Nome file 040605SC_GG2.pdf data 05/06/2004 Contesto ENC Relatore G Genga Liv. revisione Studium Lemmi Chi Corpo Eccitamento Es Freud, Sigmund Lealtà Nevrosi ossessiva Perfezione/perfezionismo Pulsione, fonte della Teoria Vocazione CORSO DI STUDIUM ENCICLOPEDIA 2003–2004 IDEA DI UNA UNIVERSITÀ IL MONDO COME PSICOPATOLOGIA 5 giugno 2004 8° LEZIONE GLAUCO GENGA LA FONTE DELLA PULSIONE NELLA NEVROSI OSSESSIVA 1. Il problema della fonte Il titolo del mio intervento, che potrebbe anche intitolarsi «Il taglio alla fonte», intende porre in evidenza il problema che vorrei trattare, ossia quello della fonte del moto pulsionale, e della lealtà verso la stessa [1]. La parola lealtà acquista un nuovo contenuto nel pensiero di natura, e precisamente il fare memoria della fonte del moto. Nella nevrosi più ancora che in altre patologie, è più acuto (nella nevrosi ossessiva anche coscientemente) il problema della vita della pulsione. Dire ciò non equivale affatto a dire “tutti abbiamo dei problemi” – frase banalizzante – quanto piuttosto a riconoscere che “tutti abbiamo un solo problema”, quello di far giungere a meta la pulsione. Il nevrotico mantiene più acuto di altri il sapere che non si tratta di istinto, anche se nelle sue autodescrizioni dovesse ripetere mille volte al giorno, o dieci volte a seduta, l‟avverbio istintivamente. Sta all‟analista non prestargli fede su questo punto; ricordo che la volta scorsa Mariella Contri ha introdotto l‟espressione “malafede isterica”, che merita di essere approfondita e discussa. Ora cito dal Lexikon psicoanalitico: «Alla pulsione, cioè all‟organismo che si muove secondo pulsioni, manca un pezzo per giungere a meta». A me piace molto questa espressione «manca un pezzo»: sa di vita quotidiana, e sta ad indicare il giudizio predisponente il soggetto all‟apporto dell‟Altro [2]. Di tutta la patologia, la nevrosi avverte più acutamente che non si combina o non si incontra con il “pezzo” del soggetto. Pezzi, ambedue dell‟ordine dell‟apporto legale. Ciò significa due cose: 1) quel che rende interessante l‟Altro è il suo apporto di legge. Nient‟altro, non i suoi occhi azzurri, o altro tratto fisiognomico o del carattere dell‟Altro. 2) con Freud, teniamo a dire che all‟inizio il soggetto compone la legge con l‟altro. La fonte è il momento β del movimento, ovvero il soggetto colto non in sé e per sé, irrelato, ma che ha ricevuto e giudicato l‟apporto dell‟altro come beneficio. Si tratta cioè, nei termini freudiani, dell‟Es, ovvero del corpo eccitato, chiamato, vocato e provocato. Eccitamento e vocazione: due parole per un identico concetto. 1 2. La fonte, ovvero il corpo eccitato Se pensiamo alle cosiddette zone erogene, dobbiamo liberarci di quella che è divenuta una pseudonozione da rotocalco femminile: l‟errore insito in essa – altra banalizzazione della scoperta freudiana – ritiene che il corpo possa essere diviso, ritagliato nella sua superficie, in zone erogene e in zone che non lo sono. Il corpo vi è caratterizzato come se fosse composto di due parti, o giurisdizioni, mentre invece tutto il corpo è erogeno, ovvero suscettibile di essere compreso nel moto pulsionale e destinato alla meta di soddisfazione. In esso andrebbero in verità chiamate zone erogene anzitutto i punti di passaggio tra l‟esterno e l‟interno, ovvero la congiunzione tra l‟epidermide e le mucose: gli organi di senso (bocca, naso, occhi, orecchie); la cute stessa (tatto); gli orifizi degli organi escretori; gli organi sessuali; ad abundantiam, aggiungerei l‟ombelico, che ultimamente riceve una particolare attenzione dai cosiddetti lookmakers, cioè dall‟industria della moda [3]. Tutto il corpo è dunque chiamato a comporre il moto pulsionale, ma quel che accade è che lo stesso corpo, nella crisi della legge, sia introdotto alla nevrosi e vada incontro ad un taglio. Soffermiamoci ancora un momento sul fatto che nel pensiero di natura il corpo è l‟aldilà della natura, dedicando per più anni un Seminario al corpo come Aldilà. A pagina 54 (nota), leggo: «Il corpo risulta eccitato, cioè chiamato. Come tale, il corpo passa in uno stato in cui diviene fonte esso stesso dell’eccitamento, ossia causa del moto. Non per questo vi sono due cause del moto, la spinta e la fonte: il corpo è la fonte del moto, ma non è la fonte dell’esserne diventato fonte, bensì lo è diventato perché un altro ha promosso l’eccitamento o chiamata. Non c’è autonomia del soggetto–corpo quanto alla causa: l’origine dell’eccitamento non è interna al corpo, ma esterna ad esso. Una precisazione: diventato, participio passato, può fuorviare, perché non si è trattato qui di divenire (quello della coppia essere/divenire), bensì di accadere (Geschehen) come accaduto legale e psicologico ad un tempo». Il Corso intitolato Io.Chi inizia poneva correttamente l‟accento su questo stesso punto. Mi verrebbe da dire: repetita juvant. Né potrebbe essere diversamente, poiché il nostro stesso lavoro ci insegna in un certo senso a rimettere in moto la pulsione, a cominciare dal moto del parlare. Ma in verità ogni moto pulsionale, come lo raccogliamo dal divano, a cominciare dal parlare, ha subìto dei tagli, è in certo senso in mezzo al guado, cioè non va né avanti né indietro. Il nevrotico si sente imbrigliato, ma si rappresenta questa difficoltà in un solo senso, ossia solo come difficoltà anterograda, per usare una similitudine con i disturbi organici della memoria trattati in neurologia. Non si tratta solo né anzitutto della difficoltà a procedere in avanti; vedremo che vi è anche una difficoltà retrograda. Resta vero che: 1) ogni psicoanalista raccoglie fin dai colloqui preliminari, un corpo in vocazione (Freud usa l‟espressione «eccitato in un organo»), cioè un soggetto-corpo che medita come procedere sulla via della meta. 2) ogni soggetto vi medita solitamente commettendo l‟errore di pensare solo alla meta di domani, mentre ha già tagliato via qualcosa che afferisce alla meta di ieri, allorquando è accaduto qualcosa che si è frapposto tra l‟eccitamento e la soddisfazione. Questo qualcosa è precisamene una teoria patogena, cioè una teoria della causalità del moto stesso. Ne consegue una difficoltà a permettere di andare, al letting go, come si dice in inglese [4]. Giacomo Contri ha osservato come sia limitativo, più che scorretto, usare l‟espressione andare di corpo soltanto per indicare l‟atto del defecare. Ci fa un certo effetto estendere la stessa espressione a qualsiasi moto, eppure nella nevrosi è chiarissimo che il corpo non va, in qualche suo distretto, segmento, parte: dalla paralisi isterica all‟inibizione comandata dall‟ossessione. Il corpo non va: ma dove? Dove dovrebbe andare, cioè all‟appuntamento. E‟ un non andare che si declina secondo due diverse modalità: 1) Nella modalità isterica il soggetto, uomo o donna che sia, fa continuamente il primo passo, per poi disattendere il passo dell‟altro. È: l‟"aspettami, io non vengo", provocazione attuata avanzando lancia in resta contro l‟altro. 2 2) Nella modalità ossessiva il soggetto non fa affatto il primo passo, ma pensa che questo spetti unicamente all‟Altro. Infatti l‟Altro è pensato come assolutamente a posto, perfetto, degno, da non sottomettere ad alcun esame. L‟ossessivo pensa infatti di essere indegno a promuovere tale esame, non se lo permette. Non fa fare anticamera all‟altro, ma gli si offre... tutto, come a dire: «alter, non sum dignus». 3. «Tutto» La parola “tutto”: è difficile sopravvalutare l‟importanza di questa parola, che nel discorso dell‟ossessivo diventa un vero e proprio lemma sintomatico: non solo egli crede che nell‟amore si tratterebbe di dirsi tutto, ma addirittura vorrebbe sempre dire tutto [5]. Si comprende come per un tale soggetto la regola analitica sia anch‟essa avvertita come una sfida o provocazione a fornire una prestazione impossibile: «mi dica quello che le viene in mente» viene recepito dall‟ossessivo come un comando anziché un invito, e viene tradotto con l‟aggiunta di un tutto: «mi dica tutto quello che le viene in mente». Da quel momento riuscire a parlare dal divano diventerà per lui un‟impresa ai limiti dell‟impossibile, paragonabile alla pratica di uno sport estremo: si porterà a casa la pelle a condizione di sapere che è rimasto un margine di disobbedienza al comando impossibile di dire tutto. Oppure accade che l‟ossessivo in seduta parli troppo, col risultato di essere noioso per l‟analista e per sé; infatti non ascolta neanche se stesso, è impermeabile ai suggerimenti che verrebbero dallo stesso fluire dei suoi pensieri, come si vede precipuamente nel caso del lapsus, di fronte a cui l‟ossessivo tira diritto come Amatore Sciesa condotto al patibolo non vuole saperne dei suoi affetti. Ma può anche succedere che non parli affatto, perché preso nella morsa dell‟angoscia: crede che gli chiediamo di fare proprio ciò che non gli riesce di fare, cioè dire tutto. Così soccombe, nella sua obbedienza differita, sotto il peso del comandamento impossibile di dire tutto [6]. Occorre distinguere tra l‟obbedienza a una teoria e l‟obbedienza al rapporto, cui l‟analista invita: l‟analista è dunque uno che fa il primo passo dopo il primo passo del soggetto, solitamente spinto dall‟angoscia a cercare aiuto: l‟ossessivo deve