CAPITOLO 4
LE STELLE
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S
iamo partiti dalla nostra Terra e abbiamo esplorato il Sistema solare. Siamo passati poi alla Galassia e le sue popolazioni, per renderci conto
che viviamo in un isolato di una immensa megalopoli stellare, che a sua volta fa parte di un continente di altre mega città in uno spazio sconfinato.
Vediamo ora un po’ più in dettaglio le caratteristiche di
quelli che sono i principali «mattoni» dell’Universo: la grande varietà di stelle, e con quali mezzi siamo riusciti a capire di cosa son
fatte, come si formano, perché brillano, come evolvono e muoiono
questi oggetti così lontani e intangibili.
Parleremo prima delle stelle in generale e poi del Sole come
stella tipica e l’unica studiata in dettaglio perché, grazie alla sua
vicinanza, è osservabile come una superficie estesa e non come
un punto. Grande vantaggio, se si considera che la stella più vicina
si trova a poco più di 4 anni luce e il Sole a circa 8 minuti luce.
Gli astronomi definiscono stella un aggregato di materia gassosa
che brilla di luce propria in conseguenza delle reazioni nucleari
che avvengono nel suo interno. Le condizioni fisiche (temperatura e densità) necessarie all’innesco di queste reazioni nucleari
si verificano soltanto se la massa della stella è almeno fra 1000
e 10.000 volte quella della Terra. Giove, che ha una massa 318
volte maggiore del nostro globo, è ancora troppo piccolo, sebbene,
come Saturno, Urano e Nettuno, irradi più calore di quanto non ne
riceva dal Sole: forse un residuo del calore accumulato al tempo
della sua formazione, di origine gravitazionale e non nucleare.
Esiste una grandissima varietà di stelle: si va da stelle più piccole di quelle che fanno parte del sistema binario Wolf 424 situato
nella Vergine e che hanno una massa di 0,07 volte quella del Sole;
a stelle massicce come quella di Plaskett, un altro sistema binario
composto di due stelle, ciascuna 90 volte più grossa del Sole. La
coppia si scorge anche a occhio nudo nella costellazione dell’Unicorno, circa a metà strada fra Procione e Betelgeuse.
Abbiamo stelle isolate e stelle a gruppi, e alcune così vicine fra
loro da essere praticamente a contatto, quale, per esempio, le due
componenti del sistema doppio W Ursae Maioris. Abbiamo già
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nominato S Doradus che è la stella con la magnitudine assoluta
più grande di tutte e pari a -9,5. Tuttavia, quando le stelle esplodono alla maniera delle supernovae, possono raggiungere anche
una magnitudine di -19 ed eguagliare in splendore l’intera loro
galassia. Se poi si considerasse il nucleo di una galassia simile alla
nostra come una stella unica, si arriverebbe a una magnitudine
assoluta stimabile a -22,8, che però non è ancora il massimo dei
massimi, se pensiamo che la quasar 3C 279, che si crede distante
circa 6 miliardi di anni luce, nel 1975 ebbe una fluttuazione luminosa che al suo culmine raggiunse la magnitudine -31, uguale a
100.000 miliardi di volte quella del Sole.
Dato che fra le stelle c’è una specie di distribuzione gerarchica
di luminosità, ci possiamo immaginare una scala piena di stelle
gradino per gradino, in ordine di magnitudine assoluta. Noteremo
che le più brillanti in cima alla scala sono pochissime, mentre i
gradini inferiori sono via via sempre più popolati di stelle sempre
più deboli. Non basta: le più luminose, oltre ad avere diversi colori,
dal rosso al giallo al bianco-azzurro, sono anche le più voluminose,
al contrario delle piccole stelle «nane» dei gradini più bassi che
(salvo eccezioni quali le «nane bianche») tendono a un rosso sempre più cupo fino all’invisibilità.
Come i metalli che dal rosso arrivano al «calor bianco» coll’aumentare della temperatura, così le stelle rosse hanno una temperatura superficiale più bassa delle stelle bianche, e quanto più
calda è la superficie di una stella tanto maggiore è l’energia emessa per cm2. Quest’ultima varia secondo la quarta potenza della
temperatura, e quindi una stella avente una temperatura 2 volte
maggiore di un’altra delle stesse dimensioni, emette non il doppio,
ma 24, cioè 16 volte più luce. Pertanto le stelle più deboli della
scala delle luminosità sono rosse: e non soltanto sono piccole, ma
anche relativamente fredde, 2000 o 3000 gradi assoluti. ••1
La grande varietà di stelle non finisce qui. Esistono stelle che
ruotano tanto rapidamente da diventare oblunghe, altre che pulsano con maestosa lentezza come le Cefeidi, oppure vibrano come
corde di violino. Alcune stelle hanno atmosfere estesissime e rarefatte, altre sono dense al punto che la loro superficie è solida.
Si crede che in alcune nebulose come quella d’Orione delle stelle
stiano nascendo, mentre altre muoiono nelle più diverse età, e
altre ancora sono vecchie quanto la Galassia (circa 14 miliardi
d’anni) e vivranno ancora per moltissimo tempo. Vi sono stelle che
«sputano» nello spazio grandi quantità di gas, e altre che «succhiano» con la loro forza gravitazionale stelle vicine trasferendone
su di sé la materia e cambiando il loro processo evolutivo. Abbiamo stelle con fortissimi campi magnetici che raggiungono al limite
i 35.000 gauss, mentre in confronto il Sole ha un campo magne120
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CAPITOLO 4
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••1 La stella
Altair osservata con
l’interferometro ci mostra il
suo vero aspetto. La forma
ellissoidale schiacciata è
dovuta alla rapida rotazione
stellare (evidenziata dalla
griglia sovrapposta).
Questa è un’immagine
straordinaria, ai limiti
della moderna tecnologia
osservativa, poiché le stelle
sono talmente lontane che
appaiono come puntini
anche nei più potenti
telescopi (il bordo dentellato
è un effetto strumentale).
La barretta rappresenta 1
millisecondo d’arco, quindi
per dare l’idea di come Altair
si vede nel cielo dovremmo
porre questa pagina a circa
2 km di distanza!
(CHARA, J.MONNIER)
tico generale inferiore a 1 gauss. Ma anche quando appartengono
allo stesso tipo, non c’è stella che sia davvero identica a un’altra.
Tuttavia, conoscere non significa solo notare le differenze, ma
anche le somiglianze. È per questo motivo che noi abbiamo immaginato di dividere le stelle in quella scala a gradini dove si distribuivano secondo la magnitudine e il colore, cui occorre però
aggiungere importanti caratteristiche fisiche quali lo spettro, il diametro e la massa.
DIMMI CHE SPETTRO HAI E TI DIRÒ CHI SEI
Spettro è il nome che Newton diede alla banda continua di colori
formata da un prisma quando viene colpito da un raggio di luce,
e lo spettroscopio, costituito essenzialmente da un prisma, è lo
strumento che serve ad analizzare la luce, compresa quella delle
stelle. Furono proprio le stelle, che, intorno al 1863, l’astronomo e
gesuita italiano Padre Angelo Secchi prese a esaminare con uno
spettroscopio. Altri prima di lui avevano già tentato, ma forse egli
ebbe uno scopo più preciso. Lo scrive egli stesso: «In sostanza,
voglio vedere se, proprio come le stelle sono senza numero, anche
la loro composizione sia proporzionalmente variata». Egli scoprì
invece che, per quanto le stelle siano innumerabili, i loro spettri
possono ridursi a poche forme distinte e ben definite che per brevità chiamò «tipi». Più in particolare, egli aveva esaminato 4000
stelle che risultavano divisibili in 5 tipi, con le stelle bianche ad
alta temperatura da una parte della scala, e all’estremo opposto le
stelle rosse a bassa temperatura.
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Occorre qui precisare la differenza fra spettro continuo e spettro
di righe. La luce bianca emessa da una lampadina o da un metallo
incandescente ha uno spettro continuo, cioè una striscia colorata sfumata dal rosso al violetto. Un gas rarefatto portato all’incandescenza
emette invece uno spettro di righe luminose caratteristiche per ciascun elemento. Ad esempio, l’idrogeno emette una riga nel rosso,
una nel verde-azzurro e una nell’estremo violetto; il sodio è contraddistinto da due forti righe nel giallo; il ferro (naturalmente allo stato
gassoso) da numerosissime righe lungo tutto lo spettro. Quando un
gas rarefatto viene frapposto fra una sorgente più calda e l’osservatore, nello spettro continuo della sorgente si vedono apparire delle righe
scure al posto di quelle luminose. Le righe brillanti si chiamano anche
«righe d’emissione», quelle scure «righe d’assorbimento». ••2
Lo spettro del Sole e delle stelle è uno spettro continuo solcato
da righe d’assorbimento, e qualche volta d’emissione, per mezzo delle quali è possibile identificare gli elementi chimici presenti
nelle atmosfere di questi corpi, e la loro quantità in percentuale.
Da tali righe è possibile dedurre anche la temperatura (e molte altre caratteristiche fisiche, quali: pressione, campi magnetici, moti
turbolenti dei gas ecc.) perché più alta è la temperatura più un
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••2 Spettri stellari per
le diverse classi spettrali.
Spostandosi nella figura
dall’alto verso il basso, la
classe spettrale avanza da
O a M (a sinistra), mentre
la temperatura stellare
diminuisce da 35.000 a
3.000 gradi circa. Si nota
che per le prime classi
spettrali, ovvero per le stelle
calde, sono predominanti
alcune forti righe di
assorbimento: si tratta
dell’idrogeno. Diversamente
per le classi spettrali più
avanzate, ovvero per le stelle
più fredde, sono visibili
numerosissime righe sottili:
si tratta dei metalli.
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CLASSE
SPETTRALE
TEMPERATURA
SUPERFICIALE K
COLORE
CARATTERISTICHE SPETTRALI
W
sopra i 35.000
bianco-azzurro
righe brillanti, domina l’elio
O
35.000 - 30.000
bianco-azzurro
dominano le righe dell’elio
B
30.000 - 15.000
bianco-azzurro
righe dell’elio e dell’idrogeno
A
circa 10.000
bianco
dominano le righe dell’idrogeno
F
circa 7000
bianco-giallo
righe dell’idrogeno e
di metalli ionizzati
G
circa 6000
giallo
righe dell’idrogeno e metalli
neutri e ionizzati
K
circa 5000
arancione
metalli neutri, dominano le
righe del calcio neutro e ionizzato
M
circa 3000
rosso-arancio
dominano le bande
dell’ossido di titanio
S
3000 - 2000
rosso
dominano le bande
dell’ossido di zirconio
R
3000 - 1500
rosso
dominano le bande dei
composti del carbonio
Nella scala di temperature
assolute, lo zero assoluto
corrisponde a -273°
centigradi; che sia
assoluto si spiega col fatto
che la temperatura è una
misura della velocità di
agitazione delle particelle
(la velocità d’agitazione
delle particelle cresce
al crescere della
temperatura): lo stato
di velocità minima –
e quindi di energia
minima – corrisponde
alla temperatura minima
possibile ed è chiamato
zero assoluto (0 Kelvin).
atomo si ionizza; perde, cioè, un numero crescente di elettroni,
producendo diverse serie di righe spettrali. È quindi evidente che
deve esistere una relazione anche fra colore e caratteristiche dello spettro di righe, essendo ambedue essenzialmente dipendenti
dalla temperatura. Nella tabella qui sopra si riportano le principali
caratteristiche degli spettri stellari divisi secondo la classificazione
dell’Osservatorio di Harvard (Stati Uniti) nei tipi W, O, B, A, F, G, K,
M, S, R, N. Per fare qualche esempio concreto, nella costellazione
di Orione la stella Betelgeuse, di colore rossastro, ha uno spettro
molto diverso dall’azzurra Rigel: la prima è di tipo M e la seconda
di tipo B. Il Sole è una stella gialla di tipo G, anzi G2, dato che ogni
classe (o tipo) si suddivide in sottoclassi indicate con le cifre da 0
a 9: Betelgeuse è M2 e Rigel B8, mentre Sirio è di classe A0.
