:: www.filmfestivalpopoliereligioni.it :: [email protected] ______________________________________________________________________________________ ACCIAIO, DOPPIO DEBUTTO: Luigi Pirandello e il cinema - il cinema e Terni :: Giovedi, 13 aprile 2006 di ARNALDO CASALI Nel 1933 “Acciaio” segna un duplice debutto nel mondo del cinema: quello di Luigi Pirandello e quello della città di Terni. Due incontri, quello tra il grande scrittore e la settima arte e quello di Terni con il mondo di celluloide, che non sono casuali e non restano occasionali, ma rappresentano – al contrario – il momento culminante di un rapporto importante ma che pure è restato, in entrambi i casi, ‘incompiuto’. Con una metafora valentiniana potremmo definirle entrambe grandi storie d’amore che non sono mai arrivate al matrimonio. Terni e il Cinema sono dei veri e propri “Promessi sposi”: sono fidanzati da anni ma non si decidono a sposarsi (forse non hanno i soldi!), mentre Pirandello con il cinema ha amoreggiato molto, ma alla fine si è limitato a qualche flirt, senza impegnarsi. PIRANDELLO E IL CINEMA Pirandello ha sempre dimostrato una grande attenzione e interesse per il mondo del cinema; senza mai diventare uomo di cinema. E questo a differenza di altri scrittori come Pier Paolo Pasolini, Vincenzo Cerami o lo stesso Mario Soldati. Non è stato un uomo di cinema, Pirandello, e non soltanto perché – di fatto – Acciaio rimane il suo unico contributo diretto alla settima arte. Tutto sommato possiamo dire che comunque Pirandello, uomo di cinema, non lo sarebbe stato mai, così come non è stato un uomo di teatro. E questo nonostante abbia scritto moltissimo per il teatro e sia addirittura uno degli autori teatrali più rappresentati in assoluto, in Italia. In realtà potremmo arrivare a sostenere che il teatro di Pirandello sia addirittura antiteatrale perché, pur interessandosi direttamente all’allestimento delle sue opere, l’approccio di Pirandello al teatro è sempre stato quello di uno scrittore e non da animale da palcoscenico. Pirandello non è mai stato – a differenza di Eduardo, di Molière, di Dario Fo – un attore, un capocomico, e di questo le sue opere risentono moltissimo: il suo è un teatro di parola, è un teatro letterario, con battute molto lunghe e totalmente privo di azione scenica. Abbiamo quindi ragione di credere che se pure avesse frequentato più attivamente la settima arte, Pirandello lo avrebbe fatto da scrittore e non da cineasta. E forse è proprio questo il motivo per cui questo rapporto non si è mai realizzato davvero. Perché il cinema – a differenza del teatro – non ha un rapporto di subordinazione con la letteratura. E le ragioni si comprendono facilmente: il teatro è essenzialmente testo e attore. Sicuramente più attore che testo; è però il testo, che rimane: Molière era un attore, ma nulla del Molière attore ci è rimasto. Shakespeare, Rostand, Goldoni, Checov sono i pilastri della storia del teatro, mentre di Sarah Bernard ed Eleonora Duse non ci rimane niente, se non i ricordi dei contemporanei. La grandezza di Shakespeare è sotto gli occhi di tutti, in qualsiasi momento. Della Duse ci hanno detto altri che era brava, ma la sua arte è perduta. Come se dovessimo conoscere la grandezza di Leonardo dal racconto dei suoi quadri. D’altra parte se Eduardo lo ricordiamo – oltre che come commediografo - anche come attore, non è certo grazie al teatro, ma solo perché oltre al teatro, ha fatto cinema e televisione. Viste queste premesse, è naturale capire perché il teatro sia così strettamente legato alla letteratura: perché l’unico motivo per essere trasmesso ai posteri, almeno fino a cinquant’anni fa, era quello di diventare un 1/6 genere letterario. . Il cinema, invece, è un’arte completamente diversa, e completamente autonoma: è un’arte visiva, ed è un’arte collettiva. Costringe