Il De Trinitate di Agostino di Ippona. Tesi di Laurea

TFO - Tesi Filosofiche Online - Online Philosophical Theses
SWIF – Sito Web Italiano per la Filosofia
Note sul diritto d'autore
Copyright Information
I diritti relativi alle tesi sono dei rispettivi autori. È
consentita la copia per uso esclusivamente personale.
Sono consentite, inoltre, le citazioni a titolo di cronaca,
studio, critica o recensione, purché accompagnate
dall'idoneo riferimento bibliografico. Si richiede, ove
possibile, l'indicazione della fonte "TFO-SWIF",
incluso l'URL www.swif.it/tfo.
The copyright of each thesis belongs to the respective
author. The copy is allowed only for personal use. The
quotations are allowed for chronicle, study, criticism or
review, but they must have the right bibliographic
reference. If possible, there will must be the indication
of the source "TFO-SWIF", inclusive of the URL
www.swif.it/tfo.
TFO-SWIF delega la responsabilità per il contenuto
delle singole tesi ai rispettivi autori.
TFO-SWIF delegates to the respective author the
responsability for the content of each thesis.
TFO-SWIF declina qualsiasi responsabilità (espressa,
implicita o di legge, inclusa la violazione dei diritti di
proprietà e danni da mancato guadagno) in riferimento
al servizio offerto, alle tesi pubblicate, alle
informazioni in esse contenute (incluso accuratezza e
legalità) e ad ogni altro contenuto, anche di terze parti,
presente sul sito TFO-SWIF.
TFO-SWIF declines all explicit, implicit or juridical
responsability (the violation of property rights and the
damages for non-earnings included), with reference to
the offered service, to the published theses and to the
contained informations (precision and legality
included) and to all contents (of a third party, too) in
the TFO-SWIF site.
TFO-SWIF non è responsabile per alcun danno causato
dalla perdita, cancellazione o alterazione, momentanea
o definitiva, delle tesi.
TFO-SWIF is not responsibal for any damage caused
from the temporary or absolute loss, cancelling or
alteration of the theses.
TFO-SWIF non può, in nessun caso, essere ritenuto
responsabile per danni o perdite di qualsiasi natura che
l'Utente assuma di aver subito per l'effetto del mancato
funzionamento di qualsiasi servizio offerto e/o per la
mancata ricezione di informazioni e/o per la loro
inesattezza o incompletezza.
TFO-SWIF can under no circumstances be thought
responsible for damages or losses of any nature, that
the User assumes to have suffered, for consequence of
any offered service or of the unsuccessful reception,
uncertainty or incompleteness of information.
TFO-SWIF si riserva il diritto di cancellare ogni
contenuto, che per leggi sopravvenute non rispetti più
le limitazioni della giurisprudenza o le nuove
condizioni del servizio stabilite.
TFO-SWIF reserves the right to cancel all contents that
in consequence of new laws don't respect the juridical
limitations or the new conditions of service.
L'autore ha autorizzato TFO-SWIF al trattamento dei
suoi dati personali ai sensi e nei limiti di cui alla legge
675/96.
The author allowed TFO-SWIF to the treatment of own
personal data (Italian Law n. 675/96).
SWIF – Sito Web Italiano per la Filosofia
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Filosofia
TESI DI LAUREA
UNA TEOLOGIA PER UN MODELLO DI CONOSCENZA
IL “DE TRINITATE” DI AGOSTINO D’IPPONA.
Relatore: Chiar.mo Prof. Massimo PARODI
Correlatore: dott. Stefano SIMONETTA
Laureando:
Giuseppe Bottarini
Matr. n. 543449
Anno Accademico 2003 - 2004
INDICE
INTRODUZIONE……………………………………………………p..1
PARTE PRIMA
LIBRI I – IV: SECUNDUM SCRIPTURAM
1.1 Lo sviluppo del dogma trinitario nel cristianesimo
dei primi secoli……………………………………………………p.. 5
1.2 La via di Agostino………………………………………………...p.11
1.3 Teologia e cristologia……………………………………………..p.13
PARTE SECONDA
LIBRI V – VIII: NON SUBSTANTIALITER, SED RELATIVE
2.1 La dottrina delle relazioni………………………………………..p.19
2.2 Persona e sostanza………………………………………………...p.22
PARTE TERZA
LIBRI IX – XV: DE VERITATE
3.1 Essere e verità……………………………………………………...p.29
3.2 Essere e soggetto: l’anima…………………………………………p.42
3.3 Verità e soggetto……………………………………………………p.53
CONCLUSIONE
La tradizione filosofica di un modello di ragione…………………….p.70
BIBLIOGRAFIA……………………………………………………… p.73
1
INTRODUZIONE
Composto lungo l’arco di più di un ventennio, dal 399 al 421, il trattato
intitolato alla Trinità è una delle opere più complesse di Agostino, nella
quale metodo e pensiero si riflettono l’uno nell’altro, nel senso che la
concezione metodologica dell’opera esprime quella filosofica nelle sue
caratteristiche fondamentali.
I 15 libri che lo costituiscono sono stati suddivisi, secondo un giudizio
pressoché unanime della critica, in tre grandi blocchi: libri I – IV, che
trattano in senso dogmatico – esegetico la giustificazione del dogma; libri
V-VII, in cui si svolge una chiarificazione logico-filosofica; libri VIII - XV,
dove Agostino si incammina alla ricerca dell’imago Trinitatis, in un
itinerario filosofico che consenta alla ragione di cogliere, senza esaurire, ciò
che prima riteneva per fede1. Il libro VIII è stato spesso considerato di
transizione, ma in virtù del fatto che presenta una preliminare introduzione
filosofica alla nozioni di verità, bontà, giustizia e amore, sembra potersi
collocare come ultimo libro del secondo blocco, in tal modo definito dai
libri V – VIII. In questa sezione del trattato viene svolta la dottrina delle
relazioni intratrinitarie, secondo un modello di logica relazionale rilevante
sia per la teologia sistematica, sia per la filosofia della conoscenza e della
soggettività, trattate nella terza ed ultima parte, qui dunque identificata nei
libri IX – XV.
Il metodo seguito nella concezione generale dell’opera esprime la stessa
progressiva generazione della verità, a partire dalla sua affermazione nella
fede biblico-teologica, l’initium fidei quale gradino preliminare in cui la
1
cfr. H. Marrou, S. Agostino e la fine della cultura antica, Milano 1989. L’opera di Marrou
rappresenta il riferimento comunemente accettato dalla critica per le discussioni sulla
suddivisione del trattato, pur nelle diverse concezioni del significato delle parti così
distinte.
2
ragione si coglie nella misura, nell’ordo che ne è condizione: il giudizio
dunque non definisce la regola, ma vale, piuttosto, nella regola.
Il riconoscimento dell’indisponibilità di questa misura nell’esteriorità
condizionata della conoscenza sensibile, e l’esperienza della sua evidenza
nella costituzione trascendentale della coscienza avvengono in quella
incorporea
conversio,
lungo
quell’itinerarium
di
“riduzione”
fenomenologica e trascendentale alle proprie condizioni di senso compiuto
dalla mens che culmina, di analogia in analogia, nella generazione della
sapientia, che proprio in quanto generata si propone come imago Trinitatis,
non perciò in ragione di una qualità mimetica della rappresentazione, che
poi si estenderebbe al giudizio, ma per la sua virtù espressiva, che possiede
in quanto analogia della generazione della verità nella verità, nell’originaria
e semplicissima unità della misura, della regola e dell’ordo che costituisce
l’insuperabile orizzonte di legittimazione del pensiero e dell’esistere.
Tale methodos coincide con l’itinerarium, con il dispiegarsi della mens nella
verità, come indicano una serie di testimonianze interne, a partire dal libro I,
2.4 2, in cui si tratta di reddere rationem primum secundum auctoritatem,
segnalando l’initium fidei quale primo passo del necessario reditus critico
della ragione alle proprie condizioni di possibilità. Il prologo al libro VIII
afferma il principio metodologico della exercitatio mentis, dove il continuo
ritorno alle verità comprese e dette serve alla chiarificazione della loro
inerenza ad un piano epistemico di fondazione, che avviene, da questo libro
in poi, modo interiore.
In XV, 3.4 e 3.5, Agostino, prima di compiere lo sforzo finale, getta uno
sguardo retrospettivo sulla materia trattata, ne dà la sintesi, consentendo di
individuare nella sua concezione della domanda filosofica le ragioni di un
metodo che è già epistemologia, chiarendo il senso della sua inerenza ad un
quadro platonico e neoplatonico di riferimento.
2
Secondo questa
Agostino d’Ippona, De Trinitate, in Nuova Biblioteca Agostiniana. Opera omnia di
Sant’Agostino, a cura della Cattedra Agostiniana, fondatore e direttore A. Trapè direzione
di R. Piccolomini, Roma 1987-2004, vol. IV. Per le citazioni dal De Trinitate e dalle altre
opere di Agostino menzionate, si fa riferimento a questa edizione.
3
ricostruzione (XV, 3.5) il libro VIII introduce un nuovo metodo, segnato
dal ricorso alla riflessione: ratione reddita intelligentibus, ma cambia anche
la prospettiva dell’oggetto, per cui Dio non è più considerato a partire dalla
Trinità, per dimostrarne l’unità, ma, viceversa, si considera l’unità e se ne
indaga la conformazione trinitaria, queritur quid tres sint.
Il metodo è per veritatem quae intellecta conspicitur, e non più secundum
Scripturam, mentre il rovesciamento della prospettiva indica che ci si
muove in un quadro filosofico che, nel riconoscere l’unità quale propria
misura, rifigura la domanda filosofica come domanda sul Bene in sé
concepito come condizione di ogni altro bene, quindi di una vita felice,
possibile come tale solo nella misura, nella regola e nell’ordo, la cui
tematizzazione quindi non punta anzitutto alla costruzione di un’ontologia,
di una filosofia “prima” in senso aristotelico: Non omne quod de Deo dicitur
secundum substantia dici…sed dici etiam relative, id est non ad se, sed ad
aliquid quod ipse non est (ibid.)
Si tratta dunque di un’indagine
indispensabile alla posizione stessa della domanda, in direzione di una
fondazione epistemica delle condizioni alle quali la verità e il bene, nella
misura concessa alla finitudine umana, sono effettivamente possibili come
partecipazione alla loro misura suprema: Deinde per veritatem quae
intellecta conspicitur, et per Bonum summum a quo est omne
bonum………ut natura non solum incorporalis, verum etiam immutabilis
quod est Deus, quantum fieri potest, intellegeretur admonui.(ibid.).
Da qui in poi, la via intrapresa è quella della ricerca dell’imago Trinitatis,
nel limite segnato dall’analogia: sempre seguendo XV, 3.5, la riflessione
sulla caritas ha condotto ad una prima analogia, l’amante, l’amato, l’amore,
mentre nel libro IX si è analizzata l’imago nell’homo secundum mentem:
mens, notitia, amor.
L’itinerario approda infine alla triade memoria, intelligentia, voluntas, e
dopo una digressione sulle possibilità espressive offerte dall’uomo esteriore,
nella considerazione del senso della vista, che conferma l’insufficienza di
una analisi fenomenologica che non giunga a quella incorporea conversio in
4
cui la coscienza coglie nella propria costituzione trascendentale la misura
come fondamento della propria verità, si perviene alla sapientia come
modalità espressiva adeguata, imago e analogia dell’ordine stesso, in cui
anche la scientia trova la sua legittimazione, come sapere dell’ente secondo
la regola e il numero 3. Nel XIV libro, questa sapientia è connotata come
Dei munere in eius ipsius Dei participatione donata4.
Finchè, nello stesso libro XV5, si ribadisce che il valore conoscitivo
dell’imago stessa
- in aenigmate et per speculum – non si fonda nella
capacità rappresentativa, mimetica, diretta quindi alla riproduzione del dato,
che pure si è soliti ascriverle, ma nella qualità espressiva
del proprio
carattere genetico, in virtù del quale, come il Verbo è somiglianza espressa e
quindi imago del Padre in quanto da lui generato, così la sapientia, generata
quale culmine dell’itinerarium mentis, lo è dell’ordine e della misura nei
quali riconosce il proprio fondamento.
3
4
Cfr. H. Marrou, op.cit., pp. 171 ss.
De Trin., XIV, 19.25.
5
Ivi, XV, 9.15; 11.20.
5
PARTE PRIMA
LIBRI I – IV: SECUNDUM SCRIPTURAM
1.1 Lo sviluppo del dogma trinitario nel cristianesimo dei primi secoli
La teologia del primo cristianesimo tentò di dimostrare la concordanza fra la
confessione della divinità del Figlio e dello Spirito Santo e il monoteismo
dell’Antico Testamento, spiegando in chiave trinitaria certi passaggi
veterotestamentari. Questo modo di procedere è in relazione con la storia
esegetica che questi testi hanno già conosciuto nel pensiero giudaico 6. Il
nesso è interessante, perché mostra come la concezione cristiana del Figlio
quale ipostasi preesistente accanto al Padre e le relative idee che sullo
Spirito si sono formate lungo il cammino che ha portato alla dottrina
trinitaria, non siano a priori in contrasto con il giudaismo e la sua fede
nell’Unico Dio. Si pensi a ciò che il libro dei Proverbi dice sulla sapienza
preesistente, che poi sarà il punto di partenza sia del concetto giovanneo di
logos, sia della dottrina ad esso relativa sviluppata dall’apologetica nel
primo cristianesimo. In modo simile anche la teologia rabbinica ha
identificato la Sapienza preesistente di Dio con la Thorà: la Sapienza è vista
come una forma di manifestazione divina al tempo stesso relativamente
distinta da Lui. Qualcosa di analogo si riscontra anche nella teologia
deuteronomistica del nome di Jahvè, del quale si afferma che abita nel
tempio, mentre Dio sta nel cielo (Dt 26,15); ed anche la Gloria di Jahvè è
6
cfr. Storia della Teologia, Epoca Patristica., a cura di A.Di Berardino – B.Studer,
Casale Monferrato, 1993, vol I, cap.1, pp.68 ss.
6
raffigurata come un’entità in un certo senso altra rispetto a Dio, come una
gloria che nel futuro escatologico scenderà sulla nuova Gerusalemme per
abitarvi per sempre. In tutte queste rappresentazioni si nota la tendenza a
distinguere le forme di apparire e di agire di Dio nel mondo da Lui stesso.
Questo si spiega con il modo in cui ci si raffigura la trascendenza di Dio: il
fatto che sia stata sempre più rilevata ha avuto come effetto che i suoi modi
di rendersi presente nel mondo si siano a tal punto reificati, da poter essere
concepiti come ipostasi. Per molti aspetti, nelle prime fasi di sviluppo della
teologia cristiana, le concezioni del Figlio e dello Spirito, quali titolari
dell’economia salvifica divina, assomigliano proprio a queste figure.
Possono dunque essere messe in relazione con le rappresentazioni giudaiche
degli angeli, e viceversa i racconti veterotestamentari sulle apparizioni di
Dio che l’esegesi giudaica riferisce a loro possono essere presi come una
convalida della confessione cristiana della triade Padre, Figlio e Spirito. Un
ruolo importante, nella prova scritturistica che la chiesa antica porta per la
dottrina trinitaria, è quello svolto dal racconto della visita dei “tre uomini”
ad Abramo, a Mamre - Gn, 18, 16, e dalla visione della chiamata di Isaia,
che già Filone ricollega ad Es. 25,22 dove Dio parla dall’alto del
propiziatorio dell’arca dell’Alleanza in mezzo ai due cherubini.
Gli enunciati cristiani sul Figlio e sullo Spirito possono quindi ricollegarsi a
problemi di cui già si occupa il pensiero giudaico, vale a dire quelli del
rapporto tra la realtà divina, sostanziale e trascendente, e il modo di
manifestarsi dell’unico Dio. La risposta cristiana, che sarà data con i concili
di Nicea e Costantinopoli, nella professione di fede nella divinità piena del
Figlio e dello Spirito, attesta che le forme della presenza e della rivelazione
di Dio nel mondo devono essere concepite come con-sostanziali allo stesso
Dio trascendente, il quale a sua volta è impensabile senza la Sua volontà di
presenza all’uomo. Questa tematica si ritrova nello sviluppo del concetto di
logos: come per Filone, anche nell’apologetica cristiana del II secolo 7 esso è
considerato il titolare vero e proprio della rivelazione del Dio trascendente,
tanto nella creazione quanto nella storia della salvezza. Per questo, Giustino
7
cfr. W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol.I, Brescia 1990, pp. 312-313.
7
riferisce al logos le apparizioni di Dio narrate dall’Antico Testamento:
specificamente cristiana qui è soltanto l’affermazione che in Gesù di
Nazareth il logos appare in modo corporeo, definitivo e completo. D’altra
parte, proprio la sua identificazione con Gesù porterà alla definitiva
convinzione della divinità piena del logos stesso.
Questo non a causa della sua funzione escatologica, la quale suggerisce
piuttosto uno stato di inferiorità, rispetto all’origine divina, di ciò che
procede da Dio. L’unità con Dio, intesa come divinità piena del logos,
deriva invece dalla sua funzione di rivelazione, capace di conferire una
partecipazione salvifica a Dio stesso. Tuttavia, agli inizi della cristologia del
logos, in primo piano troviamo ancora l’idea della sua unità con il Padre dal
quale egli comunque deriva, allo scopo di garantire la legittimità della
cristologia all’interno di una concezione monoteistica della divinità. L’idea
di logos può essere ricavata anche da quella dell’unico Dio, che con la
creazione del mondo pone al di fuori di sé la sua stessa Ragione, come
Verbo che costituisce l’origine di tutto ciò che è diverso da Lui8.
A quest'idea di processione si ricollega anche quella di partecipazione alla
sostanza del Padre, come si dimostra in Origene. La nozione di processione
cela però un’ambiguità, per la quale o il logos è distinto dal Padre, e posto
sul versante creaturale, oppure si rischia di sacrificare il monoteismo. L’idea
di “generazione eterna” del Figlio, a differenza della creazione del mondo,
introduce una chiarificazione terminologica, nel permanere di un debito
verso l’ontologia neoplatonica e la dialettica del Parmenide platonico, che
rende, almeno in Origene non sostanziale tale chiarificazione.
Atanasio motiva l’unità del Figlio con il Padre su una base diversa da quella
della relazione con l’origine, vale a dire con la logica della relazione al
Figlio che è già implicita nel nome del Padre. Questo però non chiarisce
ancora in quale modo si debba poi più precisamente intendere l’unità. In
questo senso orienteranno i loro sforzi i Cappadoci, vedendo l’unità delle
8
Per l’idea di “logòs endiàthetos e logòs prophorikos”, decisive sono le teologie di Teofilo
d’Antiochia e Tertulliano.Una ottima esposizione in J.Kelly, Il pensiero cristiano delle
origini, IL Mulino, Bologna 1983.
8
Persone nell’unità della loro azione ad extra e ritenendo quindi di poter
contrastare efficacemente il rimprovero di “triteismo”.
L’unità dell’agire divino può essere concepita anche come unità
“collettiva” della sostanza divina, esistente prima ancora di una qualche
attività comune, quando l’idea di un agire unitario si ricolleghi a quella di
una trialità di persone divine.
L’agire comune non è costitutivo per le Persone e le differenze tra esse. La
teologia del secondo e terzo secolo tenta di motivare la differenza delle
Persone trinitarie ricorrendo all’idea di tre diverse cerchie operative, del
Padre, del Figlio, dello Spirito. L’idea dell’attività unitaria di Dio, delineata
nel quarto secolo, tenta di esprimere la ragione costitutiva delle differenti
Persone, riuscendo a non contraddire l’assunto di una pluralità di Persone
divine. Questo è reso possibile dall’idea di una cooperazione continua fra le
tre Persone, dove però la loro trialità dev’essere presupposta per altra via.
Non è possibile ricavare dall’unità del loro agire comune anche le
reciproche relazioni, oppure l’indipendenza
o l’autonomia del loro
sussistere.
Ciò che si può unicamente pretendere è che la costituzione delle Persone
divine, sempre che per altre ragioni si debba assumere questa pluralità in
Dio, sia concepita in modo tale che il loro operare sia comprensibile
nell’uno o nell’altro modo. Ciò non esclude l’idea di una cooperazione
collettiva di soggetti ontologicamente indipendenti, perciò attraverso questa
via non si sgombra affatto il campo dal sospetto di triteismo. Nessuna
meraviglia perciò che anche i Padri Cappadoci si vedano costretti ad
affrontare tale sospetto, ora però da un altro versante, quello della riflessione
sulle relazioni tra le Persone, in quanto relazioni costitutive per la loro
differenza e indipendenza.
