IL PROBLEMA DI DIO NELLA FILOSOFIA E NELLA TEOLOGIA

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IL PROBLEMA DI DIO NELLA FILOSOFIA E NELLA TEOLOGIA DEL
NOVECENTO
La filosofia
La figura che più ha influito sull’ateismo novecentesco è stato sicuramente F.
Nietzsche (1844-1900). Secondo Nietzsche non occorre più dimostrare l’inesistenza
di Dio, quanto invece prendere atto della sua morte. Dio è morto perché, come
voleva già Schopenhauer, si è rivelato una certezza che l’uomo si era costruito per
sopportare la durezza della vita, per coprire il fatto che la vita è caos, è priva di fini e
lo sgomento che questo crea nell’uomo.
Prendere atto della morte di Dio significa innanzitutto spiegare come sia stato
possibile credere in lui. Nietzsche si impegna, dunque, a chiarire quella che chiama
la genealogia della religione, indicando le sue origini nella necessità della società di
reprimere gli istinti dell’individuo.
Prendere atto della morte di Dio significa anche, per Nietzsche, trarre le conseguenze
della sua morte, il che implica innanzitutto accettare l’idea che non è l’al di là a dare
significato all’al di qua e, quindi, individuare nella dimensione terrena l’unica
dimensione dell’uomo. La morte di Dio, inoltre, implica il fatto che l’uomo torna ad
essere libero di progettare la propria vita, di scegliersi i propri fini. La morte di colui
che garantiva il senso delle cose, l’ordine dell’universo significa, infine, che ora è
l’uomo stesso a dover dare un senso alle cose, un senso che però non può più
pretendere di essere oggettivo, assoluto.
Partendo da queste considerazioni gran parte della filosofia novecentesca appare,
come indicava Nietzsche, non tanto interessata a una giustificazione teorica
dell’ateismo quanto invece a discutere l’origine della religione o a rielaborare una
concezione del mondo, dell’uomo e della storia in un mondo in cui Dio non c’è più.
Per quanto riguarda l’origine delle religione S. Freud (1856-1939) l’ha ricercata
nelle dinamiche della psiche che hanno costituito l’oggetto dei suoi studi.
Infatti, per Freud la religione deve essere considerata l’appagamento illusorio di un
desiderio infantile di protezione, costituendo il prolungamento nella vita adulta del
desiderio del bambino di essere protetto e amato dai genitori. A Dio l’uomo
attribuisce le stesse caratteristiche di onnipotenza che agli occhi del bambino
rivestono i suoi genitori e il rapporto che si instaura con Dio tende a ripetere il
rapporto di dipendenza, di ricerca di protezione caratteristiche del bambino nei
confronti degli adulti.
Freud propone quindi uno stretto rapporto fra l’esperienza psicologica del
bambino nei confronti del proprio padre e l'esperienza degli uomini nei confronti
di Dio che, con la sua onnipotenza, elimina le angosce e le insicurezze umane. Le
religioni rappresentano “un’illusione, una formazione di desiderio” che, come nei
deliri, comporta una deformazione dell’immagine della realtà, attraverso
l’introduzione della divina provvidenza e della credenza in un ordine morale
universale che, di fronte ai pericoli della vita, consente di attenuare l’angoscia e di
appagare le esigenze di giustizia
Da questo punto di vista la religione appare a Freud un delirio collettivo che blocca
l’individuo in uno stato di infantilismo psichico.
Anche nel Novecento ha trovato spazio il tentativo di ripensamento della religione in
termini consoni alla sensibilità e alla cultura contemporanea. Ripensamento che è
avvenuto sia all’interno dell’alveo del cristianesimo sia al di fuori, dal momento che
alcuni pensatori hanno riproposto una concezione della religione senza identificarla
con il cristianesimo.
Tra quest’ultimi vi è, ad esempio, M. Horkheimer (1895-1973), uno dei filosofi della
Scuola di Francoforte di ispirazione marxista, che nelle sue ultime riflessioni ha visto
1
nella religione un fattore positivo, in quanto accomuna gli uomini nel desiderare che
ciò che accade in questo mondo, in cui trionfa l’ingiustizia, non rappresenti lo stadio
definitivo, costituendo così una prima forma di critica dell’esistente.
Secondo Horkheimer la bontà e la giustizia divina devono essere creduti non in
quanto dogmi, come vuole la tradizione, ma coscientemente come aspirazioni,
desideri dei fedeli.