confidarsi con qualcuno, deve ascoltarne i consigli, perché solo l‟obbedienza lo metterà al riparo dagli errori successivi e dall‟incorrere in nuove colpe. Ma per farlo, dovrà trovare un altro che lo capisca, che parli la sua stessa lingua, che sappia leggerlo dentro. Questione gigantesca, titanica, con la quale l‟ossessivo nasconde a sé stesso il seguente dato: che è lui per primo ad omettere qualcosa dall‟esame del suo problema. Infatti l‟ossessivo vuole dire tutto il suo Io: egli immagina di farne un racconto – resoconto completo, esauriente, come una fotografia, mostrando la quale poter dire all‟altro: “ecco, questo sono Io”. Così facendo, attuerebbe di nuovo uno spostamento di posto: “se questo della foto sono io, chi è l‟Io che parla?”. Da quale posto egli può pensare una frase del genere? «Io sono questo che vedi» significa chiamarsi fuori dalla rappresentazione per non essere trovato... nudo. L‟ossessivo non sta volentieri al suo posto – il suo posto di soggetto, o di Chi –, per la preoccupazione di dovere sottrarsi allo sguardo dell‟altro. Ed è un sottrarsi molto più teso allo sguardo che non all‟orecchio dell‟altro: questa è anche la sua fortuna, perché nella regola analitica potrà accadergli di lasciarsi trovare [7]. Che cosa l‟Io dell‟ossessivo vuole preservare, mettere al riparo dall‟altro in questo modo? Anche qui: non che cosa, ma Chi. Ovvero difende il soggetto dell‟eccitamento, della passione, come ha sottolineato Giacomo Contri la volta scorsa. Tornando ad Adamo ed Eva, che si sono scoperti nudi, ipotizzando un analista di quei progenitori, questi avrebbe potuto chiedere all‟uno o all‟altra: «Chi le ha fatto credere che, qualora mi parlasse di ciò che le interessa, io la troverei nudo/a?». La fonte del moto è diventato il problema per eccellenza: l‟altro, cui l‟ossessivo vorrebbe regalare la promozione quanto all‟esame di dignità, non è pensato degno di questo esame, sulla scorta di una precedente esperienza reale in cui il soggetto si è imbattuto in un altro che non ha sopportato, né supportato, il corpo eccitato del soggetto. Così ogni altro è pensato o immaginato ritrarsi scostante e altezzoso: l‟altro «non mi sopporterebbe, proprio come io stesso non mi sopporto». Non si sopporta né la vista, né il pensiero del corpo eccitato. Nel racconto del Genesi, i peccatori–nevrotici Adamo ed Eva, anziché procurarsi la foglia di fico, avrebbero potuto anche solo nascondere il viso con le mani. Infatti, se non commettiamo l‟errore di pensarli nudi prima del peccato originale, dobbiamo concludere che dopo di esso il primo segno sensibile dell‟eccitamento non è detto riguardasse necessariamente l‟eccitamento sessuale. E‟ sufficiente la mimica a mostrare, a rendere pubblico che c‟è stato un moto. L‟ossessivo è colui che prova angoscia al solo accorgesi di un mimino moto della propria muscolatura mimica. Essendo anch‟essa muscolatura volontaria, il pensiero dell‟attimo dopo è: «Oh Dio, mi sono scoperto!». Di qui lo sforzo titanico dell‟ossessivo che cerca in tutti i 3 modi di controllare la propria mimica, fino ad esaurirsi in esso, come nei casi descritti in psichiatria come psicastenia. Tutto il pensiero è costruito come se non partisse da Chi, ma dall‟Io, che si trova così sovraccaricato di un peso che non gli compete affatto [8]. In verità non è l‟Io, inizialmente, ad essere stato toccato dall‟eccitamento nell‟Allattandomi, ma il corpo, che potrò dire mio solo se ne assumo l‟eccitamento già in atto [9]. Operato questo drammatico taglio, l‟Io può anche dirsi innamorato pazzo della vita, o della fonte della vita: che cosa c‟è di più meraviglioso? Ma la fonte della vita ha da essere inteso come fonte della vita pulsionale: allora le cose diventano intelligibili. 4. Richiami freudiani 1 Quando Freud scrive: «Talvolta ci è data la possibilità di risalire dalla meta della pulsione alle sue fonti» [10]., l‟argomento principale è l‟ammettere la qualità inconscia dello psichismo: vi sono atti di pensiero che avvengono in assenza di coscienza, come mostrano l‟ipnosi e il sogno. 2 Oppure la frase «L‟Io si è chiuso all‟Es» [11]: si tratta dunque di rimettere l‟Io al suo posto, ma per farlo occorre rimettere il pensiero dell‟Altro al suo posto, da cui è stato sloggiato dal Superio (dalla Teoria). 