Invece, Atanasio aveva abbozzato una prospettiva secondo cui la
concezione delle Persone singole di per sé stessa implica le loro relazioni
con le altre, concezione che non può nemmeno formarsi senza queste
9
relazioni. Illuminante è a tal proposito il riferimento alle relazioni tra Padre
e Figlio: che il Padre senza il Figlio non sia pensabile come Padre, è
l’argomento decisivo addotto per provare la piena divinità del Figlio.
Successivamente, lo estenderà pure al rapporto del Padre con lo Spirito,
anche se qui il nome di Padre non porta ad un'analoga evidenza.
L’argomentazione diventa persuasiva quando si fa leva sul fatto che il Padre
è Dio, che quindi non può mai essere privo del suo Spirito.
L’argomento è ripreso dai Cappadoci nel tentativo di precisare le differenti
caratteristiche delle tre Persone: le loro peculiarità sono determinate dalle
reciproche relazioni.
Questo punto di vista logico non legittima una
soluzione ontologica della questione sulla costituzione delle persone. Qui,
essi si richiamano all’antica idea che il Padre è la fonte della divinità, e che
da Lui il Figlio e lo Spirito ricevono la loro divinità e al tempo stesso la loro
unità con il Padre, che solo è senza origine 9.
Questo però e anche il punto di vista che lega il “subordinazionismo” alle
concezioni pre-nicene della Trinità e che, durante la lotta per la formula di
Nicea, rappresenta sempre un ostacolo per il riconoscimento della piena
divinità del Figlio.
E' anche l’argomento degli ariani, secondo i quali
soltanto il Padre è senza origine e quindi Dio nel senso più alto, origine di
tutto il resto, che non ha bisogno Egli stesso di origine. Basilio tra i
Cappadoci distingue fra l’assenza di origine della divinità in quanto tale, e
l’ingenità del Padre come tratto caratteristico della sua Persona rispetto al
Figlio che invece è generato.
Tuttavia, non va così avanti come Atanasio, il quale applica anche al Padre
la relazionalità delle differenze personali nel senso del reciproco
condizionamento, perciò può anche affermare che il Padre è “ingenito” solo
in relazione al Figlio. Ora invece, nell’idea del Padre come origine e fonte
della divinità, la Persona del Padre e l’essenza della divinità ritornano a
fondersi al punto che al Padre - e solo a Lui - spetta in modo originario
l’essenza divina, mentre il Figlio e lo Spirito da Lui la ricevono.
9
cfr. Storia della Teogia, a cura di E. dal Covolo, Bologna 1995, vol.I, cap. IX, pp.265 ss.
10
Rispetto ad Atanasio ciò significa una ricaduta nel subordinazionismo,
perché qui il punto di vista della determinatezza reciproca della peculiarità
delle Persone non è sviluppato fino all’idea di una costituzione ontologica
altrettanto reciproca del loro essere personale, ma spiegata nel senso delle
relazioni con l’origine, quelle che possono essere considerate costitutive
dell’essere personale soltanto, rigorosamente parlando, in rapporto al Figlio
ed allo Spirito, se il Padre deve essere considerato l’origine e la fonte della
divinità.
Il dibattito relativo alle controversie sul dogma di Nicea e la piena divinità
del Figlio e dello Spirito lascia dunque aperta la strada a ulteriori possibili
chiarificazioni del modo di intendere l’unità personale intradivina.
Facendo leva su una generazione eterna, non temporale, i Padri Cappadoci
possono affermare tre Persone ugualmente divine, ma devono poi
rispondere dell’accusa ariana di triteismo, e quindi riformulare il problema
dell’unità di Dio nella sua trinità in modo del tutto nuovo.
Non basta più, per sfatare l’accusa, derivare il Figlio e lo Spirito dalla
Persona del Padre, poichè il Padre è solo una delle tre Persone in Dio,
mentre la divina essenza è unica. Diversamente da quanto succedeva quando
s' identificava il Padre con l’essenza divina, distinguendolo dal Figlio e
dallo Spirito, qui si è costretti ad affermare il Figlio e lo Spirito come
ipostasi subordinate al Dio supremo. Non sembra sufficiente pensare, con
Basilio, l’unità della divina essenza analogamente ad un'unità del genere, la
quale lega tra loro le tre ipostasi. In questo caso si genera subito il sospetto
di triteismo, che non si può fugare nemmeno mettendo in dubbio che
l’attività delle tre Persone divine sia comune, dato che la costituzione della
loro trinità deve essere antecedente rispetto
alla comune attività
all’esterno10.
10
Sulla teologia dei Cappadoci sono da ricordare anche: G. Bosio, E. Dal Covolo, M.
Maritano, Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli III – IV, Torino 1993, pp. 261 – 370, e
M. Simonetti, La crisi Ariana del IV secolo, Roma 1975.
11
1.2 La via di Agostino11
Si può cercare una soluzione nel senso di una ricerca che presupponga
l’unità della divina essenza ad ogni differenziazione di tipo trinitario, per
precisarla poi in modo tale da escludere ogni idea di differenza sostanziale,
anche a costo di stendere sulla distinzione delle tre Persone un velo
impenetrabile di mistero.
E’ la via che Agostino segue nel De Trinitate. L’occasione gli è offerta dalla
tesi dei Padri Cappadoci sulla comunione fra le tre Persone divine nel loro
operare dall’esterno, da cui conseguiva che dagli effetti creaturali si può
conoscere soltanto l’unità di Dio. Quest'unità va concepita in modo
assolutamente semplice, senza alcuna composizione: non solo perchè l’idea
stessa sarebbe incompatibile con la nozione di Dio, poiché porrebbe poi la
domanda di quale sia la causa di una simile composizione, dato che non è
nemmeno pensabile qualcosa di composto che sia al tempo stesso anche
causa prima ed assoluta, ma anche in ragione dell’idea stessa di filosofia che
guida Agostino, al cui centro, come ricorda il prologo al libro VIII, sta la
questione del bene come condizione ineliminabile di una vita felice. In
conformità a quest'idea, Agostino cerca di interpretare gli enunciati del
dogma trinitario. Anzitutto riconoscendo che la trinità delle Persone non può
implicare una diversità di tipo sostanziale; si mostra critico nei confronti
della distinzione delle Persone in quanto ipostasi, perché l’equivalente latino
del termine greco – hypòstasis – è proprio quello di substantia12. Ma non
poteva prendere nemmeno in considerazione una diversità accidentale in
Dio, il quale, essendo immutabile, non può avere alcun accidente in sé.
Accettò invece la determinazione delle differenze trinitarie mediante il
concetto di “relazione”, così come lo avevano sviluppato i Padri Cappadoci
11
Per una comprensione del senso storico-teologico del tentativo agostiniano, cfr.
W.Pannenberg, op.cit., pp. 319 ss.
12
De Trin., VII, 5; VIII, 1. A proposito della categoria della substantia, va ricordato che
Agostino dipende più dalla concezione stoica che da quella aristotelica.
12
con riferimento ad Atanasio, nel senso che le diversità delle Persone ora
risultano esclusivamente condizionate dalle reciproche relazioni
13
.
Per Agostino, affermare l’esistenza di relazioni nell’Essere divino non
significa riproporre nell’idea di Dio determinazioni di tipo accidentale,
perché le relazioni non esprimono mutabilità, ma esistono fin dall’eternità,
mentre gli accidenti sono determinazioni mutevoli.
Anzitutto va rilevato che Agostino non ha tentato di derivare le differenze
trinitarie dall’unità dell’Essere divino.Le analogie cosiddette“psicologiche”,
che caratterizzano le parti dell’opera successive alla giustificazione storicobiblica del dogma (libri I – IV) e alla dottrina delle relazioni non hanno,
come si vedrà, un significato eminentemente teologico: né alla teologia
appartiene propriamente la dottrina delle relazioni, che assume il significato
di strumento logico in una
filosofia “prima” che non persegue la
definizione se non in funzione della teoria della soggettività svolta nei libri
IX – XV, senza con ciò rifiutare le formulazioni della fede, ricondotte alle
possibilità offerte dall’epistemologia biblico-teologica e continuamente
rimandate alle condizioni logico-trascendetali di verità del giudizio, che ne
costituiscono comunque la misura. Una filosofia sorretta da una dottrina
logica che usa Aristotele ma al tempo stesso lo corregge, nella rifigurazione
dell’impianto e del senso della metafisica come indagine sulle condizioni
trascendentali di possibilità di ogni vero e di ogni bene nella partecipazione
all’unicità e alla semplicità suprema della misura.
La ricerca intorno alle strutture trascendentali della soggettività, che
saranno riconosciute nell’analogia quali espressioni, come traccia o come
imago, del piano epistemico di fondazione del vero e del bene che in tale
forma si esprime, svolge al tempo stesso una dottrina della conoscenza che,
fedele alla concezione agostiniana della filosofia come incorporea
conversio, itinerarium di generazione della sapientia come ideale regolativo
di una vita felice in quanto buona, mira anzitutto al riconoscimento di un
piano irrinunciabile di fondazione, riconoscimento in cui si inquadra anche
13
Ivi, VIII, 1.
13
la dottrina sul Principio, la quale dunque non è concepita per definire in
termini che sono propri di un diverso ideale di sapere.
1.3 Teologia e cristologia
La centralità della mediazione di Cristo è un motivo fondamentale e
ricorrente della filosofia di Agostino – basti pensare al De magistro - non
tanto per una sua esplicita partecipazione all’indagine dogmatica, quanto
piuttosto per il senso metodologico che assume questa centralità: se è vero
che “il discorso su Dio è necessariamente presente in filosofia perché il
pensiero di Dio è il terreno che l’Occidente si è da sempre scelto per la
stabilizzazione della nozione di verità”14 lo è anche il fatto che questo
pensiero si scandisce in contenuti e modi del pensare umano, ed è di questo
che in filosofia si tratta.
In tal senso è lecito sostenere la mediazione cristologica, come mediazione
metodologica, e così si legittima come filosofica anche un’indagine fondata
sull’analogia, che riconosca da un lato l’imprescindibilità - perché pensare
abbia un senso – di una perfetta adaequatio tra essere e pensiero, quale si
realizza nell’Intelletto divino, ma, dall’altro, consenta di sviluppare un
modello di conoscenza che trovi nelle funzioni trascendentali della
soggettività, garantite da quella perfetta adaequatio, le condizioni alle quali
- nella distanza che appunto l’analogia stabilisce – si possa parlare della
ragione in termini di recta ratio, che ripeta, nella differenza, la perfezione
che la fonda.
Il ruolo di mediatore è per Agostino centrale nella sua concezione
dell’avvenimento dell’incarnazione, trattato sottolineando in particolare il
concetto di
14
kenosis. Nei suoi scritti, e non solo nel De Trinitate, tale
cfr. E. Jungel, Gott als Geheimnis der Welt, Tubingen 1976, pp. 138-140.
14
dimensione è sempre oggetto di una considerazione attenta: “….occupa una
tale centralità……che humilitas e incarnazione possono venir considerati
come sinonimi “15. Il Verbo incarnato esprime un’alterità che non è
estraneità, il Vero e il Bene non si riducono al condizionato, tuttavia
quest’ultimo vi partecipa, come ogni verità partecipa della sua condizione di
possibilità.
La stessa teologia di Paolo si gioca intorno all’unicità della mediazione in
Cristo, come lo stesso Agostino sottolinea richiamandosi all’Apostolo:
Quod autem non aliquem ex angelis dicit Mediatorem sed ipsum Dominum
Iesum Christum, in quantum homo fieri dignatus est habens alio loco; Unus
– inquit – Deus, unus et mediator Dei et hominum homo Christus Iesu
(1Tim 2, 5) 16.
Nella concezione agostiniana, il senso teologico di tale mediazione rimanda
all’incarnazione e all’evento della redenzione, in funzione di una fede che
sappia superare la lettera ma anche restare “al di qua” di una dissolvenza di
quell’evento in un vacuo “spiritualismo”. La memoria dell’incarnazione e
del suo significato soteriologico rappresentano quindi il passaggio alla fides
cristiana, a sua volta mediatrice di un sapere dell’anima su se stessa, posto
come revelatum che da un lato la anticipa – perché il depositum fidei
procede dal
mysterium fidei
- dall’altro presuppone una forma
trascendentale quale fondamento dell’atto di assenso, e infine si impone
come regola nella indisponibilità del contenuto salvifico a riguardo del
destino della libertà umana17.
Sviluppando questo pensiero, Agostino si è rifatto alla Lettera ai Filippesi,
2, 5-11 e alla Lettera ai Romani, 5, 8-10: il Dio che per amore si è spogliato
della propria maestà, così come lo presenta Paolo, è il Dio della redenzione,
della Trinitas che si mostra alla considerazione della fede e della scientia
della fede, la teologia biblica, e che la filosofia svolta nel successivi libri del
trattato svela come misura, regola, quando nel rimando analogico
ricostruisce la trama trinitaria che forma l’ordito di vestigia e imagines;
misura che come principio del giudizio non soggiace alle condizioni di
15
cfr. W. Geerlings, Christus Exemplum, Mainz 1978, p.61.
De Trin., III, 11. 26.
17
Ivi, XV, 17. 22.
16
15
questo, ma conferisce valore conoscitivo alla rappresentazione, all’imago
quando questa si sa come generata nella regola.
La dottrina della salvezza è dunque l’oggetto specifico della teologia
agostiniana, e la cristologia – anche qui seguendo l’idea di Paolo – si
coniuga con una teologia dello Spirito Santo, concepita in senso
intratrinitario, e in stretta relazione con l’ecclesiologia e l’insegnamento
sulla grazia divina18.
Lo Spirito è il vincolo d’amore che unisce il Padre e il Figlio, e anche qui le
definizioni non sono che tentativi: Ergo Spiritus Sanctus ineffabilis est
quaedam Patris Filiique communio, et ideo fortasse sic appellatur, quia
Patri et Filio potest eadem appellatio convenire19.
Il vincolo si costituisce come donum del Padre e del Figlio, nella reciprocità
dell’amore
e nella sua fecondità, che conferisce al dono stesso la
consistenza propria di una relazione – relative dicitur - di cui Agostino
cerca i riscontri nella storia della salvezza. L’intento non è legare Trinità
economica - ad extra – e Trinità immanente, come a cercare una continuità
tra ratio e fides altrimenti indimostrabile: esse vengono infatti chiarite in
sede di dottrina della conoscenza nella loro costituzione trascendentale e
fondate,
altrettanto
filosoficamente,
nella
concezione
dell’unità
dell’intelletto divino, quanto piuttosto quello di insistere sul carattere di
revelatum di ciò che è oggetto di fede cristiana, che la specifica in quanto
tale.
Qui lo Spirito è caritas, donum, communio tra il Padre e il Figlio e a questa
visione teologica si fanno presenti le sue funzioni nell’ambito dell’economia
salvifica. Lo Spirito è la presenza della Trinità nel credente, secondo la
triplice modalità con cui l’azione salvifica di Dio lo raggiunge:
-
l'uomo è creato da Dio di sua libera volontà;
-
è istruito per mezzo di leggi sul modo in cui deve organizzare la sua
vita, dopo di che riceve lo Spirito Santo;
18
19
cfr. C. Schutz, Einfuhrung in die Pneumatologie, Darmstad 1985.
De Trin., V, 11.12.
16
-
la gioia amorevole che questo dono provoca induce alla scelta del
Sommo Bene immutabile che è Dio, già in questa vita, per aver parte
alla vera luce20.
L’ordine della creazione e quello della salvezza sono intimamente correlati e
al tempo stesso distinti, per evitare una affrettata identificazione dello
Spirito Santo con le forze dell’uomo: Non enim habet homo unde Deum
diligat, nisi ex Deo. Ma tra il donatore – il Padre – e il dono – lo Spirito –
non vi è nessuna differenza ontologica: il Padre dona se stesso, e non un
bene creato.
Agostino parte dalla comprensione corretta dell’inabitazione dello Spirito
per contestare la concezione volontaristica dei pelagiani e per sostenere con
vigore che lo Spirito Santo è il principio per eccellenza di tutta la vita nella
grazia. Per questo motivo cita spesso nei suoi ultimi scritti la pericope di
Rm 5,5: “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello
Spirito che ci è stato dato”. Lo Spirito Santo, in quanto dono divino per
eccellenza, fa sì che l’uomo resti in Dio e Dio in lui, accende l’amore di Dio
e quello del prossimo. Conformemente a ciò, questo amore è
segno,
inequivocabile, di communio tra l’uomo e Dio, secondo l’insegnamento
della prima lettera dell’Apostolo Giovanni.
La dottrina teologica dello Spirito Santo, nel De Trinitate, introduce a quella
che è tradizionalmente indicata come l’invenzione teologica agostiniana per
eccellenza, la “dottrina delle relazioni”. Il discorso si sviluppa, a partire dal
V libro, secondo differenti intenzioni: in teologia, appare come un originale
contributo al dibattito sul dogma, e in questo senso si svolge all’interno
della teologia storico-biblica e della critica teologica rispetto alle posizioni
assunte dalla Tradizione e dai Padri, con particolare attenzione alla resa
linguistica delle formulazioni. Su un altro piano, la dottrina si propone
come un contributo alla logica, usando e correggendo Aristotele, che deve
servire alla fondazione della domanda filosofica, che orienta l’itinerario di
Agostino: la filosofia si interroga sulle condizioni alle quali sia possibile per
l’uomo pensare e vivere rettamente, e quindi sul fatto necessario di un
20
De Spiritu et Littera, III, 5.
17
ordine di verità e di bene che sia ultimo, a cui l’ordine umano della ratio
partecipi e a cui rimandi, e che quindi, in base al principio della omoiosis tra
conoscente e conosciuto, ne esprima analogamente la struttura.
Se, con questo, la teologia viene rifigurata intorno alla categoria della
relazione, non si estende con ciò il campo della definizione oltre il lecito: il
rimando non è che il riconoscimento da parte della coscienza antica della
inconcepibilità di una autolegittimazione di se stessa, che dunque in Dio
distingue metodologicamente ciò che
onto-logicamente deve essere
semplice – ma sulla cui essenza, in realtà, non si deve poter dir nulla - per
non veder svanire nello spiritualismo ogni sua pretesa veritativa, e potersi
rivolgere al mondo certa di sé, della propria verità e continuità.
La legittimazione filosofica della soggettività si svolge dunque, secondo
questo modello, successivamente alla riflessione sull’Intelletto divino, che
garantisce l’inerenza ad esso della res creanda come della res creata, e
quindi l’originaria adaequatio intellectus ad rem da parte della ratio umana
all’interno della perfetta adaequatio intellectus et rei
in Dio. Questo
modello attraversa tutta la filosofia antica, da Parmenide ad Aristotele, da
Platone ai Neoplatonici, e risulta costitutivo anche nella riflessione
gnoseologica degli autori cristiani, per i quali si innesta sulla dottrina stessa
de Deo creante.
Il modello agostiniano prosegue questa tradizione, ma nel De Trinitate essa
è in qualche modo radicalizzata: il discorso su Dio è esplicitato in sede di
teologia storico-biblica; già a questo livello si insinua però l’idea di una
insufficienza della terminologia logica di Aristotele e di quella filosofica dei
Padri greci, e l’interesse non si rivolge tanto ad una esauriente
riformulazione del dogma trinitario, ma a distinguere ciò che va predicato
assolutamente, secundum substantiam, da ciò che invece relative dicitur, ed
è questo il piano logico di riferimento a cui appartiene l’analogia, per una
corretta impostazione del problema della conoscenza e della soggettività,
che costituisce il centro nevralgico del trattato: Quapropter illud precipue
teneamus, quidquid ad se dicitur praestantissima illa et divina sublimitas
18
substantialiter dici; quod autem ad aliquid non substantialiter, sed
relative…21, e più avanti aggiunge: Unde manifestum est Deum abusive
substantiam vocari ut nomine usitatiore intellegatur essentia, quod vere et
proprie ita ut fortasse solum Deum dici oporteat essentiam.22, e, se Dio
deve restare Dio, e non abdicare alla propria divinità quando è oggetto del
pensiero umano, la sua essenza è per definizione realiter inconcepibile.
Si arriva così ad una dottrina delle relazioni come organon sia della
considerazione teologica del Principio che della successiva considerazione
della soggettività e del suo rimando analogico-trascendentale alla propria
misura ultima.
21
De Trin., V, 8.9.
22
Ivi, VII, 5.10.
19
PARTE SECONDA
LIBRI V – VIII: NON SUBSTANTIALITER, SED RELATIVE
2.1 La dottrina delle relazioni
La riflessione trinitaria sembra portare, secondo quanto esposto fino a qui,
ad una correzione della dottrina ontologica neoplatonica23, per la quale
molteplicità, alterità, divenire, devono essere espulsi dall’Uno assoluto, che
è in se e per sé stesso – la prima ipotesi del Parmenide – e riferiti soltanto al
derivato – il nous di Plotino – che è relativamente, in altro e per altro.