Questo ruolo utopico della religione era stato segnalato all’interno del marxismo non
ortodosso da E. Bloch (1885-1977), il quale sostiene che la speranza, cioè l’attesa
del nuovo che apporta cambiamenti, è costitutiva dell’uomo che non è appagato dalla
realtà. La negatività del presente, che chiede di essere superata, è alla base della
speranza e la rivoluzione, che porta al superamento della negatività, realizza la
speranza.
Bloch vede nel marxismo l’erede di tutte le utopie che hanno attraversato i secoli in
mille forme diverse tra cui quella religiosa. La religione, pur dando vita alla
speranza, chiede all’uomo di alienare se stesso di fronte al potere trascendente, di
attendere il regno di Dio che si colloca oltre la vita; così essa però impedisce di
creare il regno dell’uomo nuovo su una terra nuova.
La trascendenza è, invece, il carattere originario della divinità agli occhi di K.
Jaspers (1883-1969), un filosofo esistenzialista anche lui impegnato nel
ripensamento della religione al di fuori del cristianesimo.
Secondo Jaspers, l’uomo si apre alla trascendenza quando sperimenta la caratteristica
fondamentale del mondo, cioè che tutto finisce, arrivando alla convinzione che “alla
fine c’è il naufragio”. Di fronte al naufragio l’uomo avverte l’impossibilità di essere
autosufficiente e, desiderando di oltrepassare i propri limiti, si apre alla
trascendenza.
Radicalizzando il concetto di trascendenza e allontanandosi dal cristianesimo,
Jaspers sostiene che Dio non può rivelarsi perché altrimenti verrebbe meno l’assoluta
trascendenza di Dio.
La teologia
All’interno del pensiero teologico che invece si è mantenuto nell’alveo del
cristianesimo, il mondo protestante si è sicuramente aperto prima al confronto con
l’ateismo e comunque con la sensibilità del mondo contemporaneo nei cui confronti
la chiesa cattolica ha mantenuto un atteggiamento di condanna almeno fino al
Concilio vaticano II (inizio anni ’60).
Parte della teologia contemporanea ha così accettato di confrontarsi con la morte di
Dio, annunciata da Nietzsche, interpretandola come il silenzio di Dio e semmai la
morte della religione. Mentre Dio nel passato era un Dio presente nella storia degli
uomini, incarnato in Gesù e operante con i suoi santi, i suoi miracoli , egli nell’epoca
attuale non parla più, si è nascosto agli uomini.
Questa posizione è stata elaborata dapprima nell’opera di D. Bonhoeffer (1906-45),
dando vita negli anni ’60-’70 alla così detta teologia della morte di Dio.
Bonhoeffer sostiene che la morte di Dio e il processo di secolarizzazione del mondo
devono essere accettati prendendo le distanze dalle religioni, in quanto, come hanno
dimostrati i grandi maestri dell’ateismo, esse rappresentano la tendenza ad
aggrapparsi all’ipotesi consolatrice di un Dio tutore, di un Dio tappabuchi nei
confronti dell’uomo. È necessario riconoscere che il mondo è diventato adulto e non
ha più bisogno dell’ipotesi di Dio, ciò che prima Dio spiegava e ora spiegato dalla
scienza.
Abbandonare la religione non significa però abbandonare il cristianesimo, essendo la
religione cristiana solo una modalità, superata dalla storia, in cui si può manifestare
2
il cristianesimo. Infatti, il cristianesimo in sé è la fede in un Dio che sceglie la croce
e non già gli altari o i troni, è la fede in un Dio debole e impotente.
Questa fede non può, per Bonhoeffer, coincidere con l’esperienza religiosa in quanto
chiama l’uomo a impegnarsi nel mondo, a imitare Gesù nel suo esempio di
testimonianza.
Anche la teologia cattolica, almeno nelle sue componenti più aperte al dialogo con il
mondo contemporaneo e spesso non completamente gradite alle gerarchie vaticane,
ha finito per identificare nell’impegno per migliorare il mondo l’autentica
espressione della religiosità contemporanea.
Così, la teologia della liberazione di G. Gutierrez (1928) ha sottolineato che non è
possibile parlare di Dio senza impegnarsi per migliorare il mondo, senza schierarsi
con chi combatte per la liberazione dei popoli oppressi identificati nei popoli del
terzo mondo. La stessa teologia, più che un discorso su Dio, deve essere concepita
come una riflessione che accompagna l’impegno e l’azione in favore degli oppressi.