3 Nel saggio L’Io e l’Es (1923) Freud introduce per la prima volta il pronome impersonale Es per indicare una particolare regione della psiche, in quella che è nota come seconda topica. Egli mutua l‟espressione da Groddeck, che a sua volta l‟assume da Nietzsche, per il quale Es indica «quanto nel nostro essere vi è di impersonale, per così dire, di naturalisticamente necessitato». Alla luce di questa citazione, appare ancor più preziosa la distinzione esplicitata la volta scorsa da Giacomo Contri circa Es e Chi, cui ora rinvio. Quali note metapsicologiche, propongo le seguenti sottolineature: – l‟energia utilizzata dall‟Io è attinta a questo fondo comune, appunto l‟Es. Ma valorizzando in special modo l‟accezione economica di fondo comune, troviamo che se c‟è un fondo comune, ciò significa che ci sono stati degli investitori, che hanno agito da prima causa sul corpo del soggetto, col risultato di farne una fonte a sua volta; – L‟Es è sede delle passioni; – L‟Io stesso è un derivato, dunque non è la fonte; – L‟Io è anzitutto una entità corporea [12]. Sembra quasi che siamo debitori a Freud del nostro avere un corpo, anzi di esserlo: lo siamo certamente per quanto riguarda il come poterlo pensare. Tramite questo lavoro di pensiero, riacquistano spessore e figura i rapporti che intratteniamo. 4 Prendiamo ad esempio i “rapporti di dipendenza dell‟Io”, e dunque i tre fronti su cui l‟Io combatte: l‟Es, il Superio, la realtà esterna. Sono troppi, e soprattutto in questo caso tres non faciunt collegium: il Superio è di troppo, e rende impossibile la composizione fra le altre due istanze, altrimenti possibile come compito dell‟Io: dovrà dare i conti con l‟Es e con la realtà esterna, perfezionando il principio di piacere in principio di realtà. (si veda la breve nota ne La tolleranza del dolore che mi ha molto impressionato negli anni „70: Giacomo B Contri: omologia dei due principi freudiani). 5. La confusione tra fonte e spinta Posso fornire un‟ulteriore esplicitazione di come lavora la teoria nel contrastare l‟Io nevrotico: penso a un effetto del comando disturbante e contraddittorio del Superio nei confronti dell‟Io. Freud, allorché parla dell‟identificazione, osserva giustamente come l‟ossessivo si trovi a dover obbedire al seguente duplice comando: “Così come il padre devi essere” e al contempo “così come il padre non ti è permesso essere” : la prima frase esprime la parte del comando di specie istigatoria, la seconda quella inibitoria. Con una battuta: peggio di così non potrebbe essere messo! Nell‟identificazione di questa specie, diventare come il padre, o meglio eguagliare il padre, diventa una vera e propria ossessione, un pensiero fisso [13]. Sottolineo come l‟identificazione privilegi immancabilmente il vedere, mentre Freud arrivò molto presto a caratterizzare l‟Io come dotato di un berretto uditivo: e di fatto con l‟analisi egli intese privilegiare il moto dell‟udito. 4 Ma la contraddizione insita nel comando paradossale detto sopra fa leva proprio sulla confusione tra spinta e fonte del moto pulsionale. Cioè identifica la fonte nel padre, cioè in colui che ha dato la vita al figlio, etc. Ovviamente il soggetto non commette da solo questa confusione, ma vi è portato, dal padre o da chi ne fa le veci. Resta che la fonte è qui pensata come solo esterna, e così viene misconosciuta la fonte reale che è il corpo in β. Solo così posso spiegarmi perché non potrò mai essere come lui, io che sono venuto al mondo dopo di lui. L‟esperienza clinica insegna quanta importanza l‟ossessivo annetta al problema di essere il primo, perché egli è già caduto nell‟errore di confondere il ricevere alcunché dall‟altro con l‟essergli sottomesso. E ciò gli è insopportabile. Perché è così importante ammettere che la fonte è il corpo, o Chi? Perché l‟Es è anche la fonte di imputazioni nei confronti dell‟Altro. Tra queste imputazioni, sono ancor più importanti quelle premiali. Esempio da una seduta con paziente ossessivo: «Ora mi viene in mente questo, che non mi piace dire, ma che ora dico per obbedienza». Questo succede una volta, due, tre, mille volte. L‟ossessivo interpreta la consegna analitica in un senso già dimidiato, peggiorativo, nonché sleale. Dov‟è la slealtà in tutto questo, per cui questa è solo una parodia dell‟obbedienza? Basta osservare che nel caso detto sopra per anni e anni gli vengono in mente solo cose spiacevoli a dirsi. In lui è già, o ancora, attivo un filtro, per cui non gli verrà neanche in mente qualcosa di piacevole: un simile contenuto di pensiero… non passerà il Piave della coscienza. Che cosa è diventato straniero alla coscienza dell‟ossessivo? Una rappresentazione o un affetto connotati positivamente: se questo soggetto se ne accorgesse, avrebbe trovato e superato la censura, che si applica a tagliare, elidere ogni traccia di eccitamento in atto. “Io entusiasta? Mai provato un affetto simile!” E‟ la rimozione. Il taglio alla fonte è dunque un‟espressione che indica la rimozione che l‟Io ha attuato nei confronti di ciò (Es) da cui tuttavia è derivato. Ne abbiamo parlato l‟anno scorso richiamando la distinzione tra rimozione e ritorno del rimosso. La prima è operata dall‟Io (che non vuole o non può far fronte al conflitto in cui si è trovato), mentre il secondo, il ritorno del rimosso, è la sanzione con cui l‟Es tenta di riaffermarsi, in un certo senso denunciando l‟illecito che è stato compiuto ai suoi danni. Il sintomo ossessivo, sia che riguardi l‟azione (compulsioni, rituali) o il pensiero (idee ossessive) cerca ostinatamente di riequilibrare le cose, e così facendo contiene una traccia che può aiutare a rifare giustizia. 