Agostino, pur muovendosi sempre all’interno di quel modello, giunge a
coniugare nell’Uno stesso i generi sommi assoluti con quelli derivati, in
quanto in se stesso il Principio non può essere soltanto identità sostanziale e
immutabilità: ma sempre nel senso del relative dicitur, in funzione quindi
del pensare umano
che deve le proprie possibilità all’inerenza, nella
partecipazione, ed espressa nell’analogia, al Principio, che dunque va
pensato come misura e ordo della mens, che ne rappresenta l’imago, e prima
ancora dell’intera conformazione trascendentale della soggettività, che ne è
vestigium, traccia; inerenza entro cui si dà la possibilità di fondare il
pensiero stesso di un Principio e la sua dicibilità in termini legittimi. E se la
mens rivela all’indagine filosofica una conformazione trascendentale dei
propri momenti costitutivi tale che ciascuno di essi consista attraverso e in
ragione di una relazione con gli altri, allora tale costituzione deve
legittimarsi analogamente nel Principio, la cui unità logica deve - per dare
23
cfr. W. Beierwaltes, Pensare l’Uno, Milano 1997. La concezione generale della filosofia
platonica alla quale si fa riferimento in questa tesi è quella sviluppata da F. Trabattoni,
Platone, Roma 2003.
20
un credito al pensiero umano – articolarsi intorno al concetto di relazione, e
porsi così come fondamento metodologico di ogni ricerca plausibile che
ambisca ad un valore di verità.
La teologia biblica fornisce già un’indicazione, nel riconoscimento della
Rivelazione personale del Dio cristiano: ma si tratta ora di una fondazione
filosofica, in vista della quale occorre una preliminare considerazione
logica.
La tradizione successiva ad Agostino vedrà qui la radice di ciò che, con
Tommaso d’Aquino,
sarà definita la quaestio de alteritate in divinis,
all’interno della problematica di una distinzione metodologica in ciò che di
per sé, come assoluta semplicità, non conosce alcuna articolazione interna,
in una linea di pensiero che, movendosi in un quadro epistemologico del
tutto differente, conduce all’articolarsi reciproco di essenza ed esistenza in
Dio in vista della sua pensabilità e dicibilità 24. Non sono questi i termini di
Agostino, che procede correggendo il quadro logico aristotelico, secondo
una concezione del senso stesso della metafisica radicato nella domanda
intorno al Bene e alla sua possibilità nella partecipazione: se dal punto di
vista delle dieci categorie, gli accidenti possono inerire solamente alla
sostanza sensibile e creata 25, e se il Principio al tempo stesso deve essere
pensato nell’analogia, così come essa può configurarsi in questa concezione
della metafisica, allora gli si devono attribuire le categorie non sostanziali
della relazione e dell’agire 26 . Nell’Assoluto, relazione o atto non possono
essere accidentali, contingenti: paradossalmente, trasgredendo alla logica
aristotelica, vi è nel Principio qualcosa di Altro – la relazione tra le Persone
– ma che simul non è accidentale: In Deo autem nihil quidem secundum
accidens dicitur, quia nihil in eo mutabile est; nec tamen omne quod dicitur,
secundum substantia dicitur. E poco oltre: ….quod tamen relativum non est
accidens, quia non est mutabile 27.
24
cfr. G. Ventimiglia, Differenza e contraddizione. Il problema dell’essere in Tommaso
d’Aquino: esse, diversum, contradictio. Milano 1997.
25
De Trin., V, 2.3.
26
Ivi, V, 8.9.
27
Ivi, V, 5.6.
21
Bisogna quindi simul distinguere e identificare due piani: l’ad semet ipsum
dell’unica, identica sostanza assoluta, e l’ad alterum, l’ad invicem della
relazione comunque non accidentale o apparente di una pluralità di alii essi
stessi sostanziali: Trinitas relatarum ad invicem personarum et unitas
aequalis essentiae28. Il Padre – nell’esemplificazione biblico-teologica –
ingenerato ha e non è il Figlio generato, alius nella relazione, ma è con Lui
idipsum nella unicità dell’essenza, in cui il Principio è ciò che ha, non
potendosi dare alcuna dissoluzione della semplicità del divino. Infatti, Cum
vero ingenitus dicitur Pater,non quid sit, sed quid non sit dicitur. Cum
autem relativum negatur, non secundum substantiam negatur, quia ipsum
relativum non secundum substantiam dicitur29.
Nell’identità della Trinità si dà così una differenza fra attributi assoluti essentia, idipsum, aeternitas, sapientia, amor - , essenziali perché propri del
Principio, e attributi relativi, non comuni perché specifici a ciascuna
Persona nel suo rapporto con le altre. Seguendo i Cappadoci, le Persone si
differenziano secondo la relazione di origine30: il Padre è generante, il Figlio
è il generato, procedit ab utroque amborum Spiritus31, ovvero la terza
ipostasi procede simul dal Padre e dal Figlio, come dono comune contrariamente alla soluzione orientale, che parla di processione dal Padre
per mezzo del Figlio - e ipostatica identità di amore ed azione delle prime
due Persone. Ancora una volta, l’insistenza sull’unità decide della
questione, sottolineando il senso delle distinzioni: se il Principio di Plotino è
ab-solutus, nella semplice Unità, e il Nous, l’identità in sé relazionata
dell’essere-pensiero non è che il derivato, ecco che nel Deus-Trinitas
Agostino pensa , allineando le tre ipostasi plotiniane e identificandole in
virtù delle loro relazioni reciproche, il Principio stesso come Verbum,
alterità talmente identica all’Uno da identificarsi con esso, dove l’alius
dell’immagine non è aliud, cioè un’altra sostanza32, come nel caso
dell’ipostasi neoplatonica del nous. E la Terza persona, che procede dalle
prime due, anziché alienarsi dall’infinita ricchezza del Principio, come
28
Ivi, IX , 1.1.
Ivi, V, 6.7.
30
Ivi, V, 5.6-15.
31
Ivi, XV, 26.47
32
Ivi, V, 5.6; 7.8.
29
22
l’anima del mondo neoplatonica, è la stessa unità della pluralità: Unitas
amborum…communio consubstantialis et coaeterna, inseparabilis atque
aeterna connexio33.
L’adeguatezza nel Principio tra essere e pensiero si esprime nel paradosso:
Trinitas…unum de uno cum quo unum
34
, e l’Uno è simul simplex
et
multiplex, ma questo paradosso rappresenta per Agostino il tentativo più
adeguato in vista di una fondazione trascendentale della dottrina della
conoscenza in cui la costituzione stessa della ragione possa rimandare
analogamente alle proprie condizioni di possibilità, fermo restando che il
modello di razionalità di riferimento non prevede una autolegittimazione
della soggettività, che o in quanto creata, o in quanto sostanza nel senso
aristotelico, oppure come partecipe del Principio deve potersi ritrovare nella
originaria adaequatio intellectus et rei nell’Intelletto divino.
In questa ottica, l’approfondimento dell’analisi della relazione tra le varie
Persone divine conduce poi alla riflessione che si svolge in quella sezione
del trattato che M. Schmaus ha chiamato “la dottrina psicologica della
Trinità” 35, i libri IX – XV, nei quali viene proposta la filosofia del soggetto
e della conoscenza di Agostino, che nelle parti precedenti ne ha delineato il
quadro metafisico e logico di riferimento.
33
De Trin., VI, 5.7 e 4.6
Ivi, VII, 3.5
35
M.Schmaus, Die psycologische Trinitatslehre des Hl.Augustinus, Munster 1966 (11a ed.)
34
23
2.2 Persona e sostanza
L’approfondimento riguarda soprattutto i libri VI – VII, e procede dalla
convinzione maturata fin dai tempi di Cassiciaco che il Padre “ sia” l’Esse
assoluto ed immutabile, Aeternitas, Memoria, abissale fondamento
cosciente; il Figlio è la sua Sapientia, o Verbum, il suo Intellegere; lo
Spirito è l’Amor, Caritas, Voluntas36. Ma, nell’esegesi di 1Cor 1,24, “Cristo è Sapienza e Potenza di Dio” – Agostino rifiuta l’interpretazione
che il Padre assuma soltanto nel Figlio la propria sapienza; il Padre non è
sapiente per il Figlio, ma in se stesso, altrimenti non potrebbe sussistere
personalmente in sé ma soltanto in altro e per altro, perdendo la sua
assolutezza in quanto determinato dal Figlio che genera; al contrario
ciascuna persona per Agostino dev’essere concepita come unità di tutte le
perfezioni personali; il Figlio non è una qualità o una funzione del Padre
specificata ed espressa, ma è totalità delle perfezioni generata dalla totalità
di perfezioni del Padre, ovvero un alius che è idipsum con il Padre; ma la
stessa unica essenza di Dio è Persona sapiente ed amante37.
Dal punto di vista degli attributi divini assoluti, quindi, non vi è differenza
tra tutto Dio e una singola Persona - Non enim aliud est Deo esse, aliud
personam esse, sed omnino idem38 - o tra una persona e l’altra; ciò perché
le realtà divine hanno la capacità di identificarsi e distinguersi senza
aumento o diminuzione, in quanto nella loro infinita spiritualità non vi può
essere quantità.
Il tutto nell’essenza divina è infinito come ciascuna parte o singola persona
che la compone, secondo la dottrina neoplatonica della praedominantia,
teorizzata da Plotino e in particolar modo da Porfirio, rielaborata
trinitariamente da Mario Vittorino, da Ilario e dai Cappadoci nella tesi della
circuminsessio: le realtà spirituali in quanto inestese e infinite si
36
De Trin., XV, 5.7-6.9.
Ivi, VII, 2.3.
38
Ivi, VII, 6.11.
37
24
compenetrano reciprocamente coincidendo, distinguendosi soltanto per il
predominare in ciascuna di esse di una singola, specificante perfezione,
comunque partecipe di tutte le altre 39.
Già Plotino aveva pensato la seconda ipostasi, il nous, come Uno-tutto delle
idee,e in particolare come sintesi ipostatica dei generi sommi, ove in
ciascuna idea erano tutte le altre 40; ma Agostino non solo pensa il Verbum
come pensiero che unifica la totalità delle idee, ma persino lo stesso Unum
come Unum omnium, assoluta identità di ipostasi, di alterità personali, di atti
in loro stessi trinitari e implicanti la totalità delle specifiche perfezioni
personali 41.
Se si ammette la perfezione in sé trina di ogni singola persona, sembra
divenire problematica proprio la relazione trinitaria: nessuna necessità di
autocompimento metafisico spinge il Padre già perfetto a determinarsi nel
Figlio – non si tratta quindi di una teogonia trinitaria, come in Porfirio e
Vittorino. Agostino sottolinea qui il senso paradigmatico del modello
proposto, quello di essere misura perfetta della mens e delle sue strutture
trascendentali memoria, intelligentia, amor, che solo analogamente in quel
modello si ritrovano: ognuna di queste strutture non può sussistere se non
nelle altre e per le altre nell’unità di una unica persona, non hanno cioè una
loro personale sussistenza, contrariamente alle Persone divine42. Ma non si
sta svolgendo qui una teologia della Trinità secondo il senso che porterà alla
formalizzazione
di
quella
sussistenza:
il
relative
dicitur,
così
insistentemente richiamato nelle pagine agostiniane, riporta sempre di
nuovo al contesto filosofico di riferimento, e lo stesso enunciato teologico si
costruisce nella logica della relazione.
E’ dunque fuori misura il frequente rimprovero che si è mosso ad Agostino
di aver privilegiato quasi modalisticamente – condizionato, secondo tale
critica, dall’analogia porfiriana della mens umana, che spingerebbe a
39
cfr Storia della teologia, op.cit., pp. 386ss.
Plotino, Enneadi, a cura di Giuseppe Faggin, Milano 2000, VI 7, 1-2.
41
De Trin., VII, 1,1-2.
40
42
Ivi, XV, 7.12.
25
rinchiudere l’assoluto in se stesso, pensandolo di più come mistero logico
che come mistero d’amore –
l’unità di Dio rispetto all’articolazione
personale: non solo perché in forza del relative dicitur Agostino conclude la
sua indagine trinitaria quasi sostanzializzando le Persone, acuendo la
tensione paradossale tra il tutto sostanziale e le parti relative, e rispetto alla
distinzione greca tra sostanza generica - ousia – e sostanza specifica –
hypostasis – approda alla lucida coscienza dell’aporia di qualsiasi soluzione
razionale, rifiutandosi di considerare Dio come substantia che si specifica in
tre individui, ma perché tutto il discorso proposto nel libri VI – VII non ha
come scopo quello di dimostrare il dato biblico-teologico, o di legittimarlo
remoto Christo: al contrario, solo la mediazione dischiude all’amore della
fede il senso del Mistero. La ricerca si orienta invece alla fondazione della
verità, verso la sua imago nella struttura trascendentale della mens, quindi al
conferimento di valore veritativo alla ratio
nella
partecipazione alla
misura data, al “numero” che le è assegnato.
Nel dire su Dio, l’essenza è persona, è individuo, la distinzione è tale per cui
le Persone sono idem e unum nell’essenza: non c’e realiter una differenza
tra persona – termine che Agostino non ritiene adeguato ad esprimere la
relazione che dovrebbe indicare 43 – ed essentia , substantia, come se dalla
humana inopia del linguaggio Dio potesse essere pensato come
una
essentia e simul tres essentiae, una substantia et simul tres substantiae, una
persona et simul tres personae44.
L'inopia
del linguaggio e del pensiero umano indica l’impossibilità di
definire in senso essenziale il Principio; ma se linguaggio e pensiero non
vogliono risolversi in una nube spiritualistica di indistinzione, che ripete
all’infinito e tautologicamente l’identità nel Principio di essere e pensiero, e
rinunciare con ciò ad una qualsiasi altra possibilità di un discorso con
valore assegnabile di verità, allora quella divina simplicitas va
metodologicamente articolata, per ritrovarla come necessario fundamentum
inconcussum nella struttura trascendentale della mens.
43
44
Ivi, VII, 4,7-9.
Ivi, VII, 4,7-6.12.
26
I paradossi logici che Agostino introduce e discute sono tutti rivolti a
ribadire la molteplicità dei piani di discussione: e soltanto sul piano della
mediazione cristologica, dell’ordo amoris manifestato nella mediazione di
Cristo essi rivelano l’identificazione della Sostanza Assoluta con l’atto
d’amore perfetto, cosicché nel libro XV è la caritas dello Spirito, dono del
Padre e del Figlio, che meglio rivela l’essenza divina.
La soluzione rappresenta un’eversione rispetto alla tradizione neoplatonica,
la quale espelle il desiderio dell’altro dall’Uno assoluto in quanto irrelato,
perché se l’Uno amasse l’Altro, sarebbe manchevole di qualcosa. Per
Agostino, invece, se l’Assoluto è personalità intelligente, è amore assoluto,
che non si dà senza relazione all’alterità 45, proprio perché amore, l’Idipsum
non può non dilatarsi in trinità, la persona assoluta in relazione di persone; e
quanto più l’alius consiste della relazione personale, tanto più capace, anzi
infinita è la forza unificante dell’amore, relazione in cui gli alia divengono
gli idem dell’assoluto: …caritas qua Pater diligit Filium, et Patrem diligit
Filius, ineffabiliter communionem demonstrat amborum…46.
Questo è il piano teologico dischiuso dalla mediazione, chiave ermeneutica
della relazione d’amore tra le persone divine quando si intende pensare il
Principio nella fede. Come spiegano lungamente i libri IX e XIII del De
Trinitate, o i libri VIII-X del De civitate Dei, o ancora gran parte del
Tractatus in Iohannis Evangelium, Cristo è Salvatore in quanto medium o
mediator, che riconcilia Dio con l’uomo alienato dal peccato proprio in
quanto identificato con il Padre per natura e con l’uomo per amore; e ricorda
la mediazione dialettica della ratio degli scritti giovanili, capace di cogliere
il modus ideale, che connette i contrari nell’ordo rationis.
La terminologia logica con cui viene definita la mediazione cristologica
allude anche qui alla necessità di mantenere in tensione reciproca gli estremi
dei piani di riferimento: Cristo è detto medium, coniunctio, copulatio,
reconciliatio oppositorum 47. Egli è l’idem ipse, identità di…repugnantia et
contraria,communicatio idiomatum: cum Filius sit et Deus et homo, alia
45
De Trin., XV, 20.38.
Ivi, XV, 19.37.
47
De civitate Dei, X, 22.29.
46
27
substantia Deus alia homo48: nell’unità personale di Cristo si identificano
divino e umano, eterno e tempo, essere e non essere, vita e morte. Questo è
il Mysterium fidei, che non è giudicabile come uno sconvolgimento
dialettico ed ontologico del neoplatonismo: sarebbe fuorviante vedervi una
ontologia agostiniana contrapposta ad una ontologia neoplatonica: qui si
tratta invece della teologia di Agostino, che usa della dottrina logica delle
relazioni, e nel riconoscimento della necessità della mediazione, articola
intorno ad essa
il piano teologico – legittimando una
teologia della
relazione – e quello epistemologico, in vista di una filosofia della mens e
del soggetto in cui la verità si sveli come ordine e regola.
Questa intenzione si propone come principio ermeneutico dell’ultima parte
del trattato, i libri VIII-XV, nei quali Agostino esporrà quella fondazione e
quella filosofia. Tuttavia, la dottrina delle relazioni, nella storia della
teologia, è stata oggetto di interpretazioni volte a considerarla un contributo
rivolto alla teologia sistematica, geniale e problematico nello stesso tempo.
In questo ambito, si è identificata la soglia di criticità della dottrina
agostiniana con lo statuto ontologico del secundum relativum in divinis,
dove la posizione stessa del problema segnala che ci si muove entro un
diverso modello epistemologico, di tipo aristotelico, interessato alla
definizione, in vista di un progetto metafisico che si allontana da quello
agostiniano, il quale svolgeva l’interrogazione metafisica in funzione della
fruibilità da parte dell’uomo del Vero e del Bene, secondo un’intenzione che
in Agostino tendeva a correggere alcune istanze “aristoteliche” del
neoplatonismo – in particolare di Plotino - che sembravano invece orientate
ad affermazioni definitive sull’essenza reale del Principio, lontano quindi
dalla concezione che è propria di Agostino riguardo alla concettualizzazione
metafisica.
La centralità della figura di Cristo come mediatore e l’introduzione della
logica delle relazioni in Agostino, invece, non è funzionale alla definizione
teologica o metafisica; ma nel primo caso ad indicare nel dato rivelato il
punto d’innesto dello stesso discorso teologico, e nell’altro, a correggere
48
De Trin., I, 10.20.
28
l’impianto logico aristotelico in vista di una filosofia del soggetto e della
conoscenza centrata sull’analogia concepita in senso logico-trascendentale.
A questo scopo, anche l’uso in teologia della dottrina delle relazioni deve
servire a chiarire la possibilità stessa dell’analogia rispetto al Principio, nel
rimando ad uno stesso modello logico.
Nel dibattito intorno all’“eredità agostiniana”, la posizione più decisa viene
assunta da Tommaso d’Aquino49, la cui lettura in chiave ontologica della
posizione agostiniana sottende un quadro filosofico generale del sapere del
tutto diverso nei due autori, ed ha contribuito in qualche modo a nascondere
il filo d’Arianna che percorre il trattato De Trinitate di Agostino. Da qui in
avanti, la dottrina delle relazioni del vescovo di Ippona è stata sempre più
interpretata come il prologo a quella delle “relazioni sussistenti” di
Tommaso50.
I contributi dell’Aquinate in tale direzione riguardano soprattutto le
riflessioni contenute nella Summa Theologiae51 e nel commento alla dottrina
trinitaria di Boezio, e rappresentano una svolta non solo rispetto ad
Agostino52, ma nei confronti di una tradizione che, a partire dal vescovo di
Ippona, rifigura l’intera dottrina nel senso di una riflessione che, pur non
disimpegnandosi dalla questione dogmatica, resta fedele all’intenzione
filosofica di Agostino, nella considerazione della funzione logica della
dottrina delle relazioni, quindi nella “fedeltà” al significato filosofico del
relative dicitur, che consente sia di confermare le intenzioni e il quadro
generale della metafisica e della gnoseologia neoplatonica, sia di rispettare
una teoria del linguaggio che concede anche alla teologia, oltre che ad una
filosofia de anima e de Deo, la distanza necessaria al mantenimento della
tensione tra la radicale alterità del Vero e del Bene e la necessaria inerenza
del pensiero umano al Principio che ne regola l’adeguatezza.
49
Per una presentazione sintetica della teologia trinitaria di Tommaso d’Aquino: O:H.
Pesch, Tomas von Aquin, Mainz 1988; L. Scheffczyk, Der eine und dreifaltige Gott,
Mainz 1968; Id., Lehramtliche Formulierungen und Dogmengeschichte der Trinitat, in
Mysterium salutis, vol. II, Mainz 1967
50
cfr. F. Courth, Trinitat. In der Scholastik, Freiburg-Basel 1985.