Alla categoria W appartengono le stelle Wolf-Rayet (dal nome
dei francesi Charles-Joseph-Étienne Wolf e Georges-Antoine-Pons
Rayet, che le scoprirono): sono le più calde che si conoscano e
abbastanza simili alle stelle classificate con la lettera O, ma molto
più ricche di righe di emissioni. Le stelle R e N, oggi più spesso indicate con la lettera C, simbolo del carbonio, e le S hanno
temperature simili alla M, ma ne differiscono per la composizione
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chimica. Nei confronti delle M, le C hanno maggiore il rapporto
carbonio/ossigeno; le S il rapporto terre rare/titanio.
La magnitudine assoluta di una stella dipende sia dalla sua temperatura che dalle sue dimensioni. Dopo aver studiato un certo
numero di spettri di stelle di cui era nota la distanza e quindi la
magnitudine assoluta, il danese Ejnar Hertzsprung (al quale si deve
l’aver introdotto proprio la nozione di magnitudine assoluta o intrinseca) nel 1905 trovò una relazione fra temperatura superficiale
e luminosità delle stelle. Indipendentemente, e senza saper nulla
del lavoro di Hertzsprung, che aveva
pubblicato il suo lavoro in una rivista
non astronomica e in forma semipopolare tanto da passare inosservato,
l’americano Henry Norris Russell arrivò nel 1913 alla stessa conclusione
dell’esistenza di una relazione fra la
luminosità delle stelle, il loro colore e
la loro classe spettrale. ••3
Nacque in questo modo il famoso
diagramma Hertzsprung-Russell o diagramma H-R, il quale evidenzia come
la maggior parte delle stelle si addensi su una retta, chiamata «sequenza
principale», che va dalle stelle più calde e più luminose a quelle più fredde
e più deboli. Il diagramma mostra poi
un’altra regione popolata di stelle ad
alta luminosità e bassa temperatura
come Betelgeuse e Antares. Quindi, le stelle rosse sono divise in due
gruppi ben distinti: uno di alta e uno di bassa luminosità. Dato che,
come sappiamo, a uguale colore corrisponde uguale temperatura,
la differenza in luminosità non può dipendere che da differenza di
dimensioni. Perciò i due gruppi di stelle vengono chiamati «giganti»
e «nane». In seguito sono state introdotte ulteriori suddivisioni: «supergiganti», «subgiganti» e «subnane». Infine, si conosce un altro
gruppetto di stelle di colore bianco o giallastro e di bassissima luminosità, dette «nane bianche»: si tratta di stelle di piccolo diametro e
alta temperatura. Fuori diagramma, ossia molto più in basso e a sinistra, cadrebbero le pulsar, ancora più calde e più piccole delle nane
bianche. Se una nana bianca ha un diametro di circa 10.000 km e
una temperatura superficiale che oscilla intorno ai 50-100.000 °C,
una pulsar, o stella a neutroni, avrebbe un diametro dell’ordine di 10
km e una temperatura che arriva al milione di gradi centigradi. ••4
Determinare il diametro delle stelle è un grosso problema perché
anche i maggiori telescopi ci mostrano soltanto dei punti e non dei
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••3 Relazione
magnitudine-colore.
Nel grafico la magnitudine
assoluta (M) è rapportata
al colore (indice B-V) per
tutte le stelle «vicine»
alla Terra, cioè distanti
meno di 100 parsec. È
evidente che le stelle si
distribuiscono in zone ben
definite del diagramma,
e questo fatto rivela la
presenza di profonde
correlazioni fisiche.
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••4 Il diagramma di
Hertzsprung-Russell
indica una relazione tra la
temperatura delle stelle e
la magnitudine assoluta.
La distribuzione nel
diagramma H-R consente
di distribuire le stelle
entro differenti classi di
luminosità. Dall’alto verso
il basso, con luminosità
decrescente, abbiamo le
Supergiganti, le Giganti,
la Sequenza principale
(obliqua) e le Nane
bianche. (ESO)
dischetti. Il fisico americano Albert Abraham Michelson, applicando
nel 1930 la tecnica dell’interferometro, riuscì a misurare il diametro
di alcune stelle supergiganti relativamente vicine quali Antares e Betelgeuse: la prima risultò avere un diametro circa 400 volte maggiore
di quello del Sole, e la seconda 2 o 300 volte. Ci si serve anche di
altri metodi, quali l’occultazione di una stella da parte della Luna,
come nel caso di m Geminorum: una gigante rossa di classe spettrale M3, che giace vicino all’eclittica e perciò viene frequentemente
occultata dal nostro satellite. Da queste misure eseguite nel 1974, è
risultato che m Geminorum, ammesso
che si trovi a una distanza di una sessantina di parsec, avrebbe un diametro
81 volte quello del Sole, e perciò abbastanza grande da contenere l’orbita di
Mercurio. Tuttavia, per la maggior parte
delle stelle, si usa un metodo indiretto
basato sulla conoscenza della temperatura e della magnitudine assoluta.
Data la temperatura, la legge di StefanBoltzmann (che dice che la radiazione
emessa da un «corpo nero» a tutte le
lunghezze d’onda per cm2 e per secondo è direttamente proporzionale alla
quarta potenza della temperatura) ci dà
l’energia irradiata dalla stella per cm2 e
per secondo. Dalla magnitudine assoluta si ricava il rapporto fra l’energia irradiata dalla stella e quella irradiata dal
Sole; e quindi è possibile calcolare il diametro della stella prendendo
come unità di misura quello solare. Si trova che esistono stelle con
diametri centinaia di volte più grandi di quello del Sole, e altre con
diametri pari a pochi millesimi del diametro solare. Così i diametri
stellari variano da 10.000 km (o ancora meno per le stelle a neutroni)
a un miliardo e più di chilometri, sebbene la stragrande maggioranza
delle stelle della sequenza principale del diagramma di Russell abbia
diametri compresi fra 0,5 (nane rosse) e 10 diametri solari. ••5
Le masse si possono misurare direttamente soltanto in pochissimi casi, come le stelle doppie di cui si conoscano le orbite e la
distanza. Però, nel 1924 Arthur Stanley Eddington trovò per via
teorica l’esistenza di una relazione fra massa e luminosità: le stelle
di massa maggiore sono anche le più luminose. Si trattava di una
relazione già conosciuta empiricamente sulla base di poche stelle di
cui erano note la massa e la luminosità. Le masse variano entro limiti assai più ristretti dei volumi, passando da circa 0,2 a 50 (e forse
100) volte la massa solare. Di conseguenza, la densità media delle
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giganti rosse risulta dell’ordine di 0,0001
g/cm3, mentre quella delle nane bianche
è di 105 g/cm3. Consideriamo alcuni casi:
il Sole, una stella media, ha una densità
poco maggiore di quella dell’acqua, ovvero 1,41 g/cm3; Antares, una supergigante
rossa, ha una densità pari a un milionesimo di quella dell’acqua; una nana bianca
come la compagna di Sirio, Sirio B, avente
la stessa massa del Sole ma un diametro
appena 4 volte quello della Terra, raggiunge una densità 60.000 volte quella dell’acqua. A queste enormi densità (del resto
ampiamente superate dalle pulsar per non
parlare di alcune specie di «buchi neri»)
il gas che costituisce la nana bianca non
è più un gas perfetto, eccetto che in una
sottile atmosfera che avvolge la stella, ma
si trova in uno stato che il fisico italiano Enrico Fermi chiamò «degenerato».
Il gas in queste condizioni si comporta
più come un metallo solido che come un
gas: a differenza dei gas è altamente conduttivo, e inoltre la pressione è proporzionale a una potenza della densità, mentre
nei gas è proporzionale al prodotto della
temperatura per la densità. Tale proprietà
del gas degenerato ha grande importanza per la comprensione delle ultime fasi
dell’evoluzione delle stelle, come vedremo
più avanti.
ALCUNI TIPI DI STELLE
Si potrebbe pensare che a determinare la
varietà delle stelle sia la loro composizione
chimica, e, infatti, così si credeva alla fine
dell’Ottocento. Vedendo che gli spettri di
certe stelle non avevano le righe dell’elio
e quelle dell’idrogeno erano spesso molto
deboli, si pensava che esse non contenessero elio, che l’idrogeno fosse molto scarso e che invece fossero composte
quasi esclusivamente di metalli, perché
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••5 Confronto fra le dimensioni della Terra e dei
pianeti, rispetto a quelle del Sole e delle stelle. In alto
sono mostrati la Terra (1) e i grandi pianeti (2) del Sistema
Solare; al centro ci sono le normali stelle nane come il Sole
(3) e le stelle giganti (4); in basso le supergiganti (5) e (6).
L’oggetto più grande di ciascuna figura compare come il più
piccolo nella figura successiva. Alcune stelle riportate sono
tra le più luminose del cielo notturno e tutte sono visibili
a occhio nudo, tranne la più piccola (Wolf 359) e la più
grande (VY Canis Majoris) che è molto lontana dalla Terra.
(ADATTATO DA WIKIMEDIA COMMONS)
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le righe dei metalli erano le più numerose. La scienza dell’astrofisica era nella sua
infanzia, molte leggi non erano state ancora elaborate e di conseguenza quei primi
astrofisici non sospettavano nemmeno di
sbagliarsi in pieno. Infatti, dovevano imparare che lo spettro di un gas non dipende
soltanto dalla sua composizione, ma anche dalla temperatura. Quando nello spettro di una stella mancano le righe spettrali
di un qualche elemento, ciò non vuol dire
necessariamente che quel tale elemento
non sia presente, ma potrebbe significare
che la temperatura della stella è inadeguata a produrre le righe dell’elemento in questione. La verità, dunque, è precisamente il
contrario di come pensavano quegli astrofisici, perché sappiamo che l’idrogeno è
l’elemento di gran lunga più abbondante
dell’Universo: 90% in numero di atomi;
l’elio assomma al 9%, e il restante 1% si
suddivide fra tutti gli altri con il predominio in ordine d’abbondanza di ossigeno,
carbonio, azoto, silicio, ferro e magnesio.
Come si vede, non si può giudicare dalla
composizione attuale della Terra o degli
altri pianeti terrestri, i quali hanno perso
gran parte dei gas leggeri che in origine li
costituivano per motivi a cui abbiamo già
accennato nel capitolo sul Sistema solare.
E allora da cosa dipende la grande varietà delle stelle? Dipende quasi esclusivamente dalla massa, la
quale condiziona l’esistenza di ogni stella, come abbiamo visto
parlando dell’evoluzione stellare. Qui ci soffermeremo su alcuni
tipi di stelle, incominciando da quelle chiamate «binarie» e «multiple». Infatti, si direbbe che le stelle amino la compagnia più che
restare isolate, dal momento che almeno i due terzi delle stelle della nostra Galassia sono binarie o multiple, e inoltre si trovano raggruppate in associazioni, in ammassi chiusi o aperti, in galassie.
Ciò non toglie che, fra stella e stella e fatte alcune eccezioni quali le
«binarie a contatto», si spalanchino di solito immensi spazi, come
fra noi e a Centauri, la stella più vicina al Sole, ma nondimeno
distante circa 4 anni luce.
La vicinanza fra le stelle va dunque intesa in senso astronomico.
