Infatti, come un genitore
amorevole offre sostegno continuo. Le luci basse mi portano in una strana dimensione,
sconosciuta, confusiva. Ci siamo solo io, la bike, la mia fatica. La musica, davvero
meravigliosa nella sua ricercatezza, mi incita a proseguire. Alzo gli occhi sfinita e trovo quelli
dell’istruttore, uno sguardo che mi restituisce la sensazione di essere accolta, seguita e
soprattutto non giudicata. Uno sguardo rapido all’orologio. “Mamma mia, sono passati solo
10 minuti”, penso. Continuo a pedalare, mentre ineleganti gocce di sudore rigano il mio
corpo. Cerco di pensare ad altro, nella speranza che la distrazione sconfigga la fatica. “Non
ce la faccio più, adesso scendo e me ne vado”, bisbiglio. “Mani in seconda, stringere la
resistenza, iniziamo a salire. Dai!”. Cosaaaaa? Argh…io sto per avere un attacco cardiaco!
Non stringo un bel niente e non alzo il mio molle deretano da questo sellino. E’ ora di
confrontarmi con la mia vanità, limite che mi sta obbligando ad affrontare uno sforzo che
non sono in grado di reggere. Questo è un pazzo. “Concentrati”, grida il pazzo. “Concentrati
alla meta”. Ah, allora sto sbagliando tutto, non devo affatto pensare alla lista della spesa.
Forse fare fantasie sessuali funzionerebbe di più. Alzo gli occhi, occhi sbarrati, e lui, il pazzo,
è lì, occhi nei miei, mi sorride e mormora: “Tutto bene? È la prima volta?”. Sorrido anch’io,
più isterica che felice, ancora una volta sento la sua accoglienza, la sua assenza di giudizio.
Quello sguardo è importante e mi consente di tornare a pedale con rinnovata grinta. In
momenti di difficoltà, qualcuno che ti capisce e ti tende una mano può essere salvifico. Gli
rispondo a fatica, indicando il numero due con le dita e lui alza il pollice, con un sorriso dolce
appena accennato, in segno di “ok, avanti così, va bene”, un semplice gesto privo di parole,
capace, però, di richiamare la mia autostima, messa duramente alla prova.
Io conosco quello sguardo, ma dove l’ho già visto? No, non è lo sguardo di uno che ti sta
riservando erotiche attenzioni (mio malgrado!), è uno sguardo più vicino ai miei spazi
professionali.
Io mi occupo di consulenza psicologica ed i contenuti di quello sguardo stanno alla base
della mia professione: accoglienza, attenzione per il vissuto altrui, assenza di giudizio,
rispetto. Una professione legata alla crescita personale la mia, che porta al superamento
delle difficoltà, delle fatiche quotidiane, delle proprie tristezze, delle proprie paure, dei propri
limiti, una professione che vuole potenziare la fiducia nelle risorse personali e ridare
l’equilibrio interiore.
Cosa c’entra tutto questo con lo spinning? Continuo a pedalare. Più nervosa, più
concentrata. Chiudo gli occhi e visualizzo una salita alla Pantani, colui che forse avrebbe
potuto salvarsi se avesse chiesto aiuto, confrontandosi con i fantasmi interni con cui spesso
gli eroi, e non solo, si trovano a convivere.
Mentre pedalo, i pensieri si fanno più nitidi e molte riflessioni zampillano nella mia testa.
La verità è che mi sto sfidando su questa bike, sto tentando di superare un limite, sto
affrontando una prova che non è per nulla solo fisica, è soprattutto mentale. Sto facendo
fronte ad uno sforzo che di solito lascio ad altri perché ritengo eccessivamente ostico per
me.
E pedalata dopo pedalata scopro inaspettate risorse, una tenacia che mi è sconosciuta, una
capacità ad oggi ignorata di richiamare le mie risorse, canalizzare le mie energie, misurarmi
con quell’ affaticamento fisico e mentale che non pensavo di essere in grado di sostenere.
E tutto questo sta avvenendo su una bicicletta, terreno di prova che non credevo potesse
promuovere tante riflessioni.
Questa è la vera rivelazione per me: il fatto che un’attività sportiva possa condurmi
attraverso un’avventura introspettiva che, per formazione, sono solita attribuire a strumenti
psicologici. Eppure questa bicicletta mi invita ad un viaggio esperienziale altrettanto
significativo, dove lo sguardo di questo allenatore si fa indispensabile, perché è lo sguardo
di chi ti sa accompagnare in un viaggio di crescita, standoti accanto in modo potente e
rispettoso.
Proprio come avviene in un percorso di coaching, il viaggio a cavallo di questa bike mi invita
a contenere convinzioni limitanti, evidenzia schemi mentali fallimentari, mette in luce
barriere invisibili. Se il setting psicologico, con lo strumento della parola, permette un lavoro
dalle molteplici possibilità espressive, offrendo elaborazioni profonde ed esplicite, questo
spazio, a suo modo, pone delle domande e dà delle risposte.
