I CONTRATTI•ANNO XIII
SOMMARIO
EDITORIALE
LE NUOVE NORME A TUTELA DEGLI ACQUIRENTI DI IMMOBILI DA COSTRUIRE
di Carmen Leo
745
GIURISPRUDENZA
Parte I - Contratti in generale
PRINCIPIO DI CONSERVAZIONE E NULLITÀ DEL CONTRATTO
Cass., sez. II , 23 dicembre 2004, n. 23936
Commento di Cristina Menichino
751
RASSEGNA DI LEGITTIMITÀ
761
Parte II - I singoli contratti
I RIMEDI PER I VIZI DEL BENE PROMESSO IN VENDITA
Trib. Nola 15 settembre 2004
Commento di Linda Cilia
763
SULLA DIFFERENZA TRA MANDATO E MEDIAZIONE
Corte d’Appello di Milano, sez. I - 12 maggio 2004
Commento di Ettore Battelli
770
RASSEGNA DI LEGITTIMITÀ
788
RASSEGNA DI MERITO
Sentenze esposte da Elettra Bruno e Marco Rossetti
791
NORMATIVA
IL D.LGS. DI TUTELA DEGLI ACQUIRENTI DI IMMOBILI IN COSTRUZIONE
801
D.LGS. 7 MARZO 2005, N. 82: IL CODICE DELL’AMMINISTRAZIONE DIGITALE
di Francesco Delfini
807
PANORAMA FISCALE
A cura di Sara Armella e Francesca Balzani
819
ARGOMENTI
NOTE IN TEMA DI FORO DEL CONSUMATORE
di Giovanna Capilli
821
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA
IL RAPPORTO CONTRATTUALE TRA GLI ARBITRI E LE PARTI NEL DIRITTO TEDESCO
di Valerio Sangiovanni
827
I CONTRATTI N. 8-9/2005
743
I CONTRATTI•ANNO XIII
OSSERVATORIO COMUNITARIO
A cura di Elena Bigi, Studio legale De Berti, Jacchia, Franchini, Forlani - Bruxelles
838
MODELLI CONTRATTUALI
IL CONTRATTO DI ADDESTRAMENTO FISICO IN PALESTRA
di Carmen Leo
842
INDICI
AUTORI
845
CRONOLOGICO
845
ANALITICO
845
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744
I CONTRATTI N. 8-9/2005
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EDITORIALE•PROPRIETÀ IMMOBILIARE
Le nuove norme
a tutela degli acquirenti
di immobili da costruire
di CARMEN LEO
C
on l’approvazione del Decreto Legislativo 20
giugno 2005, n. 122 (in G.U. 6 luglio 2005, n.
155 e infra, 801 ss.) adottato in attuazione della
delega contenuta nella Legge 2 agosto 2004, n. 210 «Delega al governo per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti degli immobili da costruire» e che entrerà in vigore il
prossimo 21 luglio sono state introdotte importanti forme di tutela per gli acquirenti di immobili da costruire
(o in corso di costruzione).
Scopo della nuova normativa - come si legge nei lavori
preparatori - è quello di evitare che, come spesso accaduto in passato, il promissario acquirente di un immobile da
costruire, a causa di una «situazione di crisi» del costruttore (fallimento o altra procedura concorsuale), si trovi non
solo a non veder ultimato l’immobile, ma anche a non riuscire ad ottenere la restituzione di quanto già eventualmente corrisposto al costruttore per un immobile mai venuto ad esistenza (vantando nei confronti di questo ultimo una semplice posizione di creditore chirografario).
In passato il legislatore aveva preso in considerazione
queste esigenze introducendo la trascrizione del contratto preliminare con il D.L. 31 dicembre 1996, n. 669,
convertito nella Legge 28 febbraio 1997, n. 30, che però
non ha apportato il contributo determinante che ci si
aspettava a causa principalmente della mancanza di
informazione, dei costi a carico del promissario acquirente per l’assistenza tecnica e legale, dei costi notarili e
fiscali, del timore dell’emersione del prezzo reale di vendita, spesso occultato al fisco.
Il mancato successo dell’istituto della trascrizione del
contratto preliminare e l’allarme sociale generato dal fenomeno dei fallimenti (stime di associazioni di categoria
riportano un elevatissimo numero di fallimenti di imprese costruttrici e un altrettanto elevato numero di acquirenti coinvolti in tali fallimenti senza una effettiva tutela) (1) hanno indotto il legislatore ad introdurre ulteriori strumenti di tutela a favore dei promissari acquirenti.
La soluzione adottata dal legislatore è stata quella di prevedere in capo al costruttore di un immobile da costruire l’obbligo di rilasciare all’acquirente, al momento
della stipula del preliminare di vendita o di atto equivalente, una fideiussione a garanzia della restituzione delle somme eventualmente già versate come acconti sul
prezzo dell’immobile.
Ambito di applicazione del decreto
P
er definire correttamente l’ambito di applicazione
della nuova normativa, occorre fare chiarezza su
alcuni concetti e alcune espressioni utilizzate dal
legislatore.
a) Con l’espressione «costruttore» il legislatore ha inteso fare riferimento all’imprenditore o alla cooperativa edilizia che promette in vendita l’immobile in costruzione, e ciò
indipendentemente dalla circostanza che sia lo stesso
costruttore a provvedere direttamente alla edificazione
ovvero che ne affidi l’esecuzione ad impresa terza mediante un contratto di appalto.
b) L’espressione «acquirente» e il richiamo espresso alla
«persona fisica» paiono escludere tout court la possibilità
di estendere l’ambito di applicazione della norma al caso
in cui promissario acquirente o acquirente dell’immobile da costruire sia una «persona giuridica», quindi un ente o una società nonostante il richiamo al contratto di
leasing all’art. 1, lett. a). Rimane tuttavia da verificare se
il legislatore abbia voluto considerare come destinatarie
dei benefici della legge tutte le persone fisiche o solo
quelle che rivestono la qualità di «consumatore» e acquistano l’immobile per adibirlo a propria abitazione con
ciò, quindi, escludendo le persone fisiche che acquistano
per scopi imprenditoriali o professionali.
c) Con l’espressione «immobile da costruire» si debbono individuare sia gli immobili che siano ancora da edificare e per i quali sia stato richiesto il permesso di costruire sia gli immobili che siano in parte edificati, ma
la cui costruzione non risulti ultimata, versando in stato tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di abitabilità. Il riferimento espresso alla richiesta del
permesso di costruire sembrerebbe peraltro escludere gli
immobili promessi in vendita «sulla carta» (e per i quali
appunto non sia stato ancora chiesto il permesso) cosa
questa che consentirebbe possibili elusioni della normativa (2). Dall’esame dei lavori parlamentari non sembrano ricompresi nel concetto di «immobili da costruire»
Note:
(1) Cfr. sul punto F. Casarano, La tutela degli acquirenti di immobili in
costruzione, in Imm. e prop., Ipsoa, 2002, 193.
(2) In questo senso A. Luminoso, I contenuti necessari del preliminare, Relazione al convegno del 28 giungo 2005, Milano.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
745
EDITORIALE•PROPRIETÀ IMMOBILIARE
quelli oggetto di ristrutturazione, ma il decreto potrebbe tuttavia trovare applicazione nei casi di interventi
importanti ossia nei casi di ristrutturazione non conservativa, ma ricostruttiva (cfr. art. 3 del T.U. edilizia
D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), in considerazione della
sostanziale coincidenza d’interessi da tutelare.
d) L’espressione «situazione di crisi» del costruttore individua la fase temporale che inizia allorquando sull’immobile oggetto del contratto venga trascritto un pignoramento, ovvero nei confronti del costruttore siano iniziate procedure fallimentari, di amministrazione straordinaria, di liquidazione coatta o, ancora, di concordato
preventivo.
e) Con l’espressione «contratto preliminare e ogni altro
contratto che sia comunque diretto al successivo acquisto … della proprietà o di altro diritto reale su un
immobile oggetto del decreto» possono intendersi, oltre
naturalmente al contratto preliminare, il contratto di
opzione, il contratto di vendita di edificio futuro, il contratto di leasing di edifici da costruire, il contratto di permuta di suolo contro appartamenti da costruire e, con
qualche dubbio, il contratto di vendita ad un costruttore
di quota indivisa di area fabbricabile con contestuale
precostituzione del condominio sull’edificio da costruire
a cura e spese dell’imprenditore.
Entrata in vigore delle nuove norme
L
e nuove norme si applicano «a tutti i contratti che abbiano per oggetto immobili per i quali il permesso di costruire o atto equipollente sia stato richiesto dal costruttore in data successiva all’entrata in vigore del decreto» (art. 4).
La nuova disciplina entra in vigore il quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione della Gazzetta Ufficiale,
con qualche precisazione.
L’art. 5 del decreto in commento dichiara applicabili gli
artt. 2, 3 e 4 solamente a quei contratti stipulati per acquistare edifici da costruire la cui edificazione sarà assentita da richieste di rilascio di concessioni edilizie o da
presentazioni di DIA dal 21 luglio in avanti. Pertanto si
sottraggono all’applicazione degli artt. 2, 3 e 4 della nuova legge: a) tutti gli edifici ad oggi già in corso di costruzione, b) tutti gli edifici per i quali è stata richiesta già
prima del 21 luglio l’abilitazione, pur non essendo iniziata la costruzione.
La ratio di tale previsione, come si legge nella relazione
illustrativa del decreto, è quella di esentare le iniziative
edilizie in corso da adempimenti ed oneri non previsti,
pertanto le nuove norme non si applicano a tutti i contratti che hanno ad oggetto immobili per i quali è stato
già richiesto il permesso di costruire o altro atto equivalente al momento di entrata in vigore del decreto.
Fideiussione
L’
art. 2 del decreto prevede che «all’atto della stipula di un contratto (….), ovvero in un momento
precedente, il costruttore è obbligato, a pena di nullità
del contratto che può essere fatta valere unicamente dall’ac-
746
I CONTRATTI N. 8-9/2005
quirente, a procurare il rilascio e a consegnare all’acquirente
una fideiussione di importo pari alle somme e al valore di ogni
altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso».
Gli aspetti interessanti mi paiono i seguenti.
a) Il momento in cui deve essere consegnata la fideiussione: il legislatore ha stabilito che il costruttore debba
procurare il rilascio della fideiussione o consegnarla «all’atto della stipula del contratto» ovvero «in un momento precedente» anche se appare difficile immaginare che la fideiussione possa essere consegnata addirittura
prima della stipula del contratto preliminare. La contestualità tra consegna della fideiussione e stipulazione del
contratto potrà costituire, a mio avviso, un intralcio alla
contrattazione soprattutto in considerazione dei lunghi
tempi di rilascio delle fideiussioni. La realtà delle negoziazioni immobiliari mi suggerisce che, al momento del
raggiungimento dell’accordo, esso non potrà essere immediatamente formalizzato con la stipulazione del contratto preliminare. Tale momento dovrà essere rimandato a quando il costruttore sarà in grado di consegnare la
fideiussione. Forse un aiuto alla celerità della contrattazione potrà venire dall’art. 2.1 che prevede la possibilità
di rilasciare una fideiussione «anche secondo quanto
previsto dall’art. 1938 Codice civile» e quindi anche
nella forma di una fideiussione per obbligazione futura,
ossia una fideiussione che vedrà aumentare il suo importo con il pagamento delle rate di prezzo dilazionate, pur
nell’ambito di un importo massimo previsto. Il costruttore potrà prevedere rate di uguale importo per determinate categorie di appartamenti aventi lo stesso valore e
preparare così per tempo la fideiussione con l’istituto
bancario, riservandosi di completarla con il nome dell’acquirente, di volta in volta oppure si può ipotizzare (3)
la stipulazione di un contratto preliminare sospensivamente condizionando il rilascio di una fideiussione entro
un certo termine. In tal modo si può subito sottoscrivere
il contratto preliminare e, al contempo, evitare la nullità
del contratto per la mancanza del contestuale rilascio
della fideiussione; il primo pagamento potrà avvenire al
momento dell’avverarsi della condizione, ossia al rilascio
della fieiussione;
b) i soggetti che possono rilasciare la fideiussione: sono
banche, assicurazioni e anche gli intermediari finanziari
iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 107 del D.Lgs.
1°settembre 1993, n. 385;
c) l’oggetto: l’obbligazione garantita dalla fideiussione
non è l’adempimento del contratto, ma la restituzione
delle somme versate dall’acquirente;
d) l’escussione: il diritto dell’acquirente ad escutere la
fideiussione sorge in quattro ipotesi ben definite e tali
da non lasciare incertezza o da non consentire eccezioni al diritto dell’acquirente di escutere. Tali ipotesi
elencate all’art. 3, secondo comma, sono: a) la trascriNota:
(3) A. Busani, Il Sole 24 Ore del 30 giugno 2005, 29.
EDITORIALE•PROPRIETÀ IMMOBILIARE
zione del pignoramento relativo all’immobile oggetto
del contratto; b) la pubblicazione della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa; c) la presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo; d) la pubblicazione della sentenza che
dichiara lo stato di insolvenza o, se anteriore, del decreto che dispone la liquidazione coatta amministrativa o l’amministrazione straordinaria. Il legislatore ha
posto solo un onere e un limite al diritto dell’acquirente di escutere la fideiussione, stabilendo che nell’ipotesi di cui alla lettera a) l’acquirente abbia comunicato al
costruttore la propria volontà di recedere dal contratto
e nelle ipotesi di cui alle lettere b), c) e d) che l’organo
della procedura concorsuale non abbia comunicato per
primo la sua volontà di subentrare nel contratto preliminare;
e) natura: ci si è domandati se la fideiussione abbia la valenza di un contratto autonomo di garanzia, con la possibilità per l’acquirente di escutere immediatamente la fideiussione a prescindere dalle eccezioni fondate sul rapporto principale o sul contratto di fideiussione (4). A mio
avviso, si tratta di una fideiussione in senso stretto e non
a prima richiesta non essendovi nella legge qualcosa che
legittimi la configurazione della fideiussione come contratto autonomo di garanzia;
f) efficacia: l’efficacia cessa al momento del trasferimento della proprietà dell’immobile;
g) sanzioni in caso di mancato rilascio: il mancato rilascio della fideiussione comporta nullità del contratto,
nullità che può essere fatta valere solo dall’acquirente
(5); la legge non prevede il caso in cui l’importo della fideiussione e i contenuti della stessa non siano quelli previsti dal decreto ma, a mio avviso, se il promissario acquirente riceve una fideiussione di importo diverso, ovvero minore, del prezzo indicato nel preliminare o a condizioni diverse, può comunque far valere la nullità dello
stesso.
Polizza assicurativa
I
l costruttore ha l’obbligo di contrarre una polizza assicurativa decennale a beneficio dell’acquirente, con
effetto dalla data di ultimazione dei lavori, a copertura dei danni materiali e diretti all’immobile, compresi i
danni ai terzi.
Gli aspetti da considerare sono:
a) quando deve essere stipulata: al momento del trasferimento della proprietà, con effetto dalla data di ultimazione dei lavori;
b) quale è l’oggetto: il risarcimento per danni derivanti
(ai sensi dell’articolo 1669 del Codice civile) da rovina
totale o parziale oppure da gravi difetti costruttivi delle
opere, per vizio del suolo o per difetto della costruzione,
e comunque manifestatisi successivamente alla stipula
del contratto definitivo di compravendita o di assegnazione.
Non è chiaro come calcolare l’importo della polizza, se
questo può essere modificato in relazione al passare del
tempo e al diminuito valore dell’immobile (ma questa
scelta implica chiarezza sul primo punto ossia su come
calcolare il valore della polizza stessa: costo di costruzione, valore di mercato dell’immobile ecc.), se debba
essere consegnata una polizza pro-quota millesimale ad
ogni acquirente o possa essere consegnata una unica
polizza all’amministratore del costituendo condominio.
Contenuti del contratto
L’
art. 6 indica i contenuti minimi che deve avere
«il contratto preliminare ed ogni altro contratto… che sia comunque diretto al successivo acquisto in capo ad una persona fisica della proprietà… su
un immobile da costruire».
Si discute se questa norma, dato il mancato richiamo
dell’art. 5, si applichi dal 21 luglio a qualsiasi contratto
preliminare che riguardi edifici da costruire, oppure si
applichi solo a quei contratti che abbiano ad oggetto
edifici da costruire per i quali il titolo abitativo sia richiesto dopo il 21 luglio (6).
Non è certamente la prima volta che il legislatore detta prescrizioni sul contenuto di un contratto, senza indicare le conseguenze dell’inosservanza delle prescrizioni stesse (7). È già infatti sorto un vivace dibattito
tra i primi commentatori della Legge Delega sulle conseguenze della mancanza delle prescrizioni minime
contenute nel primo comma dell’art. 6 (8). Le tesi sono sostanzialmente due: vi è chi sostiene che la mancanza delle indicazioni (di tutte le indicazioni) imposte
dall’articolo 6 determini la nullità del contratto per
violazione di norme imperative di ordine pubblico e
che quindi si debba parlare di nullità virtuale ai sensi
dell’art. 1418 del Codice civile e vi è chi sostiene che
la mancanza delle indicazioni imposte dall’art. 6 debba
essere considerata alla stregua della violazione di un
Note:
(4) A. Busani, Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2005, 27.
(5) Un precedente in questo senso in tema di multiproprietà, all’ art. 7,
D.Lgs. n. 427/98, con funzioni però di garanzia dell’ultimazione lavori e
quindi di performance bond, dove «il venditore è obbligato a prestare fideiussione bancaria o assicurativa a garanzia della ultimazione dei lavori di costruzione del bene immobile, con conseguente nullità del contratto» e per altri casi previsti dalle leggi speciali, cfr. C. Leo in La Multiproprietà, di G. De
Nova, P.F. Giuggioli e C. Leo, commento sub. art. 7, nota 135, in Collana
Prima Lettura, Ipsoa, 1999.
(6) A. Butani, Il Sole 24 Ore del 7 luglio 2005, 22.
(7) G. De Nova, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. dir.
priv., 1985, 451 e ss; G. De Nova, Trasparenza e connotazione, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 1994, 940 e ss; U. Morello, L’oggetto della nuova disciplina:multiproprietà reale ecc., in questa Rivista, 1999, 68; C. Leo, Il Franchising sub commento art .3, 14 e ss., Collana Prima Lettura, Ipsoa, 2004 e note ivi citate; nel senso della nullità del contratto: F. Gambaro e A. Martini, La subfornitura cinque anni dopo, in Contr. e Impresa/Europa, 2003, 552.
(8) L’art. 6 nel secondo comma prevede inoltre che «agli stessi contratti devono essere allegati» due ordini di documenti: il capitolato tecnico descrittivo dell’immobile oggetto di contrattazione e gli elaborati progettuali.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
747
EDITORIALE•PROPRIETÀ IMMOBILIARE
obbligo di trasparenza e di informazione e che quindi la
sanzione debba essere quella che consegue ad un inadempimento precontrattuale, contrattuale o extracontrattuale. Ora, a me pare che non si possa parlare né
sempre di nullità né sempre di inadempimento agli obblighi di informazione e quindi di responsabilità, e che
la sanzione vada valutata e definita volta per volta. Infatti, se le finalità perseguite dal legislatore vogliono assicurare una maggiore specificazione dell’oggetto del
contratto e del contenuto delle prestazioni dovute,
l’indagine, caso per caso, di ogni specifica indicazione
dell’articolo 6 porterà a verificare se detta mancanza
comporti una indeterminatezza o indeterminabilità
dell’oggetto del contratto ai sensi dell’art. 1346 Codice
civile e quindi la nullità del contratto ex art. 118 Codice civile. Ugualmente non si può escludere o ammettere del tutto l’inadempimento e la conseguente responsabilità ma, a mio avviso, va ricercata e applicata nei
casi in cui il costruttore non ha denunciato l’esistenza
di situazioni giuridiche o di fatto (soprattutto qualitative) attinenti all’immobile.
Esenzione e limiti alla esperibilità della azione
revocatoria
I
l decreto introduce esenzioni e limiti alla esperibilità della revocatoria fallimentare, escludendo
espressamente (art. 10, primo comma) che possano
formare oggetto di revocatoria fallimentare gli atti a titolo oneroso di trasferimento della proprietà (o altro
diritto reale di godimento) di immobili che siano adibiti a residenza dell’acquirente o di un parente o affine entro il terzo grado e, a condizione che tali atti siano stati posti in essere al «giusto prezzo», da valutare
non alla data della stipula del contratto definitivo,
bensì del preliminare.
Per l’operatività della norma devono quindi verificarsi
due presupposti:
a) l’uso abitativo dell’immobile (solo per immobili destinati ad abitazione dell’acquirente o di affini e parenti);
b) il giusto prezzo corrisposto.
Quanto al momento in cui valutare tale «giusto prezzo»
è rilevante che, trattandosi di acquisto posto in essere in
esecuzione degli impegni assunti con il preliminare, il legislatore ha ritenuto di fissare alla data di stipulazione di
tale contratto il momento temporale al quale ancorare la
valutazione di congruità del prezzo pagato, prescindendo
dai valori correnti al momento della conclusione del
contratto definitivo. Ciò in controtendenza con il consolidato orientamento dei giudici secondo cui il momento rilevante per la determinazione del valore dei beni sia quello del contratto definitivo.
Ciò detto, la norma pone un problema di coordinamento con le modifiche introdotte, in tema di revocatoria,
all’art. 67 Legge fall. dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, c.d.
decreto competitività (e dalla legge di conversione
80/2005) che ha, infatti, introdotto una serie di esenzioni alla esperibilità della revocatoria tra cui quella relati-
748
I CONTRATTI N. 8-9/2005
va alle «vendite a giusto prezzo di immobili ad uso abitativo,
destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o
dei suoi parenti o affini entro il terzo grado» (art. 2, D.L. n.
35/2005, conv. Legge 14 marzo 2005, n. 80).
Molte le differenze tra il nuovo art. 67 della legge fallimentare e la norma del decreto in esame:
a) il decreto si applica solo agli immobili da costruire,
mentre la disposizione della legge fallimentare trova applicazione alle vendite di qualsiasi immobile e quindi
anche alle vendite da parte di soggetti diversi dal costruttore;
b) il decreto si applica a tutti i contratti che hanno per
oggetto il trasferimento della proprietà e di un diritto
reale, mentre la disposizione della legge fallimentare riguarda solo le vendite (ad effetti reali);
c) entrambe le disposizioni fanno riferimento all’uso abitativo dell’immobile, ma solo il decreto prevede un impegno, che deve risultare in atto, da parte dell’acquirente a stabilire, entro 12 mesi dall’acquisto o dalla ultimazione dell’immobile, la propria residenza o la residenza di un parente o affine entro il terzo grado;
d) entrambe le disposizioni fanno riferimento al giusto
prezzo, senza fornire tuttavia alcun criterio, anche quantitativo, per chiarire come definire il «giusto prezzo». Ora
probabilmente si dovrà aver riguardo al prezzo di mercato e, una volta individuato tale parametro, si dovrà stabilire entro quali limiti sia consentito discostarsene, senza
che ciò comporti perdita del presupposto per ottenere l’esenzione dalla revocatoria (nel decreto, peraltro, manca
il riferimento previsto dall’art. 67 Legge fall., nella quale
si considerano, ad esempio «le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte che sorpassano di oltre un quarto ciò che
è stato dato o promesso al fallito medesimo»).
Altre previsioni
P
er i limiti di questo lavoro, mi soffermerò solo brevemente sulle norme degli art. 7 (Modificazioni
art. 39 T.U. 1° settembre 1993, n. 385) e dell’art. 8
(Obbligo di cancellazione e frazionamento dell’ipoteca
antecedente alla compravendita) che prevedono il diritto alla suddivisione in quote del finanziamento ed il corrispondente frazionamento dell’ipoteca iscritta a garanzia nonché il diritto a che l’eventuale cancellazione dell’ipoteca o del pignoramento gravante sull’immobile
possa avvenire prima (o contestualmente) della stipulazione del contratto definitivo di compravendita. Viene
ampliato il novero dei soggetti aventi diritto a chiedere
la suddivisione del finanziamento aggiungendo il promissario acquirente e l’assegnatario e si prevede il ricorso all’Autorità Giudiziaria per la nomina di un notaio
che provveda ai predetti adempimenti, qualora la Banca
ometta di provvedervi entro 90 giorni dal ricevimento
della richiesta. L’art. 8, in particolare, stabilisce che il notaio non possa stipulare il contratto definitivo di compravendita se il finanziamento non sia suddiviso in quote o non sia stata cancellata o frazionata l’ipoteca o il pignoramento gravante sull’immobile.
EDITORIALE•PROPRIETÀ IMMOBILIARE
L’art. 9 attribuisce all’acquirente che abbia ottenuto la
consegna dell’immobile e lo abbia adibito ad abitazione
principale per sé o per un proprio parente di primo grado, il diritto di essere preferito nell’acquisto di detto immobile nel caso di vendita all’incanto dello stesso, al medesimo prezzo e condizioni fissate in sede di asta. È una
prelazione obbligatoria, inopponibile ai terzi in caso di
aggiudicazione dell’immobile.
Infine il Fondo di solidarietà che viene previsto dall’art.
12 all’art. 18 del Decreto in commento, istituito presso
il Ministero dell’economia e delle finanze, ha lo scopo
di indennizzare gli acquirenti che in caso di insolvenza
dei costruttori abbiano subito un danno (nel periodo
dal 31 dicembre 1993 alla data di entrata in vigore del
decreto) o abbiano perso la proprietà dell’immobile a
seguito dell’azione revocatoria esercitata ai sensi dell’art. 67 Legge fall.
Il Fondo verrà alimentato con un prelievo a carico dei
costruttori che richiedono il rilascio delle fideiussioni da
consegnare ai loro acquirenti ai sensi del decreto in commento, l’Istituto che rilascerà la fideiussione percepirà
dal costruttore richiedente, e poi verserà al Fondo, un
importo pari al 4 per mille del valore della fideiussione
(importo che dopo il primo anno potrà variare ma mai
superare il 5 per mille).
Conclusioni
Q
ueste norme, nonostante qualche mancato coordinamento, qualche imperfezione di tecnica legislativa, alcuni vuoti di disciplina e la mancata
soluzione del problema dei pagamenti non risultanti dal
contratto (che influenzerebbe la disciplina della fideiussione) o dell’occultamento di corrispettivo tra il prezzo effettivamente pagato e risultante dal preliminare e quello
indicato nel contratto definitivo ai fini di risparmio fiscale, sono in realtà un buon passo avanti non solo al fine di
tutelare l’acquirente dalla perdita delle somme versate in
sede di contratto preliminare di immobile in corso di costruzione, per le situazioni di crisi dei costruttori, ma anche al di fuori di questa ipotesi. Alcune norme infatti
hanno valenza generale: quelle che prevedono il contenuto minimo obbligatorio del contratto preliminare o
quelle che impongono l’obbligo del costruttore di fornire
garanzie per il risarcimento del danno per vizi e difformità
dell’immobile ai sensi dell’art. 1669 Codice civile sono dirette a rendere il mercato immobiliare più informato, trasparente e sicuro. Si tratterà di monitorare l’applicazione
di queste nuove norme e, in particolare, di verificare se e
come i costi di queste garanzie influenzeranno il mercato
immobiliare, magari gravando sul prezzo degli immobili e
quindi, in ultima analisi, sugli stessi promissari acquirenti.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
749
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
Interpretazione
Principio di conservazione
e nullità del contratto
Cassazione Civile, sez. II - Sentenza del 23 dicembre 2004, n. 23936
Pres. Calfapietra - Rel. Piccialli - P.M. Fuzio (Conf.) - Ric. G. - Res. V. M. O.
Contratti in genere - Interpretazione - Conservazione del contratto - Interpretazione idonea a dare comunque significato alla contrattuale - Sussidiarietà del criterio - Utilizzabilità - Fattispecie
In tema di interpretazione del contratto, il criterio ermeneutico contenuto nell’art. 1367 Codice civile comporta che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno. (Nella specie, relativa all’obbligazione contrattuale di eradicare una pianta infestante, la Corte Cass. ha confermato la sentenza di merito che, accertata l’impossibilità della scomparsa definitiva, allo stato della scienza e della tecnica agraria, aveva escluso che si trattasse di contratto nullo per impossibilità dell’oggetto, in quanto era inverosimile che le parti avessero dedotto in contratto un’obbligazione di tal genere e non piuttosto la scomparsa
temporanea dell’infestante).
Svolgimento del processo
on atto notificato in data 4 agosto 1990 la ditta
M., meglio in epigrafe indicata, citò al giudizio
del Tribunale di Pordenone C. G., al fine di sentirlo condannare al pagamento della somma di Lire
20.372.998, oltre interessi, a titolo di insoluto corrispettivo di lavori di giardinaggio eseguiti presso l’abitazione
del convenuto.
Costituitosi quest’ultimo, eccepiva che la prestazione
convenuta con l’appaltatrice, prevedente tra l’altro e
segnatamante il diserbo del giardino, era rimasta incompleta o comunque non era stata eseguita a regola
d’arte, tant’è che nel terreno erano ricomparse le preesistenti erbe infestanti; si dichiarava, pertanto, disposto
al concordato pagamento solo a condizione che l’attrice avesse provveduto alla bonifica, chiedendo invece,
che in caso contrario o di impossibilità della stessa, il
contratto venisse dichiarato risolto per inadempimento della ditta M., con condanna della stessa al risarcimento dei danni.
Con sentenza del 16 ottobre 1996, confermativa di ordinanza ex art. 186 quater Codice di procedura civile l’adito Tribunale, sulla scorta delle risultanze della prova testimoniale e dell’espletata c.t.u., condannava il convenuto al pagamento della somma richiesta dall’attrice, oltre agli interessi legali ed alle spese.
Proposto dal G. rituale appello, resistito dalla ditta M.,
con sentenza del 10 maggio-17 ottobre 2000 la Corte
d’Appello di Trieste respingeva il gravame, confermando la decisione di primo grado e condannando l’appellante alle ulteriori spese.
Le sentenze di merito hanno ritenuto provato, attraver-
C
so la prova testimoniale, e confermato, dalle risultanze
della consulenza tecnica di ufficio, che la ditta M. avesse interamente e correttamente eseguito la prestazione
dedotta in contratto, segnatamente quella concernente
il diserbo del giardino, mediante l’eliminazione della
pianta infestante (c.d. «equiseto»), la cui ricomparsa,
non eliminabile irreversibilmente secondo lo «stato della scienza e della tecnica agraria ... era da attribuirsi alla
incuria della manutenzione da parte del proprietario»
del giardino.
Avverso tale decisione il G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi; resiste l’intimata con controricorso.
La ricorrente ha depositato memoria
Motivi della decisione
on il primo motivo di ricorso viene dedotta
«omessa e comunque insufficiente ed illogica
motivazione circa un punto decisivo della controversia».
La sentenza di appello, sostanzialmente riassuntiva di
quella di primo grado, avrebbe omesso di individuare l’esatta natura del contratto in questione e, segnatamente,
l’oggetto della prestazione dell’appaltatore, che non sarebbe stata limitata alla scomparsa temporanea
dell’«equiseto», ma al definitivo eradicamento di tale erba infestante dal prato.
Tale prestazione, come confermato dalla relazione del
c.t.u., non sarebbe stata adempiuta, essendo emerso che
gli eseguiti «interventi di erpicatura e diserbo», ai quali
non avevano fatto seguito trattamenti idonei ad evitare
la ripresa vegetativa delle piante infestanti, non avevano
C
I CONTRATTI N. 8-9/2005
751
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
conseguito il desiderato e convenuto effetto irreversibile.
Illogicamente, poi, sarebbe stato desunto dalle dichiarazioni, peraltro anche contraddittorie, dei testi, limitatisi
a riferire di non aver visto nel prato, «al termine dell’intervento M.», dette piante, la circostanza dell’effettivo
eradicamento delle stesse.
Strettamente connesso è il secondo motivo, con il quale
si censura «omessa motivazione e comunque insufficienza e contraddittorietà della stessa», per avere la Corte di
merito, da un lato, affermato che la ditta M. aveva
«adempiuto alla propria obbligazione di eradicare l’equiseto», pur avendo, per altro verso, considerato di «oggetto impossibile» detta obbligazione, «in quanto alla luce
della scienza e della tecnica agraria attuali l’eradicamento non era possibile».
Le suesposte censure non sono meritevoli di accoglimento.
La Corte di merito non si è sottratta all’obbligo di individuare l’oggetto essenziale della prestazione, a carico
della ditta appaltatrice, indicandola, sulla scorta delle citate risultanze documentali, nell’eradicamento totale
della pianta infestante dal prato.
Né è incorsa in contraddizione o illogicità al riguardo,
nella parte in cui ha implicitamente confermato quella
parte della motivazione della sentenza di primo grado, riportata nella narrativa della sentenza d’appello, secondo
la quale la scomparsa definitiva dell’equiseto doveva
considerarsi prestazione di oggetto impossibile allo stato
della scienza e tecnica agraria», considerato che siffatta
asserzione non equivaleva ad affermare che la prestazione dedotta in contratto sarebbe stata impossibile (ipotesi nella quale il contratto sarebbe stato affetto da nullità,
ex artt. 1418 in rel. 1346 Codice civile), bensì solo che,
tenuto conto dell’impossibilità di siffatto risultato, non
era plausibile la tesi che le parti avessero dedotto in contratto un’obbligazione di tal genere.
Così argomentando i giudici di merito hanno fatto buon
governo della regola di ermeneutica contrattuale, di cui
all’art. 1367 Codice civile, a termini della quale, nel
dubbio deve propendersi per quella interpretazione del
contratto o delle singole clausole che ne consentano la
conservazione.
A tale individuazione della prestazione contrattuale incombente sulla ditta M. ha fatto seguito, da parte dei
giudici di merito, l’accertamento dell’avvenuta puntuale
esecuzione della stessa, sulla scorta delle riferite risultanze delle testimonianze (le cui ritenute attendibilità ed
univocità non possono essere più rimesse in discussione
nella presente sede), a termini delle quali il trattamento
con il diserbante era stato ripetuto (fino a quattro volte),
portando alla scomparsa, constatata de visu dai deponenti, delle piante infestanti in questione.
Considerato che con la parola «scomparsa», secondo la
comune accezione del termine, deve intendersi l’assenza
per un apprezzabile lasso di tempo, ma non la eliminazione definitiva ed irreversibile dell’oggetto indesiderato
(nella specie dell’«equiseto»), deve ritenersi che coeren-
752
I CONTRATTI N. 8-9/2005
te al compiuto accertamento è la conclusione, sorretta
dal richiamo al parere del c.t.u., secondo la quale la ricomparsa, a distanza di tempo, delle piante infestanti
non è da imputare alla negligente o imperita esecuzione
della prestazione da parte della ditta M., ma alla successiva incuria della parte attrice nella manutenzione del
giardino, non oggetto di ulteriori interventi che avrebbero consentito il consolidamento o comunque la maggiore durata degli effetti del trattamento, di erpicatura e
diserbo, da quella posti in essere.
Il suesposto apparato argomentativo della decisione impugnato si presenta, dunque, adeguato, resistendo alle
censure del ricorrente, che si risolvono in palesi tentativi di rimettere in discussione, nella presente sede di legittimità, accertamenti di merito ormai incensurabili.
Il ricorso va, pertanto, respinto; le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in
favore della resistente, delle spese del presente giudizio,
che liquida in complessivi euro duemilacento, di cui euro duemila per onorari.
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
IL COMMENTO
di Cristina Menichino
La sentenza in commento, arricchendo gli scarsi precedenti applicativi della regola ermeneutica di cui all’art. 1367 Codice civile, decide un caso in cui è stato
applicato il principio di conservazione in caso di dubbio sulla validità di un contratto, in presenza di una
clausola ambigua relativa ad una prestazione che, tra
due significati plausibili, poteva essere interpretata
sia come possibile sia come impossibile.
Il commento intende fornire una riflessione sul percorso logico ed argomentativo effettuato dalla Corte di
Cassazione, presentando anche una casistica relativa
all’applicazione giurisprudenziale del principio di conservazione in ipotesi di contratto nullo.
Premessa
«Magis valeat quam pereat», questo il noto passo riportato dai compilatori giustinianei (1), cui si sono ispirate le norme del codice abrogato e di quello attuale sul
principio di conservazione del contratto applicabile in
tema di interpretazione. Dal «valere», nel senso di attribuire valore o validità all’atto giuridico, e dalla necessità
che l’affare sia mantenuto stabile (secondo l’ulteriore
passo delle fonti romane tramandatoci dalla tradizione:
«Quotiens in stipulationibus ambigua oratio est, commodissimum est id accipi, quo res, qua de agitur, in tuto sit») (2), si
è passati - come attestato anche dall’evoluzione linguistica del termine - all’opportunità di conservare il contratto e le sue clausole e di interpretarli, in caso di dubbio, nel senso che questi possano avere «qualche effetto,
anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno»
(riprendendo l’espressione che si ritrova nell’art. 1367
Codice civile).
Se, attualmente, dal punto di vista etimologico conservare significa «mantenersi, rimanere, anche dopo un
lungo tempo, in un determinato stato» (3), è necessario
verificare cosa si intende dal punto di vista giuridico
conservare il contratto o le sue clausole; se per avere un
«qualche effetto» giuridico, espresso nell’art. 1367 Codice civile, si intende un «qualche significato utile» o il
«massimo significato utile» tra quelli possibili; se il principio di conservazione abbia una capacità espansiva al di
là dell’ambito dell’interpretazione consentendo di convertire il contratto nullo. Queste sono principalmente le
problematiche sottese alla decisione che si commenta.
Il caso
Una ditta appaltatrice agiva in giudizio contro Tizio,
proprietario di un giardino, per il pagamento del corrispettivo per l’esecuzione di lavori di giardinaggio e di diserbo del giardino svolti a favore dello stesso.
Tizio eccepiva la incompletezza o la non corretta esecuzione della prestazione, posto che non erano state eli-
minate del tutto dal giardino le erbe infestanti (in particolare l’«equiseto»), poi ricomparse in epoca successiva
all’intervento dell’appaltatrice.
Le sentenze di primo e di secondo grado condannavano Tizio al pagamento del prezzo, ritenendo provato per
testi e confermato dalle risultanze della C.T.U. che la ditta esecutrice delle opere avesse eseguito la prestazione dedotta in contratto mediante l’eliminazione della pianta
infestante, e che comunque secondo «lo stato della scienza e della tecnica agraria» tale pianta non era eliminabile
irreversibilimente, e che nella specie la sua ricomparsa
era imputabile ad incuria del proprietario del giardino.
Tizio ricorreva in Cassazione denunziando la insufficienza ed illogicità della motivazione della sentenza (per
non avere individuato la prestazione dell’appaltatrice);
nonché la contraddittorietà della stessa (per avere deciso che la ditta avesse adempiuto la sua obbligazione, nonostante questa fosse stata ritenuta impossibile).
La Corte di Cassazione, confermando le decisioni dei
giudici di secondo grado, respingeva il ricorso.
Quanto al primo motivo di impugnazione, sosteneva
che la Corte d’Appello avesse correttamente individuato l’oggetto della prestazione consistente nell’eradicamento «totale» della pianta infestante.
Affrontando il secondo motivo del ricorso, la Corte
di Cassazione è partita dalla premessa che l’oggetto della
prestazione fosse di significato dubbio, come sembra
emergere dalla lettura della sentenza sebbene la motivazione non sia proprio lineare sul punto.
L’alternativa offerta dalla clausola ambigua era relativa al significato dell’«eradicamento totale» della pianta
infestante: se per esso dovesse intendersi l’eliminazione
«definitiva» o solo la eliminazione «temporanea».
Il primo dei due significati avrebbe reso la prestazione impossibile - perché era stato accertato che la scomparsa definitiva della pianta infestante sarebbe stato impossibile secondo lo stato della scienza e della tecnica del
momento - e conseguentemente il contratto nullo ai
sensi degli artt. 1418 e 1346 Codice civile.
Note:
(1) Giuliano, in Digesto, 34, 5, 12. Il passo integrale è: «Quotiens in actionibus aut in exceptionibus ambigua oratio est, commodissimum est id accipi, quo res, de qua agitur magis valeat quam pereat», che può essere interpretato liberamente nel seguente modo: ogni qual volta nelle azioni o
eccezioni il discorso è ambiguo, la cosa più conveniente è di intenderlo
nel modo che l’affare, di cui si tratta, abbia validità piuttosto che venga
meno.
(2) Ulpiano, in Digesto, 45, 1, 80. Secondo un’interpretazione letterale e
libera: ogni qual volta nelle convenzioni verbali il discorso è ambiguo, la
cosa più conveniente è di intenderlo nel modo, onde assicurare l’affare, di
cui si tratta.
(3) N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, XI ed., Zanichelli, Bologna, 1987.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
753
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
La Corte scioglieva il dubbio considerando che «secondo la comune accezione del termine» per la parola
«scomparsa» deve intendersi «l’assenza per un apprezzabile lasso di tempo ma non la eliminazione definitiva ed
irreversibile dell’oggetto considerato (nella specie
dell’“equiseto”)».
Dopodiché la Corte di Cassazione - riportando la
motivazione della Corte d’Appello - ha affermato che
menzionare la «scomparsa definitiva» «non equivaleva
ad affermare che la prestazione dedotta in contratto sarebbe stata impossibile», ma che, «tenuto conto dell’impossibilità di tale risultato non era plausibile la tesi che le
parti avessero dedotto in contratto un’obbligazione di tal
genere».
La Corte così argomentando ha optato per l’interpretazione che attribuisce un «effetto utile» alla clausola
ambigua (ed in questo caso l’effetto utile è di considerare la prestazione dell’appaltatore «possibile» nel dubbio
tra un significato che conserva il contratto ed uno che lo
rende senza effetto), facendo applicazione dell’art. 1367
Codice civile, in virtù del quale - osserva la stessa Corte
- «nel dubbio deve propendersi per quella interpretazione del contratto o delle singole clausole che ne consentano la conservazione».
I presupposti per l’applicazione del principio
Il principio di cui all’art. 1367 Codice civile deriva
dall’art. 1132 cod. abrogato che disponeva: «quando una
clausola ammette due sensi, si deve intendere nel senso
per cui può la medesima avere qualche effetto, piuttosto
che in quello per cui non ne potrebbe avere alcuno» (4).
Tale norma a sua volta trae origine dall’art. 1157 del Code Civil (5) che aveva quasi testualmente riprodotto l’insegnamento di Pothier (6), il quale si era ispirato ai testi
classici riportati nella compilazione giustinianea (7).
Ora la norma del codice del 1942, rispetto all’art.
1132 del codice del 1865, applica il principio di conservazione non solo alla singola clausola ma anche al contratto, ed ha come presupposto non più il significato con
«due sensi», ma il «dubbio» nel suo significato (8).
Si è osservato che il principio, che costituisce una
massima di esperienza elevata a norma di principio (9),
ispira l’intero ordinamento giuridico nazionale, ed è previsto nella maggior parte delle codificazioni moderne
(10).
Ha la funzione di assicurare il rispetto del regolamento di interessi voluto dalle parti ed i valori giuridici sottesi alla dichiarazione, nel senso di garantire la massima
realizzazione dell’autonomia privata espressa dall’art.
1322, secondo comma, Codice civile (11).
Si è precisato in particolare che l’art. 1367 Codice civile tende alla «conservazione dell’attività giuridica» in
senso lato, ossia di una comune intenzione delle parti in
senso oggettivo, ossia quella di stipulare e di dare vita ad
un regolamento di interessi, e sceglie la soluzione che dà
«valore» all’atto giuridico (regola desunta dal noto aforisma romano «magis valeat quam pereat») e/o all’efficienza
754
I CONTRATTI N. 8-9/2005
giuridica del negozio (intesa come esigenza dell’ordinamento) (12).
Sul presupposto della serietà di propositi di chi emette una dichiarazione di volontà (13), il principio sarebbe
idoneo a vincolare le parti sul piano giuridico (14).
In definitiva, la formula tende alla conservazione
dell’attività giuridica, o a dare valore all’atto giuridico,
ad attribuire allo stesso efficacia o efficienza giuridica.
Quanto alle sue modalità operative, il principio di
cui all’art. 1367 Codice civile è considerato un criterio di
natura oggettiva, in quanto presuppone una clausola o
un contratto con significato ambiguo o dubbio, con funzione sussidiaria, in quanto si applica quando il ricorso ai
Note:
(4) Affrontano l’analisi della norma, G. Messina, Negozi fiduciari, ora in
Scritti giuridici, I, Milano, Giuffrè, 1948, 95 ss; S. Pugliatti, Istituzioni di diritto civile, Milano, Giuffrè, 1933, 511; C. Grassetti, L’interpretazione del
negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, in Rist. anastatica (rispetto all’edizione del 1938), Padova, Cedam, 1983, 162 ss.. A Grassetti,
come ben noto, si deve la revisione critica dell’insegnamento tradizionale e la sua elaborazione di una teoria dell’interpretazione ha influenzato la
redazione delle attuali norme sull’interpretazione.
(5) «Lorsqu’une clause est susceptible de deux sens, on doit plutôt l’entendre
celui dans lequel elle peut avoir quelque effet, que dans celui dans lequel elle
n’en pourroit avoir aucun».
(6) Traité des obligations, Nouvelle Édition par M. Bernardi, Letellier, Paris, 1805, I, n. 92: «Lorsqu’une clause est susceptible de deux sens, on doit
plutôt l’entendre dans celui avec lequel elle peut avoir quelque effet, que dans le
sens avec lequel elle n’en pourrait produire aucun».
(7) Vedi i passi di Ulpiano (in Digesto, 45, 1, 80) e di Giuliano (in Digesto, 34, 5, 12), citati in nota 1. Su questi aspetti storici si rinvia a C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico, cit., 162 ss.; nonché Id., Conservazione (principio di), in Enc. dir., IX, 1961, 173.
(8) L’art. 1367 Codice civile dispone: «Nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche
effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno».
(9) M. Casella, voce Negozio giuridico (Interpretazione), in Enc. dir., XXVIII, Milano, Giuffrè, 1978, 20, che afferma: «nell’esperienza giuridica
ispirata a criteri di economia, ogni atto si deve ritenere produttivo di
qualche effetto, piuttosto che di nessuno».
(10) C. Grassetti, voce Conservazione (principio di), cit., 173.
(11) G. Stella Richter, Il principio di conservazione del negozio giuridico, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, 411; G. Mirabelli, Dei contratti in generale, in
Comm. al cod. civ., libro IV, II, II ed., Utet, Torino, 1967, 249.
(12) L. Bigliazzi Geri, L’interpretazione del contratto, in Cod. civ. comm.,
diretto da Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1991, osserva: «E ciò che essa
dice è che, di fronte ad un atto che ammetta due interpretazioni tutte
ugualmente plausibili, ma una delle quali, se adottata, condurrebbe all’inefficienza dello stesso (perché nullo o perché privo di valore negoziale),
l’interprete non può che scegliere l’altra (…). Magis valeat quam pereat,
dunque: ma non il contratto, bensì, si ripete, un contratto, che, ad uscir
di dubbio, la legge impone alle parti in virtù di una scelta che sembra
trovare in un’oggettiva esigenza di regolarità ed efficienza giuridica (non
in una presumibile volontà in tal senso orientata) il criterio risolutore
dell’alternativa. È in tal senso quindi che si può considerare l’art. 1367
norma sulla conservazione dell’attività giuridica capace di esprimere
quel profilo di essa che si traduce nel noto aforisma già enunciato (magis
valeat quam pereat)».
(13) Grassetti C., voce Conservazione, cit., 173.
(14) C. Scognamiglio, L’interpretazione, in I contratti in generale, a cura di
E. Gabrielli, Torino, 1999, 977.
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
criteri dagli artt. 1362 a 1365 non ha dato esito positivo
(15), i quali sono diretti ad accertare la volontà in concreto delle parti e prescindono dall’ambiguità della dichiarazione (16).
Il principio di conservazione tende, secondo una
parte della dottrina, ad individuare non la volontà in
concreto, ma «la presumibile volontà espressa nella dichiarazione, considerando come effettivo un valore soltanto presumibile» (17). Secondo altri autori, invece,
l’art. 1367 Codice civile non contempla l’ipotesi di una
volontà neppure presunta, ma ha solo l’intento di intepretare il contratto affinché possa avere un effetto giuridico (18).
Per parte nostra, riteniamo di condividere quest’ultima interpretazione perché laddove vi è un criterio oggettivo, non vi può essere un’indagine sulla volontà neppure ipotetica, che costituirebbe una finzione giuridica.
La tendenza attuale verso il favor contractus
L’indagine ermeneutica è relativa e condizionata dal
periodo storico e dal contesto sociale di riferimento,
nonché dai valori sottesi allo stesso (19). L’indagine secondo il criterio di cui all’art. 1367 Codice civile è un tipo d’interpretazione «tecnica», che è quella che si inquadra «nella totalità dell’ambiente sociale, secondo le
vedute in esso correnti circa l’autonomia privata» (20).
Certamente il significato che aveva la formula «conservare la clausola» nel vigore dell’art. 1132 del cod.
abrogato e «conservare il contratto» al momento dell’emanazione del codice nel 1942 è diverso di quello che ha
nel 2005, perché prima vigeva il principio del dogma
della volontà e l’operazione ermeneutica era rivolta a
conservare l’atto di autonomia privata, attualmente ci si
trova in un contesto in cui «la forza di legge del contratto trova smentite via via più numerose e rilevanti» (21)
da parte delle norme imperative che disciplinano i contratti.
Tuttavia nel contempo si registra un passaggio da
un principio di conservazione del contratto, che trova
scarse applicazioni giurisprudenziali, ad uno di favor
contractus (22) nel senso della possibilità di mantenere
in vita il negozio mediante alcune tecniche, come la rinegoziazione dei contratti a lungo termine (23), le
clausole di severability (quelle che prevedono che la
nullità di una clausola non comporta la nullità dell’intero contratto (24)), i patti di irresolubilità (25), ed anche alla luce di quanto dispongono le fonti sovranazionali (26) e le fonti persuasive in ambito europeo ed internazionale (27).
La scelta per il significato che ha un «qualche
effetto utile» o il «massimo effetto utile»
L’espressione «avere qualche effetto» di cui all’art.
1367 Codice civile è stata intesa come «effetto utile»,
nel senso che non si dà valore al significato intelleggibile rispetto a quello inintelleggibile, posto che si presuppone che il contratto sia intelleggibile ma che l’interpre-
te si trovi di fronte ad una scelta tra due significati, uno
utile ed uno inutile (28).
L’art. 1367 impone all’interprete di preferire la soluzione giuridicamente utile, idonea a «a determinare contenuti e modalità delle conseguenze giuridiche» (29).
Una conseguenza di tale teoria è che sia necessario
attribuire un effetto inutile alla clausola, quando un’inNote:
(15) C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, cit., 110-112; 131-132, con riguardo agli artt. 11321135 e 1137 del Codice civile 1865. Negli stessi termini, Cass. 13 maggio
1998, n. 4815, in Corr. giur., 1999, 470.
(16) F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, I, § 46, VIII ed.,
Milano, 1952, 588.
(17) G. Stella Richter, op. cit., 416.
(18) V. Rizzo, Interpretazione dei contratti e relatività delle sue regole, ESI,
Napoli, 1985, 334-335; L. Bigliazzi Geri, op. cit., 287 s.s., che nega il ricorso ad elementi presuntivi o probabilistici, quali quello della volontà in
abstracto o ipotetica. N. Irti, Principi e problemi di interpretazione contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 1156, che osserva: «L’art. 1367 stabilisce la scelta del senso produttivo di effetti e l’abbandono dell’altro non produttivo di effetti, ma pure rivelato dal testo linguistico. Qui non c’è volontà vera né volontà presunta, ma soltanto l’esigenza si sfruttare il materiale significativo del contratto nella sua giuridica destinazione, che è appunto di servire all’effetto».
(19) Lo sapevano bene i giuristi romani, come osserva L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, Loescher, Torino, 1892, 15, secondo cui: «I
giureconsulti interpreti del diritto (…) dovevano evidentemente ricorrere
spesso all’etimo della parola. E siccome, pur mirando a conservare la parola e la formula tradizionale, non intendevano precludere la via ai nuovi bisogni giuridici della società - e qui, com’è noto - sta la grandezza della giurisprudenza romana - così nella parola vecchia cercavano di ravvisare il
pensiero nuovo».
(20) E. Betti, Teoria del negozio giuridico, II ediz., Torino, Utet, 1952, 348
e 362; Id., Interpretazione della legge e degli atti giuridici. Teoria generale e dogmatica, II ed. riveduta e ampliata a cura di Crifò, Milano, 1971, 403.
(21) Lo rileva G. De Nova, Contratto: per una voce, in Riv. dir. priv., 2000,
648.
(22) L’espressione è di G. De Nova, Dal principio di conservazione al favor
contractus, in Clausole e principi nell’argomentazione giurisprudenziale degli
anni novanta, a cura di L. Cabella Pisu e L. Nanni, Cedam, Padova, 1998,
306.
(23) F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione del contratto a lungo termine,
Napoli, Novene, 1996.
(24) Come specificato da G. De Nova, op. ult. cit., 307.
(25) Si veda per tutti F. Delfini, I patti sulla risoluzione per inadempimento,
Kluwer Ipsoa, 1998.
(26) G. De Nova, op. ult. cit., 306, testo e nota 6.
(27) I Principi di diritto europeo dei contratti (versione italiana a cura di Castronovo, Parte I e II, Giuffrè, Milano, 2001, 330) all’art. 5:106 sulla conservazione del contratto dispongono: «Le clausole del contratto devono
essere interpretate nel senso in cui esse sono lecite ed efficaci». Ed il commento ufficiale spiega che l’articolo è disposto in «favor negotii». Vedi anche art. 4.5 dei Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali,
Unidroit, Roma, 2004, secondo cui «Le clausole di un contratto devono
essere interpretate nel senso in cui tutte possano avere qualche effetto anziché in quello in cui talune non ne avrebbero alcuno».
(28) N. Irti, Principi e problemi di interpretazione contrattuale, cit., 11551156, citando il pensiero di G. Messina, Negozi fiduciari, cit., 96.
(29) N. Irti, op. ult. cit., 1156. V. anche C. Grassetti, op. cit., 166, secondo cui bisogna scegliere per il significato che «dà valore all’esplicazione
dell’autonomia privata».
I CONTRATTI N. 8-9/2005
755
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
terpretazione che dà valore all’effetto utile comporterebbe la nullità del contratto (30).
La dottrina è divisa sul punto se la norma legittimi
un’interpretazione del «massimo significato utile», o di
«qualche effetto utile», nel caso in cui vi siano più significati utili, ma ambigui.
Secondo la tesi negativa, qualora vi siano più significati utili, non si deve ricorrere a tale norma, perché si
utilizzano gli altri criteri interpretativi soggettivi (31).
Secondo la tesi positiva, si deve scegliere l’effetto
maggiore tra quelli possibili, perché il principio di conservazione ha una capacità espansiva (32).
Vi è una tesi intermedia di chi ritiene vi sia la necessità di distinguere tra contratti con obbligazioni di una
sola parte e contratti a prestazioni corrispettive, in questi
ultimi l’interpretazione estensiva è ammissibile perché
attribuisce il massimo risultato utile (33).
Applicazioni giurisprudenziali del principio:
il significato che ha «qualche effetto utile»
La massima è ripetuta: «l’art. 1367 Codice civile non
impone di attribuire all’atto un significato tale da assicurare la sua più estesa applicazione, ma richiede soltanto,
per il principio di conservazione cui attende, che il significato attribuitogli possa avere un qualche effetto» (34).
Per le applicazioni, si vedano i seguenti esempi.
In una sentenza si è affermato che la disdetta da un
contratto di locazione inidonea a produrre la cessazione
del contratto alla scadenza voluta dal locatore, in quanto inosservante del termine fissato dagli usi, ha l’efficacia
di produrre la cessazione della locazione per altra scadenza successiva (35).
In un altro caso si è stabilito che la clausola stipulata
tra una ditta appaltatrice ed un Comune, che stabiliva la
competenza di un organo giurisdizionale, va interpretata
non come deroga convenzionale alla competenza arbitrale prevista da una legge speciale (art. 43, D.P.R. n.
1063/1962), ma come semplice indicazione del foro
competente nell’ipotesi di responsabilità extracontrattuale per danni a terzi (36).
Un altro caso riguardava l’interpretazione di un contratto scritto di agenzia, che prevedeva il conferimento
ad un agente dell’incarico accessorio di «supervisore», e
di allegate note introduttive alle tabelle provvigionali,
che collegavano il conferimento e la permanenza dell’incarico di supervisore alla permanenza delle condizioni che avevano determinato il conferimento dell’incarico stesso, stabilendo che la revoca dell’incarico di supervisore non poteva intervenire se non dopo un certo periodo di tempo dal venire meno delle condizioni di supervisore. La Corte di Cassazione ha ritenuto contraria
al criterio ermeneutico stabilito dall’art. 1367 l’interpretazione delle note introduttive effettuata dal giudice di
merito, «secondo cui l’incarico di supervisore sarebbe revocabile senza limitazione temporale alcuna e l’agente
potrebbe essere immediatamente retrocesso da supervisore ad agente non supervisore» (37).
756
I CONTRATTI N. 8-9/2005
(segue) Il significato che ha il «massimo effetto utile»
Vi è una parte della giurisprudenza che attribuisce
valore al «massimo effetto utile» nell’interpretazione dei
vari significati dubbi offerti dalla clausola (38).
Un’applicazione interessante si riscontra in materia
laburistica, nell’interpretazione di clausole della contrattazione collettiva relative al periodo di comporto in caso
di malattia del lavoratore. Le clausole erano del seguente tenore «durante la malattia il lavoratore non in prova
ha diritto alla conservazione del posto per un periodo
massimo di 180 giorni in un anno solare» (39).
Si è discusso sulla determinazione del concetto di
malattia (se riferibile ad un unico o più eventi) e sulla individuazione dell’arco temporale (se relativo all’anno solare o di calendario) entro il quale calcolare il periodo di
comporto ex art. 2110 Codice civile.
Si è ritenuto, in relazione ad una clausola siffatta, che
la malattia si riferisse non ad un unico fatto morboso, ma
ad una pluralità di episodi di infermità anche intervellati temporalmente, che sommati ai fini del comporto raggiungevano il periodo di 180 giorni; quanto all’arco temporale, si è ritenuto che andasse individuato non nell’anno di calendario (dal 1° gennaio al 31 dicembre), ma
nell’anno solare (ossia il periodo di 365 giorni che «secondo la comune accezione scientifica è l’intervallo di
tempo fra due successivi ritorni del sole nell’equinozio di
primavera») e qualunque ne fosse il periodo iniziale.
Note:
(30) C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico, cit., 166.
(31) G. Oppo, Profili dell’interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Zanichelli, Bologna, 1943, 24 ss., 58-59. R. Sacco, in R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, II, III ed., Utet,
Torino, 2004, 412, secondo cui «l’art. 1367 conduce ad optare per un significato validante anziché per uno frustrante: ma non conduce ad optare per il significato che porti ad effetti maggiori». Aderisce alla tesi negativa, ma senza motivazione, G. Mirabelli, Dei contratti in generale, cit.,
282. Vedi inoltre C. Scognamiglio, op. cit., 978, secondo cui il massimo
significato utile non appare sostenuto da una adeguato fondamento testuale né desumibile dai principi generali in tema di conservazione degli
atti giuridici, inoltre il principio di conservazione è un criterio sussidiario.
(32) C. Grassetti, voce Conservazione, cit., 175; E. Betti, Teoria, cit., 362363. Aderisce a tale insegnamento, M. Casella, voce Negozio giuridico (interpretazione), cit., 21.
(33) G. Stella Richter, op. cit., 428-429.
(34) Cass. 17 aprile 1997, n. 3293, in Mass. Foro it., 1997, c. 310.
(35) Cass. 19 marzo 1979, n. 1601, in Rep. Giust. civ., voce Locazione di
cose, n. 140.
(36) Cass. 17 aprile 1997, n. 3293, cit.
(37) Cass. 9 novembre 2001, n. 13920, in Mass. Foro it., 2001, 1115.
(38) Cass. 1° settembre 1997, n. 8301, in Foro pad., 1998, 188, che afferma, in materia di apertura di un conto corrente bancario: «Il principio di
conservazione (…) al contempo esso non deve, in virtù dell’interpretazione data, risultare, seppur in parte, frustrato o limitato nella sua efficacia potenziale». Vedi anche Cass. 2 marzo 1977, n. 869, in Giur. it., 1978,
I, 1, 111.
(39) Cass. 11 agosto 1977, n. 3721, Rep. Giust. civ., 1972, voce Lavoro
(contratto collettivo), n. 41; Cass. 2 marzo 1977, n. 869, in Giur. it., 1978,
I, 111.
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
Un’interpretazione diversa (nel senso di calcolare un
solo evento morboso ininterrotto della durata di 180
giorni e riferito nell’arco di un anno di calendario), secondo la Corte, avrebbe tolto qualsiasi effetto alla clausola non consentendo al datore di lavoro di esercitare il
recesso decorso il termine di sospensione ex art. 2110
Codice civile, perché ciò avrebbe permesso al lavoratore di tornare al lavoro al limite del superamento del periodo di comporto e poi, riammalatosi, di godere di un
uguale periodo.
In un altro caso riguardante un preliminare di vendita di un fondo agricolo ove il promittente aveva inserito
una clausola, in cui si dava atto che il fondo promesso
era servente ad un fondo già di proprietà del promissario,
tale clausola è stata interpretata come costitutiva di un
diritto reale di servitù (ex art. 1032 Codice civile) e non
come ricognizione di un diritto reale parziale o di qualificazione giuridica di un bene (40).
La conservazione del contratto
e la sua conclusione
Secondo un orientamento giurisprudenziale assolutamente minoritario il principio di conservazione è stato
utilizzato per ritenere concluso il contratto: nel caso di
specie vi era una proposta di contratto seguita da un’accettazione non conforme, si è ritenuto che l’avviso di
inizio dell’esecuzione, inviato dal primo proponente a
prescindere dalla risposta, valesse come accettazione della nuova proposta sulla base del fondamentale principio
di conservazione del contratto. Si è argomentato che
fosse conforme all’intento delle parti ritenere concluso il
contratto, nell’alternativa tra non ritenerlo mai concluso (in quanto l’accettazione non era conforme alla proposta e non era applicabile l’art. 1327 Codice civile dato
che non si ricadeva nelle ipotesi tassative indicate dalla
norma) e tra il ritenerlo concluso (41).
Tale sentenza è stata annotata criticamente osservandosi che l’intervenuta conclusione del contratto è un
presupposto per l’applicazione dell’art. 1367 Codice civile, e tale norma non può essere utilizzata per fondare
l’intervenuta conclusione. Pertanto tale principio era
stato invocato non a proposito (42).
Art. 1367 Codice civile e il contratto nullo
È ricorrente la massima in giurisprudenza secondo
cui non è consentito applicare l’art. 1367 Codice civile
per sanare o salvare contratti nulli (43).
Si è obiettato che tale affermazione è vera, ma espressa in modo incompleto: è pacifico che il principio di
conservazione non si applica quando la volontà è chiara
ed univoca ed il negozio voluto risulti colpito dalla nullità, perché ciò porterebbe non a «conservare» il contratto, ma a crearlo. Ma va pure aggiunto che, diversamente, tale principio opera quando sia dubbio se l’atto
sia valido o meno (44).
Precisa un altro autore che le massime giurisprudenziali significano che l’art. 1367 Codice civile non auto-
rizza ad effettuare conversioni di contratti nulli attraverso interpretazioni sostitutive della vera intenzione delle
parti. Pertanto si dovrà procedere alla conversione mediante l’art. 1424 Codice civile (45).
E laddove il contratto è nullo non si applica il principio di conservazione è vero anche considerando, a nostro parere, che il dettato letterale dell’art. 1367 Codice
civile presuppone la scelta tra un significato che ha effetto e quello che non ha effetto e non tra un significato
valido ed uno nullo. A ciò sovviene la distinzione effettuata da autorevole dottrina secondo cui il contratto è
inefficace «quando è dotato di tutti i requisiti di legge,
ma fa difetto una circostanza, diversa dai costituenti del
negozio, esterna rispetto ad essi, cui è subordinata la produzione degli effetti», mentre è nullo quando il regolamento di interessi voluto dalle parti è difforme dalla fattispecie legale comprensiva degli elementi fondamentali del negozio (46).
Va poi dato conto di quella tesi secondo cui il principio di conservazione può essere utilizzato come fondamento della conversione del negozio, in particolare per
ridurre il contenuto di clausole nulle in clausole valide di
contenuto meno ampio.
Per fondare il ricorso alla conversione ci sembra opportuno menzionare l’orientamento che ha applicato lo
Note:
(40) Cass. 17 febbraio 1998, n. 1669, in Dir. e giur. agraria e ambiente,
1998, II, 213.
(41) Cass., sez. un., 9 giugno 1997, n. 5139, in questa Rivista, 1997, 445,
con nota critica di G. De Nova, Conclusione e conservazione del contratto.
(42) G. De Nova, o ult. cit., 448, che ha ritenuto che alla conclusione del
contratto si sarebbe potuto pervenire mediante l’applicazione del principio di conclusione mediante l’inizio dell’esecuzione, in quanto avrebbe
dovuto effettuarsi una lettura più estensiva dell’art. 1327 Codice civile, a
fronte di un contratto internazionale in cui devono prevalere regole che
agevolino la conclusione del contratto.
(43) L’orientamento consolidato risale a Cass. 14 luglio 1954, n. 2479, in
Mass. Giur. it., 1954, 556, secondo cui «Il principio della “conservazione”
degli effetti utili di un contratto o di una clausola presuppongono l’esistenza di una volontà, almeno parzialmente efficace sotto il profilo giuridico e come tale meritevole di protezione; ma quando fa difetto una volontà meritevole di protezione giuridica allora si è fuori della sfera di applicazione dell’art. 1367 (Nella specie, si trattava di manifestazione di volontà meramente potestativa)»; cfr. Cass. 16 dicembre 1954, n. 4515, in
Mass. Giur. it., 1954, 1023; Cass. 19 febbraio 1962, n. 331, in Foro pad.,
1962, I, 439. Si veda il commento e la giurisprudenza citata da G. Mirabelli, op. cit., 249. Infine, per una recente sintesi sul punto, anche giurisprudenziale, si rinvia a G. Fonsi, Il principio di conservazione del contratto,
in Vita not., 1995, 1043 ss.
(44) G. Stella Richter, op. cit., 415-416.
(45) R. Sacco, in R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, cit., 412. Negli stessi termini Cass. 4 luglio 1987, n. 1988, in Riv. dir. comm., 1988, II, 229.
V. anche L. Bigliazzi Geri, L’interpretazione del contratto, cit., 290, secondo
cui tale massima è difettosa in quanto tautologica, perché ruolo dell’art.
1367 Codice civile è di assegnare all’atto valore ed efficacia negoziale in
caso di dubbio tra due soluzioni, ed esclude pertanto di attribuire valore
ed efficacia negoziale all’atto che ne è privo, in quanto tale atto è non negoziale o nullo.
(46) R. Sacco, in R. Sacco, G. De Nova, Obbligazioni e contratti, in Tratt.
dir. privato diretto da Rescigno, II ed., Utet, Torino, 1995, 562.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
757
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
stesso istituto ad alcuni tipi di clausole di esonero e di limitazione della responsabilità contrattuale del vettore
marittimo nel vigore del codice abrogato.
Sebbene il codice civile del 1865 non regolasse le
clausole di irresponsabilità, queste, in virtù di un principio
riconosciuto dalla giurisprudenza come esistente nel sistema, erano considerate valide nei limiti della colpa lieve, e
quindi nulle in caso di dolo e colpa grave. Tale principio
come ben noto è stato trasposto nell’attuale formulazione
dell’art. 1229, primo comma, Codice civile (47).
Orbene, secondo un filone dottrinale di allora, si è ritenuto che le cd. «clausole di esonero generico» (o di
contenuto misto o omnicomprensivo) (48), ossia quelle
di contenuto ampio che esoneravano dalla responsabilità senza specificare l’elemento soggettivo - e come tali
riferentesi a fatti sia dolosi che gravemente colposi che
lievemente colposi e considerate nulle nel loro insieme potevano essere convertite in clausole valide di parziale
irresponsabilità per colpa lieve.