È come se delle capocchie di spillo (rappresentanti una stella sin-
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gola o multipla) fossero separate in media da una trentina di chilometri. Distanza che tuttavia si riduce a un decimo nel centro della
Galassia o degli ammassi globulari. In confronto, le distanze fra i
pianeti del Sistema solare sono quasi trascurabili; Per sottolineare
quanto relativa sia la vicinanza delle stelle, diremo che due galassie potrebbero passare l’una attraverso all’altra come un fantasma
attraverso un muro, cioè senza che le stelle dell’una corrano il pericolo d’incappare in una stella dell’altra, ma a scontrarsi saranno
soltanto i gas e le polveri interstellari presenti nelle due galassie. È
facile capire la ragione del raggrupparsi delle stelle se pensiamo
che la gravitazione è la legge dominante dell’Universo. Il più semplice esempio di raggruppamento è dato dalle stelle doppie (o binarie), le quali si distinguono in doppie visuali, doppie spettroscopiche e doppie a eclisse. Le prime sono quelle i cui componenti sono
visibili separatamente con i telescopi. Se ne elencano oltre 64.000
e un esempio è offerto dalla binaria Krueger 60: le due stelle girano
l’una intorno all’altra in un periodo di 44,6 anni. Ma l’esempio, per
così dire, più a portata di mano è a Centauri, la più vicina che si
conosca al Sole (4,3 anni luce) e la terza per luminosità apparen128
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••6 Il sistema di Alfa
Centauri. La stella più
vicina alla Terra è in realtà
un sistema triplo. Le due
componenti principali A e
B sono troppo ravvicinate
per essere distinguibili
in queste immagini, che
invece evidenziano la
componente C, ovvero la
minuscola Proxima. (ESO)
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te. Noi dell’emisfero settentrionale ne parliamo poco perché è ben
visibile soltanto nel cielo dell’emisfero australe, vicina a b Centauri,
che è una stella di magnitudine 0,9, e il loro allineamento serve a
indicare la stella più settentrionale della Croce del Sud.
Studiata per la prima volta da Nicolas-Louis de La Caille nel 1752,
al telescopio si rivela composta di due stelle che orbitano l’una intorno all’altra in un periodo poco superiore a 80 anni. L’orbita è così
eccentrica, che la distanza apparente fra le due stelle varia da 2” a
22” d’arco, corrispondenti a una distanza reale da 11 a 35 U.A. In
altri termini, al periastro la loro distanza è paragonabile a quella di
Saturno dal Sole, mentre all’apoastro sono separate da una distanza
simile a quella intermedia fra Nettuno e Plutone dal Sole. ••6
La magnitudine apparente delle due stelle combinate insieme
è 0,1; separate è 0,3 e 1,7. Tenuto conto della distanza, si trova
che la più luminosa ha quasi lo stesso splendore e colore del Sole.
Infatti, è di tipo spettrale G0, mentre il Sole è di tipo spettrale G2.
L’altra è di colore arancione e di tipo spettrale K5. Inoltre, la massa
della prima è uguale a 1,07 masse solari, e quella della seconda
a 0,92. Ma l’interesse per questa coppia è fortemente aumentato
da quando l’astronomo inglese Robert Innes, studiando nel 1915
la regione di a Centauri, scoprì che la coppia era accompagnata
da una terza componente di 11a magnitudine, situata a 2°13’. Gli
venne assegnato il nome di Proxima Centauri, allorché si credeva
che fosse la più vicina a noi, ma ormai sappiamo che la sua distanza è pressappoco uguale a quella di a Centauri.
Proxima si muove in orbita intorno al sistema principale in un
periodo che certuni stimano intorno ai 367.000 anni, altri fino a
800.000. Comunque, la sua distanza dalla coppia non dovrebbe
essere inferiore alle 6700 U.A. Di classe spettrale M e magnitudine assoluta 15,4, Proxima è una nana rossa che va soggetta a
improvvise fluttuazioni di luce: qualcosa come 52 esplosioni sono
state registrate in un periodo di 25 anni. Sarebbe, quindi, una di
quelle stelle variabili che in inglese si chiamano flare (brillamento),
e in italiano stelle a lampo eruttive. Proxima potrebbe essere anche una radiostella: cioè, in queste occasioni, potrebbe emettere,
come spesso succede al Sole nei suoi periodi di attività, non soltanto onde luminose e ultraviolette, ma anche onde radio.
Un’altra interessante notizia è la ricerca eseguita dall’americano
di origine cinese Su-shu Huang sulla possibile esistenza di pianeti
in un sistema binario come a Centauri. In generale le stelle binarie
o multiple non sono adatte per i pianeti perché, anche se ne possiedono, c’è il pericolo che le perturbazioni gravitazionali esercitate
dall’una o dall’altra stella facciano uscire i pianeti dalle regioni favorevoli alla vita, in cui la temperatura non è troppo alta né troppo
bassa, come nel Sistema solare dove si trovano la Terra e Marte.
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Però Huang sostiene che, in un sistema abbastanza separato,
ogni componente potrebbe avere dei pianeti abitabili. Siccome
in a Centauri non si sono riscontrate perturbazioni apprezzabili è
esclusa la presenza di grossi pianeti, ma non è impossibile che dei
pianeti piccoli esistano intorno a una e forse anche all’altra stella.
Due binarie famose sono Sirio e Procione, perché la scoperta
delle loro compagne inaugurò quella che una volta si usava chiamare «l’astronomia dell’invisibile». Poi questo termine è passato
di moda perché oggi, nell’era spaziale, gran parte della ricerca
astronomica si svolge in domini spettrali al di là e al di qua di quelli
ottici. Con quell’espressione ci si riferiva alla possibilità di scoprire
stelle troppo piccole per essere viste, mediante le perturbazioni
che producevano nel moto della compagna visibile. Nel 1844, infatti, Bessel annunciò che Sirio non aveva il moto proprio uniforme
che caratterizza le stelle singole (per moto proprio si intende lo
spostamento angolare sulla volta celeste dovuto al movimento della stella nello spazio), ma mostrava delle deviazioni; e così anche
Procione. Bessel concluse che dovevano avere delle compagne
invisibili, che in realtà vennero scoperte rispettivamente nel 1862
e 1896. Furono le prime nane bianche osservate. Oggi il metodo
è largamente applicato per scoprire pianeti extrasolari, in orbita
cioè attorno a stelle diverse dal Sole, oltre ad altri metodi di cui
parleremo nel capitolo a essi dedicato.
Le binarie spettroscopiche sono stelle con membri tanto vicini
da apparire singole anche al telescopio, ma non all’analisi spettrografica. In questo caso, a meno che il piano delle orbite non sia ad
angolo retto con la nostra visuale, le stelle orbitanti si avvicinano
e si allontanano dalla Terra, come ci rivelano gli spostamenti delle
righe spettrali dovute all’effetto Doppler. Diciamo in breve di cosa
si tratta. Quando una sorgente acustica o luminosa si allontana e
si avvicina all’osservatore, questi riceve onde di lunghezza d’onda maggiore o minore di quelle emesse all’origine. Ne consegue
che le righe spettrali di una stella in moto rispetto all’osservatore
verranno spostate verso il rosso o verso il violetto a seconda che
la stella si allontani o si avvicini. A differenza delle galassie, per
le stelle si tratta di regola di spostamenti minimi. Una stella che
si allontana da noi a 100 km/s avrà le sue righe spostate verso il
rosso di circa 1 Angstrom (unità di misura della lunghezza pari a
1/10.000.000.000 di metro). Un grosso pianeta, come vedremo
alla fine di questo capitolo, provoca spostamenti ancora minori,
ed è pertanto grazie alle moderne tecniche che si è cominciato a
scoprirli solo a partire dal 1995.
La prima binaria spettroscopica venne scoperta da Edward
Charles Pickering nel 1889. Si trattava di Mizar nell’Orsa Maggiore, che già era conosciuta come una doppia fin dal 1650, quando
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••7 SS Leporis è
una stella di «tipo
Algol», che è stata
osservata direttamente
con l’interferometro
dell’ESO. Gli interferometri
impiegano un insieme
di telescopi multipli o
mobili, su distanze di
decine o centinaia di
metri, riuscendo così a
superare il limite storico
dei telescopi singoli per
i quali le stelle, a causa
dell’enorme distanza,
appaiono sempre
puntiformi.
A sinistra: si vedono
le due componenti
separate e anche il flusso
di gas che le collega
(i colori sono aggiunti
artificialmente). Questa
straordinaria immagine
conferma un secolo di
studi teorici. A destra:
ricostruzione di come
dovrebbe apparire la
stella binaria SS Leporis
osservandola da vicino.
(ESO)
Giovan Battista Riccioli l’osservò col suo cannocchiale. Ora Pickering trovava mediante lo spettroscopio applicato a un telescopio
che la stella più brillante della coppia era una coppia a sua volta.
Diciannove anni dopo, nel 1908, Edwin Brand Frost scopriva che
anche la stella più debole di Mizar era una binaria, e così pure
Alcor. Sicché, quando si guarda verso l’Orsa Maggiore, si deve ricordare che in mezzo alla coda dell’Orsa Maggiore ci sono 6 stelle:
le 4 che formano il sistema di Mizar, e le due di Alcor.
Binarie spettroscopiche sono le famose Algol, Capella, Castore
e Spica. La prima di queste è anche una binaria a eclisse. Cioè,
la sua orbita, rispetto alla nostra visuale, è orientata in modo tale
che le stelle componenti si eclissano a vicenda, e perciò noi osserviamo una periodica e regolare variazione di luce. Algol, che si
trova in Perseo, era chiamata dagli Arabi la Stella Demone, e dagli Ebrei Testa di Satana, oppure Lilith: il nome della leggendaria
moglie di Adamo, prima della creazione di Eva. Il fenomeno della
sua variabilità venne notato per la prima volta scientificamente
da Geminiano Montanari (professore di astronomia e matematica
nelle Università di Bologna e Padova) che in un suo libro accenna ad Algol, la cui variabilità aveva incominciato a osservare a
partire dal 1668. Fu uno studio che lo interessò moltissimo in
quanto contribuiva a dare un colpo mortale all’antica credenza
dell’incorruttibilità dei cieli. Le osservazioni di Montanari vennero
confermate da Giacomo Filippo Maraldi nel 1694 e poi da Palitzch, lo scopritore della cometa di Halley, ma John Goodricke fu
quello che per primo annunciò una stima abbastanza precisa del
suo periodo, e avanzò anche l’ipotesi che un compagno «oscuro», orbitante ad altissima velocità intorno alla stella primaria,
producesse l’eclisse. ••7
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Nato in Olanda, a Groninga nel 1764, venne educato in Inghilterra dove morì a soli 22 anni, il 20 aprile 1786. Goodricke era
sordomuto, ma riuscì a essere una specie di astronomo prodigio e,
con Montanari, il capostipite di quella legione di astronomi dilettanti
e professionisti che sono i «variabilisti». La curiosità di scoprire la
variabilità delle stelle, nei primi tempi doveva sembrare particolarmente peccaminosa. Il 12 novembre del 1782, Goodricke scriveva:
«Stanotte ho osservato b Persei, e sono rimasto assai sorpreso di
trovarla di splendore diverso – circa di 4a magnitudine e non di
2a –. L’ho seguita attentamente per quasi un’ora e non credevo a
me stesso che variasse di luminosità, perché non ho mai udito di
alcuna stella che cambiasse così rapidamente di splendore. Ho
pensato che forse dipendesse da un’illusione ottica, un difetto dei
miei occhi, o dalla turbolenza atmosferica: ma la sequenza mostra
che cambia davvero e io non mi sbagliavo…»
Egli continuò a studiarla finché fu visibile, e comunicò il risultato delle osservazioni alla Royal Society in data 15 Maggio 1783,
con una lettera che gli valse una medaglia da parte della Società
medesima. Il periodo trovato inizialmente da Goodricke: 2 giorni,
20 ore, 45 minuti, venne poi corretto da lui stesso in 2 giorni, 20
ore, 49 minuti e 9 secondi, molto vicino a quello vero. Alla fine di
questo periodo, la luminosità di Algol scende dalla magnitudine
2,20 alla magnitudine 3,47 (un indebolimento di circa 3 volte). È
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••8 Epsilon Aurigae viene
parzialmente occultata ogni
27 anni da una compagna
oscura, con un’eclisse che
dura ben 2 anni.