Riflessione che, secondo i teologi della liberazione, non può non servirsi del
marxismo come strumento di analisi.
L'influsso dell'area problematica aperta da Bonhoeffer fu nel secondo dopoguerra
estremamente vasto, anche se spesso recepito conducendone le tesi a conclusioni che
superavano, e a volte tradivano, le intenzioni del teologo tedesco. Tra le correnti che
in parte proseguono e in parte estremizzano la visione bonhoefferiana, sviluppatesi
particolarmente nell'area culturale anglo-americana, è opportuno ricordare soprattutto
la «teologia radicale» e la «teologia della morte di Dio», le quali tutte, pur a diversi
livelli, muovono dall'assunzione della totale autonomia dell'uomo.
Affini e anzi per più versi identiche nelle premesse, teologia radicale e teologia della
morte di Dio si differenziano soltanto nelle conclusioni. Entrambe proseguono infatti
sulla via della demitizzazione e del rifiuto di ogni concezione sacrale e metafisica
della religione e — sempre sulla scorta della posizione di Bonhoeffer, che resta il
punto di costante riferimento — propongono un cristianesimo compatibile con
l'affermazione dell'autonomia dell'uomo tipica del mondo moderno. Ma mentre la
teologia radicale si limita, in modi diversi, a constatare l'impossibilità di un
discorso sensato su Dio nelle forme della vita e del linguaggio dell'uomo contemporaneo,
senza tuttavia negare l'esistenza divina, la teologia della morte di Dio giunge alla
conclusione estrema della necessità di assumere letteralmente tale «morte» come
l'evento caratteristico della nostra epoca, evento che non si tratta più di discutere ma
solo di interpretare e comprendere.
Esponenti in senso stretto della «teologia della morte di Dio» sono William Hamilton (n.
1924-2012) e Thomas Altizer (n. 1927), che pure hanno composto insieme il «manifesto»
su La teologia radicale e la morte (li Dio, edito nel 1966 In Hamilton, di cui va
ricordato La nuova essenza del cristianesimo (1961), la negazione di Dio è motivata da
un'appassionata riflessione sulla sofferenza dell'uomo. Gli orrori e le tragedie del mondo
contemporaneo, e soprattutto le mostruosità del nazismo, non consentono più di mentire e
devono condurre all'abbandono delle tentennanti risposte della religione tradizionale e
della teologia classica, poiché si tratta di risposte non solo impossibili ma propriamente
false, mentre l'unica vera risposta sta nel constatare l'assenza di Dio. Tuttavia, se nella
sua prima opera Hamilton pare ancora orientato a postulare la necessaria attesa di un Dio
che verrà in un indistinto futuro, e quindi a mantenere aperta la porta di una debole
speranza escatologica sempre innestata sulla testimonianza di Cristo, la sua
riflessione successiva si è sempre più orientata nel senso di un umanesimo ateo. La
perdita di Dio nel mondo contemporaneo è un evento universale che si tratta di
accettare svolgendone tutte le implicazioni «positive»: ciò ch'è perduto non è solo il Dio
idolo del teismo tradizionale, ma la stessa trascendenza. Di «morte di Dio» si deve
parlare, per la nostra epoca, in senso reale, cioè nel senso di uno scomparire effettivo, di
un silenzio irrecuperabile cui nessuna «dialettica» di «assenza e presenza» può porre
rimedio. All-ora l'ormai impossibile fede in Dio deve tramutarsi in impegno di amore e
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di collaborazione fra gli uomini, e ciò non nell'attesa di un impossibile «ritorno» di
Dio, ma al posto di essa.