Tale questione è stato oggetto di una vivace disputa
dottrinale (49).
Una parte della dottrina, per operare la conversione
delle clausole di esonero nulle, applicava il principio di
conservazione ex art. 1132 Codice civile 1865, ricorrendo alla riduzione del contenuto della clausola, nel senso
di mantenere la clausola valida entro i confini dell’«intento utile» (50). A tale teoria si è adeguata parte della
giurisprudenza italiana e francese (51).
In segno contrario alla teoria sopra enunciata si sono
posti quegli autori che hanno affermato che tali clausole
di contenuto misto non avevano un significato plurivoco, ma univoco, in quanto «hanno una portata comprensiva di intenti utili e di intenti dannosi, entrambi in
concreto voluti» (52). Ne consegue che alle suddette
clausole non era applicabile il principio di conservazione, che ha per oggetto il mantenimento dell’intento pratico perseguito dalle parti, ed il giudice non poteva ridurre il contenuto della clausola o trasformarlo, perché
in questo modo avrebbe creato un nuovo patto sostituendosi alla volontà delle parti (53). Avrebbe dovuto
invece applicare la conversione, mediante un’indagine
della volontà ipotetica delle parti (54).
In definitiva, secondo questa ultima tesi, nel ricorrere alla conversione del negozio si dovrebbe utilizzare il
diverso criterio dell’utile per inutile non vitiatur (55).
E ciò trova ulteriore sostegno nell’argomento che la
conversione è ritenuta un’operazione che ha una sussidiarietà logica sull’interpretazione (56).
Peraltro, proprio in materia di clausole di esonero di
contenuto misto, parte della giurisprudenza ha ritenuto
di mantenere l’efficacia del patto, nei limiti in cui fosse
valido in quanto esonerasse dalla responsabilità per colpa
lieve, senza ricorrere al principio di conservazione (57).
Applicazioni giurisprudenziali
A parte le declamazioni di principio sulla non applicabilità dell’art. 1367 Codice civile ai contratti nulli (58), a
758
I CONTRATTI N. 8-9/2005
volte la giurisprudenza ha correttamente escluso l’utilizzo
del principio di conservazione per determinare la validità
o meno di un contratto, motivandone il percorso logico:
«solo quando la volontà delle parti sia effettivamente e
chiaramente individuata, anche con l’eventuale ricorso ai
suddetti criteri sussidiari, e tuttavia sussistano clausole in
contrasto con il negozio effettivamente voluto, è consentito considerare nulle tali clausole, in base alla disciplina
dell’art. 1419, secondo comma, Codice civile (59)».
Note:
(47) F. Benatti, Contributo allo studio delle clausole di esonero da responsabilità, Giuffrè, Milano, 1971, 21, nota 54, e 26-29.
(48) Su questa categoria v. R. Franceschelli, Le clausole di irresponsabilità
nei trasporti marittimi ed il problema della protezione del contraente più debole
nei contratti a serie, in Riv. dir. nav., 1938, I, 277-279; nonché Lefebvre
D’Ovidio, Studii sulle clausole di irresponsabilità, ivi, 1939, 71.
(49) C. Grassetti, R. Franceschelli, Lefebvre D’Ovidio, De Martino; R.
Nicolò, Discussione intorno al principio di conservazione dei contratti nei riguardi delle clausole di irresponsabilità, in Riv. dir. nav., 1939, I, 345-383.
(50) R. Franceschelli, Le clausole di irresponsabilità nei trasporti marittimi,
cit., 255-257, 289 ss. L’autore osserva in particolare (pag. 290), che il
principio di conservazione opera nel senso di «imporre la riduzione di
quelle, che hanno un contenuto potenziale così vasto da essere in parte
rilevante in senso negativo, in parte utile (…), entro i confini dell’intento utile».
(51) Ne dà conto Lefebvre D’Ovidio, Studii sulle clausole di irresponsabilità,
cit., 72, note 1 e 2.
(52) C. Grassetti, Discussione, cit., 353. Ha affermato, inoltre, il Vernetti
(il cui pensiero è riportato da Lefebvre in Studii sulle clausole di irresponsabilità, cit., 73), che la volontà del vettore è indivisibile, e quindi irriducibile.
(53) A tali obiezioni ha replicato il Franceschelli (Discussione intorno al
principio di conservazione, cit., 358-366) affermando che egli stesso intende il principio di conservazione in modo più ampio di quello inteso da
Grassetti, anche nel caso di dichiarazione univoca, quando si vuole che
la stessa raggiunga il massimo di utilità possibile.
(54) Ciò era stato già espresso da R. Nicolò, Discussione intorno al principio di conservazione, cit., 382-382, in replica alle osservazioni critiche di
Grassetti e Franceschelli. Osserva Cass. 19 gennaio 1995, n. 565, cit., in
motiv. c. 1168 che la conversione «intende non già sostituire alla volontà
delle parti quella dell’organo giudicando, ma, al contrario, tutelare - anche se in forma diversa da quella abi inizio divisata - l’intento comune dei
paciscenti»
(55) C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico, cit., 178-179.
(56) Avverte E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, Utet,
1952, 355 che esiste un rapporto di priorità logica tra interpretazione e
conversione: «Dove l’interpretazione ricostruisce il contenuto ed il senso
del negozio e pertanto ne determina la fattispecie, la correzione, invece,
non altrimenti che la integrazione, presuppone già fissato il contenuto e
il senso del negozio e ne determina gli effetti giuridici, non più integrandoli, ma correggendoli. Nella conversione, in particolare, la correzione si
opera attraverso una trasformazione di qualifica giuridica».
(57) Pret. Milano 19 dicembre 1990, in Giur. it., 1992, I, 2, 273, secondo cui «La clausola di un contratto di locazione, specificamente sottoscritta, con la quale si esclude il diritto al risarcimento e alla riduzione del
corrispettivo nel caso del verificarsi dell’ipotesi di cui all’art. 1584 Codice civile, è nulla ai sensi dell’art. 1229 Codice civile solo per la parte in
cui esclude la responsabilità per dolo o colpa grave, restando perfettamente valida ed efficace come patto limitativo di responsabilità». Contra,
Cass. 16 maggio 1975, n. 1918, in Arch. civ., 1076, 65.
(58) Vedi la giurisprudenza citata alla nota 43.
(59) Cass. 11 giugno 1991, n. 6610, in Le Società, 1991, 1635.
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
Ad esempio, in un caso la Corte di Cassazione ha affermato che la conservazione del contratto non può essere autorizzata da un’interpretazione sostitutiva della
volontà contrattuale, posto che l’art. 1367 Codice civile
è norma sussidiaria. Nella specie, in presenza di una clausola compromissoria che stabiliva la designazione di un
arbitro da parte di un ente (un certo collegio degli architetti ed ingegneri), la Corte di Cassazione ha considerata nulla la clausola in quanto il suddetto ente non era più
esistente al momento di costituzione del collegio arbitrale (60).
In un altro caso si è affermato che il principio non si
applica ai contratti annullabili per vizio del consenso
(61). Nella specie due soggetti, avevano stipulato un
contratto di divisione in parti uguali di un patrimonio
immobiliare oggetto di eredità, e vi era il dubbio che
una delle due parti del contratto di divisione fosse caduta in errore, posto che per testamento era stata destinataria unica della proprietà di tale sostanza, mentre
l’altra parte aveva ricevuto solo l’usufrutto legale sul
bene.
Non era in discussione un errore nella dichiarazione,
ma un errore nella manifestazione di volontà contrattuale di addivenire ad una divisione.
La Corte ha ritenuto non applicabile il principio di
conservazione, in quanto vi era il dubbio se il contratto
di divisione fosse o meno annullabile, ovvero se la divisione in parti uguali del bene oggetto di eredità fosse stata voluta dall’erede o soltanto frutto di errore sulla destinazione dell’eredità (62).
Un cospicuo orientamento giurisprudenziale si è sviluppato in merito all’esclusione del principio di conservazione a contratti verbali costitutivi di società irregolari, con conferimento del godimento di beni immobili,
essenziali al raggiungimento dello scopo sociale, di durata ultranovennale o a tempo indeterminato. Tali contratti sono stati ritenuti nulli per mancata stipulazione
dell’atto in forma scritta in contrasto con gli artt. 2251 e
1350, n. 9, Codice civile (63).
Si è affermato che l’art. 1367 Codice civile non è invocabile «al fine di circoscrivere il patto societario nei limiti del novennio per cui non è necessaria la forma scritta, in quanto ciò esulerebbe dalla mera interpretazione
della volontà delle parti, traducendosi in un’arbitraria
sostituzione del loro effettivo intento» (64).
È stato altresì rilevato che «poiché l’applicazione della norma si risolve in tal caso in una interpretazione
abrogans del precetto relativo alla prescrizione formale, il
quale non viene applicato nonostante che il conferimento abbia avuto per oggetto un bene immobile ovvero un diritto immobiliare, nel silenzio delle parti, a tempo indeterminato» (65).
Diversamente, in altri casi la giurisprudenza in presenza di clausole univoche, che avrebbero comportato la
nullità del contratto, ha applicato il principio di conservazione per dichiararlo valido.
Così ha deciso, sempre in materia di contratto orale
costitutivo di una società di fatto in cui vi era stato un
conferimento di beni immobili senza determinazione di
tempo, stabilendo che il contratto medesimo dovesse ritenersi validamente stipulato nel limite temporale di nove anni (66).
In un altro caso, un contratto di vendita di un alloggio dell’I.A.C.P. da parte dell’assegnatario con patto
di riscatto è stato interpretato come preliminare di
vendita dello stesso alloggio, al fine di evitare la sanzione di nullità prevista dall’art. 26 del D.P.R. n.
1256/1956 (67).
In materia laburistica una dichiarazione di licenziamento intimata durante la decorrenza del periodo di
comporto a favore del lavoratore, nell’inosservanza della
prescrizione dell’art. 2110, secondo comma, Codice civile, è stata interpretata come «temporanea inefficacia del
recesso stesso fino alla scadenza della situazione ostativa» (68).
Come si può notare, l’orientamento giurisprudenziale è piuttosto oscillante nell’applicare correttamente il
principio di conservazione e quando lo applica ai contratti nulli lo utilizza a fondamento della conversione.
Osservazioni alla decisione della Corte
Nell’indagine ermeneutica condotta nella sentenza
in esame la Corte di Cassazione è ricorsa a criteri o fattori estranei al contesto giuridico e quindi diversi dai criteri della logica e razionalità. È ricorsa così:
- all’ausilio di un’«altra scienza» (69) (ovvero alla
scienza ed alla tecnica agraria) nell’accertare l’impossibilità della scomparsa definitiva della pianta infestante;
Note:
(60) Cass. 7 ottobre 2004, n. 19994, in Mass. Foro it., 2004, 1501.
(61) Cass. 6 febbraio 1962, n. 229, in Foro pad., 1962, I, 446.
(62) Annotando la sentenza indicata nel testo osserva E. Ondei, La «conservazione» dei negozi giuridici mediante interpretazione, in Riv. dir. civ.,
1984, II, 37, 40, nota a Cass. 6 febbraio 1962, n. 229, che non vi era un
dubbio sull’interpretazione di una volontà esistente ed espressa in modo
non chiaro, per cui sarebbe stato applicabile il principio di cui all’art.
1367 Codice civile, ma un problema d’accertamento di eventuali volontà ed intenzioni diverse da quelle apparenti e desumibili dall’atto.
(63) Cass. 19 gennaio 1995, n. 565, in Giur. it., 1995, I, 1, 1165, con nota di G. Cottino; Cass. 6 marzo 1990, n. 1757, in Mass. Foro it., 1990,
236; Cass. 4 luglio 1987, n. 5862, in Riv. dir. comm., 1988, II, 227, con
nota di M. Cardinali.
(64) Cass. 19 gennaio 1995, n. 565, cit. in motiv., 1168.
(65) Cass. 4 luglio 1987, n. 5862, cit., in motiv., 229.
(66) Cass. 17 giugno 1985, n. 3631, in Vita not., 1985, I, 690.
(67) Cass. 13 marzo 1982, n. 1654, in Rep. Giust. civ., 1982, voce Edilizia
Popolare ed economica, n. 65.
(68) Cass. 4 luglio 2001, n. 9037, in Mass. Foro it., 2001, 776; vedi anche
Cass. 10 febbraio 1993, n. 1657, in Giust. civ., 1993, 2421, con nota di T.
Bianconcini.
(69) Affronta le problematiche sottese al ricorso alla scienza secondo giudizi probabilistici, M. Taruffo, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 665 ss., ed ivi ampi
rinvii alla letteratura.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
759
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
- ad una «massima di esperienza» (70) nell’interpretare il termine «scomparsa» dell’equiseto afferma infatti
che lo stesso deve intendersi, «secondo la comune accezione del termine», per «l’assenza per apprezzabile lasso
di tempo, ma non la eliminazione definitiva ed irreversibile dell’oggetto indesiderato (nella specie dell’equiseto)»;
- ad un giudizio di «plausibilità» (infatti nella motivazione si legge: «non era plausibile la tesi che le parti
avessero dedotto in contratto un’obbligazione di tale genere») o ad un giudizio di «verosimiglianza» (considerato che nella massima l’aggettivo plausibile è sostituito da
inverosimile).
Ammonisce la dottrina che quando il giudice va
«oltre il diritto», sorge la necessità di individuare quali
siano le garanzie di razionalità e di ragionevolezza, di attendibilità e di controllabilità di quei numerosi aspetti
della decisione giudiziaria che non sono controllati dal
diritto (71).
Non possiamo valutare la correttezza e razionalità del
ricorso a tali criteri extralegali, perché tale valutazione
presuppone la soluzione di problemi altamente complessi legati alle tecniche del ragionamento del giudice che
non possono essere affrontati in questa sede. Ma intendiamo soltanto dare atto dei vari aspetti non giuridici
che sono sottesi alla decisione della Corte di Cassazione,
e porre l’attenzione sulla necessità di esaminare gli stessi
con ulteriori strumenti di valutazione.
Ma a prescindere da questi fattori legati alla tecnica
di ragionare del giudice, riteniamo che, prevalentemente, la decisione della Corte sia corretta dal punto di vista
logico argomentativo.
Posto che come già si è precisato presupposto per
l’applicazione dell’art. 1367 Codice civile è che vi sia
una dichiarazione oscura, come confermato dalla giurisprudenza (72), nella specie in effetti la Corte di Cassazione ha applicato il principio di conservazione ad una
clausola di significato dubbio: il dubbio sussisteva tra due
significati da attribuire alla clausola, di cui uno (la prestazione dell’appaltatore avente ad oggetto l’eliminazione temporanea della pianta infestante, che è possibile)
che poteva portare alla conservazione del contratto, l’altro (la prestazione avente ad oggetto l’eliminazione definitiva, che è impossibile alla luce della scienza e della
tecnica agraria attuale) ad una caducazione dell’intero
contratto.
E la Corte ha scelto per l’effetto che determina la
conservazione del contratto e per farlo si è avvalsa dell’ausilio di una massima di esperienza secondo cui per
«scomparsa» deve intendersi l’assenza dell’oggetto indesiderato per un certo periodo di tempo (nella specie, della pianta infestante).
La Corte ha poi fatto corretto uso dell’art. 1367 Codice civile che si applica anche quando il dubbio ricada
sulla validità o meno del contratto (73), che è cosa ben
diversa dall’ipotesi in cui il dubbio non sussiste perché la
clausola ha un significato univoco che determina la nul-
760
I CONTRATTI N. 8-9/2005
lità del contratto. In questa seconda ipotesi l’art. 1367
Codice civile non è invocabile per conservare il contratto nullo, eventualmente si può ricorrere alla conversione del negozio ex art. 1424 Codice civile purché venga
accertata una comune volontà delle parti.
Note:
(70) M. Taruffo, op. ult. cit., 675-682.
(71) Id., op. ult. cit., 666-667 e 692 ss.
(72) Le seguenti sentenze affermano che il principio non si applica quando la clausola da interpretare ha un significato chiaro: Cass. 2 giugno
1983, n. 3769, in Rep. Giust. civ., 1983, voce Obbligazioni e contratti, n.
187; Cass. 15 ottobre 1981, n. 5399, in Rep. Giust. civ., 1981, voce cit., n.
37; Cass. 8 gennaio 1981, n. 173, in Giur. it., 1981, I, 1, 1450, che ha ritenuto non applicabile l’art. 1367 Codice civile ad una clausola di significato inequivoco (che prevedeva l’adeguamento della prestazione in caso di svalutazione ufficiale), in presenza di una svalutazione di fatto.
(73) Stella Richter, op. cit., 415-416.
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Rassegna di legittimità:
contratti in generale
Formazione
Cassazione Civile, sez. III, 18 gennaio 2005, n. 910
Pres. Duva - Rel. Purcaro - P.M. Cafiero (Conf.) - Dogà c. Gruppo Pos S.r.l.
Contratti in genere - Requisiti (elementi del contratto) - Accordo delle parti - Conclusione del contratto - In genere - Accordo su tutti gli elementi, principali ed accessori, del contratto - Necessità - Sufficienza - Condizioni - Accertamento - Accertante del Giudice di merito - Incensurabilità in Cassazione - Limiti - Fattispecie
Ai fini della configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale è necessario che tra le parti sia raggiunta l’intesa
su tutti gli elementi dell’accordo, non potendosene ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l’intesa solamente su quelli essenziali ed ancorchè riportati in apposito documento (Cosiddetto «minuta» o «puntuazione»),
risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori. Peraltro, anche in presenza del
completo ordinamento di un determinato assetto negoziale può risultare integrato un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le parti, in difetto dell’attuale effettiva volontà delle medesime di considerare concluso il contratto, il cui accertamento, nel rispetto dei canoni ermeneutici di cui agli artt.
1362 e segg. Codice civile, è rimessso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in cassazione ove sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (Nell’affermare il suindicato principio, la Corte
Cass. ha cassato l’impugnata sentenza rilevando che, nel ritenere perfezionato un accordo transattivo tra le parti di
giudizio per effetto di duplice missiva inviata dal legale di una delle parti e considerata accettata dal difensore di
controparte, il giudice di merito avesse peraltro nel caso del tutto omesso di valutare il comportamento complessivo delle parti, in particolare quello mantenuto successivamente alla supposta conclusione dell’accordo transattivo, non considerando che dopo lo scambio delle suindicate lettere il difensore di una delle parti aveva dichiarato
in udienza avanti al G.I. essere ancora pendenti trattative tra le parti per la formalizzazione di un accordo, al cui
esito si riservava di chiedere la revoca della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto; e che nel prosieguo del giudizio le parti avevano in entrambi i gradi di merito formulato opposte conclusioni).
Cassazione Civile, sez. I, 2 febbraio 2005, n. 2077 (ord.)
Pres. Saggio - Rel. Adamo - P.M. Golia (Diff.) - Adisal S.r.l. c. New Sistem Group S.r.l.
Contratti in genere - Requisiti (elementi del contratto) - Accordo delle parti - Condizioni generali di contratto - Necessità di specifica approvazione scritta - Deroghe alla competenza - Indistinto richiamo di tutte le clausole contrattuali, vessatorie e non - Relativa sottoscrizione - Insufficienza
Non sussiste il requisito della specifica approvazione della deroga convenzionale alla competenza territoriale a favore di un foro esclusivo se la sottoscrizione del contraente per adesione riguarda genericamente tutte le clausole
contrattuali, senza distinzione tra clausole vessatorie e non.
Regolamento
Cassazione Civile, sez. III, 20 gennaio 2005, n. 1150
Pres. Vittoria - Rel. Segreto - P.M. Destro (Diff.) - Camping Pini Di Maresca S.n.c. c. Com. Meta ed altri
Contratti in genere - Contratto a favore di terzi - in genere - Soggetti obbligati - Terzo - Obblighi nei confronti degli
stipulanti - Configurabilità - Esclusione
I CONTRATTI N. 8-9/2005
761
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Nel contratto in favore di terzi, che può essere costituito da un contratto di albergo, purchè lo stipulante vi abbia
un interesse, che può essere economico, istituzionale o anche morale, lo stipulante rimane parte contrattuale, mentre il terzo non è parte nè in senso sostanziale nè in senso formale e deve limitarsi a ricevere gli effetti di un rapporto già validamente costituito ed operante, senza che a suo carico possano discendere obbligazioni verso il promittente. Ne consegue che è sempre lo stipulante ad essere obbligato nei confronti del locatore alla restituzione
della cosa locata da parte del terzo e, in caso di ritardo, alla corresponsione di quanto dovuto ai sensi del disposto
dell’art. 1591 Codice civile.
Cassazione Civile, sez. III, 15 febbraio 2005, n. 2976
Pres. Nicastro - Rel. Trifone - P.M. Pivetti (Diff.) - Centro Medicina Nucleare S.p.a. c. Casa Del Sole S.p.a.
Contratti in genere - Clausola penale - Divieto di cumulo - Obbligazioni di durata - Riferimento alle prestazioni maturate e inadempiute - Legittimità - Riferimento alle prestazioni non ancora maturate - Esclusione - Fondamento
Nelle obbligazioni di durata assistite da una clausola penale,il divieto di cumulo fra la prestazione principale e la
penale prevista dall’art. 1383 Codice civile riguarda le sole prestazioni già maturate e inadempiute, e non anche
quelle non ancora maturate e per le quali permane l’obbligo dell’adempimento, poichè, in caso contrario, sarebbe
consentito al debitore di sottrarsi all’obbligazione attraverso il proprio inadempimento.
Invalidità e scioglimento
Cassazione Civile, sez. II, 19 gennaio 2005, n. 1077
Pres. Vella - Rel. Elefante - P.M. Scardaccione (Conf.) - D’Onofrio c. Imm. 90 Parco Dei Glicini S.r.l.
Contratti in genere - Scioglimento del contratto - Risoluzione del contratto - Per inadempimento - Rapporti tra domanda di risoluzione e di adempimento - Principio dell’inammissibilità della domanda di adempimento proposta successivamente a quella di risoluzione - Applicabilità - Condizioni e limiti
Il principio dell’inammissibilità della domanda di adempimento proposta successivamente a quella di risoluzione
(art.1453 Codice civile) deve ritenersi applicabile alla duplice condizione: 1) che la domanda di risoluzione sia stata proposta senza riserve, in quanto, alla luce del principio di buona fede oggettiva, il comportamento del contraente che chieda incondizionatamente la risoluzione è valutato dalla legge come manifestazione di carenza di interesse al conseguimento della prestazione tardiva - sicchè l’esercizio dello ius variandi deve, per converso, ritenersi consentito quando la domanda di risoluzione e quella di adempimento siano proposte nello stesso giudizio
in via subordinata; 2) che esista un interesse attuale dell’istante alla declaratoria di risoluzione del rapporto negoziale - di talchè, quando tale interesse venga meno per essere stata la domanda di risoluzione rigettata o dichiarata inammissibile, la preclusione de qua non opera, essendo venuta meno la ragione del divieto di cui al ricordato art.1453 Codice civile.
Cassazione Civile, sez. I, 19 gennaio 2005, n. 1097
Pres. Saggio - Rel. Vitrone - P.M. Golia (Conf.) - Com. Brindisi c. Pinto ed altro
Contratti in genere - Invalidità - Nullità del contratto - In genere - Rilevabilità d’ufficio - Rilevabilità per ragioni e
vizi non prospettati dalla parte - Condizioni - Limiti - Fondamento - Fattispecie relativa ad incarico professionale
conferito da Comune senza forma scritta
Il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità o l’inesistenza di un contratto ex art. 1421 Codice civile, coordinato con il principio della domanda (artt. 99 e 112, Codice di procedura civile), comporta che la nullità può essere rilevata d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del giudizio, indipendentemente dall’attività assertiva delle parti,
(e se non si siano verificate preclusioni processuali), nel caso in cui sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione del contratto, in quanto la parte abbia chiesto l’adempimento delle obbligazioni da esso derivanti. (In applicazione di questo principio, la Corte Cass. ha confermato la sentenza di merito che, nel giudizio promosso da due
professionisti nei confronti di un Comune per il pagamento degli onorari richiesti per lo svolgimento di un incarico professionale, aveva rilevato d’ufficio la nullità del contratto d’opera, per difetto della forma scritta, richiesta ad
substantiam).
762
I CONTRATTI N. 8-9/2005
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Vendita
I rimedi per i vizi del bene
promesso in vendita
Tribunale di Nola - Sentenza del 15 settembre 2004
G.U. De Rosa - Ric. Mevia - Res. T. C. S.
Contratto preliminare di vendita - Mancanza effetto traslativo - Garanzia - Risoluzione
Il promissario acquirente non è tenuto ad osservare i termini di decadenza di cui all’art. 1495 Codice civile per la denuncia dei vizi della cosa venduta. Vertendosi in ipotesi di contratto preliminare di vendita caratterizzato dalla mancanza dell’effetto traslativo non trovano applicazione le norme sulla garanzia della
cosa venduta, che hanno come presupposto l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene. Sussiste l’inadempimento grave nel caso in cui i vizi dell’immobile siano tali da rendere il bene offerto del tutto
difforme rispetto a quello promesso in vendita ed inidoneo ad essere utilizzato come abitazione.
Svolgimento del processo
on citazione notificata il 10 luglio 1998 Mevia
conveniva in giudizio innanzi a questo tribunale
T., C. e S., per sentire dichiarare risolto un contratto preliminare di vendita stipulato il 9 novembre
1996.
L’attrice, premesso che:
- con scrittura privata del 9 novembre 1996 T. in proprio
e quale procuratore di S. e di C., le aveva promesso in
vendita un immobile ubicato in Acerra, via (…) terzo
piano riportato nel catasto urbano del comune di Acerra alla partita …., foglio … numero … cat. A/2 (appartamento di circa mq. 92 oltre balconi, box, posto auto e
terrazzo), per l’importo complessivo di Lire 175.000.000,
- del pattuito importo aveva a tutt’oggi corrisposto la
somma di Lire 167.000.000, mentre l’immobile le era
stato consegnato nell’estate del 1997;
- dopo poco si erano verificate copiose infiltrazioni di acqua piovana, con elevato tasso di umidità e manifestazioni di «muffa» diffusa, tali da rendere l’immobile de
quo insalubre, come riscontrato anche dal Servizio Ecologia e profilassi dell’ASL Napoli 4 con comunicazione
del 4 febbraio 1998 e descritto nella perizia di parte allegata;
- aveva ripetutamente sollecitato, da ultimo a mezzo lettera racc. 5532 del 5 giugno 1998, i promettenti venditori ad eliminare i citati difetti di costruzione e ad eseguire le opere necessarie a rendere l’appartamento idoneo all’uso, richiedendo ai fini della stipula dell’atto notarile il certificato di regolare esecuzione del fabbricato
ed il certificato di abitabilità e che tali inviti non avevano sortito alcun effetto;
chiedeva dunque, stante il grave inadempimento contrattuale imputabile ai convenuti, dichiararsi risolto il
contratto preliminare di vendita del 9 novembre 1996 e
C
condannarsi gli stessi al risarcimento dei danni, da quantificarsi in corso di causa.
Si costituivano i convenuti che resistevano alla domanda di risoluzione per inadempimento contrattuale rilevandone l’infondatezza. In comparsa deducevano che
l’immobile era stato consegnato nel mese di gennaio del
1997 all’attrice, che era pertanto decaduta dal diritto alla garanzia non avendo denunciato i vizi nel termine di
gg. 8 dalla scoperta, in ogni caso l’azione doveva considerarsi prescritta essendo trascorso un anno dalla consegna ai sensi dell’art. 1495 Codice civile.
Evidenziavano inoltre l’insussistenza di vizi di costruzione rilevando che la compratrice aveva posto in essere
opere e modifiche (nella specie verande) tali da alterare
le strutture ed i volumi abitabili dell’immobile, sicché le
eventuali infiltrazioni non potevano essere loro addebitate. Alla luce di tali premesse di fatto i convenuti spiegavano domanda riconvenzionale, volta all’adempimento del contratto di compravendita e trasferimento
della titolarità dell’immobile in capo all’attrice ex art.
2932 Codice civile, previo pagamento del residuo prezzo
in favore dei venditori.
Espletata l’istruttoria ed acquisiti agli atti i documenti
prodotti dalle parti, precisate le conclusioni riportate in
epigrafe, la causa veniva riservata per la decisione all’udienza dell’11 marzo 2004 con i termini di cui all’art. 190
Codice di procedura civile.
Motivi della decisione
reliminarmente, in rito, va rilevata la procedibilità
ed ammissibilità della domanda, sussistendo, nella
fattispecie, i presupposti processuali, le condizioni
dell’azione e la legittimazione delle parti in causa. La domanda, inoltre, risulta correttamente formulata e ritualmente proposta.
P
I CONTRATTI N. 8-9/2005
763
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Nel merito la domanda di risoluzione del contratto preliminare di vendita è fondata e va accolta nei termini di
seguito indicati.
L’attrice lamenta che i promittenti-alienanti non hanno
adempiuto agli obblighi nascenti dal contratto preliminare stipulato in data 9 novembre 1996, in quanto l’appartamento promesso in vendita si è dimostrato inidoneo all’uso cui era destinato per la presenza di gravi vizi
di costruzione. Agisce quindi per attenere la risoluzione
del contratto, deducendo il grave inadempimento della
controparte.
In primo luogo va evidenziata la tempestività dell’azione
proposta, in quanto l’attrice - promettente acquirente non è tenuta ad osservare i termini di decadenza di cui
all’art. 1495 Codice civile per la denuncia dei vizi della
cosa venduta. Vertendosi in ipotesi di contratto preliminare di vendita caratterizzato dalla mancanza dell’effetto
traslativo (dovendosi certamente qualificare tale la scrittura privata del 9 novembre 1996 oggetto di causa ) non
trovano applicazione le norme sulla garanzia della cosa
venduta, che hanno come presupposto l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene. La giurisprudenza è
univoca in merito : «In caso di preliminare di vendita di
un appartamento, con consegna dello stesso prima della
stipula dell’atto definitivo e correlativo inizio del pagamento rateale del prezzo da parte del promissorio acquirente, la presenza di vizi della cosa consegnata abilita
quest’ultimo - senza che sia necessario il rispetto del termine di decadenza di cui all’art. 1495 Codice civile per
la denuncia dei vizi della cosa venduta - ad opporre la exceptio inadimpleti contractus al promettente venditore che
gli chieda di aderire alla stipulazione del contratto definitivo e di pagare contestualmente il saldo del prezzo, e
lo abilita altresì a chiedere, in via alternativa, la risoluzione del preliminare per inadempimento del promettente venditore ovvero la condanna di quest’ultimo ad
eliminare a proprie spese i vizi della cosa» (cfr. Cass. 14
novembre 1988, n. 6143; Cass. 1° ottobre 1997, n.
9560).
Alla luce delle riportate argomentazioni va evidenziata
l’irrilevanza delle deposizioni testimoniali rese (sulla circostanza dell’asserita consegna del bene all’attrice nel
gennaio del 1997) tenuto conto dell’inapplicabilità dei
termini di decadenza di cui all’art. 1495 Codice civile.
Le doglianze evidenziate in citazione hanno trovato riscontro nelle risultanze della consulenza tecnica (espletata dall’ing. MX), pienamente condivisibili per la puntualità dei rilievi, anche fotografici e planimetrici, eseguiti.
Dalla consulenza è emerso che: le pareti ed i soffitti di
tutti gli ambienti dell’appartamento sono interessati da
zone ammalorate tipiche da fenomeni di condensa, con
muffe localizzate in prossimità del cemento (precisamente agli angoli soffitto-parete e parete-parete) dove la
superficie presenta una temperatura inferiore rispetto alle zone con laterizi; vi è una localizzata infiltrazione ed i
materiali usati, tenuto conto anche del tipo di fabbrica-
764
I CONTRATTI N. 8-9/2005
to (costruzione da speculazione edilizia), appaiono di
qualità mediocre; le cause delle infiltrazioni vanno individuate nella mancanza di una idonea coibentazione termica delle pareti esterne e del terrazzo di copertura unitamente ad una sfavorevole esposizione dell’immobile e
non sono neanche in minima parte riconducibili alle
opere realizzate dall’attrice (cfr. pag. 4 e 5 della ctu).
Le condizioni dell’immobile di cui si controverte risultano comprovate anche dal sopralluogo effettuato in data
4 febbraio 1998 dal Servizio Ecologia Igiene e Profilassi
dell’ASL NA 4, versato in atti, dal quale si evince che :
«le pareti perimetrali della stanza da letto, i soffitti e le
pareti dei servizi igienici e la stanza dei bambini si presentano invase da muffe ed evidenti macchie di umidità;
tutto ciò può comportare grave pericolo per la salute delle persone che vi abitano».
Tanto premesso in punto di fatto, ritiene questo giudice
che i vizi dell’immobile siano tali da rendere il bene concretamente offerto dai convenuti del tutto difforme rispetto a quello promesso in vendita ed inidoneo ad essere utilizzato come abitazione. L’inadempimento si presenta grave e di non scarsa importanza nell’ambito dell’equilibrio e dell’economia contrattuale secondo il parametro di proporzionalità di cui all’art. 1455 Codice civile: pertanto, valutati tutti gli elementi e le circostanze
addotte, deve ritenersi venuto meno il rapporto funzionale tra le reciproche attribuzioni, sicchè gli effetti del
contratto non corrispondono più alla volontà iniziale
delle parti e non trova più giustificazione la prestazione o
la controprestazione.
Va pertanto dichiarata ex art. 1453 Codice civile la risoluzione del contratto preliminare del 9 novembre 1996;
conseguenzialmente i convenuti sono tenuti alla restituzione di quanto è stato loro corrisposto dall’atto della
sottoscrizione del preliminare ad oggi, segnatamente euro 82.248,30 (pari a Lire 167.000.000 ).
Va rigettata la domanda risarcitoria proposta dall’attrice,
in quanto sfornita di adeguati riscontri probatori.
All’accoglimento della domanda attorea di risoluzione
contrattuale consegue il rigetto della riconvenzionale
spiegata dai convenuti.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in
dispositivo, con attribuzione all’avv. DY per dichiarato
anticipo fattone.
P.Q.M.
Il Tribunale di Nola, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da Mevia nei confronti di T., S. e
C., con atto di citazione notificato il 10 luglio 1998 così
provvede:
1. accoglie la domanda e per l’effetto, dichiara risolto il
contratto preliminare di vendita del 9 novembre 1996,
intercorso tra le parti,
2. condanna i convenuti alla restituzione immediata dell’importo di euro 82.248,30 (Lire 167.000.000), oltre interessi legali dalla domanda al soddisfo;
3. condanna i convenuti in solido al pagamento delle
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
spese processuali, che liquida in euro 3.000 per onorario,
in euro 1.100 per diritti di procuratore ed in euro 200 per
spese, oltre alle spese di ctu come liquidata in corso di
causa, iva e cpa come per legge con attribuzione all’avv.
DY procuratore antistatario,
4. rigetta ogni altra domanda proposta dalle parti.
IL COMMENTO
di Linda Cilia
L’Autore affronta il tema dell’applicabilità della disciplina della garanzia per vizi della cosa venduta alle
ipotesi di inadempimento del contratto preliminare di
vendita per la presenza di vizi nel bene promesso che
lo rendono inidoneo all’uso cui è destinato o ne diminuiscono il valore, ripercorrendo il relativo dibattito
dottrinale e giurisprudenziale. Si sofferma, inoltre, sull’analisi dei singoli rimedi di tutela del promissario acquirente concentrando l’attenzione sull’azione di esatto adempimento e sull’azione di riduzione del prezzo.
Il caso
La sentenza in commento riguarda una fattispecie
di inadempimento di contratto preliminare di vendita di
un appartamento ad effetti anticipati per la presenza, nel
medesimo, di vizi che lo rendono inidoneo ad essere utilizzato come abitazione.
Con scrittura privata del 9 novembre 1996 T., in
proprio e quale procuratore di S. e di C., prometteva in
vendita a Mevia un immobile sito in Acerra per l’importo di Lire 175.000.000.
Nelle more della stipulazione del contratto definitivo Mevia aveva corrisposto la somma di Lire
167.000.000 e aveva ricevuto in consegna l’appartamento, a suo dire, nell’estate del 1997.
Successivamente si erano verificate abbondanti infiltrazioni d’acqua piovana che avevano provocato sulle
pareti interne macchie di umidità con muffe diffuse che
rendevano l’ambiente insalubre e, pertanto, inidoneo all’abitazione.
Dopo aver ripetutamente sollecitato, invano, i promittenti venditori per ottenere l’eliminazione dei difetti
dell’immobile Mevia chiedeva, con atto di citazione notificato il 10 luglio 1998, la risoluzione del contratto preliminare e il risarcimento dei danni subiti.
I convenuti si costituivano eccependo che l’attrice
fosse decaduta dal diritto alla garanzia non avendo denunciato i vizi entro otto giorni dalla scoperta, e che l’azione doveva comunque considerarsi prescritta atteso
che era trascorso più di un anno dalla consegna dell’immobile, avvenuta nel gennaio del 1997 e non nell’estate
del medesimo anno come sosteneva, invece, l’attrice.
Affermavano, inoltre, che le infiltrazioni erano dovute a
lavori e modifiche, operati dall’attrice sull’immobile,
che avevano alterato le strutture e i volumi del medesi-
mo. Proponevano, quindi, sulla base delle predette considerazioni, domanda riconvenzionale per ottenere, ex
art. 2932 Codice civile, l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto definitivo ed il pagamento
del corrispettivo residuo.
Il Tribunale di Nola, non ritenendo applicabile al
caso di specie le norme sulla garanzia per i vizi della cosa
venduta, dichiara la risoluzione del contratto preliminare
rigettando la domanda riconvenzionale dei convenuti.
Ratio della garanzia per i vizi della cosa
venduta e applicabilità della relativa disciplina
al contratto preliminare di vendita
La sentenza in rassegna affronta la vexata quaestio
della tutela del promissario acquirente nell’ipotesi in cui
il bene promesso in vendita presenti dei vizi o delle
difformità che incidono sulla idoneità dello stesso all’uso
cui è destinato o ne diminuiscono il valore (1).
La motivazione si regge sulla considerazione che la
disciplina per i vizi della cosa venduta (artt. 1490-1496
Codice civile) non trova applicazione nelle fattispecie di
contratti preliminari di vendita per la mancanza, in questi ultimi, dell’effetto traslativo. La predetta affermazione
non è del tutto pacifica in dottrina e in giurisprudenza.
La dottrina minoritaria (2) sostiene che i rimedi
Note:
(1) Numerosa è la dottrina sull’argomento: Luminoso, La compravendita,
Torino, 2004, 394 e ss.; Sacco e De Nova, Il contratto, II, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 2004, 284 e ss.; Mantello, L’inadempimento del contratto preliminare di vendita, in Riv. dir. comm., I, 2002, 539;
Delfini, Vendita di case di abitazione e contratto preliminare nella più recente
giurisprudenza della Cassazione, in Riv. dir. priv., 2002, 541; Riva, Garanzia per vizi e contratto preliminare di vendita, in Contr. e impr., 2001, 1019;
Plaia, Sull’ammissibilità dell’azione di esatto adempimento in presenza di vizi
del bene venduto o promesso in vendita, ivi, 1998, 123; Cenni, Il contratto
preliminare ad effetti anticipati, ivi, 1994, 1108; Bianca, La vendita e la permuta, I, Torino, 1993, 155 e ss.; De Matteis, La contrattazione preliminare
ad effetti anticipati, Padova, 1991; Id., Preliminare di vendita ad effetti anticipati e garanzia per vizi, in Nuova giur. civ. comm., 1985, II, 139 e ss.; Speciale, Contratti preliminari e intese precontrattuali, Milano, 1990; Gabrielli
e Franceschelli, voce Contratto preliminare, in Enc. giur. Treccani, IX,
1988; Di Majo, La tutela del promissario acquirente nel preliminare di vendita: la riduzione del prezzo quale rimedio specifico, in Giust. civ., 1985, I,
1639; Montesano, voce Obbligo a contrarre, in Enc. dir., XXIX, Milano,
1979, 508; Rubino, La compravendita, in Trattato Cicu-Messineo, XXIII,
Milano, 1971, 42 e ss.
(2) Cfr. Bianca, La vendita, cit., I, 161 e ss.; Rubino, La compravendita,
cit., 40 e ss.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
765
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
della garanzia per vizi siano applicabili anche all’ipotesi
in cui, già nella fase del rapporto preparatorio derivante
dal preliminare, si scoprano nella cosa promessa vizi che
la rendono inidonea all’uso cui è destinata o ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore (3).
La predetta soluzione si fonda sull’assunto che i rimedi della garanzia per vizi siano riconducibili agli ordinari rimedi per l’inadempimento di un’obbligazione che,
nel caso di specie, consisterebbe nel soddisfare esattamente la pretesa del compratore, ossia nel far corrispondere l’effetto traslativo all’effetto programmato. Tale obbligazione risulterebbe inadempiuta da parte del venditore qualora non sussistano nella cosa trasferita gli attributi e le qualità garantiti.
Secondo la suddetta dottrina non sarebbero, tuttavia, applicabili al preliminare di vendita i termini di decadenza ex art. 1495 Codice civile, trattandosi di una
previsione eccezionale giustificata dall’esigenza di definire con celerità il rapporto contrattuale. E tale esigenza
contrasterebbe con la scelta effettuata dalle parti, mediante il preliminare, di differire nel tempo il procedimento di alienazione.
In giurisprudenza qualche pronuncia (4) ha affermato l’applicabilità alla fattispecie in esame dei rimedi
previsti per i vizi della cosa venduta sulla base della corrispondenza tra la disciplina del definitivo e la disciplina
del preliminare, nel rispetto, però, dei termini e delle
condizioni stabiliti dall’art. 1495 Codice civile. Tali pronunce ribadiscono l’applicabilità della disciplina della
garanzia per vizi allo scopo principale di negare il ricorso
al rimedio della condanna alla eliminazione dei vizi, mediante riparazione o sostituzione, che secondo l’orientamento tradizionale non è ammesso per tutelare il compratore che scopra vizi o difetti nel bene acquistato. Si
afferma, infatti, che l’art. 1492 Codice civile, applicabile anche al preliminare, prevede come azione alternativa alla risoluzione soltanto l’azione di riduzione del prezzo, con esclusione dell’azione di esatto adempimento
giacché dalla compravendita non deriva alcuna obbligazione di fare ma esclusivamente l’effetto traslativo che
opera immediatamente.
La dottrina prevalente (5) esclude, invece, l’applicabilità della garanzia per i vizi all’ipotesi in cui a seguito della stipulazione di un contratto preliminare di
vendita si manifestano vizi o difformità nella cosa promessa che legittimerebbero, dopo la conclusione del
definitivo, l’esperimento dei rimedi previsti dalla suddetta garanzia. Si ritiene, infatti, che qualora il bene
consegnato o da consegnare nelle more della stipulazione del definitivo si riveli inidoneo all’uso cui è destinato o, comunque, presenti delle difformità, il promittente compratore possa ricorrere agli ordinari rimedi
previsti per l’inadempimento, ossia l’exceptio inadimpleti contractus ex art. 1460 Codice civile per rifiutare l’adempimento (la stipulazione del definitivo o il pagamento del prezzo se va corrisposto anticipatamente), la
risoluzione del preliminare, la diminuzione del prezzo,
766
I CONTRATTI N. 8-9/2005
l’azione di esatto adempimento oltre, in ogni caso, al risarcimento del danno.
Il predetto orientamento si basa sulla considerazione che la garanzia per vizi non sia riconducibile all’inadempimento di un’obbligazione, bensì ad una forma di
responsabilità speciale che opera al fine di garantire l’equilibrio delle prestazioni a fronte dell’effetto traslativo
(6). Non potrebbe configurarsi, infatti, un’obbligazione
sia perché l’effetto reale della compravendita si realizza
col mero consenso delle parti contraenti senza l’adempimento di alcun obbligo; sia perché un vincolo obbligatorio si giustifica solo se ad esso sia ricollegato un comportamento del soggetto obbligato strumentale al perseguimento di una data utilità. Orbene, la garanzia in esame non implica alcun comportamento doveroso da parte del venditore, ma esclusivamente una responsabilità
del medesimo che consiste nella soggezione ai rimedi
previsti dagli artt. 1490-1496 Codice civile (7).
Nell’ipotesi di contratto preliminare sarebbe, invece, configurabile un’ordinaria fattispecie di inadempimento. E ciò sia che si tratti di preliminare complesso sia
che si tratti di preliminare puro giacché da entrambi deriva l’obbligo di espletare l’attività necessaria ad assicurare il realizzarsi del risultato conforme a quello programmato. Nell’ambito di tale obbligo dall’ampio conteNote:
(3) Il suddetto orientamento è condiviso da chi considera il contratto
preliminare non fonte esclusivamente dell’obbligo formale delle parti di
prestare il consenso definitivo, bensì l’unica vera fonte negoziale del regolamento, laddove il definitivo assolverebbe esclusivamente la formalità
necessaria per il conseguimento dell’effetto traslativo. Si veda per tutti,
Gazzoni, Il contratto preliminare, in Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, XIII, II, Torino, 2002.
(4) Cfr. Cass. 5 febbraio 2000, n. 1296, in questa Rivista, 2000, 437: «in
tema di contratto preliminare, il riconoscimento dell’esperibilità, da parte del promissario acquirente, in presenza di vizi e di difformità del bene
promesso in vendita, dell’azione quanti minoris, contestualmente e cumulativamente all’azione di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il
contratto definitivo, comporta l’applicazione integrale della disciplina
dettata dal codice civile per la garanzia per i vizi della cosa venduta, con
conseguente esclusione della possibilità di chiedere, in alternativa alla riduzione del prezzo, l’eliminazione dei vizi, che è rimedio estraneo alla garanzia per i vizi e in nessun modo congeniale alla natura e alla struttura
della compravendita e del corrispondente contratto preliminare»; Cass.
24 novembre 1994, n. 9991, in Foro it., 1995, I, 2, 3263; Cass. 14 marzo
1986, n. 1741, in Giur. it., 1987, I, 1, 673.
(5) Così Luminoso, La compravendita, cit., 396; Mantello, L’inadempimento del contratto preliminare di vendita, cit., 571 e ss.
(6) Diverse sono le teorie elaborate dalla dottrina sulla ratio della garanzia per i vizi che non riconducono quest’ultima all’inadempimento di
un’obbligazione. Taluni ritengono che la garanzia per vizi rappresenti un
rimedio all’errore del compratore sulle qualità v. Grassi, I vizi della cosa
venduta nella dottrina dell’errore, Napoli, 1996, 83; altri ritengono che la
garanzia per vizi rappresenti una vera e propria assicurazione contrattuale nel senso che il venditore è obbligato per l’eventualità in cui si verifichi a danno dell’acquirente il fatto sfavorevole consistente nella scoperta
di difetti nel bene acquistato v. Gorla, voce Azione redibitoria, in Enc. dir.,
Milano, 1959, 875; altri ancora sostengono che la garanzia per vizi andrebbe ricondotta alla responsabilità precontrattuale v. Visentini, La reticenza nella formazione dei contratti, Padova, 1972, 173 e ss.
(7) Sul punto, v. Luminoso, La compravendita, cit., 210 e ss.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
nuto rientra, indubbiamente, la consegna del bene, oggetto della futura compravendita, privo di difetti o vizi
che possano renderlo inidoneo all’uso cui è destinato o
diminuirne il valore.
Anche la giurisprudenza prevalente (8) ritiene che
non siano applicabili al preliminare i rimedi della garanzia per vizi della cosa venduta, bensì gli ordinari rimedi previsti per l’inadempimento svincolati dai termini di cui all’art. 1495 Codice civile. Si afferma, infatti,
che il promissario acquirente può, come qualsiasi creditore, sospendere l’adempimento della sua obbligazione,
pretendere la riduzione del prezzo o l’esatto adempimento indipendentemente dalle condizioni e dai termini prescritti dalla disciplina della garanzia per i vizi giacché quest’ultima postula il trasferimento della proprietà
della cosa. Il ricorso ai suddetti rimedi si giustifica a seguito della violazione da parte del promittente venditore di quell’obbligo generale di fare tutto quanto sia necessario perché il contratto sia eseguito secondo l’originaria previsione in conformità dei principi di correttezza e buona fede.
La sentenza in esame, come sopra accennato,
uniformandosi alla giurisprudenza prevalente, esclude
l’applicabilità della disciplina della garanzia per vizi della cosa venduta all’ipotesi di contratto preliminare di
vendita. Afferma, pertanto, che la domanda di risoluzione del contratto preliminare sollevata dal promissario
acquirente sia stata esperita tempestivamente sebbene
nel caso di specie fosse decorso il termine di decadenza di
cui all’art. 1495 Codice civile.
Rimedi contro l’inadempimento
del contratto preliminare di vendita
La sentenza in commento, pur negando l’applicabilità della garanzia per vizi all’inadempimento del contratto preliminare derivante dalla presenza di difformità
nella cosa promessa in vendita, non esclude, tuttavia, la
possibilità di ricorrere ai rimedi ordinari per l’inadempimento, come ad esempio l’azione di esatto adempimento, diversi da quelli tradizionalmente riconosciuti per la
tutela del promissario acquirente, aderendo, così, all’orientamento che ha prevalso sul dogma dell’intangibilità
del contratto preliminare.
Secondo il predetto principio, dominante in passato sia in dottrina che in giurisprudenza, in sede di giudizio ex art. 2932 Codice civile, sarebbe inconcepibile
qualsiasi intervento del giudice, diverso dalla mera riproduzione del regolamento di interessi fissato nel contratto
preliminare, che possa sostituirsi alla autonomia negoziale; la sentenza emessa dal giudice, pertanto, non potrebbe innovare il contratto preliminare anche a fronte
di eventuali sopravvenienze o della scoperta di vizi, di
ipoteche o di altri oneri che diminuiscono il valore del
bene promesso, con la conseguenza che il promissario
acquirente si troverebbe dinnanzi all’alternativa di concludere il definitivo conformemente al preliminare riservandosi, ad una fase successiva, l’esperimento dei rimedi
propri del tipo di contratto definitivo concluso ovvero di
risolvere il preliminare (9).
Al dogma della intangibilità del preliminare si è
contrapposta quella dottrina che ha evidenziato come la
funzione tipica di quest’ultimo sia di differire nel tempo
l’introduzione del regolamento di interessi delineato al
fine di consentire alle parti un’ulteriore possibilità di valutazione circa la sua convenienza controllando eventuali sopravvenienze (10). Viene, pertanto, ammessa la
possibilità di riequilibrare le prestazioni purché la difformità della cosa non sia di tale portata da incidere sulla
struttura e funzione del bene.
Anche in giurisprudenza progressivamente si sono
registrate aperture verso il superamento del suddetto
dogma. Si afferma il principio secondo cui la condizione
di identità della cosa oggetto del trasferimento con quella prevista nel preliminare, non va intesa nel senso di
una rigorosa corrispondenza, ma nel rispetto dell’esigenza che il bene da trasferire non sia oggettivamente diverso da quello considerato ritenendo a tal fine legittimo un
intervento riequilibrativo delle contrapposte prestazioni
da parte del giudice.
Questa svolta è caratterizzata da due orientamenti:
l’uno che ritiene applicabili i rimedi previsti dalla garanzia per vizi della compravendita al corrispondente contratto preliminare (11); l’altro che ritiene applicabili i rimedi secondo i principi generali delle obbligazioni. Quest’ultimo orientamento, ad oggi prevalente, si è affermato seguendo diverse fasi.
Dal 1976 in poi, si sono susseguite diverse sentenze
con le quali è stato riconosciuto al promissario acquirente, per le ipotesi di preliminare con consegna anticipata
rispetto alla stipula del contratto definitivo, la possibilità
di richiedere (cumulativamente con l’azione di esecuzione specifica del contratto), in presenza di vizi della cosa,
la condanna del promittente venditore ad eliminare a
proprie spese i vizi (12) ed anche la possibilità di ridurre
il prezzo per riequilibrare le prestazioni (13). I predetti
Note:
(8) Ex multis, Cass. 3 gennaio 2002, n. 29; Cass. 13 aprile, 1999, n. 3626,
in Mass. Giust. civ., 1999; Cass. 29 aprile 1998, n. 4354, ivi, 1998; Cass.
1° ottobre 1997, n. 9560, in Giur. it., 1998, 2281; Cass. 8 gennaio 1992,
n. 118, in Riv. giur., 1993, I, 242; Cass. 17 novembre 1991, n. 11126, in
Giust. civ., 1991, II, 1, 2751.
(9) Cfr. Cass. 30 dicembre 1968, n. 4081, in Giur. it., 1969, I, 1203.
(10) In tal senso, Gabrielli e Franceschelli, voce Contratto preliminare,
cit., 2 e ss.; Sacco e De Nova, Il contratto, cit., 286 e ss.
(11) Cfr. nota 4.
(12) Cfr. Cass. 28 novembre 1976, n. 4478, in Foro it., 1977, I, 671: «stipulato un preliminare di vendita di un appartamento con espressa pattuizione della consegna anticipata rispetto alla stipula del definitivo e del
correlativo inizio del pagamento rateale del prezzo, la presenza di vizi della cosa consegnata abilita il promissario a chiedere, alternativamente alla risoluzione del preliminare per inadempimento del promittente, la
condanna di quest’ultimo ad eliminare a proprie spese i vizi della cosa»;
Cass. 5 agosto 1977, n. 3560, ivi, 1977, I, 2462.
(13) V. Cass. 23 aprile 1980, n. 2679, in Foro it., 1981, I, 177.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
767
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
strumenti alternativi di tutela venivano, tuttavia, limitati alle sole ipotesi di preliminare complesso giacché si riteneva che soltanto le obbligazioni accessorie derivanti
da quest’ultimo fossero autonomamente azionabili.
Si distingueva, pertanto, ai fini della individuazione
dei rimedi azionabili nelle ipotesi di vizi e difetti del bene promesso, tra preliminare puro e preliminare complesso; distinzione che venne superata, in un secondo
momento, da una nota pronuncia delle Sezioni Unite
della Cassazione (14) la quale, ispirandosi a principi
equitativi, ha affermato che, nell’ipotesi di contratto
preliminare puro, in presenza di vizi non sostanziali e di
vizi non incidenti sull’effettiva utilizzabilità del bene
promesso, ma soltanto sul relativo valore e su qualche secondaria modalità di godimento, non può essere negato
il contestuale esperimento dell’azione ex art. 2932 Codice civile e dell’azione di riduzione del prezzo. La pronuncia, tuttavia, si è espressa soltanto sull’ammissibilità di
quest’ultima azione.
La giurisprudenza, dunque, inizia a prendere atto
dell’insufficienza dello specifico rimedio previsto dall’art.
2932 Codice civile per l’inadempimento del preliminare e del generale rimedio del risarcimento del danno ex
art. 1218 Codice civile.
Si assiste, così, ad una progressiva estensione della
tutela delle parti di un contratto preliminare a fronte
della presenza di vizi nella cosa promessa, fino a riconoscere al promissario acquirente la possibilità di «agire
contro il promittente per l’adempimento chiedendo, anche disgiuntamente dall’azione prevista dall’art. 2932
Codice civile, l’eliminazione dei vizi, oppure, in alternativa, la riduzione del prezzo» (15).
La giurisprudenza aderendo alla più recente dottrina
(16) riconosce che i rimedi della riduzione del prezzo e
dell’eliminazione dei vizi, quali rimedi generali, rispondono all’esigenza di rispettare l’equilibrio sinallagmatico e si
giustificano per la sussistenza di un preciso obbligo posto
in capo alle parti di un contratto preliminare, ossia l’obbligo di fare tutto quanto è necessario perché il contratto
sia eseguito secondo l’originaria previsione, in conformità
del principio di buona fede che sovraintende l’esecuzione
dei contratti. E tale obbligo non può non ricomprendere
anche la consegna della cosa conforme alla previsione del
contratto preliminare. La tutela del promissario acquirente, pertanto, si estende senza incontrare ostacoli diversi
dall’effettiva e radicale diversità tra il bene promesso e
quello trasferito o consegnato anticipatamente.
Per quanto riguarda l’azione di esatto adempimento
ex art. 1453 Codice civile, volta a far conseguire a chi abbia ricevuto un bene non conforme a quello promesso
l’eliminazione del difetto o la sostituzione dello stesso,
essa, come si è gia accennato, ha ormai ottenuto pieno
riconoscimento in giurisprudenza. Si ritiene, infatti, che
la suddetta azione sia uno strumento perfettamente
compatibile con la concezione secondo cui la tutela costitutiva ex art. 2932 Codice civile attinge a contenuti
sostanziali di tutela essendo finalizzata a produrre effetti
768
I CONTRATTI N. 8-9/2005
sostanzialmente e non solo formalmente conformi a
quelli voluti dalle parti. Si è, dunque, superato l’orientamento secondo il quale così come il rimedio de quo è
inammissibile nella compravendita di cosa specifica non
sarebbe estensibile al corrispondente contratto preliminare (17). In dottrina, sul punto, si riscontrano, tuttavia,
dei contrasti.
Una dottrina minoritaria (18) esclude la possibilità
di agire per l’esatto adempimento giacché nella fattispecie in esame non sarebbe rinvenibile una specifica obbligazione di trasferire il bene con le caratteristiche promesse anche qualora sia stata effettuata una consegna
anticipata.
Taluni (19) ritengono, invece, che il predetto rimedio possa sanzionare esclusivamente il preliminare ad effetti anticipati giacché dal preliminare puro non deriverebbe alcuna obbligazione del promittente di porsi nelle
condizioni di trasferire una cosa conforme alle previsioni contrattuali.
Un altro orientamento (20) sostiene che l’azione di
esatto adempimento possa essere esperita sia nell’ipotesi
di inadempimento di preliminare complesso sia nell’ipotesi di inadempimento di preliminare puro. L’applicabilità dell’art. 1453 Codice civile, nel primo caso, potrebbe dipendere dalla consegna di un bene inidoneo all’uso
cui è destinato; nel secondo caso - qualora sia ravvisabile anticipatamente la difformità del bene che dovrà essere trasferito - dalla violazione dell’obbligo di buona fede
che impone un’attività preparatoria finalizzata a rendere
possibile l’assetto di interessi programmato nel preliminare, ed in tale ambito si potrebbe ricomprendere l’eliminazione di eventuali difformità.
L’altro rimedio da tempo riconosciuto dalla giurisprudenza (21) come rimedio di carattere generale per la
salvaguardia dell’equilibrio sinallagmatico dei contratti
a prestazioni corrispettive e, quindi, anche del preliminare, è rappresentato dall’azione di riduzione del prezzo esperibile per i casi in cui l’inadempimento si risolva in
difformità del bene incidenti soltanto sul valore.
Note:
(14) Cass. S.U. 27 febbraio 1985, n. 1720, in Foro it., 1985, I, 2, 169.
(15) Così Cass. 3 gennaio 2002, n. 29, in Giur. it., 2002, 917, con nota di
De Rentiis; v., anche, Cass. 1° ottobre 1997, n. 9560, cit.
(16) V. Luminoso, La compravendita, cit., 396 e ss.; Mantello, L’inadempimento del contratto preliminare di vendita, cit., 575 e ss.
(17) Cfr., Cass. 3 gennaio 2002, n. 29, cit.; Cass. 16 luglio 2001, n. 9636,
in Guida al dir., 2001, 35, 35.
(18) Cfr., De Matteis, La contrattazione preliminare ad effetti anticipati, cit.,
87 e ss.
(19) V., in particolare, Lener, Contratto preliminare esecuzione anticipata e
rapporto intermedio, in Foro it., 1977, I, 669.
(20) V., diffusamente, Mantello, L’inadempimento del contratto preliminare
di vendita, cit., 575 e ss.
(21) Ex multis Cass., S.U., 27 febbraio 1985, n. 1720, cit.; Cass. 18 giugno
1996, n. 5615, in Corr. giur., 1997, 48; Cass. 1° ottobre 1997, n. 9560,
cit.; Cass. 16 luglio 2001, n. 9636, cit.; Cass. 3 gennaio 2002, n. 29, cit.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
In dottrina, al riguardo, si discute se la predetta azione possa considerarsi un rimedio generale per ovviare alle ipotesi di squilibrio economico delle prestazioni di un
contratto sinallagmatico.
Taluni (22) attribuiscono natura di rimedio eccezionale alla riduzione del prezzo sulla base di alcune disposizioni della disciplina del contratto in generale, nella specie gli artt. 1432, 1450, 1467, terzo comma, Codice civile, dalle quali non sarebbe possibile ricavare un diritto simile in capo alla parte pregiudicata dallo squilibrio economico, scoperto o sopravvenuto, la quale può
soltanto chiedere la rimozione del regolamento contrattuale spettando all’altra parte, invece, la possibilità di
proporre un’offerta modificativa.
Altri (23) sostengono che l’azione di riduzione del
prezzo costituisca un rimedio generale (24) riequilibrativo del rapporto sinallagmatico operante allorquando la
proporzionalità originaria delle prestazioni sia venuta
meno per circostanze sopravvenute ovvero per inesattezze. Ciò sarebbe desumibile sia dall’art. 1464 Codice civile che, per l’ipotesi di impossibilità parziale della prestazione di una parte, prevede in capo all’altra il diritto di
ottenere una corrispondente riduzione della propria prestazione; sia dagli artt. 1492, 1578 e 1668 Codice civile i
quali per l’ipotesi di vizi prevedono la possibilità di scelta a favore della parte pregiudicata, fra riduzione del corrispettivo e rimozione del regolamento contrattuale.
Dopo aver indicato i rimedi esperibili per la tutela
del promissario acquirente mediante il richiamo di una
massima giurisprudenziale, il Tribunale di Nola applica
al caso di specie il tradizionale rimedio della risoluzione
del contratto il quale si differenzia dall’actio redibitoria
per la rilevanza della colpa, per la mancanza del breve
termine decadenziale, per il diverso termine di prescrizione, per l’irrilevanza degli usi ed anche per la neces-
sità di valutare la gravità dell’inadempimento alla stregua del parametro di proporzionalità ex art. 1455 Codice civile (25).
Va osservato che proprio mediante una corretta valutazione della gravità dell’inadempimento è possibile
evitare che il promissario acquirente utilizzi i rimedi della risoluzione e dell’exceptio inadimpleti contractus (26),
ostacolando la pronuncia costitutiva ex art. 2932 Codice civile, al solo fine di sottrarsi all’osservanza degli obblighi assunti allorquando, a seguito delle mutate condizioni di mercato, ritenga economicamente conveniente
lo scioglimento del vincolo.
Note:
(22) Cfr., Gabrielli e Franceschelli, voce Contratto preliminare, cit., 11.
(23) Cfr. Bianca, La vendita, cit., II, 164; Luminoso, La compravendita,
cit., 394; per la giurisprudenza, ex multis; Cass. 16 luglio 2001, n. 9636,
cit.; Cass. 23 aprile 1980, n. 2679, cit.
(24) Così Cass., S.U., 27 febbraio 1985, n. 1720, cit.: «la riduzione del
prezzo non è uno strumento esclusivo del contratto di vendita, ma piuttosto un rimedio a carattere più generale per i contratti a prestazioni corrispettive».
(25) La dottrina prevalente ritiene superfluo per l’accoglimento dell’azione edilizia il giudizio ex art. 1455 Codice civile atteso che esso sarebbe implicito nel presupposto per l’esperimento dell’azione stessa, ossia la sussistenza di un vizio che renda la cosa venduta inidonea all’uso cui è destinata o che ne diminuisca in modo apprezzabile il valore. Si osserva, al riguardo, che avendo il legislatore stabilito in quali casi il compratore ha
diritto alla garanzia per i vizi abbia già fatto, in astratto, una valutazione
dell’importanza dell’inadempimento. In tal senso, Greco e Cottino, Della vendita, artt. 1470-1547, Bologna-Roma, 1962, 252. La giurisprudenza
di legittimità sul punto si mostra divisa, per l’applicabilità dell’art. 1455
Codice civile v. Cass. 15 febbraio 1986, n. 914, in Cd-Rom Jiuris Data
2004; Cass. 25 giugno 1980, n. 3992, in Giur. it., 1981, I, 1 1027; contra
Cass. 11 aprile 1996, n. 3398, in Corr. giur., 1997, 75.
(26) Il riferimento è al secondo comma dell’art. 1460 Codice civile secondo il quale il rifiuto di eseguire la prestazione è contrario a buona fede
ove l’inadempimento risulti non grave.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
769
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Mediazione
Sulla differenza tra mandato
e mediazione
Corte d’Appello di Milano, sez. I - Sentenza del 12 maggio 2004
Pres. Trombetti - Rel. La Manna - Ric. A. L. - Res. Prima casa S.r.l.
Contratti in genere - Compravendita beni immobili - Mediazione - Natura - Mandato - Caratteri - Differenze
Il soggetto che ha ricevuto un incarico ad alienare e/o acquistare un immobile e che mette in relazione chi
gli ha conferito l’incarico con la controparte ricercata sul mercato svolge - indipendentemente dal nomen
iuris utilizzato nel contratto - l’attività tipica del mediatore. Unico vincolo ostativo al riconoscimento del
compenso in favore del mediatore è, in caso di effettiva conclusione dell’affare, la mancanza di indipendenza del mediatore, intesa come assenza di qualsiasi vincolo o rapporto che renda (il caso di conferimento unilaterale dell’incarico) riferibile al dominus l’attività giuridica del mediatore.
Svolgimento del processo
on ricorso depositato in data 26 ottobre 2000 la
società Prima Casa S.r.l. chiese al Tribunale di
Milano ingiunzione di pagamento nei confronti
del Sig. A.L. per il complessivo importo di Lire
6.840.000 (oltre accessori), quale credito provvigionale
derivante dall’attività mediatoria espletata in favore di
costui.
Assumeva in particolare la ricorrente che, con scrittura
di conferimento dell’incarico mediatorio datata 26 aprile 2000, il Sig. L. aveva proposto l’acquisto, per il tramite della Prima Casa S.r.l., di un appartamento sito in Milano, via del Mare n. 99, per il prezzo di Lire
190.000.000, promettendo il pagamento di una provvigione commisurata al 3% del prezzo d’acquisto da corrispondere all’atto del preliminare (stipulato in data 8
maggio 2000), ma poi non pagata nonostante i solleciti.
Il Giudice adìto, accogliendo il ricorso, emise il richiesto
decreto ingiuntivo in data 1° dicembre 2000.
Contro quest’ultimo propose opposizione il sig. L. con
atto di citazione notificato in data 12 febbraio 2001,
chiedendo la revoca dell’opposto decreto «stante l’irregolarità del mandato a vendere ricevuto dalla società
convenuta, le omissioni ed irregolarità da essa commessa nell’esecuzione della mediazione».
L’opponente evidenziava, in particolare, che Prima casa
aveva commesso varie irregolarità ed illiceità nel corso
di svolgimento dell’incarico mediatorio, che avevano
compromesso il rapporto fiduciario inter partes e il buon
esito della mediazione (avendo taciuto che la vendita
doveva avere ad oggetto non solo un appartamento, ma
anche un box, e che sull’immobile gravava un’iscrizione
ipotecaria; ed avendo redatto il mandato di vendita su
un modulo diverso da quello prestabilito dalla CCIAA
di Milano).
C
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I CONTRATTI N. 8-9/2005
Si costituì in giudizio la convenuta-opposta resistendo
all’opposizione e chiedendo la conferma del decreto ingiuntivo opposto; chiese, inoltre, «in via riconvenzionale», la condanna dell’opponente al pagamento dell’ulteriore importo di Lire 1.080.000, avendo appreso, sulla
base della documentazione prodotta in causa dalla stessa
controparte, che il prezzo definitivo di compravendita
era lievitato da Lire 190.000.000 a Lire 220.000.000,
con il conseguente maturare del suo diritto alla provvigione anche sul maggiore importo di Lire 30.000.000.
