IL PROBLEMA DI DIO NELLA FILOSOFIA E NELLA TEOLOGIA DEL NOVECENTO La filosofia La figura che più ha influito sull’ateismo novecentesco è stato sicuramente F. Nietzsche (1844-1900). Secondo Nietzsche non occorre più dimostrare l’inesistenza di Dio, quanto invece prendere atto della sua morte. Dio è morto perché, come voleva già Schopenhauer, si è rivelato una certezza che l’uomo si era costruito per sopportare la durezza della vita, per coprire il fatto che la vita è caos, è priva di fini e lo sgomento che questo crea nell’uomo. Prendere atto della morte di Dio significa innanzitutto spiegare come sia stato possibile credere in lui. Nietzsche si impegna, dunque, a chiarire quella che chiama la genealogia della religione, indicando le sue origini nella necessità della società di reprimere gli istinti dell’individuo. Prendere atto della morte di Dio significa anche, per Nietzsche, trarre le conseguenze della sua morte, il che implica innanzitutto accettare l’idea che non è l’al di là a dare significato all’al di qua e, quindi, individuare nella dimensione terrena l’unica dimensione dell’uomo. La morte di Dio, inoltre, implica il fatto che l’uomo torna ad essere libero di progettare la propria vita, di scegliersi i propri fini. La morte di colui che garantiva il senso delle cose, l’ordine dell’universo significa, infine, che ora è l’uomo stesso a dover dare un senso alle cose, un senso che però non può più pretendere di essere oggettivo, assoluto. Partendo da queste considerazioni gran parte della filosofia novecentesca appare, come indicava Nietzsche, non tanto interessata a una giustificazione teorica dell’ateismo quanto invece a discutere l’origine della religione o a rielaborare una concezione del mondo, dell’uomo e della storia in un mondo in cui Dio non c’è più. Per quanto riguarda l’origine delle religione S. Freud (1856-1939) l’ha ricercata nelle dinamiche della psiche che hanno costituito l’oggetto dei suoi studi. Infatti, per Freud la religione deve essere considerata l’appagamento illusorio di un desiderio infantile di protezione, costituendo il prolungamento nella vita adulta del desiderio del bambino di essere protetto e amato dai genitori. A Dio l’uomo attribuisce le stesse caratteristiche di onnipotenza che agli occhi del bambino rivestono i suoi genitori e il rapporto che si instaura con Dio tende a ripetere il rapporto di dipendenza, di ricerca di protezione caratteristiche del bambino nei confronti degli adulti. Freud propone quindi uno stretto rapporto fra l’esperienza psicologica del bambino nei confronti del proprio padre e l'esperienza degli uomini nei confronti di Dio che, con la sua onnipotenza, elimina le angosce e le insicurezze umane. Le religioni rappresentano “un’illusione, una formazione di desiderio” che, come nei deliri, comporta una deformazione dell’immagine della realtà, attraverso l’introduzione della divina provvidenza e della credenza in un ordine morale universale che, di fronte ai pericoli della vita, consente di attenuare l’angoscia e di appagare le esigenze di giustizia Da questo punto di vista la religione appare a Freud un delirio collettivo che blocca l’individuo in uno stato di infantilismo psichico. Anche nel Novecento ha trovato spazio il tentativo di ripensamento della religione in termini consoni alla sensibilità e alla cultura contemporanea. Ripensamento che è avvenuto sia all’interno dell’alveo del cristianesimo sia al di fuori, dal momento che alcuni pensatori hanno riproposto una concezione della religione senza identificarla con il cristianesimo. Tra quest’ultimi vi è, ad esempio, M. Horkheimer (1895-1973), uno dei filosofi della Scuola di Francoforte di ispirazione marxista, che nelle sue ultime riflessioni ha visto 1 nella religione un fattore positivo, in quanto accomuna gli uomini nel desiderare che ciò che accade in questo mondo, in cui trionfa l’ingiustizia, non rappresenti lo stadio definitivo, costituendo così una prima forma di critica dell’esistente. Secondo Horkheimer la bontà e la giustizia divina devono essere creduti non in quanto dogmi, come vuole la tradizione, ma