6. Dal perfezionismo alla perfezione Un accenno ad una conseguenza di quel che ho chiamato taglio alla fonte nella ricerca propria dell‟ossessivo. Misconosciuta la fonte dell‟eccitamento, gli resta il problema della forma del corpo, proprio e altrui: la forma attuale del corpo è sentita come un peso (si sente goffo, sgraziato, inguardabile), mentre la forma ideale (più spesso dell‟altro) deve invece essere pura, perfetta, ma soprattutto deve essere anch‟essa senza moto alcuno. Non che l‟aspirazione alla perfezione sia cosa sbagliata, come invece disse una psicologa con tono di rimprovero a una giovane donna: «Tu vuoi essere assolutamente perfezionista». L‟errore è nell‟assolutamente, non nella ricerca della perfezione. Nella nevrosi ossessiva la perfezione è ricercata solo nell‟assolutezza, cioè nella non-relazione. Anche il passaggio all‟-ismo della perfezione consegue appunto all‟assolutezza, o isolamento, con cui tale aspirazione alla perfezione è patologicamente trattata. Mentre nella relazione l‟aspirazione alla perfezione è del tutto legittima. Posto che la perfezione stessa viene colta anzitutto in un atto dell‟altro, è giusto dire che per meno di così non ci si muove nemmeno. Vale il consiglio evangelico «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro», che non equivale a «come erano perfetti i vostri genitori». Nella relazione i corpi si muovono, e il giudizio estetico ben formato non può che discendere dalla forma del moto, nient‟affatto dal corpo immobile [14] . Il grande lavorio dell‟ossessivo diventa un “corsi corsi e mai non giunsi” perché la corsa è verso una meta intuita come immobilità. Immobilità, cioè immutabilità, cioè regime di comando sull‟altro. L‟ossessivo lavora tanto, e persegue l‟ideale dell‟immobilità dell‟altro. Ciò che non tollera è la libertà di movimento dell‟altro [15]. L‟ossessivo potrebbe arrivare a dire a Dio: «Ma non puoi stare fermo?». Potrebbe essere il caso di Anselmo d‟Aosta, illustrato quest‟anno da Giacomo Contri: se si trovasse di fronte a Dio, dopo averne tessuto l‟elogio, gli direbbe: «Tutto qui?». A me pare che la comprensione di questa battuta comporti 5 autocritica in ciascuno: è vero che l‟ossessivo per gustare alcunché deve correggere la sua ricerca dell‟assoluto, altrimenti resta deluso a torto. Resterebbe nella sua inerzia coltivata, nel suo spazio vissuto come un labirinto, senza più bussola, perché la bussola era appunto l‟Es, o meglio era Chi. 7. Appendice. «La fonte meravigliosa», nota di commento al romanzo di A. Rand, The fountainhead Nella lavoro di ricerca e di stesura della presente relazione, mi sono imbattuto in un romanzo che nel secondo dopoguerra ha incontrato una discreta fortuna. Riporto in appendice alcune note di lettura. L‟autrice, Ayn Rand, nata nel 1905 a San Pietroburgo, vi crebbe in una famiglia agiata che tuttavia andò incontro a miseria e umiliazioni in seguito alla rivoluzione d‟Ottobre. Nel „26 riuscì a trasferirsi negli USA, dove divenne una scrittrice molto popolare, soprattutto grazie al romanzo The Fountainhead, pubblicato nel „43 (il titolo italiano è La Fonte meravigliosa). Nel „49 ne fu tratto l‟omonimo film con Gary Cooper e Patricia O‟Neal. Traendo spunto dalla vita del celebre architetto Frank Lloyd Wright (creatore di opere quali il Museo Salomon Guggenheim a New York, o la Casa sulla cascata), il romanzo narra la storia di Howard Roark (in cui l‟autrice trasferisce la figura di Wright), a cominciare dalla sua espulsione dalla facoltà di architettura unicamente perché si ostina a non voler imparare a progettare alla maniera di tutti gli altri, cioè secondo lo stile neoclassico e inneggiante alla tradizione ellenica, allora imperante negli USA (chi è stato negli Stati Uniti non può non essersi meravigliato di fronte all‟abbondanza di edifici con facciate in stile dorico o comunque grecizzante, alla ricerca della celebrazione di un passato di cui viene da chiedersi