All’esito del giudizio così radicato, e senza il previo svolgimento di alcuna significativa attività istruttoria, il Tribunale di Milano, con sentenza n. 1765/2002 pronunciata e depositata in data 21 gennaio 2002, ha rigettato
l’opposizione, confermato l’opposto decreto e condannato l’opponente al pagamento in favore della convenuta del maggiore importo di Lire 1.080.000, pari ad euro
557,77 (oltre interessi legali dal dovuto al saldo) e alla rifusione delle spese di lite (complessivamente liquidate
in euro 1.928,95).
Riassumendo - per quanto ora interessa - la motivazione
di questa pronuncia, deve rilevarsi che il Tribunale ha
anzitutto dichiarato inammissibile, in quanto nuova e
tardivamente proposta, la domanda svolta dall’opponente in sede di precisazione delle conclusioni, con cui
aveva addotto «l’impossibilità di configurare nella specie
un rapporto mediatorio, essendo controparte non in posizione terziaria rispetto allo stipulando contratto, bensì
in posizione di mandatario e rappresentante sostanziale
di una delle parti contraenti».
Il primo Giudice ha quindi ritenuto di dover esaminare
solo le iniziali prospettazioni dell’opponente, inerenti alle pretese irregolarità compiute da Prima casa nell’espletamento dell’incarico, non potendo esse considerarsi abbandonate come conseguenza della mutata posizione di-
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
fensiva assunta in occasione dell’udienza di precisazione
delle conclusioni, ma le ha giudicate nel merito infondate, perché l’opponente, resosi conto che la vendita
comprendeva inscindibilmente anche un box, l’aveva
accettata, e peraltro senza subire nemmeno alcun pregiudizio, visto che aveva contestualmente venduto a terzi il box in questione recuperando per intero il relativo
prezzo; che nel compromesso egli era stato edotto dell’esistenza dell’iscrizione ipotecaria, peraltro successivamente cancellata senza aggravio alcuno; e che fossero
addirittura incomprensibili le doglianze relative alla modulistica usata dalla società mediatrice.
Quanto alla richiesta formulata da quest’ultima, di condanna dell’opponente al pagamento di un supplemento
di provvigione, il Tribunale ha ritenuto che tale domanda, di carattere riconvenzionale, potesse essere dedotta
perché dipendente, ex art. 36 Codice di procedura civile, dal titolo già dedotto in giudizio, avendo l’opposta già
monitoriamente azionato il rapporto mediatorio e potendo quindi dedurre in via riconvenzionale altre pretese derivanti da esso, pretese in concreto svolte tempestivamente con la comparsa di costituzione, ossia subito
dopo aver appreso, a seguito della produzione documentale effettuata dall’opponente in allegato alla citazione,
che il prezzo reale di vendita era maggiore di quello prima conosciuto.
Per la riforma di tale sentenza ha interposto gravame
avanti a questa Corte d’Appello il Sig. L. con atto di citazione notificato in data 6 maggio 2002.
Si è costituita in giudizio l’appellata Prima casa resistendo al gravame; contestualmente il legale di tale società
ha dato atto del fallimento che, nelle more, è stato dichiarato a carico della sua assistita.
Dichiarato conseguentemente interrotto il giudizio, esso
è stato poi riassunto dal Sig. L. nei confronti della società
Prima casa essendo questa ritornata in bonis a seguito di
chiusura del fallimento nel frattempo disposta.
Nella fase successiva del giudizio la predetta società, ora
in fase di liquidazione, si è nuovamente costituita in persona del suo liquidatore riproponendo le difese svolte in
precedenza.
Precisate di seguito le conclusioni - conformemente agli
atti introduttivi - nei termini letteralmente trascritti in
epigrafe, questa Corte ha infine trattenuto la causa in
decisione all’udienza del 24 febbraio 2004 concedendo
alle parti i termini di cinquanta e di venti giorni nei limiti previsti dagli artt. 190 e 352 Codice di procedura civile per il deposito delle comparse conclusionali e delle
memorie di replica.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di gravame l’appellante censura
sia il fatto che il Tribunale abbia ritenuto che essa avesse proposto in occasione della precisazione delle conclusioni una nuova domanda, sia che abbia ritenuto di non
dover esaminare nel merito quest’ultima, ma invece le
prospettazioni difensive svolte in origine con l’atto di
opposizione, ancorché queste fossero state palesemente
abbandonate.
Afferma in proposito la deducente che, nel contestare in
via conclusiva che Prima Casa avesse svolto attività mediatoria, e nel sostenere, di conserva, che essa avesse invece svolto l’attività di mandataria per conto e nell’esclusivo interesse dei venditori, nessuna nuova domanda
essa aveva proposto, ma aveva semplicemente profilato comunque senza incorrere in alcuna preclusione, e per il
tramite dei nuovi difensori subentrati a quelli prima nominati dal Sig. L., nella convinzione che costoro avessero assunto una posizione difensiva del tutto ininfluente
ed erronea - mere difese di diritto in relazione alla ipotizzata mancanza di un fatto costitutivo dell’avversa domanda. Proprio in ragione di ciò, sostiene l’appellante, i
suoi nuovi difensori avevano manifestato la chiara intenzione di voler abbandonare le precedenti prospettazione difensive, che il Tribunale, dunque, non avrebbe
dovuto affatto esaminare, dovendo limitarsi a verificare,
anche nello svolgimento dei suoi poteri ufficiosi di qualificazione della domanda, e comunque sulla scorta delle
difese svolte dai nuovi difensori dell’opponente, se davvero Prima Casa potesse vantare un diritto alla provvigione in relazione all’assunto svolgimento di un’attività
mediatoria, o piuttosto tale diritto non potesse vantare,
avendo svolto mera attività di mandataria e procuratrice
a vendere per conto, e nell’esclusivo interesse, dei venditori. L’appellante non omette di riproporre, peraltro, le
ragioni di carattere giuridico che, in relazione alla posizione del mediatore-mandatario, già aveva esposto nella
fase conclusiva di primo grado a sostegno della addotta
mancanza di un valido titolo al compenso provvigionale
in capo a Prima Casa.
1.2. Un ulteriore profilo di critica investe poi la gravata
pronuncia nel punto in cui il Tribunale ha ritenuto ammissibile la domanda svolta dalla convenuta per il pagamento di una quota supplementare di provvigione, qualificandola come domanda riconvenzionale. Ricorda in
proposito l’appellante i principi giurisprudenziali affermatisi in materia di qualificazione processuale del ruolo
delle parti di un procedimento di opposizione a decreto
ingiuntivo, laddove è il convenuto-opposto ad assumere
la veste sostanziale di attore, e l’opponente quella di convenuto, e osserva che, per tale ragione, Prima Casa non
solo aveva l’onere di provare ex novo il fondamento della sua domanda originaria, ma non poteva nemmeno
proporne una nuova di carattere riconvenzionale, tale
possibilità essendo riservata solo alla parte avente qualità di convenuto in senso sostanziale, ossia all’opponente; né, a suo dire, la tardiva e quindi inammissibile proposizione della nuova domanda poteva trovare giustificazione nel fatto, allegato dalla mediatrice, ma in concreto poco credibile, che solo dopo aver visionato i documenti prodotti dall’opponente aveva potuto avvedersi che il prezzo definitivo di vendita era maggiore di quello prima pattuito, poiché la preclusione sullo jus novorum si forma in relazione alle scansioni che attengono ai
I CONTRATTI N. 8-9/2005
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GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
termini di compimento degli atti processuali, e non possono essere superate volta a volta dal preteso posteriore
apprendimento di nuovi fatti.
2. Così sintetizzato l’oggetto del contendere, reputa questa Corte che l’appello sia insuscettibile di accoglimento
con riferimento a tutti gli articolati profili, ancorché alcuni degli argomenti prospettati mettano effettivamente
in luce errori di impostazione giuridica da parte del primo Giudice nella parte motiva della gravata pronuncia
che, comunque, non inficiano l’esattezza del dispositivo.
2.1. Quanto al primo profilo di critica, l’appellante sostiene che, nell’abbandonare in occasione dell’udienza
di precisazione delle conclusioni di primo grado le precedenti prospettazione difensive, e contestando in quella sede per la prima volta che Prima Casa avesse assunto
la qualità di mediatrice in senso stretto, non avrebbe
proposto una nuova domanda, né una vera e propria eccezione, ma una semplice difesa alternativa atta ad incidere solo sulla mera qualificazione della domanda in relazione ad un suo fatto costitutivo, che sarebbe stato comunque onere dell’attrice sostanziale (convenuta-opposta) dimostrare esistente. La deducente censura anche il
fatto che il primo Giudice abbia esaminato argomenti
difensivi da considerare ormai abbandonati.
Riguardo a tale ultimo aspetto vi è solo da evidenziare
che esso non ha alcun concreto riflesso sull’attuale thema
decidendum, visto che l’appellante non solo non ripropone ora quegli argomenti difensivi, ma sostiene che nemmeno il Giudice di primo grado avrebbe dovuto esaminarli. Con il che, evidentemente, si conferma la loro assoluta ininfluenza ai fini del decidere.
Convincente è invece l’argomento con cui si censura il
fatto che il Tribunale abbia ritenuto proposta una nuova
domanda.
A questo riguardo, per quanto possa apparire superfluo,
deve tuttavia premettersi, dovendo tenersi conto delle
confuse e contrastanti affermazioni svolte su questo punto dalle parti in causa, che, secondo diritto giurisprudenziale ormai ricevuto, l’opposizione a decreto ingiuntivo
non costituisce mera azione d’impugnazione della validità del decreto stesso, ma introduce un ordinario giudizio di cognizione diretto ad accertare la fondatezza della
pretesa fatta valere dall’ingiungente-opposto e delle eccezioni e delle difese fatte valere dall’opponente.
In tale giudizio la posizione processuale delle parti è in
realtà invertita: la posizione sostanziale di attore, infatti,
con i relativi oneri, spetta al creditore ricorrente, convenuto in opposizione, mentre quella sostanziale di convenuto spetta al debitore opponente; sicchè, dovendo
aversi riguardo alla sola posizione sostanziale delle parti,
e non a quella formale, devono reputarsi operanti con riferimento alla prima sia il regime probatorio, che la disciplina delle facoltà processuali.
Ne consegue che, mentre l’opposto, in relazione alla sua
qualità sostanziale di attore, può, a norma degli artt. 183
e 184 Codice di procedura civile, solo precisare e modificare, ma non mutare la sua domanda, che è quella spie-
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I CONTRATTI N. 8-9/2005
gata con il ricorso per ingiunzione (ammettere, infatti, la
possibilità di un’autonoma riconvenzionale da parte dell’opposto significherebbe eludere il divieto di mutatio libelli), ex altero latere all’opponente, in quanto convenuto
in senso sostanziale, è dato di proporre con l’atto di opposizione eventuali domande riconvenzionali e di integrare la propria difesa, rispetto alla pretesa fatta valere
dall’ingiungente (cfr. ex multis, tra le più recenti, Cass. n.
13445/2000; n. 6528/2000; n. 2820/1999; n. 813/1999),
fatta salva, naturalmente, la possibilità per il convenuto
opposto, quando ne ricorrano in concreto i presupposti,
di proporre una riconventio reconventionis, purchè comunque nel primo atto difensivo successivo alla comparsa di risposta del convenuto (Cass. 13 maggio 1993,
n. 5460; Cass. 6 aprile 1973, n. 960).
Tenuto conto, dunque, del fatto che nell’opposizione
l’opponente è convenuto sostanziale, e che nel caso di
specie il Sig. L., opponente, già con l’opposizione si era
limitato a proporre solo eccezioni per contrastare la pretesa del ricorrente, e non vere e proprie domande riconvenzionali, già questo rendeva poco probabile che una
nuova domanda egli avesse inteso proporre in occasione
dell’udienza di definitiva precisazione delle conclusioni,
laddove, del resto, solo per contrastare l’avversa pretesa,
egli addusse, per la prima volta, il fatto che Prima casa
avesse agito non imparzialmente, ma a tutela piuttosto
dei soli interessi dei venditori, e quindi come mandataria stricto sensu degli stessi.
A parte ciò, e valutando in concreto tale conclusiva posizione processuale, sorprende che il Tribunale abbia potuto ritenere proposta una «nuova domanda», laddove
l’aggettivo «nuova» sembrava porre in evidenza non già
che l’opponente avesse per la prima volta proposto una
domanda in occasione dell’udienza di precisazione delle
conclusioni, ma che ad una domanda già prima proposta
ne avesse aggiunto un’altra, appunto «nuova», laddove
con l’opposizione, in realtà, come appena si è detto, l’opponente non aveva proposto invece domanda alcuna,
ma si era limitato a svolgere mere eccezioni difensive per
ottenere (così proponendo una conclusione che soltanto in senso improprio poteva considerarsi come una domanda) la revoca dell’opposto decreto.
Ad ogni buon conto, anche se una domanda fosse stata
prima proposta, reputandosi tale - sebbene in senso ampio e improprio - la richiesta di revoca dell’opposto decreto svolta dall’opponente, non poteva certo considerarsi come nuova domanda la difesa svolta dall’opponente in occasione della precisazione delle conclusioni.
È infatti noto che può aversi domanda nuova solo qualora venga fatta valere una pretesa che, basandosi su un titolo diverso da quello inizialmente dedotto in giudizio,
ed aggiungendo presupposti di fatto nuovi o mutando
quelli già esposti nella domanda introduttiva, ne alteri
obiettivamente la natura ed il fondamento di tal che, pur
restando eventualmente fermo il petitum, s’introduca una
situazione di fatto diversa da quella prospettata precedentemente e tale da aprire un nuovo tema di indagini.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Sotto il profilo, poi, della individuazione della domanda,
per il principio della libertà di forme vigenti nel nostro
sistema processuale, che consente alle parti di proporre
le loro domande, difese ed eccezioni senza l’osservanza di
particolari formule, deve aversi riguardo al contenuto sostanziale delle domande e conclusioni delle parti in una
valutazione complessiva anche del loro effettivo interesse (Cass. n. 2325/1992).
La domanda giudiziale, dunque, deve essere interpretata
dal giudice non solo nella sua letterale formulazione, ma
anche nel suo sostanziale contenuto, e con riguardo alle
finalità perseguite dalla parte.
A questo scopo, nell’individuare l’oggetto della domanda occorre avere riguardo al contenuto sostanziale della
pretesa fatta valere, come si desume anche dalla natura
delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante
e dal provvedimento sollecitato in concreto, tenendo
conto della volontà «effettiva», ricavabile anche per
«implicito», con riferimento alla «sostanza» della pretesa
così come è stata costantemente percepita nel corso del
giudizio da tutte le parti, secondo quanto emerge dalla
condotta processuale di esse. Per ricostruire la volontà
della parte, dunque, ci si deve riferire anche ai fatti esposti ed alle considerazioni svolte nella parte motiva dell’atto, alle finalità avute di mira dall’istante, desumibili
dal tipo e dai limiti dell’azione proposta, ed al comportamento processuale concretamente assunto, tenuto conto altresì delle eventuali modifiche e trasformazioni che
la domanda ha subito nel corso del giudizio (v. per es.
Cass., sez. lav., n. 14303/2002; Cass. n. 2908/2001; n.
8879/2000; n. 11861/1999; sez. un., n. 4779/1981).
In applicazione di questi criteri, deve dunque nella specie escludersi che nella formulazione difensiva finale assunta dal Sig. L. in sede di precisazione delle conclusioni, laddove, abbandonando le precedenti prospettazione, egli contestò che Prima casa avesse assunto la veste
di mediatrice, fosse da ravvisare una nuova domanda,
poiché tale posizione ripeteva, nel contesto della medesima ed immutata richiesta di revoca dell’opposto decreto, solo e sempre una conclusione esclusivamente intesa
al rigetto della pretesa fatta valere da Prima casa.
Si tratta ora di accertare se - come l’appellante adduce tale contestazione si sia tradotta più specificamente nella formulazione di «mere difese», che, in astratto, non è
dubbio avrebbero potuto come tali ritenersi sottratte al
regime di preclusioni e barrages processuali che scandiscono il procedere del giudizio di primo grado (per comune opinione potendo del resto proporsi per la prima
volta anche nel successivo grado d’appello).
È infatti principio consolidato che il divieto di jus novorum riguarda le domande e le eccezioni «in senso stretto» e non anche le difese e le eccezioni «in senso lato»,
e che tra le «eccezioni improprie» o «mere difese» rientrino le contestazioni inerenti all’esistenza di tutti o di alcuni degli elementi della fattispecie costitutiva della pretesa, o quelle dirette a negare il valore probatorio dei
mezzi istruttori esperiti in primo grado su istanza di parte
o d’ufficio dal giudice (tra le molte, v. Cass. n.
8855/2002; n. 89/1997; n. 4806/1985).
In concreto, nonostante tale ricevuta definizione, non è
però possibile ritenere che il Sig. Luongo, in occasione
dell’udienza di precisazione delle conclusioni, si fosse limitato a svolgere mere difese, o che comunque avesse
ancora il potere di svolgerle nel senso in cui lo fece.
E non tanto perché il contestare che Prima casa avesse
svolto attività mediatoria non potesse in via di principio ed astrattamente considerarsi una mera difesa, nella
parte in cui mirava a negare un fatto costitutivo dell’avversa domanda, quanto piuttosto perché, a partire dall’atto di citazione in opposizione, egli aveva affermato,
proprio in punto di fatto (e non semplicemente in termini di qualificazione in diritto), esattamente il contrario, ossia che Prima casa aveva svolto in effetti attività
mediatoria, ancorché comportandosi in modo alquanto
reprensibile quanto all’adempimento dei suoi doveri
professionali.
In tal modo l’opponente aveva quindi ammesso in modo pacifico l’esistenza di quel fatto costitutivo dell’avversa pretesa, che poi ha voluto contestare in occasione dell’udienza di precisazione delle conclusioni.
Deve ritenersi che, per tale ragione, la sua posizione conclusiva non potesse più considerarsi una mera difesa inidonea a spostare il tema del decidere già definito in causa, perché il fatto costitutivo della domanda di Prima casa doveva considerarsi ormai acquisito a livello probatorio in ragione delle stesse ammissioni svolte dall’opponente in atto di citazione.
In sostanza, con la sua nuova posizione, l’opponente proponeva ora una vera e propria eccezione con la quale intendeva contrastare un fatto ormai acquisito in causa
sotto il profilo della dialettica probatoria.
Tale posizione poteva quindi qualificarsi, in ragione della sottesa intenzione di chi l’aveva conformata, di incidere cioè in senso impeditivo o estintivo su un fatto costitutivo di cui prima aveva ammesso l’esistenza, come
eccezione in senso stretto, che non solo per giustificarsi
sotto il profilo della fondatezza avrebbe dovuto presupporre il sopravvenire di fatti nuovi (appunto impeditivi,
estintivi, ecc.) tali da poter contrastare la precedente
ammissione circa la positiva esistenza, in fatto, del rapporto mediatorio, ma avrebbe dovuto anche - per potersi legittimare sotto il profilo della tempestività - essere
proposta non oltre i limiti fissati dalle udienze ex artt.
180-183 Codice di procedura civile, mentre, essendo
stata proposta nell’udienza di precisazione delle conclusioni, risultava conseguentemente ormai preclusa.
Né può ritenersi che lo stabilire se l’attività della Prima
casa fosse o meno attività mediatoria si riducesse ad una
semplice qualificazione giuridica del fatto demandata ex
officio al Giudicante, poiché in realtà ciò che integrava le
contestazioni svolte dal L. era, come si è detto testè, la
negazione di un fatto prima ammesso, ossia che Prima
casa avesse agito quale vera intermediaria tra le parti,
mentre ora egli affermava che la suddetta società aveva
I CONTRATTI N. 8-9/2005
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GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
agito da semplice mandataria dei venditori, e se ovviamente da tale diversa impostazione derivava anche una
inevitabile immutazione sul piano della qualificazione
giuridica, alla base di questa vi era però anche (e ancor
prima) un’evidente immutazione del fatto, suscettibile
peraltro, all’evidenza, di una diversa indagine effettuale
sul piano istruttorio, poiché per sconfessare la sua qualità
di mandataria affermata ex adverso, Prima casa avrebbe
anche dovuto provare - in fatto - di aver sempre agito in
modo imparziale e come mediatrice nell’interesse di entrambe le parti sostanziali del rapporto intermediato.
È pertanto più che evidente come l’opponente, nell’affermare che Prima casa, come mandataria, si era comportata in modo parziale ed interessato ai suoi danni,
non si fosse limitata ad introdurre una mera difesa, ma
abbia inserito un thema decidendum ulteriore e oggetto di
potenzialmente automa attività istruttoria (ancorché
preclusa ormai in fatto sia per l’opponente medesimo,
quanto, soprattutto, per Prima casa, essendo ormai stato
superato il barrage delle deduzioni istruttorie ex art. 184
Codice di procedura civile).
Deve peraltro aggiungersi che, quand’anche si potesse andare di contrario avviso, ritenendo che di vere e proprie
mere difese si fosse trattato, non per questo la nuova prospettazione difensiva avrebbe potuto considerarsi fondata, e ciò proprio in quanto alla nuova contestazione non
si era accompagnato il previo tempestivo esperimento di
connesse attività probatorie, restando privo di adeguato
sostegno probatorio, sul piano del fatto concreto, l’allegato compimento di un’attività gestoria, o comunque non
potendo tale nuova contestazione superare la precedente
ed ormai acquisita ammissione circa l’effettivo svolgimento di un’attività propriamente mediatoria limitandosi a far perno, a tal fine, su alcune espressioni e su alcuni
termini contenuti nella scrittura con cui i venditori avevano conferito l’incarico mediatorio a Prima Casa.
L’appellante, infatti, a sostegno della sua contestazione,
si è limitato a porre in evidenzia alcune espressioni letterali di tale scrittura, senza entrare nel merito dell’attività
concretamente espletata da Prima Casa e senza addurre
alcuna prova - peraltro ormai preclusa - in proposito.
Ebbene il mero richiamo al tenore letterale della detta
scrittura non poteva considerarsi sufficiente a dimostrare
l’assunto del Sig. L.; ciò che aveva rilievo, infatti, per suffragare la fondatezza della sua contestazione finale, non
poteva certo essere solo il fatto che, in base alla documentazione in atti, emergesse (in asserto) che Prima Casa era stata «incaricata» o avesse ricevuto «mandato» dai
proprietari dell’appartamento di provvedere alla relativa
vendita, essendo un dato di comune esperienza che, nella prassi corrente, l’incarico mediatorio venga affidato
utilizzando espressioni (come «si dà incarico di…», o si
«dà mandato di…», et similia) che spesso sembrano rimandare ad un’attività gestoria, senza tuttavia che quest’ultima venga sussunta davvero come contenuto obbligatorio di un rapporto qualificabile in senso contrattuale
come mandato. Anche le altre espressioni cui ha fatto ri-
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I CONTRATTI N. 8-9/2005
ferimento l’appellante come sintomi dell’operare di un
mandato erano in realtà inefficaci a dimostrare tale fatto.
Aveva osservato ad esempio l’opponente che non era
stata promessa a Prima Casa, per la sua attività, una
provvigione, ma un «compenso», e ciò avrebbe dovuto
indurre il Giudicante ad orientarsi vero il mandato piuttosto che verso la mediazione.
La tesi è palesemente eccessiva, poiché anche la provvigione altro non è che un compenso, un corrispettivo,
quello che appunto viene promesso al mediatore, e semmai ciò che ha rilievo per poter desumere dal tipo di
compenso il tipo di rapporto entro cui esso si inserisce, è
la modalità con cui le parti lo abbiano calcolato, nel caso di specie in percentuale sul prezzo di vendita, e dunque esattamente come avviene di norma in ambito mediatorio.
Anche il fatto - pure evidenziato dall’opponente - che
fosse stata inserita nella detta scrittura la facoltà per il
mediatore di incassare somme e di trattenerle a soddisfazione anche del suo compenso non contrasta assolutamente con la disciplina della mediazione, cui ben possono accedere - tanto più considerata la sua natura di rapporto fattuale non riducibile sic et simpliciter allo schema
del contratto - clausole anche atipiche (rispetto a quelle
che compongono il tessuto delineato tipologicamente
dal codice civile) senza che, per ciò stesso, possa ritenersi superata la tipologia «mediazione» e ipso facto traslata
la fattispecie pratica nella sfera di un altro e diverso schema negoziale tipico.
Potrebbe forse apparire più significativa un’altra previsione cui ha fatto riferimento l’opponente, quella con
cui si contemplava il sorgere del diritto al compenso per
il mediatore sia in caso di esecuzione del mandato o dell’incarico sia in caso di «conclusione diretta del contratto di
compravendita», conclusione che l’appellante interpreta
come riferita all’attività del mediatore, che, essendo stato così abilitato a concludere il contratto di alienazione,
avrebbe potuto finanche agire come procuratore alla
vendita, in nome e per conto dei venditori.
Questa è però, a ben vedere, una semplice illazione, del
tutto priva di riscontro logico-argomentativo e fattuale.
Con l’espressione «conclusione diretta del contratto di compravendita», infatti, non si indicava affatto una facoltà
d’azione attribuita a Prima Casa, ma solo un evento al
verificarsi del quale sarebbe scattato l’obbligo di pagamento del compenso. Nulla quindi autorizzava a ritenere che la facoltà di concludere il contratto fosse stata delegata a Prima Casa, l’espressione in esame sembrando
invece più congruamente riferibile, in sostanza, al caso
in cui le parti avessero direttamente, e cioè autonomamente, concluso la compravendita senza intervento del
mediatore durante il periodo di vigenza dell’incarico mediatorio, situazione che, com’è noto, viene solitamente
considerata sufficiente ragione per il riconoscimento
della provvigione al mediatore cui l’incarico sia conferito, come nella specie, in «esclusiva».
Del resto, un’analoga previsione, fondata sulla medesi-
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
ma ratio, si rinveniva nella detta scrittura laddove questa
contemplava il diritto al compenso anche ove la vendita fosse stata stipulata dopo l’estinzione del rapporto mediatorio, ma con soggetti già segnalati dal mediatore o
che avessero visionato i locali oggetto di vendita già nel
corso di vigenza del rapporto di mediazione.
Se gli elementi «sintomatici» segnalati dall’opponente
per dimostrare l’operare di un mandato non erano idonei
a tale scopo, altri ve n’erano che invece, del tutto ignorati dall’opponente, avrebbero potuto più agevolmente
dimostrare che di mandato non si trattasse, quanto piuttosto di una vera e propria mediazione.
Da una parte non poteva dubitarsi che carattere mediatorio avesse l’incarico conferito, a latere emptoris, dal L.,
visto che nella scrittura con cui costui aveva proposto
l’acquisto dell’appartamento di cui si discute era stato inserito l’espresso riferimento al fatto che il compenso
avrebbe avuto come causa l’attività di intermediaria
svolta da Prima Casa, per ben due volte indicata come
«società intermediatrice».
Inoltre, quanto alla scrittura di conferimento dell’incarico a latere venditoris, significativamente si era precisato
che nessun compenso sarebbe spettato a Prima casa in
caso di mancata conclusione dell’affare durante il periodo di vigenza dell’incarico, laddove invece, se si fosse
trattato di vero e proprio mandato, sarebbe stato quanto
meno più «normale», anche se non inesorabile, stante la
contestuale previsione di un compenso in caso di buon
esito delle trattative che rendeva comunque «oneroso»
il rapporto, che si prevedesse la debenza del compenso in
ragione del semplice compimento dell’attività gestoria, e
dunque a prescindere dal risultato.
La mediazione, infatti, si differenzia tra l’altro dal mandato anche perché, mentre il mandatario agisce in
adempimento di un preciso obbligo giuridico consistente nel compimento di un’attività negoziale, avendo diritto al compenso - di norma - indipendentemente dal
risultato raggiunto, il mediatore invece assume l’onere,
interponendosi in maniera neutrale fra due o più parti, di
mettere in contatto le stesse con diritto al compenso solo in caso di effettiva conclusione dell’affare (v. Cass. n.
1719/1998).
Mancando quindi la possibilità di desumere dalle citate
scritture l’esistenza di un mandato nel rapporto interno
tra i venditori e Prima casa, l’opponente, per dimostrare
comunque esistente tale contratto, avrebbe dovuto dimostrare se non altro il concreto compimento, in via effettuale, di atti implicanti violazione dell’obbligo di imparzialità, se non addirittura l’esecuzione di attività rappresentative in nome e per conto dei venditori, qualificando in modo concludente, e non solo in via teorica, la
posizione gestoria della mediatrice, sì da poter concludere che tale attività si era riflessa anche nel rapporto bilaterale tra acquirente e Prima Casa incidendo in senso
impeditivo sul diritto al compenso provvigionale che, in
effetti, in tal caso non sarebbe stato dovuto (ex multis,
Cass. n. 1231/2000).
In ultima analisi, partendo dal dato pacifico che entrambe le parti in causa conferirono a Prima Casa, da
una parte l’incarico di trovare un acquirente, e dall’altra
l’incarico di trovare un appartamento da acquistare,
con il che almeno in apparenza poteva considerarsi operante un rapporto mediatorio con diritto al compenso
sia a latere venditoris, sia a latere emptoris, il Sig. L. avrebbe dovuto dimostrare, per dare fondamento alla sua prospettazione, in via di fatto, e con prove ad hoc, che Prima casa non si era comportata come soggetto imparziale, e non limitarsi a ipotizzare in astratto l’esistenza di un
mandato, facendo esclusivo riferimento alle non conclusive espressioni letterali utilizzate nella scrittura con
cui i venditori avevano conferito un «incarico a vendere».
Escluso che fosse ammissibile o fondata la prospettazione
conclusiva dell’opponente, dovevano poi considerarsi
abbandonate, per sua stessa ammissione, le altre difese
iniziali, che dunque - come già s’è detto - male ha fatto il
primo Giudice a ritenere ancora oggetto del thema decidendum.
Se è vero, infatti, che in via di principio la mancata riproposizione, nelle conclusioni definitive di cui all’art.
189 Codice di procedura civile, di domande o eccezioni
o istanze in precedenza formulate non è, di per sè, sufficiente a farne presumere la rinuncia o l’abbandono, dovendosi ciò escludere non solo quando dette conclusioni ricomprendano una generica richiesta di positiva valutazione di tutte le difese svolte, ma anche quando, pur
essendo state precisate conclusioni specifiche e nonostante detta materiale omissione, la complessiva condotta della parte - la cui interpretazione è riservata al giudice del merito - evidenzi l’intento della stessa di mantenere ferme anche le domande, le eccezioni o le istanze a
loro volta non specificamente riprodotte, tanto più
quando queste, sotto il profilo dell’interesse della parte,
risultino strettamente connesse con quelle oggetto delle
conclusioni formulate (v. da ultimo Cass. n.
12482/2002); è altrettanto vero che quando delle varie
tesi tra loro collidenti sostenute nel corso del giudizio ne
venga conclusivamente adottata solo una che elida le altre, il principio di non contraddizione legittima il giudice a ritenere abbandonate le altre tesi e difese (Cass. n.
108/1997).
Nel caso di specie l’aver prima svolto difese che presupponevano l’esistenza del rapporto mediatorio, e poi difese che la escludevano, costituiva ragione sufficiente per
ritenere ormai abbandonate le prime, tanto più che, per
stessa ammissione dei nuovi difensori dell’opponente,
esse erano state non più riproposte perché da essi ritenute infondate.
In ogni caso quelle eccezioni e difese, cui il primo Giudice si è riferito, non sono state più riproposte in appello
con l’atto di gravame ed esulano pertanto - come si è già
anticipato - dal tema del decidere.
2.2. Infondata è anche la seconda censura che riguarda la
cd. «domanda riconvenzionale» proposta da Prima Casa.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
775
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Richiamato quanto già detto sopra circa il fatto che la
consolidata giurisprudenza di legittimità esclude l’ammissibilità di domande riconvenzionali da parte dell’opposto, è altrettanto indubitabile che non costituisca
mutamento della domanda, ma semplice consentita
emendatio, la modifica dell’entità del petitum, ancorchè
per importo maggiore di quello inizialmente richiesto,
allo stesso modo in cui lo è la richiesta di una somma
minore di quella originaria quando comunque, in entrambe le evenienze, non muti la «causa petendi» (arg.
ex Cass., sez. lav., n. 1104/1999; n. 5648/1990; n.
7224/1987).
E già sì è detto che l’opposto, in relazione alla sua qualità
sostanziale di attore, se non può mutare la domanda
spiegata con il ricorso per ingiunzione, può invece, a
norma degli artt. 183 e 184 Codice di procedura civile,
precisare e modificare la stessa con la comparsa di costituzione in giudizio, e tra le modifiche consentite deve ritenersi appunto compresa anche la mera variazione e
specificazione quantitativa del petitum.
Le conclusioni raggiunte integrano e rettificano la motivazione in diritto della sentenza impugnata, ma evidentemente non ne toccano il decisum, che resiste pertanto
alle censure formulate con l’atto d’impugnativa, il quale
va conclusivamente respinto.
3. Quanto alle spese di lite del giudizio di gravame, la
parte appellante, quale soccombente, dovrà rifondere in
via meramente consequenziale ai sensi dell’art. 91 Codi-
ce di procedura civile le spese processuali sostenute in
questa fase dalla parte appellata.
La relativa misura, per brevità, viene direttamente liquidata in dispositivo, tenuto conto della natura e del valore della controversia, della qualità e quantità delle questioni trattate e dell’attività complessivamente svolta dai
difensori, sulla base dei parametri contemplati dalla vigente Tariffa professionale, e tenuto conto della necessità di liquidare comunque, anche ex officio, le spese generali di studio che l’art. 15 della suddetta Tariffa quantifica a forfait nella misura del 10% (Cass. n.
11654/2002).
P.Q.M.
La Corte d’Appello di Milano, Prima Sezione Civile, definitivamente pronunciando, disattesa ogni diversa domanda ed eccezione, così provvede:
1) respinge l’appello confermando, per l’effetto, l’impugnata sentenza n. 1765/2002 pronunciata dal Tribunale
di Milano e depositata in data 21 gennaio 2002, salve le
integrazioni motivazionali meglio indicate nella parte
motiva della presente decisione;
2) condanna l’appellante all’integrale rifusione delle spese di lite sostenute dall’appellata nel presente grado, liquidate per tale fase in euro 3.458,20 (di cui euro 591,96
per esborsi, euro 1.355,68 per diritti, euro 1.250,00 per
onorari ed euro 260,56 per spese generali di studio al
10%), oltre ai competenti oneri fiscali e previdenziali.
IL COMMENTO
di Ettore Battelli
Il soggetto che ha ricevuto «mandato» (rectius: assunto l’incarico) ad alienare e/o acquistare un immobile e che mette in relazione chi gli ha conferito l’incarico con la controparte ricercata sul mercato, indipendentemente dal nomen iuris indicato nel contratto, in assenza di qualsiasi vincolo o rapporto che renda riferibile al dominus l’attività giuridica posta in
essere, svolge l’attività tipica dell’interposizione mediatoria, cioè mettere in relazione due parti perché
concludano un determinato affare.
Il fatto e le questioni
La sentenza in esame ripropone il dibattuto tema della individuazione del tipo contrattuale in presenza di un
accordo tra le parti, una delle quali è un operatore professionista, diretto a procurare la vendita di un immobile: dottrina e giurisprudenza, lo si vedrà successivamente, ne hanno evidenziato struttura e natura.
Con ricorso, depositato in data 26 ottobre 2000, la
società Prima casa S.r.l. chiese al Tribunale di Milano
776
I CONTRATTI N. 8-9/2005
ingiunzione di pagamento nei confronti del Sig. L. per
il credito provvigionale derivante dall’attività mediatoria espletata in favore di costui. Essa assumeva in
particolare che, con scrittura di conferimento dell’incarico mediatorio, il Sig. L. aveva proposto l’acquisto,
per suo tramite, di un appartamento sito in Milano
(dettagliatamente individuato), per il prezzo di Lire.
190.000.000, promettendo il pagamento di una provvigione commisurata al 3% del prezzo d’acquisto da
corrispondere all’atto del preliminare (stipulato in data 8 maggio 2000), ma poi non pagata nonostante i
solleciti.
Il Giudice adìto, accogliendo il ricorso, emise il richiesto decreto ingiuntivo contro il quale il sig. L. propose opposizione chiedendone la revoca sulla base della
«irregolarità del mandato a vendere ricevuto dalla società convenuta» e delle omissioni ed irregolarità da essa commessa nell’esecuzione dell’incarico mediatorio,
che avevano compromesso il rapporto fiduciario inter
partes e il buon esito della mediazione (avendo taciuto
che la vendita doveva avere ad oggetto non solo un ap-
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
partamento, ma anche un box, e che sull’immobile gravava un’iscrizione ipotecaria) (1).
La convenuta-opposta, costituitasi in giudizio, resistendo all’opposizione e chiedendo la conferma del decreto ingiuntivo opposto, in via riconvenzionale chiese
anche la condanna dell’opponente al pagamento di un
ulteriore importo, avendo appreso, sulla base della documentazione prodotta in causa dalla stessa controparte,
che il prezzo definitivo di compravendita era lievitato
considerevolmente, con il conseguente maturare del suo
diritto alla provvigione anche sul maggiore importo (2).
All’esito del giudizio così radicato il Tribunale di Milano, con sentenza n. 1765 del 21 gennaio 2002, ha rigettato l’opposizione, confermato l’opposto decreto e
condannato l’opponente al pagamento in favore della
convenuta del maggiore importo ed alla rifusione delle
spese di lite.
Il Tribunale, peraltro, da un lato ha dichiarato inammissibile, in quanto nuova e tardivamente proposta (solamente in sede di precisazione delle conclusioni), la domanda svolta dall’opponente, con la quale quest’ultimo
aveva addotto la non configurabilità, nel caso di specie,
di un rapporto di mediazione, ritenendo Prima casa
S.r.l., in posizione non «terza» rispetto allo stipulando
contratto di compravendita, alla stregua di soggetto
mandatario e rappresentante della parte venditrice; dall’altro, esaminate le iniziali prospettazioni dell’opponente, inerenti alle pretese irregolarità compiute da Prima
casa nell’espletamento dell’incarico, le ha giudicate
infondate, perché l’opponente, resosi conto che la vendita comprendeva inscindibilmente anche un box (3),
l’aveva accettata, vendendo contestualmente a terzi il
box in questione, così recuperando per intero il relativo
prezzo; e perché, nel compromesso, egli era stato anche
edotto dell’esistenza dell’iscrizione ipotecaria, peraltro
successivamente cancellata senza aggravio alcuno.
Il Tribunale ha, inoltre, accolto la richiesta formulata da Prima casa, relativa al pagamento del supplemento
di provvigione, ritenendo che tale domanda riconvenzionale potesse essere accolta in virtù proprio della produzione documentale effettuata dall’opponente in allegato alla citazione, attestante il reale prezzo di vendita,
all’evidenza maggiore di quello prima conosciuto.
Per la riforma di tale sentenza il Sig. L. ha interposto
gravame avanti alla Corte d’Appello.
I motivi di appello erano due.
Con il primo, di mero carattere processuale, l’appellante censura sia il fatto che il Tribunale abbia ritenuto
che egli avesse proposto in occasione della precisazione
delle conclusioni una nuova domanda, sia che abbia ritenuto di non dover esaminare nel merito quest’ultima,
bensì le prospettazioni difensive svolte in origine con
l’atto di opposizione, ancorché queste fossero state palesemente abbandonate. Afferma in proposito l’appellante che, nel contestare in via conclusiva che Prima casa
avesse svolto attività mediatoria, e nel sostenere che essa avesse invece svolto l’attività di mandataria per conto
e nell’esclusivo interesse dei venditori, nessuna nuova
domanda egli aveva proposto, ma aveva semplicemente
profilato, senza incorrere in alcuna preclusione, mere difese di diritto in relazione alla ipotizzata mancanza di un
fatto costitutivo dell’avversa domanda.
Proprio in ragione di ciò, con il secondo motivo di
gravame, egli sostiene che il Tribunale avrebbe dovuto
limitarsi a verificare se Prima casa potesse vantare un diritto alla provvigione in relazione all’assunto svolgimento di un’attività mediatoria, o piuttosto tale diritto non
potesse vantare, avendo svolto mera attività di mandataria e procuratrice a vendere per conto, e nell’esclusivo
interesse, dei venditori (4).
Il signor L., come già accennato, sostiene, infatti,
l’impossibilità di configurare nella specie un rapporto
mediatorio, «essendo controparte non in posizione terziaria rispetto allo stipulando contratto, bensì in posizione di mandatario e rappresentante sostanziale di una
delle parti contraenti» (5).
Così sintetizzato l’oggetto del contendere, la Corte
d’Appello ha reputato insuscettibile di accoglimento il
suddetto appello.
Quanto al primo profilo di critica, cui brevemente si
accenna, convincente è l’argomento con cui si censura il
fatto che il Tribunale abbia ritenuto proposta una nuova
domanda.
A questo riguardo, deve tuttavia premettersi, che, secondo diritto giurisprudenziale (6) ormai recetto, l’opNote:
(1) Sul dovere d’informazione del mediatore, tra gli altri, vedi: U. Azzolina, La mediazione, in F. Vassalli (diretto da), Trattato di diritto civile italiano,
Torino, 1957, 8.2.2, 88 e ss.; L. Carraro, La mediazione, Padova, 1960, 152
ss.; A. Cataudella, voce Mediazione, in Enc. giur., Roma, 1990, XIX, 3.3,
7; G. Di Chio, La mediazione, in Cottino (a cura di), I contratti commerciali, in Galgano (diretto da) Trattato di diritto commerciale, Padova, 1991,
XVI, 610 ss.; E. Guerinoni, Mediazione e obbligo di corretta informazione,
nota a Cass. 26 maggio 1999, n. 5107, in questa Rivista, 2000, 247; A.
Maniaci, Mediazione e obbligo di corretta informazione, in Foro pad., 2002,
322; F. Toschi Vespasiani, La responsabilità del mediatore immobiliare: gli incerti confini dell’obbligo di informazione, in questa Rivista, 2004, 1160 ss.
(2) Cfr. sul punto G. Gabrielli, Il «patto di sovrapprezzo» fra intermediario e
venditore, in Giust. civ., 1991, II, 563.
(3) Sulla questione: M. Caputi, Il mediatore e il dovere di informazione: cronaca di un rapporto difficile, nota a Trib. Torino 13 gennaio 2000, in Foro
it., 2001, I, 1885.
(4) Cfr. V. Carbone, La responsabilità professionale del mediatore tra codice
civile e leggi speciali, nota a Cass. 15 maggio 2001, n. 6714; Cass. 8 maggio
2001, n. 6389; Cass. 2 maggio 2001, n. 6160; Cass. 22 maggio 2001, n.
6973; Cass. 18 maggio 2001, n. 6827; Cass. 22 maggio 2001, n. 6963;
Cass. 17 maggio 2001, n. 6766; Cass. 15 maggio 2001, n. 6705, in Danno
e resp., 2001, 794.
(5) Cfr. E. Favara, Mediazione, mandato ed imparzialità del mediatore, nota
a Cass. 25 giugno 1963, n. 1719, in Riv. giur. edil., 1963, I, 1244.
(6) Ex multis: Cass. 25 novembre 2002, n. 16571, in Corr. giur., 2003,
447; e Trib. Frosinone 21 gennaio 2000, con nota di G. Lotito, In tema di
domanda nuova a seguito dell’entrata in vigore del nuovo rito introdotto dalla
Legge n. 353/90, in Il nuovo diritto, 2000, II, 258; in dottrina: A. Carrato, Riflessioni generali sul rapporto tra il procedimento di opposizione a ordinanza-ingiunzione previsto dalla L. 689/1981 e il processo ordinario di cogni(segue)
I CONTRATTI N. 8-9/2005
777
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
posizione a decreto ingiuntivo non costituisce mera azione d’impugnazione della validità del decreto stesso, ma
introduce un ordinario giudizio di cognizione diretto ad
accertare la fondatezza della pretesa fatta valere dall’ingiungente-opposto e delle eccezioni e delle difese fatte
valere dall’opponente.
In tale giudizio la posizione processuale delle parti è
in realtà invertita: la posizione sostanziale di attore, infatti, con i relativi oneri, spetta al creditore ricorrente,
convenuto in opposizione, mentre quella sostanziale di
convenuto spetta al debitore opponente; sicché, dovendo aversi riguardo alla sola posizione sostanziale delle
parti, e non a quella formale, devono reputarsi operanti
con riferimento alla prima sia il regime probatorio, che
la disciplina delle facoltà processuali.
Ne consegue che, mentre l’opposto, in relazione alla
sua qualità sostanziale di attore, può, a norma degli artt.
183 e 184 Codice di procedura civile, solo precisare e
modificare, ma non mutare la sua domanda, che è quella spiegata con il ricorso per ingiunzione (ammettere, infatti, la possibilità di un’autonoma riconvenzionale da
parte dell’opposto significherebbe eludere il divieto di
mutatio libelli) (7), ex altero latere all’opponente, in quanto convenuto in senso sostanziale, è dato di proporre con
l’atto di opposizione eventuali domande riconvenzionali e di integrare la propria difesa, rispetto alla pretesa fatta valere dall’ingiungente (8).
Deve dunque nella specie, concordando con il giudice dell’Appello, escludersi che, nella formulazione difensiva finale assunta dal Sig. L. in sede di precisazione delle
conclusioni, laddove, abbandonando le precedenti prospettazioni, egli contestò che Prima casa avesse assunto la
veste di mediatrice, fosse da ravvisare una nuova domanda, poiché tale posizione ripeteva, nel contesto della medesima ed immutata richiesta di revoca dell’opposto decreto, solo e sempre una conclusione esclusivamente intesa al rigetto della pretesa fatta valere da Prima casa.
In concreto, non è però possibile ritenere che il Sig.
L., in occasione dell’udienza di precisazione delle conclusioni, si fosse limitato a svolgere mere difese, o che comunque avesse ancora il potere di svolgerle nel senso in
cui lo fece, perché, a partire dall’atto di citazione in opposizione, egli aveva affermato, proprio in punto di fatto
(e non semplicemente in termini di qualificazione in diritto), esattamente il contrario di quanto sostenuto in sede di conclusioni, ossia che Prima casa aveva svolto in
effetti attività mediatoria, ancorché comportandosi in
modo alquanto reprensibile quanto all’adempimento dei
suoi doveri professionali (9).
In tal modo l’opponente aveva quindi ammesso in
modo pacifico l’esistenza di quel fatto costitutivo dell’avversa pretesa, che poi ha voluto contestare in occasione dell’udienza di precisazione delle conclusioni.
Deve ritenersi che, per tale ragione, la sua posizione
conclusiva non potesse più considerarsi una mera difesa
inidonea a spostare il tema del decidere già definito in
causa, perché il fatto costitutivo della domanda di Prima
778
I CONTRATTI N. 8-9/2005
Casa doveva considerarsi ormai acquisito a livello probatorio in ragione delle stesse ammissioni svolte dall’opponente in atto di citazione (10).
È pertanto più che evidente come l’opponente, nell’affermare che Prima Casa, come mandataria, si era
comportata in modo parziale ed interessato ai suoi danni, non si fosse limitata ad introdurre una mera difesa,
ma abbia inserito un thema decidendum ulteriore e oggetto potenzialmente di automa attività istruttoria (ancorché preclusa ormai in fatto sia per l’opponente medesimo, quanto, soprattutto, per Prima Casa, essendo ormai
stato superato il barrage delle deduzioni istruttorie ex art.
184 Codice di procedura civile ).
Il contratto di mediazione. Natura
La sentenza in esame si richiama, in particolare, a
quella giurisprudenza (11) e a quella dottrina (12) che,
Note:
(segue nota 9)
zione, in Arch. giur. circolaz. e sin. strad., 2002, 91; Ciaccia Cavallari
Bona, Le preclusioni e l’istruzione probatoria del nuovo processo civile, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 1999, 887 ss.; L. P. Comoglio, Preclusioni istruttorie
e diritto alla prova, in Riv. dir. proc., 1998, 968 ss.; V. Pisapia, Appunti in
tema di deduzioni e preclusioni istruttorie nel processo civile, in Riv. trim. dir.
e proc. civ., 2000, 567 ss.
(7) Ex multis: Cass. 23 maggio 2002, n. 7546, con nota di M. Petri, Sull’emendatio e mutatio libelli: configurabilità e limiti, in Giur. it., 2003, I, 1, 680
e segg.; in dottrina: F. Ferrosi, Mutatio ed emendatio libelli nel processo civile di rito ordinario e di rito del lavoro, in Giust. civ.,1986, 2, 89 ss.
(8) Cfr. ex multis, tra le più recenti, Cass. 9 ottobre 2000, n. 13445, in
Giust. civ., 2001, I, 131; Cass. 19 maggio 2000, n. 6528, in Mass. Giust.
civ., 2000, 1066; Cass. 25 marzo 1999, n. 2820, in Giust. civ., 1999, 670;
Cass. 29 gennaio 1999, n. 813, in Mass. Giust. civ., 1999, 204.
(9) Sulla problematica dei problemi professionali concernenti la corretta
informazione da parte del mediatore nei confronti delle parti intermediate vedi: A. Salomoni, Gli obblighi di informazione del mediatore, nota a Trib.
Milano 27 gennaio 1998, in Rass. dir. civ., 1998, 417.
(10) In sostanza, con la sua nuova posizione, l’opponente proponeva ora
una vera e propria eccezione con la quale intendeva contrastare un fatto
ormai acquisito in causa sotto il profilo della dialettica probatoria. Da tale diversa impostazione derivava anche una inevitabile immutazione sul
piano della qualificazione giuridica, e ancor prima un’evidente immutazione del fatto, suscettibile peraltro, all’evidenza, di una diversa indagine
effettuale sul piano istruttorio, poiché per sconfessare la sua qualità di
mandataria affermata ex adverso, Prima Casa avrebbe anche dovuto provare, in fatto, di aver sempre agito in modo imparziale e come mediatrice
nell’interesse di entrambe le parti sostanziali del rapporto intermediato.
(11) Cass. 29 maggio 1980, n. 3531, in Giust. civ., 1980, I, 2154; App.
Milano 23 dicembre 1977, in Arch. civ., 1978, 555; Cass. 15 dicembre
1962, n. 3368, in Foro it., 1963, I, 259; contra: App. Napoli 31 marzo
1984, in Riv. giur. edil., 1984, I, 684, per la quale l’incarico di reperire un
acquirente, di svolgere le trattative per la vendita di un immobile e di
assistere il venditore sino alla stipulazione del contratto dà vita non a
una mediazione, ma ad un mandato (misto a contratto d’opera intellettuale), sul che, peraltro sembra dubitare Luminoso, Mandato, commissione e spedizione, in Trattato di dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu e
F. Messineo e continuato da L. Mengoni, Milano, 1984, XXXII, 119 e
nota 8. Per un panorama più ricco: A. Baldassari, I contratti di distribuzione, ne I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, Padova, 1989; e G. Ingino, Rassegna di giurisprudenza sulla mediazione, in
Quadrimestre, 1987, 492.
(12) U. Azzolina, La mediazione, cit., 179 ss.; L. Carraro, La mediazione,
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
in più occasioni, già ha avuto modo di delineare le differenze tra mediazione (13) e mandato.
Infatti, anche se le regole che governano i mercati e
che condizionano il diritto dei contratti non sempre tollerano schemi normativi eccessivamente rigidi, giacché
«le interrelazioni e le intersecazioni» tra le diverse figure
strumentali alla circolazione dei beni e al collocamento
dei servizi «sono talmente strette da rendere le rispettive
linee di demarcazione alquanto incerte» (14), da un punto di vista strettamente formale il contratto di mediazione si distingue nettamente da altre figure negoziali.
La riconduzione di ogni attività di mediazione nella
disciplina della mediazione professionale, per di più, colloca in una nuova luce l’antica e mai sopita disputa sulla
natura giuridica della mediazione.
Di gran lunga prevalente è l’orientamento (15) che
attribuisce alla mediazione natura contrattuale, nel senso che ravvisa in un contratto la fonte del rapporto di
mediazione.
Trova, peraltro, consensi anche l’orientamento (16)
che nega natura contrattuale alla mediazione, anche se
nel suo ambito, accanto alla mediazione non contrattuale (o tipica), si ammette la configurabilità di fattispecie
atipiche di mediazione contrattuale (17); proprio come,
d’altra parte, tra i sostenitori della teoria contrattualistica c’è chi ammette la configurabilità, accanto alla mediazione contrattuale, di fattispecie di mediazione non
contrattuale (18).
La giurisprudenza, invece, pressoché unanimemente,
riconosce alla mediazione natura contrattuale. Più volte,
infatti, la Corte di Cassazione (19) ha affermato che il
rapporto di mediazione ha natura contrattuale, sia nel
caso in cui gli interessati conferiscano preventivamente
l’incarico al mediatore, sia nel caso in cui accettino comunque l’attività da lui prestata, in quanto, in entrambi
i casi, essa trae origine e fondamento dalla volontà dei
soggetti, manifestata esplicitamente o implicitamente
attraverso fatti concludenti.
La Suprema Corte ha, altresì, precisato che il contratto di mediazione «non può ritenersi concluso senza il
consenso espresso o tacito delle parti del contratto principale, consenso che, per quanto riguarda la parte rimasta estranea all’originario incarico di mediazione, si manifesta validamente allorquando essa, poi, si avvalga, in
maniera consapevole, dell’opera del mediatore ai fini
della conclusione dell’affare». (20)
Per quanto riguarda, poi, i profili strutturali, sempre
nell’ambito della prospettiva che pone il contratto a fonNote:
(segue nota 12)
cit., 85; A. Cataudella, voce Mediazione, cit., 6; Luminoso, Mandato, commissione e spedizione, cit., 119 e 128; A. Marini, La mediazione, in Schlesinger (diretto da), Il codice civile, artt. 1754-1765, Milano, 1992, 73; G.
Minervini, Mandato, commissione, spedizione, agenzia, mediazione, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 1948, 668 e segg.; vedi anche A. C. Jemolo, Mandato, mediazione, rapporto innominato, in Riv. dir. civ., 1976, II, 108, per un
originale caso sul tema in questione.
(13) Per introdurre lo studio di tale contratto: G. Alpa, Istituito l’albo dei
mediatori. Commento alla l. 3 febbraio 1989, n. 39: modifiche ed integrazioni alla Legge 21 marzo 1958, n. 253, concernente la disciplina della professione di mediatore, in Corr. giur., 1989, 261; G. Alpa, Legge 21 marzo
1958, n. 253: disciplina della professione di mediatore, in Nuova giur. civ.,
1986, II, 194; G. Armao, Mediatore, in Digesto Discipline Pubbl., Torino,
1994, IV, 334; A. Baiocco, Sulla natura della mediazione, nota a Cass. 25
ottobre 1991, n. 11384, in Giur. it., 1992, I, 1, 1059; C. M. Bianca, Brevi notazioni sulla mediazione tra codice e legge speciale, in Riv. dir. civ.,
1993, II, 399; M. Bin, Broker di assicurazione, in Contratto e impresa,
1985, 531; G. Bonilini, Sulla qualificazione giuridica del rapporto di brokeraggio, nota a Cass. 29 maggio 1980, n. 3531, in Giust. civ., 1980, I,
2162; M. Brutti, Mediazione: Profili storici e dottrinali, in Enc. dir., Milano, 1976, XXVI, 12; L. Carraro, Mediazione e mediatore, in Novissimo
Digesto, Torino, 1964, X, 476; A. Cataudella, Note sulla natura giuridica
della mediazione, in Riv. dir. comm., 1978, I, 361; B. Chito, In tema di
contratto di mediazione, in Giur. it., 1991, I, 1, 581; A. Donzella Campana, La responsabilità del mediatore in ipotesi di intermediazione immobiliare,
nota a Cass. 17 maggio 1999, n. 4791, in Vita not., 2000, 136; L. Gambigliani Zoccoli, Sulla natura della mediazione, nota a Cass. 23 gennaio
1967, n. 206, in Giur. it., 1968, I, 1, 597; C. Garlatti, Mediazione, in Riv.
dir. civ., 1981, II, 529; A. Giordano, Struttura essenziale della mediazione,
in Studi in onore di F. Messineo, Milano, 1959, II, 756; G. Giordano, D.
Iannelli e G. Santoro, Il contratto di agenzia - La mediazione, Torino,
1974, 618; R. Guidotti. La mediazione, in Contratti e impresa, 2004, 927
e ss.; M. Irrera, Mediazione, in Riv. dir. civ., 1993, II, 251; G. Lotito, Note minime in tema di mediazione, nota Trib. Frosinone 20 gennaio 2000,
in Nuovo dir., 2000, 850; A. Luminoso, La mediazione, Milano, 1993;
M. Minasi, Mediatore, in Enc. dir., Milano, 1976, XXVI, 10; A. Mora,
Obblighi e responsabilità del mediatore: in particolare la responsabilità per
violazione dell’art. 1759 c.c., in Resp. civ., 1999, 367; U. Perfetti, La mediazione - Profili sistematici ed applicativi, Milano, 1996; M. Stolfi, Della
mediazione. Artt. 1754-1765, in Scialoja - Branca (diretto da), Commentario al codice civile, Bologna-Roma, II ed., 1966; B. Troisi, La mediazione, Milano, 1995; N. Visalli, La mediazione, Milano, 1992; A. Zaccaria, La mediazione, Padova, 1992; G. Zavattoni e D. Corapi, Mediazione
nel commercio internazionale, in Enc. giur., Roma, 1993, XIX.
(14) G. Cottino, Diritto commerciale, Padova, 1978, II, 413.
(15) A. Cataudella, voce Mediazione, cit., 1 e ss.; A. Luminoso, La mediazione, cit., 43; G. Minervini, Mandato, commissione, spedizione, agenzia,
mediazione, cit., 668 e ss.; A. Marini, La mediazione, cit., 10 e ss.; M. Stolfi, Della mediazione, cit., 16 e ss.; G. Di Chio, Mediazione e mediatori, in Digesto Disipline Privatistiche, Sez. Commerciale, Torino, IX, 1993, 384.
(16) A. Cataudella, Note sulla natura giuridica della mediazione, cit., 361 (il
quale poi ha mutato avviso); e A. Catricalà, La mediazione, in Rescigno
(diretto da), Trattato di diritto privato, Torino, 1986, XII, 411 e ss.
(17) L. Carraro (La mediazione, cit., 31, 64 e ss.) che, invece, individua
nella disciplina legislativa una figura non contrattuale, e che, tuttavia,
ammette la possibilità per le parti, di dar vita a un contratto di mediazione quando vogliano derogare alla disciplina codicistica.
(18) U. Azzolina (La mediazione, cit., 28) secondo cui la mediazione disciplinata dal codice configurerebbe una fattispecie contrattuale e costituirebbe la regola, pur non potendosi disconoscere, in mancanza di un
contratto, una mediazione non negoziale. Peraltro, secondo A. Marini
(La mediazione, cit., 23) con la nuova disciplina di cui alla Legge n. 39 del
1989 la mediazione dovrebbe avere natura esclusivamente contrattuale;
ma contra A. Cataudella (La Legge n. 39 del 1989 e la natura della mediazione, in A. Zaccaria (a cura di), La mediazione, in Antologia, Padova,
1992, II, 117) secondo il quale il contratto richiamato dalla normativa
non è quello di mediazione ma quello concluso, grazie all’attività del mediatore, tra le parti messe in contatto.
(19) Ex multis: Cass. 9 maggio 1980, n. 3057, in Mass. Giust. civ., 1980;
Cass. 13 maggio 1980, n. 3154, ivi, 1980; Cass. 28 luglio 1983, n. 5212,
ivi, 1983; Cass. 6 giugno 1989, n. 2750, ivi, 1989.
(20) Così, Cass. 13 agosto 1990, n. 8245, in Giur. it., 1991, I, 1, 582; nello stesso senso, Cass. 17 gennaio 1992, n. 530, in Giust. civ., 1993, 759.
Parzialmente in contrasto Cass. 25 ottobre 1991, n. 11384, in Giur. it.,
1992, I, 1, 1059.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
779
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
damento del rapporto di mediazione, è stato sottolineato (21) che resta aperto il contrasto, vivo già nella dottrina formatasi prima del Codice Civile del 1942 [vedi in
un senso L. Bolaffio (22) e nell’altro C. Vivante (23)],
tra chi ritiene necessario il conferimento dell’incarico al
mediatore ad opera di tutte le parti dell’affare e perciò
configura il contratto come necessariamente plurilaterale (24) e chi ritiene sufficiente che l’incarico sia dato da
una sola delle parti (25). Non è mancato, inoltre, il tentativo di soluzione intermedia di chi sostiene che nel
contratto di mediazione le parti dell’affare principale costituirebbero un’unica parte rispetto al mediatore, sicché
il contratto, pur essendo l’incarico conferito da tutte le
parti dell’affare, resterebbe bilaterale (26).
Netta, quindi, almeno in astratto, appare la distinzione tra mediazione e mandato (27).
Limitandosi alle note essenziali delle due figure, occorre, infatti, notare che «mentre la mediazione appartenendo all’area della cooperazione materiale, non crea
alcun obbligo del mediatore di porre in essere l’attività di
cooperazione e comporta l’obbligo per l’intermediato di
corrispondere il compenso in caso di conclusione dell’affare (28), il mandato obbliga il mandatario a porre in essere atti giuridici per conto del mandante (art. 1703 Codice civile) e impegna il mandante a retribuire l’opera
del primo in se e per sé, anche quando nessun atto giuridico venga dallo stesso posto in essere» (29).
In dottrina, autorevolmente (30) si sono individuati
i tratti caratteristici della mediazione: «con sicurezza,
nella messa in relazione delle parti finalizzata alla conclusione dell’affare» (c.d. natura pluridirezionale dell’attività mediatoria), e inoltre «con grande probabilità,
nella onerosità, nella subordinazione della provvigione
alla conclusione dell’affare, nella libertà del mediatore di
attivarsi e nella libertà dell’intermediato di concludere
l’affare», e infine nella determinatezza dell’affare intermediato e nella necessaria estraneità del mediatore all’affare. Secondo tale orientamento, ove faccia difetto
uno soltanto dei requisiti, è da ritenere che «il concreto
rapporto non sia qualificabile come mediazione (vera e
propria)» (31).
Peraltro, com’è noto, le vendite immobiliari passano,
ormai, sempre più spesso, attraverso i cc.dd. agenti immobiliari di cui all’art. 2, n. 2 della Legge n. 39 del 1989
(32). Altresì, è noto, che i contratti che regolano il conferimento dell’incarico al mediatore immobiliare prevedono, il più delle volte, clausole le quali, anche per la loro formulazione (33) (ad esempio, chi conferisce l’incarico è sovente definito «mandante», e lo stesso incarico
è indicato come «mandato a vendere» o «ad acquistare», oppure come «incarico in esclusiva a promuovere la
vendita o l’acquisto di un immobile») sembrano superare i confini del rapporto di mediazione per invadere altri
tipi contrattuali (34).
Gli articolati prestampati su moduli dagli agenti o
dalle società di intermediazione immobiliare pongono
allora un problema circa la loro qualificazione, se siano
780
I CONTRATTI N. 8-9/2005
cioè contratti di mediazione oppure di mandato o misti
Note:
(21) A. Cataudella, voce Mediazione, cit., 1.
(22) Dei mediatori - Delle obbligazioni commerciali in generale: art. 29 a 58
Cod. comm., in L. Bolaffio, A. Rocco, e C. Vivante (coordinato da), Il codice di commercio commentato, 1937, VI ed., Torino, II.
(23) Istituzioni di diritto commerciale, XLV ed., Milano, 1931.
(24) Fr. Ferrara, Gli imprenditori e le società, Milano, 1962, 136 e ss.
(25) G. Minervini, Mandato, commissione, spedizione, agenzia, mediazione,
cit., 668 e ss.
(26) C. Varelli, La mediazione, Napoli, 1953, 20 e ss.
(27) La vastissima letteratura dedicata ai diversi aspetti dell’argomento
non può essere integralmente richiamata in questa sede: F. Alcaro, Mandato e attività professionale, Milano, 1988; F. Alcaro - G. Baldini - N. Grossi, Il mandato, Milano, 2000; G. Bavetta, Mandato (dir. priv.), in Enc. dir.,
Milano, 1975, XXV, 312; L. Campagna, La posizione del mandatario nel
mandato ad acquistare beni mobili, in Riv. dir. civ., 1974, I, 7; U. Carnevali,
Mandato, in Enc. giur., Roma, 1990, XX; L. Carraro, Il mandato ad alienare, Padova, 1947; G. Chianale, Obbligazione di dare e trasferimento della
proprietà, Milano, 1990; G. Cian, La sostituzione nella rappresentanza e nel
mandato, in Riv. dir. civ., 1992, I, 481; G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974; F. Dominedò, Mandato (diritto civile), in Nuovissimo Digesto
Italiano, Torino, 1968, X, 108 e ss.; P. Ferro Luzzi, Le gestioni patrimoniali,
in Giur. comm., 1992, I, 44; P. Ferrone, Sub. Art. 1703 e ss., in P. Perlingieri (a cura di), Codice Annotato, Napoli-Bologna, 1991; G. Gabrielli, Il
rapporto giuridico preparatorio, Milano, 1974; G. Giordano, Mandato.
Commissione. Spedizione, in Bigiavi (a cura di); Giurisprudenza sistematica,
Torino, 1969; F. Galgano, Diritto civile e commerciale, Padova, 1990, II, 2;
G. Gorla, Il dogma del ‘consenso’ o ‘accordo’ e la formazione del contratto di
mandato gratuito nel diritto continentale, in Riv. dir. civ., 1956, I, 923; M.
Graziadei, Mandato, in Digesto Discipline Civilistiche, Torino, 1994, XI,
154; M. Graziadei, Mandato, in Riv. dir. civ., 1991, II, 759; A. Luminoso,
Mandato, commissione, spedizione, in Trattato di dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, Milano, 1984,
XXXII; G. Minervini, Mandato, submandato e sostituzione del mandatario
nella prassi bancaria e nella giurisprudenza, in Riv. dir. civ., 1976, I, 471; G.
Minervini, Mandato, commissione, spedizione, agenzia, mediazione, cit.; G.
Mirabelli, Dei singoli contratti, in Commentario codice civile, Torino, 1968,
IV, 3; L. Nanni, L’interposizione di persona, Padova, 1990; S. Pugliatti, Studi sulla rappresentanza, Milano, 1964; R. Sacco, Principio consensualistico ed
effetti del mandato, in Foro it., 1966, I, 1384 e ss.; C. Santagata, Del Mandato - Disposizioni generali, art. 1703-1709, in Scialoja - Branca (diretto da),
Commentario del codice civile, Bologna, 1985.
(28) M. Eroli, La conclusione dell’affare nella mediazione, nota a Trib. Perugia 11 giugno 1993, in Rass. giur. umbra, 1993, 629.
(29) A. Luminoso, La mediazione, cit., 159.
(30) A. Luminoso, La mediazione, cit., 125.
(31) Cfr. F. Rosselli, Sugli elementi della mediazione, nota a Pret. Roma 29
dicembre 1973, in Giur. Merito, 197, I, 39.
(32) Vedi M. De Cristofaro, D. Donella, A. Trabucchi, G. Cian, F. Galgano, R. Vigo, B. Cavallo, F. Moschetti, G. Schiavano, C. G. M. Rivolta, L. Busanel, T. Ballarino, G. Partesotti, E. Querela, G. A. Chiavegatti
e P. Rescigno, La disciplina della mediazione alla luce della l. n. 39 del 3 febbraio 1989 (Atti del convegno di Verona, 3-4 novembre), Padova, 1991; M.
Iacuaniello Brugi, Il regolamento di attuazione della l. 3 febbraio 1989, n. 39
sulla disciplina dell’attività di mediatore, in Giur. comm., 1992, I, 124; R. Vigo, Commento alla legge 3 febbraio 1989, n. 39, in Nuove leggi civ. comm.,
1990, 1342.
(33) P. Bartolomucci, Forma della procura e del mandato nella compravendita immobiliare, in questa Rivista, 2001, 978.
(34) A. Alibrandi, Osservazioni sulla recente disciplina della mediazione, in
Arch. civ., 1991, 5; G. Bonilini, Sulla qualificazione giuridica del rapporto di
brokeraggio, cit., 2162.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
di mediazione e di mandato (oppure ancora di mandato
e locazione d’opera). La lettera del modulo di conferimento dell’incarico, in effetti, spesso, sembra rinviare in
maniera esplicita al mandato: «ma di mandato non vi è
traccia alcuna» (35).