51
cfr G. Ventimiglia, op. cit..
52
cfr. Id., ivi, pp. 48ss.
29
PARTE TERZA
LIBRI IX – XV:
DE VERITATE
3.1 Essere e verità
I libri VIII-XV del De Trinitate sono stati, come già ricordato, tra l’altro
definiti come una dottrina psicologica del mistero costituito dal Dio
cristiano. Secondo questa linea interpretativa, Dio costituirebbe la meta di
una ricerca intellettuale da parte dell’uomo che, procedendo dagli elementi
fondamentali della conoscenza umana, e riconoscendo nella conformazione
trascendentale della soggettività e della coscienza prima le vestigia
Trinitatis e poi l’imago,
pur nella distanza
significata dall’analogia,
approda attraverso la volontà in un ordo amoris che riconosce appartenergli
come propria misura, nonostante la lacuna rappresentata dal peccato, che
impedisce un'immediata concezione della verità possibile per l’uomo in
termini di rectitudo53, e l’esercizio pieno della propria libertà.
Qui Dio è quest’ordo amoris; un ordo che però ha una sua logica,
indeclinabile secondo le gerarchie aristoteliche, ed anche i tentativi cristiani
vanno presi per quello che sono, vale a dire, approssimazioni; perché, come
i libri precedenti hanno mostrato, ogni discorso riporta alla fruibilità per
l’uomo di quell’ordo, cioè al problema di una vita felice in quanto vissuta
nel Vero e nel Bene; ad un piano di verità intesa come necessaria - come
esse su cui poggia la certitudo - misura della vita della coscienza che in
53
Cfr. M. Schmaus, op.cit., e E. Gilson, Introduzione allo studio di S. Agostino, Casale
Monferrato, 1983, PP. 182 ss.
30
qualche modo ne è l’imago. Un piano vissuto, intenzionato dalla vita
interiore; un piano svelato al Sé, nell’atto con cui
conosce la propria
esistenza concependo la propria essenza, ma che subito si impone, come ciò
che rende possibile l’affermazione di questa conoscenza.
Nei libri conclusivi del De Trinitate, sono proprio la verità, la conoscenza,
ma anche il soggetto della conoscenza, ad essere in questione: non nel senso
della discussione anti-scettica, ma nel senso della relazione di cui la verità
consiste e della quale la mens è, analogamente, vera imago. La verità di Dio
resta naturalmente indisponibile; ma nella coincidenza in Lui di essentia ed
existentia – cui partecipa anche l’esperienza dell’autoevidenza del sè: il
cogito agostiniano sa della propria esistenza sapendosi appunto come
cogito–l’esse54 rappresenta la misura stessa della certezza, che resiste anche
all’errore più radicale: si fallor, sum55.
La ragione, certa di sé, riconosce ora di essere superiore alla percezione
sensibile e al senso interno, che coordina la percezione stessa, perché essa
giudica tutto questo. Inoltre, si domanda se esista ancora qualcosa di
superiore, di immutabile, in cui si dovrebbe riconoscere Dio, quo est nullus
superior56.
Una simile realtà immutabile e universalmente valida, su cui la ragione non
giudica, ma da cui è giudicata, Agostino la vede nel numero e nella
sapienza: circui<i> ego et cor meum ut scirem et considerarem et
quaererem sapientiam et numerum57.
Sembra utile qui rilevare un nesso con il Proslogion di Anselmo d’Aosta,
nel senso di un'impostazione logico-trascendetale del fides quaerens
intellectum, ancor più se ci si richiama alla conoscenza filosofica di
riferimento58. Fino al basso medioevo, lo studio delle arti liberali, com’è
54
“ Dio è l’essere per eccellenza, tanto che questo è il nome con cui si è designato Lui
stesso inviando Mosè ai Figli di Israele: Ego sum qui sum. Ora, l’atto di esistere è
precisamente ciò che designa la parola essentia. Come da sapere si è fatto derivare
sapientia, così da esse si è fatto derivare il termine essentia.” E. Gilson, op. cit., p. 240.
55
Contra Academicos, lib. III, 11-13; De Trin.,XV, 17.
56
De libero arbitrio, lib. II, 6.
57
Ivi, lib.II,8.
58
Cfr. H.J. Verheyen, La parola definitiva di Dio.Compendio di teologia fondamentale.
Brescia 2001, pp.113 ss.
31
noto, prevedeva oltre a grammatica, retorica e dialettica, un quadrivium,
costituito da aritmetica, geometria, astronomia e musica59. Il numero è per
Agostino60, nonostante la sua approssimata conoscenza delle discipline
matematiche, ma in forza del senso filosofico che vi coglie, nella sua
concezione di una reductio artium ad philosophiam61, la misura suprema del
giudizio nell’ambito delle disciplinae, ciò per cui si dà scientia e la
possibilità stessa del suo oggetto, così come la sapientia riconosce nella
partecipazione alla misura, al Bene quell’ordo che ne definisce il senso. Si
assiste qui alla manifestazione di uno stupore intellettuale di fronte al potere
della forma pura, che non si spiega su basi empiriche.
Il significato trascendentale risiede nel concetto di iudicare: attraverso la
questione delle condizioni di possibilità dell’esperienza sensibile e
dell’inerenza ad essa di un'unità, la ragione si pone come istanza
giudicatrice, che a sua volta incontra nel numero la propria misura, al cui
iudicium deve sottostare. Le leggi del numero non sono impresse nello
spirito attraverso la mediazione dell’esperienza sensibile, ma gli ineriscono
in ragione della sua propria essentia, e la ratio deve orientarsi secondo
questa misura, che la precede e ne costituisce la condizione di rectitudo62.
Venendo ad Anselmo, e partendo da questa concezione trascendentale della
ragione finita, che si muove tra iudicare e iudicari, nel capitolo terzo del
Proslogion, è possibile scorgere un modello simile: Et hoc est tu, Domine
Deus noster. Sic ergo vere es, Domine Deus meus, ut nec cogitari possis
non esse. Et merito. Si enim aliqua mens posset cogitare aliquid melius te,
ascenderet creatura super creatorem, et iudicare de creatore ; quod valde
est absurdum63.
Il passo è immediatamente successivo alla formulazione
del celeberrimo “argomento ontologico”, ma se si riconosce in esso la
presenza del modello trascendentale di Agostino, allora sembra piuttosto
59
Sulla effettiva presenza nei programmi scolastici di questo programma, fissato fin dal III
secolo a.C. ma presto rimasto un ideale di fatto sacrificato alla formazione grammaticoretorica, cfr. H. Marrou, op.cit., pp. 189-238.
60
De vera religione, XXX, 32 .
61
cfr. H.Marrou, op.cit., pp. 242 ss.
62
De libero arbitrio, lib. II, 8; De civitate Dei, VIII, 5.
63
Anselmo d’Aosta, Proslogion, parte I, cap.3, a cura di Italo Sciuto, Milano 2002.
32
trattarsi di una ratio che si sa sotto il giudizio di una misura che ne
costituisce la condizione stessa di possibilità. Questa concezione anselmiana
è molto vicina alla legge del numero di cui tratta Agostino: l’ id quo maius
cogitari nequit
rappresenta la misura della possibiltà della ratio, come
movimento che supera l’ente possibile e rappresentabile, ad esempio, con
l’infinità potenziale della serie dei numeri naturali. E’ questo movimento, a
conferire dignità specifica alla ratio, che coglie in tal modo un concetto di
infinito del tutto diverso,
nell’idea di una trascendenza che non è né
“oggetto supremo” né processo indefinito, ma orizzonte, regola, condizione.
Proprio in quanto condizione e regola va dunque concepito il Sommo Bene,
di cui qui si tratta: altrimenti lo si rende oggetto, la sua verità si risolve in
una rappresentazione giudicativa costruita secondo la presunzione di una
continuità tra il piano del reale, del pensiero e del linguaggio, quindi fondata
sull’esteriorità della misura rispetto al piano razionale, cui si concede una
fondazione solo probabilistica del sapere. Nell’id quo maius cogitari nequit
la misura è invece colta nel suo senso costitutivo per la ragione: qui il
pensiero si concepisce nella verità riconoscendo la propria misura,
lasciandosi giudicare dal numero, dalla forma pura, potendo esso stesso ora
costituirsi a giudice dell’ente oggettualmente fissato.
La ricostruzione della caratteristica logico-trascendentale nell’impostazione
del problema della conoscenza, svolta tra Agostino ed Anselmo, consente di
capire come una ratio, che si sa come finita, possa in linea di principio
superare l’ammanco in fatto di prestazione soggettiva, la radicale inadaequatio che le è propria nell’incontro con l’altro da sé: il soggetto
comincia dal fondamento ultimo della costituzione dell’esperienza, cioè
dalla stessa soggettività, per poi ritrovarsi in essa come imago della sua
stessa misura.
Nei libri IX - XV del De Trinitate la tensione tra trascendentalità ed
analogia si scandisce come reditus autocritico della ratio alle proprie leggi e
condizioni conoscitive, alla logica della propria validità e comunicabilità –
qui si innesta l’analogia, le strutture triadiche della mens – e come methodos
33
persegue la conoscenza in quanto
processo invece produttivo, di cui
discerne i dinamismi e le possibilità, in relazione a sé e al mondo.
Si manifestano anche le condizioni storiche della conoscenza: la discorsività
della ratio si modula sulle frequenze della temporalità interiore e mondana,
sullo spazio interno entro cui impara a leggere se stessa e il mondo come
simbolo, exemplum, per cui comprende la sua dinamica come ricerca di
tracce, di vestigia, e giudicata dal lumen intelligentiae veritatis. Trinità
equivale a Deus veritatis, in quo et a quo et per quem vera sunt, quae vera
sunt omnia64 . Proprio a proposito della dottrina dell’illuminazione, si
chiarisce il senso logico- trascendentale della relazione esse – verum, in cui
non conta anzitutto il rapporto dell’intelletto con la cosa, ma quello che sia
la cosa che l’intelletto intrattengono con la fonte della loro reciproca
adaequatio.
Si profila così un modello di ragione opposto a quello che più tardi,
accettando l’apporto del modello gnoseologico aristotelico, potrà essere
giudicato dalla tradizione agostiniano-francescana come un pensiero che si
muove etsi Deus non daretur, con preciso riferimento a Tommaso ed alla
sua concezione dell’intelletto agente e delle sue riformulazioni a proposito
delle rationes aeternae e seminales65.
Il concetto di illuminazione viene ad Agostino dalla filosofia neoplatonica e
dalle Scritture. Come il sole è la sorgente corporale che fa visibili le cose e
fa sì che esse siano percepite dagli occhi del corpo, così Dio rende
intelligibili le verità con la sua luce spirituale e fa sì che siano apprese dal
pensiero. In Plotino, tra Dio e l’anima passa lo stesso rapporto che corre tra
il sole e la luna: in Agostino, come la luna non ha luce propria ma è
illuminata dal sole, così l’anima razionale, che non ha misura oltre sé se non
l’esse divino, riceve il lumen intelligentiae veritatis. Dio è lux intelligibilis
ed è Padre illuminationis nostrae, cioè del lumen intelligentiae veritatis66.
Nel primo caso, è la luce in cui e per cui gli intelligibili sono tali, Padre del
64
Soliloquia, I, 1.2.
cfr. O. Todisco, Lo stupore della ragione, Padova 2003, pp. 31 ss.
66
De civitate Dei, XI, 15.
65
34
Verbo; nel secondo, è Padre della luce che illumina la mens, è la Verità, la
Sapienza. E’ il Bene di Platone, che fa sì appunto che le altre idee siano
intelligibili, o il Sole di Plotino: nel linguaggio cristiano, è il Padre del
Verbo, Sapienza o Figlio, luce della mente. Il vero è tale dalla verità: verax
e veritate verax est, secondo la formula usata negli scritti dedicati
all’esegesi del vangelo di Giovanni. 67 Vi è una luce che proviene dalla
grazia all’anima, ma ve n’è una che compete ad ogni uomo: lumen
intelligentiae, i cui principi costituiscono la ragione naturale, che così
conosce secondo verità e può validamente rivolgersi alle cose naturali.
L’esse dunque è veritas; le verità dell’anima sono tali nel rimando analogico
delle strutture dell’evidenza razionale alla perfezione della loro misura, alla
regola cui esse tendono.
E’ in virtù di questo rimando che la ragione supera il proprio limite
congenito: con il lumen naturalis la ragione giudica delle cose; con il lumen
intelligentiae, anch’esso naturale e creato, si ha l’intuizione delle verità
prime intelligibili, su cui si fondano i giudizi della ragione, ed è questo
lumen specialis; il lumen gratiae è in vista delle verità soprannaturali. Resta
la distanza propria di ciò che è creato rispetto al proprio Principio, ma anche
l’unione con gli intelligibili in quadam luce sui generis incorporea: …sed
potius credendum est mentis intellectualis ita conditam esse naturam, ut
rebus intelligibilibus naturali ordine, disponente Conditore, subiuncta sic
ista videat in quadam luce sui generis incorporea, quemadmodum oculus
carnis videt quae in hac corporea luce circumadiacent, cuius lucis capax
eique congruens est creatus68.
La ragione69conosce dunque nelle idee, nelle norme o nelle regole che sono
imago delle Idee divine: come tali esse consentono il giudizio e la
costruzione scientifica, secondo il movimento discorsivo tipico della ratio,
che procede dal lumen conferitole – dalla misura assegnata -, lumen rationis
e lumen intelligentiae veritatis, illuminatio nostra. Si tratta di un movimento
67
Per l’esposizione della dottrina dell’illuminazione, cfr. Introduzione di M.F.Sciacca
all’edizione del De Trinitate citata, pp. LXXXIII ss.
68
De Trin., XII, 15.24.
69
Per la precisazione della terminologia agostiniana a riguardo, si veda la nota di
M.F.Sciacca a pag. LXXXIII dell’Introduzione sopra citata.
35
che va incessantemente dalle verità alla Verità, che resta come regola,
principio del giudizio e come tale indisponibile. Quando la grazia dischiude
la visione dell’esse70, allora l’intellectus si presenta come compimento della
ratio.
Il senso logico-trascendentale della relazione originaria esse – verum
esclude una interpretazione ontologista della visio intellectualis; vedere il
vero in Dio non significa che si vedano le idee e dunque le cose in Dio, ma
che la ragione, attraverso l’imago della verità in noi, di cui Agostino tratta
quando approfondisce in questa sezione del trattato l’analogia tra
conformazione relazionale della mens e la circuminsessio trinitaria, è già
compresa nell’originaria adaequatio dell’intelletto divino: In illa igitur
aeterna veritate, ex qua temporalia facta sunt omnia, formam secundum
quam sumus, et secundum quam vel in nobis vel in corporibus vera et recta
ratione aliquid operamur, visu mentis aspicimus; atque inde conceptam
rerum veracem notitiam, tamquam verbum apud nos habemus, et dicendo
intus gignimus; nec a nobis nascendo discedit71.
Recta ratione aliquid operamur: non c’è quindi una considerazione di sé e
dei propri oggetti come sciolti dal loro originario inerire al piano dell’esse e
del verum, che si dà in senso regolativo, in funzione cioè della fruizione del
Bene; piano inteso come ordo intellectualis che regola l’ordo amoris,
suggerendo una possibile correzione del cosiddetto “volontarismo”
agostiniano, secondo un giudizio che si è poi esteso a tutta la tradizione
agostiniana e francescana, contribuendo spesso a celare il fatto che questa
tradizione prende corpo proprio intorno ad un certo modello di ragione: la
mens invece è partecipe della verità, altrimenti resta incapace di conoscenze
vere: la verità è presente, è data – non posta – alla mens, ma come regola, e
la distanza che il concetto di partecipazione implica sarà appunto espressa
attraverso l’analogia logico-trascendentale. Questa posizione, questa datità,
è detta da Agostino appunto illuminazione, come partecipazione nella
mediazione del Verbo, quae est lux hominum72. Non si tratta quindi di una
70
71
In Iohannis Evangelium tractatus, 35, 8.3.
De Trin., IX, 7.12.
72
Ivi, IV, 2.4.
36
disponibilità della verità come universale in re, nel senso della continuità
aristotelica tra essere, pensiero e linguaggio, per cui l’intelletto, con le sue
facoltà, è conformato in modo da poterlo ricevere, e rifigurare nel concetto,
fino all’espressione linguistica orale o scritta.
Questo modello è estraneo alla concezione di ragione proposta da Agostino,
e alla tradizione che a lui si richiama, non perché, limitatamente ad
Agostino, l’Aristotele del XIII secolo non esistesse ancora, quanto piuttosto
perché questa concezione sottende un’idea della filosofia intesa come
scientia, il cui esito è il fondarsi su premesse endossali, probabilistiche,
perché è la separatezza dall’adaequatio originaria che caratterizza l’anima
aristotelica
quale
forma
della
materia.
Questo
esito
potrebbe,
paradossalmente, quasi dirsi retorico, perché la perdita di un piano
epistemico di fondazione della verità conduce al verosimile come premessa
e conclusione del discorso scientifico. In Agostino, sarà la sapientia
generata e partecipe del Principio, nella quale si risolve la filosofia, l’imago
di quel piano regolativo che fonda la verità del giudizio; una sapientia che,
nel
riconoscimento
critico
dell’
orizzonte
trascendentale
colto
dall’intellectus, da là misura alla scientia, rivolta al mondo, all’ente,
conosciuti nella regola e nell’ordine propri dalla ratio, legittimata dal
reditus preliminare della coscienza alle proprie condizioni di senso. In tal
modo, il vero si propone come la forma in cui il bene si esprime, e tale
espressione rende possibile fondare filosoficamente, nella sapientia, la
concezione una vita felice in quanto buona, secondo la partecipazione.
La participatio avviene per speculum: si tratta ora di precisare ciò che spetta
all’intelletto finito nell’atto di conoscenza73.
L’illuminazione presuppone infatti questo intelletto finito, che quindi non si
confonde con la luce divina: a questo intelletto, Agostino attribuisce il nome
tecnico di intelligentia o intellectus, e lo distingue espressamente come il
contingente dall’immutabile: ….et tamen etiam hoc lumen, non est lumen
illud quod Deus est; hoc enim creatura est, creator est ille; hoc factum, ille
73
cfr. anche E.Gilson, op. cit.,pp. 101ss.
37
qui fecit…74. La natura di questo intellectus comprende quindi una
strutturale passività, ma non si tratta di una dipendenza che accada al di
fuori di un naturalis ordo: si tratta invece di pensare a questo intellectus in
termini che rendano quanto più possibile chiara l’inerenza ad esso di una
condizione che lo renda capace del vero.
Ed infatti, tale stretta inerenza è significata dal carattere di immediatezza
con cui si esercita l’illuminazione: Audisti quanta vis sit animae ac potentia,
quod ut breviter colligam, quemadmodum fatendum est animam humanam
non esse quod Deus est, ita praesumendum nihil inter omnia quae creavit,
Deo esse propinquos75.
La misura data in tal modo all’intellectus è costituita dalle res intelligibiles,
che Agostino chiama anche ideae, formae, species, rationes, regulae76: sono
archetipi logici, che come tali si distinguono per l’ originaria inerenza
all’intelletto divino, e partecipano dei suoi attributi essenziali. Eterne,
immutabili, necessarie, sono forme di tutto; affermarle come regulae
dell’intelletto finito vuol dire allora riconoscere che questo intelletto è
definito nelle sue condizioni di possibilità dall’immutabile e dal necessario.
Le sensazioni si limitano certamente a ricondurre verso la luce interiore,
tuttavia sono indispensabili: essere privati di un senso vuol dire privarsi
della conoscenza ad esso propria: Nec idonea est ipsa mens nostra, in ipsis
rationibus quibus facta sunt, ea videre apud Deum, ut per hoc sciamus quot
et quanta qualiaque sint etiamsi non ea videamus per corporis sensus77. Vi
è dunque una necessaria interazione tra l’illuminazione, l’intelletto umano e
la conoscenza sensibile, che però non si configura né nei termini della
dottrina platonica della reminiscenza, per la quale la sensazione è
l’occasione del ricordo, né in quelli dell’astrazione aristotelica, cui la
sensazione offra la materia.
74
Contra Faustum Manichaeum,XX, 7.
Enarrationes in Psalmos, 118.
76
cfr. la nota di Gilson, op. cit.., p. 104.
75
77
De Genesi ad litteram, V,16.34.
38
Nel primo caso, si è visto come la verità si offra nella presenza della luce
all’intelletto, e non nel ricordo rivolto al passato: si tratta perciò di una
memoria del presente; nel secondo, è all’opera in Aristotele una concezione
della sensazione del tutto diversa, per cui essa è una passione subìta
dall’anima, mentre in Agostino si tratta piuttosto del frutto di una azione
regolatrice esercitata dall’anima stessa.