quanto e perché possa essere sentito dagli americani come loro). Roark ha già deciso fin dall‟inizio che non lavorerà come tutti gli altri, e soprattutto non scenderà mai a compromessi. In questo trova un solo maestro in un architetto anziano e scorbutico, l‟unico che riconosce il suo genio e in certo senso lo designa quale suo erede, pur predicendogli che dovrà affrontare molte amarezze, rifiuti, stenti perché non troverà lavoro. Come effettivamente accade. La figura di Roark risalta ancor di più dal confronto–contrasto con il suo compagno di studi il quale, non essendo affatto un genio, trae vantaggio dall‟espulsione di Roark dall‟ateneo perché viene chiamato in sua vece dal più prestigioso studio di architettura di NY, dove farà una brillante carriera. Non solo: costui dovrà fare i conti con la sua cattiva coscienza che lo rende antipatico, insicuro, e perfino colpevole di un omicidio preterintenzionale nei confronti dell‟anziano socio del principale. Ad ogni nuova commissione, poiché non è in grado di progettare da sé, si reca a chiedere aiuto a Roark, che pazientemente corregge i disegni dell‟ex–compagno, pregandolo però di non insistere nel volerlo a lavorare con sé. Ovviamente, il libro è anche e soprattutto una storia d‟amore: Roark, proprio nel periodo in cui è in povertà e lavora come operaio alle cave di granito, viene avvicinato dalla bellissima Dominique, giornalista, figlia ribelle dell‟architetto presso cui Roark avrebbe potuto essere assunto. La giovane donna, in perenne conflitto col padre, è capricciosa e disinibita, e fa di tutto per accostare Roark, non sapendo chi egli sia, solo perché affascinata dalla sua figura virile e dai suoi modi sicuri e indomiti. Riesce ad andarci a letto e Roark, anche se farà in modo di rincontrarla, non vorrà legarla a sé, sapendo che ella lo richiamerebbe prima o poi al senso comune in nome della famiglia o di altri valori che contrasterebbero la sua vocazione e libertà di pensiero. La donna, abituata a farsi corteggiare e a non prendere sul serio nessun uomo, ora capisce che si sta lasciando sfuggire l‟occasione della sua vita. Approva tuttavia la decisione di Roark di lasciarla libera, e si accorge così della propria meschinità, perché è stata toccata nelle sue stesse aspirazioni, e a questo punto fa in modo di sposare l‟altro giovane architetto, quello dalla personalità inconsistente. Non paga di tutto ciò, quando incontra un ricco capitalista, nle romanzo proprietario di mezza New York, editore dei giornali più letti dalla massa e padrone degli intellettuali che dettano le leggi del pensare comune, al fine di far assegnare un lavoro importante al marito – che non stima affatto – si offre mercenariamente al miliardario. In modo imprevisto, costui le fa un‟offerta ancora più inaspettata: non la tratterà da prostituta ma, dimostrandosi persona sensibile, alla ricerca anch‟egli di un senso della vita, le chiede di sposarlo. Lei sa di non amarlo, ma accetta ugualmente, separandosi in tutta fretta dal primo marito e votandosi ad espiare ancora una volta la propria colpa di non aver seguito Roark nella difficile strada dell‟ambizione. Su questa strada lo incontrerà nuovamente, quando il miliardario incarica Roark di costruire 6 per sé e la moglie una villa in campagna, e altro ancora. E di nuovo Roark, come fosse un maestro zen, le mostra che lei non è pronta a lasciare il marito per lui. Dunque, astinenza per entrambi. E‟ quindi la volta della costruzione di un villaggio di vacanza per i ceti medi. L‟architetto incapace e sleale chiede ancora aiuto all‟antico compagno di studi Roark, che ancora una volta accetta di aiutarlo, facendogli firmare una carta in cui si dice che nulla verrà mutato del suo progetto. Ma le pressioni delle banche committenti e del governo fanno sì che l‟altro ceda, come era prevedibile. Roark passa all‟azione coinvolgendo Dominique: con il suo aiuto, fa esplodere le case ancora in costruzione, consegnandosi poi alla polizia. Lei lo ripaga provocando amorosamente uno scandalo in modo da legare finalmente i loro destini. Il marito miliardario vorrebbe aiutare Roark, ma poi cede alle pressioni del comitato di redazione e, per non chiudere il suo giornale più importante (il Banner, cioè “la bandiera”), vigliaccamente abiura La moglie lo lascia immediatamente, e affronta l‟opinione pubblica, mentre Roark al processo si autodifende (come aveva già fatto in passato) con una lunga arringa che è un riassunto della storia dell‟umanità dal punto di vista del genio creatore: l‟Io come fonte del pensiero e del progresso, l‟Io eroe che persegue mete più alte, l‟Io sacro