In questi modelli contrattuali, infatti, l’agente immobiliare svolge una attività esclusivamente mediatoria,
mettendo in relazione chi gli ha conferito l’incarico con
la controparte ricercata sul mercato. L’agente immobiliare non compie alcun atto giuridico per conto del conferente l’incarico: la sua è una mera attività materiale il
cui contenuto è quello tipico dell’interposizione mediatoria, mettere cioè in relazione due parti perché concludano un determinato affare (36).
Indipendentemente dal nomen iuris indicato dalle
parti, lo schema causale di un siffatto incarico riproduce,
quindi, la struttura del contratto di mediazione (37). Ne
consegue che le regole patrizie contenute nei moduli
prestampati potranno, perciò, essere ritenute «valide a
condizione che non si pongano in contrasto con i principi generali dell’ordinamento, ma non siano anche
configgenti con le norme qualificanti il tipo negoziale
della mediazione» (38).
Il contratto di mediazione.
Figura affine: il mandato
È noto che l’oggetto del mandato consiste nel compimento di atti giuridici per conto di un’altra persona
(art. 1703 Codice civile); il che può avvenire sia con
azione del mandatario in nome oltre che nell’interesse
del mandante (mandato con rappresentanza), sia con
azione del mandatario in nome proprio, ma nell’interesse del mandante (mandato senza rappresentanza). Nell’un caso e nell’altro, quindi l’elemento caratterizzante
del mandato risiede nel fatto che il mandatario compie
uno o più atti giuridici per il mandante (39).
Ben diverso è, invece, l’oggetto del contratto di mediazione, poiché «il sensale non ha il compito di porre in
essere, né in proprio, né in altri nome, alcun negozio»
(40), ma si limita a coadiuvare l’intermediario procurandogli l’occasione dell’affare e collaborando con lui nello
svolgimento delle trattative. Questa fondamentale differenza fra i due contratti, secondo autorevole dottrina
(41), già da sola, dimostrerebbe che «non vi è alcun bisogno di ricorrere ad altri elementi distintivi, quale ad
es., l’obbligo di imparzialità», che invece, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, contrassegnerebbe la posizione del mediatore rispetto a quella del
mandatario (42).
Dal punto di vista strutturale il mediatore è colui
che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare senza essere legato ad alcuna di esse da
rapporti di collaborazione, di dipendenza o rappresentanza, avendo poi diritto ad una provvigione solo se il
contratto è concluso. Diversamente, il mandatario,
che si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per
conto dell’altra parte, è tenuto a curare l’esecuzione
dell’incarico ed acquista il diritto al compenso indipendentemente dal raggiungimento del risultato. Inoltre, come già detto, dal punto di vista dell’attività,
mentre il mediatore pone in essere operazioni essenzialmente materiali, il mandatario compie atti giuridici
per conto dell’altra parte. (43)
Nel mandato, infatti, il mandatario si obbliga a compiere uno o più atti per conto del mandante (art. 1703
Codice civile) il quale, a sua volta, si obbliga a corrispondergli il compenso per l’opera svolta (art. 1720 Codice civile) indipendentemente (salvo espresso patto
contrario) dal buon esito dell’affare (sempre che l’inesecuzione non sia dipesa da causa imputabile al mandatario) di modo che quest’ultimo, per ricevere il compenso,
deve solo provare di avere svolto l’incarico (44). Nell’incarico di mediazione, invece, il diritto alla provvigione spetta (art. 1755 Codice civile) solo «se l’affare si è
concluso», di modo che la semplice assunzione di una
iniziativa da parte di uno dei soggetti interessati alla conclusione dell’affare predetto non crea, di per sé, alcun
obbligo giuridico per il mediatore (45).
Pertanto, è bene ribadirlo: a differenza che nel mandato (46), in cui chi accetta l’incarico volto alla conclusione di un affare è tenuto all’obbligo di curarne l’esecuNote:
(35) Come sostenuto da G. Di Chio, Mediazione e mediatori, cit., 394.
(36) Osservava già F. Carnelutti (La prestazione del rischio nella mediazione,
in Riv. dir. comm., 1911, I, 19) che se il mediatore non ha diritto alla
provvigione ad affare non concluso, ciò accade esclusivamente perché
egli non ha eseguito la sua prestazione.
(37) Per una analisi sui problemi di qualificazione del contratto si veda R.
Sacco, La elaborazione degli effetti contrattuali, in R. Sacco (diretto da),
Trattato di diritto civile, Torino, 1993, II, 443.
(38) Come autorevolmente sostenuto da G. Di Chio, Mediazione e mediatori, cit., 1993, 394.
(39) Cfr. per ulteriori spunti: M. Molla, Il mandato nella giurisprudenza, Padova, 1977.
(40) U. Azzolina, La mediazione, cit., 179.
(41) U. Azzolina, La mediazione, cit., 179.
(42) Vedi N. Visalli, Natura giuridica della mediazione, nota a Cass. 20 genaio 1960, n. 37, in Foro it., I, 1212.
(43) In tal senso Cass. 27 giugno 2002, n. 9380, Guida al dir., 2002, 31,
82. Vedi anche Cass. 15 giugno 1988, n. 4082, in Fallimento e altre proc.
concors., 1988, 1080, secondo la quale nel mandato: l’attività cui il mandatario si obbliga consiste nel compimento di atti giuridici, e cioè un’attività negoziale, che fa del mandatario un cooperatore giuridico delle parti, mentre nella mediazione l’attività libera del mediatore è costituita da
un comportamento materiale diretto a mettere in contatto due o più parti al fine di far concludere fra le stesse un contratto, attività che fa del mediatore un cooperatore soltanto materiale delle parti.
(44) Cfr. P. Papanti-Pellettier, Rappresentanza e cooperazione rappresentativa, Milano, 1984.
(45) Cass. 17 novembre 1997, n. 11389, in Mass. Giust. civ., 1997; Cass.
29 maggio 1980, n. 3531, in Foro it., 1981, 750; conforme Pret. Roma 12
febbraio 1966, in Giust. civ., 196, 637.
(46) G. Lenzi, Sulle differenze fra mediazione e figure affini e sul dovere di imparzialità del mediatore, nota a Cass. 13 gennaio 1982, n. 186, in Giur. it.,
1983, I, 1, 819.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
781
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
zione e cioè a svolgere una determinata attività giuridica
con diritto al compenso da parte del mandante indipendentemente dal risultato conseguito e quindi anche se
l’affare non è andato a buon fine; a tale obbligo non è invece tenuto il mediatore (47) il quale, «interponendosi
in maniera neutrale ed imparziale tra due contraenti»
(48), ha soltanto l’onere di metterli in relazione (49),
appianarne le eventuali divergenze e farli addivenire alla conclusione dell’affare (50), alla quale è subordinato il
diritto al compenso, senza che l’indipendenza del mediatore, che va intesa come assenza di qualsiasi vincolo o
rapporto che renda riferibile al dominus l’attività dell’intermediario, possa venir meno per la unilateralità del
conferimento dell’incarico, ovvero per il fatto che il
compenso sia previsto a carico di una sola parte o in maniera diseguale (51).
Con efficace espressione, si evidenzia come il mediatore, a differenza del mandatario, non contratti ma faccia contrattare (52).
Colui che agisce in rappresentanza di una delle parti
nella conclusione di un negozio non può pretendere la
provvigione, assumendo di avere svolto anche attività di
mediazione, né dalla parte rappresentata, perché ad essa
legato da un rapporto di mandato, né dall’altra parte,
perché nei confronti di questa agisce in veste di parte,
pur se nell’interesse altrui, e non come mediatore. Viceversa il mediatore soltanto ad attività esaurita può essere
incaricato da una delle parti di rappresentarla negli atti
relativi al contratto concluso con il suo intervento (53).
In dottrina (54), infatti, si preferisce individuare la
differenza fra le due figure nella diversa tipologia dell’attività svolta e non nella unilateralità o bilateralità dell’incarico ricevuto. In particolare, il mandatario compie
una attività giuridica per conto del mandante e talora
anche in suo nome (se è munito dei poteri di rappresentanza) e, quindi, deve considerarsi un cooperatore giuridico di questi; il mediatore è, invece, un cooperatore materiale delle parti, in quanto si limita a metterle in relazione. Tale ruolo circoscritto si è ampliato anche con la
Legge n. 39 del 1989, essendo il mediatore iscritto nel
ruolo legittimato a compiere anche una prestazione di
opera intellettuale a favore delle parti intermediate (55),
sempre che essa sia necessaria o complementare alla
conclusione dell’affare.
Il mandatario si impegna ad agire per conto ed, a volte, anche in nome del mandante emettendo in questo
caso una dichiarazione di volontà che obbliga personalmente costui, mentre il mediatore, dopo aver facilitato
come terzo, l’incontro dei consensi e l’accordo sulle prestazioni, nonché sulle singole clausole, si mette da parte,
sicché il negozio mediato si conclude direttamente fra le
parti interessate.
Da tali diverse caratteristiche (56) discendono ulteriori conseguenze: il mandatario, a differenza del mediatore, deve attenersi, di regola alle istruzioni ricevute (art.
1711 Codice civile); è obbligato a rendere al mandante
il conto del suo operato e a rimettergli tutto ciò che ha
782
I CONTRATTI N. 8-9/2005
ricevuto a causa dell’incarico conferitogli (art. 1713 Codice civile). Egli non può rinunziare al mandato senza
giusta causa, altrimenti è tenuto al risarcimento dei danni, salvo che il mandato sia a tempo indeterminato nel
qual caso il risarcimento è dovuto in mancanza di un
congruo preavviso (art. 1727, primo comma, Codice civile). Inoltre, mentre «le parti possono sempre allontanare l’intermediario dalla trattazione dell’affare» (57)
senza incorrere in responsabilità, la revoca del mandato
oneroso non è rimessa al potere discrezionale del mandante, ma è sottoposta alla disciplina dell’art. 1725 Codice civile (58).
Sebbene, per quanto sin qui esposto, la posizione del
mandante (per il quale l’interesse alla conclusione di un
determinato negozio giuridico è del tutto personale) appare inconciliabile con quella del mediatore, l’attività
del quale è caratterizzata da dipendenza, autonomia e
neutralità (59); si tenga presente che un segnale in favore del cumulo delle due attività, è arrivato dalla Legge n.
39 del 1989, istitutiva del ruolo dei mediatori, che ha
previsto una sezione destinata agli «agenti muniti di
mandato a titolo oneroso». Tale norma, imponendo
l’obbligo di iscrizione anche a quei mediatori che siano
abilitati a compiere atti giuridici per conto ed eventualmente in nome del cliente, pare aver sancito la compatibilità di ruoli tra mediatore e mandatario (60).
Note:
(47) C. Radice, La responsabilità professionale del mediatore, nota a Cass. 22
marzo 2001, n. 4126, in questa Rivista, 2001, 364.
(48) E. Favara, Limiti dell’imparzialità del mediatore, nota a Cass. 26 gennaio 1962, n. 129, in Riv. giur. edil., 1962, I, 1284.
(49) Cass. 18 febbraio 1998, n. 1719, in questa Rivista, 1998, 489, con nota di A. Natale.
(50) App. Firenze 3 dicembre 1996, in Toscana giur., 1997, 377.
(51) Cfr. da ultimo Cass. 8 giugno 1993, n. 6384, in Mass. Giur. it., 1993;
ed ex plurimis: Cass. 14 giugno 1988, n. 4032, in Arch. civ., 1988, 1174.
(52) L’espressione è di M. Stolfi, Della mediazione, cit., 9.
(53) Cass. 4 febbraio 2000, n. 1231, in Gius, 2000, 1029.
(54) N. Visali, La mediazione, Padova, 1992, 43.
(55) P. Rescigno, Note a margine dell’ultima legge sulla mediazione. Intervento conclusivo al convegno organizzato dall’Istituto giuridico italiano e dall’Ordine degli avvocati sul tema: «La disciplina della mediazione oggi, alla luce
della l. n. 39, del 3 febbraio 1989», Verona, 3-4 novembre 1989, in Riv. dir.
comm., 1991, 1, 243 e ss.; G. Cian, Profili civilistica della nuova legge sulla
mediazione (l. 3 febbraio 1989, n. 39), in Riv. dir. civ., 1990, 1, 45 e ss.
(56) Cfr. sul punto, in particolare, quanto posto in evidenza da F. Rolfi,
Mediatore e falsus procurator, nota a Cass. 23 marzo 1998, n. 3076, in
Corr. giur., 1999, 478.
(57) M. Schipani, In tema di mediazione immobiliare: tutela delle parti, nota
a App. Roma 31 gennaio 1994, in Nuovo dir., 1995, 443.
(58) M. De Tilla, Il diritto immobiliare: Trattato sistematico di giurisprudenza
ragionata per casi, Milano, 2004, I, 583.
(59) Trib. Roma 4 marzo 1986, in Giur. it., 1987, I, 2, 374 e Cass. 25 febbraio 1987, n. 1995, in Mass. Giust. civ., 1987.
(60) Secondo G. Cian (Profili civilistica della nuova legge sulla mediazione,
cit., 50) e A. Luminoso (La mediazione, cit., 99), invece, la norma si rife(segue)
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Si comprende perché, quindi, nella sentenza che in
questa sede si annota, la Corte d’Appello abbia escluso
nel caso di specie la configurabilità del contratto di mandato, affermando che, quand’anche si potesse ritenere
che di vere e proprie mere difese si fosse trattato, non per
questo la nuova prospettazione difensiva avrebbe potuto
considerarsi fondata.
Se, quindi, si tiene nella debita considerazione il fatto che il mandato resta, tuttora, l’archetipo dei contratti
e dei rapporti di cooperazione, in cui una parte si impegna a realizzare finalità determinate dall’altra parte, in
una posizione di reciproca indipendenza, risultano comprensibili i numerosi rinvii alla disciplina del mandato di
cui è costellata la disciplina della mediazione. (61)
Imparzialità del mediatore
Inoltre, nella specie, mancando la possibilità di desumere dalle scritture prodotte in giudizio l’esistenza di un
mandato nel rapporto interno tra i venditori e Prima
Casa, l’opponente, per dimostrare comunque esistente
tale contratto, avrebbe dovuto, quindi, dimostrare se
non altro il concreto compimento, di fatto, di atti implicanti violazione dell’obbligo di imparzialità, se non addirittura l’esecuzione di attività rappresentative in nome e
per conto dei venditori, qualificando in modo concludente la posizione gestoria della mediatrice; solo così sarebbe stato possibile provare che l’attività, concretamente posta in essere, si era riflessa anche nel rapporto
bilaterale tra acquirente e Prima Casa incidendo in senso impeditivo sull’insorgenza del diritto al compenso
provvigionale che, in effetti, in tal caso non sarebbe stato dovuto (62).
In ultima analisi, partendo dal dato pacifico che entrambe le parti in causa conferirono a Prima Casa, da
una parte l’incarico di trovare un acquirente, e dall’altra
l’incarico di trovare un appartamento da acquistare, con
il che almeno in apparenza poteva considerarsi operante
un rapporto mediatorio con diritto al compenso sia a latere venditoris, sia a latere emptoris, il Sig. L. avrebbe dovuto dimostrare, per dare fondamento alla sua prospettazione, in via di fatto, e con prove ad hoc, che Prima Casa
non si era comportata come soggetto imparziale, e non
limitarsi a ipotizzare in astratto l’esistenza di un mandato, facendo esclusivo riferimento alle non conclusive
espressioni letterali utilizzate nella scrittura con cui i
venditori avevano conferito un «incarico a vendere».
In dottrina (63), peraltro, è ancora vivo il dibattito
sul ruolo che, nella costruzione giuridica della mediazione, ricopre la c.d. imparzialità del mediatore. Si discute,
cioè, se il dovere di svolgere l’attività di intermediazione
in modo tale da non favorire una delle parti a scapito
dell’altra è, oppure no, elemento essenziale e caratterizzante dell’istituto.
La dottrina oggi prevalente (64), facendo leva sulla
figura assai ricorrente nella pratica, del c.d. mediatore
unilaterale (cioè, di colui che ha ricevuto l’incarico da
una sola delle parti), nonché sull’assenza di una espressa
ed univoca disposizione al riguardo (non potendosi
confondere, si è fatto notare, il concetto di indipendenza con quello di imparzialità) (65), ha ridimensionato il
carattere dell’imparzialità al punto di negarne la sua essenzialità.
Di tutt’altro avviso è la giurisprudenza (66), sia di
merito che di legittimità, e una parte della dottrina (67),
che pur riconoscendo la mancanza di una precisa prescrizione normativa ritiene che il carattere dell’imparzialità emerga chiaramente dall’interpretazione sistematica
delle norme dettate in materia di mediazione. In particolare, si è sostenuto (68) che l’art. 1754 Codice civile,
nell’indicare come requisito soggettivo negativo la circostanza che l’intermediario non sia legato a nessuna
delle parti «da rapporti di collaborazione, di dipendenza
o di rappresentanza», afferma in modo chiaro che tra inNote:
(segue nota 60)
risce ai mediatori che ricevono un incarico oneroso da parte di uno solo
degli interessati, legittimando, quindi, la figura della mediazione unilaterale o fiduciaria. In realtà, secondo A. Natale (Sul cumulo delle attività di
mandatario e di mediatore unilaterale, nota a Cass. 18 febbraio 1998, n.
1719, in questa Rivista, 1998, 497, nota 29) sembra che «tale legge, per
raggiungere più efficacemente le finalità generali perseguite ed impedire
aggiramenti o elusioni. Abbia voluto assoggettare al nuovo regime anche
gli intermediari che operano avvalendosi di un contratto di mandato in
senso stretto, in modo tale da impedire che costoro, se non iscritti nel
ruolo dei mediatori, possano pretendere la relativa provvigione»; ed
esporli, così, «alle sanzioni civili, amministrative e penali previste per l’esercizio abusivo di attività mediatizia anche occasionale»; cfr. C. Settesoldi, Mandato ad acquistare e ad alienare, in F. Alcaro - G. Baldini - N.
Grossi, Il mandato, cit., I, 236.
(61) A. Cataudella, Mediazione, cit., 1; G. Di Chio, La mediazione, cit.,
525 e ss.; M. Graziadei, Mandato, cit., 157.
(62) Ex multis, Cass. 4 febbraio 2000, n. 1231, in Mass. Giust. civ., 2000.
(63) Nel senso dell’essenzialità dell’imparzialità, tra gli altri, vedi: C. Varelli, La mediazione, cit., 20 e ss. Affermano che il dovere d’imparzialità sia
configurabile nelle ipotesi di mediazione c.d. bilaterale: L. Carraro, La
mediazione, cit., 68 e ss.; Minervini, Mandato, commissione, spedizione,
agenzia, mediazione, cit., 669; M. Stolfi, Della mediazione, cit., 5. Negano,
invece, il carattere dell’essenzialità, tra gli altri: A. Cataudella, Note sulla
natura giuridica della mediazione, cit., 379; A. Luminoso, La mediazione,
cit., 69 e ss.; A. Marini, La mediazione, cit., 53.
(64) Negano il carattere dell’essenzialità, tra gli altri: A. Cataudella, Note sulla natura giuridica della mediazione, cit., 379; A. Catricalà, La mediazione, cit., 422 e segg.; A. Luminoso, La mediazione, cit., 69 e ss.; A. Marini, La mediazione, cit., 53.
(65) Si è notato (G. Di Chio, Mediazione e mediatori, cit., 386) che la stessa Relazione al Codice Civile indica, peraltro, che elemento caratteristico della mediazione è l’indipendenza dell’opera del mediatore, mentre
non vi è traccia alcuna del dovere di imparzialità.
(66) Cass. 13 gennaio 1982, n. 186, in Giur. it., I, 1, 820, con nota di G.
Lenzi; e recentemente Cass. 16 gennaio 1997, n. 392, in Mass. Giur. it.,
1997, che ha confermato come l’imparzialità del mediatore non debba
intendersi come una generica ed astratta equidistanza dalle parti, né possa escludersi per il solo fatto che il mediatore prospetti a taluna di queste
la convenienza dell’affare, ma vada intesa, conformemente al dettato dell’art. 1750 Codice civile, come assenza di ogni vincolo di mandato, di
prestazione d’opera e di qualsiasi altro rapporto che renda riferibile al dominus l’attività dell’intermediario.
(67) Per tutti: M. Minasi, Mediatore, cit., 50.
(68) Cfr. B. Troisi, La mediazione, cit., 58.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
783
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
termediario e parti dell’affare non deve sussistere alcun
legame. La giurisprudenza di legittimità (69), in proposito, ha sostenuto, poi, che l’art. 1759 Codice civile, che
sancisce l’obbligo del mediatore di comunicare alle parti
«le circostanze a lui note, relative alla valutazione e alla
sicurezza dell’affare, che possono influire sulla conclusione di esso», presuppone in modo chiaro che l’attività del
mediatore si svolga in modo imparziale, dovendosi ritenere in caso contrario che il contratto di mediazione sia
giuridicamente inesistente. (70)
Indipendentemente dalla soluzione che si ritiene di
dover fornire al problema riguardante la configurabilità
del dovere di imparzialità, si ammette, generalmente
(71), l’esistenza dell’obbligo, in capo al mediatore, di
comportarsi secondo buona fede (72) e correttezza (artt.
1175 e 1375 Codice civile), dal quale possono discendere, nei singoli casi, obblighi specifici di informazione
(73), avviso, comunicazione, e così via.
Inoltre, è indubbio, che proprio ex art. 1759, primo
comma, Codice civile, oggetto del dovere di informazione del mediatore sono, dunque: «tutti i dati (ad es.: stato di insolvenza o di incapacità della parte, vizi della
merce, situazione del mercato)» (74), o (come eccepito
dall’opponente nella controversia oggetto della sentenza
in esame, peraltro senza alcun fondamento) le caratteristiche o qualità del bene, «la cui conoscenza può incidere sulla conclusione dell’affare: nel senso di favorirla o di
pregiudicarla» (75).
In caso di violazione dell’obbligo di cui all’art. 1759,
primo comma, Codice civile, quindi, il mediatore è tenuto a risarcire il danno derivante dalla omessa informazione; danno che si può configurare sia quando le parti
concludano un contratto che altrimenti non avrebbero
concluso o avrebbero concluso a condizioni diverse
(76), sia quando non lo concludano a causa dell’omessa
informazione (77).
La provvigione e le altre clausole contrattuali
Almeno qualche cenno appare necessario, infine, in
ordine ad altri tipi di clausole (78) che vengono sovente
inserite negli incarichi di mediazione.
Nella specie, l’appellante, infatti, a sostegno della
sua contestazione, si era limitato a porre in evidenzia alcune espressioni letterali e alcuni termini contenuti
nella scrittura con cui la parte venditrice aveva conferito l’incarico mediatorio a Prima Casa, senza entrare nel
merito dell’attività concretamente espletata da Prima
Casa e senza addurre alcuna prova, peraltro ormai preclusa, sul punto.
Ebbene, il mero richiamo al tenore letterale della detta scrittura non poteva considerarsi sufficiente a dimostrare tale assunto. Ciò che aveva rilievo, infatti, per suffragare la fondatezza della sua contestazione finale, non
poteva certo essere solo il fatto che, in base alla documentazione in atti, emergesse che Prima Casa era stata
«incaricata» o avesse ricevuto «mandato» dai proprietari dell’appartamento di provvedere alla relativa vendita,
784
I CONTRATTI N. 8-9/2005
essendo un dato di comune esperienza che, nella prassi
corrente, l’incarico mediatorio venga affidato utilizzando
espressioni (come «si dà incarico di…», o si «dà mandato di…», et similia) che spesso sembrano rimandare ad
un’attività gestoria, senza tuttavia che quest’ultima venga sussunta come contenuto obbligatorio di un rapporto
qualificabile in senso contrattuale come mandato. Pertanto, anche le espressioni cui ha fatto riferimento l’appellante come sintomi dell’operare di un mandato erano,
in realtà, inefficaci a dimostrare tale fatto.
Una osservazione sembra, peraltro, opportuna circa
la qualificazione che le parti stesse, o più verosimilmente il solo professionista che ha predisposto il modello
contrattuale, hanno dato al loro rapporto (79). Vi è una
sorta di ritrosia ad utilizzare i termini di mediatore e mediazione e, nei moduli prestampati, si fa riferimento alla
figura del mandante, per indicare colui che conferisce
l’incarico che è detto, appunto, mandato a vendere ovvero mandato in esclusiva a promuovere la vendita; infatti, «chi predispone i formulari, è un mediatore professionista, interessato a ridurre il rischio dell’attività
esercitata senza profitto» (80). Di qui la previsione di
compensi che non rientrino nella nozione di provvigione e che remunerano un’attività non del tutto e non
necessariamente coincidente con quella di mediatore,
Note:
(69) Ex multis: Cass. 28 febbraio 1986, n. 1294, in Arch. civ., 1986, 505,
che conferma la sentenza della Corte d’Appello di Milano 19 gennaio
1982, in Arch. civ., 1982, II, 745, secondo cui «connotazione tipica ed essenziale del contratto di mediazione è quella dell’imparzialità del mediatore, che in tanto può assumere tale qualità in quanto operi su un piano
di indipendenza rispetto alle parti a favore delle quali esplica la sua attività intermediatrice».
(70) Così: Cass. 7 luglio 1980, n. 4340, in Giust. civ., 1981, I, 111.
(71) Vedi A. Luminoso, La mediazione, cit., 81.
(72) Cfr., per un esaustivo panorama, in dottrina e in giurisprudenza, sul
punto: A. Maniaci, Intepretazione del contratto secondo buona fede, nota a
Cass. 18 maggio 2001, n. 6819, in Foro pad., 2001, 1, 499 e ss.
(73) Vedi A. Maniaci, Mediazione e obbligo di corretta informazione, cit.,
322 e segg. Cfr. A. Catricalà, La mediazione, cit., 417 e ss.
(74) A. Cataudella, Mediazione, cit., 7.
(75) Sul tema M. De Poli, Asimmetrie informative e rapporti contrattuali,
Padova, 2002.
(76) Così A. Mora, un caso di responsabilità del mediatore ex art. 1759,
comma 1, c.c., in Resp. civ. e prev., 1993, 626; in giurisprudenza v. Cass. 9
aprile 1984, n. 2277, in Mass. Giust. civ., 1984.
(77) Va sottolineato, comunque, che l’azione di responsabilità nei confronti del mediatore può essere esercitata anche quando il danneggiato
abbia la possibilità di agire nei confronti della controparte per far valere
la garanzia per i vizi o per mancanza di qualità della cosa venduta (Cass.
21 settembre 1988, n. 5183, in Mass. Giust. civ., 1988).
(78) A. Luminoso, Sulla mediazione professionale con clausole anomale, nota a Pret. Cagliari 27 novembre 1993, in Riv. giur. sarda, 1996, 126.
(79) A. Zaccaria, La natura e il contenuto dei cc. dd.»incarichi» di mediazione e la disciplina dedicata ai moduli e formulari che li contengono, in A. Zaccaria (a cura di), La mediazione, cit., I, 79.
(80) A. Natale, Sul cumulo delle attività di mandatario e di mediatore unilaterale, cit., 493.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
quale, ad esempio, l’attività rivolta alla promozione dell’affare (81).
L’opponente aveva, per esempio, osservato che non
era stata promessa a Prima Casa, per la sua attività, una
provvigione, ma un «compenso», e ciò avrebbe dovuto
indurre il Giudicante ad orientarsi vero il mandato piuttosto che verso la mediazione.
Tale affermazione appare, all’evidenza, forzata, poiché anche la provvigione altro non è che un compenso,
ovvero un corrispettivo (82). Ciò che, semmai, ha rilievo per poter desumere dal tipo di compenso il tipo di
rapporto entro cui esso si inserisce, è la modalità con cui
le parti lo abbiano calcolato, nel caso di specie in percentuale sul prezzo di vendita, e dunque esattamente come avviene di norma in ambito mediatorio (83).
Anche il fatto, pure evidenziato dall’opponente, che
fosse stata inserita nella detta scrittura la facoltà per il
mediatore di incassare somme e di trattenerle a soddisfazione anche del suo compenso non contrasta assolutamente con la disciplina della mediazione, cui ben possono accedere clausole anche atipiche (rispetto a quelle
che compongono il tessuto delineato tipologicamente
dal codice civile) senza che, per ciò stesso, possa ritenersi superata la tipologia «mediazione» e ipso facto traslata
la fattispecie pratica nella sfera di un altro e diverso schema negoziale tipico; ciò a maggior ragione (84) nel caso
in cui si condividesse, come sostenuto da autorevole dottrina (85), la tesi della natura di rapporto di fatto non riducibile sic et simpliciter allo schema del contratto.
Più significativa, forse, potrebbe apparire, un’altra previsione contrattuale cui ha fatto riferimento l’opponente,
con la quale si stabiliva il sorgere del diritto al compenso
per il mediatore sia in caso di esecuzione del mandato o
dell’incarico sia in caso di «conclusione diretta del contratto di compravendita», conclusione che l’appellante
interpreta come riferita all’attività del mediatore, che, essendo stato così abilitato a concludere il contratto di alienazione, avrebbe potuto finanche agire come procuratore
alla vendita, in nome e per conto dei venditori.
Tuttavia, tale argomento, si risolve, a ben vedere, in
una semplice illazione.
Con l’espressione «conclusione diretta del contratto
di compravendita», infatti, non si indicava affatto una
facoltà d’azione attribuita a Prima Casa, ma solo un
evento al verificarsi del quale sarebbe scattato l’obbligo
di pagamento del compenso. Nulla quindi autorizzava a
ritenere che la facoltà di concludere il contratto fosse
stata delegata a Prima Casa.
L’espressione in esame sembra, invece, più congruamente riferibile, in sostanza, al caso in cui le parti avessero direttamente, e cioè autonomamente, concluso la
compravendita senza intervento del mediatore durante
il periodo di vigenza dell’incarico mediatorio, situazione
che, notoriamente, viene, solitamente, considerata sufficiente ragione per il riconoscimento della provvigione al
mediatore cui l’incarico sia conferito, come nella specie,
in «esclusiva» (86).
Infatti, è di tutta evidenza come senza l’intervento
del mediatore l’affare non si sarebbe concluso, a nulla rilevando il momento in cui le parti hanno stipulato il
contratto (87).
Del resto, un’analoga previsione, fondata sulla medesima ratio, si rinveniva nella detta scrittura laddove questa contemplava il diritto al compenso anche nel caso in
cui la vendita fosse stata stipulata dopo l’estinzione del
rapporto mediatorio, ma con soggetti già segnalati dal
mediatore o che avessero visionato i locali oggetto di
vendita già nel corso di vigenza del rapporto di mediazione (88).
Se gli elementi «sintomatici» segnalati dall’opponente per dimostrare l’operatività di un mandato non
erano idonei a tale scopo, altri ve n’erano che invece, del
tutto ignorati dall’opponente, avrebbero potuto più agevolmente dimostrare che di mandato non si trattasse,
quanto piuttosto di una vera e propria mediazione.
Da una parte, non poteva dubitarsi che carattere mediatorio avesse l’incarico conferito, a latere emptoris, dal
L., visto che nella scrittura con cui costui aveva proposto
l’acquisto dell’appartamento di cui si discute era stato inserito l’espresso riferimento al fatto che il compenso
avrebbe avuto come causa l’attività di intermediazione
svolta da Prima Casa, per ben due volte indicata come
«società intermediatrice».
Inoltre, quanto alla scrittura di conferimento dell’incarico a latere venditoris, significativamente si era precisato che nessun compenso sarebbe spettato a Prima Casa
in caso di mancata conclusione dell’affare durante il periodo di vigenza dell’incarico, laddove invece, se si fosse
Note:
(81) P. Vitucci, Impegni assunti con il mediatore e proposta contrattuale, in
Riv. not., 1994, 15.
(82) Dalla casistica giurisprudenziale emerge l’esistenza di una grande varietà di clausole pattizie riguardanti la provvigione; così, ad esempio, previo accordo con il mediatore, le parti intermediate possono ripartire tra
loro il pagamento della provvigione in misura diversa, fino ad escluderlo
del tutto (sul punto c’è concordia in dottrina, vedi: A. Cataudella, Mediazione, cit., 7; A. Luminoso, La mediazione, cit., 113), per una di esse
(c.d. clausola «franco mediazione» o «franco provvigione»), senza con
ciò snaturare il contratto di mediazione (Cass. 21 settembre 1988, n.
5183, cit.); oppure, ancora, possono subordinare il sorgere dell’obbligo di
pagare il compenso non alla semplice conclusione dell’affare, ma al suo
«buon fine», che a seconda dei casi, può consistere nella conclusione di
una serie di contratti, tra loro collegati, diretti a realizzare un interesse
economico unitario (Cass. 27 novembre 1982, n. 6472, in Mass. Giust.
civ., 1982).
(83) Cfr. sul tema M. Pollaroli, Il diritto alla provvigione del procacciatore
d’affari, nota a Cass. 6 aprile 2000, n. 4327, in questa Rivista, 2001, 364
(84) G. Di Chio, Mediazione e mediatori, cit., 1993, 394.
(85) Per tutti: A. Catricalà, La mediazione, cit., 411 e ss., vedi anche note 17 e 18.
(86) Cass. 4 maggio 1982, n. 2772, in Arch. civ., 1982, II, 858. Su tale tipo di clausola esprime dubbi B. Troisi, La mediazione, cit., 193.
(87) G. Di Chio, Mediazione e mediatori, cit., 394.
(88) Cass. 3 settembre 1991, n. 9350, in Giust. civ., 1992, I, 695; conforme Cass. 22 gennaio 1982, n. 438, in Arch. civ., 1982, 605.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
785
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
trattato di vero e proprio mandato, sarebbe stato quanto
meno più «normale», anche se non inesorabile, stante la
contestuale previsione di un compenso in caso di buon
esito delle trattative che rendeva comunque «oneroso»
il rapporto, che si prevedesse la debenza del compenso in
ragione del semplice compimento dell’attività gestoria, e
dunque a prescindere dal risultato.
La mediazione, infatti, come già in parte detto, si differenzia tra l’altro dal mandato anche perché, mentre il
mandatario agisce in adempimento di un preciso obbligo giuridico consistente nel compimento di un’attività
negoziale, avendo diritto al compenso, di norma, indipendentemente dal risultato raggiunto, il mediatore invece assume l’onere, interponendosi in maniera neutrale fra due o più parti, di mettere in contatto le stesse con
diritto al compenso solo in caso di effettiva conclusione
dell’affare (89).
Tuttavia, vero è che le clausole che destano i maggiori «sospetti» sono quelle relative al pagamento della
provvigione, allorquando si prevede che questa non sia
solo dovuta nel caso in cui l’affare si conclude in relazione all’intervento del mediatore, ma anche in altre circostanze che prescindono da una qualsiasi attività di interposizione; ad esempio nell’ipotesi di rinuncia a comperare o a vendere alle condizioni pattuite al momento del
conferimento dell’incarico, e nel caso di revoca dell’incarico (90) prima della scadenza (91).
In verità, la giurisprudenza (92) ha ammesso senza
esitazioni la validità di tali clausole in quanto si limiterebbero a prevedere delle cause di scioglimento del rapporto imputabili esclusivamente al contraente intermediato, sicché il compenso pattuito fungerebbe da corrispettivo per il recesso o la rinuncia. Ciò, naturalmente,
sempre sul presupposto della «derogabilità dell’art. 1755,
primo comma, Codice civile» (93), che prevede il diritto del mediatore alla provvigione solo se l’affare è concluso per effetto del suo intervento (94).
Si deve, inoltre, osservare (95) che a conclusioni diverse si può, invece, giungere nel caso in cui l’incarico
conferito al mediatore non si limiti a regolare l’attività
materiale di interposizione, ma preveda che il mediatore
compia uno o più atti giuridici per conto e nell’interesse
di chi gli ha conferito l’incarico.
Infatti, nell’odierna realtà economica, il mediatore
oltre ad esercitare un’attività tipicamente mediatoria, si
impegna, ricevendo l’incarico, ad eseguire altri servizi od
a compiere altre attività.
I moduli contrattuali prevedono, spesso, ad esempio,
che l’agente immobiliare venga autorizzato a redigere e a
far sottoscrivere dalle controparti proposte di acquisto o
di vendita; oppure venga autorizzato a risolvere eventuali controversie con le controparti prima della stipulazione del contratto preliminare di compravendita.
Talora, poi, l’agenzia immobiliare, oltre a promuovere la vendita o l’acquisto per conto del cliente, gli offre
servizi che con tutta evidenza vanno oltre i confini naturali della mediazione. Così l’agenzia immobiliare può
786
I CONTRATTI N. 8-9/2005
svolgere per conto e nell’interesse del cliente (specie se
si tratta di un costruttore di un complesso immobiliare)
attività di marketing per tutta la durata dell’incarico, o di
impostazione e realizzazione della campagna pubblicitaria, nonché della scelta dei mass media più idonei ed invio del materiale pubblicitario, collaborazione nello studio dei documenti contrattuali, incasso dei pagamenti
effettuati dalla controparte sino al momento della stipulazione dell’atto definitivo di acquisto.
Conclusioni
Se si tiene conto di quanto esposto, è facile constatare come l’agenzia immobiliare svolge nella realtà giuridica-economica odierna, «indubbiamente, attività di mediazione, ma opera anche in qualità di mandataria (senza rappresentanza) di chi le ha conferito l’incarico» (96).
La figura tradizionale del mediatore che svolge la
sua attività con una organizzazione su base essenzialmente personale, dunque, «non appare più rispondente all’evoluzione del fenomeno mediatizio» (97). Da
qui la sempre più diffusa presenza, nell’attività in questione, di complesse organizzazioni imprenditoriali in
forma societaria, in grado di imporre, attraverso lo strumento della contrattazione standardizzata, condizioni
alla massa degli utenti (soggetti intermediati, cc.dd.
contraenti deboli).
La pratica degli affari immobiliari conosce una tale
varietà di regole convenute dalle parti, che difficilmente
i contratti stipulati con le agenzie di intermediazione immobiliare possono rientrare negli schemi normativi. Di
qui la difficoltà di individuare il tipo legale cui riportare
la fattispecie concreta quale si è realizzata nella prassi dei
rapporti economici.
Giova, infine, sottolineare come l’agente immobiliare sia un imprenditore (98) che, tramite la predisposizione di moduli condizioni generali di contratto, disciplina
in modo uniforme la prestazione del proprio servizio e
come tali clausole non siano oggetto di negoziazione,
sbilanciando il contratto a favore dell’imprenditore ed
aggravando la posizione dell’aderente (99).
Note:
(89) V. Cass. 18 febbraio 1998, n. 1719, cit., 489.
(90) Cass. 26 gennaio 1978, n. 378, in Mass. Giust. civ., 1978
(91) G. Di Chio, Mediazione e mediatori, cit., 394.
(92) Cass. 27 aprile 1982, n. 2631, in Rep. Giur. it., 1982, voce Mediazione, n. 10; e Cass. 28 febbraio 1986, n. 1294, in Arch. civ., 1986, 505.
(93) Cass. 10 settembre 1980, n. 5221, in Mass. Foro it., 1980.
(94) Cass. 4 maggio 1982, n. 2772, in Arch. civ., 1982, II, 858.
(95) Cfr. B. Troisi, La mediazione, cit., 193.
(96) G. Di Chio, Mediazione e mediatori, cit., 394.
(97) B. Troisi, La mediazione, cit., 28.
(98) G. De Ferra, La figura del mediatore come imprenditore, cit., 527.
(99) M. L. Spasari, I contratti di mediazione nella compravendita immobiliare, in Nuove leggi civ. comm., 1997, 1126.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Su questi presupposti, trova applicazione, altresì, la
disciplina relativa ai contratti del consumatore di cui al
Capo XIV bis, titolo II, libro IV, Codice Civile, che offre una tutela ulteriore rispetto a quella fornita dalla
Legge n. 39 del 1989 che, all’art. 5, quarto comma, prevede che il mediatore, il quale si avvalga, per l’esercizio
della propria attività, di «moduli o formulari» (100), nei
quali siano indicate le condizioni del contratto, debba
preventivamente depositarne copia presso la Commissione istituita presso ciascuna Camera di Commercio
(101), cui è demandata l’iscrizione e la tenuta del ruolo
dei mediatori.
Ecco, allora, che lo schema negoziale voluto dalle
parti rifletterà la struttura di un contratto misto di mediazione e mandato (102). Tramontata, peraltro, la vecchia concezione di mediatore come procacciatore di notizie e di affari, «quale uomo presente sulla piazza, sveglio
e furbo» (103), si va affermando la nuova figura di mediatore anche mandatario che non solo tratta l’affare,
ma anche lo definisce nel dettaglio, finendo alcune volte persino per concluderlo; tale attività di mandatario,
però, in quanto solo accessoria e subordinata alla mediazione, di regola non verrà remunerata (104).
Note:
(100) L’art. 17 del decreto del Ministero dell’Industria, Commercio ed
Artigianato del 21 dicembre 1990, n. 452, contenente il regolamento di
attuazione della Legge n. 39 del 1989, prescrive, inoltre, che i moduli o
formulari debbano essere chiari, facilmente comprensibili ed ispirati alla
buona fede contrattuale. Per una analisi delle ipotesi di clausole abusive
presenti nei moduli di conferimento dell’incarico di mediatore, v. M. G.
Lodato, Le clausole abusive nei contratti delle agenzie immobiliari, in G. Alpa
e S. Patti (a cura di), Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori.
Commentario agli artt. 1469 bis - 1469 sexies del Codice civile, Milano,
1997, II, 1255.
(101) Su tale punto, nonostante l’esplicito motivo di ricorso del Sig. L.,
pare esserci nella sentenza che si annota una colpevole omissione.
(102) Cfr. B. Troisi, La mediazione, cit., 193.
(103) A. Natale, Sul cumulo delle attività di mandatario e di mediatore unilaterale, cit., 496.
(104) Così M. Bernardini, Proposte e preliminare di contratto nei modelli dei
mediatori, in F. Galgano (Trattato diretto da), I contratti del commercio, dell’industria e del mercato finanziario, Torino, 1995, I, 112, il quale, è ovvio,
esclude il caso del mandato oneroso, in cui il mandatario è comunque da
retribuire.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
787
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Rassegna di legittimità:
i singoli contratti
APPALTO
Cassazione Civile, sez. II, 11 febbraio 2005, n. 2752
Pres. Pontorieri - Rel. Scherillo - P.M. Marinelli (Conf.) - Lenni Renato S.a.s. c. Rofor Di Formichi Ivo S.n.c.
Appalto (contratto di) - Responsabilità dell’appaltatore - Esclusione - Condizioni - Controllo esercitato dal committente - Caratteristiche - Appalto «a regia» - Fattispecie
Nel cosiddetto appalto «a regia», il controllo esercitato dal committente sull’esecuzione dei lavori esula dai
normali poteri di verifica ed è così penetrante da privare l’appaltatore di ogni margine di autonomia, riducendolo a strumento passivo dell’iniziativa del committente, sì da giustificarne l’esonero da responsabilità per
difetti dell’opera, una volta provato che abbia assunto il ruolo di nudus minister del committente. (Nella specie la S.C ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto configurabile l’appalto a regia sulla base delle clausole contrattuali, che prevedevano l’obbligo dell’appaltante di fornire tutte le attrezzature e i materiali d’uso, l’esecuzione sotto la direzione esclusiva dell’impresa appaltante e del personale da essa incaricato, la
previsione, quale oggetto del contratto, soltanto di prestazioni di manodopera, con contabilizzazione a parte
dei lavori a giornata, sfiorando la fattispecie delittuosa di cui alla Legge n. 1369/60 sul divieto di intermediazione ed interposizione di lavoro).
Cassazione Civile, sez. III, 28 gennaio 2005, n. 1748
Pres. Nicastro - Rel. Durante - P.M. Frazzini (Diff.) - De Lillo ed altro c. Cond. Parco Quadrifoglio Fabbricato
ed altri
Appalto (contratto di) - Rovina e difetti di cose immobili (responsabilità del costruttore) - In genere - Azione di responsabilà ex art. 1669 Codice civile - Natura extracontrattuale - Fondamento - Rapporti con l’azione di responsabilità ex art. 2043 Codice civile - Specialità - Conseguenze - Legittimazione attiva all’azione - Individuazione
I.
L’art. 1669 Codice civile, nonostante la sua collocazione nell’ambito della disciplina del contratto d’appalto,
dà luogo ad un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale, la quale, pur presupponendo un rapporto contrattuale, ne supera i confini e si configura come obbligazione derivante dalla legge per finalità e ragioni di carattere generale, costituite dall’interesse pubblico - trascendente quello individuale del committente - alla
stabilità e solidità degli immobili destinati ad avere lunga durata, a preservazione dell’incolumità e sicurezza
dei cittadini; e, sotto tale profilo la norma si pone in rapporto di specialità con quella generale di cui all’art.
2043 Codice civile, che trova applicazione solo ove non risulti applicabile quella speciale, ed attribuisce legittimazione ad agire contro l’appaltatore ed eventuali soggetti corresponsabili non solo al committente ed ai
suoi aventi causa (ivi compreso l’acquirente dell’immobile), ma anche a qualunque terzo che lamenti essere
stato danneggiato in conseguenza dei gravi difetti della costruzione, della sua rovina o del pericolo della rovina di essa.
Appalto (contratto di) - Rovina e difetti di cose immobili (responsabilità del costruttore) - In genere - Azione di responsabilità contro il proprietario dell’immobile - Da parte del terzo danneggiato - Chiamata in causa in garanzia del
costruttore - Natura della garanzia - Garanzia impropria - Fondamento - Conseguenze - Scindibilità delle cause
II.
La chiamata in causa del costruttore da parte del proprietario dell’immobile, che sia stato convenuto in giu-
788
I CONTRATTI N. 8-9/2005
GIURISPRUDENZA•SINTESI
dizio dal terzo danneggiato con invocazione della responsabilità ai sensi degli artt. 2043, 2051, 2053 Codice
civile (o con invocazione di uno di tali titoli di responsabilità), configura un’ipotesi di garanzia impropria,
trattandosi di titoli distinti, collegati solo indirettamente, con la conseguenza che in ragione di tale diversità
dei titoli delle responsabilità ha luogo un fenomeno di scindibilità delle relative cause, sia pure legate fra loro da un vincolo di subordinazione o di pregiudizialità - dipendenza.
ASSICURAZIONE
Cassazione Civile, sez. III, 18 febbraio 2005, n. 3370
Pres. Vittoria - Rel. Perconte Licatese - P.M. Golia (Conf.) - Romanelli c. Milano Assicurazioni S.p.a. ed altro
Assicurazione - Contratto di assicurazione - Premio - Mancato pagamento - In genere - Clausola di regolazione del
premio - Natura giuridica - Clausola onerosa ex artt. 1341, 1342 Codice civile - Configurabilità - Conseguenze - Specifica approvazione per iscritto - Necessità - Portata applicativa - Mancata comunicazione degli elementi variabili da
parte dell’assicurato - Conseguenze - Automatica sospensione della garanzia assicurativa ex art. 1901 Codice civile Esclusione
La clausola cd. «di regolazione del premio» inserita in un contratto di assicurazione si caratterizza, sul piano
morfologico, per la sua natura di clausola onerosa che, come tale, richiede la specifica approvazione per iscritto da parte dell’assicurato, giusta disposto degli artt. 134,1 comma secondo, e 1342, comma secondo, Codice civile, mentre, sul piano funzionale, si appalesa inidonea a riprodurre ipso facto lo schema dell’art. 1901
stesso codice (che prevede la sospensione della garanzia assicurativa in caso di inadempimento dell’assicurato all’obbligazione di pagare il premio), non rappresentandone punto una automatica applicazione, con la conseguenza che non può ritenersi sufficiente, ai fini della sospensione della garanzia assicurativa, la mera omissione della comunicazione dei dati variabili entro il termine contrattuale previsto, integrando tale condotta
omissiva, piuttosto, la violazione di un diverso obbligo pattizio, estraneo al modello di cui al citato art. 1901
Codice civile.
CONTRATTO DI ALBERGO
Cassazione Civile, sez. III, 20 gennaio 2005, n. 1150
Pres. Vittoria - Rel. Segreto - P.M. Destro C (Diff.) - Camping Pini Di Maresca S.n.c. c. Com. Meta ed altri
Alberghi - Contratto di albergo e di pensione - Oggetto - Natura - Disciplina applicabile - Criterio della prevalenza
delle prestazioni qualificanti - Limiti - Fattispecie in tema di locazione di alloggio alberghiero a sfrattati ed obblighi
risarcitori
Il contratto di albergo costituisce un contratto atipico o misto, con il quale l’albergatore si impegna a fornire al cliente, dietro corrispettivo, una serie di prestazioni eterogenee, quali la locazione di alloggio, la
fornitura di servizi, il deposito, senza che la preminenza riconoscibile alla locazione d’alloggio possa valere, sotto il profilo causale, a dare carattere accessorio alle altre prestazioni. Pertanto, secondo i principi applicabili in tema di contratto misto, il negozio deve essere assoggettato alla disciplina unitaria dell’uno o
dell’altro contratto in base alla prevalenza degli elementi, salva l’applicazione degli elementi del contratto
non prevalente se regolati da norme compatibili con quelle del contratto prevalente (Nella specie, relativa
a contratto di albergo stipulato in favore di terzo, avendo un assessore comunale pattuito la locazione per
due mesi di un bungalow in un complesso alberghiero in favore di una famiglia sfrattata, la Suprema Corte., nel cassare la sentenza di merito che aveva limitato la condanna dell’assessore al pagamento dei canoni dei due mesi, ha ritenuto compatibile con il suddetto contratto l’obbligo del conduttore in mora nella
restituzione della cosa locata di dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna e l’eventuale
maggior danno).
I CONTRATTI N. 8-9/2005
789
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Rassegna di merito
Sentenze esposte da Elettra Bruno e Marco Rossetti
CONTRATTI DI GARANZIA
Tribunale di Roma, sez. II - Sentenza 22 settembre
2004 - Est. Olivieri - Fallimento Nusam S.p.a. (Avv.
Guerra) c. Ag. Reg. Sviluppo Agricolo Abruzzo ARSSA (Avv. dello Stato)
Contratti di garanzia - Garanzia prestata in favore del
concordato preventivo - Risoluzione - Conseguenze Cessazione della garanzia - Esclusione
Contratti della p.a. - Forma scritta ad substantiam - Necessità - Conseguenze
Contratti della p.a. - Contratti con obbligazioni a carico
del solo proponente - Efficacia - Condizioni - Fattispecie
I.
La garanzia prestata in favore dei creditori della società
ammessa al concordato preventivo, la quale costituisce
un negozio non assimilabile alla fideiussione, non viene meno per effetto della risoluzione di quest’ultimo.
II.
Tutti i contratti della p.a. esigono la forma scritta ad
substantiam.
III.
Il requisito della forma scritta, nei contratti con obbligazioni a carico del solo proponente stipulati dalla p.a.
(nella specie, una garanzia personale in favore di una
società mista) sussiste quando l’organo deliberativo
abbia adottato il provvedimento contenente la proposta
contrattuale, a nulla rilevando che sia mancata la ratifica da parte dell’organo consiliare.
Il fatto
Un ente regionale, partecipante in una società per azioni, dopo l’ammissione di quest’ultima al concordato preventivo prestava unilateralmente fideiussione a garanzia
della società ed a beneficio dei creditori di quest’ultima.
Successivamente, essendo emerso che l’attivo sociale era
notevolmente inferiore a quanto stimato, il tribunale risolveva il concordato preventivo, e dichiarava fallita la
società.
A questo punto il curatore escuteva la garanzia, ma l’en-
te regionale rifiutava il pagamento, adducendo che la risoluzione del concordato preventivo aveva travolto anche le garanzie prestate.
Il tribunale ha rigettato tale eccezione.
Le ragioni della decisione
La sentenza così motiva: «la questione (relativa alla validità delle garanzie prestate nel caso di risoluzione del
concordato preventivo), a lungo contrastata in giurisprudenza, è stata composta dalle SS.UU. con la nota
sentenza 18 febbraio 1997, n. 1482, che ha statuito la sopravvivenza - alla pronuncia di risoluzione del concordato ex artt. 186 e 137 l. fall. - delle garanzie prestate ai
sensi dell’art. 160, secondo comma, n. 2) l. fall., osservando in proposito che:
- in relazione alla funzione cui assolve la garanzia in questione (nella specie garanzia personale) non è assimilabile al tipo negoziale della fideiussione in quanto («è una
garanzia che il terzo non dà al creditore in un momento
iniziale o successivo di uno specifico rapporto obbligatorio (…) e quindi non è una garanzia di un singolo o di
più crediti») ha la funzione oggettiva, espressamente
prevista dall’ordinamento ex art. 160, secondo comma, l.
fall., di consentire all’imprenditore -»nel prevalente interesse pubblico»- di fare fronte al temporaneo dissesto
continuando ad amministrare i propri beni e ad esercitare l’impresa «assicurando sia la produttività della stessa
che il posto di lavoro dei dipendenti», in tal modo concorrendo con gli altri presupposti a rendere ammissibile
la domanda di concordato proposta dall’imprenditore
(art. 162, l. fall.) ed alla omologazione dello stesso concordato (art. 181, primo comma, n. 3, l. fall.): tale funzione, tuttavia, non elide né contrasta con quella tipica
di garanzia dell’adempimento delle obbligazioni dell’imprenditore nei confronti dei creditori, come emerge dal
coordinato disposto degli artt. 137 e 186 l. fall. dal quale
si «evince, senza possibilità di equivoci, che uno dei profili della risoluzione del concordato è proprio l’inadempimento dell’imprenditore insolvente che non può non
coinvolgere anche la posizione del garante, facendo scattare la garanzia che è data per il concordato e quindi ne
segue le sorti, sicché il garante non può sottrarsi per il solo fatto che quest’ultimo venga risolto»;
- in relazione alla struttura della fattispecie negoziale la
speciale disciplina normativa del fallimento non configura l’assunzione della garanzia come negozio risolutivamente condizionato al venir meno della sentenza di
omologazione del concordato preventivo, e neppure individua in tale sentenza un elemento costitutivo della
I CONTRATTI N. 8-9/2005
791
GIURISPRUDENZA•SINTESI
fattispecie negoziale (aderendo quindi all’orientamento
cd. «fallimentarista» secondo cui il concordato preventivo omologato non è autonoma fonte di obbligazioni e
non produce effetti novativi sui preesistenti rapporti obbligatori dell’imprenditore cui accede la garanzia, limitandosi ad introdurre «solo una modifica sotto il profilo
delle scadenze e sotto quello quantitativo»), ma considera l’omologazione del concordato preventivo come
mero evento-presupposto cui è ricollegata la produzione
degli effetti obbligatori in capo al garante: con la conseguenza che la successiva eliminazione del presuppostoomologazione non può incidere sulla esistenza, validità
ed efficacia del negozio di garanzia;
- in relazione al contenuto della obbligazione la garanzia
ex art. 160, l. fall. differisce dalla obbligazione cui sono
tenuti i fideiussori con riferimento all’oggetto, essendo
tenuti i comuni fideiussori per l’intero (cfr. art. 184, primo comma, l. fall.) mentre la prestazione del garante del
concordato preventivo è «strettamente limitata alla stabilita percentuale concordataria e non tendenzialmente
diretta a soddisfare l’intero ammontare dei crediti chirografari»;
- in relazione alla legittimazione ad escutere la garanzia
la titolarità della posizione attiva nel rapporto obbligatorio, avuto riguardo all’interesse pubblico cui si ricollega
la garanzia ex art. 160 l. fall., va riconosciuta in capo al
commissario giudiziale (durante la esecuzione del concordato preventivo omologato) ovvero al curatore fallimentare che a quello succede in caso di risoluzione del
concordato.
Conclusivamente la S.C. ha affermato la conservazione
delle garanzie prestate per l’adempimento del concordato preventivo omologato e successivamente risolto, essendo connaturale alla assunzione della garanzia il rischio dell’insuccesso della operazione. Tali principi di diritto sono stati ribaditi ed integralmente recepiti dalle
più recenti pronunce della Corte di Cassazione che hanno affermato il principio della conservazione delle garanzie (...) anche in caso di risoluzione del concordato ex
art. 160, secondo comma, n. 2 l. fall. - con cessione dei
beni nella particolare ipotesi di concordato cd. «misto»
- (Cass., sez. I, 14 marzo 2001, n. 3670) e che hanno sostanzialmente parificato la tutela accordata ai creditori con riferimento alla sopravvivenza delle garanzie - nel
concordato fallimentare ed in quello preventivo (Cass.,
sez. I, 27 febbraio 2003, n. 2961)».
Ritenuto dunque che la garanzia fosse sopravvissuta alla
risoluzione del concordato, il tribunale è passato ad esaminare le ulteriori eccezioni sollevate dall’ente convenuto.
Questo aveva eccepito innanzitutto la nullità della garanzia per difetto di forma scritta.
Il tribunale sul punto ha riconosciuto che:
(a) l’attività negoziale delle pp.aa. e degli enti pubblici è
assoggettata all’osservanza delle norme di evidenza pubblica che impongono il requisito della forma scritta «ad
essentiam» (mentre resta irrilevante, per contro, che le
792
I CONTRATTI N. 8-9/2005
parti esprimano il proprio consenso contestualmente in
un unico atto formale);
(b) la delibera a contrarre costituisce «mero atto interno» propedeutico alla manifestazione esterna di volontà
dell’ente affidata alla stipula del contratto da parte dell’organo rappresentativo, e pertanto tale delibera è nulla, quanto agli effetti negoziali.
Tuttavia - prosegue la sentenza - l’accertamento della osservanza del requisito formale ad essentiam debba essere
compiuto con riferimento allo specifico tipo negoziale in
questione (contratto con obbligazioni a carico di una
parte sola) ed alla peculiare modalità di conclusione del
negozio di garanzia, che deve ritenersi perfezionato nel
momento e nel luogo in cui il destinatario della proposta
la riceva senza rifiutarla nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi (art. 1333, secondo comma, Codice civile).
Pertanto, poiché il consiglio d’amministrazione dell’organo regionale nella specie aveva deliberato di «rilasciare garanzia fideiussoria per l’importo di lire
4.000.000.000», tale delibera aveva prodotto effetti, ex
art. 1333 Codice civile, al momento in cui era stata trasmessa ai creditori. Né poteva avere rilievo l’omessa ratifica della suddetta delibera da parte del Consiglio dell’ente atteso che l’atto negoziale di assunzione della garanzia era stato legalmente adottato sul presupposto di
una delibera emessa con i poteri di urgenza conferiti al
Consiglio di Amministrazione, e che era divenuta esecutiva in assenza di rilievi da parte dell’organo tutorio.
Pertanto, così come i contratti degli enti pubblici conclusi «in caso di inesistenza della volonta’ contrattuale
dell’organo deliberativo» non possono ritenersi invalidi
«configurandosi, invece, una fattispecie «in itinere» o a
formazione progressiva assimilabile al negozio concluso
dal «falsus procurator», caratterizzata da una fase interinale destinata a protrarsi fino a quando intervenga la ratifica da parte dell’organo competente, ovvero fino a
quando la ratifica venga negata» (Cass., sez. III, 10 gennaio 2003, n. 195), allo stesso modo doveva escludersi
nel caso di specie un vizio di invalidità derivata del negozio di garanzia, perfezionatosi sul presupposto dei una
delibera a contrarre valida ed efficace.
I precedenti
La prima delle massime di cui in epigrafe si uniforma
puntualmente al decisum di Cass., S.U., 18 febbraio
1997, n. 1482, in Fallimento, 1997, 722, con nota di Panzani, Risoluzione del concordato e sorte delle garanzie prestate per l’esecuzione, nonché in Corr. giur., 1997, 775, con
nota di Sesta, La sorte delle garanzie concordatarie in caso di
risoluzione o annullamento del concordato preventivo, la
quale ha stabilito che a seguito della risoluzione del concordato preventivo, il terzo che aveva prestato garanzia
a favore del debitore è tenuto anche nel successivo fallimento, nei limiti della percentuale concordataria, ad
adempiere alla obbligazione di garanzia che assume connotati di atipicità rispetto alla normale fideiussione.
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Successivamente, tale orientamento è stato condiviso ex
aliis da Cass., sez. I, 27 febbraio 2003, n. 2961, in Rep. Foro it. 2003, Concordato preventivo, n. 15, ove si precisa
altresì (anche in questo caso, conformemente alla sentenza qui in rassegna) che le garanzie offerte dal debitore, ai sensi dell’art. 160, secondo comma, n. 1, l.fall., come condizione per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo non sono equiparabili alle fideiussioni di diritto comune, in quanto sono costituite in funzione del concordato e non diventano efficaci senza la sentenza di omologazione. Anch’esse, tuttavia, pur in mancanza di una disposizione analoga a quella specificamente dettata dall’art. 140, secondo comma, l.fall., per la risoluzione del concordato fallimentare, come già detto
non perdono efficacia, negli stretti limiti della percentuale concordataria per cui sono state offerte, in ipotesi
di risoluzione del concordato preventivo dovuta all’inadempimento dell’imprenditore (si veda altresì, nello
stesso senso, Cass., sez. I, 14 marzo 2001, n. 3670, in Foro it., 2001, I, 2226).
La seconda delle massime di cui in epigrafe è espressione
di un orientamento risalente e consolidato: il principio
per cui il contratto concluso dalla P.A. debba rivestire
forma scritta a pena di nullità, affermato già da Cass.
S.U. 14 ottobre 1972, n. 3063, in Giust. civ. 1973, 666,
è stato sempre costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità. In questo senso si vedano, Cass., sez.
I, 11 settembre 1999, n. 9682, in Rep. Foro it., 1999,
Contratti della p.a., n. 126; Cass. 26 agosto 1997, n.
7997, in Mass. Foro it., 1997; Cass., sez. I, 30 luglio 1996,
n. 6908, in Foro it., 1997, I, 891).
Anzi, proprio in materia di contratti tra un privato e
l’amministrazione comunale, la Suprema Corte ha affermato che il difetto della forma scritta nei contratti della
p.a., forma prevista ad substantiam, non può essere sanato neppure allegando un convincimento incolpevole del
privato di avere validamente contrattato con l’amministrazione, dato che la causa d’invalidità del negozio, nota ad uno dei contraenti e da questi taciuta, deriva da
una norma che, per presunzione di legge, «deve essere
nota alla generalità dei cittadini» (Cass., sez. I, 23 aprile
1996, n. 3843, in Mass. Foro it., 1996).
Quanto alla terza delle massime di cui in epigrafe, la giurisprudenza è costante nell’affermare che l’approvazione,
da parte dell’autorità tutoria, del contratto stipulato jure
privatorum dalla p.a., opera quale condicio juris sospensiva
dell’efficacia del negozio già perfezionato nei suoi elementi costitutivi. Il diniego di tale approvazione, pertanto, rende il contratto non più eseguibile (Cass. , sez. I, 12
novembre 1992, n. 12182, in Mass. Foro it., 1992; Trib.
Bari 20 luglio 1981, in Rass. avv. Stato, 1982, I, 543, con
nota di De Stefano; Cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz.,
25 febbraio 1994, n. 72, in Giur. amm. sic., 1994, 32). Tale condicio juris sospensiva dell’efficacia del negozio non si
inserisce però nel processo formativo del negozio, che è
già perfetto nei suoi elementi costitutivi (Cass., sez. I, 14
ottobre 1995, n. 10751, in Mass. Foro it., 1995).
In questi casi, inoltre, la sopravvenuta e definitiva inoperatività del contratto per effetto della mancata approvazione tutoria può essere dedotta da entrambe le parti
contraenti, mentre i vizi concernenti l’attività negoziale
dell’ente pubblico, sia che si riferiscano al processo di
formazione delle volontà dell’ente, sia che si riferiscano
alla fase preparatoria ad essa precedente, sono deducibili
esclusivamente dall’ente pubblico stesso, in quanto si
traducono in un difetto di capacità dell’ente (Cass. 8 luglio 1991, n. 7529, in Mass. Foro it., 1991).
Ne consegue che, mentre l’approvazione da parte dell’autorità tutoria determina l’efficacia retroattiva del
contratto stipulato dall’ente pubblico, a partire dalla data in cui fu concluso, il diniego della stessa produce invece il venir meno degli obblighi già sorti e l’ineseguibilità dell’accordo. In quest’ultimo caso il privato è sciolto
da ogni obbligo e, se ha anticipato l’esecuzione del negozio, ha diritto di ottenere il ripristino della situazione quo
ante (Cass. 1° febbraio 1985, n. 651, in Giust. civ., 1985,
I, 1667).
Sulla ammissibilità della fideiussione unilaterale, in senso conforme alla sentenza qui in rassegna, si veda Trib.
Cagliari 23 ottobre 2001, in Riv. giur. sarda, 2002, 421,
con nota di Mannoni, Lettera di patronage, fideiussione e
altre forme di garanzia personale, secondo cui la volontà di
prestare fideiussione manifestata senza la previsione di
vantaggi o compensi per il fideiussore realizza un contratto con obbligazioni a carico di una sola parte, per il
cui perfezionamento non è richiesta un’espressa dichiarazione di accettazione del creditore.
CONTRATTI FINANZIARI
Tribunale di Roma, sez. II - Sentenza 17 marzo 2005 Est. Oddi - Ragionieri ed al. (Avv. Castelli) c. Repubblica Argentina (Avv. Siragusa)
Contratti finanziari - Obbligazioni di Stato - Rinvio della scadenza per atto normativo - Effetti dannosi prodotti
in altro Stato - Conoscibilità da parte de giudice italiano
- Ammissibilità
Contratti finanziari - Obbligazioni di Stato - Omesso
rimborso da parte dello Stato emittente - Domanda di risarcimento del danno - Previsione di una giurisdizione
convenzionale nel regolamento del prestito - Giurisdizione del giudice italiano - Configurabilità - Esclusione
I.
Lo Stato estero è immune dalla giurisdizione italiana
soltanto per quanto attiene agli atti compiuti quale
soggetto di diritto internazionale, ed agli atti d’imperio
compiuti nell’ordinamento interno; la suddetta immunità non si estende invece agli atti i cui effetti possono
prodursi nell’ordinamento giuridico di un altro Stato, a
nulla rilevando che essi siano espressione di sovranità,
come l’adozione di un provvedimento normativo.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
793
GIURISPRUDENZA•SINTESI
II.
È sottratta alla cognizione del giudice italiano la domanda avente ad oggetto la responsabilità di uno stato
estero (nella specie, Argentina) per omesso rimborso di
un prestito obbligazionario, quando nel regolamento
del prestito sia contenuta una clausola che devolva tutte le controversie tra le parti alla giurisdizione dei tribunali di alcuni Stati; né rileva, al riguardo, che i sottoscrittori non abbiano potuto conoscere tale clausola, in
quanto tale circostanza potrebbe unicamente far sorgere una responsabilità dell’intermediario, ma non radicare una giurisdizione pattiziamente esclusa.
Il fatto
Alcuni risparmiatori avevano acquistato obbligazioni di
Stato emesse dalla Repubblica Argentina. Il rimborso di
tali obbligazioni tuttavia non avveniva, poiché lo stato
emittente, a causa delle proprie difficoltà finanziarie,
stabiliva per legge il rinvio della scadenza dei titoli. I risparmiatori italiani convenivano allora in giudizio la
Repubblica Argentina, chiedendone la condanna al
rimborso del prestito obbligazionario da essa emesso e
non onorato.
Lo Stato convenuto eccepiva la propria esenzione dalla
giurisdizione italiana, allegando che il rinvio del rimborso era stato disposto con legge, e quindi con atto sovrano. Il tribunale ha rigettato la domanda, ma per motivi
diversi da quelli invocati dalla convenuta, e cioè per la
previsione nel regolamento del prestito di una giurisdizione convenzionale.