qualsiasi artista che voglia rapportarsi con essa, allora, ad adeguarsi, a “reinventarsi”. Non è un caso se l’autore di un’opera teatrale viene considerato lo scrittore, mentre quello di un film è sempre il regista. Quello di Luigi Pirandello con il cinema è quindi un rapporto di fascinazione reciproca, che resta però un rapporto a distanza. Non essendo un esperto in materia non mi soffermerò sul perché Pirandello fosse così affascinato dalla settima arte, limitandomi a dire che senza dubbio nella “falsità” del cinema – come in quella del teatro – Pirandello ritrovava la sua poetica delle “maschere” secondo cui ciascuno di noi vive, in qualche modo, recitando una parte. Ricordiamoci poi che Pirandello assiste alla nascita del cinema, e il cinema muto assomigliava più alle ombre cinesi che alla prosa. Probabilmente sotto questo profilo il cinema risultava ancora più affascinante del teatro proprio perché più “finto”, meno realistico e più retorico. Pirandello lo vede come una replica falsata e volgarizzata del mondo reale, dove la vita vera degli attori è ingoiata dalla macchina da presa e fissata per sempre in una finzione che non è arte, ma merce a buon mercato, per il pubblico di massa. Il cinema secondo Pirandello D’altra parte, secondo lo scrittore siciliano, questo era il ruolo che gli competeva. Nel 1929, sul Corriere della sera scrive che il peccato maggiore del cinema è quello di voler gareggiare con il teatro: “Per questa via la perfezione non potrà condurre il cinematografo ad abolire il teatro, ma semmai ad abolire sé stesso”. Il cinema doveva essere per Pirandello, uno spazio diverso per esprimersi. Sognava un cinema che fosse “Cinemelografia”: “Gli occhi che vedono, l’orecchio che ascolta, e il cuore che sente tutta la bellezza e la varietà dei sentimenti che i suoni esprimono, rappresenta nelle immagini quel che quei sentimenti suscitano ed evocano”. Il Nobel e la Settima arte Il rapporto di Luigi Pirandello con il cinema nasce agli albori stessi dell’arte cinematografica e subito dopo l’arrivo del successo internazionale per Pirandello, che viene ottenuto, nel 1904, con Il fu Mattia Pascal. Nei primi anni ’10, quando vive a Roma dove insegna presso il Magistero, Pirandello inizia a frequentare i teatri di posa e scrive il soggetto per un film che non vide mai la luce. Nel 1915 collabora alla riduzione cinematografica di Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo. Altro film che non uscirà mai. Da queste esperienze, però, trae ispirazione per un romanzo, che esce – a puntate – nel 1915, con il titolo di “Si gira!”. Nel 1915, vale la pena di ricordarlo, l’invenzione del cinema ha appena 20 anni. Il cinematografo, quindi, è un giovanotto che deve ancora dare il meglio di sé, ma che è già pieno di energie: potremmo paragonarlo, per certi versi, a ciò che oggi rappresenta internet. Per fare un quadro della situazione dell’epoca, diciamo che nel 1915 Charlie Chaplin è stato appena assunto alla Keystone dal regista Mack Sennet; Stan Laurel e Buster Keaton, invece, lavorano ancora in teatro, Greta Garbo fa la commessa in un negozio di Stoccolma, Rodolfo Valentino è uno sconosciuto che muove i primissimi passi davanti la macchina da presa, Murnau è un soldato prigioniero in Svizzera; in Italia, però, è già uscito il kolossal “Cabiria” di Pastrone-D’Annunzio, mentre in America David W. Griffith sta girando “La nascita di una nazione”. “Si gira!” Nel 1915, dunque, Pirandello pubblica il romanzo “Si gira!”