coscientemente come aspirazioni, desideri dei fedeli. Questo ruolo utopico della religione era stato segnalato all’interno del marxismo non ortodosso da E. Bloch (1885-1977), il quale sostiene che la speranza, cioè l’attesa del nuovo che apporta cambiamenti, è costitutiva dell’uomo che non è appagato dalla realtà. La negatività del presente, che chiede di essere superata, è alla base della speranza e la rivoluzione, che porta al superamento della negatività, realizza la speranza. Bloch vede nel marxismo l’erede di tutte le utopie che hanno attraversato i secoli in mille forme diverse tra cui quella religiosa. La religione, pur dando vita alla speranza, chiede all’uomo di alienare se stesso di fronte al potere trascendente, di attendere il regno di Dio che si colloca oltre la vita; così essa però impedisce di creare il regno dell’uomo nuovo su una terra nuova. La trascendenza è, invece, il carattere originario della divinità agli occhi di K. Jaspers (1883-1969), un filosofo esistenzialista anche lui impegnato nel ripensamento della religione al di fuori del cristianesimo. Secondo Jaspers, l’uomo si apre alla trascendenza quando sperimenta la caratteristica fondamentale del mondo, cioè che tutto finisce, arrivando alla convinzione che “alla fine c’è il naufragio”. Di fronte al naufragio l’uomo avverte l’impossibilità di essere autosufficiente e, desiderando di oltrepassare i propri limiti, si apre alla trascendenza. Radicalizzando il concetto di trascendenza e allontanandosi dal cristianesimo, Jaspers sostiene che Dio non può rivelarsi perché altrimenti verrebbe meno l’assoluta trascendenza di Dio. La teologia All’interno del pensiero teologico che invece si è mantenuto nell’alveo del cristianesimo, il mondo protestante si è sicuramente aperto prima al confronto con l’ateismo e comunque con la sensibilità del mondo contemporaneo nei cui confronti la chiesa cattolica ha mantenuto un atteggiamento di condanna almeno fino al Concilio vaticano II (inizio anni ’60). Parte della teologia contemporanea ha così accettato di confrontarsi con la morte di Dio, annunciata da Nietzsche, interpretandola come il silenzio di Dio e semmai la morte della religione. Mentre Dio nel passato era un Dio presente nella storia degli uomini, incarnato in Gesù e operante con i suoi santi, i suoi miracoli , egli nell’epoca attuale non parla più, si è nascosto agli uomini. Questa posizione è stata elaborata dapprima nell’opera di D. Bonhoeffer (1906-45), dando vita negli anni ’60-’70 alla così detta teologia della morte di Dio. Bonhoeffer sostiene che la morte di Dio e il processo di secolarizzazione del mondo devono essere accettati prendendo le distanze dalle religioni, in quanto, come hanno dimostrati i grandi maestri dell’ateismo, esse rappresentano la tendenza ad aggrapparsi all’ipotesi consolatrice di un Dio tutore, di un Dio tappabuchi nei confronti dell’uomo. È necessario riconoscere che il mondo è diventato adulto e non ha più bisogno dell’ipotesi di Dio, ciò che prima Dio spiegava e ora spiegato dalla scienza. Abbandonare la religione non significa però abbandonare il cristianesimo, essendo la religione cristiana solo una modalità, superata dalla storia, in cui si può manifestare 2 il cristianesimo. Infatti, il cristianesimo in sé è la fede in un Dio che sceglie la croce e non già gli altari o i troni, è la fede in un Dio debole e impotente. Questa fede non può, per Bonhoeffer, coincidere con l’esperienza religiosa in quanto chiama l’uomo a impegnarsi nel mondo, a imitare Gesù nel suo esempio di testimonianza. Anche la teologia cattolica, almeno nelle sue componenti più aperte al dialogo con il mondo contemporaneo e spesso non completamente gradite alle gerarchie vaticane, ha finito per identificare nell’impegno per migliorare il mondo l’autentica espressione della religiosità contemporanea. Così, la teologia della liberazione di G. Gutierrez (1928) ha sottolineato che non è possibile parlare di Dio senza impegnarsi per migliorare il mondo, senza schierarsi con chi combatte per la liberazione dei popoli oppressi identificati nei popoli del terzo mondo. La stessa