La trascendenza di quest’ultima rispetto al corpo, che segnala una volta di
più la vicinanza con l’universo neoplatonico dell’epistemologia agostiniana,
impedisce di pensare ad un’anima sensitiva che riceva il sensibile
dall’oggetto, e porta invece a considerare sensazione e immagine come
frutto di un’attività costitutiva della coscienza, rivolta ai data che non
rientrano nell’a-priori trascendentale della soggettività : Denique cur de
solis rebus intelligibilius id fieri potest – riferendosi al passo
immediatamente precedente, dove a proposito degli intelligibili, indicava
per la mens intellectualis che ista videat in quadam luce sui generis
incorporea – ut bene interrogatus quisque respondeat quod ad quamque
pertinet disciplinam, etiamsi eius ignarus est ?78 L’esperienza è una
condizione della conoscenza sensibile, e qui si ritorna alla condanna della
dottrina della reminiscenza, che darebbe sia la scientia del sensibile che la
sapientia dell’intelligibile.
La ratio opera in relazione ai sensibilia, ma l’intellectus ha a che fare
esclusivamente con l’intelligibile, e la dottrina dell’illuminazione non
riguarda la ratio, né orienta nel senso di una operazione di astrazione da
parte dell’intelletto 79, che presupporrebbe una antropologia filosofica
estranea al pensiero di Agostino, per il quale un’anima aristotelicamente
intesa come forma del corpo, o una distinzione per la quale l’anima non è le
sue facoltà, ma le possiede, sono inconcepibili, in ragione del fatto che in tal
modo il senso stessa della domanda filosofica che verte sulla possibilità di
una vita felice all’insegna del bene risulterebbe compromessa. Il problema
in questione non è l’esattezza del concetto, o della definizione, come si è più
78
De Trin., XII, 15.24.
79
cfr. E. Gilson, op. cit., pp. 108 ss.
39
volte ricordato nelle pagine precedenti, ma è la proposta di una teoria
fondativa della verità e delle sue condizioni.
Come a proposito della prima parte del trattato e della dottrina delle
relazioni, anche qui, nei libri conclusivi, si tratta di una intenzione
epistemologica in funzione della quale la stessa metafisica assume una
curvatura caratteristica: il problema della conoscenza deve essere affrontato
in modo tale da chiarire le condizioni trascendentali di un pensiero le cui
espressioni possano legittimare valori di verità, e quindi una possibile
fruizione del Vero e del Bene, se la domanda diretta alla concepibilità di una
vita felice, come domanda intorno alla quale nasce lo stesso discorso
filosofico, deve avere un senso, che ha, secondo una concezione che
Agostino condivide con la tradizione platonica ed ellenistica.
In
questo
senso,
la
dottrina
dell’illuminazione
si
innesta
sulla
considerazione della verità del giudizio, che si configura come misura data
all’intellectus, condizione formale del suo esercizio: Itaque cum mihi de sua
propria (la mens) loquitur, utrum intelligat hoc aut illud, an non intelligat,
et utrum velit, an nolit hoc aut illud, credo: cum vero de humana specialiter
aut generaliter verum dicit, agnosco et approbo. Unde manifestum est, aliud
unumquemque videre in se, quod sibi alius dicenti credat, non tamen videat;
aliud autem in ipsa veritate, quod alius quoque possit intueri: quorum
alterum mutari per tempora, alterum incommunicabili aeternitate
consistere. Neque enim oculis corporeis multas mentes videndo, per
similitudinem colligimus generalem vel specialem mentis humanae notitiam:
sed intuemur inviolabilem veritatem, ex qua perfecte, quantum possumus,
definiamus, non qualis sit uniusquiusque hominis mens, sed qualis esse
sempiternis rationibus esse debeat 80.
Il giudizio di verità coinvolge la misura stessa della ragione, oltre la quale
non si dà a pensare nulla di più grande: Viget et claret desuper iudicium
veritatis, ac sui iuris incorruptissimis regulis firmum est; et si corporalium
imaginum quasi quodam nubilo subtexitur, non tamen involvitur atque
80
De Trin., IX, 6.9.
40
confunditur81. E ancora: Item cum arcum pulchre ac aequabiliter intortum,
quem vidi, verbi gratia, Carthagine, animo revolvo, res quaedam menti
nuntiata per oculos, memoriaeque transfusa, imaginarium conspectum facit.
Sed aliud mente conspicio, secundum quod mihi opus illud placet; unde
etiam, si displiceret, corrigerem. Itaque de istis secundum illa iudicamus et
illam cernimus rationalis mentis intuitu82.
Questa misura si specifica nelle numerorum dimensionumque rationes et
leges innumerabiles83, per cui si può forse dire che la dottrina svolga la
funzione di esposizione trascendentale del piano categoriale della coscienza,
a partire dal quale rendere ragione del carattere necessario del giudizio, che
resta ingiustificato se rimane fondato sull’induzione o anche sulle premesse
del sillogismo dialettico di Aristotele, che hanno carattere endossale e
quindi non consentono la conclusione scientifica se non come verosimile.
Quando Agostino parla di notio impressa, l’interessante è l’elemento
apodittico del concetto, e la riconduzione di esso al piano della misura data
alla ragione, di cui essa non dispone.
Il fatto poi che Agostino rifiuti l’innatismo in senso proprio, con la
conseguente preesistenza delle anime, non si spiega solo in ragione della
fedeltà al dogma cristiano, ma con l’intenzione autenticamente platonica84
di porre il problema del Principio, del fondamento e dell’origine non con
l’intenzione di definirli, ma piuttosto secondo quella di giustificare la
possibilità per l’uomo di una vita all’insegna del vero e del bene, che gli
restano preclusi nella concezione intellettuale, ma che devono potersi in
qualche misura declinare se l’ordo di cui essi consistono deve avere un
significato per l’uomo.
L’illuminazione significa quindi la regola della ragione; le idee divine sono
regulae numerorum, regulae sapientiae, non conoscenze, concetti pronti
81
Ivi, IX , 6.10.
Ivi, IX , 6.11.
83
Confessiones, X , 12.19.
82
84
Sul senso filosofico che in Platone assume l’indeterminatezza della definizione sia in
ontologia che nelle riflessioni dedicate in genere al problema dell’Origine e dei principi,
cfr. F. Trabattoni, op. cit., pp. 103 ss. e 119 ss.
41
all’uso, ma leges incommutabiles: Ubi ergo scripate sunt,( istae regulae ),
nisi in libro lucis illius quae veritas dicitur? Unde omnis lex iusta
describitur, et in cor hominis qui operatur iustitiam, non migrando, sed
tanquam imprimendo transfertur; sicut imago ex anulum et in ceram transit,
et anulum non relinquit85.
All’ordo veritatis , che la ragione riconosce come propria regola, va
ricondotto quell’ordo amoris che la volontà a sua volta trova come misura,
all’interno del modello di inerenza – nel rimando espresso dall’analogia, che
segnala limite e distanza - al Vero e al Bene che originariamente forma
l’adaequatio delle res create et creandae rispetto al loro fondamento. I due
ordini non si confondono, perché in entrambi i casi non si chiama in causa
l’ordine
soprannaturale:
la
dottrina
della
grazia
-
illuminazione
soprannaturale - non afferma in questo contesto nulla di diverso da quella
sull’illuminazione86.
L’orizzonte conoscitivo quale ambito dello stesso ordo amoris viene
confermato anche là dove Agostino, nel De Trinitate, tratta della
conoscenza mistica , a proposito della quale viene ulteriormente specificato
l’eccesso della misura – la luce – rispetto a ciò che da essa è giudicato, e la
conseguente differenza tra conoscenza nella luce e conoscenza della luce.
Questa distinzione viene espressa nell’esempio paradossale del malvagio,
che sa cosa sia la giustizia, senza però possederla: Quibus ea tandem regulis
iudicant, nisi in quibus vident quemadmodum quisque vivere debeat, etiamsi
nec ipsi eodem modo vivant ? Ubi eas vident ? Neque enim in sua natura,
cum procul dubio mente ista videantur, eorumque mentes constet esse
mutabiles, has vero regulas immutabiles videat quisquis in eis et hoc videre
potuerit; nec in habitu suae mentis cum illae regulae sint iustitiae, mentes
vero
eorum
esse
constet
iniustas.
Ubinam
sunt
istae
regulae
scriptae…………………nisi in libro lucis illius quae veritas dicitur…et in
cor hominis qui operatur iustitiam………non migrando, sed tamquam
85
De Trin., XIV, 15.21.
cfr. A. Ganoczy, Dalla sua pienezza tutti abbiamo ricevuto.Lineamenti fondamentali
della dottrina della grazia, Brescia 1991 pp. 106-126.
86
42
imprimendo transfertur: sicut imago ex anulo et in ceram transit, et anulum
non relinquit………………….Qui vero non operatur, et tamen videt quid
operandum sit, ipse est qui ab illa luce avertitur, a qua tamen tangitur87.
C’è dunque una gradazione a riguardo della relazione che la coscienza
intrattiene con la propria misura: il giusto conosce la giustizia sia in sé, che
nella verità; mentre nel caso del malvagio, la coscienza è appena toccata
dalla verità, che quindi egli vede soltanto secondo una misura parziale,
privata, e dunque mutevole, provvisoria. Vedere nella verità non significa
quindi abbandonare l’ambito di una conoscenza naturale, a favore di un
ordine soprannaturale che in tal modo farebbe irruzione ogniqualvolta si
tratti di un giudizio con caratteri di apoditticità e necessità.
Diversamente accade quando non si tratta più della verità colta nella regola,
ma della regola stessa. A questo proposito, Agostino concepisce la
possibilità di una visione diretta del Verbo, delle idee divine, in virtù però di
una iniziativa divina, come spiega nel De Genesi ad Litteram – non a caso,
ci si trova in un ambito vicino alla teologia biblica - oppure, per esempio
nelle Confessiones, anche se qui non si tratta di una visione diretta del
Verbo, si assiste alla trasformazione di una contemplazione intellettuale in
rapimento estatico, come nell’esperienza di Ostia.
Nel testo sopra considerato, la luce intelligibile increata con cui si
percepisce la verità si distingue per natura dalla luce creata, l’intelletto,
incapace di per sé di immutabilità e necessità, cioè di una autofondazione
delle condizioni di verità del giudizio. Si tratta qui di quanto si è detto a
proposito della dottrina dell’illuminazione: la relazione trascendentale esse
– verum , cui l’intelletto partecipa e di cui è, analogamente, immagine, per
cui la conoscenza vera avviene nella regola, come conoscenza nelle idee,
che gli ineriscono sicut imago ex anulo et in ceram transit, et anulum non
relinquit.. E’ ribadito il tentativo di delineare un modello della ragione e
della soggettività che trova in una misura data, alla quale il giudizio si
sottopone e che perciò riconosce come orizzonte regolativo e in questo
87
De Trin., XIV, 15.21
43
senso eccessivo rispetto alla propria finitudine, la condizione della propria
stessa possibilità.
In tal senso, la contemplazione delle idee, della luce increata che come tale
non si distingue da Dio stesso, in quanto ne condivide gli attributi, è
dell’ordine dell’estasi mistica, per cui forse qui non è necessario schierarsi a
favore o contro un presunto “ontologismo” in Agostino88, proprio per i
connotati fenomenologici propri dell’esperienza mistica in quanto tale. Due
testi in particolare si possono forse addurre per confermare questa
interpretazione dell’intenzione agostiniana, e mostrare come l’impressione
di un costante trapasso dall’uno all’altro piano sia segnale più che di una
incertezza
dottrinale,
del
senso
metodologico
delle
cosiddette
“indeterminazioni agostiniane” 89, le quali, come fin qui si è cercato di
mostrare, hanno il compito di ricordare che una teoria fondazionale della
verità è l’irrinunciabile premessa di una filosofia intesa come sapientia,
come fondazione teoretica della possibilità di una vita beata, e pertanto non
può essere costruita secondo modelli logici che la presuppongono quale loro
condizione preliminare.
Il primo testo, in cui non si tratta certo di mistica, dichiara: …intuemur
inviolabilem veritatem, ex qua perfecte, quantum possumus, definiamus, non
qualis sit uniuscuiusque mens, sed qualis esse sempiternis rationibus
debeat90. Più avanti aggiunge: Itaque de istis secundum illam (scil. formam
aeternae veritatis, ideam ) iudicamus, et illam cernimus rationalis mentis
intuitu91.
Si può forse concludere che ciò che sta a cuore ad Agostino è indicare che
una teoria della conoscenza deve indicare a quale condizione il giudizio
abbia valore: giudicare nella regola è senz’altro anche giudicare la regola,
non perché se ne possa definire metafisicamente lo statuto d’essere che le
compete - è il suo stesso carattere di evidenza e apoditticità, che ne segnala
88
cfr. E. Gilson, op.cit., pp. 119-120.
L’espressione è di Gilson, op. cit., pp.129-134.
90
De Trin., IX, 9.
91
Ivi, IX, 11.
89
44
la natura - ma perché è questo l’unico modo con cui l’uomo giudica
validamente: …unde ( vis interior animae ) nosset ipsum incommutabile,
quod nisi aliquo modo nosset, nullo modo illud mutabili certa
praeponeret 92. Ogni giudizio vero implica la verità, immutabile, eterna; ed
ogni giudizio vero porta con sé anche una certa conoscenza della verità
eterna, sebbene venga qui ricordato che l’anima non può levarsi
all’immutabile stesso, se non nell’estasi mistica : ….et pervenit ad id, quod
est in trepidantis aspectus93 e, quindi, non disponga della misura che le è
data.
3.2 Essere e Soggetto: l’anima
In senso proprio 94,in Agostino
anima indica il principio animatore del
corpo, considerato nella funzione vitale che vi esercita, mentre spiritus
indica o ancora una facoltà psicologica, oppure, se usato in contesto di
teologia biblica, non si distingue dalla mens, che rappresenta l’attività più
elevata dell’anima razionale, detta da Agostino anche animus. Alla mens
ineriscono naturalmente la ratio e l’intelligentia: la ratio est mentis motio,
ea
quae
discuntur
distinguendi
et
connectendi
potens95;
mentre
l’intelligentia, che non si distingue dall’intellectus è una facoltà della mente,
superiore alla ratio, la più elevata, ed è illuminata da Dio. L’intellectus è il
principio del comprendere, mentre la ratio è organo di ricerca, aspectus
animi che discerne e connette, facoltà discorsiva, che si applica ai data, ai
sensibilia in ordine al giudizio. Il retto uso della ratio costituisce la scientia,
conoscenza certa delle cose sensibili. L’intellectus si applica invece al
mondo intelligibile, e dalla sua attività consegue la sapientia. Se la ratio è
92
Confessiones, VIII, 17.23.
Ivi, VII, 17.23.
94
cfr la nota 82.
95
De Ordine, II, 11.30.
93
45
l’atto del vedere, l’intellectus è la visio; e la ratio…..ad intellectum
cognitionemque perducit96.
Nell’ordine naturale, l’operazione per eccellenza dell’intelligenza è la
formazione del verbo mentale, in cui lo spirito/mens esprime a se stesso,
nella verità, l’oggetto conosciuto, già presente; questo verbo si esprime nella
parola, che varia secondo lingue e paesi97, mentre la mens, l’uomo interiore,
è unica, semplice nella sua essenza. Ma esplica due funzioni: una pratica,
l’altra teoretica: mentre la prima applica le verità conosciute alle cose e agli
oggetti dell’esperienza, con l’altra si indirizza alle idee, ai puri intelligibili
come alle regole in cui conosce: …duo in mente una: et ideo quiddam
rationale nostrum non ad unitas divortium separatur, sed in auxilium
societatis quasi derivatum in suis operis dispertitur officio. Et sicut una
caro est duorum in masculo et femina, sic intellectum nostrum et actionem,
vel consilium et executionem, vel rationem et appetitum rationale, vel si quo
alio modo significantius dici possunt, una mentis natura complectitur ut
quemadmodum de illis dictum est: erunt duo in carne una; sic de his dici
possit, duo in mente una98. In base a queste definizioni, la dottrina
dell’anima conduce ad una teoria della soggettività, che vive nella verità,
nella regola che ne rappresenta la condizione e la legittimazione: è la
dottrina della verità, ad orientare la filosofia della soggettività svolta nella
terza parte del De Trinitate. La soggettività agostiniana si costituisce nella
circuminsessio di memoria, intelligentia, voluntas, e, a partire dalla
concezione dell’anima, secondo la definizione sopra ricordata,
la
dimensione del desiderio entra con forza a caratterizzarne la vita, una
tensione al compimento che attraversa l’esercizio delle sue funzioni, e che
poi pervade la stessa circuminsessio che costituisce la soggettività come
immagine della perfetta
felicità, quella della communio tra le Persone
divine, nella convergenza dell’amor nell’ordo che compie l’anelito della
voluntas.
96
De vera religione, 24.45.
De Trin., IX, 7.12.
98
Ivi, XII, 3.3.
97
46
Nel giudizio certo vi è già participatio alla verità, quindi all’essere e al
bene, già qui dunque il desiderio riconosce un compimento, secondo quel
reciproco richiamarsi dell’ordine conoscitivo e morale che caratterizza
l’imago Dei, l’uomo interiore. La considerazione del desiderio nelle pagine
agostiniane99, a partire dalle Confessiones, nel racconto delle proprie
impressioni all’arrivo a Cartagine100, o nell’analisi delle motivazioni che lo
indussero da ragazzo al furto101, ne mette in luce l’inoggettivabilità, la
indefinitività, che esprimono l’anelito infinito della volontà, ma anche il
tentativo della soggettività di sradicarsi dal piano della propria
legittimazione, nell’affermazione di una misura che non sia più data, ma
posta dalla coscienza stessa.
Tuttavia, il desiderio, come l’atto del giudizio, indica una originaria
inerenza: …sed te ipsam, veritas, in qua non est commutatio nec momenti
obumbrati, esuriebam et sitiebam102 . Agostino non parla mai di desiderium
Dei, perché, anche qui, la verità non è oggettivabile, ne è possibile
considerarla come qualcosa di cui si manchi: è la dimensione del quaerere,
quella in cui il desiderio è trattato, in cui la relazione trascendentale
dell’esse-verum si manifesta come misura del giudizio e del desiderio,
come ordo di cui nulla può essere concepito più grande o degno. Questa
misura si declina nel presente del pensare e del desiderare, appunto del
quarere, rendendo così imago la forma stessa del desiderio, così come lo è
la vita stessa della coscienza, e si afferma paradossalmente, ancora una
volta, come misura insuperabile, nel caso, stavolta, del desiderio alienato:
Potestatem quippe suam diligens anima, a communi universo ad privatam
partem prolabitur, et apostatica illa superbia, quod initium peccati dicitur,
cum in universitate creaturae Deum rectorem secuta, legibus eius optime
gubernari potuisse, plus aliquid universo appetens, atque id sua lege
gubernare molita, quia nihil est amplius universitate, in curam partilem
truditur, et sic aliquid concupiscendo minuitur103.
99
cfr. C. Dumouliè, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, Torino 2002, pp. 61-72.
Confessiones,III, 1.1.
101
Ivi, II, 4.9.
102
Ivi, III, 6.
103
De Trin., XII, 9.14.
100
47
L’inseparabilità della soggettività dall’ordine della verità viene ribadita
anche nella dottrina sulla grazia: la finitudine, il cui segno è il peccato,
proprio nella mancanza che la definisce, non cancella il desiderio, anzi lo
amplifica, nel disorientamento, ma proprio la sua esasperazione riafferma
l’ordine originario, l’orizzonte insuperabile del suo avvenimento, che si
afferma nel dono gratuito dell’agape trinitario 104. Senza voler qui proporre
una ricostruzione della teologia della grazia, sembra interessante notare
come, nelle sue opere più tarde105, Agostino qualifichi la grazia stessa:
indeclinabiter, insuperabiliter ma non infallibiter; come se volesse indicare
un orizzonte, piuttosto che uno stato. La mancanza di espressioni tipiche
delle scuole teologiche posteriori, come “grazia santificante”, “stato di
grazia”, è indicativa del fatto che anche qui egli pensa secondo una logica
relazionale, che definisce il rapporto tra chi dona e chi riceve nel senso del
perdurare della relazione, che consente una concezione storica dell’esistenza
giustificata.
La verità nel presente della soggettività è dunque condizione della vera
libertà, e, in una
metafisica per la quale il relative dicitur permane a
chiarire il senso delle definizioni, è possibile affermare che …nos tota
inhabitas Trinitas106.