su cui nessuno può mettere le mani, etc. Il finale è particolarmente efficace, perché gli eventi rivelano la vera anima dei protagonisti. Roark viene assolto (ovviamente) ed è il suo e loro trionfo. Non è data alcuna importanza alla giuridicità del verdetto: non si sa perché Roark viene riconosciuto “non colpevole”, come lui stesso si era dichiarato. A parte questo, la scena finale vede lei che sale su un montacarichi sul più alto grattacielo di New York, dove alla sommità l‟attende lui, la cui figura si staglia immobile contro il cielo azzurro, mentre tutto il resto è sempre più piccolo... Ciò che interessa il nostro tema è la professione della coincidenza dell‟Io con la sua fonte: di Roark si dice solamente che dall‟età di dieci anni ha coltivato il sogno di diventare architetto, per la propria soddisfazione personale e nella consapevolezza di servire l‟umanità con i suo genio creativo. Giusto, ma l‟autrice non ci dice nulla della fonte in Roark stesso di questa vocazione (il protagonista la tratta come tale, pur non usando questa parola). Al contrario, la vicenda è tratteggiata in modo più compiuto per quel che riguarda la protagonista femminile, nella quale manifestamente l‟autrice si identifica. E‟ chiaro che per lei la fonte è lui, e inoltre è almeno un po‟ abbozzata la storia del rapporto della donna col proprio padre, mentre in Roark tutto ciò è eliso, tagliato via. E‟, appunto, il taglio alla fonte. NOTE [1] Tutti boy–scouts, dunque? Nel boyscoutismo il problema della lealtà è totalmente ribattuto sull‟Altro, nel duplice senso: l‟Altro è rappresentato anzitutto dai valori, o principi, cui si deve lealtà (legge scout, promessa, etc.); e l‟Altro è l‟educando stesso, che deve essere sempre degno di meritare la fiducia altrui, come nel celebre e ridicolizzante esempio dello scout che fa attraversare la strada alla vecchietta. La lealtà è cioè beghinizzata. Nel pensiero di natura si ha cura di essere leali anzitutto nei confronti dei propri moti pulsionali, o degli accaduti psichici. E‟ così che intendo anche la lealtà verso l‟amico, cioè verso chi è, o è stato fino a un certo momento, partner del mio stesso moto. Fare memoria della fonte del moto è tenere alla fonte dell‟amicizia stessa. [2] Al contrario, la patologia è indisponente, come si dice comunemente di qualcuno permaloso, spigoloso, scostante. Di un soggetto sano si dovrebbe dire appunto predisponente. A ciò mira ogni analisi, come dimostra l‟attenzione a tutto ciò che entra a far parte del setting, che non ha altra ragion d‟essere che non sia questo lavoro a disporre nuovamente il soggetto all‟apporto dell‟altro. [3] Se un secolo fa Tomasi di Lampedusa poteva far dire al principe Fabrizio, protagonista del Gattopardo, di non avere mai visto l‟ombelico di sua moglie (“sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico. È giusto questo?”), oggi, al contrario, è forse la parte del corpo femminile che viene offerta per prima alla vista. Ciò autorizza a dire che c‟è stato un progresso della civiltà e dei suoi costumi? Chi può dirlo. [4] L‟espressione let it go dice molto di più del let it be, che non è affatto solo una canzonetta per nostalgici dei Beatles, ma contiene un invito compromissorio a cessare ogni condotta belligerante, perché pace sia. Resta da vedere se non si tratti di pax romana. Il pensiero va ad un‟acuta quanto amara osservazione freudiana sul matrimonio, allorché definisce sicuro quel matrimonio in cui la donna ha trovato il modo di assoggettare a sé il marito infantilizzandolo. Appunto: Lo lascerà essere, ma non andare. Tutto il nostro lavoro è volto alla ricerca e alla proposizione di una legge del legame, anche fra uomo e donna, che lasci entrambi liberi di andare, cioè di seguire il proprio moto, in compagnia del proprio partner. 7 [5] Come Melville in Moby Dick: fa la classificazione dei cetacei...; come ogni diario giovanile che si rispetti. [6] Qui andrebbe sviluppato il paragone con il lemma “niente” e il suo comando. [7] Lasciarsi trovare è in fondo la stessa cosa che lasciarsi prendere, come ognuno sa, compreso ogni bambino che giochi a farsi prendere dall‟adulto. Infatti, prima della nevrosi il pensiero di essere presi è anch‟esso piacevole. Nella nevrosi ossessiva si mettono in atto strategie defatiganti per confermare a sé e all‟altro che non si vuole essere presi. Nella guarigione il soggetto nuovamente si permette di permettere all’altro di prendere i propri pensieri (non è virtuosismo lessicale: l‟ossessivo è imperniato, avvitato su questo controllo del moto a due, e ha ragione, perché sa che non è teatrino). L‟unica condizione