A sinistra: In base all’eclisse
del 1982-84, il fenomeno è
stato riprodotto al computer
ipotizzando un disco ad
anelli, visto obliquamente.
(S. FERLUGA)
A destra: durante l’ultima
eclisse del 2009-2011, il
disco oscuro che avanza
obliquamente davanti alla
stella è stato osservato
dal vero, utilizzando un
interferometro.
(CHARA, J.MONNIER)
un’eclisse che dura per quasi due ore. Si è dimostrato che il sistema è costituito da una primaria di tipo spettrale B8, avente un
diametro 3 volte quello del Sole e una temperatura superficiale di
15.000 K, e una compagna molto meno luminosa di tipo spettrale
K0, una temperatura di 5800 K e un diametro del 20% più grande
della primaria. I centri delle due stelle sono separati da 21 milioni
di km, pari a poco più di un terzo della distanza media fra il Sole
e Mercurio. Una terza stella di tipo F2 orbita intorno alla coppia
in un periodo di 1,87 anni. Si chiama Algol C e si deduce da un
certo numero di sottili righe visibili nello spettro del sistema; ma ci
sarebbe anche una quarta componente, Algol D, che secondo l’astrofisico americano Olin Jenck Eggen sarebbe un corpo con una
massa 3,8 volte quella del Sole, e orbiterebbe intorno al sistema
in 188,4 anni.
Goodricke, che sembra sia morto per una malattia contratta in
conseguenza del freddo e dell’umidità a cui si era esposto durante
le sue osservazioni notturne, aveva suggerito che, oltre ad Algol,
anche b Lyrae e d Cephei fossero variabili spiegabili allo stesso
modo, cioè con dei compagni orbitanti intorno alla loro primaria,
secondo quelle leggi gravitazionali scoperte da Newton più di un
secolo prima, e che ancora non si sapeva se fossero da ritenersi
valide anche al di fuori del Sistema solare. Goodricke aveva ragione, ma non poteva certo immaginarsi la complessità del sistema di
b Lyrae che presenta un periodo di 12 giorni, 22 ore e 22 minuti,
che aumenta di 10 secondi all’anno. È composta da una B8 e
da una secondaria di massa maggiore ma invisibile, o per essere
completamente nascosta da un anello di gas che fuoriesce dalla
primaria oppure perché all’interno di questo anello di gas esiste
una di quelle stelle di massa superiore ad almeno 5 volte la massa
del Sole, che collassando diventano «buchi neri».
Come Algol, anche b Lyrae è visibile a occhio nudo, con una
magnitudine apparente che oscilla fra 3,4 e 4,3. Quasi come e
Aurigae, un caso eccezionalmente interessante sia perché fra le
variabili a eclisse è quella che ha il periodo più lungo: 27,1 anni,
con un’eclisse che dura circa 2 anni; sia perché mentre alcuni pensavano che la compagna fosse un’enorme gigante rossa
e l’eclisse causata dalla sua estesa atmosfera, altri cercavano di
spiegare certe caratteristiche dello spettro che apparivano durante
l’eclisse con la presenza di una stella molto più calda ma molto
piccola da non essere visibile. Insomma, era uno dei tanti problemi che gli astronomi speravano di risolvere quando sarebbero stati
disponibili telescopi spaziali. ••8
E così è stato. Le osservazioni fatte col satellite per l’osservazione
dell’ultravioletto IUE (International Ultraviolet Explorer), non osservabili da Terra perché assorbite dall’atmosfera, hanno mostrato la
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presenza di una compagna molto calda,
la cui luce diventa predominante nell’ultravioletto, o forse di una coppia di stelle
calde e molto vicine fra loro, responsabile
delle caratteristiche spettrali che appaiono durante l’eclisse, mentre osservazioni
nell’infrarosso indicano la presenza di un
esteso disco di polveri che sarebbe responsabile dell’eclisse, forse una nebulosa proto planetaria attorno alla compagna
(o alla binaria) calda.
I periodi delle binarie a eclisse vanno
da un minimo di 80 minuti come nel caso
di WZ Sagittae, ai 27 anni di e Aurigae, ma
più di frequente sono di due o tre giorni.
Si capisce intuitivamente che quando il
periodo è di 80 minuti, le stelle sono a
contatto e sono piccole. Ma un sistema
a contatto è anche b Lyrae che ha un periodo di 13 giorni, ed è costituita da due
componenti molto massicce. Se il nostro
Sole fosse a contatto con una di queste
stelle, viaggerebbe intorno alla compagna
in un periodo di circa 6 ore, e sia il Sole
che la compagna sarebbero stelle molto
deformate dalle reciproche forze mareali.
Si «mangerebbero» l’una con l’altra finché fra le due non venisse ristabilito un
certo equilibrio gravitazionale, ma alla fine
di questo processo, entrambe sarebbero
diventate del tutto diverse. È un destino non troppo raro. Si calcola
che una su mille sia una stella binaria di questa specie. ••9
POPOLAZIONI STELLARI E STELLE GIOVANI E VECCHIE
Al principio del 1900, la maggioranza degli astronomi riteneva che
le stelle doppie, quasi come le cellule biologiche che si suddividono per cariocinesi, nascessero dal suddividersi di una singola
stella in rapidissima rotazione. Del resto Sir George Howard Darwin, secondo figlio del celebre Charles Darwin, pensava che anche
la Luna si fosse separata dagli strati più superficiali della Terra
in modo simile. Dopo Darwin, a estendere queste idee alle stelle
fu il non meno famoso astronomo inglese James Jeans, autore
anche di popolarissimi libri. Però, se l’ipotesi di Jeans spiegava il
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••9 Beta Lyrae è stata
osservata nel 2007 con
l’interferometro del CHARA
(un allineamento di 6
telescopi distanti fino a 350
metri sul sito astronomico
del M. Wilson), riuscendo
a distinguere per la prima
volta le due componenti a
contatto, che nei normali
telescopi apparivano
confuse in un puntino.
A sinistra: immagini
interferometriche di Beta
Lyrae in movimento. A
destra: il modello geometrico
che meglio riproduce le
osservazioni. (CHARA)
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caso delle binarie spettroscopiche, non spiegava le binarie visuali
che hanno le componenti molto separate fra loro. In seguito, si
levarono critiche anche per l’origine singola delle binarie spettroscopiche, col risultato che ora si tende a pensare che le binarie
di tutti i tipi nascono come nascono le stelle singole e gli ammassi
stellari dalla condensazione gravitazionale di grandi nubi di gas
e polveri interstellari. Arthur Stanley Eddington mostrava che a
causa della pressione di radiazione (la stessa che contribuisce a
piegare la coda delle comete, ma che all’interno delle stelle, dove
la temperatura è di milioni di gradi, raggiunge decine di milioni di
atmosfere) la massa delle stelle non può superare certi limiti pari a
50 o 100 masse solari. Quindi, una nube interstellare che ha una
massa di migliaia o centinaia di migliaia di masse solari si deve
necessariamente condensare in un gran numero di stelle separate. Eddington, scrive: «La forza di gravitazione raccoglie insieme la
materia nebulare e caotica; la forza della pressione di radiazione
la spezzetta in blocchi di più convenienti dimensioni».
Come abbiamo già visto, nella nostra Via Lattea, gli astronomi
individuano, in ordine di densità di stelle, gli ammassi globulari,
gli ammassi aperti e le associazioni. Gli ammassi globulari sono,
come dice il nome, gruppi di stelle compatti e di forma approssimativamente sferica, situati nell’alone galattico, avente un raggio
di circa 50.000 anni luce. Essi differiscono dagli ammassi aperti
per l’età molto maggiore delle stelle che li compongono (superiore
ai 10 miliardi d’anni) e per la scarsa quantità se non la mancanza
assoluta di polveri e gas. Un ammasso globulare può contenere
decine o centinaia di migliaia e anche qualche milione di stelle,
tanto che nelle fotografie si vede che la regione centrale dell’ammasso, avente un diametro di pochi anni luce, è così densa da
sembrare una «marmellata» di stelle. Ma è soltanto un’impressione dovuta alla scintillazione perché le stelle sono molto più definite
e isolate dell’immagine che producono sulla lastra fotografia o sul
rivelatore elettronico. Ammettendo che al centro di un ammasso
globulare la densità delle stelle sia 1500 volte più grande che nelle
vicinanze del Sole, dove la distanza media fra le stelle si calcola
sia di circa 7 anni luce, al centro dell’ammasso la distanza media sarà allora di 0,6 anni luce (40.000 U.A.). Qui a un ipotetico
abitante di un pianeta situato nel cuore dell’ammasso, anche una
stella supergigante con un diametro 1000 volte quello del Sole e
distante 0,6 anni luce, apparirebbe con un diametro angolare di
50”, un valore al di sotto del potere risolutivo dell’occhio nudo che
è di circa 1’ e perciò come un punto e non una superficie estesa.
Si consideri che il diametro angolare è l’angolo sotto cui dalla Terra
si vede un corpo celeste, è dato dal suo diametro lineare diviso
per la distanza, ed è espresso in radianti. Per passare da radianti
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a secondi d’arco occorre moltiplicare per il numero di secondi
contenuti in un radiante, che è 206266.
Ben Bova, Anatole Boiko, Arthur Clarke, Patrick Moore, James
Stokley, scrittori di fantascienza, divulgatori scientifici, astrofili e
naturalmente anche astronomi si sono divertiti a immaginare che
aspetto avrebbe il cielo visto da un ipotetico pianeta al centro di un
ammasso globulare. Non tutti hanno dimostrato d’avere idee precise e nemmeno verosimili, fantasticando di un cielo letteralmente
tappezzato di stelle senza nemmeno un briciolo di spazio nero
fra loro, e quindi peggio di quello ipotizzato da Olbers quando si
chiese perché di notte fa buio. Oppure con stelle così vicine come
i pianeti del nostro Sistema solare; ovvero separate soltanto da ore
luce invece che anni luce. Nel primo caso, il pianeta vaporizzerebbe in un fiat trovandosi come al centro di un’immensa fornace di
energia radiante; nell’ultimo, supponendo che la distanza media
delle stelle fosse di 7 ore luce, si avrebbero circa 2 miliardi di stelle
per anno luce cubico, invece che una stella per ogni 30 anni luce
cubici come nelle vicinanze del Sole.
La realtà, al centro di un ammasso globulare anche dei più densi, si arguisce che deve essere – come dire? – un po’ più fresca,
e come accennato sopra, alquanto meno affollata. Però è vero
che gli abitanti di quell’ipotetico pianeta non conoscerebbero la
notte, ma al suo posto ci sarebbe una luce crepuscolare, e stelle
come Sirio, che è la più luminosa del nostro cielo e ha una magnitudine apparente di -1,6, sarebbero a malapena visibili affogate
nello sfondo del cielo. Dunque, non la notte ma il crepuscolo si
alternerebbe a un giorno 1000 volte più luminoso, supposto che a
produrre quest’ultimo fosse una stella uguale al Sole.