Pur muovendo dal problema del male e della sofferenza, la posizione di Hamilton
confluisce in un altruismo umanistico che ne smorza ogni drammaticità. Al contrario,
estremamente tormentata è la visione teologica di Altizer — non a caso definita come una
sorta di «misticismo ateo» — ove si mescolano indissolubilmente reminiscenze
nietzscheiane ed hegeliane. Una forma di panteismo dialettico su sfondo apocalittico e
venato di nichilismo pare infatti emanare dal pensiero dell'autore de Il Vangelo
dell'ateismo cristiano (1966), che identifica l'irreversibile morte di Dio con lo stesso
autoannientamento di Dio in Gesù Cristo (il quale, proprio per questo, non è da
intendersi come figura mitica, ma storica e reale). Perciò la morte di Dio non è la fine
del cristianesimo, ma la sua essenza più propria, la sua fondazione e realizzazione. Gesù
stesso è la morte di Dio in atto in quanto fine e abbassamento (kènosi) del Dio della
trascendenza, cosicché l'incarnazione di Dio e la sua morte per amore del mondo
vengono a identificarsi: si potrà parlare di Dio solo come di un processo dialettico di
metamorfosi kenotica, di autonegazione in Cristo e di continua incarnazione nel
mondo. Ciò significa però che il Dio «morto» della trascendenza sarà un giorno «tutto
in tutti», ed implica il definitivo rifiuto di ogni distinzione fra sacro e profano
nell'accettazione integrale dell'essere e nell'amore incondizionate per la vita e per
l'esistente.
D. BONHOEFFER - UN MONDO SENZA DIO, UN CRISTIANESIMO SENZA
RELIGIONE (1951 postumo)
Ha raggiunto ai giorni nostri una certa compiutezza il movimento iniziatosi verso il XIII
secolo [...], che aveva come obiettivo l'autonomia dell'uomo (intendo per autonomia la
scoperta delle leggi, in base alle quali il mondo vive e, basta a se stesso nella scienza,
nella vita sociale e politica, nell'arte, nella morale, nella religione). L'uomo ha imparato a
cavarsela da solo in tutte le questioni importanti, senza ricorrere alla «ipotesi di
lavoro: Dio». Il fatto è scontato ormai nelle questioni scientifiche, artistiche e anche
etiche, e nessuno più osa tornarci sopra; ma da un centinaio d'anni questo vale, e
in misura sempre maggiore, anche per le questioni religiose; si è visto che tutto va
avanti - esattamente come prima - anche senza «Dio». Nell'ambito genericamente
umano, come in quello scientifico, «Dio» è respinto sempre più lontano dalla vita,
perde terreno. [...]
Il mondo, pervenuto alla consapevolezza di sé e delle proprie leggi di vita, è a tal punto
sicuro di sé, che ne proviamo un penoso disagio; sviluppi aberranti e insuccessi non
trattengono il mondo dalla necessità di seguire questa sua strada e il suo sviluppo,
che vengono accettati con virile freddezza, al punto che neppure una guerra come
l'attuale vi costituisce un'eccezione 1. L'apologetica cristiana è scesa in campo
contro questa sicurezza di sé, in varie guise. Si tenta di convincere il mondo,
diventato adulto, che non potrebbe vivere senza il tutore «Dio». Pur avendo
capitolato in tutte le questioni mondane, rimangono sempre le cosiddette
«questioni ultime»: la morte, la colpa, cui «Dio» solo può dare risposta e per le quali
c'è ancora bisogno di Dio, della chiesa e del parroco. Noi viviamo, insomma, di
queste cosiddette questioni ultime dell'uomo. E se un giorno non dovessero
anch'esse trovare una risposta «senza Dio»? [...]
Io ritengo gli attacchi dell'apologetica cristiana al mondo diventato adulto, primo:
assurdi, secondo: scadenti; terzo: non cristiani. Assurdi: perché mi sembrano il
tentativo di ricondurre alla pubertà un individuo ormai uomo, cioè di riportarlo a
dipendere da cose dalle quali egli si è reso di fatto indipendente, di ricacciarlo
1
La seconda guerra mondiale
4
verso problemi che, di fatto, per lui non sono più tali. Scadenti: perché si tenta lo
sfruttamento delle debolezze di un uomo a un fine che gli è estraneo e che non ha
sottoscritto liberamente. Non cristiani: perché Cristo viene scambiato per un
determinato grado della religiosità umana, quanto dire con una legge umana. Ma
su questo tornerò più a lungo in seguito. [...]
Il problema che non mi lascia mai tranquillo è quello di sapere che cosa sia veramente per noi oggi il Cristianesimo o anche chi sia Cristo. E passato il tempo in cui si
poteva dire tutto agli uomini per mezzo delle parole (fossero parole teologiche o
pie), così come è passato il tempo dell'interiorità e della coscienza, cioè della
religione in generale2. Andiamo incontro a un'epoca completamente non religiosa; gli
uomini, così come sono, non possono più essere religiosi3. Anche coloro che si
definiscono sinceramente «religiosi» non lo praticano assolutamente; per «religioso»
essi intendono probabilmente qualcosa di completamente diverso. Il
«Cristianesimo» è sempre stato una forma (forse la vera forma) della «religione».