Le ragioni della decisione
La sentenza così motiva: «Il principio (di esenzione degli
Stati esteri dalla giurisdizione del giudice italiano)
«comporta non già l’insussistenza di qualsiasi tutela giudiziaria nei confronti dello Stato estero, sebbene soltanto, ed unicamente, la preclusione a che i giudici di uno
Stato diverso da quello convenuto (quand’anche quelli
nazionali dell’attore e competenti secondo le convenzioni internazionali sulla materia oggetto del giudizio) conoscano di una domanda proposta nei confronti dello
Stato estero convenuto: da ciò, appunto, l’usuale definizione della regola col broccardo par in parem non habet iurisdictionem (Cass., S.U., 3 agosto 2000, n. 530/SU).
Tale principio è ampiamente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che «la norma
consuetudinaria di diritto internazionale, generalmente
riconosciuta, sulla immunità giurisdizionale degli Stati
esteri e degli enti pubblici operanti nell’ordinamento internazionale (...) riguarda solo i rapporti che rimangono
del tutto estranei all’ordinamento interno, o perché quegli Stati o enti agiscono in altri Paesi come soggetti di diritto internazionale, o perché agiscono come titolari di
una potestà di imperio nell’ordinamento di cui sono portatori» (Cass., S.U., 3 febbraio 1996, n. 919; Cass. 18 ottobre 1993, n. 10294).
794
I CONTRATTI N. 8-9/2005
L’immunità dalla giurisdizione è stata riconosciuta anche
per quelle attività istituzionali dello Stato straniero,
compiute in territorio italiano in virtù di norma internazionale pattizia, che comportano pericolo per l’integrità
personale (Cass., S.U., 00/530/SU cit., riguardante l’attività di addestramento militare compiuta in Italia dagli
Stati Uniti d’America) o che, compiute nel territorio
dello Stato straniero, abbiano addirittura causato danno
al cittadino italiano (Cass., S.U., 12 giugno 1999, n.
328/SU, relativa al caso di cittadino italiano vittima di
errore giudiziario commesso in Austria). L’immunità
non viene meno neppure in ordine a domande di contenuto esclusivamente patrimoniale se l’accertamento
della loro fondatezza implica valutazioni sull’esercizio dei
poteri pubblicistici di uno Stato straniero o di un ente
internazionale inerenti l’organizzazione dei suoi uffici o
servizi (Cass., S.U., 3 agosto 2000, n. 531/SU; 8 giugno
1994, n. 5565, entrambe relative a fattispecie in materia
di licenziamento del dipendente); a contrario, l’immunità recede quando il soggetto internazionale opera come privato ovvero con riguardo a rapporti relativi a
mansioni puramente materiali, strumentali e ausiliarie,
seppur funzionali, a quelle pubblicistiche dell’ente
(Cass., S.U., 27 novembre 2002, n. 16830; 7 novembre
2000, n. 1150/SU, anch’esse riguardanti rapporti di lavoro subordinato). Recentemente, Cass., S.U., 11 marzo
2004, n. 5044 - dopo aver ribadito che «l’esistenza di una
norma consuetudinaria di diritto internazionale che impone agli Stati l’obbligo di astenersi dell’esercitare il potere giurisdizionale nei confronti degli Stati stranieri e la
sua operatività, nel nostro ordinamento, in virtù di
quanto disposto dall’articolo 10, primo comma, Costit.,
non sono revocabili in dubbio, anche se … la portata di
tale principio … è andata progressivamente restringendosi» (...) - ha affermato che deroga all’immunità dalla
giurisdizione ricorre «in presenza di comportamenti che
…assumono connotati di estrema gravità, configurandosi, in forza di norme consuetudinarie di diritto internazionale, quali crimini internazionali, in quanto lesivi
di valori universali che trascendono gli interessi delle
singole comunità statali» (principio sancito in fattispecie relativa alla domanda risarcitoria proposta da un cittadino italiano deportato ed assoggettato a lavoro forzato in lager nazisti).
Con particolare riguardo poi alla tematica dei provvedimenti di moratoria del debito estero e al programma di
ripianamento del medesimo adottati da uno Stato straniero (come avviene nel caso in esame) Corte cost. 15
luglio 1992, n. 329 ha avuto modo di precisare che essi
rientrano «nella sfera dei poteri sovrani e di governo» e
godono perciò dell’immunità dalla giurisdizione italiana;
diversamente, «le promesse di pagamento» rilasciate in
esecuzione delle direttive del piano e «le garanzia corrispondentemente prestate dal governo» dello Stato debitore costituiscono atti iure gestionis e sono perciò soggetti alla giurisdizione italiana.
La giurisprudenza italiana costituzionale e di legittimità,
GIURISPRUDENZA•SINTESI
pertanto, ammette l’immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera, limitatamente alle attività che costituiscono estrinsecazione dei poteri sovrani, quale principio
di diritto internazionale generalmente riconosciuto, al
quale l’ordinamento italiano si adegua per il tramite dell’art. 10 Cost. (...).
Peraltro, il principio dell’immunità ristretta ha limiti
ben definiti posti in evidenza sia dalla giurisprudenza italiana sia da quella straniera. Si è infatti rilevato come la
Cassazione ha avuto modo di precisare che esso riguarda
solo i rapporti che rimangono del tutto estranei all’ordinamento italiano, vuoi perché gli Stati o enti stranieri
«agiscono in altri Paesi come soggetti di diritto internazionale», vuoi perché «agiscono come titolari di una potestà di imperio nell’ordinamento di cui sono portatori»
(Cass., S.U., 18 marzo 1999, n. 149/SU; 96/919 cit.;
93/10294 cit.) (...).
Nel caso di specie, producendosi all’interno del nostro
ordinamento gli effetti della normativa emergenziale
adottata dallo Stato argentino, in quanto il blocco del
pagamento delle cedole e del rimborso del capitale hanno luogo in Italia, il cennato limite all’operatività del
principio di immunità è dunque superato. Per tale ragione (...) non si ritiene di poter dichiarare l’immunità della parte convenuta dalla giurisdizione italiana.
A tale conclusione si perviene anche per altra ragione.
Si è già rilevato che nei regolamenti di emissione delle
obbligazioni la Repubblica Argentina ha espressamente
rinunciato all’immunità. Ancorché non via sia stata
specifica indicazione delle emissioni alle quali si riferiscono i vari titoli obbligazionari in possesso degli attori e
degli intervenuti, è circostanza non controversa fra le
parti che tutti i regolamenti di emissione contengono la
clausola di espressa rinuncia alla immunità dello Stato
argentino. Tale situazione, in ogni caso, trova riscontro
documentale nei vari regolamenti di emissione prodotti
dagli attori e dalla convenuta. Ed infatti, quest’ultima,
dopo aver affermato che le obbligazioni in possesso degli
attori sono riconducibili a due programmi quadro (il cd.
European Medium Term Note Programme istituito con
l’accordo quadro denominato Trust Deed stipulato il 27
luglio 1993 fra Repubblica Argentina e Chase Manhattan Trustee Limited - cui è subentrata JP Morgan Trustee
and Depositary Company Limited - ed il cd.Global Bond
Programme istituito con l’accordo quadro denominato
Fiscal Agency Agreement stipulato il 19 ottobre 1994 fra
Repubblica Argentina e Bankers Trust Company, modificato dal contratto Amendment n. 1 to the Fiscal Agency
Agreement) contenenti il regolamento di tali emissioni,
ha prodotto copia degli stessi e relativa traduzione giurata: nel paragrafo intitolato «termini e condizioni delle
obbligazioni», riportato sul retro del «modulo di obbligazione al portatore definitiva», è espressamente indicato
che gli obbligazionisti assumono tutti i diritti e gli obblighi previsti dalle disposizioni del programma quadro, fra
le quali l’art. 17.4 del Trust Deed e l’art. 22 del Fiscal
Agency Agreement stabiliscono la rinuncia della Repub-
blica Argentina all’immunità dalla giurisdizione straniera (...). Gli attori del giudizio principale, a loro volta,
hanno depositato alcuni prospetti informativi delle
emissioni, nei quali è parimenti contenuta la rinuncia
della Repubblica Argentina all’immunità dalla giurisdizione di qualsiasi Corte o da qualsiasi procedimento legale (cfr. documentazione allegata alla memoria ex art.
184 Codice di procedura civile).
Sostiene parte convenuta l’inefficacia di tale rinuncia.
Ciò sia perché l’art. 11 l. 218/95, che dispone il rilievo ex
officio del difetto di giurisdizione se la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma internazionale, non
attribuirebbe rilievo ad una rinuncia all’immunità convenzionalmente espressa da uno Stato straniero, sia perché la rinuncia convenzionale può sempre essere revocata da un atto normativo successivo adottato per fronteggiare una situazione specifica di emergenza nazionale.
Nessuna delle due ragioni sembra utilmente invocabile
nella fattispecie. In ordine alla prima è sufficiente rilevare che l’art. 11 Legge n. 218/95 è norma che regola unicamente il regime della rilevabilità del difetto di giurisdizione e da essa non pare possano trarsi argomenti in
merito alla validità della rinuncia. Quanto al secondo
argomento, si possono richiamare le osservazioni poc’anzi svolte con riguardo all’efficacia extraterritoriale della
norma straniera: non avendo essa efficacia nel nostro ordinamento, non si vede come possa escludere l’operatività della clausola in questione.
In definitiva, per le ragioni sinora esposte l’immunità
dalla giurisdizione straniera non è operante nel caso in
esame.
Tutto ciò, però, non porta all’affermazione della giurisdizione italiana, come sostengono attori e intervenuti. Infatti, i regolamenti così attentamente invocati in punto
di rinuncia all’immunità esplicano i loro effetti anche
per quanto riguarda l’affidamento delle controversie riguardanti le obbligazioni alla giurisdizione di taluni autorità giudiziarie, specificamente individuate. All’art.
17.2 del Trust Deed è stabilito che la Repubblica Argentina «si assoggetta irrevocabilmente alla giurisdizione
delle Corti d’Inghilterra, di qualsiasi Corte dello Stato di
New York, di qualsiasi Corte federale sita nel Distretto di
Manhattan, New York City e delle Corti della Repubblica Argentina»; nell’art. 22 del Fiscal Agency Agreement l’Argentina dichiara espressamente di accettare la
giurisdizione delle «Corti dello Stato di New York o delle Corti federali che si trovano nel Distretto di Manhattan, Città di New York». Nei prospetti di investimento
prodotti dagli attori del giudizio principale è stabilita la
giurisdizione «di qualsiasi Corte tedesca riunita a Frankfurt am Mein e di qualsiasi Corte d’appello di esse» ovvero di «qualsiasi Tribunale di Stato o federale nel Distretto amministrativo di Manhattan, Città di New
York». In nessun caso è prevista la giurisdizione italiana.
L’applicabilità delle clausole ora richiamate anche nei
confronti degli attori e degli intervenuti, messa da costoro in dubbio non senza un’evidente contraddizione
I CONTRATTI N. 8-9/2005
795
GIURISPRUDENZA•SINTESI
con quanto affermato a proposito della clausola contente rinuncia all’immunità, deve invece ritenersi certa. Invero, come affermato da autorevole dottrina, il titolo obbligazionario - tanto quello emesso da soggetto
privato quanto quello emesso da uno Stato sovrano ha natura giuridica di titolo di credito (è significativo
che il rinvio alla disciplina delle leggi speciali sui titoli
del debito pubblico sia disposto nell’art. 2001 Codice
civile, contenuto fra le disposizioni generali riguardanti i titoli di credito). Inoltre, come esattamente osserva
parte convenuta, le obbligazioni sono titoli a letteralità
cd. incompleta, nel senso che il contenuto dei diritti
che ne derivano è stabilito non solo dal tenore letterale del titolo stesso, ma anche dalla legge o dai documenti che regolano il rapporto fra detentore ed emittente. Pertanto, tutte le clausole del regolamento di
emissione, anche quelle riguardanti la giurisdizione,
esplicano i loro effetti nei confronti dei possessori dei
titoli obbligazionari.
La tematica della inopponibilità per difetto di conoscenza non rileva in questa sede, involgendo, se ne ricorrono
le condizioni, profili di responsabilità degli intermediari
istituzionali che provvidero al collocamento delle obbligazioni sul mercato. Essi, infatti, erano gravati da specifici obblighi di diligenza, correttezza e informazione nei riguardi della clientela (ex art. 21, primo comma, lett. a) e
b), D.Lgs. n. 58/98, che impongono all’intermediario di
agire con trasparenza e correttezza, nonché di operare in
modo che i clienti siano sempre adeguatamente informati; ex art. 28, secondo comma, regolamento Consob
concernente la disciplina sugli intermediari, che obbliga
questi ultimi, prima che l’investimento sia effettuato, a
fornire all’investitore informazioni adeguate sulla natura
e sulle implicazioni dell’operazione onde metterlo in grado di operare scelte consapevoli, in virtù dei quali avrebbero dovuto, fra l’altro, mettere a disposizione dei clienti copia di tali regolamenti o dei prospetti informativi
che li richiamano e ne contengono parti significative,
fra cui le clausole inerenti la giurisdizione.
Tali clausole, inoltre, devono considerarsi senz’altro valide ed efficaci alla luce delle previsioni dell’art. 4 Legge
n. 218/05, che richiede la forma scritta ad probationem e
consente la deroga alla giurisdizione italiana se la clausola verte su diritti disponibili. Ad esse, contrariamente a
quanto affermato dagli attori e dagli intervenuti, non si
applicano le disposizioni sulle cd. clausole vessatorie
(art. 1469 bis e ss. Codice civile), non vertendosi nell’ambito di rapporti di natura contrattuale (come già osservato, il possessore dell’obbligazione è portatore di un
titolo di credito e i diritti di cui è titolare sono quelli stabiliti nel titolo e nelle altre fonti - nel caso di specie i regolamenti - che disciplinano il rapporto fra emittente e
portatore, richiamate nel titolo stesso).
La presenza e la validità delle clausole di attribuzione
della giurisdizione a giudici stranieri (id est di deroga alla
giurisdizione italiana) esclude che quest’ultima possa essere recuperata attraverso le ulteriori disposizioni norma-
796
I CONTRATTI N. 8-9/2005
tive richiamate da attori e intervenuti: art. 3 Legge n.
218/95, primo comma; sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della
Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 sulla
competenza giurisdizionale in materia civile e commerciale; Accordo italo-argentino del 22 maggio 1990 sulla
protezione degli investimenti».
I precedenti
La prima delle massime di cui in epigrafe segna una «terza via» della giurisprudenza di merito: sino ad oggi, infatti, sulla vicenda dei bond argentini (titoli del debito pubblico emessi dalla Repubblica Argentini, e non rimborsati in base ad una legge di quello Stato) la giurisprudenza si era divisa tra quanti hanno ritenuto ammissibile la
domanda di rimborso proposta dinanzi al giudice italiano (Trib. Roma 30 settembre 2002, in Riv. dir. int. priv. e
proc., 2003, 181; Trib. Roma 22 luglio 2002, in Riv. dir.
int. priv. e proc., 2003, 174); e quanti invece l’hanno ritenuta inammissibile in base al principio par in parem
non habet iurisdictionem (Trib. Milano 11 marzo 2003, in
Foro it., 2004, I, 293; Trib. Roma (ord.) 31 marzo 2003,
in questa Rivista, 2003, 346, ed ivi l’ampia nota di ulteriori riferimenti dottrinari e giurisprudenziali, cui per
brevità si rinvia).
In dottrina, sull’argomento, si veda Castiglione, Immunità giurisdizionale e difetto di giurisdizione nella recente giurisprudenza italiana, in Cons. Stato, 2000, II, 2367.
La seconda delle massime di cui in epigrafe non fa registrare precedenti editi. Merita tuttavia di essere segnalato come il Tribunale, muovendo dal rilievo che i titoli
del debito pubblico costituiscono titoli di credito e non
contratti, ha escluso l’applicabilità ad essi delle norme di
cui agli art. 1469 bis e ss. Codice civile.
Tribunale di Roma, sez. II - Sentenza 25 maggio 2005
- Pres. Misiti - Est. Lamorgese - Calabresi (Avv. Castelli) c. Banca Monte paschi S.p.a. (Avv. Scudella) e
Consob (Avv. D’Alessandro)
Contratti finanziari - Violazione degli obblighi di informazione - Nullità - Esclusione
Contratti - finanziari - Omessa informazione sui rischio
dell’operazione - Conseguenze - Annullabilità per errore
- Ammissibilità - Condizioni
Contratti finanziari - Omessa informazione sui rischi
dell’operazione - Annullabilità per errore - Comportamento concludente del risparmiatore dopo la scoperta
dell’errore - Conseguenze - Convalida
Contratti finanziari - Conflitto di interessi della banca Conseguenze - Inadempimento - Esclusione
Contratti finanziari - Omessa informazione sui rischio
dell’operazione - Inadempimento - Conseguenze
GIURISPRUDENZA•SINTESI
I.
La violazione, da parte dell’intermediario finanziario,
degli obblighi di correttezza, diligenza ed informazione
previsti dal t.u.i.f., non costituisce causa di nullità del
contratto, ma può far sorgere unicamente una responsabilità per inadempimento.
II.
Chi invoca l’annullamento per errore di un contratto finanziario, per non essere stato informato sui rischi dell’operazione, ha l’onere di allegare e provare che, qualora avesse ricevuto le informazioni dovute al momento
della contrattazione del titolo, non lo avrebbe acquistato; a tal fine, peraltro, non è sufficiente la mera circostanza che dopo l’acquisto il titolo non abbia reso quanto sperato o promesso.
III.
Il risparmiatore il quale, dopo avere appreso il reale rating del titolo finanziario acquistato, incassi senza nulla eccepire il rendimento, tiene una condotta concludente che gli preclude, ex art. 1444 Codice civile, di invocare l’annullamento del contratto per errore sulla rischiosità dell’investimento, a nulla rilevando che in
prosieguo di tempo tale rendimento divenga negativo.
IV.
La circostanza che la banca abbia negoziato un titolo
proprio, ovvero abbia venduto prodotti finanziari al fine
di lucrare sulla differenza tra il prezzo di acquisto e quello di vendita, non costituisce di per sé inadempimento
contrattuale all’obbligo di correttezza e diligenza.
V.
L’intermediario finanziario ha il preciso obbligo contrattuale, ex art. 1374 Codice civile, di informare sempre il cliente sulle caratteristiche e sui rischi specifici e
concreti dell’investimento, e ciò sia al momento della
stipula, sia durante la vigenza del contratto; tale obbligo va adempiuto con modalità diverse, a seconda della
preparazione e della competenza del risparmiatore, ed
ai fini della prova dell’adempimento non riveste rilievo
decisivo la circostanza che il cliente abbia sottoscritto
il foglio informativo predisposto dalla banca, se questo
abbia contenuto del tutto generico.
Il fatto
Un risparmiatore acquistava, per il tramite di una banca
italiana, titoli del debito pubblico emessi dalla Repubblica Argentina. A causa del tracollo finanziario dello stato
emittente, tali titoli non venivano rimborsati, né venivano pagati gli interessi. Il risparmiatore conveniva allo-
ra in giudizio la banca intermediaria e la Consob, chiedendo:
a) nei confronti della banca, la declaratoria di nullità del
contratto per contrarietà a norme imperative; ovvero in
subordine, l’annullamento del contratto per errore, ex
art. 1427 Codice civile, con condanna della banca al risarcimento del danno;
b) in via subordinata, nei confronti della Consob, il risarcimento del danno aquiliano, ex art. 2043 Codice civile, per avere concausato il danno al risparmiatore, autorizzando l’operazione finanziaria.
Il tribunale ha accolto soltanto la domanda di risarcimento nei confronti della banca.
Le ragioni della decisione
Il tribunale ha esaminato innanzitutto la domanda di
nullità del contratto, fondata sulla violazione dell’obbligo di correttezza imposto agli intermediari finanziari dall’art. 21 D.Lgs. n. 58/98. Pur ritenendo tale domanda
inammissibile perché tardiva, il tribunale ha ritenuto
ugualmente di valutarne - ad abundantiam - la fondatezza, escludendola. Ha osservato infatti il collegio che le
norme del t.u.i.f. le quali impongono determinati obblighi di condotta agli intermediari finanziari (di informazione, diligenza, correttezza) sono prescrittive o impositive di obblighi di comportamento cui la banca è tenuta in
forza di un vincolo negoziale già sorto, non rilevando, di
regola, ai fini della validità del contratto, il carattere più
o meno doveroso di quegli obblighi, i quali rappresentano una specificazione del generale dovere di buona fede
nell’esecuzione del contratto, la cui violazione, com’è
noto, non si traduce in causa di invalidità dello stesso.
Pertanto la violazione di tali obblighi costituisce un inadempimento contrattuale, e può dar luogo ad un giudizio di responsabilità da inadempimento, ma non di nullità.
Ritenere, invece, che la violazione degli obblighi di
informazione determini la nullità del contratto di intermediazione mobiliare, significa introdurre per via giudiziale una nuova ipotesi di nullità, non solo non prevista
dal legislatore, ma anche più grave delle nullità che lo
stesso t.u.i.f. ha previsto come (nullità) soltanto relative:
si tratterebbe, infatti, di una nullità assoluta rilevabile
d’ufficio dal giudice a vantaggio o svantaggio del cliente
(art. 1421 Codice civile), in evidente contrasto con la
ratio delle normative di origine comunitaria protettive
dei consumatori (qual è quella in esame).
Esclusa dunque la nullità del contratto, la sentenza è passata ad esaminare la fondatezza della domanda di annullamento per errore essenziale e riconoscibile dalla banca
(che avrebbe dovuto informarlo dei rischi dell’investimento) sull’oggetto, ovvero su una qualità essenziale del
bond argentino (art. 1429, n. 1 e 2, Codice civile).
Anche tale domanda è stata ritenuta infondata, con la
seguente motivazione: «pur ammettendo, in astratto,
che l’inadempimento della banca agli obblighi informativi in ordine al rating del titolo ecc., abbia inciso sulla
I CONTRATTI N. 8-9/2005
797
GIURISPRUDENZA•SINTESI
formazione del consenso negoziale, viziandolo e provocando nell’attore un errore nell’acquisto del titolo, non
ne è dimostrata la essenzialità né la riconoscibilità (art.
1428 Codice civile).
Premesso che la parte che chiede l’annullamento del
contratto per errore «non può limitarsi ad affermare la
qualità essenziale di quel vizio, ma ha l’onere di dedurre
e provare, in caso di contestazione, i fatti dai quali tale
qualità risulta» (v. Cass. n. 3378/1993), l’attore avrebbe
dovuto dimostrare che, «secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze», l’errore verteva
proprio sull’identità ovvero su una qualità dell’oggetto
della prestazione (art. 1429, n. 2, Codice civile), intesa
nel senso di conformazione giuridica e materiale del titolo acquistato, e non già sulla maggiore o minore convenienza economica dell’affare, che è ipotesi certamente estranea alla previsione degli artt. 1427 ss. Codice civile (v. Cass. n. 5139/2003; 5900/1997; 5773/1996;
9067/1995). E, comunque, trattandosi di vizio determinante la formazione della volontà negoziale, l’attore
avrebbe dovuto dimostrare che, qualora avesse ricevuto
le informazioni dovute al momento della contrattazione
del titolo, non lo avrebbe certamente acquistato, essendo quindi irrilevante (ai fini dell’errore richiesto per
l’annullamento del contratto) il successivo andamento
(e peggioramento) del titolo stesso». Ciò premesso in iure, il Tribunale ha rilevato in facto che al momento dell’acquisto dei bond argentini questi erano classificati dalle agenzie di rating con una affidabilità «insufficiente»,
ma che tale unica circostanza non era sufficiente ad integrare un errore essenziale tale da far ritenere che l’attore non li avrebbe certamente acquistati, trattandosi di
categoria nella quale rientravano i titoli emessi da numerosi paesi c.d. emergenti, caratterizzati sia da oscillazioni anche sensibili nelle quotazioni di mercato sia da
alta redditività, cui è spesso collegata proprio la loro appetibilità da parte degli investitori.
Inoltre, anche a volere ravvisare nella specie un errore
essenziale riconoscibile, il Tribunale ha osservato che l’azione di annullamento sarebbe stata comunque infondata: ed infatti, poiché per due anni e mezzo dopo l’acquisto del titolo il risparmiatore aveva comunque incassato
i relativi interessi, tale condotta esprimeva in modo implicito, ma pur sempre chiaro ed univoco, la volontà della parte di convalidare tacitamente il negozio annullabile, ai sensi dell’art. 1444 Codice civile.
Esclusa dunque la nullità e l’annullabilità del contratto finanziario, il tribunale è passato ad esaminare la responsabilità per inadempimento della banca intermediaria, osservando: «L’attore ha dedotto, del tutto genericamente,
la situazione di conflitto di interessi in capo alla [banca]
nella negoziazione del titolo argentino in quanto detenuto dalla banca nel proprio portafoglio, richiamando l’art.
21, lett. c), del t.u.i.f. (a norma del quale i soggetti abilitati devono «organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di
conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clien-
798
I CONTRATTI N. 8-9/2005
ti trasparenza ed equo trattamento») e l’art. 27 del reg.
Consob («Gli intermediari autorizzati non possono effettuare operazioni con o per conto della propria clientela se
hanno direttamente o indirettamente un interesse in
conflitto, anche derivante da rapporti di gruppo, dalla
prestazione congiunta di più servizi o da altri rapporti di
affari propri o di società del gruppo, a meno che non abbiano preventivamente informato per iscritto l’investitore sulla natura e l’estensione del loro interesse nell’operazione e l’investitore non abbia acconsentito espressamente per iscritto all’effettuazione dell’operazione»).
Questo profilo della domanda è infondato. È necessario
premettere che la negoziazione per conto proprio - che
consiste nell’attività di acquisto (per la rivendita) e di
vendita per conto proprio di strumenti finanziari, con lo
scopo per la banca di realizzare una differenza (spread) tra
prezzi di acquisto e quelli di vendita - è attività legittima
e regolamentata dall’ordinamento (v. art. 1, quinto comma, lett. a), del t.u.i.f. e art. 32, quinto comma, del reg.
Consob) e, pertanto, non integra di per sé un’attività in
conflitto di interessi. La Consob, nella Comunicazione
n. DAL/97006042 del 9 luglio 1997, ha chiarito che
«una ipotesi di conflitto di interessi non può essere individuata - a priori - in tutti i casi in cui l’intermediario negozia in contropartita diretta con la propria clientela
strumenti finanziari».
Nel caso in esame, dal fissato bollato risulta e (...) che la
[banca] ha venduto il bond argentino al [risparmiatore]
senza applicare alcuna commissione, nell’ambito di una
negoziazione in conto proprio disciplinata dall’art. 32,
quinto comma, del reg. Consob più volte citato («Nella
prestazione del servizio di negoziazione per conto proprio
gli intermediari autorizzati comunicano all’investitore,
all’atto della ricezione dell’ordine, il prezzo al quale sono
disposti a comprare o a vendere gli strumenti finanziari
ed eseguono la negoziazione contestualmente all’assenso
dell’investitore; sul prezzo pattuito non possono applicare alcuna commissione»). La circostanza (peraltro non
dimostrata) che la banca già detenesse il titolo nel proprio portafoglio (...) non è di per sé decisiva per ravvisare un conflitto di interessi, poiché, nelle negoziazioni
eseguite per conto proprio, l’intermediario, agendo in
qualità di dealer, può «preleva(re) il titolo dal proprio
portafoglio» (v. Comunicazione Consob n.
DI/99014081 del 1° marzo 1999) (...).
L’attore, inoltre, ha dedotto l’inadempimento della
(banca) alla c.d. suitability rule, in base alle quale essa
avrebbe dovuto informarlo della non-adeguatezza dell’investimento, con la conseguenza che deve ritenersi responsabile del danno cagionato, ai sensi dell’art. 21, lett.
a) (che impone ai soggetti abilitati, ai sensi dell’art. 1
lett. r), di «comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei
mercati») e lett. b) (di «acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre
adeguatamente informati») del t.u.i.f. La domanda sul
punto è fondata.
GIURISPRUDENZA•SINTESI
In attuazione delle sopra citate disposizioni del t.u.i.f.,
il reg. Consob n. 11522/1998 ha previsto l’obbligo dei
soggetti abilitati di «chiedere all’investitore notizie circa la sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i suoi
obiettivi di investimento, nonché circa la sua propensione al rischio» e di consegnargli «il documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari» (art. 28, primo comma e All. n. 3). Si è già detto
che il (risparmiatore) dichiarò di avere una esperienza
finanziaria «approfondita» ed una propensione al rischio «alta», mentre nessuna informazione gli fu chiesta (né fu data) in ordine alla «sua situazione finanziaria» ed ai «suoi obiettivi di investimento». Pertanto, da
un lato, il suddetto documento (peraltro privo di data)
sottoscritto dal (risparmiatore) sui rischi generali degli
investimenti (...), non corrisponde alle caratteristiche
richieste dalla normativa citata. Dall’altro lato, soprattutto, la M.P.S. è stata inadempiente all’obbligo di fornire all’investitore «informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia necessaria per
effettuare consapevoli scelte di investimento o disinvestimento» (art. 28, secondo comma, del reg. Consob).
È costante, infatti, in giurisprudenza l’affermazione che
non vale ad assicurare l’adempimento degli obblighi
informativi a carico della banca «la circostanza che agli
investitori sia stato consegnato il documento sui rischi
generali degli investimenti finanziari, trattandosi di
informativa del tutto generica che non garantisce quella conoscenza concreta ed effettiva del titolo negoziato
che l’intermediario deve assicurare in modo da rendere
il cliente capace di tutelare il proprio interesse e di assumersi consapevolmente i rischi dell’investimento
compiuto» (v., in tal senso, Trib. Roma 27 ottobre
2004, n. 29207, citata).
La banca non è mero e passivo esecutore degli ordini di
acquisto del cliente ma ha il preciso obbligo di informarlo delle caratteristiche specifiche dell’operazione (comunicandogli e spiegandogli, tra l’altro, il grado di affidabilità del titolo secondo le agenzie di rating) e della eventuale non-adeguatezza dell’investimento richiesto, come
previsto dall’art. 29, primo comma, del reg. Consob, che
pone a carico degli intermediari l’obbligo di astenersi
«dall’effettuare con o per conto degli investitori operazioni non adeguate per tipologia, frequenza o dimensione». Se è vero che, a tal fine, gli intermediari «tengono
conto delle informazioni» ricevute preventivamente sui
rischi generali del cliente «e di ogni altra informazione
disponibile» (v. art. 29, secondo comma), è anche vero
che la non-adeguatezza dell’operazione deve essere comunque segnalata dagli intermediari, i quali devono fornire a qualsiasi investitore chiare informazioni anche
delle «ragioni per cui non è opportuno procedere alla sua
esecuzione» e solo «qualora l’investitore intenda comunque dare corso all’operazione … possono eseguire
l’operazione stessa solo sulla base di un ordine impartito
per iscritto» (art. 29, terzo comma). Ciò che può mutare
è soltanto il quomodo dell’assolvimento dei suddetti obblighi informativi: le modalità di acquisizione dal cliente delle informazioni relative alla sua situazione finanziaria od ai suoi obiettivi di investimento, nonché le modalità di esplicitazione delle informazioni sull’esistenza di
interessi in conflitto, sulle caratteristiche e sull’adeguatezza della specifica operazione richiesta, ben possono
variare a seconda che l’intermediario abbia a che fare
con un investitore occasionale ovvero con un risparmiatore aduso all’impiego del denaro in valori mobiliari oppure ancora con un esperto speculatore. È significativo
che l’obbligo degli intermediari di valutare l’adeguatezza
dell’operazione non viene meno nemmeno nel caso in
cui il cliente abbia rifiutato di fornire le informazioni sulla propria situazione patrimoniale o finanziaria, sugli
obiettivi di investimento e sulla propensione al rischio
(v. Comunicazione Consob n. DI/30396 del 21 aprile
2000). Né, del resto, é dimostrato il possesso da parte del
(risparmiatore) di quei requisiti di particolare professionalità nel settore finanziario richiesti dalla (successiva)
direttiva del 21 aprile 2004/39/CE (All. II) ai fini dell’attenuazione del livello di protezione dei risparmiatori
e, quindi, degli obblighi informativi in capo agli intermediari.
L’inadempimento della banca ha concorso in modo determinante alla perdita del capitale investito, che il [risparmiatore] avrebbe potuto evitare qualora fosse stato
adeguatamente informato delle caratteristiche specifiche e, di conseguenza, della non-adeguatezza dell’investimento nel titolo argentino (il cui rating era «insufficiente» già nel giugno 1999). La possibile obiezione secondo cui non vi sarebbe certezza che, nel giugno
1999, egli avrebbe evitato quell’investimento qualora
fosse stato adeguatamente informato, non coglie nel
segno. Infatti, il comportamento della banca dev’essere
qui valutato in executivis, cioè sotto il profilo dell’inadempimento alle obbligazioni ormai assunte con il
contratto, sebbene (quello di acquisto del titolo) sia
stipulato nella forma (che, a prima vista, potrebbe ricordare la fattispecie di cui all’art. 1327 Codice civile)
dell’accettazione implicita mediante l’esecuzione dell’ordine del cliente da parte della banca (come si desume dall’art. 4 n. 5 della direttiva 2004/39/CE, che individua nella «esecuzione di ordini per conto dei clienti»
il momento della «conclusione di accordi di acquisto o
di vendita di uno o più strumenti finanziari per conto
dei clienti»). Ciò, infatti, non impedisce di distinguere
teoricamente la fase formativa del consenso negoziale
da quella di adempimento del contratto, come nel caso
della violazione degli obblighi informativi veicolati ex
art. 1374 Codice civile nel negozio (sia esso quello c.d.
generale o quello di acquisto del singolo titolo). Non
bisogna chiedersi se il [risparmiatore] avrebbe o meno
contrattato, come se dovessimo valutare l’esistenza di
un vizio nella formazione del consenso negoziale. L’esistenza di un tale vizio è stata già esclusa secondo i seve-
I CONTRATTI N. 8-9/2005
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GIURISPRUDENZA•SINTESI
ri parametri codicistici. E tuttavia ciò non esclude affatto la rilevanza causale dell’accertato inadempimento
della banca nella produzione del danno lamentato. Da
un lato, per l’illegittima compressione della libertà di
autodeterminazione negoziale subita dal (risparmiatore) nella scelta dell’investimento adeguato (anche sotto il profilo della sua mera convenienza economica).
Dall’altro lato, per la lesione del suo interesse (creditorio) alla conservazione dell’integrità patrimoniale, cui
dev’essere ragguagliata la valutazione economica (ex
art. 1174 Codice civile) della prestazione inadempiuta
dalla banca avente ad oggetto gli obblighi informativi
nei confronti degli investitori. Il nesso causale tra inadempimento contrattuale e danno è accertato, non
avendo, del resto, la M.P.S. - sulla quale (nell’interpretazione data da una dottrina all’art. 23, sesto comma,
del t.u.i.f.) ricadeva l’onere - offerto alcuna concreta e
specifica allegazione (e prova) contraria.
Inoltre, è importante considerare che la banca era tenuta ad informare il cliente sull’andamento del titolo anche successivamente al suo acquisto. Non soltanto in base al principio generale di buona fede nell’esecuzione del
contratto (artt. 1175 e 1375 Codice civile) ma anche in
base a specifiche disposizioni normative. L’art. 21, lett.
b), del t.u.i.f. (che costituisce norma primaria rispetto al
regolamento Consob), nell’imporre agli intermediari di
«operare in modo che (i clienti) siano sempre adeguatamente informati», al fine di consentire ad essi di effettuare «consapevoli scelte di investimento o disinvestimento» (art. 28, secondo comma, del reg. Consob), si riferisce ai servizi di investimento indicati all’art. 1, quinto comma, del t.u.i.f. senza alcuna distinzione tra le varie
tipologie di servizi (tra cui rientrano anche le negoziazioni di strumenti finanziari per conto proprio e di terzi).
Nessuna informazione la banca ha dato al cliente del
crollo del titolo argentino a partire dal mese di ottobre
del 1999 in cui fu declassato da Moody’s in categoria B1
(affidabilità «bassa») e nemmeno dopo il marzo 2001
quando fu declassato anche da Standard&Poor’s ed ulteriormente da Moody’s (in categoria B2)».
I precedenti
Circa gli effetti dell’omessa informazione, da parte dell’intermediario finanziario, sui rischi dell’investimento,
si segnala un contrasto in giurisprudenza. Secondo un
primo orientamento, poiché l’obbligo di informazione
è sancito dall’art. 21 t.u.i.f. (D.Lgs. n. 58/98), la sua
violazione costituisce una ipotesi di nullità del contratto per contrarietà a norme imperative (Trib. di Mantova 18 marzo 2004, in questa Rivista, 2004, 7, 717, in nota alla quale già si diede conto delle perplessità sollevate dalla tesi della nullità del contratto per difetto di
informazione).
Secondo altro e più corretto orientamento, cui aderisce
la sentenza qui in rassegna, invece, l’omessa informazione da parte dell’intermediario finanziario costituisce una
ordinaria ipotesi di inadempimento degli obblighi con-
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trattuali, con quanto ne consegue sul piano della risolubilità del contratto e del risarcimento del danno.
La seconda delle massime di cui in epigrafe si uniforma
al decisum di Cass., sez. III, 22 marzo 1993, n. 3378, in
Giust. civ., 1994, I, 1997, con nota di Buccini, sentenza
che sebbene relativa a fattispecie del tutto diversa, ha
espressamente affermato che la parte la quale chieda
l’annullamento del contratto per errore non può limitarsi ad affermare la qualità essenziale di quel vizio, ma ha
l’onere di dedurre e provare, in caso di contestazione, i
fatti dai quali tale qualità risulta.
Sulla terza delle massime di cui in epigrafe non constano
precedenti editi su fattispecie analoga. È, tuttavia, pacifico che la convalida del contratto annullabile possa avvenire in modo tacito, a condizione che la condotta tacita sia inequivocabile: in tal senso Cass., sez. III, 27 marzo 2001, n. 4441, in Rep. Foro it., 2001, Contratto in genere, n. 462, secondo cui l’esecuzione volontaria, che dà
luogo alla convalida tacita del contratto annullabile, ai
sensi dell’art. 1444, secondo comma, Codice civile, consiste in un comportamento negoziale, il quale si risolve
in un’attività che, tendendo a realizzare la situazione che
si sarebbe dovuta determinare per effetto del negozio annullabile, presuppone per implicito una volontà incompatibile con quella di chiedere l’annullamento; elemento rivelatore della volontà di convalidare il contratto
può essere qualsiasi comportamento attinente all’esecuzione del contratto, cioè non soltanto quello di stretto
adempimento proprio del soggetto passivo di un’obbligazione nascente dal contratto stesso, ma anche quello posto in essere dalla controparte di accettazione ed adesione alla prestazione dell’obbligato.
La quarta delle massime di cui in epigrafe sembra aprire
un contrasto proprio in seno al tribunale di Roma: in
precedenza, infatti, era stato il medesimo ufficio giudiziario a ritenere che l’esecuzione, da parte di una banca, di
una operazione in presenza di un conflitto di interessi,
tale da potersi risolvere in un vantaggio «anche solo potenziale» della banca a scapito del cliente, costituisce
negligenza ed imperizia nell’esecuzione del mandato, e
dunque inadempimento (Trib. Roma 18 febbraio 2002,
in Danno e resp., 2003, 291, con nota di Afferni).
Infine, l’ultima delle massime di cui in epigrafe si uniforma ad un orientamento ormai consolidato, secondo il
quale: (a) l’intermediario finanziario ha l’obbligo di ottenere un vero e proprio «consenso informato» dal risparmiatore, mettendolo al corrente di tutte le caratteristiche dell’investimento; (b) la prova dell’adempimento di
tale obbligo di informazione, che grava sulla banca, non
può essere assolta semplicemente producendo il foglio
informativo sottoscritto dal cliente, se tale strumento
informativo non è adeguato rispetto agli effettivi rischi
dell’operazione, ovvero alle condizioni soggettive del
cliente, tali da imporre una più approfondita informazione (in tal senso, ex multis, Trib. Brindisi 26 febbraio
2004, in Foro it., 2004, I, 1561; Trib. Roma 18 febbraio
2002, in Danno e resp., 2003, 291).
NORMATIVA•PROPRIETÀ IMMOBILIARE
Il D.Lgs. di tutela degli acquirenti
di immobili in costruzione
Decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122 - Disposizioni per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, a norma della Legge 2 agosto 2004, n. 210
(G.U. 6 luglio 2005, n. 155, Serie Generale)
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;
Vista la legge 2 agosto 2004, n. 210, recante delega al
Governo per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire;
Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 18 febbraio 2005;
Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica;
Ritenuto di accogliere le osservazioni formulate dalle
Commissioni parlamentari, ad eccezione di quelle aventi ad oggetto questioni meramente formali o non conformi con i principi espressi dalla legge di delegazione;
Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 10 giugno 2005;
Sulla proposta del Ministro della giustizia, di concerto
con il Ministro dell’economia e delle finanze, con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, con il Ministro
del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro delle
attività produttive;
Emana
il seguente decreto legislativo:
Art. 1
Definizioni
1. Ai fini del presente decreto devono intendersi:
a) per «acquirente»: la persona fisica che sia promissoria
acquirente o che acquisti un immobile da costruire, ovvero che abbia stipulato ogni altro contratto, compreso
quello di leasing, che abbia o possa avere per effetto l’acquisto o comunque il trasferimento non immediato, a sè
o ad un proprio parente in primo grado, della proprietà o
della titolarità di un diritto reale di godimento su di un
immobile da costruire, ovvero colui il quale, ancorchè
non socio di una cooperativa edilizia, abbia assunto obbligazioni con la cooperativa medesima per ottenere l’assegnazione in proprietà o l’acquisto della titolarità di un
diritto reale di godimento su di un immobile da costruire per iniziativa della stessa;
b) per «costruttore»: l’imprenditore o la cooperativa edilizia che promettano in vendita o che vendano un immobile da costruire, ovvero che abbiano stipulato ogni
altro contratto, compreso quello di leasing, che abbia o
possa avere per effetto la cessione o il trasferimento non
immediato in favore di un acquirente della proprietà o
della titolarità di un diritto reale di godimento su di un
immobile da costruire, sia nel caso in cui lo stesso venga
edificato direttamente dai medesimi, sia nel caso in cui
la realizzazione della costruzione sia data in appalto o comunque eseguita da terzi;
c) per «situazione di crisi»: la situazione che ricorre nei
casi in cui il costruttore sia sottoposto o sia stato sottoposto ad esecuzione immobiliare, in relazione all’immobile oggetto del contratto, ovvero a fallimento, amministrazione straordinaria, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa;
d) per «immobili da costruire»: gli immobili per i quali
sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere
stata ultimata versando in stadio tale da non consentire
ancora il rilascio del certificato di agibilità.
Art. 2
Garanzia fideiussoria
1. All’atto della stipula di un contratto che abbia come
finalità il trasferimento non immediato della proprietà o
di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità, ovvero
in un momento precedente, il costruttore è obbligato, a
pena di nullità del contratto che può essere fatta valere
unicamente dall’acquirente, a procurare il rilascio ed a
consegnare all’acquirente una fideiussione, anche secondo quanto previsto dall’articolo 1938 del Codice civile, di importo corrispondente alle somme e al valore di
ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha
riscosso e, secondo i termini e le modalità stabilite nel
contratto, deve ancora riscuotere dall’acquirente prima
del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di
godimento. Restano comunque esclusi le somme per le
quali è pattuito che debbano essere erogate da un soggetto mutuante, nonchè i contributi pubblici già assistiti da autonoma garanzia.
2. Per le società cooperative, l’atto equipollente a quello
indicato al comma 1 consiste in quello con il quale siano state versate somme o assunte obbligazioni con la
cooperativa medesima per ottenere l’assegnazione in
proprietà o l’acquisto della titolarità di un diritto reale di
godimento su di un immobile da costruire per iniziativa
della stessa.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
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NORMATIVA•PROPRIETÀ IMMOBILIARE
Art. 3
Rilascio, contenuto e modalità di escussione
della fideiussione
1. La fideiussione è rilasciata da una banca, da un’impresa esercente le assicurazioni o da intermediari finanziari
iscritti nell’elenco speciale di cui all’articolo 107 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di
cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e
successive modificazioni; essa deve garantire, nel caso in
cui il costruttore incorra in una situazione di crisi di cui
al comma 2, la restituzione delle somme e del valore di
ogni altro eventuale corrispettivo effettivamente riscossi
e dei relativi interessi legali maturati fino al momento in
cui la predetta situazione si è verificata.
2. La situazione di crisi si intende verificata in una delle
seguenti date:
a) di trascrizione del pignoramento relativo all’immobile oggetto del contratto;
b) di pubblicazione della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa;
c) di presentazione della domanda di ammissione alla
procedura di concordato preventivo;
d) di pubblicazione della sentenza che dichiara lo stato
di insolvenza o, se anteriore, del decreto che dispone la
liquidazione coatta amministrativa o l’amministrazione
straordinaria.
3. La fideiussione può essere escussa a decorrere dalla data in cui si è verificata la situazione di crisi di cui al comma 2 a condizione che, per l’ipotesi di cui alla lettera a)
del medesimo comma, l’acquirente abbia comunicato al
costruttore la propria volontà di recedere dal contratto e,
per le ipotesi di cui alle lettere b), c) e d) del comma 2, il
competente organo della procedura concorsuale non abbia comunicato la volontà di subentrare nel contratto
preliminare.
4. La fideiussione deve prevedere la rinuncia al beneficio
della preventiva escussione del debitore principale di cui
all’articolo 1944, secondo comma, del codice civile e deve essere escutibile, verificatesi le condizioni di cui al
comma 3, a richiesta scritta dell’acquirente, corredata da
idonea documentazione comprovante l’ammontare delle somme e il valore di ogni altro eventuale corrispettivo
che complessivamente il costruttore ha riscosso, da inviarsi al domicilio indicato dal fideiussore a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
5. Il mancato pagamento del premio o della commissione non è opponibile all’acquirente.
6. Il fideiussore è tenuto a pagare l’importo dovuto entro
il termine di trenta giorni dalla data di ricevimento della richiesta di cui al comma 4. Qualora la restituzione degli importi oggetto di fideiussione non sia eseguita entro
il suddetto termine, il fideiussore è tenuto a rimborsare
all’acquirente le spese da quest’ultimo effettivamente sostenute e strettamente necessarie per conseguire la detta
restituzione, oltre i relativi interessi.
7. L’efficacia della fideiussione cessa al momento del
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I CONTRATTI N. 8-9/2005
trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di
godimento sull’immobile o dell’atto definitivo di assegnazione.
Art. 4
Assicurazione dell’immobile
1. Il costruttore è obbligato a contrarre ed a consegnare
all’acquirente all’atto del trasferimento della proprietà
una polizza assicurativa indennitaria decennale a beneficio dell’acquirente e con effetto dalla data di ultimazione dei lavori a copertura dei danni materiali e diretti all’immobile, compresi i danni ai terzi, cui sia tenuto ai
sensi dell’articolo 1669 del codice civile, derivanti da rovina totale o parziale oppure da gravi difetti costruttivi
delle opere, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, e comunque manifestatisi successivamente alla
stipula del contratto definitivo di compravendita o di assegnazione.
Art. 5
Applicabilità della disciplina
1. La disciplina prevista dagli articoli 2, 3 e 4 si applica ai
contratti aventi ad oggetto il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento
di immobili per i quali il permesso di costruire o altra denuncia o provvedimento abilitativo sia stato richiesto
successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto.
Art. 6
Contenuto del contratto preliminare
1. Il contratto preliminare ed ogni altro contratto che ai
sensi dell’articolo 2 sia comunque diretto al successivo
acquisto in capo ad una persona fisica della proprietà o di
altro diritto reale su un immobile oggetto del presente
decreto devono contenere:
a) le indicazioni previste agli articoli 2659, primo comma, n. 1), e 2826 del Codice civile;
b) la descrizione dell’immobile e di tutte le sue pertinenze di uso esclusivo oggetto del contratto;
c) gli estremi di eventuali atti d’obbligo e convenzioni
urbanistiche stipulati per l’ottenimento dei titoli abilitativi alla costruzione e l’elencazione dei vincoli previsti;
d) le caratteristiche tecniche della costruzione, con particolare riferimento alla struttura portante, alle fondazioni, alle tamponature, ai solai, alla copertura, agli infissi
ed agli impianti;
e) i termini massimi di esecuzione della costruzione, anche eventualmente correlati alle varie fasi di lavorazione;
f) l’indicazione del prezzo complessivo da corrispondersi
in danaro o il valore di ogni altro eventuale corrispettivo, i termini e le modalità per il suo pagamento, la specificazione dell’importo di eventuali somme a titolo di
caparra; le modalità di corresponsione del prezzo devono
essere rappresentate da bonifici bancari o versamenti diretti su conti correnti bancari o postali indicati dalla par-
NORMATIVA•PROPRIETÀ IMMOBILIARE
te venditrice ed alla stessa intestati o da altre forme che
siano comunque in grado di assicurare la prova certa dell’avvenuto pagamento;
g) gli estremi della fideiussione di cui all’articolo 2;
h) l’eventuale esistenza di ipoteche o trascrizioni pregiudizievoli di qualsiasi tipo sull’immobile con la specificazione del relativo ammontare, del soggetto a cui favore
risultano e del titolo dal quale derivano, nonchè la pattuizione espressa degli obblighi del costruttore ad esse
connessi e, in particolare, se tali obblighi debbano essere
adempiuti prima o dopo la stipula del contratto definitivo di vendita;
i) gli estremi del permesso di costruire o della sua richiesta se non ancora rilasciato, nonchè di ogni altro titolo,
denuncia o provvedimento abilitativo alla costruzione;
l) l’eventuale indicazione dell’esistenza di imprese appaltatrici, con la specificazione dei relativi dati identificativi.
2. Agli stessi contratti devono essere allegati:
a) il capitolato contenente le caratteristiche dei materiali da utilizzarsi, individuati anche solo per tipologie,
caratteristiche e valori omogenei, nonchè l’elenco delle
rifiniture e degli accessori convenuti fra le parti;
b) gli elaborati del progetto in base al quale è stato richiesto o rilasciato il permesso di costruire o l’ultima variazione al progetto originario, limitatamente alla rappresentazione grafica degli immobili oggetto del contratto, delle relative pertinenze esclusive e delle parti condominiali.
3. Sono fatte salve le disposizioni di cui al regio decreto
28 marzo 1929, n. 499.
Art. 7
Modificazioni all’articolo 39 del decreto legislativo
1° settembre 1993, n. 385
1. All’articolo 39 del testo unico delle leggi in materia
bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) Il comma 6 è sostituito dal seguente: «6. In caso di
edificio o complesso condominiale per il quale può ottenersi l’accatastamento delle singole porzioni che lo costituiscono, ancorchè in corso di costruzione, il debitore,
il terzo acquirente, il promissario acquirente o l’assegnatario del bene ipotecato o di parte dello stesso, questi ultimi limitatamente alla porzione immobiliare da essi acquistata o promessa in acquisto o in assegnazione, hanno
diritto alla suddivisione del finanziamento in
quote e, correlativamente, al frazionamento dell’ipoteca
a garanzia.»;
b) dopo il comma 6 sono inseriti i seguenti:
«6-bis. La banca deve provvedere agli adempimenti di
cui al comma 6 entro il termine di novanta giorni dalla
data di ricevimento della richiesta di suddivisione del finanziamento in quote corredata da documentazione
idonea a comprovare l’identità del richiedente, la data
certa del titolo e l’accatastamento delle singole porzioni
per le quali è richiesta la suddivisione del finanziamento.
Tale termine è aumentato a centoventi giorni, se la richiesta riguarda un finanziamento da suddividersi in più
di cinquanta quote.
6-ter. Qualora la banca non provveda entro il termine
indicato al comma 6-bis, il richiedente può presentare ricorso al presidente del tribunale nella cui circoscrizione
è situato l’immobile; il presidente del tribunale, sentite
le parti, ove accolga il ricorso, designa un notaio che, anche avvalendosi di ausiliari, redige un atto pubblico di
frazionamento sottoscritto esclusivamente dal notaio
stesso. Dall’atto di suddivisione del finanziamento o dal
diverso successivo termine stabilito nel contratto di mutuo decorre, con riferimento alle quote frazionate, l’inizio dell’ammortamento delle somme erogate; di tale circostanza si fa menzione nell’atto stesso.
6-quater. Salvo diverso accordo delle parti, la durata dell’ammortamento è pari a quella originariamente fissata
nel contratto di mutuo e l’ammortamento stesso è regolato al tasso di interesse determinato in base ai criteri di
individuazione per il periodo di preammortamento immediatamente precedente. Il responsabile del competente Ufficio del territorio annota a margine dell’iscrizione ipotecaria il frazionamento del finanziamento e
della relativa ipoteca, l’inizio e la durata dell’ammortamento ed il tasso relativo.».
Art. 8
Obbligo di cancellazione o frazionamento dell’ipoteca
antecedente alla compravendita
1. Il notaio non può procedere alla stipula dell’atto di
compravendita se, anteriormente o contestualmente alla stipula, non si sia proceduto alla suddivisione del finanziamento in quote o al perfezionamento di un titolo
per la cancellazione o frazionamento dell’ipoteca a garanzia o del pignoramento gravante sull’immobile.
Art. 9
Diritto di prelazione
1. Qualora l’immobile sia stato consegnato all’acquirente e da questi adibito ad abitazione principale per sè o per
un proprio parente in primo grado, all’acquirente medesimo, anche nel caso in cui abbia escusso la fideiussione,
è riconosciuto il diritto di prelazione nell’acquisto dell’immobile al prezzo definitivo raggiunto nell’incanto
anche in esito alle eventuali offerte ai sensi dell’articolo
584 del codice di procedura civile.
2. Ai fini dell’esercizio del diritto di prelazione, l’autorità
che procede alla vendita dell’immobile provvede a dare
immediata comunicazione all’acquirente, con atto notificato a mezzo ufficiale giudiziario, della definitiva determinazione del prezzo entro dieci giorni dall’adozione del
relativo provvedimento, con indicazione di tutte le condizioni alle quali la vendita dovrà essere conclusa e l’invito ad esercitare la prelazione.
3. Il diritto di prelazione è esercitato dall’acquirente, a
pena di decadenza, entro il termine di dieci giorni dalla
data di ricezione della comunicazione di cui al comma 2
I CONTRATTI N. 8-9/2005
803
NORMATIVA•PROPRIETÀ IMMOBILIARE
offrendo, con atto notificato a mezzo ufficiale giudiziario
all’autorità che procede alla vendita dell’immobile, condizioni uguali a quelle comunicategli.
4. Qualora l’acquirente abbia acquistato l’immobile, per
effetto dell’esercizio del diritto di prelazione, ad un prezzo
inferiore alle somme riscosse in sede di escussione della fideiussione, la differenza deve essere restituita al fideiussore, qualora l’immobile acquistato abbia consistenza e caratteristiche tipologiche e di finitura corrispondenti a
quelle previste nel contratto stipulato con il costruttore.
Ove non ricorra tale condizione, l’eventuale eccedenza
da restituire al fideiussore deve risultare da apposita stima.
5. È escluso, in ogni caso, il diritto di riscatto nei confronti dell’aggiudicatario.
Art. 10
Esenzioni e limiti alla esperibilità dell’azione
revocatoria fallimentare
1. Gli atti a titolo oneroso che hanno come effetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento di immobili da costruire, nei quali l’acquirente si
impegni a stabilire, entro dodici mesi dalla data di acquisto o di ultimazione degli stessi, la residenza propria o di
suoi parenti o affini entro il terzo grado, se posti in essere al giusto prezzo da valutarsi alla data della stipula del
preliminare, non sono soggetti all’azione revocatoria
prevista dall’articolo 67 del regio decreto 16 marzo 1942,
n. 267, e successive modificazioni.
2. Non sono, altresì, soggetti alla medesima azione revocatoria i pagamenti dei premi e commissioni relativi ai
contratti di fideiussione e di assicurazione di cui agli articoli 3 e 4, qualora effettuati nell’esercizio dell’attività
d’impresa nei termini d’uso.
Art. 11
Introduzione dell’articolo 72-bis del regio decreto
16 marzo 1942, n. 267
1. Dopo l’articolo 72 del regio decreto 16 marzo 1942, n.
267, è inserito il seguente:
«72-bis. (Contratti relativi ad immobili da costruire). In
caso di situazione di crisi del costruttore ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera c), della Legge 2 agosto 2004, n.
210, il contratto si intende sciolto se, prima che il curatore comunichi la scelta tra esecuzione o scioglimento,
l’acquirente abbia escusso la fideiussione a garanzia della
restituzione di quanto versato al costruttore, dandone altresì comunicazione al curatore. In ogni caso, la fideiussione non può essere escussa dopo che il curatore abbia
comunicato di voler dare esecuzione al contratto.».
Art. 12
Istituzione e finalità del Fondo di solidarietà
per gli acquirenti di beni immobili da costruire
1. È istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze il Fondo di solidarietà per gli acquirenti di beni
immobili da costruire, di seguito denominato: «Fondo»,
al fine di assicurare un indennizzo, nell’ambito delle ri-
804
I CONTRATTI N. 8-9/2005
sorse del medesimo Fondo, agli acquirenti che, a seguito
dell’assoggettamento del costruttore a procedure implicanti una situazione di crisi, hanno subito la perdita di
somme di denaro o di altri beni e non hanno conseguito
il diritto di proprietà o altro diritto reale di godimento su
immobili oggetto di accordo negoziale con il costruttore
ovvero l’assegnazione in proprietà o l’acquisto della titolarità di un diritto reale di godimento su immobili da costruire per iniziativa di una cooperativa.
2. Ai fini dell’accesso alle prestazioni del Fondo, devono
risultare nei confronti del costruttore, a seguito della sua
insolvenza, procedure implicanti una situazione di crisi
non concluse in epoca antecedente al 31 dicembre 1993
nè aperte in data successiva a quella di emanazione del
presente decreto.
3. L’accesso alle prestazioni del Fondo è consentito nei
casi in cui per il bene immobile risulti richiesto il permesso di costruire.
Art. 13
Requisiti per l’accesso alle prestazioni del Fondo
1. Per l’accesso alle prestazioni del Fondo devono ricorrere congiuntamente i seguenti requisiti oggettivi:
a) aver subito, a seguito dell’insorgenza di una situazione di crisi per effetto dell’insolvenza del costruttore,
perdite di somme di denaro versate o di altri beni trasferiti dall’acquirente al costruttore medesimo come corrispettivo per l’acquisto o l’assegnazione dell’immobile da
costruire;
b) non aver acquistato la proprietà o altro diritto reale di
godimento sull’immobile da costruire ovvero non averne conseguito l’assegnazione.
2. Il requisito di cui al comma 1, lettera b), non viene
meno per effetto dell’acquisto della proprietà o del conseguimento dell’assegnazione in virtù di accordi negoziali con gli organi della procedura concorsuale ovvero di
aggiudicazione di asta nell’ambito della medesima procedura ovvero, infine, da terzi aggiudicatari.
3. Nei casi di cui al comma 2 l’indennizzo spetta solo
qualora l’importo complessivo delle somme versate e del
valore dei beni corrisposti al costruttore e delle somme
versate per l’effettivo acquisto del bene sia superiore al
prezzo originariamente convenuto con il costruttore ed è
determinato in misura pari alla differenza tra il predetto
importo complessivo ed il prezzo originario, fino comunque a concorrenza delle somme versate e dei beni corrisposti al costruttore.
4. Danno luogo alle prestazioni del Fondo le situazioni di
perdita della proprietà del bene per effetto del successivo
positivo esperimento dell’azione revocatoria, soltanto nel
caso in cui essa sia stata promossa ai sensi dell’articolo 67,
secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267.
Art. 14
Struttura e funzionamento del Fondo
1. Il Fondo si articola in sezioni autonome corrispondenti ad aree territoriali interregionali individuate con il de-
NORMATIVA•PROPRIETÀ IMMOBILIARE
creto di cui all’articolo 16, sulla base della quantità e della provenienza territoriale delle richieste di indennizzo
presentate entro il termine di decadenza stabilito nell’articolo 18, comma 1, in modo da assicurare una gestione
equilibrata delle sezioni. L’articolazione in sezioni non
comporta un decentramento territoriale del Fondo.
2. Per ciascuna sezione autonoma è tenuta dal Fondo
una distinta contabilità, anche ai fini della rendicontazione periodica.
3. Gli oneri di gestione del Fondo sono contabilmente
ripartiti fra le sezioni autonome, in proporzione dell’ammontare delle risorse di cui ciascuna di esse dispone in
virtù dei contributi che le sono imputati ai sensi dell’articolo 17, comma 5.
4. Le risorse di ciascuna sezione, al netto degli oneri di
gestione, sono destinate alla soddisfazione delle richieste
di indennizzo dei soggetti aventi diritto in relazione agli
immobili ubicati nel territorio di competenza della sezione medesima. A tale fine il gestore del Fondo, entro sei
mesi dalla data di scadenza del termine di presentazione
delle richieste di indennizzo da parte degli aventi diritto,
salve le risultanze della successiva attività istruttoria, determina per ciascuna sezione l’ammontare massimo
complessivo delle somme da erogare a titolo di indennizzo e, quindi, sulla base delle risorse globalmente imputate a ciascuna sezione per effetto del versamento della prima annualità del contributo obbligatorio di cui all’articolo 17, la prima quota annuale di indennizzo da
erogare.
5. Le ulteriori quote annuali di indennizzo sono determinate in funzione delle variazioni della misura annua del
contributo, stabilita con il decreto di cui all’articolo 17,
comma 4, e del suo gettito effettivo, oltre che del decrescente ammontare residuo degli indennizzi da corrispondere.
6. In caso di integrale soddisfazione delle richieste degli
aventi diritto, anche prima della scadenza del termine
massimo di operatività del Fondo, le eventuali somme
residue di una sezione sono attribuite alle altre sezioni,
che non abbiano risorse
sufficienti, proporzionalmente all’ammontare residuo
degli indennizzi da corrispondersi da parte di ciascuna di
queste.
7. Il Fondo ha azione di regresso nei confronti del costruttore per il recupero dell’indennizzo corrisposto all’acquirente. A tale fine il Fondo si surroga nei diritti
dell’acquirente nell’ambito della procedura implicante
la situazione di crisi aperta nei confronti del costruttore, progressivamente in ragione e nei limiti delle somme corrisposte a titolo di indennizzo, nonchè dei relativi interessi e spese. L’indennizzato ha facoltà di agire
nell’ambito della procedura per l’eventuale residua parte del credito non soddisfatta dall’indennizzo ricevuto
dal Fondo.
8. Le somme recuperate dal Fondo ai sensi del comma 7
sono imputate alla sezione autonoma del Fondo che ha
erogato l’indennizzo.
Art. 15
Gestione del Fondo
1. La gestione del Fondo è attribuita alla CONSAP Concessionaria di servizi assicurativi pubblici S.p.a., che
vi provvede per conto del Ministero dell’economia e
delle finanze sulla base di apposita concessione, approvata con decreto del medesimo Ministero.
2. La concessione si conforma al principio di affidare alla CONSAP, quale concessionaria, la gestione di cassa e
patrimoniale del Fondo, la conservazione della sua integrità, la liquidazione delle relative spese, nonchè al principio di garantire la verifica periodica, da parte dell’amministrazione concedente, della corrispondenza della
gestione del Fondo alle finalità indicate dal presente decreto. Ai relativi oneri e alle spese di gestione si provvede nell’ambito delle risorse finanziarie del Fondo, senza
nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
3. Ai fini di cui al comma 2, la concessione definisce, tra
l’altro, le modalità di esercizio concernenti:
a) iniziative informative da assumersi ad opera del Fondo, con oneri a suo carico, al fine di garantire l’effettiva
fruizione dei benefici previsti dal presente decreto da
parte dei destinatari;
b) la rilevazione dei dati necessari per la definizione delle aree territoriali e delle corrispondenti sezioni autonome del Fondo, ai sensi dell’articolo 14, comma 1, nonchè per la determinazione annua della misura del contributo obbligatorio, di cui all’articolo 17, comma 4;
c) l’istruttoria delle richieste di indennizzo;
d) la liquidazione degli indennizzi e la loro erogazione,
anche tramite apposite convenzioni con le banche;
e) la ripetizione delle somme già erogate, nei casi di revoca o riforma dell’attribuzione, nonchè l’esercizio del
diritto di surroga previsto dall’articolo 14, comma 7;
f) la previsione dell’ammontare complessivo delle somme da destinare all’erogazione degli indennizzi, nonchè
al sostenimento degli oneri di gestione;
g) la destinazione ad investimenti a redditività certa ed
adeguata delle somme disponibili, compatibilmente con
le esigenze di liquidità del Fondo;
h) la presentazione al Ministero dell’economia e delle finanze, per il successivo inoltro alla Corte dei conti, del
rendiconto annuale, approvato dal Consiglio di amministrazione della concessionaria, accompagnato dalla situazione patrimoniale del Fondo e da una relazione sull’attività svolta.
4. La concessione stabilisce, altresì, le modalità di accreditamento alla CONSAP delle somme che affluiscono
al Fondo.
Art. 16
Ulteriore disciplina per la gestione del Fondo
1. Con decreto di natura non regolamentare del Ministro
della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e
delle finanze, sono definite le aree territoriali e le corrispondenti sezioni autonome del Fondo, tenuto conto dei
dati raccolti ed elaborati dal gestore del Fondo medesimo.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
805
NORMATIVA•PROPRIETÀ IMMOBILIARE
2. Possono altresì essere stabiliti ulteriori criteri e modalità per la concreta gestione del Fondo, con particolare riferimento all’attuazione di quanto previsto dall’articolo 14.
Art. 17
Contributo obbligatorio
1. Per reperire le risorse destinate al Fondo, è istituito un
contributo obbligatorio a carico dei costruttori tenuti all’obbligo di procurare il rilascio e di provvedere alla consegna della fideiussione di cui all’articolo 2; il contributo
è versato direttamente dal soggetto che rilascia la fideiussione.
2. Il contributo obbligatorio è dovuto per un periodo
massimo di quindici anni a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto ovvero, se antecedente,
sino alla data nella quale risultino acquisite al Fondo risorse sufficienti ad assicurare il soddisfacimento delle richieste di indennizzo presentate dagli aventi diritto. L’eventuale ricorrenza della predetta condizione per l’anticipata cessazione della debenza del contributo è accertata con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze.
3. Per la prima annualità la misura del contributo è fissata nel quattro per mille dell’importo complessivo di ciascuna fideiussione ed il versamento è effettuato, entro il
mese successivo a quello di rilascio della fideiussione,
con le modalità stabilite e rese pubbliche dal soggetto gestore del Fondo.
4. Per le annualità successive, la misura del contributo è
stabilita con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, entro il limite massimo del cinque per mille dell’importo
complessivo di ciascuna fideiussione; con il medesimo
decreto possono essere stabilite, altresì, modalità per il
versamento diverse o ulteriori rispetto a quelle fissate nel
comma 3.
5. Le somme versate a titolo di contributo obbligatorio
sono imputate alla sezione autonoma del Fondo nel cui
ambito territoriale è ubicato l’immobile oggetto di fideiussione.
6. Qualora il versamento del contributo obbligatorio
non avvenga entro il termine di cui al comma 3, sono
dovuti interessi di mora calcolati, a decorrere dal giorno
della scadenza del termine fino a comprendere quello
dell’effettivo versamento, al saggio di interesse legale.
7. I soggetti che rilasciano fideiussioni ai sensi dell’articolo 2 sono tenuti a trasmettere entro il 31 dicembre di
ogni anno al soggetto gestore del Fondo una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ai sensi dell’articolo 47
del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui
al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre
2000, n. 445, recante attestazione delle fideiussioni rilasciate, con indicazione dei dati dei soggetti interessati,
degli importi e degli estremi identificativi degli atti fideiussori.
806
I CONTRATTI N. 8-9/2005
Art. 18
Accesso alle prestazioni del Fondo ed istruttoria
sulle domande
1. La domanda di accesso alle prestazioni del Fondo deve essere presentata dagli aventi diritto, a pena di decadenza, entro il termine di sei mesi dalla data di pubblicazione del decreto di cui al comma 6.