Termino
la
lezione
esausta
ma
sicura
di
volere
partecipare
alla
prossima.
Alla lezione successiva, entro nella sala come sempre in ritardo rispetto alla tabella di
marcia. Trovo un nuovo trainer e sono sicura che con lui farò un nuovo pezzo di strada.
Sistemo la mia bicicletta. La musica riempie la stanza e io sono pronta.
Dopo qualche minuto ho l’impressione che la lezione sia tanto più dura. Ma ecco che
arrivano le sue prime parole in mio soccorso. Non mi sbagliavo, anche lui contribuirà al mio
viaggio interiore.
Questo allenatore, ormai il mio terapeuta (“therapeùo” = avere cura), ha il suo stile, come
ogni terapeuta d’altronde. Scandisce il ritmo della musica avvolgente e travolgente, offrendo
molte informazioni tecnico-tattiche. Queste arrivano dirette alla mia parte adulta: la durata
della lezione, i tempi dedicati al jumping e al running, i minuti di salita previsti, le modalità
per affrontarla, la posizione corretta delle braccia, quella delle gambe, delle spalle,
l’importanza dell’uso della caviglia, delle anche.
Ancora una volta affiora nella mia testa l’analogia con il coaching di natura psicologica:
quanto più l’obiettivo diviene chiaro e definito, tanto più è possibile attivare energia,
incrementare la motivazione, chiamare in campo le risorse, realizzando un processo
evolutivo.
Le sue informazioni mi consentono di correggere la pedalata, di affrontare la prova con nuovi
elementi. Siamo un gruppo, ma siamo anche singoli individui, a cui il trainer dedica la giusta
considerazione, chiamandoci per nome e dandoci consigli ad hoc.
Il ragazzo di fianco a me m’invita a non mollare: “Libera la mente e vedrai che arrivi in fondo”.
Ed ecco di nuovo il parallelo con il mio setting professionale, a volte fatto di più individui,
come avviene nella formazione, il coaching o il counseling in gruppo, persone unite in una
coralità che offre mutuo sostegno, dove l’occhio attento del terapeuta vigila su tutti,
riservando ad ognuno la giusta attenzione.
Se il primo allenatore faceva leva sulla parte emotiva dell’individuo, offrendo “transazioni di
sostegno” (“coraggio, avanti, non mollate, bene così, bravi”), questo allenatore punta
piuttosto alla parte adulta, dando informazioni tecniche che rendono sempre più competenti
in materia. Due stili di uguale valore, che fanno semplicemente appello a parti diverse della
persona. Mi appaiono terapeuti vigili, che aiutano le persone a sfidare i propri limiti,
portandole in cima alla montagna, per poi “riportarle a casa”, come usano dire sul finire
dell’allenamento, espressione con forte carica emotiva che lascia immaginare il ritorno ad
un luogo accogliente, ad una zona interiore di comfort dove tutto è più facile, conosciuto,
privo di sforzo.
E poi arriva una frase magica, una “transazione al centro del bersaglio”: “Dai ragazzi non
mollate, perché dove non arriva il fisico, arriva le mente e dove non arriva la mente arriva il
cuore”.
Adesso ne sono sicura, lo spinning non sta solo allenando il mio corpo, sta allenando la mia
anima. Cuore, anima, cervello, cantava Jovanotti; muscoli, forza mentale, passione fa eco
questo allenatore; psiche ed emozioni direi io.
Occhi chiusi, la mia concentrazione si fa più intensa perché voglio arrivare in fondo al viaggio
interiore che mi sono preposta, per scoprire qualcosa di me che sono sicura mi sarà utile
per affrontare altre prove della vita.
E giro di volano dopo giro di volano il senso di auto efficienza cresce. Lo stato d’animo che
mi accompagna ha indubbiamente un ruolo determinante. Corpo, mente ed emozioni sono
indissolubilmente legate. Quest’ultime, chiamate in campo, agiscono come un vero
catalizzatore, un acceleratore di risultati. Un colpo brusco di pedale e riprendo il ritmo della
musica. Le mie potenzialità mentali vengono ampiamente sollecitate, i miei punti di forza
vanno a contrastare le mie aree di debolezza, incidendo sulle mie capacità di forza e
resistenza. Non m’importa migliorare la performance in sé, quanto piuttosto allenarmi a
gestire efficacemente gli stati d'animo che questa mi procura. Attivare la concentrazione,
mantenere alti i livelli di motivazione, gestire lo stress, superare il blocco di fronte ad una
attività vissuta come impraticabile, gestire lo sforzo, raggiungere la meta.
Voglio solo vivere appieno la metafora che lo spinning è per me: mettersi in gioco, affrontare
nuovi ostacoli, imparare, reagire, aspettare la prossima volta e riprovarci.
Questo è il viaggio interiore in cui il terapeuta in bicicletta mi sta accompagnando.
Ed io sento di potermi fidare ed affidare.
Grazie ad Andrea e Claudio.