teologia, più che un discorso su Dio, deve essere concepita come una riflessione che accompagna l’impegno e l’azione in favore degli oppressi. Riflessione che, secondo i teologi della liberazione, non può non servirsi del marxismo come strumento di analisi. L'influsso dell'area problematica aperta da Bonhoeffer fu nel secondo dopoguerra estremamente vasto, anche se spesso recepito conducendone le tesi a conclusioni che superavano, e a volte tradivano, le intenzioni del teologo tedesco. Tra le correnti che in parte proseguono e in parte estremizzano la visione bonhoefferiana, sviluppatesi particolarmente nell'area culturale anglo-americana, è opportuno ricordare soprattutto la «teologia radicale» e la «teologia della morte di Dio», le quali tutte, pur a diversi livelli, muovono dall'assunzione della totale autonomia dell'uomo. Affini e anzi per più versi identiche nelle premesse, teologia radicale e teologia della morte di Dio si differenziano soltanto nelle conclusioni. Entrambe proseguono infatti sulla via della demitizzazione e del rifiuto di ogni concezione sacrale e metafisica della religione e — sempre sulla scorta della posizione di Bonhoeffer, che resta il punto di costante riferimento — propongono un cristianesimo compatibile con l'affermazione dell'autonomia dell'uomo tipica del mondo moderno. Ma mentre la teologia radicale si limita, in modi diversi, a constatare l'impossibilità di un discorso sensato su Dio nelle forme della vita e del linguaggio dell'uomo contemporaneo, senza tuttavia negare l'esistenza divina, la teologia della morte di Dio giunge alla conclusione estrema della necessità di assumere letteralmente tale «morte» come l'evento caratteristico della nostra epoca, evento che non si tratta più di discutere ma solo di interpretare e comprendere. Esponenti in senso stretto della «teologia della morte di Dio» sono William Hamilton (n. 1924-2012) e Thomas Altizer (n. 1927), che pure hanno composto insieme il «manifesto» su La teologia radicale e la morte (li Dio, edito nel 1966 In Hamilton, di cui va ricordato La nuova essenza del cristianesimo (1961), la negazione di Dio è motivata da un'appassionata riflessione sulla sofferenza dell'uomo. Gli orrori e le tragedie del mondo contemporaneo, e soprattutto le mostruosità del nazismo, non consentono più di mentire e devono condurre all'abbandono delle tentennanti risposte della religione tradizionale e della teologia classica, poiché si tratta di risposte non solo impossibili ma propriamente false, mentre l'unica vera risposta sta nel constatare l'assenza di Dio. Tuttavia, se nella sua prima opera Hamilton pare ancora orientato a postulare la necessaria attesa di un Dio che verrà in un indistinto futuro, e quindi a mantenere aperta la porta di una debole speranza escatologica sempre innestata sulla testimonianza di Cristo, la sua riflessione successiva si è sempre più orientata nel senso di un umanesimo ateo. La perdita di Dio nel mondo contemporaneo è un evento universale che si tratta di accettare svolgendone tutte le implicazioni «positive»: ciò ch'è perduto non è solo il Dio idolo del teismo tradizionale, ma la stessa trascendenza. Di «morte di Dio» si deve parlare, per la nostra epoca, in senso reale, cioè nel senso di uno scomparire effettivo, di un silenzio irrecuperabile cui nessuna «dialettica» di «assenza e presenza» può porre rimedio. All-ora l'ormai impossibile fede in Dio deve tramutarsi in impegno di amore e 3 di collaborazione fra gli uomini, e ciò non nell'attesa di un impossibile «ritorno» di Dio, ma al posto di essa. Pur muovendo dal problema del male e della sofferenza, la posizione di Hamilton confluisce in un altruismo umanistico che ne smorza ogni drammaticità. Al contrario, estremamente tormentata è la visione teologica di Altizer — non a caso definita come una sorta di «misticismo ateo» — ove si mescolano indissolubilmente reminiscenze nietzscheiane ed hegeliane. Una forma di panteismo dialettico su sfondo apocalittico e venato di nichilismo pare infatti emanare dal pensiero dell'autore de Il Vangelo dell'ateismo cristiano (1966), che identifica