2. Ciascun soggetto può ottenere dal Fondo l’indennizzo
una sola volta, anche nel caso in cui abbia subito più perdite in relazione a diverse e distinte situazioni di crisi. Gli
importi delle perdite indennizzabili sono rivalutati, in
base alle variazioni dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, alla data di entrata in vigore del presente decreto.
3. Il richiedente deve fornire la prova della sussistenza e
dell’entità della perdita. A tale fine costituisce prova anche il provvedimento che ha definitivamente accertato
il credito in sede concorsuale.
4. Nello svolgimento dell’attività istruttoria il gestore
del Fondo, al fine di determinare criteri di valutazione
uniformi in merito a situazioni e documentazioni ricorrenti, può acquisire il parere di un apposito comitato, costituito con il decreto di cui al comma 6 e composto da
rappresentanti del Ministero della giustizia, del Ministero dell’economia e delle finanze, del Ministero delle attività produttive e delle categorie interessate.
5. Il gestore del Fondo, all’esito dell’istruttoria, nei termini stabiliti in sede di concessione, delibera il riconoscimento dell’indennità e la relativa liquidazione ovvero
la reiezione della richiesta.
6. Con decreto del Ministero della giustizia, di concerto
con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono dettate disposizioni relative alle modalità, anche telematiche, di presentazione della domanda ed al contenuto
della documentazione da allegare a questa, nonchè in
merito allo svolgimento dell’attività istruttoria di cui al
presente articolo.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà
inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana.
È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo
osservare.
Per un primo commento al decreto cfr. C. Leo, Le
nuove norme a tutela degli acquirenti degli immobili
da costruire, retro, 745 ss.
NORMATIVA•AMMINISTRAZIONE DIGITALE
D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82:
il Codice dell’amministrazione digitale
Decreto legislativo 7 marzo 2005 n. 82 - Codice dell’amministrazione digitale
(G.U. n. 112, 16 maggio 2005, Supplemento Ordinario)
Stralcio
Capo II
DOCUMENTO INFORMATICO E FIRME
ELETTRONICHE; PAGAMENTI,
LIBRI E SCRITTURE
Sezione I
Documento informatico
Art. 20
Documento informatico
1. Il documento informatico da chiunque formato, la registrazione su supporto informatico e la trasmissione con
strumenti telematici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge, se conformi alle disposizioni del presente
codice ed alle regole tecniche di cui all’articolo 71.
2. Il documento informatico sottoscritto con firma elettronica qualificata o con firma digitale soddisfa il requisito legale della forma scritta se formato nel rispetto delle regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71 che
garantiscano l’identificabilità dell’autore e l’integrità del
documento.
3. Le regole tecniche per la trasmissione, la conservazione, la duplicazione, la riproduzione e la validazione temporale dei documenti informatici sono stabilite ai sensi
dell’articolo 71; la data e l’ora di formazione del documento informatico sono opponibili ai terzi se apposte in
conformità alle regole tecniche sulla validazione temporale.
4. Con le medesime regole tecniche sono definite le misure tecniche, organizzative e gestionali volte a garantire
l’integrità, la disponibilità e la riservatezza delle informazioni contenute nel documento informatico.
5. Restano ferme le disposizioni di legge in materia di
protezione dei dati personali.
Art. 21
Valore probatorio del documento informatico sottoscritto
1. Il documento informatico, cui è apposta una firma
elettronica, sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza.
2. Il documento informatico, sottoscritto con firma digitale o con un altro tipo di firma elettronica qualificata,
ha l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del Codice civi-
le. L’utilizzo del dipositivo di firma si presume riconducibile al titolare, salvo che sia data prova contraria.
3. L’apposizione ad un documento informatico di una firma digitale o di un altro tipo di firma elettronica qualificata basata su un certificato elettronico revocato, scaduto o sospeso equivale a mancata sottoscrizione. La revoca o la sospensione, comunque motivate, hanno effetto
dal momento della pubblicazione, salvo che il revocante, o chi richiede la sospensione, non dimostri che essa
era già a conoscenza di tutte le parti interessate.
4. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche se la firma elettronica è basata su un certificato qualificato rilasciato da un certificatore stabilito in uno Stato non facente parte dell’Unione europea, quando ricorre una delle seguenti condizioni:
a) il certificatore possiede i requisiti di cui alla direttiva
1999/93/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
13 dicembre 1999, ed è accreditato in uno Stato membro;
b) il certificato qualificato è garantito da un certificatore
stabilito nella Unione europea, in possesso dei requisiti
di cui alla medesima direttiva;
c) il certificato qualificato, o il certificatore, è riconosciuto in forza di un accordo bilaterale o multilaterale tra
l’Unione europea e Paesi terzi o organizzazioni internazionali.
5. Gli obblighi fiscali relativi ai documenti informatici
ed alla loro riproduzione su diversi tipi di supporto sono
assolti secondo le modalità definite con uno o più decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, sentito il
Ministro delegato per l’innovazione e le tecnologie.
Art. 22
Documenti informatici delle pubbliche amministrazioni
1. Gli atti formati con strumenti informatici, i dati e i
documenti informatici delle pubbliche amministrazioni
costituiscono informazione primaria ed originale da cui è
possibile effettuare, su diversi tipi di supporto, riproduzioni e copie per gli usi consentiti dalla legge.
2. Nelle operazioni riguardanti le attività di produzione,
immissione, conservazione, riproduzione e trasmissione
di dati, documenti ed atti amministrativi con sistemi
informatici e telematici, ivi compresa l’emanazione degli
atti con i medesimi sistemi, devono essere indicati e resi
facilmente individuabili sia i dati relativi alle amministrazioni interessate, sia il soggetto che ha effettuato l’operazione.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
807
NORMATIVA•AMMINISTRAZIONE DIGITALE
3. Le copie su supporto informatico di documenti formati in origine su altro tipo di supporto sostituiscono, ad
ogni effetto di legge, gli originali da cui sono tratte, se la
loro conformità all’originale è assicurata dal funzionario
a ciò delegato nell’ambito dell’ordinamento proprio dell’amministrazione di appartenenza, mediante l’utilizzo
della firma digitale e nel rispetto delle regole tecniche
stabilite ai sensi dell’articolo 71.
4. Le regole tecniche in materia di formazione e conservazione di documenti informatici delle pubbliche amministrazioni sono definite ai sensi dell’articolo 71, di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali,
nonché d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281,
e sentito il Garante per la protezione dei dati personali.
Art. 23
Copie di atti e documenti informatici
1. All’articolo 2712 del Codice civile dopo le parole: «riproduzioni fotografiche» è inserita la seguente: «informatiche».
2. I duplicati, le copie, gli estratti del documento informatico, anche se riprodotti su diversi tipi di supporto, sono validi a tutti gli effetti di legge, se conformi alle vigenti regole tecniche.
3. I documenti informatici contenenti copia o riproduzione di atti pubblici, scritture private e documenti in genere, compresi gli atti e documenti amministrativi di
ogni tipo, spediti o rilasciati dai depositari pubblici autorizzati e dai pubblici ufficiali, hanno piena efficacia, ai
sensi degli articoli 2714 e 2715 del Codice civile, se ad
essi è apposta o associata, da parte di colui che li spedisce
o rilascia, una firma digitale o altra firma elettronica qualificata.
4. Le copie su supporto informatico di documenti originali non unici formati in origine su supporto cartaceo o,
comunque, non informatico sostituiscono, ad ogni effetto di legge, gli originali da cui sono tratte se la loro
conformità all’originale è assicurata dal responsabile della conservazione mediante l’utilizzo della propria firma
digitale e nel rispetto delle regole tecniche di cui all’articolo 71.
5. Le copie su supporto informatico di documenti, originali unici, formati in origine su supporto cartaceo o, comunque, non informatico sostituiscono, ad ogni effetto
di legge, gli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale è autenticata da un notaio o da altro
pubblico ufficiale a ciò autorizzato, con dichiarazione allegata al documento informatico e asseverata secondo le
regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71.
6. La spedizione o il rilascio di copie di atti e documenti
di cui al comma 3, esonera dalla produzione e dalla esibizione dell’originale formato su supporto cartaceo
quando richieste ad ogni effetto di legge.
7. Gli obblighi di conservazione e di esibizione di documenti previsti dalla legislazione vigente si intendono
soddisfatti a tutti gli effetti di legge a mezzo di documen-
808
I CONTRATTI N. 8-9/2005
ti informatici, se le procedure utilizzate sono conformi
alle regole tecniche dettate ai sensi dell’articolo 71 di
concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.
Sezione II
FIRME ELETTRONICHE E CERTIFICATORI
Art. 24
Firma digitale
1. La firma digitale deve riferirsi in maniera univoca ad
un solo soggetto ed al documento o all’insieme di documenti cui è apposta o associata.
2. L’apposizione di firma digitale integra e sostituisce
l’apposizione di sigilli, punzoni, timbri, contrassegni e
marchi di qualsiasi genere ad ogni fine previsto dalla
normativa vigente.
3. Per la generazione della firma digitale deve adoperarsi
un certificato qualificato che, al momento della sottoscrizione, non risulti scaduto di validità ovvero non risulti revocato o sospeso.
4. Attraverso il certificato qualificato si devono rilevare,
secondo le regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo
71, la validità del certificato stesso, nonché gli elementi
identificativi del titolare e del certificatore e gli eventuali limiti d’uso.
Art. 25
Firma autenticata
1. Si ha per riconosciuta, ai sensi dell’articolo 2703 del
Codice civile, la firma digitale o altro tipo di firma elettronica qualificata autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
2. L’autenticazione della firma digitale o di altro tipo di
firma elettronica qualificata consiste nell’attestazione,
da parte del pubblico ufficiale, che la firma è stata apposta in sua presenza dal titolare, previo accertamento della sua identità personale, della validità del certificato
elettronico utilizzato e del fatto che il documento sottoscritto non è in contrasto con l’ordinamento giuridico.
3. L’apposizione della firma digitale o di altro tipo di firma elettronica qualificata da parte del pubblico ufficiale
ha l’efficacia di cui all’articolo 24, comma 2.
4. Se al documento informatico autenticato deve essere
allegato altro documento formato in originale su altro tipo di supporto, il pubblico ufficiale può allegare copia
informatica autenticata dell’originale, secondo le disposizioni dell’articolo 23, comma 5.
Art. 26
Certificatori
1. L’attività dei certificatori stabiliti in Italia o in un altro Stato membro dell’Unione europea è libera e non
necessita di autorizzazione preventiva. Detti certificatori o, se persone giuridiche, i loro legali rappresentanti ed i soggetti preposti all’amministrazione, devono
possedere i requisiti di onorabilità richiesti ai soggetti
che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e
NORMATIVA•AMMINISTRAZIONE DIGITALE
controllo presso le banche di cui all’articolo 26 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di
cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e
successive modificazioni.
2. L’accertamento successivo dell’assenza o del venir meno dei requisiti di cui al comma 1 comporta il divieto di
prosecuzione dell’attività intrapresa.
3. Ai certificatori qualificati e ai certificatori accreditati
che hanno sede stabile in altri Stati membri dell’Unione
europea non si applicano le norme del presente codice e
le relative norme tecniche di cui all’articolo 71 e si applicano le rispettive norme di recepimento della direttiva 1999/93/CE.
Art. 27
Certificatori qualificati
1. I certificatori che rilasciano al pubblico certificati qualificati devono trovarsi nelle condizioni previste dall’articolo 26.
2. I certificatori di cui al comma 1, devono inoltre:
a) dimostrare l’affidabilità organizzativa, tecnica e finanziaria necessaria per svolgere attività di certificazione;
b) utilizzare personale dotato delle conoscenze specifiche, dell’esperienza e delle competenze necessarie per i
servizi forniti, in particolare della competenza a livello
gestionale, della conoscenza specifica nel settore della
tecnologia delle firme elettroniche e della dimestichezza
con procedure di sicurezza appropriate e che sia in grado
di rispettare le norme del presente codice e le regole tecniche di cui all’articolo 71;
c) applicare procedure e metodi amministrativi e di gestione adeguati e conformi a tecniche consolidate;
d) utilizzare sistemi affidabili e prodotti di firma protetti
da alterazioni e che garantiscano la sicurezza tecnica e
crittografica dei procedimenti, in conformità a criteri di
sicurezza riconosciuti in ambito europeo e internazionale e certificati ai sensi dello schema nazionale di cui all’articolo 35, comma 5;
e) adottare adeguate misure contro la contraffazione dei
certificati, idonee anche a garantire la riservatezza, l’integrità e la sicurezza nella generazione delle chiavi private nei casi in cui il certificatore generi tali chiavi.
3. I certificatori di cui al comma 1, devono comunicare,
prima dell’inizio dell’attività, anche in via telematica,
una dichiarazione di inizio di attività al CNIPA, attestante l’esistenza dei presupposti e dei requisiti previsti
dal presente codice.
4. Il CNIPA procede, d’ufficio o su segnalazione motivata di soggetti pubblici o privati, a controlli volti ad accertare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti previsti dal presente codice e dispone, se del caso, con provvedimento motivato da notificare all’interessato, il divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione dei suoi
effetti, salvo che, ove ciò sia possibile, l’interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività
ed i suoi effetti entro il termine prefissatogli dall’amministrazione stessa.
Art. 28
Certificati qualificati
1. I certificati qualificati devono contenere almeno le seguenti informazioni:
a) indicazione che il certificato elettronico rilasciato è
un certificato qualificato;
b) numero di serie o altro codice identificativo del certificato;
c) nome, ragione o denominazione sociale del certificatore che ha rilasciato il certificato e lo Stato nel quale è
stabilito;
d) nome, cognome o uno pseudonimo chiaramente
identificato come tale e codice fiscale del titolare del certificato;
e) dati per la verifica della firma, cioè i dati peculiari, come codici o chiavi crittografiche pubbliche, utilizzati per
verificare la firma elettronica corrispondenti ai dati per
la creazione della stessa in possesso del titolare;
f) indicazione del termine iniziale e finale del periodo di
validità del certificato;
g) firma elettronica qualificata del certificatore che ha
rilasciato il certificato.
2. In aggiunta alle informazioni di cui al comma 1, fatta
salva la possibilità di utilizzare uno pseudonimo, per i titolari residenti all’estero cui non risulti attribuito il codice fiscale, si deve indicare il codice fiscale rilasciato dall’autorità fiscale del Paese di residenza o, in mancanza,
un analogo codice identificativo, quale ad esempio un
codice di sicurezza sociale o un codice identificativo generale.
3. Il certificato qualificato contiene, ove richiesto dal titolare o dal terzo interessato, le seguenti informazioni, se
pertinenti allo scopo per il quale il certificato è richiesto:
a) le qualifiche specifiche del titolare, quali l’appartenenza ad ordini o collegi professionali, l’iscrizione ad albi o il possesso di altre abilitazioni professionali, nonché
poteri di rappresentanza;
b) limiti d’uso del certificato, ai sensi dell’articolo 30,
comma 3;
c) limiti del valore degli atti unilaterali e dei contratti
per i quali il certificato può essere usato, ove applicabili.
4. Il titolare, ovvero il terzo interessato se richiedente ai
sensi del comma 3, comunicano tempestivamente al
certificatore il modificarsi o venir meno delle circostanze oggetto delle informazioni di cui al presente articolo.
Art. 29
Accreditamento
1. I certificatori che intendono conseguire il riconoscimento del possesso dei requisiti del livello più elevato, in
termini di qualità e di sicurezza, chiedono di essere accreditati presso il CNIPA.
2. Il richiedente deve rispondere ai requisiti di cui all’articolo 27, ed allegare alla domanda oltre ai documenti
indicati nel medesimo articolo il profilo professionale
del personale responsabile della generazione dei dati per
la creazione e per la verifica della firma, della emissione
I CONTRATTI N. 8-9/2005
809
NORMATIVA•AMMINISTRAZIONE DIGITALE
dei certificati e della gestione del registro dei certificati
nonché l’impegno al rispetto delle regole tecniche.
3. Il richiedente, se soggetto privato, in aggiunta a quanto previsto dal comma 2, deve inoltre:
a) avere forma giuridica di società di capitali e un capitale sociale non inferiore a quello necessario ai fini dell’autorizzazione alla attività bancaria ai sensi dell’articolo 14 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n.
385;
b) garantire il possesso, oltre che da parte dei rappresentanti legali, anche da parte dei soggetti preposti alla amministrazione e dei componenti degli organi preposti al
controllo, dei requisiti di onorabilità richiesti ai soggetti
che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e
controllo presso banche ai sensi dell’articolo 26 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385.
4. La domanda di accreditamento si considera accolta
qualora non venga comunicato all’interessato il provvedimento di diniego entro novanta giorni dalla data di
presentazione della stessa.
5. Il termine di cui al comma 4, può essere sospeso una
sola volta entro trenta giorni dalla data di presentazione
della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta
di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità
del CNIPA o che questo non possa acquisire autonomamente. In tale caso, il termine riprende a decorrere dalla
data di ricezione della documentazione integrativa.
6. A seguito dell’accoglimento della domanda, il CNIPA dispone l’iscrizione del richiedente in un apposito
elenco pubblico, tenuto dal CNIPA stesso e consultabile anche in via telematica, ai fini dell’applicazione della
disciplina in questione.
7. Il certificatore accreditato può qualificarsi come tale
nei rapporti commerciali e con le pubbliche amministrazioni.
8. Sono equiparati ai certificatori accreditati ai sensi del
presente articolo i certificatori accreditati in altri Stati
membri dell’Unione europea ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 1999/93/CE.
9. Alle attività previste dal presente articolo si fa fronte
nell’ambito delle risorse del CNIPA, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Art. 30
Responsabilità del certificatore
1. Il certificatore che rilascia al pubblico un certificato
qualificato o che garantisce al pubblico l’affidabilità del
certificato è responsabile, se non prova d’aver agito senza colpa o dolo, del danno cagionato a chi abbia fatto ragionevole affidamento:
a) sull’esattezza e sulla completezza delle informazioni
necessarie alla verifica della firma in esso contenute alla
data del rilascio e sulla loro completezza rispetto ai requisiti fissati per i certificati qualificati;
b) sulla garanzia che al momento del rilascio del certifi-
810
I CONTRATTI N. 8-9/2005
cato il firmatario detenesse i dati per la creazione della
firma corrispondenti ai dati per la verifica della firma riportati o identificati nel certificato;
c) sulla garanzia che i dati per la creazione e per la verifica della firma possano essere usati in modo complementare, nei casi in cui il certificatore generi entrambi;
d) sull’adempimento degli obblighi a suo carico previsti
dall’articolo 32.
2. Il certificatore che rilascia al pubblico un certificato
qualificato è responsabile, nei confronti dei terzi che facciano affidamento sul certificato stesso, dei danni provocati per effetto della mancata o non tempestiva registrazione della revoca o non tempestiva sospensione del certificato, secondo quanto previsto dalle regole tecniche di
cui all’articolo 71, salvo che provi d’aver agito senza colpa.
3. Il certificato qualificato può contenere limiti d’uso ovvero un valore limite per i negozi per i quali può essere
usato il certificato stesso, purché i limiti d’uso o il valore
limite siano riconoscibili da parte dei terzi e siano chiaramente evidenziati nel processo di verifica della firma
secondo quanto previsto dalle regole tecniche di cui all’articolo 71. Il certificatore non è responsabile dei danni derivanti dall’uso di un certificato qualificato che ecceda i limiti posti dallo stesso o derivanti dal superamento del valore limite.
Art. 31
Vigilanza sull’attività di certificazione
1. Il CNIPA svolge funzioni di vigilanza e controllo sull’attività dei certificatori qualificati e accreditati.
Art. 32
Obblighi del titolare e del certificatore
1. Il titolare del certificato di firma è tenuto ad adottare
tutte le misure organizzative e tecniche idonee ad evitare danno ad altri ed a custodire e utilizzare il dispositivo
di firma con la diligenza del buon padre di famiglia.
2. Il certificatore è tenuto ad adottare tutte le misure organizzative e tecniche idonee ad evitare danno ad altri,
ivi incluso il titolare del certificato.
3. Il certificatore che rilascia, ai sensi dell’articolo 19,
certificati qualificati deve inoltre:
a) provvedere con certezza alla identificazione della persona che fa richiesta della certificazione;
b) rilasciare e rendere pubblico il certificato elettronico
nei modi o nei casi stabiliti dalle regole tecniche di cui
all’articolo 71, nel rispetto del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e successive modificazioni;
c) specificare, nel certificato qualificato su richiesta dell’istante, e con il consenso del terzo interessato, i poteri
di rappresentanza o altri titoli relativi all’attività professionale o a cariche rivestite, previa verifica della documentazione presentata dal richiedente che attesta la sussistenza degli stessi;
d) attenersi alle regole tecniche di cui all’articolo 71;
e) informare i richiedenti in modo compiuto e chiaro,
sulla procedura di certificazione e sui necessari requisiti
NORMATIVA•AMMINISTRAZIONE DIGITALE
tecnici per accedervi e sulle caratteristiche e sulle limitazioni d’uso delle firme emesse sulla base del servizio di
certificazione;
f) non rendersi depositario di dati per la creazione della
firma del titolare;
g) procedere alla tempestiva pubblicazione della revoca
e della sospensione del certificato elettronico in caso di
richiesta da parte del titolare o del terzo dal quale derivino i poteri del titolare medesimo, di perdita del possesso
o della compromissione del dispositivo di firma, di provvedimento dell’autorità, di acquisizione della conoscenza di cause limitative della capacità del titolare, di sospetti abusi o falsificazioni, secondo quanto previsto dalle regole tecniche di cui all’articolo 71;
h) garantire un servizio di revoca e sospensione dei certificati elettronici sicuro e tempestivo nonché garantire
il funzionamento efficiente, puntuale e sicuro degli elenchi dei certificati di firma emessi, sospesi e revocati;
i) assicurare la precisa determinazione della data e dell’ora di rilascio, di revoca e di sospensione dei certificati
elettronici;
j) tenere registrazione, anche elettronica, di tutte le
informazioni relative al certificato qualificato dal momento della sua emissione almeno per dieci anni anche
al fine di fornire prova della certificazione in eventuali
procedimenti giudiziari;
k) non copiare, né conservare, le chiavi private di firma
del soggetto cui il certificatore ha fornito il servizio di
certificazione;
l) predisporre su mezzi di comunicazione durevoli tutte
le informazioni utili ai soggetti che richiedono il servizio
di certificazione, tra cui in particolare gli esatti termini e
condizioni relative all’uso del certificato, compresa ogni
limitazione dell’uso, l’esistenza di un sistema di accreditamento facoltativo e le procedure di reclamo e di risoluzione delle controversie; dette informazioni, che possono essere trasmesse elettronicamente, devono essere
scritte in linguaggio chiaro ed essere fornite prima dell’accordo tra il richiedente il servizio ed il certificatore;
m) utilizzare sistemi affidabili per la gestione del registro
dei certificati con modalità tali da garantire che soltanto
le persone autorizzate possano effettuare inserimenti e
modifiche, che l’autenticità delle informazioni sia verificabile, che i certificati siano accessibili alla consultazione del pubblico soltanto nei casi consentiti dal titolare
del certificato e che l’operatore possa rendersi conto di
qualsiasi evento che comprometta i requisiti di sicurezza.
Su richiesta, elementi pertinenti delle informazioni possono essere resi accessibili a terzi che facciano affidamento sul certificato.
4. Il certificatore è responsabile dell’identificazione del
soggetto che richiede il certificato qualificato di firma
anche se tale attività è delegata a terzi.
5. Il certificatore raccoglie i dati personali solo direttamente dalla persona cui si riferiscono o previo suo esplicito consenso, e soltanto nella misura necessaria al rilascio e al mantenimento del certificato, fornendo l’infor-
mativa prevista dall’articolo 13 del decreto legislativo 30
giugno 2003, n. 196. I dati non possono essere raccolti o
elaborati per fini diversi senza l’espresso consenso della
persona cui si riferiscono.
Art. 33
Uso di pseudonimi
1. In luogo del nome del titolare il certificatore può riportare sul certificato elettronico uno pseudonimo, qualificandolo come tale. Se il certificato è qualificato, il
certificatore ha l’obbligo di conservare le informazioni
relative alla reale identità del titolare per almeno dieci
anni dopo la scadenza del certificato stesso.
Art. 34
Norme particolari per le pubbliche amministrazioni
e per altri soggetti qualificati
1. Ai fini della sottoscrizione, ove prevista, di documenti informatici di rilevanza esterna, le pubbliche amministrazioni:
a) possono svolgere direttamente l’attività di rilascio dei
certificati qualificati avendo a tale fine l’obbligo di accreditarsi ai sensi dell’articolo 29; tale attività può essere
svolta esclusivamente nei confronti dei propri organi ed
uffici, nonché di categorie di terzi, pubblici o privati. I
certificati qualificati rilasciati in favore di categorie di
terzi possono essere utilizzati soltanto nei rapporti con
l’Amministrazione certificante, al di fuori dei quali sono
privi di ogni effetto; con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministri per la funzione pubblica e per l’innovazione e le tecnologie e dei Ministri interessati, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono definite le categorie di terzi e le
caratteristiche dei certificati qualificati;
b) possono rivolgersi a certificatori accreditati, secondo
la vigente normativa in materia di contratti pubblici.
2. Per la formazione, gestione e sottoscrizione di documenti informatici aventi rilevanza esclusivamente interna ciascuna amministrazione può adottare, nella propria
autonomia organizzativa, regole diverse da quelle contenute nelle regole tecniche di cui all’articolo 72.
3. Le regole tecniche concernenti la qualifica di pubblico ufficiale, l’appartenenza ad ordini o collegi professionali, l’iscrizione ad albi o il possesso di altre abilitazioni
sono emanate con decreti di cui all’articolo 71 di concerto con il Ministro per la funzione pubblica, con il Ministro della giustizia e con gli altri Ministri di volta in
volta interessati, sulla base dei principi generali stabiliti
dai rispettivi ordinamenti.
4. Nelle more della definizione delle specifiche norme
tecniche di cui al comma 3, si applicano le norme tecniche vigenti in materia di firme digitali.
5. Entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore
del presente codice le pubbliche amministrazioni devono
dotarsi di idonee procedure informatiche e strumenti
software per la verifica delle firme digitali secondo quanto previsto dalle regole tecniche di cui all’articolo 71.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
811
NORMATIVA•AMMINISTRAZIONE DIGITALE
Art. 35
Dispositivi sicuri e procedure per la generazione
della firma
1. I dispositivi sicuri e le procedure utilizzate per la generazione delle firme devono presentare requisiti di sicurezza tali da garantire che la chiave privata:
a) sia riservata;
b) non possa essere derivata e che la relativa firma sia
protetta da contraffazioni;
c) possa essere sufficientemente protetta dal titolare dall’uso da parte di terzi.
2. I dispositivi sicuri e le procedure di cui al comma 1
devono garantire l’integrità dei documenti informatici
a cui la firma si riferisce. I documenti informatici devono essere presentati al titolare, prima dell’apposizione
della firma, chiaramente e senza ambiguità, e si deve richiedere conferma della volontà di generare la firma
secondo quanto previsto dalle regole tecniche di cui all’articolo 71.
3. Il secondo periodo del comma 2 non si applica alle firme apposte con procedura automatica. L’apposizione di
firme con procedura automatica è valida se l’attivazione
della procedura medesima è chiaramente riconducibile
alla volontà del titolare e lo stesso renda palese la sua
adozione in relazione al singolo documento firmato automaticamente.
4. I dispositivi sicuri di firma sono sottoposti alla valutazione e certificazione di sicurezza ai sensi dello schema
nazionale per la valutazione e certificazione di sicurezza
nel settore della tecnologia dell’informazione di cui al
comma 5.
5. La conformità dei requisiti di sicurezza dei dispositivi per la creazione di una firma qualificata prescritti
dall’allegato III della direttiva 1999/93/CE è accertata,
in Italia, in base allo schema nazionale per la valutazione e certificazione di sicurezza nel settore della tecnologia dell’informazione, fissato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, o, per sua delega,
del Ministro per l’innovazione e le tecnologie, di concerto con i Ministri delle comunicazioni, delle attività
produttive e dell’economia e delle finanze. Lo schema
nazionale la cui attuazione non deve determinare nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato ed individua l’organismo pubblico incaricato di accreditare i
centri di valutazione e di certificare le valutazioni di
sicurezza. Lo schema nazionale può prevedere altresì la
valutazione e la certificazione relativamente ad ulteriori criteri europei ed internazionali, anche riguardanti altri sistemi e prodotti afferenti al settore suddetto.
6. La conformità ai requisiti di sicurezza dei dispositivi sicuri per la creazione di una firma qualificata a quanto
prescritto dall’allegato III della direttiva 1999/93/CE è
inoltre riconosciuta se certificata da un organismo all’uopo designato da un altro Stato membro e notificato
ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera b), della direttiva stessa.
812
I CONTRATTI N. 8-9/2005
Art. 36
Revoca e sospensione dei certificati qualificati
1. Il certificato qualificato deve essere a cura del certificatore:
a) revocato in caso di cessazione dell’attività del certificatore salvo quanto previsto dal comma 2;
b) revocato o sospeso in esecuzione di un provvedimento dell’autorità;
c) revocato o sospeso a seguito di richiesta del titolare o
del terzo dal quale derivano i poteri del titolare, secondo
le modalità previste nel presente codice;
d) revocato o sospeso in presenza di cause limitative della capacità del titolare o di abusi o falsificazioni.
2. Il certificato qualificato può, inoltre, essere revocato o
sospeso nei casi previsti dalle regole tecniche di cui all’articolo 71.
3. La revoca o la sospensione del certificato qualificato,
qualunque ne sia la causa, ha effetto dal momento della
pubblicazione della lista che lo contiene. Il momento
della pubblicazione deve essere attestato mediante adeguato riferimento temporale.
4. Le modalità di revoca o sospensione sono previste nelle regole tecniche di cui all’articolo 71.
Art. 37
Cessazione dell’attività
1. Il certificatore qualificato o accreditato che intende
cessare l’attività deve, almeno sessanta giorni prima della data di cessazione, darne avviso al CNIPA e informare senza indugio i titolari dei certificati da lui emessi specificando che tutti i certificati non scaduti al momento
della cessazione saranno revocati.
2. Il certificatore di cui al comma 1 comunica contestualmente la rilevazione della documentazione da parte di altro certificatore o l’annullamento della stessa. L’indicazione di un certificatore sostitutivo evita la revoca di tutti i certificati non scaduti al momento della cessazione.
3. Il certificatore di cui al comma 1 indica altro depositario del registro dei certificati e della relativa documentazione.
4. Il CNIPA rende nota la data di cessazione dell’attività
del certificatore accreditato tramite l’elenco di cui all’articolo 29, comma 6.
Sezione III
CONTRATTI, PAGAMENTI, LIBRI
E SCRITTURE
Art. 38
Pagamenti informatici
1. Il trasferimento in via telematica di fondi tra pubbliche amministrazioni e tra queste e soggetti privati è effettuato secondo le regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71 di concerto con i Ministri per la funzione
pubblica, della giustizia e dell’economia e delle finanze,
sentiti il Garante per la protezione dei dati personali e la
Banca d’Italia.
NORMATIVA•AMMINISTRAZIONE DIGITALE
Art. 39
Libri e scritture
1. I libri, i repertori e le scritture, ivi compresi quelli previsti dalla legge sull’ordinamento del notariato e degli archivi notarili, di cui sia obbligatoria la tenuta possono
essere formati e conservati su supporti informatici in
conformità alle disposizioni del presente codice e secondo le regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71.
Capo III
FORMAZIONE, GESTIONE E CONSERVAZIONE
DEI DOCUMENTI INFORMATICI
Art. 40
Formazione di documenti informatici
1. Le pubbliche amministrazioni che dispongono di idonee risorse tecnologiche formano gli originali dei propri
documenti con mezzi informatici secondo le disposizioni
di cui al presente codice e le regole tecniche di cui all’articolo 71.
2. Fermo restando quanto previsto dal comma 1, la redazione di documenti originali su supporto cartaceo, nonché la copia di documenti informatici sul medesimo supporto è consentita solo ove risulti necessaria e comunque nel rispetto del principio dell’economicità.
3. Con apposito regolamento, da emanarsi entro 180
giorni dalla data di entrata in vigore del presente codice,
ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della Legge 23 agosto
1988, n. 400, sulla proposta dei Ministri delegati per la
funzione pubblica, per l’innovazione e le tecnologie e del
Ministro per i beni e le attività culturali, sono individuate le categorie di documenti amministrativi che possono
essere redatti in originale anche su supporto cartaceo in
relazione al particolare valore di testimonianza storica ed
archivistica che sono idonei ad assumere.
4. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, con propri decreti, fissa la data dalla quale viene riconosciuto il valore
legale degli albi, elenchi, pubblici registri ed ogni altra
raccolta di dati concernenti stati, qualità personali e fatti già realizzati dalle amministrazioni, su supporto informatico, in luogo dei registri cartacei.
Art. 41
Procedimento e fascicolo informatico
1. Le pubbliche amministrazioni gestiscono i procedimenti amministrativi utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nei casi e nei modi previsti dalla normativa vigente.
2. La pubblica amministrazione titolare del procedimento può raccogliere in un fascicolo informatico gli atti, i
documenti e i dati del procedimento medesimo da
chiunque formati; all’atto della comunicazione dell’avvio del procedimento ai sensi dell’articolo 8 della Legge
7 agosto 1990, n. 241, comunica agli interessati le modalità per esercitare in via telematica i diritti di cui all’articolo 10 della citata Legge 7 agosto 1990, n. 241.
3. Ai sensi degli articoli da 14 a 14-quinquies della Legge
7 agosto 1990, n. 241, previo accordo tra le amministrazioni coinvolte, la conferenza dei servizi è convocata e
svolta avvalendosi degli strumenti informatici disponibili, secondo i tempi e le modalità stabiliti dalle amministrazioni medesime.
Art. 42
Dematerializzazione dei documenti delle pubbliche
amministrazioni
1. Le pubbliche amministrazioni valutano in termini di
rapporto tra costi e benefici il recupero su supporto informatico dei documenti e degli atti cartacei dei quali sia
obbligatoria o opportuna la conservazione e provvedono
alla predisposizione dei conseguenti piani di sostituzione
degli archivi cartacei con archivi informatici, nel rispetto delle regole tecniche adottate ai sensi dell’articolo 71.
Art. 43
Riproduzione e conservazione dei documenti
1. I documenti degli archivi, le scritture contabili, la corrispondenza ed ogni atto, dato o documento di cui è prescritta la conservazione per legge o regolamento, ove riprodotti su supporti informatici sono validi e rilevanti a
tutti gli effetti di legge, se la riproduzione sia effettuata in
modo da garantire la conformità dei documenti agli originali e la loro conservazione nel tempo, nel rispetto delle regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71.
2. Restano validi i documenti degli archivi, le scritture
contabili, la corrispondenza ed ogni atto, dato o documento già conservati mediante riproduzione su supporto
fotografico, su supporto ottico o con altro processo idoneo a garantire la conformità dei documenti agli originali.
3. I documenti informatici, di cui è prescritta la conservazione per legge o regolamento, possono essere archiviati per le esigenze correnti anche con modalità cartacee e sono conservati in modo permanente con modalità digitali.
4. Sono fatti salvi i poteri di controllo del Ministero per
i beni e le attività culturali sugli archivi delle pubbliche
amministrazioni e sugli archivi privati dichiarati di notevole interesse storico ai sensi delle disposizioni del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
Art. 44
Requisiti per la conservazione dei documenti informatici
1. Il sistema di conservazione dei documenti informatici
garantisce:
a) l’identificazione certa del soggetto che ha formato il
documento e dell’amministrazione o dell’area organizzativa omogenea di riferimento di cui all’articolo 50, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445;
b) l’integrità del documento;
c) la leggibilità e l’agevole reperibilità dei documenti e
delle informazioni identificative, inclusi i dati di registrazione e di classificazione originari;
I CONTRATTI N. 8-9/2005
813
NORMATIVA•AMMINISTRAZIONE DIGITALE
d) il rispetto delle misure di sicurezza previste dagli articoli da 31 a 36 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n.
196, e dal disciplinare tecnico pubblicato in allegato B a
tale decreto.
Capo IV
TRASMISSIONE INFORMATICA
DEI DOCUMENTI
Art. 45
Valore giuridico della trasmissione
1. I documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica
amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o informatico, ivi compreso il fax, idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma
scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da
quella del documento originale.
2. Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio
gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo elettronico da questi dichiarato,
nella casella di posta elettronica del destinatario messa a
disposizione dal gestore.
Art. 46
Dati particolari contenuti nei documenti trasmessi
1. Al fine di garantire la riservatezza dei dati sensibili o
giudiziari di cui all’articolo 4, comma 1, lettere d) ed e),
del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, i documenti informatici trasmessi ad altre pubbliche amministrazioni per via telematica possono contenere soltanto
le informazioni relative a stati, fatti e qualità personali
previste da legge o da regolamento e indispensabili per il
perseguimento delle finalità per le quali sono acquisite.
Art. 47
Trasmissione dei documenti attraverso la posta elettronica
tra le pubbliche amministrazioni
1. Le comunicazioni di documenti tra le pubbliche amministrazioni avvengono di norma mediante l’utilizzo
della posta elettronica; esse sono valide ai fini del procedimento amministrativo una volta che ne sia verificata
la provenienza.
2. Ai fini della verifica della provenienza le comunicazioni sono valide se:
a) sono sottoscritte con firma digitale o altro tipo di firma elettronica qualificata;
b) ovvero sono dotate di protocollo informatizzato;
c) ovvero è comunque possibile accertarne altrimenti la
provenienza, secondo quanto previsto dalla normativa
vigente o dalle regole tecniche di cui all’articolo 71;
d) ovvero trasmesse attraverso sistemi di posta elettronica certificata di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68.
3. Entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore del presente codice le pubbliche amministrazioni centrali provvedono a:
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I CONTRATTI N. 8-9/2005
a) istituire almeno una casella di posta elettronica istituzionale ed una casella di posta elettronica certificata ai
sensi del decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, per ciascun registro di protocollo;
b) utilizzare la posta elettronica per le comunicazioni tra
l’amministrazione ed i propri dipendenti, nel rispetto
delle norme in materia di protezione dei dati personali e
previa informativa agli interessati in merito al grado di
riservatezza degli strumenti utilizzati.
Art. 48
Posta elettronica certificata
1. La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di
consegna avviene mediante la posta elettronica certificata ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica
11 febbraio 2005, n. 68.
2. La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata mediante la posta elettronica certificata, equivale, nei casi consentiti dalla legge, alla notificazione per mezzo della posta.
3. La data e l’ora di trasmissione e di ricezione di un documento informatico trasmesso mediante posta elettronica certificata sono opponibili ai terzi se conformi alle
disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, ed alle relative regole tecniche.
Art. 49
Segretezza della corrispondenza trasmessa per via telematica
1. Gli addetti alle operazioni di trasmissione per via telematica di atti, dati e documenti formati con strumenti
informatici non possono prendere cognizione della corrispondenza telematica, duplicare con qualsiasi mezzo o
cedere a terzi a qualsiasi titolo informazioni anche in forma sintetica o per estratto sull’esistenza o sul contenuto
di corrispondenza, comunicazioni o messaggi trasmessi
per via telematica, salvo che si tratti di informazioni per
loro natura o per espressa indicazione del mittente destinate ad essere rese pubbliche.
2. Agli effetti del presente codice, gli atti, i dati e i documenti trasmessi per via telematica si considerano, nei
confronti del gestore del sistema di trasporto delle informazioni, di proprietà del mittente sino a che non sia avvenuta la consegna al destinatario.
NORMATIVA•AMMINISTRAZIONE DIGITALE
IL COMMENTO
di Francesco Delfini
L’art. 10.1 della Legge di semplificazione 2001 (Legge 29 luglio 2003, n. 229) aveva conferito delega al Governo «per il coordinamento e il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di società dell’informazione (…)
nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) graduare la rilevanza giuridica e l’efficacia probatoria dei diversi
tipi di firma elettronica in relazione al tipo di utilizzo e al grado di sicurezza della firma; b) rivedere la disciplina vigente al fine precipuo di garantire la più ampia disponibilità
di servizi resi per via telematica dalle pubbliche amministrazioni e dagli altri soggetti pubblici e di assicurare ai
cittadini e alle imprese l’accesso a tali servizi secondo il
criterio della massima semplificazione degli strumenti e
delle procedure necessari e nel rispetto dei principi di
eguaglianza, non discriminazione e della normativa sulla
riservatezza dei dati personali; c) prevedere la possibilità
di attribuire al dato e al documento informatico contenuto nei sistemi informativi pubblici i caratteri della primarietà e originalità, in sostituzione o in aggiunta a dati
e documenti non informatici, nonché obbligare le amministrazioni che li detengono ad adottare misure organizzative e tecniche volte ad assicurare l’esattezza, la sicurezza e la qualità del relativo contenuto informativo;
d) realizzare il coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa anche al fine
di adeguare o semplificare il linguaggio normativo; e)
adeguare la normativa alle disposizioni comunitarie».
Di tali criteri direttivi quelli contenuti nelle lett. b) c) mostrano finalità precipuamente pubblicistiche,
mentre quello di cui alla lett. a) incide su aspetti rilevanti del diritto privato dell’informatica, quali la disciplina sostanziale e probatoria del documento informatico.
La commistione di materie pubblicistiche e privatistiche nella delega era poi resa evidente dal secondo
comma del medesimo art. 10, secondo cui: «La delega di
cui al comma 1 è esercitata per i seguenti oggetti: a) il documento informatico, la firma elettronica e la firma digitale;
b) i procedimenti amministrativi informatici di competenza delle amministrazioni statali anche ad ordinamento autonomo; c) la gestione dei documenti informatici;
d) la sicurezza informatica dei dati e dei sistemi; e) le modalità di accesso informatico ai documenti e alle banche
dati di competenza delle amministrazioni statali anche
ad ordinamento autonomo».
La lett. a) fa infatti riferimento ad un tema, quello del
documento informatico, oggetto, sin dal 1997, di plurimi
interventi normativi caratterizzati dall’incidere anche sul
diritto privato (dell’informatica) pur in occasione di intendimenti di razionalizzazione del diritto pubblico: e così la
Legge n. 59/1997 c.d. «Bassanini» di riforma della Pubblica Amministrazione e di semplificazione amministra-
tiva, attuata con D.P.R. n. 513/1997, seguita poi dal Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia di documentazione amministrativa (TUDA)
ancora in vigore ed oggi dal D. Lgs. n. 82/2005 qui in
commento che, con effetto dal 1° gennaio del 2006 (art.
76), abrogherà (1) la parte centrale del TUDA medesimo, relativa alla disciplina, appunto, del documento
informatico.
Diamo qui dunque sinteticamente conto del contenuto privatistico del D.Lgs. n. 82/2005, frutto dell’esercizio, da parte del governo, della delega contenuta nell’art.
10 della Legge n. 229/2003 cit. e recante il «Codice dell’amministrazione digitale», i cui artt. 20 - 49 del Codice
sono applicabili anche ai privati, ex art. 2.3 dello stesso.
Anzitutto l’art. 1.1. del D.Lgs. n. 82/2005 contiene le
definizioni normative rilevanti, riproducendo quella assai ampia di documento informatico (lett. p: la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti) e la tripartizione delle tipologie di firma: «q) firma elettronica: l’insieme dei dati in forma elettronica, allegati
oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati
elettronici, utilizzati come metodo di autenticazione
informatica; r) firma elettronica qualificata: la firma elettronica ottenuta attraverso una procedura informatica
che garantisce la connessione univoca al firmatario e la
sua univoca autenticazione informatica, creata con mezzi sui quali il firmatario può conservare un controllo
esclusivo e collegata ai dati ai quali si riferisce in modo da
consentire di rilevare se i dati stessi siano stati successivamente modificati, che sia basata su un certificato qualificato e realizzata mediante un dispositivo sicuro per la
creazione della firma, quale l’apparato strumentale usato
per la creazione della firma elettronica; s) firma digitale:
un particolare tipo di firma elettronica qualificata basata
su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una
privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave
pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici (…)».
Tra le norme applicabili anche nei rapporti tra i privati spiccano quelle relative alla disciplina del valore sostanziale e probatorio del documento informatico (artt.
20 - 21), sia per la centralità del tema, sia per la novità
del dettato rispetto all’attuale art. 10 TUDA.
Nota:
(1) L’art. 75.1, lett. a -b), del D.Lgs. n. 82/2005 dispone infatti l’abrogazione dell’intero D.Lgs. n. 10/2002 e degli artt. 1, primo comma, lett. t),
u), v), z), aa), bb), cc), dd), ee), ff), gg), hh), ii), ll), mm), nn), oo); 2, primo comma, ultimo periodo, 6; 8; 9; 10; 11; 12; 13; 14; 17; 20; 22; 23; 24;
25; 26; 27; 27-bis; 28; 28-bis; 29; 29-bis; 29-ter; 29-quater; 29-quinquies; 29sexies; 29-septies; 29-octies; 36, primo, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma; 51; del D.P.R. n. 445/2000.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
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NORMATIVA•AMMINISTRAZIONE DIGITALE
Il secondo comma di quest’ultimo, come sostituito
dall’art. 6 D.Lgs. n. 10/2002, dispone infatti che: «Il documento informatico, sottoscritto con firma elettronica, soddisfa il requisito legale della forma scritta. Sul piano probatorio il documento stesso è liberamente valutabile, tenuto conto
delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza».
A differenza di tale norma, ove l’equipollenza con la
forma scritta è predicata quanto al documento informatico munito di semplice firma elettronica, il nuovo l’art.
20, secondo comma, D.Lgs. n. 82 prevede che tale requisito formale sia soddisfatto esclusivamente da un documento informatico sottoscritto con firma elettronica
qualificata o firma digitale, precisando che il documento
dovrà essere formato nel rispetto di regole tecniche (2)
che garantiscano l’identificabilità dell’autore e l’integrità
del documento.
La nuova formulazione della norma supera le difficoltà interpretative che la attuale formulazione del TUDA ha posto, allorché assegna valore di forma scritta al
documento informatico munito di firma elettronica
(non avanzata o qualificata) ma non attribuisce al medesimo l’efficacia probatoria della scrittura privata (3).
Per tale tipologia di documento informatico (cui è
apposta una semplice forma elettronica) resta confermato dall’art. 21, primo comma, del nuovo Codice il principio della libera valutazione probatoria da parte del giudice tenendo conto delle caratteristiche oggettive di
qualità e sicurezza del medesimo.
Il secondo comma dello stesso art. 21 modifica invece
radicalmente la attuale formulazione dell’art. 10, terzo
comma, del TUDA in ordine all’efficacia probatoria del
documento informatico munito di firma digitale o di firma elettronica qualificata. Torna infatti l’esplicito rinvio
alla efficacia probatoria prevista dall’art. 2702 Codice civile, che era presente nel D.P.R. n. 513/1997 (art. 5) ed
era stato eliminato nel TUDA. E poiché si deve supporre un legislatore consapevole del dibattito dottrinale sul
tema (4), ritengo che la reintroduzione dell’inciso di rinvio all’art. 2702 Codice civile valga ad indicare che il
documento informatico in questione è «ripudiabile»
(per usare un anglicismo ricorrente nel dibattito specialistico) senza più necessità di ricorso alla querela di falso.
Quanto alle modalità di codesta repudiation, mi pare
che esse vadano ricostruite sulla scorta della seconda
parte dell’art. 21.2 in esame e dell’art. 215 Codice di procedura civile.
La novella introduce infatti una presunzione (relativa) all’art. 21.2, disponendo che l’utilizzo del dispositivo
di firma si presume riconducibile titolare, salvo che sia
data prova contraria.
Per un verso, l’utilizzo di un concetto fattuale, quale
quello della «riconducibilità», privo di un preciso significato normativo, sembra dover orientare l’interprete nel
senso che il preteso autore del documento abbia l’onere
di provare (senza necessità dell’esperimento della querela di falso) tutte quelle circostanze che valgano ad interrompere il nesso di imputazione normativa tra sé mede-
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I CONTRATTI N. 8-9/2005
simo ed il documento, nesso che riposa sull’obbligo di diligente custodia di dati segreti e di dispositivi personali
(il dispositivo di firma e dunque anche i relativi codici
privati, di accesso e di cifra), ribadito dall’art. 32.
Per altro verso, ritengo che il rinvio all’art. 2702 Codice civile consenta di trarre dalla disciplina processualistica, implicitamente presupposta dal codice civile, indicazioni in ordine ai tempi di tale prova contraria. Per effetto della presunzione di «riconducibilità» come testè
introdotta non pare infatti esperibile il semplice «disconoscimento» di cui all’art. 214 Codice di procedura civile, perché la presunzione in questione imporrà, al titolare delle chiavi di firma impiegate, una circostanziata prova positiva delle interruzioni del nesso di imputazione
normativa del documento informatico.
Tuttavia, in difetto di norme ad hoc, dovrà guardarsi
all’art. 215 Codice di procedura civile per la disciplina
dei termini per il superamento della presunzione iuris
tantum: e così, ritengo che quantomeno l’allargamento
del thema probandum - e cioè quantomeno la allegazione
delle circostanze volte a sovvertire la presunzione - debba avvenire nel rispetto dell’art. 215, n. 2 Codice di procedura civile e cioè «nella prima udienza o nella prima
risposta successiva alla produzione» del documento
informatico.
Infine, quanto alla necessità di proporre la querela di
falso, la nuova disciplina introdotta con il Codice pone
rimedio alle perplessità condivisibilmente sollevate in
dottrina di fronte al vigente testo del TUDA (5).
Infatti esso (art. 10.3) attualmente impone di reagire con la querela sia a fronte di un documento informatico con firma digitale non autenticata o elettronica
Note:
(2) Regole tecniche che saranno emanate con decreti del Presidente del
consiglio dei ministri o del Ministro delegato, secondo il procedimento di
cui all’art. 71 che prevede comunque la persistente vigenza delle regole
tecniche attuali - D.P.C.M. 13 gennaio 2004 - sino alla loro futura sostituzione.
(3) Sul punto, Delfini, Il commercio elettronico, in Tratt. dir. economia Piccozza - Gabrielli, Padova, 2004, 104 ss.; Finocchiaro, Documento informatico, firma digitale e forme elettroniche, in Rossello - Finocchiaro - Tosi,
Commercio elettronico documento informatico e firma digitale, La nuova disciplina, Torino, 2003, 546.
(4) Sotto il vigore del D.P.R. n. 513/1997 erano state sostenute sia la tesi
della esperibilità del disconoscimento di cui all’art. 214 Codice di procedura civile avverso il documento informatico sottoscritto con firma digitale (Patti, L’efficacia probatoria del documento informatico, in Riv. dir. civ.,
1998, II, 173) sia, con articolate argomentazioni, quella della impraticabilità di tale disconoscimento (Gentili, Documento informatico e tutela dell’affidamento, in Riv. dir. civ., 1998, II, 172 ss.; Moscarini, in AA.VV., Formazione, archiviazione e trasmissione di documenti con strumenti informatici e
telematici, a cura di C.M. Bianca, in Nuove leggi civ. comm., 2000, 681; Finocchiaro, La firma digitale, in Comm. Scialoja - Branca, Bologna - Roma,
2000, 66 ss.; Graziosi, Premesse ad una teoria probatoria del documento informatico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 481 ss. 512 ss.; Clarizia, I contratti su Internet, in Scritti in memoria di Mario Buoncristiano, Napoli, 2002, I,
141).
(5) Graziosi, Il documento informatico e la sua efficacia probatoria, in Rossello - Finocchiaro - Tosi, Commercio elettronico documento informatico e
firma digitale, La nuova disciplina, Torino, 2003, 567 ss.
NORMATIVA•AMMINISTRAZIONE DIGITALE
«avanzata» (qualificata), sia a fronte di un documento
informatico con firma digitale autenticata, lasciando
dunque dubbi sulla diversità di portata dei due giudizi di
falso e imponendo sforzi interpretativi per mantenere
giustificazione e significato pratico alla possibile autenticazione della firma digitale da parte del notaio (art. 24
TUDA) (6).
La disciplina recata dal nuovo Codice ripristina invece una opportuna graduazione per la repudiation dell’apparente autore del documento: presunzione iuris tantum di «riconducibilità» ex art. 21.2 per il documento
informatico con firma digitale o elettronica qualificata,
sovvertibile con prova contraria; piena prova ex artt.
2702 e 2703 Codice civile e 25 D.Lgs. n. 82/2005 sino a
querela di falso, per il documento informatico munito di
firma digitale (o di altro tipo di firma elettronica qualificata) autenticata.
Nota:
(6) Graziosi, Il documento informatico e la sua efficacia probatoria, in Rossello - Finocchiaro - Tosi, Commercio elettronico documento informatico e
firma digitale, La nuova disciplina, Torino, 2003, 570; va tuttavia segnalato
che pur nella attuale vigenza del TUDA la norma in tema di autenticazione della firma digitale mantiene pregnanza di significato sul piano sostanziale, dando riconoscimento, con il secondoi comma, a quel controllo di legalità ex art. 28 legge notarile che già la dottrina riconosceva connesso pur agli atti semplicemente autenticati (e non rogati) da notaio,
nonché esplicita la necessità di un controllo notarile altresì sulla rispondenza alla volontà della parte del documento sottoscritto.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
817
CONTRATTI E FISCO•SINTESI
Panorama fiscale
A cura degli Avv.ti SARA ARMELLA e FRANCESCA BALZANI Studio Uckmar
Fisco
CONTRATTI STIPULATI DALLO STATO
Agenzia delle entrate - Risoluzione 3 maggio 2005, n. 55
A seguito di un’istanza di interpello presentata da un ente pubblico nazionale in merito al trattamento fiscale applicabile a un contratto di abbonamento stipulato con una società per la fornitura del servizio di telefonia mobile, l’Agenzia delle entrate, con risoluzione 3 maggio 2005, n. 55 (in www.agenziaentrate.it), ha confermato che lo Stato non deve corrispondere la tassa sulle concessioni governative e, in particolare, quella
prevista dall’art. 21 della tariffa allegata al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641, per il rilascio della licenza (nello
stesso senso, in precedenza, risoluzione 15 maggio 2003, n. 107).
Ciò in quanto lo Stato è titolare di ogni diritto o facoltà e dunque non ha bisogno di rimuovere limiti per il
libero esercizio degli stessi, a differenza di altri soggetti che, per l’esercizio di determinate attività, necessitano
invece di apposite autorizzazioni (licenze).
Nell’affermare quanto sopra, in particolare, l’Amministrazione finanziaria ha precisato che il principio non
opera per tutte le amministrazioni pubbliche diverse da quelle statali, ossia per quelle non riconducibili allo
Stato titolare di ogni diritto e facoltà che, dunque, restano escluse dal regime di favore sopra delineato.
Imposta di bollo
BOLLI E CONCESSIONI
Decreto 24 maggio 2005
Dal 1° giugno 2005 sono in vigore nuovi importi fissi dell’imposta di bollo e delle tasse sulle concessioni governative (in forza del decreto 24 maggio 2005, emanato ai sensi della legge finanziaria per il 2005).
L’importo fisso della c.d. «marca da bollo» passa da euro 11 a euro 14,62. Questo bollo si applica, in generale, a innumerevoli documenti: sia atti pubblici sia semplici scritture private, con le quali si creano, estinguono, accertano o documentano rapporti giuridici di ogni specie; istanze rivolte alla pubblica amministrazione
(eccettuate quelle per pubblici concorsi o pubblico impiego), atti e provvedimenti della pubblica amministrazione, pubblicazioni di matrimonio e certificati, dichiarazioni e attestati delle curie.
L’aumento riguarda atti, documenti e registri formati dalla mezzanotte del 1° giugno 2005, compresi quelli
formati (stipulati) prima di tale data, ma presentati ai pubblici uffici per l’adempimento delle relative formalità (ad esempio, ai fini della registrazione presso l’Agenzia delle Entrate) successivamente al 1° giugno. Inoltre, nel caso di un atto formato in originale prima del 1° giugno, con copie autentiche dello stesso formate
successivamente a tale data, il nuovo importo di euro 14,62 andrà applicato solo a queste ultime.
Sempre con riferimento all’imposta di bollo, il decreto 24 maggio 2005 ha fissato in euro 1,81 l’imposta dovuta per fatture, note e conti (per importi diversi da quelli assoggettati ad Iva), per estratti di conto, nonché
lettere e altri documenti di addebitamento o accreditamento di somme (se di ammontare superiore a euro
77,47) e per ricevute, lettere e altri documenti commerciali (fino a euro 129, 11). Per questi ultimi atti, in
particolare, l’imposta varia in base al relativo ammontare: 2,58 euro per ricevute, lettere e altri documenti
commerciali di ammontare compreso tra 129,11 e 258,23 euro; 4,65 euro per quelli di ammontare compreso
tra 258,23 e 516,46 euro e 6,80 euro per quelli di valore superiore a 516,46 euro. L’imposta di bollo poi, va
corrisposta nella misura di euro 0,52 per i disegni e i modelli di geometri, ingegneri e architetti, nonché per i
calcoli, le liquidazioni e gli altri lavori contabili.
Infine, per quanto concerne la tassa sulle concessioni governative, sono stati modificati gli importi dovuti per
il rilascio dei passaporti: per quello ordinario per l’estero la tassa è fissata in euro 40,29, mentre per quello collettivo essa è prevista nella misura di euro 2,58 per ogni componente il gruppo (esclusi i capi gruppo e i minori di anni 10).
I CONTRATTI N. 8-9/2005
819
CONTRATTI E FISCO•SINTESI
Imposte ipotecaria e catastale
CONFERIMENTO DI IMMOBILI
Agenzia delle entrate - Circolare 30 maggio 2005, n. 25
Con circolare 30 maggio 2005, n. 25 (in www.agenziaentrate.it), l’Agenzia delle entrate ha fornito chiarimenti sulla determinazione della base imponibile, ai fini dell’applicazione delle imposte ipotecaria e catastale, per l’ipotesi di conferimento in società di immobile gravato da passività.
Conformemente a quanto già affermato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., ex pluribus, Cass., sez. V, 3
luglio 2003, n. 10486, in Mass. giur. it., 2003, e Cass., sez. V, 25 ottobre 2002, n. 15046, in Giur. it., 2003,
812), l’Amministrazione finanziaria ha precisato che la base imponibile dell’imposta ipotecaria e catastale
non ammette la deduzione di «passività» prevista ai fini dell’imposta di registro per il conferimento di immobile o di diritto reale immobiliare (ex art. 50, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131). Per l’applicazione delle imposte in questione, invero, la base imponibile va determinata ai sensi degli articoli 43 e 51 del Testo unico dell’imposta di registro, ossia facendo riferimento al valore venale in comune commercio del bene, al lordo delle
eventuali passività.
Più specificamente, l’Amministrazione finanziaria ha chiarito che mentre ai fini dell’imposta di registro la
sottrazione delle «passività» dal valore attribuito ai beni immobili conferiti trova giustificazione nel venire
in rilievo, in tale fattispecie, del valore dell’operazione economica di trasferimento, ai fini delle imposte in
questione la previsione speciale di cui all’art. 50, D.P.R. n. 131 del 1986, non è applicabile poiché in tale ipotesi ciò che rileva è il valore intrinseco dell’immobile conferito. Per la determinazione della base imponibile delle imposte ipotecaria e catastale, quindi, si deve tener conto di tutte le componenti economiche rilevanti, ossia tali da influire, secondo i consueti criteri di estimo, sulla quantificazione del valore venale in
comune commercio dell’immobile, senza che sia autorizzata alcuna indiscriminata deduzione di «passività»
e ciò in deroga a quanto disposto dagli articoli 43 e 51 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131.
Sviluppo economico
NUOVI INCENTIVI ALLE IMPRESE
D.L. 14 marzo 2005, n. 35
Al fine di incentivare lo sviluppo economico, il D.L. 14 marzo 2005, n. 35 e convertito, con modificazioni,
dalla Legge 14 maggio 2005, n. 80, ha introdotto nuovi incentivi alle imprese e modificato notevolmente le
forme agevolative già esistenti.
L’art. 9 del decreto citato, in particolari, ha introdotto un credito d’imposta pari al cinquanta per cento delle
spese sostenute per studi e consulenze inerenti alle operazioni di concentrazione, a favore delle imprese rientranti nella definizione comunitaria di «microimprese, piccole e medie imprese, di cui alla raccomandazione della Commissione europea n. 2003/361/CE del 6 maggio 2003». Il comma 1-bis del predetto articolo
chiarisce che per concentrazione si intende: la costituzione di un’unica impresa per effetto dell’aggregazione
di più imprese mediante fusione; l’incorporazione di una o più imprese da parte di altra impresa; la costituzione di aggregazioni su base contrattuale fra imprese che organizzano in comune attività imprenditoriali rilevanti; la costituzione di consorzi mediante i quali più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune
per lo svolgimento di fasi rilevanti delle rispettive imprese e, infine, quelle diverse ipotesi che favoriscono la
crescita dimensionale delle imprese.
Per poter beneficiare del contributo è necessario che l’ultimazione del processo di concentrazione avvenga
nel periodo compreso tra la data di entrata in vigore del D.L. n. 35 del 2005 (17 marzo 2005) e i ventiquattro mesi successivi (17 marzo 2007); l’impresa risultante dal processo di concentrazione ovvero l’aggregazione fra le singole imprese, rientri nella definizione di piccola e media impresa di cui alla raccomandazione
della Commissione europea citata; e, infine, che tutte le imprese che partecipano al «processo di concentrazione» abbiano esercitato attività omogenee nel periodo d’imposta precedente alla data in cui è ultimato
il processo di concentrazione o aggregazione
Il credito d’imposta non è rimborsabile, non è imponibile agli effetti delle imposte sui redditi, non rileva ai
fini del calcolo del «pro rata» generale di deducibilità degli interessi passivi di cui all’art. 96 del D.P.R. 22
dicembre 1986, n. 917, né concorre alla formazione del valore della produzione netta ai fini Irap, ma è utilizzabile esclusivamente in compensazione nel modello F24 (ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241) e solo
successivamente all’intervenuta comunicazione di avvenuto riconoscimento del contributo (atto conclusivo
della procedura avviata dall’impresa «concentrataria» mediante invio di apposita istanza al Centro operativo di Pescara nel rispetto delle modalità e dei termini previsti dal comma terzo dell’art. 9, decreto citato).
820
I CONTRATTI N. 8-9/2005
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ARBITRATO
Il rapporto contrattuale
tra gli arbitri e le parti
nel diritto tedesco
di VALERIO SANGIOVANNI
L’Autore affronta il tema del rapporto contrattuale che lega gli arbitri e le parti, con particolare riferimento al diritto tedesco: in Germania, infatti, il tema è stato studiato in modo approfondito, nonostante al rapporto arbitri-contendenti non siano dedicate norme specifiche.
Introduzione
N
el diritto tedesco (*) l’arbitro giudica di una
controversia intercorrente tra altri due soggetti
e, in questa sua funzione per così dire «istituzionale», è assoggettato a una serie di obblighi (1). Sarebbe
tuttavia riduttivo ritenere che il ruolo del collegio arbitrale si limiti a ciò. Al contrario: l’arbitro si trova in una
relazione contrattuale con i litiganti. Sotto questo profilo la materia rientra non tanto nel diritto processuale,
quanto piuttosto in quello civile. Non è quindi un caso
che il codice di procedura civile tedesco non si occupi
del rapporto contrattuale arbitri-litiganti. Nella ZPO si
trovano, per esempio, le norme sulla nomina degli arbitri (cfr. il § 1035 ZPO) (2). Nel codice di procedura civile tedesco si specifica inoltre che l’ufficio di arbitro termina con la cessazione del procedimento arbitrale (§
1056, terzo comma, ZPO). Nulla si dice invece sul rapporto contrattuale tra l’organo giudicante e i litiganti. Le
disposizioni che regolano questa relazione vanno cercate
altrove, in un testo normativo a carattere sostanziale.
Del resto un legislatore processuale è tenuto a regolare
gli aspetti «procedimentali», mentre non ha interesse a
curarsi dei profili di diritto materiale. Lo status di arbitro,
nel senso dei diritti e dei doveri nei confronti dei litiganti, è materia separata.
Normalmente il soggetto che vuole avviare il procedimento arbitrale prende dapprima informalmente contatto con la persona che reputa idonea a svolgere la funzione di arbitro, le illustra le caratteristiche essenziali
della controversia e le chiede se è disponibile ad assumere l’incarico (3). Ottenuta la disponibilità, l’attore lo nomina. Dopodiché la nomina viene comunicata al convenuto con l’invito a nominare il proprio membro del
collegio. I due arbitri così nominati procedono a nominare il presidente del collegio giudicante (oppure questi
è nominato da un terzo, per esempio un’istituzione arbitrale). A questo punto l’organo è costituito. Qui scatta la
seconda fase. Gli arbitri prendono contatto con i litiganti e sottopongono alla loro attenzione una proposta di
«contratto tra arbitri e litiganti» (Schiedsrichtervertrag). I
contendenti vengono pregati di accettare tale regolamentazione pattizia. Una volta che si è raggiunto l’accordo sul punto, il contratto viene controfirmato dai litiganti. Gli arbitri iniziano allora tutte quelle attività costituenti il procedimento arbitrale e che termineranno
Note:
(*) La terminologia giuridica tedesca fa ampio uso di acronimi. Al fine di
facilitare la lettura si riportano, di seguito, quelli utilizzati nel presente
scritto, con una traduzione in italiano o una breve spiegazione del significato tra parentesi: BB: Betriebsberater [rivista]; BGB: Bürgerliches Gesetzbuch (codice civile); DRiG: Deutsches Richtergesetz (legge tedesca sui giudici); DZWir: Deutsche Zeitschrift für Wirtschaftsrecht [rivista]; JZ: Juristenzeitung [rivista]; KG: Kammergericht (Corte d’appello di Berlino); MDR:
Monatsschrift für Deutsches Recht [rivista]; Rn: Randnummer (numero a
margine); OLG: Oberlandesgericht (corte d’appello); RIW: Recht der Internationalen Wirtschaft [rivista]; SchiedsVZ: Zeitschrift für Schiedsverfahren [rivista]; StGB: Strafgesetzbuch (codice penale); TranspR: Transportrecht [rivista]; ZGR: Zeitschrift für Unternehmens- und Gesellschaftsrecht [rivista];
ZPO: Zivilprozessordnung (codice di procedura civile).
(1) Sull’arbitrato in Germania, oltre ai lavori citati nel prosieguo, cfr. - in
lingua italiana - D’Alessandro, Il giudizio di annullamento del lodo arbitrale
nell’ordinamento tedesco dopo la riforma del 1998, in Riv. arb., 2001, 563 ss.;
Giardina, Il procedimento arbitrale: diritto italiano e diritto tedesco, in Riv.
arb., 1999, 393 ss.; Habscheid, Il nuovo diritto dell’arbitrato in Germania, in
Riv. arb., 1998, 175 ss. (trad. di Briguglio); Maglio, La nuova disciplina dell’arbitrato in Germania, in Contratto e Impresa/Europa, 1998, 999 ss.; Sangiovanni, L’applicazione in Germania della Convenzione di New York sul riconoscimento e l’esecuzione dei lodi arbitrali stranieri, in Riv. dir. int. priv.
proc., 2005, 41 ss. (cui sia consentito il rinvio); Walter, La nuova disciplina dell’arbitrato in Germania (una comparazione Germania-Svizzera-Italia),
in Riv. dir. proc., 1999, 670 ss. Tra i contributi a carattere generale apparsi in Germania v. Berger, Das neue deutsche Schiedsverfahrensrecht, in
DZWir, 1998, 45 ss.; Habscheid, Das neue Recht der Schiedsgerichtsbarkeit,
in JZ, 1998, 445 ss.; Kronke, Internationales Schiedsverfahren nach der
Reform, in RIW, 1998, 257 ss.; Labes/Lörcher, Das neue deutsche Recht der
Schiedsgerichtsbarkeit, in MDR, 1997, 420 ss.; Osterthun, Das neue deutsche
Recht der Schiedsgerichtsbarkeit, in TranspR, 1998, 177 ss.; Trittmann, Die
Auswirkungen des Schiedsverfahrens-Neuregelungsgesetzes auf gesellschaftsrechtliche Streitigkeiten, in ZGR, 1999, 343 ss.; Winkler/Weinand, Deutsches
internationales Schiedsverfahrensrecht, in BB, 1998, 597 ss.