Se questo è vero, l’anima, come principio vitale dell’essere umano, può
essere soltanto analogicamente detta tale anche degli altri enti animati: il
corpo che vivifica non è un corpo qualsiasi, ma il corpo dell’uomo, i cui
processi non le sono estranei. Ma ciò vuole anche dire che l’attività sensitiva
dell’uomo è sui generis, proprio per la vita della coscienza che fa del corpo
di ognuno un “corpo proprio” in senso fenomenologico, cioè come costituito
nel suo significato di presenza al mondo a partire dallo sfondo
trascendentale dell’io.
104
Per una esposizione della dottrina sulla grazia in Agostino, fino alla sua ricezione in
epoca moderna e contemporanea, si veda A. Ganoczy, op. cit., pp. 112 ss.
105
De correptione et gratia, XII, 38.
106
De Trin, XV, 18.32.
48
La soggettività avviene dunque nella costituzione della individualità
personale, attraverso una attività di “sintesi trascendentale” che coinvolge la
sensazione, che, non a caso, non viene semplicemente riconosciuta come
“passione dell’anima”, ma vi si riconosce un’attività originale della
coscienza, non nel senso che questa possa prescindere dal dato, ma in quello
per cui sensum puto esse , non latere animam quod patitur corpus107.
Nella conoscenza sensibile, la fenomenologia della sensazione descrive i
due momenti della percezione e della memoria sensibile. Per esempio, nella
visione di un corpo esterno si possono distinguere la res, la visio e l’intentio:
Cum igitur aliquod corpus videmus, haec tria, quod facillimum est,
considerando sunt et dignoscenda. Primo, ipsa res quam videmus sive
lapidem, sive aliquam flammam, sive quid aliud quod videri oculis potest;
quod utique iam esse poterat, et antequam videretur. Deinde,visio, quae non
erat priusquam rem illam obiectam sensui sentiremus. Tertio quod in ea re
quae videtur, quamdiu videtur sensum detinet oculorum, id est animi
intentio108.
Nel secondo momento della percezione, quello della memoria sensibile, la
triade appartiene ad un altro livello nella coscienza, quello del ricordo: tria
in cogitatione memoriae, i cui elementi sono la memoria sensibilis,
l’immagine della realtà conservata nella memoria, l’interna visio, e la
voluntas quae utrumque copulat, l’intenzionalità costitutiva della coscienza
che unisce l’immagine presente nella memoria con l’interna visio, nella
relazione che costituisce la substantia della cogitatio: Atque ita fit illa
trinitas ex memoria, et interna visione, et quae utrumque copulat voluntate.
Quae tria cum in unum coguntur, ab ipso coactu cogitatio dicitur. Nec iam
in his tribus diversa substantia est. Neque enim aut corpus illud sensibile ibi
est, quod omnino discretum est ab animantis natura, aut sensus corporis ibi
formatur ut fiat visio, aut ipsa voluntas id agit ut formandum sensum
sensibili corpori admovea , in eoque formatum detineat 109.
107
De quantitae animae, XXIII, 41-42.
De Trin., XI, 2.2.
109
Ivi, XI, 3.6.
108
49
Scrive S. V. Rovighi: “Quando dunque non è più presente il corpo sentito,
resta nella sua memoria una sua similitudine alla quale può di nuovo
rivolgersi lo sguardo dello spirito per esprimerne un pensiero. Il pensiero è
una sorta di visione interiore che si attua quando lo sguardo dello spirito,
diretto dalla volontà, è formato dalla similitudine conservata nella
memoria”
110
. Nel definire l’elemento che unisce la triade della visione e
quella del ricordo, Agostino parla di intentio animi,111 intentio voluntatis e
voluntas animi 112. Con queste espressioni, può essere indicata la tensione
della voluntas animi, della mens, verso la res per legarla e trattenerla con il
senso. L’intentio voluntatis unisce così la res con la visio e unisce ancora
l’imago corporis con la visio cogitantis.
Nell’itinerario che procede dalla sensazione al pensiero si possono dunque
riscontrare quattro species: quella del corpo esterno, l’immagine che si
produce nel senso, la similitudine impressa nella memoria e la forma, che si
dà nel pensiero. Le quattro species danno luogo a due visiones: quella
sensibile, tra l’oggetto e l’immagine del senso, e quella razionale, tra
immagine impressa nella memoria e l’interna visio: Visiones enim duae
sunt: una sentientis, altera cogitantis. Ut autem possit esse visio cogitantis,
ideo fit in memoria de visione sentientis simile aliquid, quo se ita convertat
in cogitando acies animi, sicut se in cernendo convertit, ad corpus acies
oculorum. Propterea duas in hoc genere trinitates volui commendare:
unam, cum visio sentientis formatur ex corpore; aliam, cum visio cogitantis
formatur ex memoria113 .
Si realizzano così due generi di conoscenza e di memoria, quella sensibile e
quella razionale, e di nuovo è nella misura appropriata, in un ordo come
orizzonte logico-trascendentale invalicabile, che qui si manifesta alla
descrizione fenomenologica, che la conoscenza trova le condizioni della sua
stessa possibilità; e i diversi atti di costituzione del proprio oggetto si danno
allo sguardo fenomenologico attraverso le loro relazioni, legittimando così
110
S. V. Rovighi, La fenomenologia della sensazione in Sant’Agostino, in Studi di filosofia
medievale, Milano 1978, p.17.
111
De Trin , XI, 2.2.
112
Ivi, XI, 4.7; 2.5 .
113
Ivi, XI, 9.16.
50
la ricerca di una fondazione filosofica della teoria della verità secondo
l’analogia logico-trascendentale: At si propterea nemo aliquid corporale
cogitat nisi quod sensit, quia nemo meminit corporale aliquid nisi quod
sensit, sicut in corporibus sentiendi, sic in memoria est cogitandi modus.
Sensus enim accipit speciem ab eo corpore quod sentimus, et a sensu
memoria, a memoria vero acies cogitantis114.
L’ unità del soggetto, espressa nella presenza all’animo di ciò che il corpo
vive – presenza che istituisce la sensazione - è data anzitutto
nell’intenzionalità che rappresenta l’essenza stessa della coscienza, cui
quindi inerisce essenzialmente l’esse, un esse “ridotto“ in senso
fenomenologico-trascendentale, come lo stesso superamento dell’argomento
scettico dimostra attraverso l’evidenza dell’unità di esistenza ed essenza del
cogito: e che però, riconoscendo questa evidenza in quanto appunto
fenomenologica
esprimere –
– strutturante la stessa coscienza, se così ci si può
non disarticola la soggettività dal mondo, il quale anzi è
assunto nella vita della coscienza, e consente la figurazione di questa vita
come analogia , imago del suo paradigma e della sua misura insuperabile, e,
in questo, il rispetto del modello epistemologico di riferimento, che non
consente di pensare substantialiter le condizioni del senso e della vita della
coscienza, perchè
vorrebbe dire porre la ratio a giudice della propria
misura.
Quando invece – si è visto nel passo citato sopra - si tratta della coscienza
rispetto alla definizione dell’uomo, come ente animato tra altri enti animati,
allora senz’altro substantialiter essa è ciò per cui questo ente animato è un
uomo.
Ma la scientia, modalità propria della ratio, è legittimata proprio perché
quest’ultima incontra la misura ad un tempo come eccessiva e come sua, e
in ragione di essa giudica l’ente che le è dato. E’ stabilita dunque
114
Ivi, XI, 8.14.
51
quell’apertura intenzionale in cui si costituisce l’esse come vissuto e
pensato, l’orizzonte precategoriale dell’adaequatio intellectus et rei.
Non sembra possibile obiettare che la memoria sia solo uno specchio delle
percezioni, negando così la datità fenomenologico-trascendentale dei
sensibilia, perché: “ l’analogia tra percezione e memoria si riferisce più
alla natura dei due processi che ai loro oggetti. Un oggetto esterno
sensibile non ha le stesse caratteristiche di un’immagine mnemonica
incorporea, anche se nei processi che stiamo esaminando svolgono
ambedue le medesime funzioni ”115. C’è per Agostino una forma di
equivalenza tra percezione e forme di coscienza. L’errore non conduce allo
scetticismo, perché ciò che si dà nel vissuto si dà nell’evidenza del noema, e
di qui si procede alla costituzione del mondo dell’esperienza, con tutte le
variabili e le prospettive contrastanti che si vivranno.
La stessa realtà esterna è dunque conosciuta in quanto giudicata e misurata,
lontano perciò da modelli che la sollevino a misura della verità. Ciò che
conta è l’imago impressa nel senso e nella memoria, e allora è importante
considerare il valore dell’imago in funzione del valore di verità del giudizio.
Solo così, la stessa coscienza, la sua vita e le sue strutture, che lo sguardo
fenomenologico portano all’evidenza, possono a loro volta costituirsi come
imago della verità,
e proprio attraverso la problematicità dello statuto
epistemologico di questa imago, definito dall’analogia.
Dalla conoscenza sensibile si passa alla conoscenza razionale, alla
dimensione propriamente coscienziale, all’ homo interior: la memoria
sensibile, che deriva dalla percezione, fornisce alla mens la materia sensibile
del giudizio – l’esperienza già “vissuta” del mondo – sulla quale la ratio
esercita la propria attività regolatrice. Questa sintesi, entro la quale il corpo
stesso come corpo dell’uomo giunge alla propria costituzione, identifica la
ratio come mentis motio, che distinguendo e connettendo, imprime il
proprio ordine nella discontinuità dell’esperienza, trascorrendo da
conoscenza a conoscenza nella sintesi trascendentale del tempo interno. A
partire dal libro XI, in cui si è trattato l’uomo esteriore quale vestigio della
115
G.O’Daly, La filosofia della mente in Agostino, Palermo 1983.
52
Trinitas – Veritas, l’indagine si svolge nel senso della ricerca dell’imago
Trinitatis, e le triadi fin qui riconosciute nella
fenomenologia della
sensazione, con particolare riguardo all’atto della visione, rappresentano un
gradino ancora preliminare dell’analogia logico - trascendentale che trova
nell’homo interior le sue figurazioni più compiute.
Se alla ratio inferior appartiene la scientia in quanto conoscenza delle cose
temporali, alla ratio superior compete la sapientia, come conoscenza di sé e
delle res aeternae, e come tale ad essa spetta il nome di intellectus. Alla
mens appartengono dunque la ragione e l’intelligenza: mens, cui ratio et
intelligentia naturaliter ines,116 ma spetta all’intelletto la ricerca del
significato, la sintesi nel giudizio secondo quella misura dalla quale
l’intelletto stesso è istituito nel suo valore. Dice dunque Agostino: Sed
sublimioris rationis est iudicare de istis corporalibus secundum rationes
incorporales et sempiternas; quae nisi supra mentem humanam essent,
incommutabiles profecto non essent; atque his nisi subiungeretur aliquid
nostrum, non secundum eas possemus de corporalibus iudicare. Iudicamus
autem de corporalibus ex ratione dimensionumque atque figurarum, quam
incommutabiliter manere mens novit 117.
Dunque, …intellectus ergo vel intelligentia,118 e l’intelletto è lux mentis, in
cui si svela la misura, il “ numero” del sapere, nel limite della sua imago.
La
lux mentis è naturale e interiore, quando nella conoscenza di sé
l’intelletto si coglie nell’attualità del suo essere esistente e si riconosce come
natura vivente ed essente; per considerare la natura della mens nella sua
attualità, vanno rimosse tutte le conoscenze relative al mondo dei sensi
esterni, mediante un procedimento di “riduzione,” di incorporea conversio,
che sveli il piano dell’evidenza trascendentale: Proinde restat ut aliquid
pertinens ad eius naturam sit conspectus eius, et in eam, quando se cogitat,
non quasi per loci spatium, sed incorporea conversione revocetur. Cum
vero non se cogitat, non sit quidem in conspectu suo, nec de illa suus
116
De civitate Dei, XI, 2.
De Trin., XII, 2.2.
118
Enarrationes in Psalmos, 31.9.
117
53
formetur obtutus, sed tamen noverit se tamquam ipsa sibi sit memoria sui119.
La mens guadagna così la certezza di sé, nella conoscenza di sé, e
nell’esperienza della volontà di sé: nel conoscersi si ama, nell’amarsi si
conosce e vive nella triade dell’autocoscienza, mens, notitia sui, amor:
…mens, et notitia eius, quod est proles eius ac de se ipsa verbum eius, et
amor tertius, et haec tria unum atque una substantia120.
La mens genera la notitia sui, la parola interiore, dalla presenza a sé di se
stessa, ed è l’atto isitutivo della soggettività: l’homo interior si pensa
nell’atto intellettivo dell’autocoscienza, a partire dal riconoscimento
trascendentale dell’esse proprio in quanto verum, e si costituisce come
soggetto nella veritas , di cui è analogamente imago.
3.3 Verità e Soggetto: l’immagine
Deum nihil aliud dicam esse, nisi idipsum esse121 : non è in una definizione
di Dio, che l’interrogazione filosofica trova il fondamento della verità. La
dottrina metafisica deve invece servire alla esposizione delle condizioni di
possibilità dell’interrogare stesso, conducendo quindi all’istituzione della
soggettività nella chiarificazione fenomenologica del quaerere, entro la
quale vengono ad evidenza le sue strutture trascendentali, come imago,
rappresentazione di quelle condizioni, attraverso una forma di analogia che
non è costruita secondo un’intenzione che usa questa figura logica e
dialettica in funzione ontologica, per poter dire qualcosa a proposito di un
oggetto, superando l’equivocità della predicazione, per poterlo meglio
119
De Trin., XIV, 6.8.
Ivi, IX, 12.18.
121
De moribus Ecclesiae catholicae, XIV, 24.
120
54
definire, ma invece, secondo un’intenzione di filosofia della conoscenza che
mira alla fondazione del valore di verità del giudizio nella partecipazione.
Nel primo senso, l’analogia, seguendo l’impostazione aristotelica, permette
di inquadrare teoricamente la relativa continuità del senso pur nella
incolmabile differenza del significato, e si sviluppa nella riflessione intorno
alla contestazione della concezione dell’ essere come sommo genere,
esposta ad esempio nel Sofista di Platone, operata da Aristotele 122. Nel
secondo, l’analogia si chiarisce nel concetto platonico di partecipazione,
nella direzione di un’indagine sui Principi volta al riconoscimento di piani
epistemici di fondazione del giudizio e del retto agire.
La tensione tra senso e significato è particolarmente viva a riguardo degli
attributi teonimici, come nello Pseudo-Dionigi, dal quale riceve una forma
tale che imporrà due problemi alla speculazione successiva: primo, l’unità
logica e semantica della determinazione del senso, per cui il termine rimane
identico nel momento affermativo, mentre il significato muta attraverso la
negazione – il referente non è la creatura, ma Dio -; il senso però non può
essere né completamente identico, né equivoco, come mostra l’elevazione
iperbolica del medesimo significante: dove sta il fondamento dell’unità del
senso che pure consente la differenziazione del significato, per cui si dà
ragione della “dicibilità” e della “trascendenza” della realtà inconoscibile di
Dio?
Il secondo problema sarà quello del riferimento alla realtà di Dio mediante
la metafora della “causa trascendente”delle creature: se si tratta di un
predicato a sua volta simbolico, allora è un problema la sua posizione di
fondamento teorico della predicazione teonimica; in caso contrario, sarà il
carattere strutturalmente simbolico degli stessi predicati teonimici a dover
essere messo in questione. La dottrina scolastica dell’analogia consentirà,
come sopra accennato, di costruire il quadro teorico della questione, ma la
sua elaborazione ripropone soprattutto il secondo problema, che forse è la
causa anche delle incertezze di Tommaso d’Aquino sull’argomento123.
122
Cfr. F. Trabattoni, La filosofia antica. Profilo storico-critico, Roma 2002, pp. 101ss.
cfr. B. Mondin, Il problema del linguaggio teologico dalle origini ad oggi, Brescia 1971.
123
55
Una
simile
impostazione
implica
dunque
determinate
assunzioni
metafisiche, entro le quali si configura l’uso di una concezione
originariamente matematico-geometrica dell’analogia, poi logica e filosofica
in Platone ed Aristotele, nel tentativo di qualificare lo statuto
epistemologico del discorso su Dio. In Agostino, la direzione appare
diversa: se è vero che è partire dalla sua concezione della questione
teonimica che prende le mosse la riflessione dello Pseudo-Dionigi la quale,
come accennato, è all’origine della dottrina scolastica dell’analogia, che
eredita in Tommaso anche le connotazioni neoplatoniche della questione, lo
è altrettanto il fatto che il vescovo di Ippona, affermando che nomi, attributi,
formule a proposito del Deus Trinitas vanno concepiti come non
substantialiter, sed relative, non intende svolgere, se non tutt’al più entro
tali coordinate, una epistemologia teologica.
Quando perciò, nei libri conclusivi del De Trinitate, viene raggiunto l’homo
interior come imago Trinitatis, ciò che qui si svolge sembra essere una
filosofia della soggettività nel quadro di una teoria della verità che ricerca la
fondatezza delle condizioni di verità del giudizio. La stessa dottrina delle
relazioni, volta a chiarire rispetto ai primi quattro libri il limite di liceità
delle formulazioni costruite a partire dalla fede biblica, appare qui come lo
strumento logico con cui avviene il tentativo di chiarificazione filosofica
della nozione di verità, svolto a partire dai libri V – VIII, che poi si rivolge,
dal libro IX in poi, a partire dalla costituzione fenomenologica della
soggettività, come si è tentato di mostrare, alle condizioni alle quali questa
verità è vissuta e affermata dal soggetto.
Si giunge così al vestigium e all’imago della verità costituita dalle triadi
della vita interiore della coscienza, e qui il senso dell’analogia, della
ineliminabile distanza che segnala, indica proprio che il problema della
verità si pone come questione della fondazione del valore conoscitivo
dell’immagine, della rappresentazione, che forma dunque il centro
concettuale della teoria della verità svolta da Agostino nel De Trinitate.
Se è vero che l’imago si rivelerà nell’homo interior, lo è anche il fatto che
nella concezione agostiniana dell’immagine la
filiazione
è giudicata
56
decisiva rispetto alla mimesis, e questo getta una ulteriore luce sulla stessa
concezione dell’analogia e quindi sull’impostazione del problema stesso
relativo al valore di verità dell’immagine e del giudizio, in una parola, della
rappresentazione: Omnis imago similis est ei cuius imago est; nec tamen
omne quod simile est alicui, etiam imago est eius: sicut in speculo et
pictura, quia imagines sunt, etiam similes sunt; tamen si alter ex altero
natus non est, nullus eorum imago alterius dici potest. Imago enim tunc est,
cum de aliquo exprimitur 124. L’immagine dunque non si confonde con la
somiglianza, di cui è una specie: occorre, perché
una somiglianza sia
immagine, che sia la somiglianza di un essere generato a quello che lo
genera. Se è così, allora il Verbo può essere detto a pieno titolo immagine di
Dio, poiché è il Padre che lo genera come perfetta somiglianza di sé: Imago
enim si perfecte implet illud cuius imago est, ipsa coaequatur ei, non illud
imagini suae125.
Si tratta dunque di un movimento di pensiero che, procedendo dalla
concezione platonica e neoplatonica dell’eidos e dell’eidolon, non smentisce
il sospetto con cui l’immagine è riguardata, se il suo valore per la
conoscenza è ricondotto alla sua qualità mimetica: è invece l’espressività
che qualifica il valore di verità dell’immagine e permette di riconoscere, tra
tutte, quella che a pieno titolo potrà dirsi tale, relegando il resto a traccia o
vestigium.
La perfetta somiglianza di Sé a Sé in Dio si esprime nell’immagine in sé
che è il Verbo, adaequatio originaria, relazione che definisce la misura di
ogni altra adaequatio, che sussiste in quanto ne partecipa: Ubi est prima et
summa vita, cui non est aliud vivere et aliud esse, sed idem est esse et
vivere; et primus ac summus intellectus, cui non est aliud vivere et aliud
intelligere, sed id quod est intelligere, hoc vivere, hoc esse est, unum omnia:
tanquam Verbum perfectum, cui non desit aliquid, et ars quaedam
omnipotentis atque sapientis Dei, plena omnium rationum viventium
124
125
De Genesi ad litteram liber imperfectus, XVI, 57.
De Trin., VI, 10.11.
57
incommutabilium; et omnes unum in ea, sicut ipsa num de uno, cum quo
unum126.
La differenza esiste in quanto e per quanto partecipe e assunta come
somiglianza nella relazione perfetta tra essere e verità, nella tensione
all’ordine e alla misura, che fornisce unità relativa alle cose create, e quindi
la possibilità stessa non solo dell’esistenza, ma anche della bellezza, o della
felicità
127
. Dall’ordine naturale 128 a quello spirituale e artistico 129, fino
all’ordine della conoscenza: l’oggetto è costituito secondo il numero, il
rapporto, la regola, che vogliono affermarsi nella originaria adaequatio di
cui partecipano. La relazione logico-trascendentale esse-verum rappresenta
dunque l’orizzonte che definisce le possibilità stesse della soggettività, ciò
oltre cui nulla è pensabile o possibile, e di cui essa stessa è imago.