Ma quando un giorno sarà evidente che è stato una forma espressiva dell'uomo,
storicamente determinata e transitoria, quando cioè gli uomini diventeranno
realmente non religiosi in maniera radicale - e io penso che più o meno è già il caso
nostro (qual è, per esempio, la ragione per cui questa guerra, a differenza di tutte le
altre, non suscita una reazione «religiosa»?) - che cosa significherà allora questo per
il «Cristianesimo»? Viene sottratto il terreno su cui poggiava finora tutto il nostro
«Cristianesimo», e la «religiosità» funziona ancora soltanto con alcuni «ultimi
paladini» e con qualche individuo intellettualmente disonesto. Che siano questi i
pochi eletti? Dovremmo gettarci proprio su questo dubbio gruppo di persone
per poter vendere la nostra merce, pieni di zelo, seccati o indignati? Dovremmo forse
aggredire un paio d'infelici nei loro momenti di debolezza e per così dire violentarli
religiosamente? Se noi non volessimo nulla di tutto ciò, se infine dovessimo giudicare
la forma occidentale del Cristianesimo nient'altro che il preambolo a una totale
non-religiosità, quale situazione risulterebbe per noi, per la chiesa? Come può Cristo
diventare il Signore anche dei non religiosi? Esistono dei cristiani non religiosi? Se la
religione è soltanto un abito del Cristianesimo - e anche quest'abito ha assunto
aspetti molto diversi in tempi diversi - che significa allora un Cristianesimo senza
religione? [...]
Spesso mi chiedo perché un «istinto cristiano» mi spinga frequentemente piuttosto
verso i non religiosi che verso i religiosi, e ciò non certo nella prospettiva di
un'azione missionaria, ma in uno stato direi quasi «fraterno». Mentre di fronte alle
persone religiose ho un certo ritegno a nominare Dio - perché mi sembra chi il suo
nome risuoni falso in questo contesto e ho l'impressione di essere io stesso un po'
disonesto [...] - di fronte ai non religiosi posso di tanto in tanto nominare Dio con tutta
tranquillità, come fosse ovvio. Le persone religiose parlano di Dio quando la
2
Il tempo cioè in cui, nel mondo ormai privo di Dio (di un Dio che non è stato espulso tanto sul piano
etico quanto su quello scientifico), l'ultima risorsa della «religione» è rimasta l'integrità, la sfera del
«privato» che spesso può ospitare la cosiddetta «religione», perché è il ricettacolo di proiezioni, desideri,
pulsioni e compensazioni di un'umanità imbelle e debole: dunque, di quella parte dell'umanità che appunto
non è ancora maturata né forse saprà mai maturare e divenir «maggiorenne», restando - con le parole di
Nietzsche - una turba di schiavi. Nietzsche è del resto ben presente in questi passi di Bonhoeffer, nel suo
legare immediatamente la «religione» all'umana debolezza; né, d'altra parte, (pur con le debite cautele) è
illegittimo leggerne la presenza nel legame istituito da Bonhoeffer tra la «fede» e la «vita».
3
Non è questa - per Bonhoeffer - una tesi da dimostrare, bensì semplicemente un fatto da constatare. La
«religione» è morta e non può più avere alcun posto nel mondo adulto, che ha scoperto l'autonomia
dell'uomo e in cui questo «ha imparato a cavarsela da solo». Come dev'essere ora interpretato tutto ciò,
come ribellione e secessione da Dio e da Cristo - come ha voluto tanta storiografia sia cattolica sia
protestante - e perciò come involuzione anticristiana, o forse piuttosto come una più alta e da tempo
preparata maturazione, come qualcosa cui non ci si deve né ci si può opporre, e la cui accettazione è
condizione imprescindibile di un rinnovamento della «fede»? Bonhoeffer sceglie ovviamente la seconda
soluzione: il torto dell'apologetica cristiana è stato proprio quello di opporre la fede al mondo diventato
adulto.