l'irreversibile morte di Dio con lo stesso autoannientamento di Dio in Gesù Cristo (il quale, proprio per questo, non è da intendersi come figura mitica, ma storica e reale). Perciò la morte di Dio non è la fine del cristianesimo, ma la sua essenza più propria, la sua fondazione e realizzazione. Gesù stesso è la morte di Dio in atto in quanto fine e abbassamento (kènosi) del Dio della trascendenza, cosicché l'incarnazione di Dio e la sua morte per amore del mondo vengono a identificarsi: si potrà parlare di Dio solo come di un processo dialettico di metamorfosi kenotica, di autonegazione in Cristo e di continua incarnazione nel mondo. Ciò significa però che il Dio «morto» della trascendenza sarà un giorno «tutto in tutti», ed implica il definitivo rifiuto di ogni distinzione fra sacro e profano nell'accettazione integrale dell'essere e nell'amore incondizionate per la vita e per l'esistente. D. BONHOEFFER - UN MONDO SENZA DIO, UN CRISTIANESIMO SENZA RELIGIONE (1951 postumo) Ha raggiunto ai giorni nostri una certa compiutezza il movimento iniziatosi verso il XIII secolo [...], che aveva come obiettivo l'autonomia dell'uomo (intendo per autonomia la scoperta delle leggi, in base alle quali il mondo vive e, basta a se stesso nella scienza, nella vita sociale e politica, nell'arte, nella morale, nella religione). L'uomo ha imparato a cavarsela da solo in tutte le questioni importanti, senza ricorrere alla «ipotesi di lavoro: Dio». Il fatto è scontato ormai nelle questioni scientifiche, artistiche e anche etiche, e nessuno più osa tornarci sopra; ma da un centinaio d'anni questo vale, e in misura sempre maggiore, anche per le questioni religiose; si è visto che tutto va avanti - esattamente come prima - anche senza «Dio». Nell'ambito genericamente umano, come in quello scientifico, «Dio» è respinto sempre più lontano dalla vita, perde terreno. [...] Il mondo, pervenuto alla consapevolezza di sé e delle proprie leggi di vita, è a tal punto sicuro di sé, che ne proviamo un penoso disagio; sviluppi aberranti e insuccessi non trattengono il mondo dalla necessità di seguire questa sua strada e il suo sviluppo, che vengono accettati con virile freddezza, al punto che neppure una guerra come l'attuale vi costituisce un'eccezione 1. L'apologetica cristiana è scesa in campo contro questa sicurezza di sé, in varie guise. Si tenta di convincere il mondo, diventato adulto, che non potrebbe vivere senza il tutore «Dio». Pur avendo capitolato in tutte le questioni mondane, rimangono sempre le cosiddette «questioni ultime»: la morte, la colpa, cui «Dio» solo può dare risposta e per le quali c'è ancora bisogno di Dio, della chiesa e del parroco. Noi viviamo, insomma, di queste cosiddette questioni ultime dell'uomo. E se un giorno non dovessero anch'esse trovare una risposta «senza Dio»? [...] Io ritengo gli attacchi dell'apologetica cristiana al mondo diventato adulto, primo: assurdi, secondo: scadenti; terzo: non cristiani. Assurdi: perché mi sembrano il tentativo di ricondurre alla pubertà un individuo ormai uomo, cioè di riportarlo a dipendere da cose dalle quali egli si è reso di fatto indipendente, di ricacciarlo 1 La seconda guerra mondiale 4 verso problemi che, di fatto, per lui non sono più tali. Scadenti: perché si tenta lo sfruttamento delle debolezze di un uomo a un fine che gli è estraneo e che non ha sottoscritto liberamente. Non cristiani: perché Cristo viene scambiato per un determinato grado della religiosità umana, quanto dire con una legge umana. Ma su questo tornerò più a lungo in seguito. [...] Il problema che non mi lascia mai tranquillo è quello di sapere che cosa sia veramente per noi oggi il Cristianesimo o anche chi sia Cristo. E passato il tempo in cui si poteva dire tutto agli uomini per mezzo delle parole (fossero parole teologiche o pie), così come è passato il tempo dell'interiorità e della coscienza, cioè della religione in generale2. Andiamo incontro a un'epoca completamente non religiosa; gli uomini, così come sono, non possono più essere religiosi3. Anche coloro che si definiscono sinceramente «religiosi» non lo praticano