(2) In materia di nomina degli arbitri nell’ordinamento germanico sia
consentito rinviare a Sangiovanni, La costituzione del tribunale arbitrale nel
diritto tedesco, in Riv. arb., 2001, 590 ss.
(3) Sulla prassi che precede la nomina degli arbitri, cfr. Lachmann, Handbuch für die Schiedsgerichtspraxis, II ed., Köln, 2002, 559.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
827
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ARBITRATO
con l’emissione del lodo (4). La nomina dell’arbitro va
quindi tenuta distinta dal contratto arbitri-litiganti. La
nomina è il lato per così dire «processualistico» del rapporto, mentre il contratto arbitri-litiganti ne costituisce
il lato «privatistico».
Nel diritto tedesco il rapporto che lega gli arbitri con i litiganti è di natura contrattuale. Si tratta di un contratto
come tutti gli altri. Ne consegue che trovano applicazione
le norme di carattere generale che disciplinano nell’ordinamento germanico gli strumenti contrattuali. Questo
principio vale sia per la formazione del contratto sia per la
sua esistenza «fisiologica» sia per le sue vicende «patologiche» sia, infine, per il suo venir meno. Il contenuto del
rapporto contrattuale tra arbitri e litiganti (vale a dire gli
obblighi che fanno capo ai contraenti) risulta dal documento scritto che è stato eventualmente predisposto. Altrimenti, e comunque in via d’integrazione, si applicano le
norme contenute nel BGB sul contratto di servizio (Dienstvertrag; § 611 ss. BGB) oppure sul mandato (Auftrag; §
662 ss. BGB). Il rapporto arbitri-litiganti non configura
un contratto tipico. Mentre il BGB regola, per esempio, la
compravendita (§ 433 ss. (5)) e il mutuo (§ 488 ss.), non
si trova nel codice civile tedesco (e nemmeno nella ZPO)
la regolamentazione del tipo «contratto tra arbitri e litiganti». «Schiedsrichtervertrag» è solo un’espressione dottrinale per indicare il rapporto intercorrente tra tali soggetti.
Esso non configura un contratto tipico.
Per il sorgere della relazione contrattuale non sono richieste forme particolari (6). Il rapporto arbitri-litiganti
non deve essere necessariamente sancito in un documento scritto. Nell’esempio fatto sopra, il contratto è
scritto perché gli arbitri inviano una bozza ai litiganti i
quali - eventualmente dopo una fase di negoziazione - la
restituiscono sottoscritta per accettazione. Si tratta della
soluzione migliore in termini di trasparenza, perché essa
sancisce sin da principio il contenuto del rapporto tra gli
attori del procedimento arbitrale ed evita discussioni che
possono sfociare addirittura in liti. È facilmente immaginabile il disagio che si può instaurare tra arbitro e litiganti, per esempio, quando il primo teme che il proprio
compenso non venga corrisposto. Per tacere dal fatto
che il collegio arbitrale potrebbe essere indotto ad agire
in una situazione di conflitto d’interessi. Si pensi al caso
dell’arbitro che ritarda l’emissione del lodo perché vuole
che prima gli sia pagato il compenso. È evidente che situazioni del genere rendono più difficile il conseguimento degli obiettivi istituzionali dell’arbitrato. Al fine di assicurare la massima imparzialità e indipendenza degli arbitri nonché uno svolgimento celere e regolare del procedimento arbitrale è sicuramente auspicabile, fin da
principio, una regolamentazione accurata e trasparente
della relazione intercorrente tra tutti i soggetti del processo. Un rapporto contrattuale arbitri-litiganti sussiste
comunque anche quando non sia stato sottoscritto un
apposito testo scritto. Sotto questo profilo il contratto
arbitri-litiganti si differenzia dalla convenzione arbitrale
(Schiedsvereinbarung), per la quale occorre necessaria-
828
I CONTRATTI N. 8-9/2005
mente la forma scritta (cfr. il § 1031 ZPO) (7). Un contratto arbitri-litiganti sorge per il solo fatto dell’accettazione dell’incarico, la quale può avere luogo anche per
fatti concludenti. Ciò si verifica, per esempio, quando
l’arbitro avvia il procedimento arbitrale. Una volta che
la persona che ha ricevuto l’offerta dell’incarico accetta
- esplicitamente o implicitamente - la proposta, il contratto arbitri-litiganti è concluso.
Il rapporto tra «convenzione arbitrale»
e «contratto arbitri-litiganti»
I
l contratto arbitri-litiganti va tenuto distinto dalla
convenzione arbitrale. Ai sensi del § 1029, primo
comma, ZPO la convenzione arbitrale è l’accordo
delle parti di rimettere a un tribunale arbitrale la decisione di tutte le o di alcune delle controversie insorte o
che insorgeranno in futuro tra di esse relativamente a un
certo rapporto giuridico di natura contrattuale o extracontrattuale. La convenzione arbitrale è la scelta preliminare delle parti del rapporto giuridico sostanziale sottostante di rimettere in arbitrato la soluzione di liti. Una
volta accordatisi in questo senso, i litiganti procedono
alla nomina degli arbitri. Tra arbitri e contendenti sorge
infine un diverso rapporto contrattuale, il «contratto arbitri-litiganti» che può (ma non deve) essere specificato
in un apposito documento scritto.
Note:
(4) Sul procedimento arbitrale nel diritto tedesco, sia permesso il rinvio
a Sangiovanni, Le fasi iniziali del procedimento arbitrale tedesco, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 2004, 533 ss. Con riferimento al lodo arbitrale nell’ordinamento germanico sia permesso rinviare a Sangiovanni, Il lodo arbitrale nel
diritto tedesco, in Riv. dir. proc., 2004, 437.
(5) Sulla disciplina tedesca del contratto di compravendita cfr., per limitarsi a menzionare alcuni recenti contributi apparsi in lingua italiana,
Abatangelo, Sostituzione di bene viziato e contrattazione di cosa specifica: i
termini della questione nel diritto tedesco e nel pensiero giuridico italiano, in Riv.
dir. civ., 2004, II, 635 ss.; Bianca, La nuova disciplina della compravendita:
osservazioni generali, in La riforma dello Schuldrecht tedesco: un modello per
il futuro diritto europeo delle obbligazioni e dei contratti? (a cura di Cian), Padova, 2004, 179 ss.; Grundmann, La nuova disciplina della compravendita:
la violazione dell’impegno contrattuale, in La riforma dello Schuldrecht tedesco: un modello per il futuro diritto europeo delle obbligazioni e dei contratti? (a
cura di Cian), Padova, 2004, 187 ss.; Grundmann, La disciplina della vendita dopo la riforma dello «Schuldrecht» in Germania - Da un ius commune
romano a un ius commune americano-europeo?, in Annuario di diritto tedesco 2002, Milano, 2003, 77 ss. (trad. di Buchberger); Sangiovanni, Contratto di compravendita e riserva di proprietà nel diritto tedesco, in questa Rivista, 2005, 5, 511 ss. (cui sia lecito rinviare); Schmidt, Il diritto di regresso
del venditore finale nella compravendita di beni di consumo: teoria e prassi, in
La riforma dello Schuldrecht tedesco: un modello per il futuro diritto europeo
delle obbligazioni e dei contratti? (a cura di Cian), Padova, 2004.
(6) Cfr. Albers, in Zivilprozessordnung (a cura di Baumbach/Lauterbach/Albers/Hartmann), LXII ed., München, 2004, Appendice al § 1035,
Rn. 3; Gottwald, Zivilprozessrecht, XVI ed., München, 2004, 1275; Lörcher/Lörcher/Lörcher, Das Schiedsverfahren - national/international - nach
deutschem Recht, II ed., Heidelberg, 2001, 40; Schwab/Walter, Schiedsgerichtsbarkeit, VI ed., München, 2000, 109; Schwytz, Schiedsklauseln und
Schiedsrichtervertrag, III ed., Heidelberg, 2001, 17.
(7) Sulla forma della convenzione arbitrale nell’ordinamento germanico
v., se vuoi, Sangiovanni, La forma della convenzione arbitrale nel diritto tedesco, in Riv. arb., 2002, 591 ss.
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ARBITRATO
La convenzione arbitrale è atto delle parti sostanziali del
rapporto giuridico controverso. Alfa e Beta stipulano, si
immagini, un contratto di compravendita cui accede
una clausola compromissoria. Sorta la controversia, Alfa e Beta diventano rispettivamente attore e convenuto
del procedimento arbitrale. Gli arbitri non hanno nulla
a che fare con la vicenda di carattere sostanziale sottostante. Sia il contratto di compravendita sia la clausola
compromissoria che ne costituisce parte integrante sono
atti delle parti in lite, non del collegio giudicante. E tuttavia è possibile che la convenzione arbitrale, soprattutto nei casi in cui essa è particolarmente dettagliata, contenga pattuizioni che interessano gli arbitri. Si immagini, per esempio, che in tale sede vengano definiti i parametri su cui calcolare il compenso del collegio. La convenzione arbitrale non è vincolante per i futuri arbitri.
Lo diventerà quando essi accetteranno la nomina oppure la proposta di contratto.
In modo speculare il contratto arbitri-litiganti può
contenere qualcosa in più delle mere pattuizioni relative al rapporto «contrattuale» tra tali soggetti. Nella
prassi non è raro che esso regoli anche alcuni aspetti di
carattere procedurale (8). Per esempio in tale sede possono essere definiti i poteri del presidente del collegio
oppure possono essere presi accordi relativamente allo
svolgimento di un’udienza. Un’altra possibilità è che
tutti i soggetti del procedimento arbitrale (arbitri e litiganti) diano atto che la convenzione arbitrale è valida
ed efficace. In questo modo si sanano eventuali vizi
dell’accordo arbitrale e si ribadisce, a scanso di equivoci, la volontà di rimettere la controversia in arbitrato.
Queste pattuizioni ulteriori, pur essendo fisicamente
contenute nel contratto arbitri-litiganti, sono in realtà
una modifica posteriore (oppure un’integrazione oppure una conferma) della convenzione arbitrale. Nella
misura in cui queste decisioni vengono prese per scritto e sottoscritte (e quindi formalmente accettate) dai
litiganti, esse costituiscono una valida variazione del
precedente accordo arbitrale. Un unico documento
scritto è allo stesso tempo contratto arbitri-litiganti e
convenzione arbitrale.
I litiganti possono sempre modificare la convenzione
arbitrale, anche nel corso del procedimento, purché lo
facciano concordemente. Si tratta di poteri rientranti
nella loro autonomia contrattuale. Se però la convenzione arbitrale contiene anche regole relative al rapporto arbitri-litiganti e queste pattuizioni sono già state accettate dagli arbitri, la modificazione produce riflessi
sulla posizione dell’organo giudicante. Un atto posto in
essere dai soli contendenti (modificazione della convenzione arbitrale) si riverbera su un diverso rapporto
contrattuale (quello arbitri-litiganti) che vede coinvolti anche soggetti terzi (gli arbitri). Le regole generali in
tema di contratto prevedono la necessità del consenso
di tutti i contraenti non solo per fare sorgere una relazione contrattuale, ma anche per modificarla in un momento successivo.
I soggetti del rapporto contrattuale
arbitri-litiganti
I
contraenti del rapporto arbitri-litiganti sono ciascun
arbitro, da un lato, e tutte le parti in lite, dall’altro. La
relazione intercorre sempre tra ciascun membro del
collegio arbitrale e tutti i litiganti. Non rileva quale soggetto abbia nominato l’arbitro. Questi - del resto - potrebbe essere stato individuato da un terzo, per esempio
da un’istituzione arbitrale oppure da un’autorità giudiziaria. Può quindi capitare che la parte Alfa nomini arbitro
Tizio, mentre la parte Beta nomini Caio. Non per questo
sussistono due rapporti contrattuali, nel senso di una relazione tra Alfa e Tizio e di un’altra tra Beta e Caio. Invece il legame è tra tutti i litiganti (Alfa e Beta) da un lato e ciascun arbitro dall’altro (9). Se l’attrice Alfa ha negoziato con il «proprio» arbitro Tizio alcuni aspetti del
rapporto contrattuale (tipicamente l’importo del compenso oppure dell’anticipo), questi accordi non vincolano la convenuta Beta, la quale non vi ha preso parte.
Nei procedimenti arbitrali ad hoc vi è un rapporto contrattuale diretto tra gli arbitri e i litiganti. La situazione è
diversa nei processi amministrati (10). In questo caso vi
sono due distinti rapporti contrattuali: una prima relazione tra i litiganti e l’istituzione arbitrale e una seconda
tra l’istituzione e gli arbitri. Nel caso di arbitrati amministrati arbitri e contendenti non entrano in un rapporto
contrattuale diretto, perché la relazione è mediata dall’organizzazione che gestisce il procedimento.
Certi soggetti, al fine di accettare validamente l’incarico
di arbitro, necessitano dell’autorizzazione di un’autorità
amministrativa. Questo vale, in particolare, per i giudici.
Il § 40, primo comma, prima frase, DRiG stabilisce che
un giudice può essere autorizzato ad assumere un incarico come arbitro solo quando le parti del contratto arbitrale lo incaricano congiuntamente oppure quando egli
è nominato da un soggetto imparziale. Questa disposizione contiene due distinte regole. Il primo principio è
che l’autorizzazione deve essere negata quando un giudice è nominato da una parte sola. Il secondo principio è
che il magistrato deve, in ogni caso, essere autorizzato a
svolgere la funzione arbitrale.
Una recente decisione giurisprudenziale concerne la prima delle due questioni appena delineate, vale a dire la
necessità che il giudice sia nominato arbitro congiuntamente da entrambe le parti del rapporto giuridico so-
Note:
(8) Lachmann, op. cit., 563 s.; Lörcher/Lörcher/Lörcher, op. cit., 40.
(9) Cfr. Albers, op. cit., Appendice al § 1035, Rn. 3; Gottwald, op. cit.,
1275; Lachmann, op. cit., 557; Lörcher/Lörcher/Lörcher, op. cit., 39; Schlosser, in Stein/Jonas, Kommentar zur Zivilprozessordnung, IX, XXII ed., Tübingen, 2002, Osservazioni introduttive al § 1025 Rn. 8; Schwab/Walter,
op. cit., 107 s.; Zimmermann, Zivilprozessordnung, VI ed., Heidelberg,
2002, § 1035 Rn. 4.
(10) Geimer, in Zivilprozessordnung (a cura di Zöller), XXIV ed., Köln,
2004, § 1035 Rn. 23; Schlosser, op. cit., Osservazioni introduttive al §
1025 Rn. 7; Voit, in Kommentar zur Zivilprozessordnung (a cura di Musielak), III ed., München, 2002, § 1035 Rn. 22.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
829
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ARBITRATO
stanziale sottostante (11). Un magistrato non può mai
operare come arbitro di parte. La legge vieta espressamente di autorizzare un’attività del genere. La Corte
d’appello di Berlino ha aggiunto che un giudice non può
accettare l’incarico di arbitro, quando è stato nominato
da una sola parte, nemmeno se la controparte ne ratifica
la nomina. Ne consegue che il procedimento arbitrale è
inammissibile per viziata costituzione dell’organo giudicante. La previsione legislativa secondo cui la nomina di
un giudice ad arbitro deve avvenire congiuntamente a
opera di tutte le parti è connessa al più ampio tema della imparzialità e della indipendenza di chi giudica. Il legislatore esige che entrambe i litiganti ripongono la massima fiducia nella persona scelta a svolgere la funzione di
arbitro. Il fatto di essere individuato concordemente da
tutti i contraenti fa salva la neutralità. L’ordinamento
non può tollerare che i giudici mettano le proprie conoscenze e la propria autorevolezza a disposizione degli interessi di un privato. Nel contesto della legge tedesca sui
giudici non è quindi un caso che il § 40 in esame sia collocato immediatamente dopo il § 39. Questa disposizione, rubricata «mantenimento dell’indipendenza» (Wahrung der Unabhängigkeit), statuisce il principio secondo
cui il magistrato deve - nello svolgimento del proprio ufficio ma anche al di fuori di esso (in particolare se opera
in politica) - comportarsi in modo tale che l’affidamento nella sua indipendenza non venga mai messo in dubbio. Una nomina di parte è circostanza tale da mettere a
repentaglio la neutralità del giudice.
Questa decisione giurisprudenziale ha rilevante importanza pratica. Sono infatti diffuse nella prassi convenzioni arbitrali che prevedono la costituzione di un collegio
composto di tre soggetti: ciascun litigante nomina un
proprio arbitro, mentre il terzo viene designato in altro
modo. Laddove l’arbitro di parte sia da scegliersi tra giudici, la clausola compromissoria viola il § 40, primo
comma, prima frase, DRiG. Un magistrato non può mai
operare come arbitro di parte. Procedimenti arbitrali attualmente pendenti o che dovessero aprirsi sulla base di
una convenzione arbitrale del genere sarebbero invalidi
per viziata costituzione dell’organo giudicante.
Rimane da affrontare la seconda questione posta dal §
40, primo comma, prima fase, DRiG. Questa disposizione impone al giudice che voglia diventare arbitro di essere autorizzato. Nella prassi può capitare che, in violazione di tale norma, un magistrato accetti l’incarico pure in assenza della necessaria autorizzazione. Oppure può
verificarsi che l’autorizzazione venga sì data, ma sia per
qualche ragione invalida. In una situazione del genere si
pone la questione della legittimità del procedimento arbitrale e del lodo emesso dall’arbitro non autorizzato. Si
tratta di problemi fortemente controversi in dottrina.
Secondo la parte prevalente della dottrina, la mancanza
di autorizzazione non produce effetti sul procedimento
arbitrale né cagiona l’invalidità del lodo (12). Le conseguenze per il magistrato che accetta l’incarico di arbitro
in assenza dell’apposita autorizzazione sono solo di carat-
830
I CONTRATTI N. 8-9/2005
tere disciplinare. Questa soluzione è preferibile in un’ottica di conservazione del procedimento arbitrale. Altrimenti il vizio autorizzativo in capo all’arbitro si riflette
sulla posizione dei litiganti. Questi si vedrebbero invalidare l’intero procedimento arbitrale per un errore di carattere amministrativo. L’opinione maggioritaria trova
conforto in una recente decisione giurisprudenziale (13)
. La Corte d’appello di Stoccarda ha deciso che la mancanza di autorizzazione in capo al giudice non influisce
sulla regolarità della composizione dell’organo giudicante. Il procedimento arbitrale può continuare e il lodo è
valido. Secondo una diversa opinione dottrinale, invece, l’assenza di autorizzazione inficia il processo. Il ragionamento che segue questa dottrina è il seguente. Il giudice che voglia fare l’arbitro ha bisogno di apposita autorizzazione, perché è la legge a imporla. Se egli stipula un
contratto con le parti in assenza del necessario permesso,
tale contratto è nullo per violazione di norma imperativa (§ 134 BGB). Il procedimento arbitrale si fonda su di
un contratto nullo. Esso è invalido così come è invalido
il lodo che ne deriva.
Il § 40, primo comma, seconda frase, DRiG stabilisce che
l’autorizzazione allo svolgimento dell’ufficio di arbitro
deve essere rifiutata quando il giudice, al momento della
decisione sull’autorizzazione, si sta occupando della stessa questione oppure sussiste il rischio che - secondo la distribuzione organizzativa delle cause - possa essere chiamato a occuparsene in futuro. Nella prima fattispecie il
conflitto d’interessi è attuale ed evidente. Il giudice,
chiamato a decidere della stessa questione come magistrato statale, non può accettare un incarico arbitrale.
Altrimenti sussiste il rischio che decida - come giudice in modo non trasparente, in vista della funzione arbitrale. Nella seconda fattispecie il conflitto d’interessi non è
attuale, ma è altrettanto evidente. Se il giudice potesse
in futuro affrontare (in qualità di magistrato statale) la
stessa questione per la quale richiede ora l’autorizzazione
a operare come arbitro privato, egli potrebbe strumentalizzare la decisione arbitrale. La parte soccombente in arbitrato verrebbe privata di tutela, perché in successive
fasi giudiziali incontrerebbe come magistrato proprio
quella persona che - prima - ha operato come arbitro.
L’ufficio di arbitro deve considerarsi «altamente personale» (höchstpersönlich). Esso non può essere trasferito
ad altre persone. All’arbitro non è nemmeno consentito delegare a terzi il compimento di singoli atti inerenti
la sua funzione. Se il rapporto arbitro-litiganti è da qualificarsi come contratto di servizio, si applica il § 613
Note:
(11) KG, decisione del 6 maggio 2002, in SchiedsVZ, 2003, 185 s., con
nota di Mecklenbrauck.
(12) V., in particolare, Geimer, op. cit., § 1035 Rn. 33; Nacimiento/Geimer, Eins zu null für die Verbandsschiedsgerichtsbarkeit des Deutschen Fu?ballbundes, in SchiedsVZ, 2003, 90 s.
(13) OLG Stuttgart, decisione del 16 luglio 2002, in SchiedsVZ, 2003, 84
ss., con nota di Nacimiento/Geimer.
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ARBITRATO
BGB. Questa disposizione prevede che il soggetto obbligato a rendere il servizio deve, nel dubbio, prestarlo
di persona. Se il rapporto arbitro-litiganti è da qualificarsi come mandato, si applica il § 664 BGB. Questa
norma stabilisce che il mandatario, nel dubbio, non può
trasferire a terzi l’obbligo di eseguire l’incarico ricevuto.
L’ufficio di arbitro non può essere trasferito ad altri perché i contraenti, nel designare i componenti il collegio
arbitrale, individuano persone scelte in considerazione
di loro particolari caratteristiche (per esempio di competenza tecnica) che altri soggetti non possiedono.
Questo rapporto di fiducia sussiste solo con l’arbitro prescelto, non un’eventuale altra persona che l’arbitro sostituisca a sé.
Gli obblighi derivanti dal contratto
arbitri-litiganti
C
on l’accettazione dell’incarico, l’arbitro si obbliga a fare tutto quanto necessario affinché la controversia che gli viene sottoposta venga risolta
nel minor tempo possibile nel rispetto delle specifiche
regole processuali e dei principi generali che caratterizzano il giusto processo.
L’arbitro è innanzitutto tenuto a essere imparziale e indipendente durante l’intero svolgimento del procedimento. La questione è delicata perché spesso sono i contendenti a nominare l’organo arbitrale. Tipico è il caso del
collegio composto di tre soggetti, due nominati uno ciascuno dai litiganti e il terzo dai coarbitri. Gli arbitri nominati direttamente dai contendenti sono a questi evidentemente graditi. Il rischio di un conflitto d’interessi è
evidente. Da un lato l’arbitro vorrà soddisfare chi lo ha
nominato, dall’altro l’ordinamento gli impone di comportarsi e decidere in modo neutrale. Al fine di garantire la terzietà, è lo stesso soggetto cui viene offerto l’ufficio di arbitro a dover rendere note tutte le circostanze
che potrebbero far sorgere il dubbio che non sussistano
imparzialità e indipendenza (§ 1036, primo comma,
ZPO). Se l’arbitro non svela le circostanze che mettono
a repentaglio la sua neutralità, risponde dei danni che ne
derivano.
Legata al tema della imparzialità e della indipendenza è
la questione se gli arbitri siano o meno vincolati alle
istruzioni che i contraenti impartiscono nel corso del
procedimento. Al riguardo occorre distinguere se l’indicazione proviene da uno solo dei litiganti oppure da tutti. Se l’istruzione proviene da un unico contendente, essa non è vincolate per l’arbitro. Se l’organo arbitrale seguisse quanto indicato da un litigante, agirebbe in violazione dei propri doveri. Il membro del collegio che seguisse le indicazioni di uno solo dei contraenti metterebbe a repentaglio la propria imparzialità e indipendenza. Diverso in caso in cui attore e convenuto impartiscono istruzioni congiunte. Queste sono vincolanti per
gli arbitri, purché non contrastino con il tenore del contratto arbitri-litiganti precedentemente stipulato (14).
Altrimenti occorre valutare se le nuove istruzioni rap-
presentano una variazione del precedente assetto contrattuale. Ma in questo caso occorre il consenso degli arbitri. In questo contesto è opportuno richiamare il §
1042, terzo comma, ZPO. Secondo questa norma, fatte
salve le disposizioni cogenti di legge, spetta alle parti regolare il procedimento arbitrale. In questo spazio di autonomia contrattuale, i contraenti possono - congiuntamente - istruire gli arbitri relativamente alla gestione del
processo.
Non è facile fare un’elencazione completa dei comportamenti cui sono tenuti gli arbitri nel corso del procedimento. L’organo giudicante è obbligato a informarsi e a
preparasi adeguatamente in modo da poter ben gestire il
processo. Gli arbitri sono tenuti a fornire alle parti informazioni sullo stato del procedimento. Nel caso di pagamento di acconti, l’organo arbitrale è tenuto a certificare - con apposita documentazione - l’avvenuto versamento. Se gli arbitri percepiscono somme destinate a
uno dei litiganti, essi sono obbligate a trasferirle immediatamente al destinatario. L’organo giudicante è tenuto
alla segretezza su tutto ciò di cui venga a conoscenza nel
corso del procedimento. In particolare è coperta da segreto ogni circostanza relativa alla discussione e alla deliberazione del lodo. Sotto questo profilo la situazione è
simile a quanto avviene nel processo statale. Va infatti
richiamato il § 43 DRiG, secondo il quale il giudice - anche dopo la cessazione dal servizio - deve tacere su tutto
quanto accaduto in sede di discussione e di votazione.
Questa norma è imperativa, nel senso che il magistrato
non può accordarsi con le parti in modo diverso. Nel
procedimento arbitrale, invece, i contendenti potrebbero consentire all’arbitro di rendere note circostanze altrimenti coperte da segreto (15). Si tratta, tuttavia, di un’evenienza rara nella prassi perché i litiganti non hanno
generalmente interesse alla pubblicizzazione della controversia. Terminato il procedimento arbitrale, uno degli
arbitri viene normalmente incaricato di conservare la
documentazione relativa all’arbitrato. Tale soggetto deve, se richiesto dalle parti, concedere visione degli atti
anche dopo che il lodo è stato reso (16).
Il compenso degli arbitri
U
na questione importante nel rapporto contrattuale tra gli arbitri e i litiganti è quella del compenso spettante all’organo giudicante. Se l’arbitrato è amministrato, il rapporto contrattuale intercorre
non tanto tra gli arbitri e i contendenti quanto piuttosto
tra gli arbitri e l’istituzione arbitrale. Teoricamente il soggetto cui viene proposto l’incarico potrebbe negoziare il
compenso con l’istituzione. Ciò non succede mai nella
Note:
(14) Cfr. Albers, op. cit., Appendice al § 1035, Rn. 8; Schlosser, op. cit.,
Osservazioni introduttive al § 1025 Rn. 13; Voit, op. cit., § 1035 Rn. 24.
(15) Schlosser, op. cit., Osservazioni introduttive al § 1025 Rn. 13.
(16) Geimer, op. cit., § 1035 Rn. 32.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
831
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ARBITRATO
prassi. L’istituzione arbitrale prevede infatti delle tariffe
che applica agli arbitri di cui si avvale. Con l’accettazione
dell’incarico, si accetta anche l’importo del compenso
che dipende - quasi sempre - dal valore della controversia.
L’incarico di arbitro può essere svolto verso corrispettivo
oppure gratuitamente. Nella prassi l’ufficio non viene
quasi mai svolto in via gratuita. In queste rare ipotesi, il
rapporto contrattuale è da qualificarsi come mandato.
Non si pongono in siffatto contesto problemi di quantificazione del compenso, proprio perché non ne è previsto
alcuno. L’incarico di arbitro viene svolto quasi sempre a
fronte di un compenso, anche perché l’ufficio comporta
generalmente un considerevole dispendio di energie.
Non è facile trovare persone disposte a svolgere gratuitamente un incarico complesso. Se è previsto un corrispettivo, il rapporto contrattuale tra arbitri e litiganti è da
qualificarsi come contratto di servizio. Il § 611 BGB definisce le obbligazioni tipiche del contratto di servizio: con
il contratto di servizio colui che ha promesso i servizi si
obbliga alla prestazione degli stessi, mentre l’altra parte si
obbliga alla corresponsione del compenso pattuito.
Quando è previsto un corrispettivo, la soluzione meno
foriera di complicazioni applicative è che sia lo stesso
contratto arbitro-litiganti a determinare l’importo nonché le modalità di pagamento. È la situazione migliore
da punto di vista della trasparenza del rapporto tra i contraenti. Sin da principio si sa quale sarà il corrispettivo.
Si evitano così possibili discussioni o addirittura liti. In
questo caso il fondamento della pretesa degli arbitri al
compenso è il contratto con i litiganti. L’importo del
compenso potrebbe essere addirittura già indicato nella
convenzione arbitrale (17). Questa non è tuttavia vincolante per gli arbitri. Si tratta infatti di un atto delle sole parti del rapporto giuridico sottostante, cui i (futuri)
membri dell’organo giudicante non hanno partecipato.
Solo a seguito dell’accettazione della nomina ad arbitro,
tale determinazione del compenso diventa vincolante
per il collegio. Se non sono previamente intercorsi accordi tra le parti, può essere utile affrontare l’argomento
del compenso arbitrale almeno in udienza (18).
Può quindi succedere che un soggetto accetti l’incarico
di arbitro e inizi a svolgerlo senza prima discutere le questioni attinenti al suo compenso. Si tratta di una situazione delicata perché - in casi estremi - i litiganti potrebbero pensare che l’ufficio sia a titolo gratuito, mentre l’organo arbitrale si aspetta un compenso. Più probabile è una semplice diversità di opinioni, nel senso che
l’arbitro vuole un compenso maggiore di quello che i
contendenti sono disposti a corrispondere. Per risolvere
questo dilemma, la norma di riferimento è il § 612, primo comma, BGB. Questa disposizione prevede che un
compenso si considera come tacitamente pattuito
quando, alla luce delle circostanze del caso, si deve ritenere che la prestazione del servizio possa essere attesa
solo verso un corrispettivo. Un incarico arbitrale rappresenta un servizio per lo svolgimento del quale si può
presumere che debba essere corrisposto un compenso.
832
I CONTRATTI N. 8-9/2005
In assenza quindi di elementi che fanno ritenere che
l’arbitro sia disponibile a lavorare gratuitamente (ciò
avverrà, in sostanza, solo quando egli abbia espressamente dichiarato di operare a titolo gratuito), si presume che l’incarico sia a titolo oneroso.
In un’ottica di trasparenza del rapporto, è vantaggioso
per tutti non solo prevedere espressamente che l’ufficio
di arbitro è a titolo oneroso, ma anche specificare a
quanto ammonta il corrispettivo che i litiganti sono
pronti a pagare. In linea di principio, la materia è lasciata alla negoziazione tra le parti (19).
Un criterio ricorrente per quantificare l’importo del
compenso degli arbitri è il valore della controversia (20).
Il vantaggio di questa scelta è che i contendenti sanno
sin da principio quale sarà il costo del procedimento arbitrale. L’idea sottostante a questa opzione è che una
controversia di elevato valore sia complessa e richieda
quindi un impegno particolare da parte degli arbitri. Ciò,
naturalmente, non si verifica sempre. Talvolta per risolvere «piccole» liti è necessario lo studio di un’articolata
fattispecie e di complesse questioni in punto di diritto.
Viceversa controversie d’importo elevato possono risultare tutto sommato semplici, anche se gli avvocati dei litiganti - in considerazione della posta in palio - cercheranno di sollevare tutte le eccezioni possibili e renderanno quindi la vita difficile al collegio arbitrale. In alcuni
rari casi il valore della lite è particolarmente elevato, con
la conseguenza che gli arbitri percepiscono compensi
molto consistenti. Nella prassi vengono occasionalmente corrisposti onorari superiori al milione di euro. In presenza di un valore della lite estremamente alto, i litiganti hanno interesse a trattare con i potenziali membri del
collegio al fine di «calmierare» l’importo del corrispettivo. Teoricamente potrebbe sorgere addirittura una sorta
di «mercato degli incarichi arbitrali». La società Alfa,
intenzionata a citare in arbitrato la società Beta, chiede
ai potenziali arbitri Tizio e Caio (ritenuti entrambi idonei a svolgere il compito) a quale prezzo sono disponibili ad assumere l’incarico. Ottenuta la risposta da entrambi, offrono l’incarico a quello dei due che è disponibile a
svolgerlo per la somma inferiore.
Simile al criterio del valore della controversia è la previsione di una somma fissa per lo svolgimento dell’incarico di arbitro (21). In questo caso, senza che ci si avvalga
di particolari tabelle che legano il compenso al significato economico della lite, arbitri e litiganti pattuiscono
che i primi percepiranno un certo importo per la gestione del procedimento arbitrale e per l’emissione del lodo.
Il vantaggio di questo meccanismo per i contendenti riNote:
(17) Lachmann, op. cit., 577; Schwytz, op. cit., 19.
(18) Albers, op. cit., Appendice al § 1035, Rn. 10.
(19) Lörcher/Lörcher/Lörcher, op. cit., 41; Schwytz, op. cit., 19.
(20) Lachmann, op. cit., 579 s.
(21) Lörcher/Lörcher/Lörcher, op. cit., 41.
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ARBITRATO
siede nel fatto di sapere sin dall’inizio quali saranno i costi cui vanno incontro.
Un ulteriore sistema per determinare il compenso spettante all’arbitro può essere quello di legare il corrispettivo al tempo che sarà necessario per addivenire alla soluzione della controversia. Il problema principale in questo contesto è che è spesso difficile valutare ex ante, anche solo per sommi capi, la quantità di lavoro che occorre per gestire il procedimento arbitrale e per rendere
il lodo. L’accordo secondo cui gli arbitri vengono pagati
una certa somma all’ora può essere associato a una clausola che pone un limite massimo al compenso (22). Si
potrebbe, per esempio, prevedere una retribuzione di
250 euro all’ora, con la specificazione che - se le ore di lavoro dovessero superare le 100 - il compenso dell’arbitro
non potrà comunque oltrepassare i 25.000 euro. Un altro problema nel caso di pattuizione di un corrispettivo
calcolato sul tempo è la difficoltà per i litiganti di verificare che l’arbitro abbia effettivamente lavorato per il numero di ore che afferma.
Se un compenso per l’ufficio di arbitro è dovuto (come si
presume che sia), ma non è stato espressamente concordato tra le parti a quanto esso ammonti, occorre fare riferimento a quello che è il «compenso usuale» (übliche
Vergütung) (§ 612, secondo comma, BGB) nel luogo del
procedimento arbitrale (cfr. il § 1043, primo comma,
ZPO). Se questo criterio - per qualche ragione - non
opera, trovano applicazione i §§ 315-319 BGB, i quali
regolano i c.d. «diritti di determinazione unilaterale della prestazione» (einseitige Leistungsbestimmungsrechte)
(23). Secondo il § 315 BGB, quando la prestazione deve
essere determinata da uno dei contraenti, nel dubbio la
determinazione va effettuata secondo equità. La determinazione si realizza mediante dichiarazione comunicata all’altra parte. In sostanza, è l’arbitro stesso che fissa il
compenso che gli spetta. La garanzia per i litiganti contro il rischio che l’organo giudicante si assegni una retribuzione eccessiva è data dal fatto che l’importo deve essere equo. Se sorgono contestazioni relativamente all’equità della somma, è possibile ricorrere alla giustizia statale. In assenza di previsioni espresse sul quantum, è prassi - nella determinazione del compenso - orientarsi a
quelli che sono gli onorari previsti per gli avvocati (24).
Teoricamente il compenso potrebbe essere diverso da arbitro ad arbitro (25). Si tratta tuttavia di un’evenienza
rara nella prassi arbitrale tedesca, soprattutto con riferimento ai due arbitri che non svolgono la funzione di presidente (26). Questi soggetti rivestono esattamente la
stessa posizione ed è difficile giustificare un compenso
differente. Un ragionamento diverso può essere seguito
con riferimento al presidente del collegio arbitrale. Questi ha un ruolo particolare, di conduzione del procedimento, che giustifica un compenso superiore. Nella prassi è così frequente che il presidente del collegio arbitrale
percepisca una retribuzione leggermente superiore a
quelle degli altri due arbitri.
Con riguardo alla definizione dei tempi entro i quali de-
ve avvenire il pagamento del compenso, la soluzione migliore dal punto di vista pratico è quella di regolare la
questione nel contratto arbitri-litiganti. In questo modo
si riduce il rischio di discussioni e liti. Se nel contratto
arbitri-litiganti non è stato stabilito quando debba essere corrisposto il compenso, la soluzione può essere occasionalmente rinvenuta nella convenzione arbitrale (27)
. Talvolta il contratto arbitri-contendenti oppure la convenzione arbitrale rinvia a un regolamento d’arbitrato
che disciplina la tempistica della corresponsione della
retribuzione. Se - tuttavia - nessuno di questi strumenti
contrattuali è di aiuto, trova applicazione il § 614 BGB.
Questa disposizione stabilisce che il compenso va corrisposto dopo la prestazione dei servizi. Nel contesto del
procedimento arbitrale, il servizio è reso quando il lodo è
stato emesso. Con il compimento delle formalità relative alla redazione della pronuncia finale (cfr. il § 1054
ZPO) matura il diritto degli arbitri al compenso. È tuttavia ricorrente nella prassi il pagamento di un anticipo,
materia sulla quale si tornerà nel prosieguo.
Gli arbitri possono pretendere il compenso da ciascuno
dei litiganti. Il ruolo di attore o di convenuto non rileva
in questo contesto. In particolare l’arbitro può pretendere l’onorario anche da quella delle parti che non lo ha
nominato. I contraenti rispondono solidalmente per
l’obbligo di pagare il compenso. Trova applicazione il §
427 BGB, il quale stabilisce che quando più soggetti si
obbligano per contratto a rendere insieme una prestazione divisibile, nel dubbio essi rispondono come debitori
solidali.
Terminato il procedimento arbitrale, gli arbitri possono
agire in giudizio nei confronti dei litiganti che non pagano il compenso pattuito (28). Una volta che il processo
dinanzi al collegio è terminato, i membri dello stesso
possono far valere giudizialmente i propri diritti. Dal momento che gli arbitri hanno cessato di svolgere la funzione giudicante, la loro imparzialità e indipendenza non è
più a rischio. Nulla osta che essi citino in giudizio le parti del procedimento arbitrale che si rifiutano ingiustamente di corrispondere l’onorario pattuito.
Le spese del procedimento
O
ltre alla necessità di compensare gli arbitri, va
tenuto presente che il procedimento arbitrale
comporta dei costi di gestione. Può capitare che
Note:
(22) Lachmann, op. cit., 576 s.
(23) Cfr. Albers, op. cit., Appendice al § 1035, Rn. 10; Geimer, op. cit., §
1035 Rn. 24; Schlosser, op. cit., Osservazioni introduttive al § 1025 Rn.
14; Schwab/Walter, op. cit., 117; Voit, op. cit., § 1035 Rn. 26.
(24) Lörcher/Lörcher/Lörcher, op. cit., 41; Schwytz, op. cit., 19.
(25) Lachmann, op. cit., 561; Voit, op. cit., § 1035 Rn. 26.
(26) Lörcher/Lörcher/Lörcher, op. cit., 42.
(27) Lachmann, op. cit., 578.
(28) Lachmann, op. cit., 592; Zimmermann, op. cit., § 1035 Rn. 6.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
833
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ARBITRATO
il contratto arbitri-litiganti regoli espressamente questa
questione nel senso di prevedere modalità per il rimborso delle spese affrontate dal collegio.
Anche nel caso in cui il contratto arbitri-litiganti non
preveda nulla, i contraenti sono obbligati a rimborsare le
spese che il collegio affronta per la gestione del processo.
In questo senso dispone il § 670 BGB, secondo cui se il
mandatario - ai fini dello svolgimento del mandato - affronta delle spese necessarie, il mandante è obbligato a
rimborsarle. Tra le fuoriuscite più ricorrenti nella prassi
vanno menzionate quelle per i viaggi e i pernottamenti.
L’arbitro può inoltre concludere quei negozi che si rendano necessari in un’ottica di buona gestione del procedimento arbitrale (29). Il presidente del collegio può così, per esempio, prendere in locazione degli spazi al fine
di tenere un’udienza del processo.
Gli anticipi
N
ei procedimenti arbitrali possono assumere una
certa rilevanza le questioni relative al pagamento di anticipi. Il versamento anticipato di una
somma può essere finalizzato tanto a pagare il compenso
spettante agli arbitri quanto a far fronte ai costi del processo.
Segue: a) gli anticipi sul compenso
Q
uasi sempre gli arbitri si premurano di ottenere
dai contendenti, sin dall’inizio, una somma che
copra - almeno parzialmente - i compensi loro
spettanti. La ragione è semplice: il procedimento arbitrale può durare a lungo e comportare una mole considerevole di lavoro. Non ricevere alcun compenso dopo
l’emissione del lodo, indipendentemente dai motivi che
determinano questo esito, equivale a un grave danno in
capo alla persona che ha svolto l’ufficio di arbitro. Si
pensi al professionista affermato che dedica diverse decine di ore lavorative al procedimento arbitrale (sottraendole ad altre attività), per poi non ricevere alcun compenso (e, nella ipotesi peggiore, rimettendoci pure i costi affrontati per la gestione del processo).
Gli arbitri hanno interesse a chiedere un «anticipo»
che copra tutti i compensi loro spettanti (30). Terminato il procedimento, può infatti risultare difficile ottenere il corrispettivo dal soccombente. Se il convenuto è
stato condannato dall’arbitro a pagare una certa somma all’attore, l’effetto negativo in capo a chi ha perso è
doppio. Non solo il soccombente deve effettuare un
pagamento all’altra parte (e già questa circostanza ne
riduce il patrimonio). Chi ha perso il procedimento arbitrale si trova per di più costretto a ricompensare proprio quell’arbitro che ne ha sancito la sconfitta. In una
situazione del genere non è infrequente che il soccombente tenda a frapporre ostacoli a un pagamento spontaneo. È quindi sicuramente consigliabile chiedere un
congruo anticipo sugli onorari. L’arbitro, a propria ulteriore garanzia, può condizionare l’inizio dell’attività al
percepimento della somma pattuita. In questo caso il
834
I CONTRATTI N. 8-9/2005
rischio per il collegio arbitrale è inesistente, perché esso - anche nell’ipotesi di mancato pagamento - non subisce alcun danno (nel senso di avere effettuato del lavoro non retribuito).
La questione se sia dovuto un anticipo e a quanto esso
ammonti può essere disciplinata nel contratto arbitri-litiganti. Si tratta della situazione migliore, dal punto di
vista della trasparenza, perché evita discussioni successive sull’an e sul quantum del pagamento anticipato. Altrimenti la richiesta degli arbitri di ottenere un anticipo sui
compensi finali può essere effettuata in qualsiasi fase del
procedimento arbitrale (31). Nulla vieta che il collegio
inizi a svolgere la propria attività e, in un secondo momento, ritenga opportuno chiedere un pagamento anticipato, magari perché ha già svolto una mole considerevole di lavoro.
I soggetti che, rispettivamente, effettuano e ricevono il
pagamento dell’anticipo sono le stesse persone che danno vita al procedimento arbitrale e che - in assenza di dazione anticipata - sono tenuti a regolare i conti alla fine.
Da un lato si collocano i contendenti, dall’altro gli arbitri. Attore e convenuto del procedimento arbitrale sono
obbligati in solido (§ 427 BGB) a corrispondere gli anticipi. Con riferimento alla distribuzione interna dell’onere di pagamento anticipato, si applica il § 426, primo
comma, BGB, secondo il quale i debitori solidali sono
obbligati in misura uguale. Normalmente ciascuno dei
due contendenti pagherà quindi la metà dell’anticipo.
Le parti si potrebbero tuttavia accordare nel senso che il
pagamento anticipato sia a carico di una sola di esse oppure di una di esse in misura diversa da quanto spetti all’altra. Si tratta di un’evenienza rara nella prassi.
Fino a quando il pagamento dell’anticipo richiesto dagli
arbitri non è stato effettuato, questi possono sospendere
la propria attività (32). Trova insomma applicazione il §
273, primo comma, BGB. Secondo questa norma quando il debitore vanta una pretesa scaduta nei confronti
del creditore, egli può rifiutare la propria prestazione sino a quando viene resa quella che gli spetta. È opportuno che gli arbitri, nel momento in cui concordano il pagamento degli anticipi, chiariscano che - in mancanza di
corresponsione degli stessi - essi sospenderanno l’attività. Questa condizione espressa può servire da deterrente per i litiganti. La sospensione dell’attività persiste fino
a quando l’anticipo viene pagato. Eventualmente si deve attendere sino a quando uno dei due litiganti ha costretto giudizialmente l’altro a versare il pagamento antiNote:
(29) Lachmann, op. cit., 588 s.
(30) Cfr. Lachmann, op. cit., 590; Lörcher/Lörcher/Lörcher, op. cit., 42 s.;
Zimmermann, op. cit., § 1035 Rn. 7.
(31) Albers, op. cit., Appendice al § 1035, Rn. 12 s.
(32) Cfr. Albers, op. cit., Appendice al § 1035, Rn. 13; Lachmann, op.
cit., 591; Lörcher/Lörcher/Lörcher, op. cit., 43; Schlosser, op. cit., Osservazioni introduttive al § 1025 Rn. 14; Schwytz, op. cit., 20; Voit, op. cit.,
§ 1035 Rn. 27; Zimmermann, op. cit., § 1035 Rn. 7.
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ARBITRATO
cipato. Se il rifiuto persiste nel tempo, gli arbitri possono
disdettare il rapporto contrattuale.
Il pagamento dell’anticipo potrebbe essere rifiutato da
uno solo dei litiganti. Generalmente si tratta del contendente che non ha interesse alla prosecuzione del procedimento. In una situazione del genere lo stallo può essere superato se l’altro litigante si offre di pagare quando
dovuto dal soggetto riluttante. Successivamente la parte
diligente può citare in giudizio la controparte per ottenere, seppure con ritardo, quanto dovuto (vale a dire la
metà dell’importo complessivo versato agli arbitri a titolo di anticipo). In questo caso il sacrificio del pagamento anticipato per intero da uno dei due litiganti è finalizzato a consentire lo svolgimento del procedimento, che
sarebbe altrimenti bloccato. Se il versamento dell’anticipo non viene effettuato spontaneamente, l’organo arbitrale non può agire in giudizio per ottenerlo (33). L’azione deve invece essere intentata dalla controparte. Alfa
cita Beta dinanzi al giudice statale al fine di far sì che Beta corrisponda la sua parte di anticipo e il procedimento
arbitrale possa proseguire.
Segue: b) gli anticipi sulle spese
G
li arbitri hanno il diritto di ottenere un anticipo
sui costi che il procedimento comporta. Stabilisce infatti il § 669 BGB che, ai fini dell’esecuzione del mandato, il mandante deve - su richiesta - anticipare al mandatario le spese necessarie. La richiesta
degli arbitri può essere effettuata in qualsiasi momento
del procedimento, generalmente agli inizi. Può capitare
che gli arbitri omettano di chiedere un anticipo nelle fasi iniziali. Magari l’omissione è voluta, perché si giudicano i costi del procedimento bassi e non pare opportuno
chiedere un contributo ai litiganti. Successivamente il
collegio giudicante si trova ad affrontare delle spese (per
esempio di viaggio e di pernottamento) non preventivate. Questa circostanza può indurre a chiedere un pagamento anticipato.
Il mancato pagamento di un anticipo a copertura delle
spese legittima l’arbitro a sospendere temporaneamente
la propria attività (34). Se il rifiuto persiste, l’organo giudicante può disdettare il rapporto contrattuale.
Se le questioni attinenti alle spese non sono state regolate all’inizio del procedimento mediante il pagamento
di un anticipo, esse devono essere affrontate alla fine.
Gli arbitri hanno diritto a ottenere il rimborso dei costi
affrontati per lo svolgimento del proprio ufficio. Al riguardo trova applicazione il § 670 BGB già menzionato
sopra. Questa disposizione prevede che, se il mandatario
- ai fini dell’effettuazione del mandato - affronta delle
spese necessarie, il mandante è obbligato a rimborsarle.
La responsabilità degli arbitri
T
ra gli arbitri e le parti si instaura una relazione
contrattuale. Il rapporto è assoggettato alle disposizioni generali in materia di contratti e di obbligazioni. Tra queste va menzionato il § 276 BGB, che
statuisce il principio della responsabilità del debitore per
colpa e per dolo (35). Gli arbitri sono responsabili degli
atti colposi e dolosi che cagionano danni ai litiganti. Si
pensi a quanto previsto dal § 1036, primo comma, ZPO.
Secondo questa disposizione i soggetti cui venga proposto di svolgere la funzione di arbitro devono rendere note tutte le circostanze che mettono in pericolo la loro
imparzialità e indipendenza. La persona che accetta l’incarico arbitrale in violazione di questa norma si rende responsabile nei confronti di chi ha fatto affidamento sulla sua neutralità.
Con riguardo al lodo, la norma di riferimento per l’affermazione di un’eventuale responsabilità degli arbitri è il §
839, secondo comma, BGB. Si tratta della stessa disposizione di carattere generale che regola la responsabilità dei
giudici. È una norma particolarmente restrittiva che afferma la responsabilità solo in casi estremi. Essa stabilisce
che, se un pubblico ufficiale viola i propri doveri d’ufficio
nel rendere una sentenza, egli risponde del danno che ne
consegue solo quando la violazione del dovere configura
un fatto di reato. Il legislatore prevede quindi, in relazione
ai contenuti dei provvedimenti emanati dagli arbitri, una
limitazione di responsabilità. In questo modo si vuole garantire la libertà del giudicante di decidere secondo scienza e coscienza senza il timore di essere citato per danni in
conseguenza dei lodi pronunciati (36). In sostanza l’unico
caso di responsabilità in cui possono incorrere gli arbitri si
realizza nel caso del compimento del reato di «alterazione
strumentale del diritto» (Rechtsbeugung) (37). È la fattispecie prevista e punita dal § 339 StGB. Secondo questa
disposizione un arbitro che, nella conduzione oppure nella decisione di una questione giuridica, altera strumentalmente il diritto a vantaggio o a svantaggio di una parte è
punito con la pena detentiva da uno a cinque anni.
La cessazione del rapporto contrattuale
I
l contratto arbitri-litiganti è normalmente a tempo
indeterminato. L’organo giudicante ha il compito di
gestire il procedimento al fine di addivenire a una soluzione della controversia. Quanto tempo poi duri il processo dipende dalle circostanze del caso concreto. Non si
può tuttavia escludere che, per i contendenti, la celerità
della soluzione della lite costituisca elemento di centrale
rilevanza. In questo caso i contraenti possono fissare un
termine entro il quale l’arbitro deve rendere il lodo. Il
contratto arbitri-litiganti è allora a tempo determinato.
Note:
(33) Cfr. Albers, op. cit., Appendice al § 1035, Rn. 13; Geimer, op. cit., §
1035 Rn. 26; Lachmann, op. cit., 590 s.; Lörcher/Lörcher/Lörcher, op. cit.,
43; Schlosser, op. cit., Osservazioni introduttive al § 1025 Rn. 14; Voit,
op. cit., § 1035 Rn. 27; Zimmermann, op. cit., § 1035 Rn. 7.
(34) Schwytz, op. cit., 20.
(35) Schwab/Walter, op. cit., 114 s.; Schwytz, op. cit., 18.
(36) Schwytz, op. cit., 18.
(37) Gottwald, op. cit., 1276.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
835
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ARBITRATO
Si pone la questione di cosa succeda se il termine per l’emissione del lodo non viene rispettato. Secondo un’opinione dottrinale il provvedimento finale dell’arbitro rimane comunque valido (38). La previsione di un limite
temporale non è infatti finalizzato a privare di effetti il
lodo, ma solamente a garantire un veloce svolgimento
del procedimento. Se il processo viene allora continuato
nonostante il superamento del termine, si può presumere che i litiganti si siano accordati tacitamente per una
proroga dello stesso. Una soluzione diversa va preferita
quando, alla scadenza, uno dei contraenti solleva la relativa eccezione. In questo caso il ritardo configura un
mancato adempimento dell’arbitro, che comporta la
cessazione del procedimento (§ 1038, primo comma,
ZPO), dalla quale - a sua volta - consegue il venir meno
del rapporto contrattuale arbitri-litiganti.
Nel caso di rifiuto di eseguire l’incarico arbitrale nonostante la formale accettazione della nomina, trova applicazione il § 1038, primo comma, ZPO. Questa disposizione stabilisce che, se un arbitro non è in grado, per ragioni
di diritto o di fatto, di svolgere i propri compiti oppure se
- per altre ragioni - non svolge i propri compiti entro un
congruo termine, cessa il suo ufficio, se egli dà le dimissioni oppure se i litiganti si accordano per la terminazione
dell’incarico. A fronte di un comportamento non cooperativo, i contendenti possono concordare la cessazione
dall’ufficio arbitrale. Se attore e convenuto non trovano
un accordo al riguardo, ciascuno di essi può rivolgersi al
giudice statale affinché questi dichiari la terminazione
dell’incarico. La cessazione dall’incarico fa venir meno il
rapporto contrattuale arbitri-litiganti. Il rifiuto immotivato dell’arbitro di svolgere il proprio ufficio lo rende inoltre
responsabile per danni nei confronti dei contendenti che
hanno fatto affidamento sulla sua collaborazione.
Se un arbitro si rifiuta di eseguire l’incarico arbitrale o
parte di esso, non si può invece agire forzatamente nei
suoi confronti (39). Normalmente, nel caso di obblighi
di fare, se il debitore non adempie volontariamente, il
giudice minaccia l’applicazione di una sanzione pecuniaria (Zwangsgeld) o di una sanzione detentiva (Zwangshaft) al fine d’incentivare il compimento dell’atto (§
888, primo comma, ZPO). All’applicazione di questa disposizione nei confronti dell’arbitro osta il dettato del §
888, terzo comma, ZPO. Secondo questa norma l’esecuzione forzata di obblighi di fare non ha luogo con riferimento ai servizi che devono essere prestati in base a un
contratto di servizio. Nel caso specifico dell’arbitrato,
l’applicazione di questa eccezione appare del tutto ragionevole. Costringere un arbitro (che non vuole) a gestire
lo svolgimento dell’intero procedimento arbitrale è del
tutto controproducente per gli stessi litiganti. Come può
una persona fatta condannare giudizialmente proprio da
uno dei soggetti che deve giudicare a rendere un lodo sereno? Libertà, imparzialità e indipendenza dell’arbitro
non sarebbero più garantite.
Il contratto arbitri-litiganti può essere risolto consensualmente da tutte le parti dello stesso. I contraenti pos-
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I CONTRATTI N. 8-9/2005
sono in qualsiasi momento pervenire a un accordo risolutorio per effetto del quale il rapporto contrattuale precedentemente in essere viene terminato.
Gli arbitri e i contendenti del procedimento arbitrale
possono poi far cessare unilateralmente («disdettare») il
rapporto contrattuale.
Segue: a) la disdetta dei litiganti
P
er quanto riguarda l’attore e il convenuto del procedimento arbitrale, questi possono disdettare il
rapporto contrattuale in qualsiasi momento. Nel
contesto del contratto di servizio, la disposizione di riferimento è il § 626 BGB, che disciplina la disdetta senza
preavviso per importante motivo. Occorre che si siano
verificati dei fatti a causa dei quali, alla luce di tutte le
circostanze del caso concreto, non ci si può ragionevolmente aspettare dal disdettante una continuazione del
rapporto. Trova inoltre applicazione il § 627, primo
comma, BGB. Questa disposizione stabilisce che - in un
rapporto di servizio non riconducibile a un rapporto di
lavoro - la disdetta è ammissibile anche senza i presupposti di cui al § 626 BGB, quando la persona obbligata a
prestare il servizio deve prestare servizi di alto livello di
cui è incaricato in virtù di un particolare rapporto fiduciario. La disdetta a opera dei litiganti, vuoi in presenza
di un importante motivo vuoi senza che una tale ragione
ricorra, deve sempre provenire da entrambi i contraenti
del rapporto giuridico sostanziale sottostante (40). Il
contratto vincola infatti tutti e due i contendenti e non
ha rilievo chi abbia concretamente proceduto alla nomina dell’arbitro.
Se l’incarico di arbitro è svolto a titolo gratuito e il contratto è da qualificarsi come mandato, la norma di riferimento per la disdetta delle parti è il § 671, primo comma, BGB. Secondo questa disposizione il mandato può
essere sempre revocato dal mandante. La disdetta a opera dei litiganti deve provenire da entrambi (attore e convenuto). Se operata da un solo contraente è inefficace.
La disdetta dei litiganti è possibile anche senza un importante motivo (41). L’organo giudicante trova la propria legittimazione nella volontà dei contraenti. Non solo i litiganti hanno inizialmente rimesso la soluzione della controversia ad arbitrato, ma esse hanno anche - successivamente - individuato gli arbitri. Inoltre i contraenti possono, in qualsiasi momento, porre fine al procedimento arbitrale. La «sovranità» dei litiganti si esprime
anche nella possibilità di porre termine alla relazione
contrattuale con l’arbitro.
Note:
(38) Voit, op. cit., § 1035 Rn. 23.
(39) Albers, op. cit., Appendice al § 1035, Rn. 5; Geimer, op. cit., § 1035
Rn. 28; Gottwald, op. cit., 1276; Schwab/Walter, op. cit., 112 s.; Schwytz,
op. cit., 17; Voit, op. cit., § 1035 Rn. 23.
(40) Schlosser, op. cit., Osservazioni introduttive al § 1025 Rn. 15;
Schwytz, op. cit., 18; Zimmermann, op. cit., § 1035 Rn. 8.
(41) Voit, op. cit., § 1035 Rn. 30.
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ARBITRATO
Segue: b) la disdetta degli arbitri
A
nche l’altro soggetto del rapporto contrattuale,
l’arbitro, può disdettare. A seconda che per lo
svolgimento dell’incarico sia previsto o meno
un compenso trovano applicazione le disposizioni in materia di contratto di servizio oppure di mandato.
Nel contesto del contratto di servizio si applica il § 626
BGB. L’arbitro può disdettare solo in presenza di un importante motivo. Sull’organo giudicante incombe il dovere di far procedere il procedimento, obbligo cui si può
venire meno solo in presenza di gravi circostanze. Diverse situazioni possono configurare un importante motivo
(42). Una significativa ragione si ha, per esempio, quando viene meno il rapporto fiduciario tra gli arbitri e i litiganti. Si pensi al caso di un contendente che offende
gravemente l’organo arbitrale. Il mancato pagamento di
un anticipo costituisce ragione sufficiente per porre termine al rapporto contrattuale. Una malattia di lunga durata oppure un cambiamento di residenza oppure un trasferimento all’estero possono giustificare le dimissioni.
La domanda di ricusazione avanzata da una parte può indurre l’arbitro a rimettere immediatamente il proprio incarico (cfr. il § 1037, secondo comma, ZPO che prevede
espressamente la possibilità che l’arbitro contro il quale
è presentata istanza di ricusazione «si dimetta»). L’inattività oppure l’impossibilità di svolgere l’ufficio (cfr. il §
1038, primo comma, ZPO) possono indurre alle dimissioni.
Se la disdetta da parte dell’arbitro avviene senza importante motivo, l’obbligato è tenuto a risarcire al soggetto
legittimato a ricevere il servizio il danno che ne deriva.
Il nocumento consiste generalmente nel fatto che la decisione della controversia viene ritardata. In certi casi
una delle parti del rapporto giuridico sostanziale controverso potrebbe addirittura, in conseguenza della disdetta
dell’arbitro, perdere interesse alla soluzione della lite. Si
immagini che la società Alfa voglia vedere condannata
la società Beta al pagamento di una certa somma di denaro. Se Beta è in difficoltà economiche e a rischio insolvenza, la celerità del procedimento costituisce elemento di centrale rilevanza. Più dura il processo inferiori sono le probabilità di ottenere soddisfazione del credito. In una situazione del genere una disdetta senza importante motivo dell’arbitro è in grado di cagionare danni consistenti in capo alla società creditrice. Secondo
quanto disposto dal § 628, secondo comma, BGB, se la
disdetta è dovuta al comportamento dell’altra parte contrario ai doveri contrattuali, questa parte è obbligata a risarcire il danno derivante dalla cessazione del rapporto
di servizio.
Una disdetta immotivata da parte dell’arbitro comporta
conseguenze anche in termini di compenso. Ai sensi del
§ 628, primo comma, BGB, se l’obbligato a prestare un
servizio disdetta il rapporto contrattuale senza che la disdetta sia giustificata da un comportamento contrario ai
doveri contrattuali dell’altra parte oppure se l’obbligato
cagiona con il suo comportamento contrario a contratto
la disdetta dell’altra parte, egli non ha diritto a compenso se le prestazioni poste in essere sino a quel momento
non hanno alcun interesse per l’altra parte. Le somme
già pagate devono essere restituite.
Nei rari casi in cui l’ufficio arbitrale viene svolto in via
gratuita, la disdetta dell’arbitro è regolata dal § 671 BGB
in tema di mandato. Ai sensi del § 671, primo comma,
BGB il mandato può essere sempre disdettato dal mandatario. Secondo invece il § 671, secondo comma, BGB,
il mandatario può disdettare solo se il mandante può organizzarsi al fine di conseguire l’obiettivo cui mirava il
negozio in altro modo, a meno che sussista un importante motivo per la disdetta immediata. Se il mandatario disdetta il rapporto contrattuale senza preavviso e senza un
importante motivo, egli deve risarcire al mandante il
danno che ne deriva. L’arbitro che accetta di svolgere la
proprie funzioni gratuitamente è quindi tenuto, in linea
di principio, ad andare sino in fondo. In caso di disdetta
immotivata può essere chiamato a risarcire il danno.
Segue: c) altri casi di cessazione
del rapporto contrattuale
I
l caso per così dire «naturale» di cessazione del contratto arbitri-litiganti si realizza quando il lodo viene
emesso. In questa ipotesi il rapporto contrattuale ha
raggiunto il suo scopo. Ai sensi del § 1056, primo comma, ZPO il procedimento arbitrale cessa con il lodo definitivo. Gli arbitri hanno svolto l’incarico loro affidato.
Ne consegue che, con la cessazione del procedimento arbitrale, cessa l’ufficio del collegio arbitrale (§ 1056, terzo
comma, ZPO).
Altre volte il rapporto contrattuale arbitro-litiganti viene meno perché si verificano certi eventi in capo all’arbitro. Si pensi al caso di morte del soggetto che svolge la
funzione arbitrale. Oppure si immaginino fattispecie che
rendono impossibile lo svolgimento dell’ufficio. In queste ipotesi trova applicazione il § 1038 ZPO già illustrato sopra. Un’altra fattispecie in cui viene meno il contratto tra l’arbitro e i litiganti si realizza quando il primo
viene ricusato con successo. La ricusazione dell’arbitro e
il procedimento di ricusazione sono regolati dai §§ 1036
e 1037 ZPO.
Le vicende concernenti i contendenti non sono invece
idonee, almeno in linea di principio, a produrre effetti
sul contratto arbitri-litiganti. Si pensi all’ipotesi in cui
uno dei due contraenti muoia nel corso del procedimento arbitrale. In questo caso il processo continua nella
persona del successore del defunto. L’evento morte non
intacca la sostanza del rapporto arbitri-litiganti (43).
Note:
(42) Cfr. Albers, op. cit., Appendice al § 1035, Rn. 15; Schwytz, op. cit.,
18; Voit, op. cit., § 1035 Rn. 29 Zimmermann, op. cit., § 1035 Rn. 8.
(43) Voit, op. cit., § 1035 Rn. 28.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
837
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•SINTESI
Osservatorio comunitario
a cura di ELENA BIGI Studio Legale De Berti Jacchia Franchini Forlani - Bruxelles
Convenzione di Bruxelles
La Corte di Giustizia si esprime in due sentenze sulla competenza giurisdizionale
in materia di contratti assicurativi
Corte di Giustizia CE, sentenza del 12 maggio 2005, causa C-112/03, Société financière et industrielle du Peloux/Axa
Belgium e a.
Con decisione del 20 febbraio 2003, la Cour d’Appel de Grenoble (Francia) ha adito in via pregiudiziale la Corte di giustizia delle Comunità Europee ai fini dell’interpretazione dell’art. 12, punto 3 della Convenzione del
27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e
commerciale («la Convenzione di Bruxelles») (1). Tale disposizione prevede la possibilità di derogare, tramite una convenzione conclusa tra il contraente dell’assicurazione e l’assicuratore, alle regole di competenza giurisdizionale in materia di assicurazione fissate dalla Convenzione stessa (2). In particolare, il paragrafo 3, dell’art. 12, permette all’assicuratore e al contraente dell’assicurazione che hanno il domicilio o risiedono abitualmente nel medesimo Stato contraente al momento della conclusione del contratto, di attribuire convenzionalmente la competenza al giudice di tale Stato, anche nel caso in cui l’evento dannoso si produca all’estero e sempre che la legge di quest’ultimo non vieti dette convenzioni. La questione interpretativa è stata sollevata nell’ambito del procedimento, fondato su un ricorso per incompetenza, pendente dinanzi alla Cour
d’appel de Grenoble, tra la Société financière et industrielle du Peloux (in seguito: «SFIP»), società di diritto francese, e una serie di società assicurative francesi e belghe (3), in merito all’efficacia di una clausola di proroga
della giurisdizione nel contesto dell’azione di garanzia promossa dalla SFIP contro i suoi assicuratori nell’ambito di una polizza gruppo. In particolare, la SFIP forniva nel 1990 dei pannelli ad un’impresa appaltatrice della costruzione di un centro di produzione di formaggi (Calland Realisations); l’appaltante (Laiterie du Chatelard)
rilevava difetti di progettazione e di fabbricazione nei suddetti pannelli che rendevano i locali inidonei alla loro destinazione, provocando ingenti danni economici. La SFIP era assicurata, all’epoca dei fatti, presso le succitate società assicurative francesi e, in quanto filiale della società di diritto belga Recticel, anche presso vari
assicuratori belgi, che prestavano garanzia sulla base di una polizza gruppo sottoscritta dalla Recticel ed estesa
alla SFIP. Tale contratto di assicurazione prevedeva che, in caso di controversie, la compagnia si sarebbe assoggettata alla giurisdizione del foro del domicilio del sottoscrittore della polizza gruppo (la Recticel). Nel 2001
la Laiterie du Chatelard conveniva in giudizio la SFIP, la Calland e le relative compagnie assicuratrici dinanzi
al Tribunal de Grande Instance de Bourgoin-Jallieu (Francia), il quale, a seguito dell’eccezione d’incompetenza
sollevata dalle compagnie assicuratrici belghe chiamate in garanzia dalla SFIP, rinviava la causa al Tribunal de
première instance de Bruxelles, perché si deliberasse in merito alle domande della SFIP nei confronti di tali compagnie. La SFIP proponeva allora ricorso per incompetenza dinanzi alla Court d’appel de Grenoble, sostenendo
Note:
(1) GUCE L 299 del 21 dicembre 1972, 32. Il testo consolidato della Convenzione comprende le modifiche apportate dalla Convenzione 9 ottobre
1978, relativa all’adesione del Regno di Danimarca, dell’Irlanda e del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (GU L 304, 1, e - testo modificato - 77), dalla Convenzione 25 ottobre 1982, relativa all’adesione della Repubblica ellenica (GU L 388, 1), dalla Convenzione 26 maggio 1989, relativa all’adesione del Regno di Spagna e della Repubblica portoghese (GU L 285, 1) e dalla Convenzione 29 novembre 1996 relativa all’adesione della Repubblica d’Austria, della Repubblica di Finlandia e del Regno di Svezia (GU 1997, C 15, 1). Occorre inoltre ricordare che, a partire dall’1° marzo 2002, la Convenzione di Bruxelles è stata sostituita dal Regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, in GUCE L 12 del 16
gennaio 2001, 1, che ha in pratica «comunitarizzato» la materia della competenza giurisdizionale e dell’esecuzione delle decisioni in materia civile e
commerciale tra gli Stati membri dell’UE (eccetto la Danimarca, a cui continua ad applicarsi la Convenzione di Bruxelles).