A questo rango essa assurge quando l’indagine fenomenologica rileva la
pura presenza a sé dell’ homo interior, abbandonando le stratificazioni
estetico-sensibili costitutive del mondo del soggetto, che lo ponevano in
quanto “uomo esteriore” come, orma, vestigio, ma non ancora imago: Non
sane omne quod in creaturis aliquo modo simile est Deo, etiam eius imago
dicenda est, sed illa sola quia superior ipse solus est. Ea quippe de illo
prorsus exprimitur, inter quam et ipsum nulla interiecta natura est 130.
Imago è dunque la mens: Ergo intelligimus habere nos aliquid ubi imago
Dei est, mentem scilicet atque rationem. Ipsa mens invocabat lucem Dei et
veritatem Dei. Ipsa est qua capimus iustum et iniustum; ipsa est qua
discernimus vero a falso; ipsa est quae vocatur intellectus, quo intellectu
carent bestiae; quem intellectum quisquis in se negligit, et postponit
caeteris, et ita abiicit quasi non habeat, audit ex Salmo: nolite esse sicut
equus et mulus, quibus non est intellectus 131.
126
Ivi,VI, 10.11.
De vera religione, XXXVI, 66.
128
Ivi, XXXII, 60.
129
De musica, XVII, 57.
130
De Trin., XI, 5.8.
131
Enarrationes in psalmos, 42.6.
127
58
In particolare, tre strutture emergono dall’analisi fenomenologica della
coscienza: mens, notitia, amor;
memoria sui, intelligentia, voluntas;
memoria Dei, intelligentia, amor. Tutte e tre hanno sede nella mens, occhio
spirituale dell’anima: Detracto etiam corpore, si sola anima cogitetur,
aliquid eius est mens, tanquam caput eius, vel oculus, vel facies: sed non
haec ut corpora cogitando sunt. Non igitur anima, sed quod excellit in
anima mens vocatur
132
. L’essere immagine costituisce una qualità
essenziale della soggettività, come rappresentazione della necessaria
inerenza al piano trascendentale dell’esse-verum, e la problematizzazione
del suo statuto di verità non può arrivare fino al dissolvimento della
partecipazione, che è intesa come possibilità sempre aperta, e non
necessariamente attuale : Quamvis enim mens humana non sit eius naturae
cuius est Deus, imago tamen naturae eius qua natura melior nulla est, ibi
quaerenda et invenienda est in nobi s, quo etiam natura nostra nihil habet
melius. Sed prius mens in seipsa consideranda est antequam sit particeps
Dei, et in ea reperienda est imago eius. Diximus enim eam etsi amissa Dei
partecipationem obsoletam atque deformen, Dei tamen imaginem
permanere. Eo quippe ipso imago eius est, quo eius capax est, eiusque
particeps esse potest 133.
L’analogia tra la consustanzialità relativa delle “trinità create”, le strutture
trascendentali della mens e quella tra le Persone divine esprime la necessità
di non concedere alcuna distinzione concepita realiter tra la mens e le sue
facoltà, o all’interno di ogni facoltà, che determinerebbe una radicale
alterazione del modello di ragione proposto, verso una teoria del soggetto
che lo svincolerebbe dal proprio fondamento trascendentale, conducendolo
all’autolegittimazione nell’etsi Deus non daretur:
Haec igitur tria:
memoria, intelligentia, voluntas, quondam non sunt tres vitae, sed una vita,
nec tres mentes, sed una mens, consequenter utique nec tres substantiae
sunt, sed una substantia. Memoria quippe, quae vita et mens et substantia
dicitur, ad se ipsam dicitur; quod vero memoria dicitur ad aliquid relative
dicitur. Hoc de intelligentia quoque et de voluntate dixerim: et intelligentia
132
133
De Trin., XV, 27.49
Ivi, XIV, 8.11.
59
quippe et voluntas ad aliquid dicuntur. Vita est autem unaquaeaue ad se
ipsam, et mens, et essentia. Quocirca tria haec eo sunt unum, quo una vita,
una mens, una essentia: et quidquid aliud ad se ipsa singola dicuntur, etiam
simul, non pluraliter, sed singulariter dicuntur…Quapropter quando
invicem a singulis et tota omnia capiuntur, aequalia sunt tota singula totis
singulis, et tota singula simul omnibus totis; et haec tria unum, una vita,
una mens, una essentia134.
L’imago considerata, nella mens, dovrà perciò consistere di tre termini
consustanziali, e uguali nelle loro relazioni: Fortassis ergo mentis totum est,
et eius quasi partes amor quo se amat, et scientia qua se novit, quibus
duabus partibus illud totum constat ? An tres sunt aequales partes, quibus
totum unum completur ? Sed nulla pars totum, cuius pars est, complectitur:
mens vero cum se tota novit, hoc se perfecte novit, per totum eius est notizia
eius; et cum se perfecte amat, totam se amat, et per totum eius est amor
eius……..Quomodo autem illa tria non sint eiusdem substantiae, non video,
cum mens ipsa se amet, atque ipsa se noverit; atque ita sint haec tria, ut non
alteri alicui rerum mens vel amata vel nota sint. Unius ergo eiusdemque
essentiae necesse est haec tria sint: et ideo si tanquam commistione confusa
essent, nullo modo essent tria, nec referti ad invicem possent.
Quemadmodum si ex uno eodemque auro tres anulos similes facias,
quamvis connexos sibi, referuntur ad invicem, quod similes sunt; omnis
enim similis alicui similis est; et trinitas anulorum est, et unum aurum: at si
misceantur sibi, et per totam singuli massam suam conspergantur, intercidet
illa trinitas, et omnino non erit; ac non solum unum aurum dicetur, sicut in
illis tribus anulis dicebatur, sed iam nulla aurea tria.135.
Ogni moto d’amore implica tre termini: l’io, ciò che è amato, l’amore
dell’io. Se fosse l’io l’oggetto d’amore, essi si ridurrebbero a due, l’amore e
l’oggetto amato, il pensiero, considerato secondo l’essenza: Mens vero et
spiritus non relative dicuntur, sed essentiam demonstrat 136. L’amore non è
qui già l’atto con cui la volontà ama, ma la disposizione naturale del
134
Ivi, X, 11.18.
Ivi, IX,4.7.
136
Ivi, IX, 2.2.
135
60
pensiero verso se stesso, dando così luogo a due termini relativi l’uno
all’altro, in una relazione di uguaglianza; il pensiero vuole sé,
compiutamente, l’amore che ha di sé è l’affermazione naturale di sé, ciò che
ama è esattamente uguale a ciò che è amato: Mens igitur cum amat se
ipsam, duo quaedam ostendit, mentem et amorem. Quid est autem amare se,
nisi sibi presto esse velle ad fruendum se ? Et cum tantum se vult esse,
quantum est, par menti voluntas est, et amanti amor aequalis 137.
Ma l’amore, nella relazione trascendentale dell’essere e del vero, non è
senza conoscenza, e il pensiero non può amarsi senza conoscersi, secondo la
propria natura intelligibile: e come l’amore dell’anima per sé è esattamente
uguale a sé, la conoscenza che ha di sé è identica a sé. La misura costituisce
la relazione, nell’adeguatezza espressa dalla circuminsessio di pensiero,
amore e conoscenza: Sicut autem duo quaedam sunt, mens et amor eius,
cum se amat; ita quaedam duo sunt, mens et notitia eius, cum se novit.
Igitur ipsa mens et amor et notizia sui, tria quaedam sunt, et haec tria unum
sunt; et cum perfecta sunt, aequalia sunt 138.
La prima imago si dispiega perciò come relazione trascendentale costitutiva
della mens, anteriormente ai suoi atti. La rilevanza data al fatto che ciò che
fonda l’unità essenziale – una essentia – della mens con il suo amore e la
sua conoscenza sia ciò che fonda nel contempo la sostanzialità della
conoscenza e dell’amore indica che l’amore di sé o la conoscenza di sé non
si trovano nel pensiero come accidenti in un soggetto, altrimenti il pensiero
non potrebbe amare e conoscere che se stesso. Essentia dunque non dice qui
distinzione tra soggetto e facoltà, né entificazione di ciò che è condizione
trascendentale di una conoscenza con valore di verità, ma rimanda proprio
all’esse, inteso come l’orizzonte insuperabile della misura, del “numero”,
dell’ordo quale condizione di un possibile valore di verità della
rappresentazione, del giudizio, nella somiglianza espressa dell’immagine.
137
138
Ibid.
Ivi, IX, 4.4.
61
Non si tratta nemmeno di definire l’anima e le sue facoltà, perché essa è le
sue facoltà, non vive se non delle proprie condizioni. In questo senso, il
pensiero è substantialiter conoscenza e amore, ed esse sono substantialiter
nell’essere sua sostanza: Simul etiam admonemur, si utcumque videre
possumus, haec in anima esistere, et tamquam involuta evolvi ut sentiantur
et dinumerentur substantialiter, vel, ut ita dictam, essentialiter, non
tamquam in subiecto, ut color, aut figura in corporem, aut ulla alia qualitas
aut quantitas. Quidquid enim tale est, non excedit subiectum in quo est.
……….Quamobrem non amor et cognitio tamquam in subiecto insunt menti,
sed substantialiter etiam ista sunt, sicut ipsa mens; quia et si relative
dicuntur ad invicem, in sua tamen sint singula quaeque substantia. Nec sicut
color et coloratum relative ita dicuntur ad invicem, ut color in subiecto
colorato sit, non habens in se ipso propriam substantia; sed sicut duo amici
etiam duo sunt homines, quae sunt substantiae; cum homines non relative
dicantur, amici autem relative139.
Questa prima imago resta in qualche modo nella circolarità della mens –
tamquam involuta - al di qua degli atti che, esprimendola, costituiscono in
senso fenomenologico-trascendentale la soggettività. Ma l’immagine,
nell’analogia, ha il suo valore cognitivo proprio nell’esposizione sempre
approssimata del pieno spiegamento di questa costituzione, ed ecco quindi
che lo sguardo si dirige verso questi atti, attraverso i quali lo statuto
epistemologico stesso dell’immagine si esprime in termini di filiazione, di
generazione, piuttosto che di mimesis.
La nuova evidenza che in tal modo si dà allo sguardo è significativamente
rilevata: In nono libro, ad imaginem Dei, quod est homo secundum mentem,
pervenit disputatio: et in ea quaedam trinitas invenitur, id est, mens, et
notitia qua se novit, et amor suo se notitiamque suam diligit; et haec tria
aequalia inter se, et unius ostenduntur esse essentiae. In decimo hoc idem
diligentius subtiliusque tractatum est, atque ad id perductum, ut inveniret in
mente evidentior trinitas eius, in memoria scilicet et intelligentia et
voluntate140.
139
Ivi, IX, 4.5.
140
Ivi, XV, 3.5.
62
La memoria qui è la conoscenza del pensiero mediante se stesso, e questa
denominazione si spiega considerando che se il pensiero è inseparabile dalla
conoscenza di sé, resta però che la conoscenza attuale – cogitatio - non è
sempre diretta alla tematizzazione del pensiero: di qui il fatto che,
nonostante esso sia del tutto presente a se stesso, non ne abbia
consapevolezza. Questa modalità della presenza riceve dunque lo stesso
nome dato ai ricordi o alle conoscenze consapute ma non attualmente
tematizzate.
In tal modo, l’atto con cui il pensiero si percepisce non è definito un
conoscere, ma un riconoscere, memoria sui: Tanta est tamen cogitationis
vis, ut nec ipsa mens quodam modo se in conspectu suo ponat, nisi quando
se cogitat; ac per hoc ita nihil in conspectu mentis est, nisi unde cogitatur,
ut nec ipsa mens, qua cogitatur quidquid cogitatur, aliter possit esse in
conspectu suo, nisi se ipsam cogitando…………Proinde restat ut aliquid
pertinens ad eius naturam sit conspectus eius, et in eam, quando se cogitat,
non quasi per loci spatium, sed incorporea conversione revocetur. Cum
vero non se cogitat, non sit quidem in conspectu suo, nec de illa suus
formetur obtutus, sed tamen noverit se tamquam ipsa sibi sit memoria sui.
Sicut multarum disciplinarum peritus ea quae novit, eius memoria
continentu, nec est inde aliquid in conspectu mentis eius, nisi unde cogitat;
cetera in arcana quadam notitia sunt recondita, quae memoria nuncupatur.
Ideo trinitatem sic commendabamus, ut illud unde formatur cogitantis
obtutus, in memoria poneremus; ipsam vero conformationem, tamquam
imaginem quae inde imprimitur; et illud quo utrumque coniungitur, amorem
seu voluntatem. Mens igitur quando cogitatione se conspicit, intellegit se et
recognoscit; gignit ergo hunc intellectum et cognitionem suam141.
Si tratta qui di una trinità di atti, di cui si richiama uno strato più profondo,
una “preesistenza abituale” quale presupposto di ogni presenza attuale 142.
Per riconoscersi, al pensiero non è sufficiente rivolgere lo sguardo a sé: così
otterrebbe un’immagine deformata, perché non ancora “ridotta” in senso
141
Ivi, XIV, 6.8.
cfr. E.Gilson, op. cit., pp. 256 ss, che riprende anche il parere di M. Schmaus, in op. cit.,
p. 271, che invece vedrebbe qui una certa esitazione tra trinità attuale ed incosciente.
142
63
fenomenologico-trascendentale. Il mondo quale correlato dei molteplici atti
costitutivi, considerati a proposito della conoscenza sensibile, le complesse
stratificazioni di senso in cui vive la coscienza nell’orizzonte della sua
apertura intenzionale vanno attraversati per approdare al piano dell’evidenza
originaria, della coscienza che l’io vive dell’essere immagine di
quell’evidenza.
Ecco perché Agostino ritene necessario l’influsso delle rationes aeternae
correlate alla memoria latente che la coscienza ha di sé, affinché il pensiero
si scopra per quel che è e generi l’autocoscienza, che si esprime nel
giudizio, nel verbum143. La coscienza si costituisce nella ragione aeterna,
nell’evidenza, che la precede come suo orizzonte trascendentale, e che
trascorre nei suoi atti, abitandoli e informandoli, costituendoli in funzione
della loro manifestazione.
Nell’atto della sua espressione, nella generazione del giudizio, si dà per
analogia l’imago della generazione del Figlio ad opera del Padre, vale a dire
che qui si coglie ciò per cui l’immagine stessa si distingue dall’eidolon e in
cui consiste la possibilità del suo valore per la conoscenza: il Padre
concepisce eternamente una perfetta espressione di sé, che è il Figlio;
analogamente, il pensiero – nelle rationes aeternae – nella verità che lo
informa, genera una conoscenza vera di sé. Nella vita della coscienza,
l’espressione in atto si particolarizza rispetto alla memoria latente, si dà allo
sguardo nella sua propria fenomenologia, ma appartiene alla medesima vita
cui fa capo la memoria; è la parola esteriore che invece si separa,
manifestando nella parola e nel segno il giudizio.
Ogni conoscenza vera è conoscenza nella verità, e perciò l’atto del
concepimento, della generazione della verità è immagine della verità stessa,
che si produce nell’atto del giudizio, nella rappresentazione regolata e
generata dalle proprie condizioni di possibilità. Non si tratta quindi di
rendere tale verità in termini “ontici”, indagando poi sulla capacità mimetica
dell’immagine, ma di cogliere la condizione secondo cui il giudizio si
143
Cfr. L. Alici, Il linguaggio come testimonianza, Roma 1976, capp. I e III.
64
produce, l’immagine si genera, svelando la forma: In illa igitur aeterna
veritate, ex qua temporalia facta sunt omnia, formam secundum quam
sumus, et secundum quam vel in nobis vel in corporibus vera et recta
ratione aliquid operamur, visu mentis aspicimus; atque inde conceptam
rerum veracem notitiam, tamquam verbum apud nos habemus, et dicendo
intus gignimus; nec a nobis nascendo discedit144 .
Il volgersi dell’intenzionalità della coscienza a stessa, attraverso e oltre le
molteplici stratificazioni che la costituiscono come coscienza di un mondo,
in direzione della relazione trascendentale di cui essa consiste, che è colta
dall’indagine fenomenologica come circuminsessio delle proprie condizioni
di senso, rivela il terzo elemento della seconda triade: la voluntas, che
corrisponde all’amor della prima triade, così come memoria e intelligentia
rispettivamente a mens e notitia.
La coscienza vive nei suoi atti, il desiderio muove nella circuminsessio e
induce all’espressione, alla generazione della verità nel giudizio e
nell’opera, generazione legittimata dalla misura stessa cui soggiacciono
entrambi; misura sorpresa dall’indagine fenomenologica come inizio ed
eschaton, come iniziativa interessata alla generazione della verità, come
amor, quindi, in cui generato e generante, giudizio e atto si identificano
senza confusione, senza indistinzione: Nemo enim volens aliquid facis,
quod non in corde suo prius dixerit. Quod verbum amore concipitur, sive
creaturae, sive Creatoris, id est, aut naturae mutabilis, aulla confusione
constringit 145.
L’ordo amoris non definisce un’alternativa che superi e poi porti a
compimento una ragione riscattata : vi è una vita della coscienza, che
determina l’unica vita della soggettività come identità di conoscenza e
amore ; il giudizio porta con sè la volontà della coscienza di esprimersi, di
vivere nella verità : Verbum est igitur…..cum amore notitia146, e qui, di
nuovo, la generazione costituisce l’immagine nel suo valore di verità.
144
De Trin., IX, 7.12.
Ivi, IX, 7.12-13.
146
Ivi, IX, 10.15.
145
65
L’assenza di distinzioni intese realiter tra l’anima e le sue facoltà permette
ad Agostino di porre la questione della fondazione teoretica della verità, in
direzione di una diversa conformazione della teoria stessa della
rappresentazione e del giudizio, attraverso la concezione dell’imago quale
somiglianza espressa.
In tal modo, l’attenzione si sposta sugli atti costitutivi della rappresentazione
e del giudizio, sull’orizzonte precategoriale – già abitato dalla misura - che
ne costituisce lo sfondo – il vestigium - a partire da cui si genera
l’immagine, quindi la verità come espressione in quei modi; atti fondanti
questa verità, e che sono la stessa e identica vita della coscienza, irriducibili
l’uno rispetto all’altro come suoi atteggiamenti. Queste considerazioni
possono chiarire il senso delle distinzioni nell’immagine tra l’amore, causa
della generazione, il verbo, che è generato, e il pensiero, che genera. In
quanto principio della generazione, l’amore non si confonde con
l’espressione; tuttavia, l’amore si riconosce nel generato, come la verità si
riconosce nelle verità, e il desiderio della conoscenza è qui amore della
conoscenza. Il desiderio è antecedente all’amore, quindi non ne consegue; le
diverse rappresentazioni sembrano vivere l’una nell’altra, ma tutte
rimandano all’orizzonte dell’inerenza trascendentale dell’esse e del verum,
da cui il Bene riceve la forma mediante cui, in esso, si esprime147.
Ancora una volta, si tratta qui di una certa – quaedam imago - immagine
dell’adaequatio originaria, della condizione di ogni istanza di verità e
felicità nel bene: Qui appetitus, id est inquisitio, quamvis amor esse non
videatur, quo id notum est amatur; hoc enim adhuc, ut cognoscatur, agitur:
tamen ex eodem genere quiddam est. Nam voluntas iam dici potest, quia
omnis qui quaerit invenire vult….Partum ergo mentis antecedit appetitus
quidam, quo id quod nosse volumus quaerendo et inveniendo, nascitur
proles ipsa notitia; ac per hoc appetitus ille quo concipitur pariturque
notitia, partus et proles recte dici non potest; idemque appetitus quo
inhiatur rei cognoscendae, fit amor cognitive, dum tenet atque amplectitur
placitam prolem, id est, notitiam, gignentique coniungit. Et est quaedam
147
cfr. L. Alici, op.cit., cap. III.
66
imago trinitatis, ipsa mens, et notitia eius, quod est proles eius ac de se ipsa
verbum eius, et amor tertius, et haec tria unum atque una substantia. Nec
minor proles, dum tantam se novit mens quanta est; nec minor amor, dum
tantum se diligit quantum novit et quanta est 148.
Questa relazione della coscienza con se stessa, questa esposizione della
propria costituzione trascendentale, non è ancora però pienamente
immagine, di quella perfetta adaequatio in cui consiste la Trinitas, come lo
è invece la sapientia generata dal pensiero, insieme con l’intelligenza, al
termine del reditus, dell’itinerario della coscienza verso la sua indisponibile
misura: Haec igitur trinitas mentis non propterea Dei est imago, quia sui
meminit mens, et intelligit ac diligit se: sed quia potest etiam meminisse, et
intelligere et amare a quo facta est. Quod cum facit, sapiens ipsa fit. Si
autem non facit, etiam cum sui meminit, seseque intelligit ac diligit, stulta
est. Meminerit itaque Dei sui, ad cuius imaginem facta est, eumque
intelligat atque diligat 149.