Arriverà mai un tempo in cui delle sonde terrestri toccheranno
qualcuno dei circa 200 ammassi globulari che orbitano intorno al
centro galattico? Per esempio, M3 nella costellazione dei Cani da
caccia che raggruppa 500.000 stelle, oppure 47 Tucanae, o w
Centauri: quest’ultimo, riconosciuto per primo da Edmund Halley
nel 1667 durante un viaggio all’isola di Sant’Elena, è distante dalla
Terra 15.000 anni luce. Per dare un’idea di queste distanze e delle
difficoltà di una simile avventura, riporteremo un bell’esempio di
Boiko. Immaginiamo un popolo di microbi di dimensioni molecolari, abitanti un seme di papavero che essi chiamano Terra, che
siano riusciti a invadere un seme di tabacco, la «Luna», distante
poco meno di 4 cm. Dopo la Luna, e lanciando delle particelle
submicroscopiche dette «navi spaziali», supponiamo che riescano
a superare distanze di decine di metri e visitare altri semi battezzati
come Venere, Marte, ecc. Immaginiamo infine che gli abitanti del
seme di papavero coi loro potenti telescopi, osservino oggetti che
essi chiamano stelle, nessuno dei quali è più vicino di 6,5 km,
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CAPITOLO 4
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••10 L’ammasso
globulare Omega
Centauri contiene diversi
milioni di stelle ed è uno
dei maggiori nel suo
genere. (ESO, INAF, A.GRADO)
mentre il meno lontano degli ammassi globulari si troverebbe a
15,6 milioni di km. Poiché quest’ultima distanza equivale a un
quarto della distanza che ci separa dal vero pianeta Venere, si
dovrà ammettere l’insufficienza del nostro esempio, e concludere
che nessun modello rapportato a una singola scala ci può fare
intuire la distanza che passa fra noi e un ammasso globulare. ••10
Perché gli ammassi globulari sono «lassù», e circondano come
una nube sferica di moscerini quella specie di disco rigonfio al
centro, che è la Galassia? Si trovano in periferia, perché si formarono dalle nubecole distaccatesi per prime da quella grande nube
che, ruotando sempre più veloce e schiacciandosi, diede origine
alla ruota galattica. È per questo motivo che le stelle degli ammassi
globulari sono più vecchie di tutte le altre, e perciò anche delle
stelle che si trovano negli ammassi aperti, i quali invece sono situati
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in prossimità del piano galattico, salvo eccezioni come l’ammasso
aperto nella Chioma di Berenice.
Ben noti sono l’ammasso aperto delle Pleiadi, quello delle ladi
(una decina di gradi a Sud-Est delle Pleiadi) e quello del Presepe
conosciuto anche come «nido d’api», tutti visibili a occhio nudo.
Se ne conoscono quasi 500, costituiti alcuni da una ventina di stelle soltanto, altri da qualche centinaio e anche un migliaio. L’ammasso aperto dell’Orsa Maggiore contiene tutte le stelle di questa
splendida costellazione, eccetto a ed h, e, nonostante sembri molto sparpagliato per la sua vicinanza, forma un gruppo abbastanza
compatto e di piccole dimensioni. È circondato da un vasto alone
o corrente di stelle che una volta gli appartenevano e che include
Sirio, b Aurigae e altri due ammassi. Vi si trova in mezzo anche il
Sole, pur non appartenendo a esso. ••11
Stelle ancora più giovani, e immerse in nuvole di polveri e gas,
si trovano nelle associazioni stellari, chiamate così perché sono
raggruppamenti di stelle ancora meno legate fra loro di quelle degli ammassi aperti, e anzi tendenti a disperdersi. Ne abbiamo un
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••11 L’ammasso
aperto doppio nella
costellazione di Perseo
dista 7.000 anni luce
dalla Terra, mentre le
due componenti sono
separate da circa 100
anni luce. Si nota una
grande abbondanza di
giovani stelle azzurre dei
tipi O e B. Le stelle gialle
sono «stelle di campo»,
che si trovano per caso
lungo la linea della visuale
davanti all’ammasso.
(NOAO, AURA, NSF)
CAPITOLO 4
13/04/12 17:47
••12 Popolazioni stellari
nella galassia NGC 2976.
Non è una fotografia
sgranata, ma un’immagine
ad alta definizione ottenuta
dal Telescopio Spaziale,
dove ogni puntino
rappresenta una singola
stella a 12 milioni di anni
luce di distanza da noi.
Le stelle azzurre sono di
Popolazione I, quelle rosse
sono principalmente di
Popolazione II. (NASA, ESA,
J.DALCANTON, B.WILLIAMS)
esempio nell’associazione z Persei, costituita da luminose stelle
azzurre nate appena 1 o 2 milioni d’anni fa. Un’altra associazione
è nella ultrafamosa nube di Orione, dove si osservano stelle che
si pensa stiano ancora formandosi e appartenenti al tipo detto T
Tauri. Fra i raggruppamenti si possono infine ricordare le nubi
stellari formate di gas, polveri e milioni di stelle sempre molto giovani, come quelle che si estendono quasi ininterrottamente da
Cassiopea al Cigno, al Sagittario, verso e intorno al centro galattico.
Tutti questi raggruppamenti di stelle vecchie e giovani, dalle differenti forme, caratteristiche e collocazione, hanno fatto giungere
alla conclusione che le stelle si possono dividere, come abbiamo già
accennato nel capitolo tre, in almeno due popolazioni principali: la
Popolazione I, più giovane e addensata sul piano galattico, caratterizzata dalle luminose stelle azzurre O e B; e la Popolazione II, sparsa
ovunque nella Galassia, ma caratterizzata soprattutto dalle stelle degli ammassi globulari. Più tardi ci si accorse che queste due Popolazioni si distinguono anche per la composizione chimica, dato che le
stelle di Popolazione Il sono da 10 a 500 volte più povere di elementi
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più pesanti di idrogeno ed elio, che per brevità vengono detti tutti
«metalli», di quelle di Popolazione I. In realtà, si ha tutta una serie
di Popolazioni intermedie fra la Popolazione II estrema o dell’alone
galattico e le giovanissime stelle immerse nelle braccia spirali della Via Lattea, che gli astronomi chiamano: Popolazione dell’alone,
Popolazione II intermedia, Popolazione del disco o Popolazione I
Vecchia, alla quale appartiene il Sole, e Popolazione I estrema. ••12
Storicamente, la scoperta di differenti Popolazioni stellari risale
al 1942 quando Walter Baade, fotografando col telescopio da 250
cm di Monte Wilson la nebulosa di Andromeda, riuscì a risolvere
le stelle del nucleo e a constatare che erano di colore rosso a differenza di quelle dei bracci spirali che erano blu.
Quindi, fu osservando una galassia esterna alla nostra che ci si
accorse delle differenze di distribuzione, colore ed età delle stelle
della Via Lattea. Da notare che la scoperta fu favorita dalla guerra.
Infatti gli Stati Uniti erano entrati in guerra e per timore di possibili
bombardamenti da parte dei tedeschi, a Los Angeles vigeva il più
completo oscuramento. Fu così che Baade poté fare esposizioni
abbastanza lunghe da osservare anche i più deboli dettagli della
galassia di Andromeda, senza che la luce diffusa della città velasse
la lastra. Oggi il telescopio di Monte Wilson è reso quasi inutilizzabile per le luci di Los Angeles e anche il 5 metri di Monte Palomar
è molto disturbato dalle luci di San Diego.
LE STELLE SON BELLE PERCHÉ VARIE
Come fra gli uomini e le società, anche fra le stelle la variabilità
è un segno di estrema giovinezza o estrema vecchiaia; o di accidenti vari, quale per esempio «una cattiva compagnia», se così
vogliamo definire il caso delle binarie strette. E, infatti, guardando
il diagramma di Hertzsprung-Russell, vediamo che le variabili si
trovano tutte al di fuori di quella regione di stabilità ed età media,
che è la sequenza principale. La variabilità di queste stelle non è
dovuta quindi a eclissi, ma è intrinseca: dipende da cambiamenti
nell’interno o nell’atmosfera delle stelle medesime.
E tutte le stelle, a parte gli incidenti «sociali» a cui si è precedentemente accennato, attraversano questo periodo al principio e
alla fine della loro vita.
Ma ci sono anche differenze di variabilità. Esistono variabili regolari e irregolari. Le regolari sono dette così perché la variazione di luminosità, dovuta al loro pulsare, si ripete con estrema regolarità come
con le famose Cefeidi e RR Lyrae e le notissime pulsar. ••13-14
Le Cefeidi hanno periodi da 1 a 50 giorni e appartengono alle
supergiganti gialle; le RR Lyrae hanno periodi inferiori a un giorno
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CAPITOLO 4
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••13 Variazioni
periodiche delle Cefeidi.
A. Variazione di raggio:
il raggio minimo
corrisponde al colore più
bianco.
B. Variazione di colore:
colore più bianco significa
temperatura più alta.
C. Variazione di
luminosità: il massimo
si ha nella prima parte
dell’espansione.
D. Variazione di velocità
superficiale: velocità
negativa equivale a
espansione.
••14 Relazione fra
luminosità e periodo
delle Cefeidi.
Si evidenziano 3 tipi di
variabili pulsanti regolari,
con diverse relazioni
periodo-luminosità: le
Cefeidi classiche, le W
Virginis e le RR Lyrae.
e sono giganti bianche; le pulsar, più che pulsare, vibrano con
periodi da 3 centesimi di secondo a poco più di un secondo con
fantastica precisione. Sono state chiamate pulsar da Pulsating Radio Source, perché emettono radioonde. ••15
Oltre alle suddette, molte altre giganti rosse e supergiganti variano notevolmente di luminosità (e dimensioni); ve ne sono di regolari, semiregolari e del tutto irregolari con grande e piccola ampiezza
di variazione. Irregolari sono le stelle come R Coronae Borealis che,
dopo deboli fluttuazioni di mesi o anni, improvvisamente «impallidiscono» di 5 o 6 magnitudini per giorni o settimane. Ma le più note
sono forse le stelle tipo T Tauri e le stelle eruttive, come la nostra
vicina di casa Proxima Centauri. La particolarità delle stelle eruttive
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è che, contrariamente a quanto si affermava prima, appartengono
alla sequenza principale delle stelle che dovrebbero vivere una vita
tranquilla e invece… soffrono di agitazioni e lampeggiano. Alcune
con notevole energia, altre debolmente. Si pensa si tratti di fenomeni come le tempeste solari e anzi, da questo punto di vista, anche il
nostro Sole può essere considerato una stella eruttiva. Invece, le T
Tauri esibiscono variazioni sporadiche, che in parte potrebbero essere estrinseche, in quanto prodotte per una specie di interazione
con le nebulosità che sempre le circondano.
Immerse in nubi di polveri e gas, le T Tauri si trovano in gruppi molto numerosi, e quindi è verosimile siano nate da queste
nubi come sostenuto dall’astronomo sovietico Viktor Amazaspovic
Ambarcumian e dall’americano George Howard Herbig. A questo
punto è opportuno tracciare un rapido quadro dell’evoluzione delle
stelle che ci darà modo di approfondire anche alcuni argomenti
che abbiamo già accennato nelle pagine precedenti, quali il medium interstellare (polveri e gas), oltre che parlare di novae e supernovae, delle nebulose planetarie fino alle pulsar e ai buchi neri.
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••15 Una Cefeide
«storica». Misurando il
periodo di questa Cefeide,
la V1 nella galassia di
Andromeda, fu calcolata
per la prima volta (tramite
la relazione periodoluminosità) la distanza di
una galassia esterna alla
Via Lattea. Nei riquadri,
vediamo le variazioni
riprese dal Telescopio
Spaziale Hubble. Le
Cefeidi rappresentano
tuttora la chiave di volta
per determinare la scala
cosmica delle distanze.