assolutamente; per «religioso» essi intendono probabilmente qualcosa di completamente diverso. Il «Cristianesimo» è sempre stato una forma (forse la vera forma) della «religione». Ma quando un giorno sarà evidente che è stato una forma espressiva dell'uomo, storicamente determinata e transitoria, quando cioè gli uomini diventeranno realmente non religiosi in maniera radicale - e io penso che più o meno è già il caso nostro (qual è, per esempio, la ragione per cui questa guerra, a differenza di tutte le altre, non suscita una reazione «religiosa»?) - che cosa significherà allora questo per il «Cristianesimo»? Viene sottratto il terreno su cui poggiava finora tutto il nostro «Cristianesimo», e la «religiosità» funziona ancora soltanto con alcuni «ultimi paladini» e con qualche individuo intellettualmente disonesto. Che siano questi i pochi eletti? Dovremmo gettarci proprio su questo dubbio gruppo di persone per poter vendere la nostra merce, pieni di zelo, seccati o indignati? Dovremmo forse aggredire un paio d'infelici nei loro momenti di debolezza e per così dire violentarli religiosamente? Se noi non volessimo nulla di tutto ciò, se infine dovessimo giudicare la forma occidentale del Cristianesimo nient'altro che il preambolo a una totale non-religiosità, quale situazione risulterebbe per noi, per la chiesa? Come può Cristo diventare il Signore anche dei non religiosi? Esistono dei cristiani non religiosi? Se la religione è soltanto un abito del Cristianesimo - e anche quest'abito ha assunto aspetti molto diversi in tempi diversi - che significa allora un Cristianesimo senza religione? [...] Spesso mi chiedo perché un «istinto cristiano» mi spinga frequentemente piuttosto verso i non religiosi che verso i religiosi, e ciò non certo nella prospettiva di un'azione missionaria, ma in uno stato direi quasi «fraterno». Mentre di fronte alle persone religiose ho un certo ritegno a nominare Dio - perché mi sembra chi il suo nome risuoni falso in questo contesto e ho l'impressione di essere io stesso un po' disonesto [...] - di fronte ai non religiosi posso di tanto in tanto nominare Dio con tutta tranquillità, come fosse ovvio. Le persone religiose parlano di Dio quando la 2 Il tempo cioè in cui, nel mondo ormai privo di Dio (di un Dio che non è stato espulso tanto sul piano etico quanto su quello scientifico), l'ultima risorsa della «religione» è rimasta l'integrità, la sfera del «privato» che spesso può ospitare la cosiddetta «religione», perché è il ricettacolo di proiezioni, desideri, pulsioni e compensazioni di un'umanità imbelle e debole: dunque, di quella parte dell'umanità che appunto non è ancora maturata né forse saprà mai maturare e divenir «maggiorenne», restando - con le parole di Nietzsche - una turba di schiavi. Nietzsche è del resto ben presente in questi passi di Bonhoeffer, nel suo legare immediatamente la «religione» all'umana debolezza; né, d'altra parte, (pur con le debite cautele) è illegittimo leggerne la presenza nel legame istituito da Bonhoeffer tra la «fede» e la «vita». 3 Non è questa - per Bonhoeffer - una tesi da dimostrare, bensì semplicemente un fatto da constatare. La «religione» è morta e non può più avere alcun posto nel mondo adulto, che ha scoperto l'autonomia dell'uomo e in cui questo «ha imparato a cavarsela da solo». Come dev'essere ora interpretato tutto ciò, come ribellione e secessione da Dio e da Cristo - come ha voluto tanta storiografia sia cattolica sia protestante - e perciò come involuzione anticristiana, o forse piuttosto come una più alta e da tempo preparata maturazione, come qualcosa cui non ci si deve né ci si può opporre, e la cui accettazione è condizione imprescindibile di un rinnovamento della «fede»? Bonhoeffer sceglie ovviamente la seconda soluzione: il torto dell'apologetica cristiana è stato proprio quello di opporre la fede al mondo diventato adulto. 