. Un titolo particolarmente moderno e 2/6 ‘cinematografico’ che, significativamente, sarà ripubblicato dieci anni dopo con il titolo – decisamente più ottocentesco, pirandelliano e letterario - di “I quaderni di Serafino Gubbio operatore”. Scritto in forma di diario, il romanzo vede come protagonista un operatore cinematografico che osserva e registra ogni cosa come fosse lui stesso una macchina da presa. Di fronte a lui si consuma un tipico melodramma da fueilletton fine Ottocento che aveva ispirato la trama di tanti film dell’era del muto. Da sottolineare l’episodio in cui Serafino, dopo aver ripreso, con una vera e propria anticipazione di quella che sarebbe stata la Real TV - una tragedia (dentro una gabbia, un uomo spara ad una donna e si fa sbranare da una tigre) non parlerà mai più, come se si fosse trasformato egli stesso in un personaggio da film muto. Ebbene, appena tre anni dopo l’uscita del libro – nel 1918 – Pirandello lo propone come soggetto cinematografico al regista Anton Giulio Bragaglia, con il chiaro intento di farne un film sul cinema, così come a teatro avrebbe fatto le opere di meta-teatro. E’ evidente che questo tipo di gioco, che Pirandello ama tanto, rientra perfettamente nella poetica della finzione nella finzione, nel gioco di specchi che tiene oscurata la realtà. Curiosamente però, il cinema, che tanto si è nutrito di Pirandello, non ha mai tratto un film dal più cinematografico dei suoi racconti. A quanto mi risulta, l’unico tentativo di farne un film da I quaderni di Serafino Gubbio è attualmente in corso, ad opera di Nico Garrone – padre del regista Matteo Garrone – Andrea Balzola e Memé Perlini (che è stato, peraltro, attore in un film girato in questi studios, “Tosca e altre due”, nel 2003). I film tratti dalle novelle Fallito il tentativo di Serafino Gubbio, comunque, Pirandello, nel 1924 ci riprova – significativamente – con un’altra ‘metaopera’ come Sei personaggi in cerca d’autore, scrivendo una sceneggiatura con l’intenzione di proporla al grande Murnau, reduce dal successo di Nosferatu, che – peraltro – proprio in quel periodo stava lavorando ad un altro film tratto da un opera teatrale: il Tartufo di Moliére. Da segnalare, poi altre piccole collaborazioni, come i “suggerimenti” a D’Ambra e Palermi per il film – del 1918 – Papà mio, mi piacciono tutti!, mentre l’anno successivo collabora al soggetto di Pantera di neve di Arnaldo Frateili. Intanto cominciano ad essere ridotte per il cinema alcune sue novelle: nel 1919 Il lume dell’altra casa di Ugo Gracci e Lo scaldino di Augusto Genina mentre nel 1921, La rosa (novella del ’14) dello stesso Frateili vede come sceneggiatore il figlio di Pirandello, con lo pseudonimo di Stefano Landi, che userà anche per “Acciaio”. Importante, poi, notare come il primo film italiano sonoro sia tratto proprio da un racconto di Pirandello: si tratta di La canzone dell’amore di Gennaro Righelli, che – paradossalmente – era tratto dalla novella Il silenzio! Impossibile poi non ricordare la parentesi americana di Come mi vuoi, uscito nel 1932 e interpretato da Greta Garbo ed Erich Von Stroheim, che ingelosì Mussolini, che non aveva nessuna intenzione di farsi portare via dagli americani il più grande scrittore italiano e che per questo gli commissionò Acciaio. Pirandello autorizzò poi personalmente anche gli adattamenti di Il fu Mattia Pascal di Marcel l’Herbier (1937), Ma non è una cosa seria di Mario Camerini e Pensaci Giacomino! di Gennaro Righelli. Tra i film girati dopo la sua morte vanno invece ricordati almeno La patente (1954) con Totò, L’uomo, la bestia , la virtù di Steno in cui lo stesso Totò è affiancato nientemeno che da Orson Welles, Liolà di Alessandro Blasetti con Ugo Tognazzi, Kaos dei fratelli Taviani (1984), Le due vite di Mattia Pascal di Mario Monicelli con Marcello Mastroianni (1984), Chi lo sa? di Jacques Rivette con Sergio Castellitto e Claude Berri (2001) ed Enrico IV di Marco Bellocchio (1984). Più recentemente Tu ridi ancora dei fratelli Taviani, con Antonio Albanese, Sabrina Ferrilli, Luca Zingaretti, Giuseppe Cederna (1998) e Ovunque sei del 2004, di Michele Placido, con Stefano Accorsi e Violante Placido, ispirato a L’uomo dal fiore in bocca e All’uscita. 