(NASA-HST, ESA, R.GENDLER)
CAPITOLO 4
13/04/12 17:47
EVOLUZIONE E MORTE DELLE STELLE
L’evoluzione di una stella e la durata della sua vita dipendono dalla
sua massa e composizione chimica. Tuttavia, in generale, la sequenza dei vari stadi evolutivi è quasi la medesima per tutte le
stelle, mentre cambia molto la durata dei singoli stadi in quanto la
vita è molto più breve per una stella di grande massa che per una
di piccola. Bisogna anche premettere che è improbabile che le
stelle si formino singolarmente, ma è verosimile che nascano in associazioni o famiglie di decine e centinaia di membri, come si vede
negli ammassi. Tutto incomincia da quelle «nuvole nere» di polveri
e gas che si vedono concentrate nelle braccia spirali della Galassia,
specie nella direzione del Sagittario, ma anche in Orione e altre
nebulose, nelle quali, a partire dal 1963, sono state trovate con i
radiotelescopi decine di molecole sia organiche sia inorganiche.
Soffermiamoci sulla Nebulosa Trifida del Sagittario o su quella
di Orione illuminata dal famoso gruppo del Trapezio, al quale fa
da sfondo una estesa nuvola di monossido di carbonio con una
massa 100.000 volte quella del Sole. ••16
Il suo stesso peso potrebbe farla collassare e suddividere in
nuvole di 500-1000 masse solari, cioè in quel che sembra sia un
tipico ammasso aperto; oppure alcune stelle si potrebbero formare
rapidamente in qualche parte della nube, disperdendo il resto per
il calore che le stelle producono nascendo, e il «vento» che emettono proprio come fanno le T Tauri. Martin Harvit e Kris Davidson
hanno dato il nome di «stella o nebulosa in bozzolo» (Cocoon Star,
Cocoon Nebula) a certe stelle apparentemente giovani nascoste in
nubi di idrogeno e finissime polveri che collassarono per formarle.
Siccome la loro luce non può penetrare attraverso le polveri,
e dato che le prime fasi delle stelle giovani non producono radio emissioni, questi oggetti sono inizialmente osservabili soltanto
nell’infrarosso. Perché le stelle emergano da un simile involucro
occorre qualche decina di migliaia d’anni. Tali bozzoli contengono
stelle fino a 100 volte più massicce del Sole.
Una stella nasce quindi da una condensazione di gas. Condensandosi sotto l’azione della sua stessa gravità, il gas si riscalda.
A un certo momento la temperatura al centro raggiunge i 10-12
milioni di gradi assoluti, necessari a innescare la reazione nucleare
che trasforma l’idrogeno in elio. Si stabilisce allora quello che si
chiama un equilibrio fra la forza di pressione (che tenderebbe a
far espandere il gas nello spazio interstellare e a far disperdere la
massa di gas) e la forza di gravitazione (che invece tenderebbe a
far collassare il gas al centro). La forza di pressione è dovuta all’agitazione termica delle particelle: quindi, quando la temperatura è
sufficientemente alta, l’agitazione delle particelle serve a sorregge-
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re il peso della massa sovrastante; la temperatura, cioè l’agitazione
termica, è mantenuta alta dalle reazioni nucleari che avvengono
regolarmente nell’interno.
Quando l’idrogeno s’è trasformato tutto, abbiamo un nucleo
inerte di elio. La temperatura non è sufficiente a innescare il bruciamento dell’elio. Il nucleo tende a raffreddarsi, l’agitazione termica delle particelle diminuisce e non è più sufficiente a sorreggere
il peso della massa sovrastante. La stella comincia a collassare,
a condensarsi, e condensandosi si riscalda, perché quando un
gas si comprime la sua temperatura aumenta. La condensazione
continua finché la temperatura al centro è sufficientemente alta
per innescare il bruciamento dell’elio.
Se la stella ha una grande massa (10-20 volte quella del Sole), è
in grado di innescare in fasi successive tutta una serie di reazioni
nucleari. Vediamo prima questo caso, e poi la morte di stelle di
massa simile al nostro Sole.
In una stella di grandi dimensioni, quando l’elio è consumato, il
nucleo si raffredda di nuovo, la stella si condensa finché la temperatura è sufficientemente alta perché il carbonio possa trasformarsi in ossigeno, e così via. Attraverso questi successivi bruciamenti
e condensazioni si arriva a un punto in cui la parte centrale, il
nocciolo della stella, è costituito da nuclei di ferro. I nuclei di ferro,
alle temperature centrali di qualche miliardo raggiunte dalla stella
in queste condizioni, si possono trasformare in elio.
In tutte le reazioni delle fasi precedenti si è verificata produzione
di energia, perché la massa dei nuclei iniziali era maggiore della
massa dei nuclei prodotti; questa differenza di massa si trasforma
in energia. Nel caso del ferro invece succede il contrario. Un nucleo di ferro dà luogo a 13 nuclei di elio più 4 neutroni. La massa
totale del prodotto della reazione è un po’ più grande di quella dei
nuclei di ferro, per cui la reazione, invece di produrre energia, ha
bisogno di energia che viene sottratta dalla massa grande e calda
della stella. La trasformazione del ferro in elio ha un effetto refrigerante e al centro della stella la temperatura cala bruscamente: dai
10 miliardi di gradi a cui si verifica la reazione ferro-elio, crolla a
un centinaio di milioni di gradi. Un brusco abbassamento di temperatura vuol dire anche una brusca diminuzione della velocità di
agitazione termica delle particelle: è come se al centro della stella
si fosse improvvisamente creato il vuoto.
Tutta la massa di gas sovrastante precipita verso il centro che
viene compresso a enormi densità, dando origine a una stella a
neutroni, in cui elettroni e protoni danno luogo a neutroni «stabili»
(si consideri che in condizioni normali il neutrone è una particella
instabile con una vita media di circa 15 minuti). Più la massa della
stella originaria è grande, più l’evento è drammatico: i nuclei di
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CAPITOLO 4
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••16 La Nebulosa
Trifida M 20 (NGC
6514), una nebulosa
diffusa composta di gas
surriscaldati, osservabile
nella costellazione del
Sagittario. (NOAO)
stelle molto massicce si trasformano addirittura in buchi neri (sui
quali torneremo nelle prossime pagine). Per quanto riguarda, invece, gli strati più esterni, in cui si trovano materiali come idrogeno
ed elio in grado di produrre energia, durante il collasso si riscaldano tanto da innescare una gran quantità di reazioni nucleari, nel
corso delle quali si formano tutti gli elementi che conosciamo sulla
Terra, dall’idrogeno all’uranio.
La stella, in quest’ultima parte della sua vita, si trasforma in una
vera e propria bomba nucleare. Tutta la materia viene scagliata
nello spazio, ma resta il nocciolo della stella a neutroni (o il buco
nero) che può avere un diametro di due o tre chilometri ed è un
pallino estremamente denso, milioni di miliardi di volte la densità
dell’acqua. Invece la materia scagliata nello spazio interstellare si
espande. Questo fenomeno è un’esplosione di supernova, nella
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quale la stella aumenta di splendore centinaia di milioni di volte
nel giro di poche ore, così che noi vediamo apparire una stella là
dove prima non si vedeva niente. Le supernovae sono le principali
responsabili dell’evoluzione chimica della galassia che le contiene,
dando luogo a un progressivo aumento della percentuale di elementi più pesanti di idrogeno ed elio. ••17
La morte di stelle di massa più piccola, invece, è quieta. In una
stella di piccola massa (com’è il nostro Sole) che abbia esaurito
l’idrogeno, la materia al centro dopo il primo collasso, a causa
dell’aumento di densità è in una condizione particolare, per cui
si comporta come un solido: la pressione esercitata dal gas non
dipende più dalla temperatura. Difatti normalmente la velocità d’agitazione termica del gas produce la pressione che controbilancia
la forza di gravità. Questo è vero quando il gas si comporta come
un gas perfetto. Invece il gas al centro delle stelle di piccola massa
(più piccola del Sole), che hanno già esaurito l’idrogeno, si trova in
una condizione che si definisce degenere e si comporta come un
solido. Un solido, per esempio un tavolo, caldo o freddo che sia,
oppone sempre la stessa resistenza a una spinta esterna; non è
che scaldandolo eserciti una pressione più forte di quando è freddo. La stella non potendo contrarsi, non potrà nemmeno riscaldarsi e quindi innescare la reazione elio-carbonio. Avrà esaurito le
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••17 La nebulosa del
Granchio è il residuo
dell’esplosione di una
supernova, registrata dagli
astronomi cinesi nove
secoli or sono. In questa
immagine multibanda
sono rappresentate con
colori codificati anche
le radiazioni invisibili
all’occhio umano. Raggi
X (in blu), infrarossi (in
rosso) e luce visibile (in
verde) sono stati ripresi
da tre diversi telescopi
spaziali: rispettivamente
Chandra, Spitzer e
Hubble. (NASA, JPL, ESA)
CAPITOLO 4
13/04/12 17:48
••18 La nebulosa
planetaria Elica
(NGC7293) nella
costellazione
dell’Aquario. Questa è
la nebulosa planetaria
più vicina alla Terra,
trovandosi a 650 anni
luce da noi. (NOAO/HST)
sue fonti di energia nucleare, o meglio non potrà sfruttare tutte le
fonti di energia nucleare di cui potrebbe disporre se avesse una
massa più grossa. La stella si raffredderà lentamente e diventerà una nana bianca, cioè una stella di piccole dimensioni che in
tempi lunghissimi si trasformerà in nana nera. Le nane nere non
irraggiano più perché si sono raffreddate.
Prima di passare alla fase di nana bianca, le stelle un po’ più
grosse, come il Sole, hanno un comportamento un po’ più complicato, subiscono un’espansione degli strati esterni che si raffreddano. La stella diventa una gigante rossa.
Ma come mai passa attraverso la fase di gigante rossa? Prendiamo il caso del nostro Sole. Esso ha un’età di circa 5 miliardi di anni e
ha trasformato in elio circa la metà dell’idrogeno nel suo centro, alla
temperatura di 13 milioni di gradi. Fra circa altri 5 miliardi di anni il
centro del Sole conterrà solo nuclei di elio, che alla temperatura di
13 milioni di gradi è inerte, non in grado di trasformarsi in carbonio.
Il centro privo di «combustibile nucleare» comincia a raffreddarsi,
la forza di pressione del gas diminuisce e la gravità prende il sopravvento, comprimendo il gas del centro che si riscalda fino a una
temperatura di circa 100 milioni di gradi e l’elio si trasforma in carbonio. L’energia nucleare liberata cresce rapidamente al crescere
della temperatura. Il Sole diventa una centrale nucleare che produ-
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ce enormemente più energia di prima. Per irraggiare tutta l’energia
prodotta senza esplodere, il Sole deve espandersi, aumentando il
suo raggio di quasi 200 volte, fino a inghiottire Mercurio e Venere
e lambire l’orbita della Terra che diventerà un pianeta torrido e
deserto. L’espansione raffredda gli strati più esterni del Sole, la sua
temperatura superficiale scende dagli attuali circa 6000 gradi a più
o meno 3000 e il suo colore da giallastro diventa rossastro: il Sole è
diventato una gigante rossa. Il suo centro è ormai di gas degenere,
e quando tutto l’elio si sarà trasformato in carbonio non potrà più
contrarsi per sfruttare altri combustibili nucleari.
L’esteso inviluppo rarefatto andrà lentamente evaporando nello
spazio interstellare, formerà un guscio attorno al caldo nocciolo
centrale e si avrà la fase di nebulosa planetaria. Questa non ha
niente a che fare con i pianeti, ma fu chiamata così per l’aspetto
simile a un dischetto che nei modesti telescopi di una volta la rendeva simile all’immagine di un pianeta. ••18-19
La differenza di comportamento fra il Sole e stelle di massa più
piccola dipende dal fatto che lo stato di gas degenere viene raggiunto a densità tanto più basse quanto più bassa è la temperatura
centrale che a sua volta è tanto più bassa quanto più piccola è la
massa della stella. Per questo stelle molto più grosse, 10 o 20 volte
la massa del Sole, non diventano mai degeneri e terminano la loro
vita esplodendo come supernove.