5 conoscenza umana è giunta al limite (talvolta per pigrizia di pensiero) oppure quando le forze umane vengono meno: si tratta sempre in verità del deus ex machina tirato fuori da costoro, o per dare soluzioni apparenti a problemi insolubili, o come forza a sostegno della deficienza umana; dunque sempre per sfruttare la debolezza umana o i limiti umani; ma questo sistema funziona solo finché gli uomini riescono con le loro energie a spingere più avanti i limiti e Dio diventa superfluo come deus ex machina 4. In generale ho forti dubbi quando sento parlare dei limiti umani (sono ancora un vero limite la morte stessa, se gli uomini ormai quasi non la temono più, e il peccato, se gli uomini ormai non lo capiscono più?): ho sempre l'impressione che si voglia in tal modo timidamente fare spazio a Dio; io vorrei parlare di Dio non ai confini ma nel centro, non nella debolezza ma nella forza, non nella morte e nella colpa ma nella vita e nella bontà dell'uomo. Giunti ai limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l'irrisolubile. La fede nella risurrezione non è la «soluzione» del problema della morte. L'«aldilà» di Dio non è l'al dilà delle nostre possibilità di conoscenza. La trascendenza della gnoseologia noi ha nulla a che fare con la trascendenza di Dio. Egli è al di là in mezzo alla nostra vita. La chiesa non risiede là dove la capacità dell'uomo non ce la fa più, ai confini ma in mezzo al villaggio. E non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo, etsi deus non daretur. proprio questo noi riconosciamo, al cospetto di Dio! Dio stesso ci costringe a questo riconoscimento. La conquista della maggiore età ci porta dunque a un vero riconoscimento della nostra situazione davanti a Dio. Dio ci fa sapere che dobbiamo vivere come uomini che se la cavano senza Dio. Il Dio che è con noi, è il Dio che ci abbandona (Marc. 15,34). Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l'ipotesi di lavoro Dio, è il Dio al cospetto del quale siamo in ogni momento. Con e al cospetto di Dio noi viviamo senza Dio. Dio si lascia scacciare dal mondo, sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta. Matt. 8,17 è chiarissimo: Cristo non aiuta in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua debolezza, della sua sofferenza! Qui sta la differenza determinante rispetto a qualsiasi altra religione. Il senso religioso dell'uomo lo indirizza, nel bisogno, alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il deus ex machina. La Bibbia indirizza gli uomini all'impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio che soffre può venire in aiuto. Solo in questo senso si può dire che l'accennata evoluzione del mondo verso la maggiore età, sgombra il terreno da una falsa visione di Dio e apre la via verso il Dio della Bibbia, che acquista potenza e spazio nel mondo per mezzo della sua impotenza. A questo punto dovrà inserirsi I'«interpretazione mondana». [...] «I cristiani stanno accanto a Dio nella sua sofferenza», ecco che cosa li distingue dai pagani. «Non potreste vegliare un'ora con me?» chiede Gesù nel Getsemani. E il capovolgimento di tutto quello che l'uomo religioso si attende da Dio. L'uomo viene chiamato a partecipare alle sofferenze di Dio per il mondo senza Dio. Deve, dunque, vivere realmente nel mondo senza Dio e non gli è permesso il tentativo di camuffare in qualche modo l'essere-senza-Dio del mondo; deve vivere «mondanamente» e proprio così partecipa alla sofferenza di Dio; può vivere «mondanamente», quanto dire liberato dai falsi legami e inciampi religiosi. Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare di se stesso qualcosa (un peccatore, un penitente, un santo) in base a una determinata pratica religiosa, ma significa essere uomo; Cristo non crea in noi un tipo d'uomo, ma l'uomo. Non è l'atto religioso a fare il cristiano, ma la partecipazione al dolore di Dio nella vita mondana. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa 4 Ovvero, ciò che è chiamato «Dio» è una meta proiezione dell'uomo - come aveva ben visto Feuerbach, di cui Bonhoeffer, pur più vicino a Nietzsche, conserva molte istanze - e pertanto è qualcosa di assolutamente fasullo, inventato e inessenziale: quando l'uomo infine possiede se stesso, giunge alla scoperta della inutilità di quella proiezione. Ed è ciò che è avvenuto nella nostra epoca. 6