è che l‟altro, cioè l‟analista, non faccia troppo… il guardone. Questo punto concerne la cosiddetta astinenza dell‟analista, ovvero la sua partecipazione alla regola analitica. Non è questa la sede per sviluppare il punto: informo che è stato trattato soprattutto nel Seminario di LP dedicato alla tecnica freudiana (1996–1997), oltre che nel saggio di G.B. Contri Il bene dell’analista. [8] E‟ curioso osservare, sulla scia di quanto propone M. Delia Contri nella sua scheda a proposito di Atene e Gerusalemme, che in tempi recenti sia la civiltà occidentale (USA, capitalismo) che quella orientale (penso in particolare all‟induismo, al buddismo zen, alle filosofie orientali in genere) sono unanimi a riguardo del problema del nesso tra l‟Io e l‟Es, o tra l‟Io e il desiderio. I) L‟Occidente tratta l‟Io come irrelato, astrattamente razionale, da sottomettere a dei principii etici, come se il pensiero sorgesse dall‟Io tutto cosciente. E‟ una menzogna. Alcuni esempi: 1) il dream americano: «immagina quel che vuoi fare, e poi fallo!»: sarà l‟impotenza assicurata. 2) Nella storia recente della chiesa cattolica, Papa Giovanni XXIII ha incitato i giovani dicendo loro che «la vita non è che la realizzazione del sogno della giovinezza». E‟ adolescenzialismo, che non si cura degli inizi del pensiero in quegli stessi giovani. 3) Il culto dell‟individualismo, di cui tratta il romanzo di Ayn Rand che commento in appendice a questa mia relazione: il protagonista, architetto originale e di successo ha sempre sognato di fare l‟architetto, cioè da quando aveva 10 anni. Nulla è detto del primo decennio, magistralmente occultato. L‟Io non ha avuto un‟infanzia: ecco un altro taglio alla fonte della competenza. II) A Oriente si nega l‟Io a favore di teorie fusionali con la realtà: l‟anima del mondo, la natura, la sobornost dei russi, la comunione spirituale con tutte le cose: si veda la proposta del Dalai Lama nel suo ultimo libro: liberare la mente dai tre veleni: la rabbia, l‟illusione e... il desiderio stesso. Sono due modalità di un unico Mondo che nega il rapporto tra l‟Io e l‟Es. [9] Come assumere tale eccitamento? Subito si affaccerà l‟autoaccusa, ad esempio di essere permaloso o, come si dice, suscettibile: il nevrotico non si accorge che proprio questa suscettibilità può essere una virtù e un indice di salute psichica se solo la si distingue dall‟affetto del fastidio. Occorre distinguere l‟essere suscettibili dall‟essere infastiditi: comprendere questo distinguo è già, a mio avviso, un indice di guarigione. [10] S. Freud, Pulsioni e loro destini, in OSF, Volume VIII, pag. 19, Bollati-Boringhieri, Torino [11] S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, in OSF, Volume X, pag. 266, Bollati-Boringhieri, Torino [12] Cfr. S. Freud, L’Io e l’Es, in OSF, Volume IX, pag. 488, Bollati-Boringhieri, Torino [13] La centralità di questo punto mi si è presentata con evidenza nella mia storia personale soprattutto grazie ad un sogno che feci molti anni fa, in cui ammiravo tutta una collezione di quadri dipinti da un mio collega analista più anzi ano di me, noto a qualcuno dei presenti e pittore: G. Bonora. Guardavo questi quadri e dicevo a me stesso: «Non sarò mai bon–ora». Ora, poiché l‟aspirazione a diventare pittore non è mai stata presente in me, era chiaro che il sogno si riferiva invece all‟aspirazione a diventare analista come quel pittore, aspirazione che invece in quegli anni avvertivo molto acutamente. Non sarò mai alla buon’ora, non verrà mai il momento buono per essere come lui. L‟identificazione privilegia immancabilmente il vedere, mentre Freud è arrivato molto presto a caratterizzare l‟Io come dotato di un berretto uditivo. [14] Si pensi al film di Trouffaut Jules et Jim, in cui la bellezza della protagonista femminile viene individuata dai due uomini perché somigliante, anzi identica, all‟effigie di pietra di un volto femminile: si innamorano della donna che assomiglia a quel volto di pietra. Non dico che la cosa sia impossibile, perché anche un ritratto può rendere i segni di un moto (dicevo prima della mimica del volto), ma la bellezza non è mai l‟elisione del moto, se non nella patologia, fino alla necrofilia, che trova il cadavere eccitante. [15] Penso a Mondrian e al suo neoplasticismo: vi è una rielaborazione dei rapporti come metafisica dei rapporti, filosofia idealistica e, in Mondrian, la teosofia propria del secolo scorso. © Studium Cartello – 2007 Vietata la riproduzione anche parziale del presente testo con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine senza previa autorizzazione del proprietario del Copyright 8