La sapientia generata
si sa ora come
immagine;
il ricordo di sé,
l’espressione di sé nel verbo e l’amore verso sé non sono qui altro se non la
memoria della sapientia incondizionata, della sua espressione e del suo
amore. Se non si dà alcun esse al di fuori della misura, del numero,
dell’ordo, allora la verità della coscienza, la sua sapientia, non è se non
come partecipazione, come immagine. In questo senso, la natura in quanto
res creata, e quindi a maggior ragione, quella razionale e intelligente,
costituita come imago, vive nella verità, pur non disponendone: l’analogia
rimanda all’orizzonte logico-trascendentale come alla condizione secondo la
quale l’espressione del bene si dà forma nel vero, ed entrambi si danno
come perseguibili, come regola, che giudica e non è giudicata, rendendo
sensata la stessa domanda autenticamente ed originariamente filosofica,
sulle condizioni di possibilità di una vita felice in quanto recta, buona.
Quest’orizzonte ….quidem non longe positus ab unoquoque nostrum, sicut
Apostolous dicit, adiungens: in illo enim vivimus et moventur et
148
149
Ivi, IX, 2.18.
Ivi, XIV, 12.15.
67
sumus…Unde secundum mentem quae facta est ad eius imaginem, debet hoc
accipi, excellentiore quodam, eodemque non visibili, sed intelligibili modo.
Nam quid non est in ipso, de quo divine scriptum est: Quoniam ex ipso et
per ipsum, et in ipso sunt omnia?150
L’analogia ribadisce appartenenza e distanza, quando le tre potenze che la
costituiscono, memoria, intelligenza e volontà appaiono secondo diverse
misure di grandezza: Ista vero tria quae sunt in impari immagine, etsi non
locis quoniam non sunt corpora, tamen inter se nunc in ista vita
magnitudinibus separantur…………Et quanto inter se aequalia fuerint ab
omni languore sanata, nec tunc aequabitur rei natura immutabili ea res
quae per gratia non mutatur, quia non aequatur creatura Creatori, et
quando ab omni languore sanabitur, mutabitur151.
Il suo valore conoscitivo sta nell’essere espressione del fondamento e nel
contempo della sua irriducibilità alla rappresentazione, ivi compresa la
formulazione teologico-dogmatica, se questa è fondata su una concezione
della domanda filosofica come interrogazione sull’essenza dell’essere, che
darebbe luogo ad una ontologia secondo un uso della logica aristotelica che
travalicherebbe l’ambito del condizionato per farsi istitutore delle
condizioni. La mens, nella sapienta generata, è lo specchio attraverso cui si
vede in aenigmate, una somiglianza espressa che rimanda ad un piano di
fondazione della verità oltre l’inadeguatezza della rappresentazione, nel
valore esemplare dell’imago: Per quod tamen speculum et in quo aenigmate
qui vident, sicut in hac vita videre concessus est, non illi sunt qui ea quae
digessimus et commendavimus in sua mente conspiciunt; sed illi qui eam
tamquam imaginem videt, ut possint ad eum cuius imago est,
quomodocumque referre quod vident, et per imaginem quam conspiciendo
vident, etiam illud videre coniciendo, quoniam nondum possunt facie ad
facies. Non enim ait Apostolus: videmus nunc speculum; sed videmus per
speculum 152.
150
151
Ivi, XIV, 12.16.
Ivi, XV, 23.43.
152
Ivi, XV, 23.44.
68
L’esse va interrogato in funzione del verum e del bonum, in tanto in quanto
questa indagine è indispensabile per risolvere il problema della vita nel
segno della rectitudo, vale a dire di una vita felice in quanto buona. L’intero
percorso dei XIV libri del De Trinitate ha condotto anzitutto a ricondurre
nei limiti di questa rectitudo l’uso della ragione, della quale in questo
itinerarium,
nella
riconduzione
fenomenologico-trascendentale
coscienza a se stessa, si è reso riconoscibile
della
quell’orizzonte di senso
insuperabile che è la misura, la cui affermazione ad ogni livello della vita
stessa della coscienza, ivi compreso quello dello sfondo precategoriale su
cui si innestano rappresentazioni e giudizi, rende ragione dell’esercizio
stesso della recta ratio, quale forma di espressione del bene.
Che questo bene possa essere espresso, ma non isituito, nè filosoficamente,
né teologicamente, da un ragione che si fa logos dell’essere, lo ribadisce il
libro XV, nel ricordare che l’immagine non vale per ciò che riproduce – non
è qui il suo valore di verità, in accordo con la tradizione platonica, ma per
ciò che esprime in quanto analogia;
quindi mentre termini come vita,
memoria, conoscenza rimandano alla concezione di attributi, vengono
distiniti e pensati come propri di un soggetto, la perfetta semplicità, la
misura assoluta, è, come scrive Agostino, ciò che ha153.
Ciò che vale per l’immagine, vale anche per le formulazioni del dogma
trinitario; le Persone si distinguono secondo la relazione, mentre ciò che si
predica dell’essentia divina si predica secondo la sostanza: perché l’essentia
nella sua perfetta semplicità non conosce realiter alcuna distinzione: Est
tamen sine dubitatione substantia vel, si melius quod appellatur, essentia,
quam Graeci ousia vocant. Sicut enim ab eo quod est sapere dicta est
sapientia, et ab eo quod est scire dicta est scientia, ita ab eo quod est esse
dicta est essentia…………………Sed aliae quae dicuntur essentiae sive
substantiae, capiunt accidentia, quibus in eis fiat vel magna vel
quantacumque mutatio; Deum autem aliquid eiusmodi accidere non potest.
Et ideo sola est incommutabilis substantia vel essentia, qui Deus est, cui
profectio ipsum esse, unde essentia nominata est, maxime ac verissime
competit. Quod enim mutatur, non servat ipsum esse; et quod mutari potest,
153
Ivi, XV, 5.7-8; 7.11-13; 22.42; 23.43-44.
69
etiamsi non mutetur, potest quod fuerat non esse; ac per hoc illud solum
quod non tantum non mutatur, verum etiam mutari omnino non potest, sine
scrupolo occurrit quod verissime dicatur esse 154.
Tutto ciò che si attribuisce nel senso della relazione non concerne la
sostanza, ma la relazione: se la definizione volesse estendersi al piano
dell’assoluto, se volesse così ricondurre l’irriducibilità del fondamento a ciò
che è fondato, nella identità perfetta dell’espressione con ciò che ne è la
condizione, si otterrebbe quella distorsione riassunta nella formula greca
comunemente accettata mìan oùsian, treìs hypostàseis, unam essentiam, tres
substantias,
che
non
fornisce
nessun
significato
adeguato,
pena
l’autocontraddizione, il dissolvimento dell’unità essenziale espressa
dall’adaequatio originaria del pensiero a se a stesso.
Va così intesa la proposta agostiniana che riprende la nozione di persona,
che “indebolisce” la pretesa stessa della definizione, ma al tempo stesso,
restituendole lo stato epistemologico che le compete, la riporta al piano del
giudizio, dell’immagine, cioè di quegli atti e di quelle costituzioni di senso
regolati delle quali la filosofia, nel tendere ad una fondazione della loro
verità, ricerca le condizioni: unam essentiam vel substantiam, tres autem
personas 155.
In questa direzione, il concetto stesso di verità razionale, con le sue note di
immutabilità, eternità, in una parola, di “divinità” si declina senz’altro con
minori pretese rispetto ad una sua affermazione all’interno di una ontologia
“forte”: “ c’è un senso, molto più umile ma assai più verificabile, in cui si
dice che la verità razionale è eterna, etc..: lo è nel senso che essa vuole
esserlo, che appartiene alla sua essenza l’esperienza di esserlo”156.
E’ allora questo il senso dell’affermare che la verità non è altro dal bene,
che l’adaequatio della regola a se stessa garantisce l’esercizio della recta
154
Ivi, V, 2.3.
Ivi, VII, 5.10-6.11.
156
cfr. G. Preti, Retorica e Logica, Torino 1968,
dell’immagine, Milano 2004, p.14.
155
p.10, cit. in E. Franzini, Verità
70
ratio e l’espressione in essa del bene secondo la forma del vero. L’imago
Trinitatis esprime come analogia il proprio orizzonte di senso, ribadendo,
nella impossibilità di esaurire la misura, e quindi nel riconoscimento della
sua verità nella verità della regola, la condizione stessa della propria
rectitudo e con ciò di una vita felice in quanto buona.
71
CONCLUSIONE
La tradizione filosofica di un modello di ragione
Nell’indicazione della centralità, in una filosofia intesa come itinerarium
verso la fondazione della verità, del nodo in cui si intrecciano il valore
dell’espressione nell’immagine della sapientia generata, e di conseguenza,
la questione dello statuto epistemologico dei giudizi, delle rappresentazioni
nelle loro più diverse gradazioni espressive, dalla traccia al vestigio fino
appunto all’imago quale analogia più compiuta, e che persegua il
riferimento a “piani epistemici, non probabilistici, di fondazione”157 , si può
forse rintracciare la radice di una tradizione filosofica, che, procedendo al di
là dell’impostazione platonica e neoplatonica di riferimento, giunge ad esiti
che, oltre Anselmo d’Aosta, saranno propri delle scuole francescane di
Bonaventura, di Scoto o di Ockham 158.
Non quindi nel senso che francescanesimo ed agostinismo combattano una
battaglia contro il “primato della ragione”, tomista o averroista, nel nome
del primato dell’amore. E’ una diversa concezione della ragione, della
metafisica, che è in gioco, perché c’è una diversa idea della domanda
filosofica che muove, e muove verso una “filosofia dell’espressione”,
secondo un preliminare
reditus fenomenologico-trascendentale della
coscienza a se stessa, che, nello svelare
il senso
dell’immagine, del
giudizio, come processi di generazione, di espressione del vero nel Vero,
più che di mimesi, trova la forma espressiva del Bene, e di qui propone la
sua strada per una filosofia della vita felice in quanto buona.
Tutto esprime “numero, peso e misura”, cioè rectitudo, adaequatio; quando
Bonaventura scrive: Verbum divinum omnis creatura, il mondo è
espressione di Dio, parola detta per l’intelligenza, imago della fontana
157
cfr. E. Franzini, op.cit., p. 15.
158
cfr. O. Todisco, op. cit., pp. 99 ss.
72
bonitatis, poiché …verbum non est aliud quam similitudo expressa et
exspressiva
159
. Se giudicare, rappresentare, significano generare, per cui il
bonum si esprime nel verum, e il verum dà forma al bonum, allora
l’immagine è veramente se stessa , e fa conoscere, quando come sapientia
generata dallo sforzo della coscienza è analogia della sapientia perfetta, che
stabilisce la coscienza stessa nelle sue condizioni di verità.
Che la misura non sia disponibile, che la ragione non possa giudicarla, ma
che tuttavia in essa soltanto la coscienza incontri nel suo itinerarium – che
ricorda
la incorporea
conversio di Agostino
- la possibilità della
rectitudo, lo ripete lo stesso Bonaventura, con la sua lettura della metafora
risalente allo Pseudo-Dionigi di Dio quale sfera intelligibile, in cui il centro,
che è ovunque, e la circonferenza , che è in nessun luogo, coincidono
nell’infinito, perché qui l’uno e i molti si esprimono nella perfetta semplicità
e nella perfetta infinità.
Nell’ Itinerarium mentis in Deum, Bonaventura scrive che, secondo il grado
di elevazione, Dio appare come il primo e l’ultimo, il semplicissimo e
l’universale, tutto in tutto e insieme irriducibile a tutto: Rursus reverentes
dicamus: quia igitur esse purissimum et absolutum, quod est simpliciter
esse, est primarium et novissimum, ideo est omnium origo et finis
consummans. Quia aeternum et praesentissimum, ideo omnes durationes
ambit et intrat, quasi simul exsistens earum centrum et circumferentia. Quia
simplicissimum et maximum, ideo totum intra omnia et totum extra, ac per
hoc “est sphaera intelligibilis, cuius centrum est ubique et circumferentia
nusquam” (Bonaventura cita qui Alano di Lilla e il Liber XXIV
Philosophorum)….Quia vero est summe unum et omnimodum, ideo est
omnia in omnibus, quamvis omnia sint multa, et ipsum non sit nisi unum160.
La trama del tempo accade in questa semplicità, che ne è centro e orizzonte:
Quia actualissimum et immutabilissimum, ideo stabile manens moveri dat
universa. Quia perfectissimum et immensum, ideo est intra omnia, non
159
Bonaventura da Bagnoregio, In I Sententiaru,,in S. Bonaventurae Collationes in
Hexaemeron et Bonaventuriana quaedam selecta, Firenze 1964, d.27, p.II, a.u., q.3, resp.
160
cfr, Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum, Firenze, in S.
Bonaventurae Opera Theologica selecta. Editio minor, tomus V, Firenze 1964, V,8.
73
inclusum; extra omnia, non exclusum; supra omnia, non elatum; infra
omnia, non prostratum 161, ed è in questa perfetta adaequatio che sussiste il
senso di ogni espressione, di ogni virtù, di ogni exemplaritas: et hoc, quia
per simplicissimam unitatem, serenissimam veritatem et sincerissimam
bonitatem est in eo omnis virtuositas, omnis exemplaritas et omnis
communicabilitas; ac per hoc, ex ipso et per ipsum et in ipso sunt omnia, et
hoc, quia omnipotens, omniscens et omnimode bonum, quod perfecte videre
est esse beatum, sicut dictum est Moysi: Ego ostendam tibi omne bonum162.
In questa perfetta adaequatio, l’anima compie l’itinerario come movimento
nella verità, nel circulum aeternitatis che la custodisce e ne regola la vita
come espressione dell’ens ordinatissimum in cui ogni ordo non è senza
l’altro, nella perfetta circuminsessio della verità nel bene e del bene nella
bellezza della forma in cui a sua volta, si esprime, cosicché: Vita aeterna
haec sola est, ut spiritus rationalis, qui manat a beatissima Trinitate et est
imago Trinitatis, per modum cuiusdam circoli intelligibilis redat per
memoriam, intelligentiam, per deiformitatem gloriae in beatissimam
Trinitatem 163.
161
Ivi, ibid.
Ivi, ibid.
163
Id., De Mysterio Trinitate, in ed. cit., Firenze 1964, q. a.7.
162
74
BIBLIOGRAFIA
Opere di Agostino
Opera omnia di Sant’Agostino, in Nuova Biblioteca Agostiniana, edizione
latino-italiana a cura della Cattedra Agostiniana, fondatore e direttore
A.Trapè, direzione di R. Piccolomini, Roma 1965 – 2004, voll. I – XXXV.
-
Confessiones, vol.1, Confessioni, introduzione di A. Trapè;
traduzione e note di C. Carena; indici di M. Monteverde, Roma
1965, 1991.
Contra Academicos, vol. III/1, Dialoghi I, introduzione, traduzione,
note e indici di D. Gentili, Roma 1970.
Contra Faustum Manicheum, vol. XIV/1, Contro i Manichei,
introduzione e note di L. Alici; traduzione di U. Pizzani-L.Alici-A.
di Pilla, Roma 2004.
De Civitate Dei, vol. V/1-3, Città di Dio, introduzione di A. Trapè –
R. Russel – S. Cotta – D.Gentili; traduzione e note a cura di D.
Gentili; indici a cura di F. Monteverde, Roma 1978-1991.
De correptione et gratia, vol. XX, Grazia e libertà, introduzione e
note di A. Trapè; traduzione di M. Palmieri; indici di F.
Monteverde, Roma 1987.
De Genesi ad litteram, vol IX/2, Genesi, traduzione, note e indici di
L. Carrozzi, Roma 1989.
De Genesi ad litteram liber imperfectus, vol.IX/1, Genesi,
introduzione di A. di Giovanni-A. Penna; traduzione, note e indici di
L. Carrozzi, Roma 1988.
De libero arbitrio, vol. III/2, Dialoghi II, introduzione generale di A.
Trapè; introduzione, traduzione e note di G.Gentili, Roma 1976.
De Magistro, vol. III/2, cfr. supra.
De moribus Ecclesiae Catholicae et de moribus Manichaeorum, vol.
XIII/1, Contro i Manichei, introduzione di F. Decret; traduzione e
note di A. Pieretti-L. Alici, Roma 1997.
De Musica, vol. III/2, cfr. supra.
De ordine, vol. III/1, cfr. supra.
De quantitate animae, vol.III/1, cfr. supra.
De spiritu et littera, vol. XVII/1, Natura e grazia I, introduzione e
note di A.Trapè; traduzione di I. Volpi, Roma 1981.
De Trinitate, vol. IV, La Trinità, introduzione di A.Trapè-M.F.
Sciacca; traduzione e note di G. Beschin, Roma 1963, 1987.
De vera religione, vol. VI/1, La vera religione, introduzione,
traduzione, note e indici di A. Pieretti, Roma 1995.
Enarrationes in Psalmos, voll. XXV (sal. 1-50) e XXVII/2 (sal. 105120), Esposizione sui Salmi, introduzione di A. Corticelli;
traduzione di R. Minuti (vol. XXV); traduzione, revisione e note di
T. Mariucci-V. Tarulli (vol. XXVII/2), Roma 1982, 1993.
75
-
In Iohannis Evangelium tractatus, vol. XXIV/1, Commento al
Vangelo di Giovanni (1-50), introduzione di A. Vita; traduzione e
note di E. Gandolfo; revisione di V. Tarulli, Roma 1968, 1985.
- Soliloquia, vol. III/1, cfr. supra.
Studi e opere consultate
-
Alici L., Il linguaggio come segno e testimonianza. Una rilettura di
di Agostino., Roma 1976
Anselmo d’Aosta, Proslogion, a cura di I. Sciuto, Milano 2002.
Beierwaltes, W., Pensare l’Uno, Milano 1997.
Bonaventura da Bagnoregio, S. Bonaventurae Collationes in
Hexaemeron et Bonaventuriana quaedam selecta, Firenze 1964.
Id., S. Bonaventurae Opera Theologica selecta. Editio minor, tomo
V, Firenze 1964.
Courth, F., Trinitat in der Scholastik, Freiburg – Basel 1985.
Dal Covolo, E. (a cura), Storia della Teologia, vol. I, Bologna 1995.
Dal Covolo, E. - Maritano, M., Introduzione ai Padri della Chiesa.
Secoli I – III, Torino 1996.
Daly, G.O., La filosofia della mente in Agostino, Palermo 1988.
Di Berardino, A. – Studer, B., Storia della Teologia. Epoca
patristica, Casale Monferrato 1993.
Dumouliè, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, Torino 2002.
Franzini, E., Verità dell’immagine, Milano 2004.
Ganoczy, A., Dalla sua pienezza tutti abbiamo ricevuto. Lineamenti
fondamentali della dottrina della grazia, Brescia 1991.
Geerlings, W., Christus exemplum, Mainz 1978.
Gilson, E., Introduzione allo studio di Sant’Agostino, Casale
Monferrato 1983.
Jungel, E., Gott als Geheimnis der Welt, Tubingen 1976.
Kelly, J., Il pensiero cristiano delle origini, Bologna 1983.
Marrou, H., S. Agostino e la fine della cultura antica, Milano 1989.
Mondin, B., Il problema del linguaggio teologico dalle origini ad
oggi, Brescia 1971.
Pannenberg, W., Teologia Sistematica, vol. 1, Brescia 1990.
Pesch. O.H., Tomas von Aquin, Mainz 1988.
Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, Milano 2000.
Scheffczyk, L., Der eine und dreifaltige Gott, Mainz 1968.
Id., Lehramtliche Formulierungen und Dogmengeschichte der
Trinitat, in Mysterium Salutis, vol. II, Mainz 1967.
Schmaus, M., Die psycologische Trinitatslehre des Hl. Augustinus,
Munster 1966.
Schutz, C., Ein fuhrung in die Pneumatologie, Darmstadt 1985.
Simonetti, M., La crisi ariana del IV secolo, Roma 1975.
Todisco, O., Lo stupore della ragione, Padova 2003.
Trabattoni, F., Platone, Roma 2003.
Id., Storia della filosofia antica. Profilo storico-critico, Roma 2003.
76
-
Vanni Rovighi, S., La fenomenologia della sensazione in
Sant’Agostino, in Studi di Filosofia medievale, Milano 1978.
Ventimiglia, G., Differenza e contraddizione. Il problema dell’essere
in Tommaso d’Aquino: esse, diversum, contradictio., Milano 1997.
Verheyen, H.J., La parola definitiva di Dio. Compendio di Teologia
Fondamentale., Brescia 2001.