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conoscenza umana è giunta al limite (talvolta per pigrizia di pensiero) oppure
quando le forze umane vengono meno: si tratta sempre in verità del deus ex
machina tirato fuori da costoro, o per dare soluzioni apparenti a problemi insolubili, o
come forza a sostegno della deficienza umana; dunque sempre per sfruttare la
debolezza umana o i limiti umani; ma questo sistema funziona solo finché gli
uomini riescono con le loro energie a spingere più avanti i limiti e Dio diventa
superfluo come deus ex machina 4. In generale ho forti dubbi quando sento parlare
dei limiti umani (sono ancora un vero limite la morte stessa, se gli uomini ormai
quasi non la temono più, e il peccato, se gli uomini ormai non lo
capiscono più?): ho sempre l'impressione che si voglia in tal modo timidamente
fare spazio a Dio; io vorrei parlare di Dio non ai confini ma nel centro, non nella
debolezza ma nella forza, non nella morte e nella colpa ma nella vita e nella bontà
dell'uomo. Giunti ai limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l'irrisolubile.
La fede nella risurrezione non è la «soluzione» del problema della morte. L'«aldilà» di
Dio non è l'al dilà delle nostre possibilità di conoscenza. La trascendenza della
gnoseologia noi ha nulla a che fare con la trascendenza di Dio. Egli è al di là in
mezzo alla nostra vita. La chiesa non risiede là dove la capacità dell'uomo non ce la fa
più, ai confini ma in mezzo al villaggio.
E non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo, etsi
deus non daretur. proprio questo noi riconosciamo, al cospetto di Dio! Dio stesso ci
costringe a questo riconoscimento. La conquista della maggiore età ci porta dunque a un
vero riconoscimento della nostra situazione davanti a Dio. Dio ci fa sapere che
dobbiamo vivere come uomini che se la cavano senza Dio. Il Dio che è con noi, è il
Dio che ci abbandona (Marc. 15,34). Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza
l'ipotesi di lavoro Dio, è il Dio al cospetto del quale siamo in ogni momento. Con e al
cospetto di Dio noi viviamo senza Dio. Dio si lascia scacciare dal mondo, sulla croce,
Dio è impotente e debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta.
Matt. 8,17 è chiarissimo: Cristo non aiuta in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù
della sua debolezza, della sua sofferenza!
Qui sta la differenza determinante rispetto a qualsiasi altra religione. Il senso
religioso dell'uomo lo indirizza, nel bisogno, alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il
deus ex machina. La Bibbia indirizza gli uomini all'impotenza e alla sofferenza di
Dio; solo il Dio che soffre può venire in aiuto. Solo in questo senso si può dire che
l'accennata evoluzione del mondo verso la maggiore età, sgombra il terreno da una falsa
visione di Dio e apre la via verso il Dio della Bibbia, che acquista potenza e spazio
nel mondo per mezzo della sua impotenza. A questo punto dovrà inserirsi
I'«interpretazione mondana». [...]
«I cristiani stanno accanto a Dio nella sua sofferenza», ecco che cosa li distingue dai
pagani. «Non potreste vegliare un'ora con me?» chiede Gesù nel Getsemani. E il
capovolgimento di tutto quello che l'uomo religioso si attende da Dio. L'uomo
viene chiamato a partecipare alle sofferenze di Dio per il mondo senza Dio.
Deve, dunque, vivere realmente nel mondo senza Dio e non gli è permesso il
tentativo di camuffare in qualche modo l'essere-senza-Dio del mondo; deve vivere
«mondanamente» e proprio così partecipa alla sofferenza di Dio; può vivere «mondanamente», quanto dire liberato dai falsi legami e inciampi religiosi. Essere cristiano
non significa essere religioso in un determinato modo, fare di se stesso qualcosa (un
peccatore, un penitente, un santo) in base a una determinata pratica religiosa, ma
significa essere uomo; Cristo non crea in noi un tipo d'uomo, ma l'uomo. Non è l'atto
religioso a fare il cristiano, ma la partecipazione al dolore di Dio nella vita mondana.
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa
4
Ovvero, ciò che è chiamato «Dio» è una meta proiezione dell'uomo - come aveva ben visto
Feuerbach, di cui Bonhoeffer, pur più vicino a Nietzsche, conserva molte istanze - e pertanto è
qualcosa di assolutamente fasullo, inventato e inessenziale: quando l'uomo infine possiede se stesso,
giunge alla scoperta della inutilità di quella proiezione. Ed è ciò che è avvenuto nella nostra epoca.
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