(2) Tali regole, contenute in particolare negli artt. 8 e 9 della Convenzione, prevedono che l’assicuratore domiciliato nel territorio di uno Stato membro possa essere convenuto dinanzi al giudice dello Stato in cui è domiciliato, oppure in un altro Stato membro dinanzi al giudice del luogo ove ha domicilio il contraente dell’assicurazione, oppure, se si tratta di un coassicuratore, dinanzi al giudice dello Stato membro presso il quale sia stata proposta
l’azione contro l’assicuratore delegato della coassicurazione. Nel caso si tratti di assicurazione per responsabilità civile, l’assicuratore potrà altresì essere
convenuto dinanzi al giudice del luogo ove si è verificato l’evento dannoso.
(3) In particolare, Axa Belgium, Zurich Assurances, AIG Europe, Fortis Corporate Insurance, Gerling Konzern Belgique, Axa Corporate Solutions Assurance
e Zurich International France.
838
I CONTRATTI N. 8-9/2005
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•SINTESI
l’inopponibilità nei suoi confronti della clausola attributiva di competenza contenuta in un contratto da essa
non sottoscritto. Il giudice di rinvio riteneva opportuno sospendere il procedimento per rivolgersi alla Corte
di Giustizia europea, chiedendo se una clausola di proroga di competenza, stipulata in conformità all’art. 12,
punto 3, della Convenzione di Bruxelles in un contratto assicurativo per conto di chi spetta concluso tra un
contraente dell’assicurazione e un assicuratore, sia efficace nei confronti dell’assicurato beneficiario di detto
contratto che non abbia espressamente sottoscritto la clausola in questione e che abbia domicilio in un altro
Stato contraente diverso da quello dello stipulante dell’assicurazione e dell’assicuratore. Nel risolvere la questione prospettatale, la Suprema Corte osserva preliminarmente che la Convenzione del 1968 va interpretata
alla luce dei suoi obiettivi specifici, dei principi generali e del suo collegamento con il Trattato CE (4); a tale
proposito, la Convenzione prevede, alla sezione 3 del titolo II, un sistema autonomo di ripartizione delle competenze giurisdizionali in materia di assicurazioni (5).
Secondo una giurisprudenza costante (6), tale sistema, offrendo all’assicurato una gamma di competenze più estesa di quella offerta all’assicuratore ed escludendo qualsiasi possibilità di stabilire una clausola di proroga della competenza a favore di quest’ultimo, è volto alla tutela dell’assicurato, considerato come la parte economicamente più
debole, che si trova nella maggior parte dei casi di fronte a contratti predeterminati le cui clausole non possono più
essere oggetto di trattative. Inoltre, in materia di contratti assicurativi, l’obiettivo di tutela della persona economicamente più debole è altresì garantito mediante l’introduzione di limiti all’autonomia contrattuale delle parti
per quanto riguarda la proroga di competenza. In tal senso, l’art. 12 della Convenzione contiene un elenco tassativo delle ipotesi in cui le parti possono derogare alle regole di competenza generali, ipotesi che, secondo la Corte,
devono essere restrittivamente interpretate. In particolare, la clausola di proroga di competenza rilevante nel caso
a quo e prevista dall’art. 12.3 è ammessa dalla Convenzione in quanto non priva la parte più debole del contratto,
l’assicurato, di adeguata protezione, consentendogli di rinunciare ad agire innanzi al giudice del luogo in cui si è
verificato l’evento dannoso ma non innanzi al giudice del suo stesso domicilio (7). Relativamente all’applicazione
di una tale clausola al beneficiario assicurato, la Corte del Lussemburgo rileva che, tacendo la Convenzione in proposito, la possibilità di una sua applicazione dipende dal rispetto dell’obiettivo della Convenzione stessa di tutela
del contraente più debole.
Orbene, l’opponibilità di tale clausola comporterebbe gravi conseguenze per un assicurato beneficiario che non
l’abbia sottoscritta e che sia domiciliato in un altro Stato contraente. Infatti, secondo i giudici comunitari, essa priverebbe, da un lato, tale assicurato della possibilità di adire sia il giudice del luogo dell’evento dannoso sia quello
del proprio domicilio, obbligandolo a coltivare le proprie pretese nei confronti dell’assicuratore davanti al giudice
del domicilio di quest’ultimo; dall’altro lato, consentirebbe all’assicuratore, nell’ambito di un’azione contro l’assicurato beneficiario, di adire il giudice del proprio domicilio.
Una siffatta interpretazione condurrebbe quindi ad accettare una proroga di giurisdizione a favore dell’assicuratore e ad ignorare l’obiettivo della tutela della persona economicamente più debole, nel caso di specie l’assicurato beneficiario.
Alla luce di quanto sopra esposto la Corte di Giustizia conclude la sua pronuncia affermando che: ´Una clausola
attributiva di competenza, stipulata conformemente all’art. 12, punto 3, della Convenzione 27 settembre 1968,
concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, come
modificata dalla Convenzione 9 ottobre 1978, relativa all’adesione del Regno di Danimarca, dell’Irlanda e del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, dalla Convenzione 25 ottobre 1982, relativa all’adesione della
Repubblica ellenica, dalla Convenzione 26 maggio 1989, relativa all’adesione del Regno di Spagna e della Repubblica portoghese e dalla Convenzione 29 novembre 1996, relativa all’adesione della Repubblica d’Austria, della Repubblica di Finlandia e del Regno di Svezia, non è opponibile all’assicurato beneficiario di tale contratto che
non abbia espressamente sottoscritto la suddetta clausola e con domicilio in uno Stato contraente diverso da quello del contraente dell’assicurazione e dell’assicuratore».
Note:
(4) Cfr. in tal senso, C. Giust. CE 6 ottobre 1976, causa 12/76, Tessili, punto 9.
(5) Cfr. artt. 8 e 9 citati supra nota 2.
(6) C. Giust. CE 14 luglio 1983, causa 201/82, Gerling e a., punto 17, e C. Giust. CE 3 luglio 2000, causa C-412/98, Group Josi, punto 64.
(7) Pertanto, benché il principio di autonomia delle parti consenta al contraente dell’assicurazione di rinunciare a una delle due forme di tutela attribuite dalla Convenzione, tuttavia, a causa dell’inderogabilità dell’obiettivo di tutela della persona economicamente più debole, tale autonomia non è
talmente ampia da includere la possibilità per il suddetto contraente di rinunciare alla competenza del giudice del luogo in cui ha il domicilio. Cfr., in
via analogica in materia di tutela dei consumatori, C. Giust. CE 20 gennaio 2005, causa C-464/01, Gruber, punto 34.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
839
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•SINTESI
Corte di Giustizia CE, sentenza del 26 maggio 2005, causa C-77/04, GIE Réunion européenne e.a./Zurich España e
Soptrans
Con decisione del 20 gennaio 2004, la Cour de Cassation (Francia) ha adito in via pregiudiziale la Corte di Giustizia delle Comunità europee ai fini dell’interpretazione dell’art. 6, punto 2 e delle disposizioni della sezione 3 del
titolo II della Convenzione del 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle
decisioni in materia civile e commerciale («la Convenzione di Bruxelles») (8). L’art. 6 e la sezione 3 del titolo II
della Convenzione prevedono regole di competenza speciale che costituiscono una deroga al criterio generale che
lega il foro al domicilio del convenuto, criterio sancito nell’art. 2, primo comma, della Convenzione. In particolare, l’art. 6, punto 2, ammette che, nel caso di un’azione di garanzia o di una chiamata di un terzo nel processo, un
convenuto può essere citato davanti al giudice presso il quale è stata proposta la domanda principale, purché quest’ultima non sia stata proposta per distogliere il convenuto dal giudice naturale del medesimo. La sezione 3 del titolo II della Convenzione, formata dagli artt. 7-12 bis, è dedicata invece alle norme sulle competenze speciali in
materia d’assicurazioni (9). La questione pregiudiziale è stata presentata nell’ambito di una controversia avente ad
oggetto una chiamata in garanzia da parte degli assicuratori della Société pyrénéenne de transit d’automobiles (in seguito: la «Soptrans») contro la società Zurich España, per la ripartizione tra tali compagnie d’assicurazione del risarcimento dovuto dalla Soptrans alla società General Motors Espagne (in seguito: la «GME»). Nel caso di specie,
la Soptrans, società con sede in Francia, è la proprietaria di un parcheggio nel quale custodisce le automobili nuove destinate alla vendita e al trasporto in Europa. Per i danni causati a tali veicoli, essa è assicurata presso le compagnie GIE (gruppo di interesse economico) Réunion européenne, Axa, Winterthur, Le Continent e Assurances mutuelles de France (in seguito: «gli assicuratori»), tutte con sede o con una succursale in Francia. La controversia nella causa a quo trae origine da un sinistro avvenuto nel parcheggio della Soptrans, a seguito del quale venivano danneggiati alcuni veicoli appartenenti alla GME, all’epoca assicurata presso Zurich España, con sede in Spagna. Nell’ambito di un procedimento dinanzi al tribunale di Saragozza (Spagna), l’azione proposta dalla GME portava ad
un accordo con la Soptrans, in base al quale quest’ultima s’impegnava a versare ESP 120 milioni di risarcimento alla proprietaria dei veicoli danneggiati. La Soptrans citava in parallelo i propri assicuratori dinanzi al Tribunal de
Grande Instance di Perpignano (Francia), affinché garantissero le conseguenze dell’azione intentata nei propri confronti dinanzi al giudice spagnolo. Tali assicuratori a loro volta chiamavano in garanzia la Zurich España dinanzi al
detto tribunale, secondo quanto previsto dal codice delle assicurazioni francese, il quale consente all’assicuratore,
convenuto in giudizio dall’assicurato, di chiamare in garanzia, facendo valere un cumulo di assicurazioni, gli altri
assicuratori allo scopo di ottenere il loro contributo al risarcimento dell’assicurato. La Zurich España rivendicava la
competenza del tribunale di Barcellona, luogo della sua sede sociale. A tale riguardo, il Tribunal de Grande Instance di Perpignano dichiarava che i giudici francesi erano competenti in base all’art. 6, punto 2, della Convenzione.
La Zurich España impugnava tale decisione dinanzi alla Cour d’Appel de Montpellier, la quale, ritenendo che, nella
fattispecie, si applicassero solamente le disposizioni della sezione 3, titolo II della Convenzione, dichiarava i giudici francesi incompetenti a conoscere della chiamata in garanzia proposta dagli assicuratori. Questi ultimi proponevano allora ricorso contro tale sentenza dinanzi al giudice di rinvio, il quale ha ritenuto necessario sospendere il
procedimento e rivolgersi alla Corte di Giustizia europea per chiarire la questione, chiedendo se una chiamata in
garanzia tra assicuratori, fondata su un cumulo di assicurazioni, debba essere assoggettata alle disposizioni della sezione 3 del titolo II della Convenzione e se la competenza del giudice nel caso di specie debba essere determinata
sulla base dell’art. 6, punto 2 della medesima Convenzione.
Nella sua pronuncia, la Corte precisa innanzitutto come, secondo una giurisprudenza costante (10), dall’esame
delle disposizioni della sezione 3 del titolo II della Convenzione e alla luce dei lavori preparatori, risulta che, offrendo all’assicurato una gamma di competenze più estesa di quella offerta all’assicuratore ed escludendo qualsiasi
possibilità di stabilire una clausola di proroga della competenza a favore di quest’ultimo, le dette disposizioni sono
ispirate ad una preoccupazione di tutela dell’assicurato, che è la persona economicamente più debole. Tale funzione di tutela del contraente ritenuto economicamente più debole e giuridicamente meno esperto implica che le
Note:
(8) GUCE L 299 del 21 dicembre 1972, 32. Il testo consolidato della Convenzione, conseguente alle modifiche dovute alle adesioni di Austria, Finlandia e Svezia alla Comunità europea, si trova in GUCE C 27 del 26 gennaio 1998, 1. Va inoltre rammentato che, a partire dall’1° marzo 2002, la Convenzione di Bruxelles è stata sostituita dal Regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, in GUCE L 12 del 16 gennaio 2001, 1,
che ha in pratica «comunitarizzato» la materia della competenza giurisdizionale e dell’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale tra gli
Stati membri dell’UE (eccettuata la Danimarca, a cui continua ad applicarsi la Convenzione di Bruxelles).
(9) Per una breve descrizione della disciplina si veda, supra, nota 2.
(10) Si vedano C. Giust. CE 14 luglio 1983, causa C-201/82, Gerling e.a., punto 17 e C. Giust. CE 13 luglio 2000, causa C-412/98, Group Josi, punto 64.
840
I CONTRATTI N. 8-9/2005
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•SINTESI
norme sulla competenza speciale all’uopo previste dalla Convenzione non siano estese a favore di persone per le
quali tale protezione non appare giustificata (11). Nel caso di specie, conformemente sia alla lettera che allo scopo delle disposizioni di cui trattasi, non sembra giustificata alcuna tutela speciale per quanto attiene ai rapporti tra
assicuratori nell’ambito di una chiamata in garanzia, in quanto, secondo i giudici comunitari, nessuno di essi si trova in una posizione di debolezza rispetto all’altro. Tale interpretazione è confortata, in particolare, dagli artt. 8, 10
e 12 della Convenzione, i quali riguardano chiaramente le azioni proposte da un contraente dell’assicurazione, da
un assicurato o da una persona lesa, e dall’art. 11 della medesima Convenzione, che si riferisce alle azioni proposte
contro un contraente dell’assicurazione, un assicurato o un beneficiario.
Per quanto concerne invece l’applicazione dell’art. 6, punto 2, della Convenzione alla causa a quo, la Suprema
Corte constata che le azioni proposte dalla Soptrans e dagli assicuratori dinanzi al Tribunal de Grande Instance di
Perpignano devono essere considerate, rispettivamente, una domanda principale ed un’azione di garanzia, ai sensi dell’art. 6, punto 2, della Convenzione (12). Nel caso di specie, ai fini dell’applicazione dell’art. 6, punto 2, della Convenzione, l’azione di garanzia non deve essere proposta al solo scopo di distogliere il convenuto dal suo giudice naturale. A tale riguardo, spetta al giudice nazionale investito della domanda principale verificare l’esistenza
di un nesso sufficiente tra tale domanda e l’azione di garanzia che escludere la violazione delle norme sul foro competente. Nella fattispecie, i giudici del Lussemburgo rilevano che l’esistenza di un nesso tra le due azioni inerisce
alla nozione stessa di azione di garanzia: esiste infatti una relazione intrinseca tra un’azione diretta contro un assicuratore per il risarcimento degli effetti di un evento da esso assicurato ed il procedimento con cui tale assicuratore cerca di far contribuire un altro assicuratore che si ritiene abbia coperto il medesimo evento.
Infine, la Corte aggiunge che, in materia di azione di garanzia, l’art. 6, punto 2, della Convenzione si limita ad individuare il giudice competente e non riguarda affatto le condizioni di ammissibilità propriamente dette e che, per
quanto concerne le norme processuali, occorre fare riferimento alle norme nazionali applicabili dal giudice nazionale, le quali tuttavia non devono compromettere l’effetto utile della Convenzione (13).
Sulla base di tali considerazioni, la Corte di giustizia risolve le questioni ad essa sottoposte concludendo che: «1)
Una chiamata in garanzia tra assicuratori, fondata su un cumulo di assicurazioni, non è assoggettata alle disposizioni della sezione 3 del titolo II della Convenzione 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, come modificata dalla convenzione 9 ottobre
1978 relativa all’adesione del Regno di Danimarca, dell’Irlanda e del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del
Nord, dalla convenzione 25 ottobre 1982 relativa all’adesione della Repubblica ellenica, dalla convenzione 26
maggio 1989 relativa all’adesione del Regno di Spagna e della Repubblica portoghese e dalla convenzione 29 novembre 1996 relativa all’adesione della Repubblica d’Austria, della Repubblica di Finlandia e del Regno di Svezia. 2) L’art. 6, punto 2, della detta Convenzione si applica a una chiamata in garanzia, fondata su un cumulo d’assicurazioni, purché sussista un nesso tra la domanda principale e l’azione di garanzia, che escluda la violazione delle norme sul foro competente».
Note:
(11) Cfr. sentenza Group Josi, cit., punto 65.
(12) Questa interpretazione è corroborata dalla relazione sulla Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in
materia civile e commerciale, presentata dal sig. Jenard (GUCE del 5 marzo 1979, C 59, 1), secondo la quale l’azione di garanzia è definita come la causa «che il convenuto della causa principale propone contro un terzo allo scopo di restare estraneo agli effetti del giudizio».
(13) Si veda C. Giust. CE, 15 maggio 1990, causa C-365/88, Hagen, punti 18 e 19.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
841
ARGOMENTI•CONTRATTI DEL CONSUMATORE
Note in tema di foro
del consumatore
di GIOVANNA CAPILLI
L’Autrice analizza la problematica dell’interpretazione dell’art. 1469 bis, n. 19, del Codice civile, in tema di
foro del consumatore, attraverso un excursus della dottrina e della giurisprudenza in materia, con particolare riferimento alla soluzione offerta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n.
14699/03.
Introduzione
C
on l’ordinanza n. 14669 del 2003, le Sezioni
Unite della Corte di Cassazione hanno, in seguito ai numerosi dibattiti degli ultimi anni, composto il contrasto giurisprudenziale che ha avuto ad oggetto la norma contenuta nell’art.1469 bis, n. 19 disciplinante il foro del consumatore ed in base alla quale si
presume siano vessatorie le clausole contrattuali che
hanno per effetto di stabilire, come sede del foro competente, località diverse da quelle del luogo della residenza
o del domicilio eletto del consumatore.
La formulazione della norma è risultata piuttosto oscura
agli occhi degli interpreti, soprattutto tenuto conto di
quanto stabilito dal legislatore nella disciplina sui contratti negoziati fuori dai locali commerciali in cui è stata
stabilita l’inderogabilità della competenza territoriale del
giudice del luogo di residenza o domicilio del consumatore se ubicati nel territorio dello Stato.
L’ordinanza citata è stata emessa a fronte di una controversia sorta tra un privato che nel 1994 aveva stipulato
nel suo luogo di residenza con una società a responsabilità limitata un contratto preliminare di compravendita
di una quota di comproprietà di un residence sito nel comune di Mezzana.
Il promissario acquirente si rifiutava di concludere il
contratto definitivo giacché venivano richieste ulteriori
somme rispetto al prezzo pattuito; in considerazione del
fatto che una clausola del contratto gli attribuiva il diritto di ricevere in restituzione, in caso di recesso, la metà
del prezzo versato, con ricorso depositato il 9 giugno
1998, chiedeva al Tribunale di Bari sulla base dell’art.
1469 bis, terzo comma, n. 19, Codice civile, introdotto
con la Legge n. 52/1996 successivamente alla stipula del
preliminare, di ingiungere alla società il pagamento della relativa somma.
Quest’ultima in sede di opposizione al decreto ingiuntivo sollevava l’eccezione di incompetenza per territorio
invocando la clausola n. 11 del contratto, approvata per
iscritto, con cui veniva indicato quale foro esclusivamente competente quello di Milano.
Il tribunale di Bari accoglieva l’eccezione dichiarandosi
incompetente sul presupposto di non poter applicare al
caso sottopostogli la disciplina introdotta dopo la conclusione del contratto preliminare in base al principio di
irretroattività della legge sancito dall’art. 11, primo comma, preleggi.
Avverso tale decisione il promissario acquirente promuoveva il regolamento di competenza e poiché il ricorso presentava una questione di diritto decisa in senso
difforme dalle sezioni semplici (1), veniva assegnato dal
primo Presidente alle Sezioni Unite.
La pronuncia in esame verte sull’interpretazione dell’art.
1469-bis, terzo comma, n. 19, Codice civile chiarendone
la natura e la portata che sono state oggetto di giudizi
difformi da parte della giurisprudenza, sia di merito che
di legittimità, e della dottrina.
Tale norma, come si è accennato, è stata introdotta, con
l’intero capo XIV-bis, nel titolo secondo del libro quarto
Nota:
(1) L’orientamento della seconda sezione della Corte di Cassazione è
espresso dalla sentenza 22 novembre 2000 n. 15101, in Rep. Foro it.,
2001, voce Contratto in genere, n. 319 (commentata da Farkas, Profili temporali in tema di foro competente nei contratti dei consumatori, in questa Rivista, 2001, 785; da Pattay, Contratti conclusi dai consumatori: l’efficacia della
clausola vessatoria, in Dir. e prat. soc., 2001, 52) con la quale la Corte ha
attribuito natura sostanziale alla regola dettata dal n. 19 dell’art.1469 bis
con la conseguente inapplicabilità ai giudizi che si riferivano a rapporti
sorti in epoca precedente alla introduzione della nuova disciplina sulle
clausole vessatorie. L’orientamento della terza sezione è espresso dalla ordinanza della S.C. 24 luglio 2001, n. 10086, in Rep. Foro it., 2001, voce
Competenza civile, n. 115 (commentata da Conti, La Cassazione chiude le
porte al foro esclusivo del consumatore?, in Corr. giur., 2001, 1436; Capilli,
Il foro del consumatore ex art. 1469 bis n. 19, in questa Rivista, 2001, 1077;
De Cristofaro, La tutela processuale del consumatore tra volontà di espansione ed opzioni conservative: contrasti in cerca di assestamento nella giurisprudenza della Suprema corte, in Resp. civ., 2002, 217) che aveva stabilito che
nel caso in cui fosse stata dichiarata inefficace la clausola attributiva della competenza, stante l’efficacia per il resto del contratto («ex» art. 1469
quinquies Codice civile), sarebbero divenuti pienamente operativi i fori
generali, di cui agli art. 18 e 19 Codice di procedura civile, ed il foro facoltativo per le cause relative a diritti di obbligazione, di cui all’art. 20
Codice di procedura civile. L’orientamento della prima sezione espresso
dalla sentenza 28 agosto 2001, n. 11282 è quello che è risulta essere seguito dalle Sezioni Unite laddove si riconosce la configurabilità di un’ipotesi di competenza territoriale esclusiva e l’immediata applicabilità di
tale criterio nei procedimenti instaurati dopo la novella.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
821
ARGOMENTI•CONTRATTI DEL CONSUMATORE
del codice civile dalla Legge 6 febbraio 1996, n. 52 in attuazione della direttiva CEE 93/13 concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (2).
È opportuno precisare, al riguardo, che l’allegato della
direttiva il quale contiene un elenco di clausole che
possono dichiararsi abusive non menziona quelle che
abbiano per oggetto o per effetto di «stabilire come sede
del foro competente sulle controversie, derivanti da
contratti stipulati tra il consumatore e il professionista,
località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore» (3). La disposizione de qua, pertanto, è espressione del potere attribuito dall’art. 8 della
direttiva 93/13 agli Stati membri di «adottare o mantenere nel settore disciplinato dalla presente direttiva, disposizioni più severe, compatibili con il trattato, per garantire un livello di protezione più elevato per il consumatore».
Il legislatore italiano ritenendo insufficiente la precedente disciplina rappresentata dall’art. 1341, secondo comma, Codice civile laddove dispone che «in ogni caso non
hanno effetto, se non sono specificamente approvate per
iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui
che le ha predisposte, …deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria» ha preferito aggiungere una nuova
disposizione in tema di foro del consumatore (4). Tale
scelta si giustifica, in primo luogo, per il più limitato ambito oggettivo di applicazione dell’art. 1341 Codice civile, in quanto applicabile esclusivamente alle ipotesi di
predisposizione unilaterale delle clausole generali; in secondo luogo per il più debole criterio di tutela offerto da
quest’ultimo, ossia la doppia sottoscrizione (5).
Sono diversi i profili per cui l’art. 1469-bis, terzo comma,
n. 19, Codice civile è stato oggetto di interpretazioni
contrastanti sia in dottrina che in giurisprudenza, da un
lato sotto il profilo dell’applicabilità della nuova disciplina ai contratti stipulati anteriormente; dall’altro, sotto il
profilo della portata della disposizione, ossia se abbia introdotto o meno un foro esclusivo del consumatore, sebbene derogabile, sostituendolo ai criteri di competenza
territoriale previsti dal codice di procedura civile.
Ius superveniens
I
l problematico rapporto tra contratti stipulati anteriormente e ius superveniens è stato affrontato ora nel
senso di verificare se, perdurando il rapporto contrattuale sorto anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina, quest’ultima possa negare efficacia a quelle clausole relative ad aspetti del contratto divenuti attuali in un momento successivo; ora distinguendo le
clausole considerate presuntivamente vessatorie dalla
nuova normativa sulla base della natura sostanziale o
processuale delle medesime. L’eventuale qualificazione
processuale comporta, infatti, un regime del tutto differente nell’ambito del diritto intertemporale, atteso che
verrebbe in considerazione l’art. 5 Codice di procedura
civile e non l’art. 11 delle preleggi.
Il primo approccio è stato seguito dalla sentenza del Su-
822
I CONTRATTI N. 8-9/2005
premo Collegio del 29 novembre 1999 n. 13339 (6),
che, pur avendo ad oggetto non una clausola relativa alla competenza bensì una clausola compromissoria, prevista dall’art. 1469-bis, terzo comma, n. 18, Codice civile, senza distinguere la natura della predetta clausola, ha
risolto il problema di diritto intertemporale affermando
che «la validità - o meno - di qualsiasi contratto - in difetto di una eventuale norma espressamente dichiarata
retroattiva dal legislatore - deve essere sempre riferita alle norme in vigore nel momento della sua conclusione
(e non a quello della sua applicazione o della sua verifica
giudiziale)».
La predetta pronuncia è stata ritenuta (7) alquanto insoddisfacente per essersi conformata all’impostazione
tradizionale, ormai superata, secondo la quale il regolamento contrattuale non possa essere in tutto o in parte
travolto da una sopravvenuta modifica normativa incidente sulla validità del rapporto negoziale.
Note:
(2) Tra i numerosi commenti si veda: Alpa, Per il recepimento della direttiva comunitaria sui contratti dei consumatori, in questa Rivista, 1994, 113;
Barenghi (a cura di), La nuova disciplina delle vessatorie nel codice civile,
Napoli, 1996; Bianca-Alpa (a cura di), Le clausole abusive nei contratti
stipulati dai consumatori, Padova 1996; Carbone, La tutela del consumatore: le clausole abusive, in Corr. giur., 1996, 250; Cian, Il nuovo capo XIVbis (titolo II, libro IV) del Codice civile, sulla disciplina dei contratti con i
consumatori, in Studium iuris, 1996, II, 411; De Nova, Le clausole vessatorie, Milano, 1996; Minervini, Tutela del consumatore e clausole vessatorie, in Consumatori oggi, collana diretta da Mario Bessone e Pietro Perlingeri, Esi, 1999; Poddighe, I contratti con i consumatori, la disciplina delle clausole vessatorie, in Il diritto privato oggi, serie a cura di Paolo Cendon,
Milano, 2000; Alpa-Patti (a cura di), Clausole vessatorie nei contratti del
consumatore, Milano, 2003.
(3) L’allegato della direttiva si limita a contemplare, infatti, alla lettera
q), «le clausole che hanno per oggetto o per effetto di sopprimere o limitare l’esercizio di azioni legali o vie di ricorso del consumatore, in particolare obbligando il consumatore a rivolgersi esclusivamente a una giurisdizione di arbitrato non disciplinata da disposizione giuridiche, limitando indebitamente i mezzi di prova a disposizione del consumatore o imponendogli un onere della prova che, ai sensi della legislazione applicabile, incomberebbe a un’altra parte del contratto».
(4) Una simile formulazione era stata adottata dal Progetto di recepimento
della direttiva comunitaria elaborato dalla commissione per la tutela dei consumatori istituita presso il ministero degli affari sociali, il c.d. progetto Contri (in
appendice a AA.VV., Le clausole abusive, a cura di Bianca di Alpa, cit.),
secondo cui «si presumono vessatorie le clausole che hanno per oggetto
o per effetto di …derogare alla competenza per territorio dell’autorità giudiziaria ordinaria», e dal Disegno di legge presentato dal governo alla camera
dei deputati il 16 gennaio 1995 con il n. 1882 «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle comunità europee - Legge comunitaria 1994 (in appendice a AA.VV., Le clausole abusive, a cura di
Bianca e di Alpa, cit.) secondo cui «si presumono vessatorie fino a prova
contraria le clausole che hanno per oggetto o per effetto di sancire a carico del consumatore … deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria».
(5) Sul punto diffusamente, Vaccarella, Il problema del foro competente tra
«professionista» e «consumatore», in Doc. giust., 1996, II, 1709; Lapertosa,
Profili processuali della disciplina delle clausole vessatorie nei contratti con il
consumatore, in Riv. dir. proc., 1998, 712.
(6) Si può leggere in Corr. giur., 2000, II, 1219. Tale sentenza rappresenta la prima pronuncia di legittimità sul regime transitorio in tema di clausole abusive.
(7) Sul punto, v. Conti, Commento a Cass. 29 novembre 1999, n. 13339,
in Corr. giur., II, 1220 e ss.
ARGOMENTI•CONTRATTI DEL CONSUMATORE
È, infatti, opinione pacificamente condivisa (8), che lo
ius superveniens implicante limitazioni dell’autonomia
privata, possa incidere sui contratti sorti anteriormente
ed in corso di esecuzione, facendone caducare, in tutto o
in parte, gli effetti non ancora verificatisi al momento
dell’entrata in vigore della legge successiva (9).
Sulla questione di diritto transitorio relativa alla Legge
n. 52 del 1996, peraltro, autorevole dottrina (10) si era
già espressa nel senso dell’applicabilità della nuova disciplina ai contratti conclusi prima della sua entrata in vigore, sebbene limitatamente a quegli effetti realizzatisi
sotto la sua vigenza.
Tale orientamento si giustifica alla luce delle finalità
protezionistiche della normativa comunitaria in materia
di contratti stipulati tra professionista e consumatore
che per realizzarsi richiedono necessariamente un intervento positivo da parte di soggetti estranei al rapporto
contrattuale (11), quale il legislatore mediante la previsione di sostituzione automatica di clausole o di inefficacia delle medesime o il giudice mediante le clausole generali della buona fede e dell’equità (12) che gli consentono di intervenire nel rapporto contrattuale al fine di
stabilire una posizione di sostanziale parità tra i contraenti.
L’approccio che distingue la natura sostanziale o processuale della clausola di cui all’art. 1469 bis, terzo comma,
n. 19, Codice civile è stato seguito da una pronuncia successiva della sezione seconda della Suprema Corte (13),
la quale, tuttavia, ha confermato la natura sostanziale
della medesima escludendone, di conseguenza, l’immediata applicabilità ad un rapporto sorto prima dell’entrata in vigore della novella.
La Corte ha motivato la sua decisione richiamando la
ratio della disciplina di cui agli artt. 1469-bis Codice civile e ss. in cui si iscrive anche la suddetta clausola, affermando che la disposizione di cui all’art. 1469-bis, terzo comma, n. 19, Codice civile «essendo ricompresa nell’ambito di una normativa ispirata alla salvaguardia dei
diritti del consumatore nei contratti conclusi con il professionista…istituisce un criterio legale in ordine alla determinazione della competenza territoriale finalizzato a
riverberare i suoi effetti sul piano della tutela sostanziale
avendo il legislatore ritenuto che il foro di residenza o di
domicilio elettivo del consumatore si configura come
una garanzia di riequilibrio delle rispettive posizioni delle parti contraenti».
Al riguardo, è stato osservato (14), che la collocazione
topografica di una norma non può condizionare la qualificazione della medesima (15).
È indubbio, infatti, che numerose norme dall’evidente
carattere processuale siano contenute in fonti diverse dal
codice di rito civile. Peraltro, non potrebbe pretendersi
da parte del legislatore una rigorosa distinzione per settori nella produzione normativa.
Anche la finalità protezionistica di una norma è irrilevante ai fini della sua qualificazione giacché le norme
processuali possono avere una ratio garantistica a partire
da quelle che statuiscono sulla competenza, atteso che le
medesime sono dettate dall’esigenza di tutelare una posizione processuale ritenuta meritevole di maggiori garanzie rispetto ad un’altra (16).
L’interpretazione della norma
P
er quanto riguarda il profilo della portata della disposizione in esame in dottrina ed in giurisprudenza
si sono contrapposti nel tempo due orientamenti.
Secondo il primo orientamento (17) la disposizione de
qua prevede un’ipotesi di vessatorietà presunta per cui
Note:
(8) Tra coloro che hanno dedicato ampie riflessioni al tema dell’eteroregolamentazione legale dei negozi di diritto privato, v. Saracini, Nullità e
sostituzione di clausole contrattuali, Milano, 1971, 88 e ss.; Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, 44 e ss.; v. anche Di Marzio,
Il trattamento dell’usura sopravvenuta tra validità, illiceità e inefficacia della
clausola interessi, in Giust. civ., 2000, III, 3108. V., in particolare, Cass. 1°
febbraio 1999, n. 827, in Giur. it., 1999, 1223 e ss., con nota di Libonati; in questa pronuncia, la Corte, affrontando il delicato tema della validità delle intese restrittive della concorrenza stipulate prima dell’entrata
in vigore della legislazione antitrust, ha affermato che «vi è un punto fermo circa la potestà del legislatore di innovare la disciplina dei rapporti
in corso».
(9) Vi è, tuttavia, un forte contrasto tra gli interpreti in ordine alla qualificazione giuridica da assegnare all’incidenza, sui rapporti contrattuali in
corso, dell’eteroregolamentazione normativa successiva. Al riguardo, si
contrappongono due orientamenti. Da un lato, vi è chi ravvisa in detta
sopravvenienza un’ipotesi di nullità sopravvenuta del contratto v., Donisi, In tema di nullità sopravvenuta del negozio giuridico, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 1967, 773 e ss.; Saracini, op. cit., 112; Bianca, Diritto civile, III,
Il contratto, Milano, 2000, 611. Dall’altro, vi è chi, contestando l’ammissibilità della nullità sopravvenuta e, più in generale, della c.d. invalidazione successiva dei negozi giuridici, inquadra il fenomeno nella categoria dell’inefficacia sopravvenuta del contratto tra questi v., Inzitari, Autonomia privata e controllo pubblico nel rapporto di locazione, Napoli, 1979,
165; Mariconda, La nullità del contratto, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da Bigiavi, diretta da Alpa e Bessone, I
contratti in generale, IV, Torino, 1991, 362; Di Marzio, Il trattamento dell’usura sopravvenuta tra validità, illiceità e inefficacia della clausola interessi, cit.,
3103.
(10) V., Bianca, Commentario alla legge 6 febbraio 1996, n. 52, in Nuove
leggi civ. comm., 1997, 755; Lener, Nota a sentenza Trib. Palermo 7 aprile
1998, in Foro it., 1998, 1639.
(11) V., al riguardo, Corte di Giustizia 27 giugno 2000, cause riunite da
C-240/98 a C-244/98, in Giur. it., 2001, I, 9.
(12) Cfr. Riccio, Il controllo giudiziale della libertà contrattuale: l’equità correttiva, in Contratto e impresa, 1999, 939.
(13) Cass. 22 novembre 2000, n. 15101, in questa Rivista, 2001, 785, con
nota di Farkas.
(14) V. Senigaglia, Nota a sentenza 28 agosto 2001, n. 11282, in questa Rivista, 2002, 5.
(15) Diffusamente sull’argomento, v. La China, Norma (dir. proc. civ.), in
Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 411 e ss.
(16) In tal senso v. Cass. 28 agosto 2001, n. 11282, in questa Rivista,
2002, 5 e ss.
(17) Cfr. De Nova, Le clausole vessatorie , cit., 27; Cian, Il nuovo capo XIVbis, cit., 425; Tommaseo, Art. 1469-bis, terzo comma, n. 19, in AA.VV.,
Le clausole vessatorie nei contratti del consumatore, a cura di Alpa e Patti,
Milano, 2003, 631 e ss.; Consolo-De Cristofaro, Clausole abusive e processo, in Corr. giur., 1997, I, 468. In giurisprudenza v. Cass. 24 luglio 2001,
n. 10086, ivi, 2001, II, 1436 e ss.; Conc. Venezia 26 novembre 1996, in
Foro pad., 1996, 403.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
823
ARGOMENTI•CONTRATTI DEL CONSUMATORE
un’eventuale clausola difforme dai criteri legali di competenza territoriale si deve presumere vessatoria qualora
non indichi quale sede del foro competente per le controversie la località di residenza o di domicilio elettivo
del consumatore. Da questa interpretazione deriva che
l’eventuale inefficacia di una clausola che preveda come
foro competente una località diversa da quella della residenza o del domicilio elettivo del consumatore - e che
non sia uno dei fori previsti dal codice di rito - comporterebbe il ricorso ai criteri legali di competenza territoriale. Anche qualora le parti non stabiliscano un foro
convenzionale si applicherebbero sempre i criteri legali.
Le motivazioni addotte a sostegno della suddetta interpretazione sono diverse. Anzitutto, si sostiene che dalla
costruzione sintattica della disposizione in esame non si
evince un esplicito riferimento all’introduzione di un foro esclusivo a differenza di altre ipotesi in cui il legislatore lo ha fatto espressamente. Si vedano, al riguardo, l’art.
12 del D. Lgs. 15 gennaio 1992, n. 50 che ha attuato la
direttiva n. 577/85 in materia di contratti negoziati fuori dei locali commerciali; l’art. 10 del D. Lgs. 9 novembre
1998, n. 427 che ha attuato la direttiva 94/47 in materia
di multiproprietà; l’art. 14 del D. Lgs. 22 maggio 1999, n.
185 che ha attuato la direttiva 97/7 relativa alla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza.
Tutte le disposizioni citate, infatti, prevedono espressamente che per le controversie civili inerenti all’applicazione dei relativi decreti la competenza territoriale inderogabile è del giudice del luogo di residenza o di domicilio del consumatore, se ubicati nel territorio dello Stato.
Un altro argomento a sostegno dell’orientamento che
esclude la previsione di un foro esclusivo per il consumatore è rappresentato dall’art. 1469-ter, terzo comma, Codice civile secondo il quale «non sono vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge». Si osserva,
infatti, che la coesistenza della disposizione n. 19 dell’art.
1469 bis, terzo comma, Codice civile con il suddetto articolo esclude la vessatorietà di una clausola contrattuale che preveda come foro competente uno di quelli previsti dagli artt. 18, 19 e 20 del codice di rito civile, come
ad esempio il forum destinatae solutionis. Se così non fosse si attribuirebbe alla disposizione n. 19 dell’art. 1469
bis, terzo comma una portata abrogante dei suddetti articoli del codice di procedura civile.
Secondo un diverso orientamento (18) la disposizione
de qua introduce un foro esclusivo del consumatore, che
si sostituisce ai criteri del codice di rito, sebbene sia derogabile qualora la clausola che stabilisce un foro convenzionale diverso sia stata oggetto di trattativa individuale ex art. 1469 ter, quarto comma, Codice civile. All’uopo occorre provare che al consumatore sia stato consentito di esercitare una capacità di influenza sul contenuto della clausola in modo che esso derivi da una corretta e libera determinazione delle parti (19).
La suddetta interpretazione circa la portata della disposizione n. 19 dell’art. 1469 bis, comma 3, Codice civile è
stata accolta in precedenza da una pronuncia del Supre-
824
I CONTRATTI N. 8-9/2005
mo Collegio (20) sulla base delle seguenti motivazioni.
In primo luogo, un’interpretazione diversa risulterebbe
riduttiva ed in contrasto con la ratio dell’intera disciplina. Se, infatti, la clausola di determinazione convenzionale del foro indicasse quale foro competente uno diverso dalla località di residenza o di domicilio elettivo del
consumatore, ma coincidente con uno dei fori di cui agli
artt. 18, 19 e 20 Codice di procedura civile. non potrebbe considerarsi inefficace. Ciò è in evidente contrasto
con le finalità protezionistiche della disciplina sui contratti del consumatore in quanto potrebbe accadere che
uno dei fori legali coincida con la residenza o la sede del
professionista.
Una simile ipotesi presenta indubbi vantaggi per il professionista, ma allo stesso tempo riduce notevolmente il
diritto di difesa del consumatore in quanto l’obbligo per
quest’ultimo di sottoporsi alla giurisdizione del foro del
professionista, specialmente se molto distante dal suo
domicilio, comporta inevitabilmente alti costi tanto più
se paragonati al valore spesso modesto delle controversie
di tal genere (21). Le medesime conclusioni valgono per
l’ipotesi in cui le parti del rapporto contrattuale non abbiano stabilito alcun foro convenzionale dovendosi ricorrere, secondo l’interpretazione che si contesta, ai criteri legali del codice di rito civile.
In secondo luogo si sostiene che l’art. 1469 ter, terzo
comma, Codice civile non osti alla suddetta interpretazione giacché le ipotesi di clausole contemplate nell’art.
1469 bis, terzo comma, Codice civile sono considerate
dal legislatore presuntivamente vessatorie secondo una
specifica valutazione sottraendosi, pertanto, al giudizio
di vessatorietà di cui all’art 1469 ter Codice civile. Ne
consegue, dunque, che soltanto le clausole non ricomprese tra le predette ipotesi possono non considerarsi
vessatorie se riproducono disposizioni di legge (22).
Note:
(18) Cfr., Vaccarella, Il problema del foro competente, cit.; Dalmotto, Un
nuovo foro esclusivo per il consumatore, in Giur. it., 1997, IV, 161; Lapertosa, Profili processuali della disciplina, cit.; De Cristofaro, La tutela processuale del consumatore tra volontà di espansione ed opzioni conservative: contrasti
in cerca di assestamento nella giurisprudenza della S.C., in Resp. civ. prev.,
2002, I, 114.
(19) Sulla definizione di trattativa individuale v. Cian, Il nuovo capo XIVbis, cit., 417; Trib. Bologna 14 giugno 2000, in Corr. giur., 2001, I, 524.
(20) Cass. 28 agosto 2001, n. 11282, cit.; in senso conforme v. Trib. Palermo 7 aprile 1998, in questa Rivista, 1998, 344 e ss.; Giudice di Pace
Prato, 28 gennaio 1999, in Foro it., 1999, I, 1697 e ss.; Trib. Roma 21 gennaio 2000, in Corr. giur., 2000, 496 e ss.
(21) Cfr., al riguardo, Corte di Giustizia, 27 giugno 2000, cause riunite da
C-240/98 a C-244/98, cit.; Alpa, Il diritto dei consumatori, Roma-Bari,
1996, 275; Farkas, Nota a sentenza Cass. 22 novembre 2000, n. 15101, cit.;
Trib. Palermo 2 giugno 1998, in Foro it., 1999, 377 il quale ha espresso la
considerazione secondo cui «…addossando in modo irragionevole sul turista i notevoli costi per la tutela giurisdizionale in sede diversa da quelle di
residenza e domicilio incide in modo irragionevole, comprimendola, sulla
scelta dell’utente di tutelare giudizialmente i propri diritti…».
(22) In tal senso De Cristofaro, La tutela processuale del consumatore, cit.,
118; Dalmotto, Un nuovo foro esclusivo per il consumatore?, cit., il quale af(segue)
ARGOMENTI•CONTRATTI DEL CONSUMATORE
Commento all’ordinanza delle sezioni unite
n. 14669/03
I
contrasti interpretativi relativi alla disposizione n. 19
dell’art. 1469 bis, terzo comma, Codice civile sopra
illustrati sono stati risolti dall’ordinanza delle sezioni
unite n. 14669/03. Essa rileva che la disposizione descrive da un lato una clausola che abbia come contenuto
quello di stabilire la sede del foro competente per la controversia, dall’altro il contenuto della clausola per cui,
come sede del foro competente, è stabilita località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore.
Inoltre, ha affermato che la predetta disposizione ha natura di norma processuale applicandosi, di conseguenza,
alle cause instaurate dopo la sua entrata in vigore, anche
se relative a controversie derivanti da contratti stipulati
prima, e che il legislatore, nelle controversie tra consumatore e professionista, abbia stabilito la competenza
territoriale esclusiva del giudice del luogo della sede o del
domicilio elettivo del consumatore, presumendo vessatoria la clausola che individui come sede del foro competente una diversa località.
La Corte ritiene che la norma contenuta al n. 19 dell’art.
1469 bis Codice civile debba essere letta nel senso che la
sede del foro competente, individuata attraverso il riferimento alla residenza od al domicilio elettivo del consumatore, e che la deroga attuata mediante lo spostamento della competenza ad un foro diverso è sì consentita,
ma si presume che determini a carico del consumatore
un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Per cui la deroga alla competenza territoriale, non sarebbe esclusa in modo assoluto, ma anzi sarebbe ammessa
con l’onere a carico del professionista di provare che nel
caso concreto non determini squilibrio dei diritti e degli
obblighi derivanti dal contratto.
La soluzione offerta dalle SS.UU. si fonda su alcune considerazioni preliminari. Anzitutto, il Supremo Collegio
osserva che l’art. 5 Codice di procedura civile stabilendo
che la giurisdizione e la competenza si determinano in
base alla legge vigente ed allo stato di fatto esistente al
momento della domanda implica che anche le condizioni di validità ed efficacia di un accordo di deroga della
competenza territoriale, come quelle previste dalla disposizione n. 19 dell’art. 1469 bis, terzo comma, Codice
civile, siano valutate sulla base delle norme in vigore al
momento in cui la domanda è proposta. Ne deriva, pertanto, che un eventuale accordo di proroga valido ed efficace secondo la normativa in vigore al momento della
sua conclusione debba considerarsi invalido o inefficace
qualora non presenti le condizioni richieste dalla legge
in vigore alla data della domanda.
In secondo luogo, l’eventuale inefficacia o invalidità di
un accordo relativo alla competenza territoriale non
condiziona il resto del contratto cui lo stesso accede, atteso che una simile pattuizione è del tutto autonoma e
non richiama l’applicazione della nullità parziale del
contratto. Peraltro, per quanto riguarda la disciplina dei
contratti del consumatore vi è una norma (art. 1469
quinquies) che espressamente dispone «le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 1469 bis e 1469 ter,
sono inefficaci mentre il contratto rimane efficace per il
resto».
Sulla base di un ragionamento logico-letterale la Corte
afferma, inoltre, che la disposizione de qua così come formulata, ossia in negativo, fissa nella sede del consumatore un criterio di collegamento esclusivo che si sostituisce
a quelli già previsti dal codice di procedura.
Il Supremo Collegio aggiunge che la diversità della suddetta formulazione rispetto a quelle utilizzate, in relazione alla competenza territoriale, dai decreti legislativi 15
gennaio 1992, n. 50, 9 novembre 1998, n. 427 e 22 maggio 1999, n. 185 non può rappresentare un argomento a
favore dell’interpretazione contestata giacché quest’ultimi costituiscono normative di settore mentre l’art. 1469
bis, terzo comma, n. 19, Codice civile si inserisce nel
quadro più vasto delle clausole inserite nei contratti stipulati tra professionista e consumatore per le quali è stata scelta dal legislatore una tecnica diversa.
Piuttosto i testi di leggi sopra citati dimostrano con evidenza l’indirizzo del legislatore di individuare come foro competente per le controversie che riguardano il
consumatore il luogo di residenza o di domicilio di quest’ultimo.
La pronuncia in esame, tuttavia, ha lasciato irrisolte alcune problematiche derivanti dall’interpretazione accolta (23).
In primo luogo, l’introduzione di un foro esclusivo, ma
derogabile si deve coordinare con la norma di cui all’art.
1469 quinquies, terzo comma, Codice civile la quale prevede che l’inefficacia opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Secondo quanto prevede l’art. 38, secondo comma, Codice di procedura civile l’incompetenza per territorio derogabile va eccepita a pena di decadenza nella comparsa di
risposta, termine peraltro differibile fino a venti giorni
prima dell’udienza di trattazione ex art. 180, terzo comma, Codice di procedura civile, mentre il giudice, d’ufficio, può rilevare l’incompetenza per materia, per valore
e per territorio nei casi previsti dall’art. 28 Codice di procedura civile fino alla prima udienza di trattazione. Ci si
chiede, quindi, se nell’ipotesi in cui il contratto contenNote:
(segue nota 22)
ferma che «il terzo comma dell’art. 1469-ter Codice civile … si applichi
solo in relazione a quelle clausole che sono abusive in virtù della previsione generale del significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto e non anche alle singole ipotesi di abusività elencate
nei numeri da 1 a 20 del terzo comma dell’art. 1469 bis Codice civile».
(23) Palmieri, In fuga dal codice di rito: i contratti del consumatore conquistano il foro esclusivo(ma derogabile in assenza di squilibrio, in Foro it., 2003, I,
3301 (commento a Cass. SS.UU. 14669/03), rileva che è stato assegnato
alle sezioni unite anche un quinto ricorso (RG 23024/00) concernente la
previsione di cui al n. 19 dell’art. 1469 bis Codice civile.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
825
ARGOMENTI•CONTRATTI DEL CONSUMATORE
ga una clausola che indichi quale foro competente uno
diverso da quello della residenza o del domicilio eletto
del consumatore e quest’ultimo sia convenuto innanzi al
giudice indicato dalla clausola, se quest’ultimo possa rilevare d’ufficio la propria incompetenza nel caso di mancata eccezione del convenuto. Il dubbio sorge in quanto
il potere d’ufficio può essere esercitato solo se sussista un
vantaggio per il consumatore. Al riguardo, in dottrina
taluni (24) ritengono che il mancato interesse del consumatore nel non eccepire l’incompetenza priverebbe il
potere del giudice di qualsiasi rilievo pratico; altri (25)
ritengono che il giudice possa rilevare la propria incompetenza sulla base della vessatorietà della clausola.
In secondo luogo, è stato osservato (26), che l’espressione «domicilio eletto» inserita nella disposizione de qua
possa consentire al professionista di aggirare la ratio pro-
826
I CONTRATTI N. 8-9/2005
tettiva della norma mediante una preventiva imposizione al consumatore di elezione di domicilio finalizzata all’individuazione del foro competente. Ove si verificasse
questa ipotesi il consumatore potrebbe soltanto dedurre
la vessatorietà della clausola di elezione del domicilio in
quanto derivante da coartazione e non da libera determinazione della propria volontà, offrendone la prova
senza potersi avvalere della presunzione di cui all’art.
1469-bis, terzo comma, Codice civile.
Note:
(24) Cfr. Lapertosa, Senigaglia, Nota a sentenza 28 agosto 2001, n. 11282,
cit., 16.
(25) Per tutti, v. Vaccarella, Il problema del foro competente, cit., 1715.
(26) Cfr., sul punto, Tommaseo, Art. 1469-bis, terzo comma, n. 19, cit.,
630; Vaccarella, Il problema del foro competente, cit., 1718.
MODELLO
Contratto di addestramento fisico
in palestra
I
l testo contrattuale di seguito pubblicato offre lo spunto per alcune brevi considerazioni sul rapporto tra le parti e i suoi effetti nei confronti di terzi.
Il contratto presenta i tratti del contratto di appalto di servizi in favore di terzi e del comodato di beni.
Infatti, con esso un soggetto (committente) decide di affidare ad un altro (appaltatore) lo svolgimento dell’attività
di preparazione sportiva di terzi, ai quali è legato da rapporto di lavoro o di collaborazione professionale.
L’attività viene svolta all’interno della sede del committente ma (circostanza diversa dall’appalto) con l’impiego di
mezzi propri dello stesso.
Si tratta di un contratto consensuale a favore di terzo, ad effetti obbligatori e a prestazioni corrispettive. Da un lato infatti il soggetto appaltatore si obbliga a eseguire determinati servizi, dall’altro il committente, a fronte di tali
prestazioni, si obbliga a versare un corrispettivo per le prestazioni svolte a favore di terzi.
Particolare attenzione deve prestarsi alla circostanza che i locali ove viene svolta l’attività sportiva, gli arredi e le
attrezzature ivi presenti e i macchinari utilizzati dai terzi, appartengono al committente.
Va riservata attenzione alla clausola con la quale viene posta contrattualmente a carico dell’appaltatore la responsabilità per danni a cose o persone verificatesi nei locali del committente durante l’orario in cui l’appaltatore presta i propri servizi.
Da ultimo merita di essere segnalata la clausola in virtù della quale sull’appaltatore grava altresì l’obbligo di concludere i contratti di assicurazioni a copertura dei rischi di danni.
Carmen Leo
CONTRATTO
Con il presente atto tra le sottoscritte parti
ALFA, con sede legale in …………………., codice fiscale ……………….… e partita IVA …………………,
in persona del legale rappresentante ……………………….
e
BETA, con sede legale in ………………………, codice fiscale ……………. e partita IVA ………………….,
in persona del legale rappresentante ………………………..
A.
B.
C.
D.
premesso che
la società ALFA ha individuato all’interno della propria sede alcuni locali e li ha dotati delle attrezzature e
degli equipaggiamenti necessari allo svolgimento negli stessi di attività sportiva e, in particolare, di fitness e
ad uso spogliatoio;
la società ALFA ha intenzione di mettere a disposizione dei propri dipendenti in servizio i suindicati locali,
affinché se ne servano nel rispetto delle norme contenute nel Regolamento;
a tal fine la società ALFA intende affidare a BETA lo svolgimento all’interno dei suindicati locali dell’attività di addestramento e preparazione fisica e atletica non agonistica degli Utenti e di assistenza agli stessi nell’uso delle attrezzature e degli equipaggiamenti;
BETA dispone di autonoma e adeguata organizzazione e di personale con preparazione tecnica, competenze
specifiche e con pluriennale esperienza e professionalità nello svolgimento dell’attività di fitness,
si conviene e si stipula quanto segue.
Articolo 1: Premesse - Allegati - Definizioni
1.1 Le premesse e gli allegati costituiscono parte integrante e sostanziale del presente contratto.
1.2 Sono allegati al presente contratto:
- Allegato sub 1 – Planimetria dei locali adibiti ad Area Benessere
- Allegato sub 2 – Regolamento in vigore nell’Area Benessere
- Allegato sub 3 – Elenco attrezzature e equipaggiamenti presenti nell’Area Benessere
842
I CONTRATTI N. 8-9/2005
MODELLO
1.3 Ai fini del presente contratto si intendono:
- per “Area Benessere”: l’area costituita dai locali individuati nella planimetria allegata sub 1 al presente contratto, attrezzata ed equipaggiata per lo svolgimento di attività di fitness (area Fitness) e per uso spogliatoi
(area Spogliatoi);
- per “Attività”: i servizi di addestramento e preparazione fisica e atletica non agonistica e di assistenza agli
Utenti delle attrezzature e degli equipaggiamenti svolti dal personale incaricato di Beta nell’Area Benessere;
- per “Utenti”: gli amministratori, i soci, i dipendenti in servizio e i collaboratori di Alfa; essi hanno accesso
all’Area Benessere, possono utilizzare le attrezzature e gli equipaggiamenti ivi presenti e possono avvalersi dei
servizi svolti dal personale di Beta.
Articolo 2: Oggetto del contratto
2.1 ALFA affida a BETA, che accetta, l’esecuzione delle Attività di:
i) addestramento e preparazione fisica e atletica non agonistica degli Utenti;
ii) assistenza all’uso da parte degli Utenti delle attrezzature e degli equipaggiamenti presenti nell’area Fitness.
Articolo 3 : Modalità di svolgimento delle prestazioni a carico di BETA
3.1 BETA metterà a disposizione di ALFA il proprio personale specializzato per tutti i giorni dal lunedì al venerdì, dalle …… alle …….. per … settimane/anno, fatti salvi i periodi festivi e/o le sospensioni feriali eventualmente comunicate da ALFA a BETA con …. giorni di anticipo.
3.2 BETA, a mezzo del proprio personale, controllerà che gli Utenti rispettino il regolamento in vigore nell’Area Benessere, utilizzino le attrezzature ivi presenti e si servano degli equipaggiamenti in modo corretto e in
conformità alle modalità d’uso indicate da ALFA.
Articolo 4: Autonomia di BETA
4.1 BETA eserciterà la propria Attività in piena autonomia, senza alcun vincolo di subordinazione da ALFA. I
collaboratori e/o dipendenti di BETA non saranno inseriti nella struttura aziendale di ALFA e non sono legati ad alcun vincolo di subordinazione da ALFA.
4.2 BETA gode di ampia libertà decisionale nello svolgimento della Attività ed è libera di organizzare la propria
attività senza alcun vincolo di orario, secondo modalità e tempi opportuni. BETA non è soggetta a alcuna
direttiva, istruzione o prescrizione di ALFA, fatta eccezione per le indicazioni fornite da ALFA per il coordinamento dell’Attività.
4.3 BETA si avvarrà di una propria struttura organizzativa e di propri mezzi per lo svolgimento dell’Attività, sopportando ogni relativa spesa.
4.4 BETA conserva piena facoltà di svolgere attività analoga a quella oggetto del presente contratto in favore e
per conto di altri soggetti.
Articolo 5: Corrispettivo
5.1 Per lo svolgimento dell’Attività, BETA ha diritto ad un corrispettivo mensile pari a ……. , che sarà pagato da ALFA ……..
Articolo 6: Locali
6.1 ALFA dichiara che i locali dell’Area Benessere, che saranno adibiti in parte ad uso palestra ed in parte a spogliatoi, sono conformi alle vigenti disposizioni di legge in materia di igiene e sicurezza.
6.2 ALFA si impegna a:
a) mettere a disposizione di BETA i locali dell’Area Benessere, le attrezzature e gli equipaggiamenti ivi presenti;
b) garantire la piena efficienza dei suindicati locali e delle attrezzature e equipaggiamenti,
c) curarne la manutenzione ordinaria e straordinaria dei locali e delle attrezzature e equipaggiamenti e sopportando le spese per la loro pulizia;
d) sostenere le spese per la fornitura di energia elettrica, riscaldamento, acqua ecc. ….e le spese per la pulizia
dei locali.
6.3 BETA dichiara di aver visionato l’Area Benessere, di averla trovata completa delle attrezzature e degli equipaggiamenti necessari allo svolgimento dell’attività sportiva e di averla trovata in buono stato di manutenzione e conforme alle prescrizioni di legge per l’esercizio di attività sportiva.
6.4 BETA si obbliga a eseguire le riparazioni a alle attrezzature, agli equipaggiamenti e ai locali dell’Area Benessere qualora le rotture o i guasti siano stati cagionati da fatto imputabili al personale di BETA.
6.5 L’accesso all’Area Benessere è consentito solo negli orari indicati all’art. 3.1 ed esclusivamente agli Utenti,
al personale autorizzato di BETA e ai soggetti espressamente autorizzati da ALFA.
I CONTRATTI N. 8-9/2005
843
MODELLO
Articolo 7: Durata - Rinnovo
7.1 Il presente contratto ha efficacia dal ……………….. al…………………..
7.2 Alla scadenza il contratto si intenderà tacitamente e automaticamente rinnovato per … anno/anni, e così
di volta in volta, salvo disdetta comunicata da una parte all’altra con lettera raccomandata a/r, con almeno
… giorni di anticipo rispetto alla scadenza.
7.3 Ciascuna parte avrà facoltà di recedere, in qualunque momento, dandone comunicazione scritta all’altra con
lettera raccomandata a.r., con almeno … giorni di preavviso.
Articolo 8: Personale di BETA
8.1 Nell’esecuzione dell’Attività, BETA potrà avvalersi di collaboratori, anche esterni, che dovranno comunque
agire sotto la sua direzione e diretta responsabilità.
8.2 BETA dichiara:
a) di aver regolarmente adempiuto a tutti gli obblighi contributivi, previdenziali e assicurativi, anche in materia di sicurezza, infortuni sul lavoro e malattie professionali, relativi al proprio personale
b) di garantire al proprio personale un trattamento retributivo e normativo conforme alla normativa di legge e collettiva.
8.3 Durante la permanenza nell’area Benessere il personale di BETA dovrà essere sempre riconoscibile con apposito tesserino ben visibile.
Articolo 9: Responsabilità
9.1 BETA risponde dei danni derivati a persone e/o cose dallo svolgimento dell’Attività durante l’orario di cui
all’art. 3.1 e si impegna a manlevare e tenere indenne ALFA da eventuali pretese a qualsiasi titolo avanzate
dai Utenti e/o da terzi.
9.2 BETA si impegna a stipulare le necessarie polizze assicurative a copertura di tutti i possibili rischi di danni derivanti a persone e/o cose dall’esercizio dell’Attività.
Articolo 10: Marchi e altri segni distintivi
10.1. BETA dovrà usare marchi, nomi e/o altri segni distintivi di ALFA solo ed esclusivamente nello svolgimento dell’Attività e nell’esclusivo interesse di ALFA.
10.2. BETA dovrà cessare ogni uso dei marchi o segni distintivi di ALFA al momento della cessazione, per qualsiasi causa, del presente contratto.
Articolo 11: Clausole nulle – Comunicazioni – Modifiche
11.1 L’eventuale nullità di una clausola o di parte di essa non incide sulla validità del contratto nel suo complesso e non ne determina l’integrale nullità.
11.2 Ogni comunicazione inerente al contratto, alla sua esecuzione e alla sua risoluzione sarà validamente effettuata con l’invio di lettera raccomandata A.R. ai seguenti indirizzi, a a quelli successivamente comunicati:
per ALFA: …………………………………….
per BETA: …………………………………….
11.3 Ogni modifica e/o integrazione del presente contratto deve essere effettuata con atto scritto, datato e sottoscritto da entrambe le parti a pena di nullità.
Articolo 12: Foro competente
12.1 Per ogni controversia sulla validità, esecuzione, interpretazione o efficacia per dal presente contratto sarà
competente in via esclusiva il foro di ……………………………...
………………… , ……………
844
ALFA
BETA
………………………………
………………………………
I CONTRATTI N. 8-9/2005
INDICI
INDICE DEGLI AUTORI
que significato alla contrattuale - Sussidiarietà del criterio - Utilizzabilità - Fattispecie (Cassazione Civile,
sez. II, 23 dicembre 2004, n. 23936) commento di
Cristina Menichino ..........................................................
751
770
Ettore Battelli
Sulla differenza tra mandato e mediazione ..................
770
Giovanna Capilli
Note in tema di foro del consumatore .........................
821
Linda Cilia
I rimedi per i vizi del bene promesso in vendita ..........
763
Mediazione
Contratti in genere - Compravendita beni immobili Mediazione - Natura - Mandato - Caratteri - Differenze (Corte d’Appello di Milano, sez. I, 12 maggio
2004) commento di Ettore Battelli.................................
Francesco Delfini
D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82: il Codice dell’amministrazione digitale.............................................................
807
Proprietà immobiliare
Le nuove norme a tutela degli acquirenti di immobili
da costruire di Carmen Leo ............................................
745
Carmen Leo
Il contratto di addestramento fisico in palestra ...........
842
Le nuove norme a tutela degli acquirenti di immobili
da costruire ....................................................................
745
Vendita
Contratto preliminare di vendita - Mancanza effetto
traslativo - Garanzia - Risoluzione (Tribunale di Nola
15 settembre 2004) commento di Linda Cilia..............
763
Cristina Menichino
Principio di conservazione e nullità del contratto.......
751
Valerio Sangiovanni
Il rapporto contrattuale tra gli arbitri e le parti nel diritto tedesco....................................................................
827
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
Giurisprudenza
Cassazione civile
Cass., sez. II , 23 dicembre 2004, n. 23936...................
Appello
Corte d’Appello di Milano, sez. I - 12 maggio 2004 ...
Tribunali
Trib. Nola 15 settembre 2004 .......................................
Normativa
D.Lgs. 20 giugno 2005, n. 122 ......................................
D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82............................................
751
770
763
801
807
INDICE ANALITICO
Amministrazione digitale
D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82: il Codice dell’amministrazione digitale di Francesco Delfini............................
807
Arbitrato
Il rapporto contrattuale tra gli arbitri e le parti nel diritto tedesco di Valerio Sangiovanni ...............................
827
Consumatori
Note in tema di foro del consumatore di Giovanna
Capilli...............................................................................
821
Interpretazione
Contratti in genere - Interpretazione - Conservazione
del contratto - Interpretazione idonea a dare comun-
I CONTRATTI N. 8-9/2005
845
PER I COLLABORATORI DELLA RIVISTA I CONTRATTI
1. Caratteristiche generali degli elaborati
Tutti gli articoli (note a sentenza, argomenti, commenti a normative, quesiti) dovranno essere inviati alla Redazione
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Gli articoli devono essere originali (scilicet: non pubblicati su altre fonti) e caratterizzati dalla trattazione chiara e sintetica degli argomenti, arricchita da brevi note a piè di pagina a sostegno delle tesi esposte.
I caratteri essenziali degli articoli sono i seguenti:
1) concisione del ragionamento giuridico;
2) limitazione dell’illustrazione introduttiva di temi e questioni allo stretto necessario, salvo che si tratti di temi e questioni nuove o inedite;
3) apparato di note essenziale, con citazioni che privilegino contributi dottrinali autorevoli e decisioni giurisprudenziali recenti o “capostipiti” di orientamenti;
4) esposizione chiara della posizione dell’Autore.
Tutti gli articoli sono sottoposti al vaglio dei Direttori scientifici della Rivista, con riserva di accettazione e di richiesta di eventuali modificazioni o integrazioni, che saranno concordate con gli Autori. I Direttori scientifici e il Comitato di Redazione della Rivista si riservano altresì la facoltà di apportare direttamente le modificazioni formali e sostanziali necessarie per l’adeguamento agli standard della Rivista.
2. Criteri redazionali
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lettura. Ogni articolo non deve superare le 8/10 cartelle, corrispondenti a circa 35.000 caratteri spazi inclusi.
Ogni articolo deve essere preceduto da una sintesi (abstract) illustrativa del contenuto, che dovrà evidenziare l’oggetto trattato e gli aspetti di maggior interesse (condensandoli in poche righe: fino a 500 caratteri per le note a sentenza, fino a 1.000 caratteri per gli altri elaborati). Nell’abstract possono anche essere espressi giudizi di merito (ad esempio: «L’Autore commenta la recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione in tema di anatocismo bancario,
mettendo in luce le contraddizioni dell’iter argomentativo della motivazione, nella parte in cui si sussumono gli usi tra
cliente e banca nella categoria degli usi normativi»).
Le note a sentenza devono contenere la massima/e della sentenza (che dovrà essere elaborata dall’Autore qualora non
disponibile o diversa da quella ufficiale), preceduta dai titoletti, che identificano lo schema generale di classificazione
della sentenza e sintetizzano i passaggi attraverso cui si snoda il principio di diritto espresso dalla massima.
Le note a piè di pagina vanno redatte con molta precisione e secondo i seguenti criteri:
1) ogni citazione presuppone necessariamente la verifica e la lettura della fonte giuridica nella versione originale
(qualora venga utilizzata una fonte secondaria o “di seconda mano”, va espressamente precisato);
2) la citazione deve essere puntuale, pertinente, fedele (cioè senza alterazione o interpolazione del contenuto della
fonte), completa (ad es.: G. De Nova, Nuovi contratti, 2ª ed., Utet, Torino, 1995, 150; Cass. 20 ottobre 1998, n.
3650, in Foro it., 1999, I, 1, 250 ss.). Nelle citazioni di opere dottrinali va sempre specificata la Casa editrice (mentre può essere omesso il luogo di edizione) e nelle citazioni giurisprudenziali va sempre menzionato in lettere il mese;
3) i termini stranieri, le espressioni in latino, i titoli delle opere e delle riviste devono essere trascritti in corsivo;
4) il contenuto della fonte citata deve essere riportato tra virgolette (“……..”) o tra caporali («…..»), e trascritto in
carattere non corsivo; può in alcune ipotesi essere parafrasato, nel qual caso deve risultare in modo chiaro ed univoco;
5) va costantemente verificato se un articolo dottrinale, una decisione giurisprudenziale o una fonte normativa attinente al tema o alla questione trattata sia stata pubblicata sulla Rivista, nel qual caso va citata utilizzando la dizione “in questa Rivista” (ad es.: U. Carnevali, Inadempimento e onere della prova, in questa Rivista, 2002, 118 ss.).