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••19 Nebulosa Occhio
di Gatto (NGC 6543).
Le nebulose planetarie
altro non sono che uno
stadio evolutivo stellare
successivo a quello di
nova. (NASA)
CAPITOLO 4
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NOVAE, SUPERNOVAE, PULSAR E BUCHI NERI
Abbiamo seguito l’evoluzione delle stelle dalla nascita alla morte.
Ora cerchiamo di guardare più da vicino quello che accade e nelle
supernovae e nelle novae, che si manifestano in modo simile pur
essendo prodotte da cause molto diverse.
Il nome di nova fu dato dagli antichi a stelle che apparivano
improvvisamente là dove prima nessuna stella era visibile, pensando che si trattasse dell’apparizione di una nuova stella. Oggi
sappiamo che si tratta di fenomeni esplosivi che avvengono in particolari tipi di stelle. Le stelle novae aumentano improvvisamente
di splendore anche di 100.000 volte. In alcuni casi molto più rari
si assiste ad aumenti di splendore anche di miliardi di volte, e in
tal caso si parla di supernovae. Le cause che producono le novae
sono nettamente diverse da quelle che producono una supernova.
Si sono osservati vari tipi di novae: novae lente, che impiegano
molti mesi per tornare allo splendore che avevano prima dell’esplosione; novae rapide che invece impiegano giorni; novae ricorrenti, di cui si sono osservate più esplosioni.
Si può dire che ogni nova ha caratteristiche sue proprie, anche
se, probabilmente, tutte sono membri di stelle binarie, contenenti
una nana bianca e una compagna molto vicina. L’esplosione avviene quando la compagna comincia a evolvere verso la fase di
gigante rossa e i suoi strati superficiali ricchi di idrogeno formano il
cosiddetto disco di accrescimento attorno alla nana bianca, prima
di caderci sopra spiralando. L’idrogeno trasferito dalla compagna
sulla nana bianca, può far sì che la massa della nana bianca superi il cosiddetto limite di Chandrasekhar, pari a 1,44 masse solari,
limite massimo che un gas degenere può sostenere senza collassare. Quando viene raggiunto questo limite l’idrogeno a contatto
con la superficie della nana bianca dà luogo a reazioni nucleari
che provocano un aumento di splendore di circa 100.000 volte in
pochi giorni, esplosioni che espellono nello spazio i prodotti delle
reazioni. La temperatura alla superficie può raggiungere parecchi
milioni di gradi, dato che il gas degenere si comporta come un metallo ed è altamente conduttivo, per cui la temperatura superficiale
diventa eguale a quella dell’interno.
In media ogni anno nella Galassia esplodono 25 novae, quindi
è un fenomeno molto più frequente delle supernovae, che sono in
media circa tre in un millennio, ma liberano ciascuna un’energia
pari a un milione di volte quella liberata da una nova. ••20
È stato negli Anni Trenta che astrofisici e fisici come Fritz Zwicky
e Lev D. Landau e Robert J. Oppenheimer hanno dimostrato che
le stelle più massicce non si fermano allo stadio di nana bianca.
Abbiamo visto nel paragrafo precedente che queste grandi stelle,
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anche dopo varie contrazioni e innesco di
vari combustibili nucleari restano sempre
formate di gas perfetto, e che l’esito della
reazione ferro-elio, facendo scendere bruscamente la temperatura centrale da 10
miliardi a 100 milioni di gradi, fa sì che tutta la massa stellare crolli sotto il suo stesso
peso con tale forza che le loro particelle
subatomiche, quali protoni ed elettroni, si
condensano in neutroni e così strettamente che l’equivalente di due o più masse
solari giunge a occupare un volume che a
stento tocca un diametro di 20 o 30 km.
Abbiamo visto che questa situazione
porta a un’esplosione di supernova, mentre una piccola frazione della massa originale della stella collassa, trasformandosi
in una stella a neutroni, che spesso avvistiamo come una pulsar. Dai dati storici attualmente disponibili risulta che nel corso di 1500 anni si sono verificate sette gigantesche
esplosioni stellari di cui oggi sono osservabili i resti. L’esempio più
noto lo troviamo nella costellazione del Toro, e più precisamente
nella Nebulosa del Granchio, scoperta nel 1731 da John Bevis e
poi indipendentemente da Charles Messier nel 1758.
Questa pulsar nella Nebulosa del Granchio venne individuata per caso da Jocelyn Bell, una dottoranda di Anthony Hewish,
nell’agosto del 1967. Dapprima non si capiva cosa fosse, e nell’eccitamento di quegli anni per le ricerche di civiltà extraterrestri,
si pensò che fosse un segnale artificiale indirizzato anche a noi
terrestri. Poi si capì che doveva essere una di quelle stelle a neutroni preconizzate da Zwicky. Ruotando intorno al proprio asse in
1/30 di secondo, emette 30 radio-impulsi e altrettanti lampi di luce
ogni secondo. Un’altra pulsar si trova nella Gum Nebula (dal nome
dell’astronomo australiano Colin S. Gum) nella costeIIazione della
Vela. Oggi si conoscono alcune centinaia di pulsar. ••21
È probabile che la maggioranza delle stelle con massa superiore
a 3 volte quella del Sole concludano come pulsar la loro evoluzione, ma non è detto che avvenga sempre così. Si conoscono,
infatti, delle stelle molto grosse che perdono massa con continuità:
qualora giungano a ridursi a meno di 3 masse solari, non c’è bisogno che entrino in crisi esplodendo come supernovae e finendo
come pulsar. Si trasformeranno invece in nane bianche, come fa
la maggior parte delle stelle.
D’altra parte, stelle più grosse di 3 masse solari e incapaci per
qualche ragione di espellere dalle loro atmosfere abbastanza gas
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••20 Cassiopea A è
un residuo di supernova
con intensissima
radioemissione. Sebbene
l’esplosione sia avvenuta in
epoca storica, non vi sono
cronache che attestino il
fenomeno. L’immagine è
una sovrapposizione di
raggi X (in blu), infrarossi
(in rosso) e luce visibile (in
giallo), ripresi dai telescopi
spaziali Chandra, Spitzer
e Hubble. La nebulosa
Cassiopea A si trova a
11.000 anni luce da noi.
(NASA, ESA, HST)
CAPITOLO 4
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••21 La nebulosa Velo.
Si tratta di un residuo
di supernova esplosa
tra 5.000 e 10.000
anni fa, ormai quasi
completamente disperso
nello spazio. Sono messi
in evidenza alcuni dettagli
studiati dal Telescopio
Spaziale. (NASA, ESA, HUBBLE)
per raggiungere quel limite di massa che s’è detto, possono imboccare un cammino evolutivo ancora più complesso e drammatico. Dopo essere esplose come supernovae, diventano ancora più
dense delle stelle di neutroni. Il campo gravitazionale di una stella
collassata fino a questo punto è tanto grande da trattenere anche
la luce e le altre radiazioni elettromagnetiche e perciò non è più
possibile né vederla coi nostri telescopi né udirla con i radiotelescopi: è diventata un «buco nero». Il solo modo di individuarlo è
cercare di scoprire gli effetti gravitazionali che esercita sulle stelle
vicine. Lo stato della materia in un buco nero supera di gran lunga
anche le condizioni estreme che si trovano nelle stelle a neutroni,
poiché un buco nero con una massa uguale a quella del Sole
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avrebbe un diametro di appena 6,4 km. Gli astronomi credono che
una stella di questo tipo si trovi nella costellazione del Cigno: è una
sorgente di raggi X, costituita da una binaria, di cui la componente
maggiore (l’invisibile buco nero, ma causa indiretta della radiazione X) avrebbe una massa 8 volte più grande di quella del Sole.
Da quanto abbiamo appena finito di dire, sembrerebbe che i
buchi neri siano la tomba definitiva delle stelle di grossa massa e
che un buco nero sia come un pozzo gravitazionale dove tutto può
entrare e nulla può uscire. Tuttavia, nuove ricerche teoriche hanno
portato alla conclusione che anche i buchi neri evolvono, si consumano ed esplodono. Inoltre potrebbero esistere buchi neri di ogni
massa, come i mini o micro buchi neri, che, secondo i teorici, si
sarebbero potuti formare subito dopo il Big-Bang in certe sacche
di altissima densità, ed è probabile anche l’esistenza di grossi buchi neri, con masse di milioni o miliardi di masse solari, al centro
delle galassie, come nel caso della nostra Via Lattea.
MESSER LO FRATE SOLE
Come annunciato in apertura del capitolo, parliamo ora del Sole,
la stella a noi più vicina e l’unica studiata in dettaglio. Francesco, il
Poverello d’Assisi, amante di Dio e di tutto il creato e le creature, lo
chiamava così: «Messer lo frate Sole…» Si cominciò a sapere che
era una stella soltanto ai tempi di Newton, e chissà se riusciremo
mai ad arrivare nelle vicinanze di un’altra stella, per vederla come
un disco e non più come un punto. Intanto sappiamo che il Sole
brilla di una luce quasi gialla perché ha una temperatura superficiale di circa 6000 gradi Kelvin (K), alimentata da una fornace atomica situata al centro dove la temperatura raggiunge i 13 milioni
di gradi K. In questa fornace, 564 milioni di tonnellate di idrogeno
vengono trasformate ogni secondo in 560 milioni di tonnellate di
elio. La differenza, 4 milioni di tonnellate, è la quantità di materia
irradiata sotto forma di energia per secondo. ••22
Per quanto tempo brillerà ancora in questo modo? Dato che
la massa del Sole è 333.000 volte quella della Terra, e ammesso
che il Sole fosse composto interamente di idrogeno, se tutta la sua
massa si trasformasse in elio, seguiterebbe a risplendere per circa
100 miliardi d’anni. Però, tenuto conto che il Sole è composto di
idrogeno per circa 2/3 della sua massa, e che le reazioni nucleari
possono avvenire solo nel nucleo contenente il 10% dell’intera
massa, il tempo di durata del combustibile idrogeno si riduce a
circa 8 miliardi d’anni.
Ma da quanto tempo il Sole risplende come oggi? I fossili terrestri ci suggeriscono che ha continuato a irradiare in modo costan152
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••22 Il Sole
fotografato in diverse
bande spettrali. Sopra:
nelle radioonde e nella
luce H-alfa. Al centro: in
luce visibile. Sotto: raggi
ultravioletti e raggi X dal
satellite Soho. (NASA)
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te all’incirca durante gli ultimi 3,5-4 miliardi d’anni. Ciò significa
che la nostra stella è tuttora abbastanza giovane e seguiterà così
ancora per almeno altri 5 miliardi d’anni prima di passare a più
avanzate e irrequiete fasi evolutive di gigante rossa e poi di nana
bianca, come abbiamo già spiegato.
Il Sole è molto più complesso di come ci appare, e per accorgersene basta osservarlo a diverse lunghezze d’onda, con vari tipi di
strumenti. Nel visibile noi vediamo il Sole quasi fosse delimitato da
un «guscio» detto fotosfera, e durante le eclissi totali (cioè quando
la Luna passa fra la Terra e il Sole al momento della Luna Nuova)
si rivela circondato da una corona perlacea, di forma e dimensioni
variabili. Però, se i nostri occhi fossero sensibili alle onde radio, il
Sole ci apparirebbe più grande di quello «ottico» e non rotondo,
ma ellittico.