3/6 Quest’anno, peraltro, con il 70° della morte, scadono anche i diritti d’autore. Pirandello diventa patrimonio nazionale, e si prevede che questo possa rappresentare un incentivo per la produzione di film tratti dalle sue opere. Tra i progetti in cantiere, da segnalare, almeno quello della nuova versione di Liolà diretta da Gabriele Lavia e interpretata da Raoul Bova, Michele Placido, Giancarlo Giannini, Leo Gullotta e Serena Autieri, attualmente in fase di preproduzione. TERNI E IL CINEMA Per Terni Acciaio rappresenta un triplice debutto. Acciaio è infatti il primo film girato a Terni, ma è anche il primo film ambientato a Terni e il primo film che mostra e racconta le acciaierie. Dal Nobel all’Oscar E’ curioso come la storia del cinema a Terni sia stata segnata da due grandi personaggi di fama internazionale, che proprio all’indomani dell’esperienza ternana hanno ricevuto il massimo riconoscimento. Tra il Nobel e l’Oscar, comunque, il cinema a Terni è stato praticamente assente. Le uniche pellicole girate in questi settanta anni che separano i due film-simbolo della cinematografia ternana, Acciaio e La vita è bella, sono state La ragazza di Bube, di Luigi Comencini, nel 1963 (ambientato in una città bombardata), e La califfa di Alberto Bevilacqua (un altro scrittore prestato al cinema) nel 1971. Poi bisogna aspettare trent’anni perché in città torni una macchina da presa, anche se qualche traccia la lasciano nel 1974, L’Arbitro di D’Amico, il Bestione di Corrucci, La poliziotta di Steno e Delizia di Joe D’Amato, mentre le Cascate saranno utilizzate da Fellini per Intervista e da Dario Argento per La sindrome di Stendhal. Dall’immagine della fabbrica alla fabbrica dell’immagine Vale la pena di sottolineare, comunque, come già prima dell’arrivo di Benigni era stata manifestata, da parte del territorio, l’interesse a riqualificare la propria economia, sotto lo slogan Dall’immagine della fabbrica alla fabbrica dell’immagine. Ricordiamo la ristrutturazione, a questo scopo, delle ex officine Bosco e l’acquisto, da parte dell’amministrazione Ciaurro, del complesso di Papigno. Nei primi anni ’90, poi nasce il progetto Umbriafiction che si pone come obiettivo proprio quello di rendere Terni, e l’Umbria in generale, terreno per nuove produzioni cinematografiche e televisive. Tra l’altro è proprio questa manifestazione a tenere a battesimo, in Italia, in termine fiction, che d’ora in poi sostituirà i desueti sceneggiato e film tv. Personalmente ricordo diverse serate – anche in diretta Rai – dal teatro Verdi. L’unica fiction a mettere piede in città, però, resta Mister Y, un film con Andrea Occhipinti, una cui scena viene girata – siamo nel 1991 – in piazza Solferino, nell’attuale bibliomediateca che allora era ancora un edifico fatiscente. Un film che però, in realtà, non si è mai visto né al cinema né in televisione. Inizia l’era Benigni E’ con l’arrivo di Roberto Benigni che per Terni si schiudono davvero le porte del cinema e della fiction. Questa è storia che probabilmente già conoscete bene, e non mi soffermerò quindi molto sull’argomento, anche perché tutte le notizie a riguardo le potete trovare sul sito www.cieloeterra.info e su Adesso. Sinteticamente ricorderemo che Benigni arriva a Terni esattamente dieci anni fa: sta cercando delle location per ricostruire il lager di La vita è bella, il cui titolo di lavoro è Buongiorno principessa. Gli viene proposto il complesso industriale di Papigno, dismesso da oltre vent’anni e acquistato dal Comune proprio con l’intento di farci un centro di produzione cinematografica. Qui Benigni ricostruisce esterni e interni del campo di concentramento. E visto che è più economico concentrare le riprese nello stesso territorio, il regista decide di utilizzare anche il Videocentro, per gli interni ambientati ad Arezzo. Due terzi del film vengono quindi girati a Terni: solo gli esterni di Arezzo vengono girati in Toscana. 