Costituito essenzialmente da una palla di gas, la sua densità media è 1,41 volte quella dell’acqua, ma al centro tocca le 80 volte.
Il diametro solare è di circa 1.392.000 km, il che rappresenta il
doppio del diametro dell’orbita lunare. Il Sole ruota su se stesso, facendo un giro in media in 25,4 giorni; tuttavia, il periodo di rotazione
varia con la latitudine, ed è di 24,9 giorni all’equatore solare e di 34
giorni in prossimità dei poli. Anzi, ci sono novità al riguardo, perché
si sospetta che questa rotazione subisca variazioni anche in rapporto al ciclo delle macchie solari. Infatti, Robert Howard ha constatato
che dal 1967 la rotazione solare all’equatore è passata da 7200 a
7600 km/h, ma deve trattarsi di un fenomeno limitato alla fotosfera,
perché se coinvolgesse gli strati più profondi, richiederebbe enorme
dispendio di energie. Tale accelerazione si crede prodotta dai campi
magnetici originati all’interno del Sole che, emergendo a velocità
maggiore dei gas circostanti, agiscono come pagaie.
La fotosfera, il cui spessore si stima sui 400 km, appare formata
di granuli brillanti, intervallati da zone scure, nelle quali, quando il
Sole è disturbato, si formano come dei «pori», che possono moltiplicarsi e ingrandirsi diventando «macchie». Queste sono costituite
da un nucleo centrale detto «ombra», circondato da un’aureola
grigiastra chiamata «penombra»; l’ombra è più scura perché la
temperatura è di circa 4000 K assoluti, rispetto ai circa 6000 della
fotosfera. Correlate alle macchie, abbiamo poi le «facole», dette anche «flocculi brillanti», simili a nubi filamentose. Sede di importanti
correnti di materia, le macchie sono anche luoghi di forti campi
magnetici; e la loro comparsa e scomparsa è un fenomeno oltremodo variabile. Esse si spostano dal bordo Est al bordo Ovest in circa
13 giorni, e il loro numero aumenta da un minimo a un massimo,
ritornando quindi a un minimo in circa 11 anni. Alle macchie vanno
associati fenomeni, come esplosioni di gas con espulsione di particelle ad alta energia, e radioemissioni.
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CAPITOLO 4
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••23 Fotografia della
corona solare ripresa
durante l’eclissi del 1°
agosto 2008. Si possono
osservare i pennacchi (o
getti) coronali. (A&A)
Di solito il nuovo ciclo undecennale si
sovrappone in parte al vecchio: quando
cominciano ad apparire le macchie ad alta
latitudine caratteristiche del nuovo ciclo,
si osservano ancora nascere macchie del
vecchio ciclo in prossimità dell’equatore
solare. In realtà, è soltanto dal 1715 che
abbiamo incominciato a contare i cicli solari, ed è soltanto dal 1843 che Heinrich
Schwabe confermò l’esistenza approssimativa del periodo undecennale. Negli
anni seguenti la scoperta delle macchie
(nel 1611), si verificarono due massimi
alla distanza di 15 anni, e poi l’attività solare decrebbe a un livello bassissimo fino
al 1715, tanto che per questi settant’anni
di inattività (1645-1715) la corona solare,
che è riscaldata in larga misura dalla frizione e dall’agitazione delle regioni attive del
Sole, non venne mai osservata. Quando
nel 1715 ripresero fenomeni quali le aurore boreali, causate appunto dall’attività
solare, destarono a Stoccolma e a Copenhagen la più grande meraviglia e paura.
Al di sopra della fotosfera, si trova l’atmosfera solare che ha una
massa stimata sulle 1017 tonnellate, e cioè uguale alla ventimiliardesima parte dell’intera massa del Sole. In realtà, essa rappresenta soltanto pochi grammi di materia per ciascuna colonna di
atmosfera solare di un cm2 di base. L’atmosfera solare si distingue
in cromosfera e corona. ••23
La cromosfera (così chiamata dal colore rossastro dovuto all’emissione dell’idrogeno) ha uno spessore di circa 10.000 km, ed
è composta da lingue di gas, dette «spicole», che la fanno assomigliare a una prateria infocata, e da «protuberanze» consistenti
in getti di gas che dalla cromosfera si slanciano verso l’esterno, e
assumono le forme più diverse. Le protuberanze sono associate
quasi sempre alle zone di attività solare; però mentre le macchie
non appaiono mai a latitudini maggiori di 50°, le protuberanze si
presentano ovunque e dalle zone polari tendono a migrare lentamente verso latitudini più basse. La corona, che avviluppa la
cromosfera e che si presenta come un’aureola argentea intorno al
disco solare, con dei getti che si estendono per parecchi raggi solari, è un’altra specie di atmosfera estremamente tenue e di struttura eterogenea. Essa si compone di polveri (corona F), elettroni
e ioni (corona K) e la sua temperatura è compresa fra 500.000 e
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1.000.000 di gradi, tanto che gli atomi si trovano in uno stato fortemente ionizzato ossia mancanti di numerosi elettroni. La corona
solare non ha limiti precisi, ma si estende, secondo alcuni, oltre
l’orbita terrestre, immergendosi e confondendosi con la materia
interplanetaria. Inoltre, ricordiamo il flusso di particelle cariche
espulso senza interruzione dal Sole a velocità comprese fra i 300
e gli 800 km/s: è il «vento solare», che possiamo considerare un
prolungamento o un’espansione della corona. Concludiamo con
un cenno sull’attività solare e le relazioni Sole-Terra. Nel 1942,
i radar di guerra captarono casualmente le prime radioonde di
origine solare. Oggi si studiano con radiotelescopi a lunghezze
d’onda che vanno da pochi millimetri a una ventina di metri: le più
corte vengono emesse in prevalenza nella parte più bassa delle
cromosfera, le più lunghe nella corona. Durante i periodi di calma
solare, intorno al minimo di macchie, la forza delle radioemissioni corrisponde a quella che ci si può aspettare da un corpo alla
temperatura della cromosfera e della corona. Ma quando il Sole è
attivo e sono numerose le macchie e i brillamenti, cresce anche
l’emissione radio con bruschi aumenti di intensità (le radiotempeste) che si sovrappongono alle ordinarie radioonde. In questi
casi si pensa che dai brillamenti vengano espulsi getti di protoni
e altre particelle a velocità di migliaia di chilometri al secondo, disturbando nello spazio di pochi secondi i gas ionizzati della corona
e raggiungendo la Terra 24 ore dopo, dove producono tempeste
magnetiche, aurore boreali ecc.
PIANETI EXTRASOLARI
Dall’antichità fino a pochi decenni fa, gli unici pianeti conosciuti
erano quelli del Sistema solare e questo per molti secoli ha rappresentato un caso unico, il centro dell’Universo. Quando si è cominciato a comprendere la natura fisica delle stelle, e che il Sole era
una stella comunissima fra miliardi di altre, conseguentemente si
è cominciato a ritenere probabile l’esistenza di altri sistemi planetari. In realtà, già Giordano Bruno scriveva: «Esistono innumerevoli soli, innumerevoli terre ruotano attorno a questi similmente a
come i sette pianeti ruotano attorno al nostro sole». E aggiungeva:
«Questi mondi sono abitati da esseri viventi».
Il primo pianeta extrasolare, in orbita cioè attorno a una stella
diversa dal Sole, è stato scoperto solo nel 1995 da due astronomi svizzeri, Michel Major e Didier Queloz. Si supponeva che altre
stelle, forse tutte, avessero dei pianeti, perché il Sole è una stella
comunissima, e non c’era alcuna ragione di ritenere che avesse
una speciale particolarità. Oggi si pensa che, quando si forma una
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••24 Le stelle vicine al
Sole entro un volume con
raggio di 20 anni luce. Vi
troviamo numerose stelle
ben conosciute, nonché
alcuni possibili sistemi
planetari extrasolari.
stella, si formi contemporaneamente anche una nebulosa proto
planetaria da cui poi avranno origine i pianeti. Non è però facile
scoprirli, non solo perché sono come «affogati» nella luce della
loro stella, ma anche perché perfino i più lontani dal loro sole sono
visti dalla Terra a una distanza angolare troppo piccola per essere
risolta dai nostri telescopi. Supponiamo per esempio che Proxima
Centauri abbia un pianeta alla distanza che ha Plutone dal Sole.
Per calcolare la sua distanza angolare, dovremmo dividere la distanza Sole-Plutone, pari a 5870 milioni di km, per la distanza
di Proxima Centauri da noi, pari a 4,22 anni luce, ossia 40.000
miliardi di km. Si trova così un angolo di 1,46 decimillesimi di
radiante pari a 30 secondi d’arco: pur avendo considerato il caso
di gran lunga più favorevole, il pianeta sarebbe comunque difficilmente visibile nascosto dal fulgore della stella. E la maggioranza
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delle stelle si trova a decine, centinaia, migliaia di anni luce da noi.
Nel caso di una stella a 100 anni luce da noi, la distanza angolare
di un pianeta che abbia da questa stella la distanza che Plutone
ha dal Sole sarebbe inferiore al millesimo di secondo d’arco. ••24
In realtà, tutti i pianeti extrasolari scoperti fino a oggi sono stati individuati in maniera indiretta, rilevando cioè i disturbi che il pianeta
produce al moto della stella a causa della sua attrazione gravitazionale, oppure – quando la nostra visuale giace sul piano dell’orbita
– rilevando la minima, ma misurabile, diminuzione di luce che avviene tutte le volte che c’è un transito del pianeta davanti alla stella.
Due telescopi in orbita attorno alla Terra, Kepler della Nasa e
Corot dell’agenzia spaziale francese, osservando automaticamente milioni di stelle, hanno misurato periodiche diminuzioni di luce
dovute a transiti. Con questi metodi sono stati scoperti fino a oggi
parecchie centinaia di pianeti extrasolari. In gran parte sono grossi
come e più di Giove, orbitano molto vicino alla loro stella e quindi
hanno temperature troppo alte per ospitare la vita. Più i pianeti
sono grandi e vicini alla stella, maggiore è il disturbo che provocano al suo moto, e per questo è molto più facile scoprirli rispetto
a pianeti piccoli come la Terra, ma non per questo dobbiamo dubitare che esistano anche miliardi di pianeti come il nostro. È in
progetto, da parte dell’Osservatorio Europeo dell’emisfero australe
(ESO), un grande telescopio al suolo, di circa 40 metri di diametro,
che dovrebbe essere in grado di scoprire pianeti come la Terra e
fornircene delle immagini.
Un altro metodo per scoprire pianeti extrasolari si basa sulla
teoria della relatività. Einstein aveva previsto che anche la luce
fosse soggetta all’attrazione gravitazionale e una massa come per
esempio quella di una galassia frapposta fra noi e una galassia più
lontana funzionerebbe come una lente ottica facendo convergere i raggi provenienti dalla galassia lontana e dandone una o più
immagini virtuali, a seconda dell’allineamento tra l’osservatore, la
«galassia lente» e la galassia lontana. Ci sono numerose osservazioni di queste immagini date da lenti gravitazionali. Ma anche una
singola stella può agire da lente. Supponiamo che ci sia perfetto
allineamento fra una stella lontana, una stella più vicina agente da
«microlente» e l’osservatore. La microlente fa convergere la luce
proveniente dalla stella lontana che viene intensificata. L’osservatore noterà l’aumento di splendore della stella: poiché osservatore,
stella lente e stella lontana sono tutti in moto relativo l’uno rispetto
all’altro l’allineamento dura poche settimane. Se poi la stella lente è accompagnata da uno o più pianeti, anche questi agiranno
da micro-microlente e l’osservatore noterà altri minori aumenti di
splendore della stella lontana della durata di poche ore. Con questo metodo si sono scoperti una diecina di pianeti.
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