4/6 Con il successo di La vita è bella torna il sogno di una Hollywood sul Nera. In realtà, il grande schermo, a Terni, non ci mette quasi piede, almeno fino ai tempi di Pinocchio, ma il futuro dello sviluppo economico e culturale ternano è ormai segnato. Innanzitutto, va detto, grazie ai teatri di posa del Cmm e al lavoro di Umbria Film Commission, arriva la fiction (I tre adii, ma anche qualche film come L’amante perduto di Roberto Faenza e Il tuffo di Massimo Martella, con Vincenzo Salemme e Carlotta Natoli (1993)). Sempre al Videocentro, poi, nel 1997 Carlo Rambaldi fonda la prima accademia europea degli effetti speciali. Un’esperienza sfortunata, che si concluderà al termine del primo corso, ma che lascerà sul territorio la società – formata dagli ex allievi di Rambaldi – “Logical Art”, che lavora in tutta Italia e che oggi ha sede proprio qui a Papigno. Intanto, proprio in città nasce anche un festival cinematografico di notevole significato, dedicato proprio alle tematiche del lavoro nel cinema e del lavoro del cinema. Perché il grande cinema possa tornare, però, e perché arrivi la svolta anche per Papigno, bisogna aspettare ancora una volta Benigni e il suo Pinocchio. Questa volta il regista premio Oscar non ha bisogno di location naturali, ma di enormi teatri di posa dove giare l’intero film. Né Papigno né il Cmm sono adeguati a questo scopo. Grazie all’accordo tra il produttore Mario Cotone e il Comune, però, l’ex fabbrica di Papigno viene trasformata, in pochi mesi, nel complesso cinematografico che oggi conosciamo, e che è dotato di tre teatri di posa (di cui il più grande d’Europa, uno per gli interni e uno per gli effetti speciali), sartoria, falegnameria, tre mense e gli uffici amministrativi. Battezzato “Papigno studios” il complesso viene gestito dalla Exon di Cotone, e a partire dal dicembre 2001, da una società chiamata Spitfire gestita dalla stessa Melampo di Roberto Benigni e Nicoletta Braschi, che diventano così i primi attori italiani ad essere titolari di studios cinematografici. In realtà i risultati non sono quelli sperati. Si parla di kolossal internazionali, si fanno i nomi di Ridley Scott, Giuseppe Tornatore, Paul Verhoven, ma nei tre anni che seguono Pinocchio (girato al 90% negli studios) arrivano solo piccole produzioni, sporadiche e in gran parte televisive (Orgoglio 2, L’orizzonte degli eventi, Promessa d’amore, Volevo solo dormirle addosso, Le vie dei santi, Il servo ungherese, Il piano di sopra, Angelo il custode). Alla fine del 2004 la gestione cambia con l’ingresso di Cinecittà studios e il nuovo nome Cinecittà Umbria Studios. La partenza è con il diesel. Per il primo anno a girare arriva solo – ancora una volta – Roberto Benigni, per gli interni di La tigre e la neve. Il 2006, però, possiamo dire, è partito nel migliore dei modi, con – questa volta davvero – Giuseppe Tornatore, l’annuncio della fiction su Giovanni Paolo I e il nuovo film di Krzystof Zanussi. Il cinema e le acciaierie Unico film dedicato a Terni, Acciaio è anche l’unico ambientato nelle acciaierie. Un dato, questo, che può destare persino stupore, vista l’oggettiva importanza rivestita – per oltre un secolo – dalla società Terni nel complesso industriale ternano, e l’attenzione che il cinema ha sempre dimostrato nei confronti delle problematiche operaie. Basti pensare a due esempi recenti come La bella vita di Virzì (1994), ambientato nelle acciaierie di Piombino o Il posto dell’anima di Riccardo Milani (2002) che racconta una vicenda del tutto analoga a quella vissuta – negli ultimi tre anni – dalla Tk-Ast, dedicandola però, ad una fabbrica abruzzese di pneumatici. Sono invece due i film che nelle acciaierie sono stati girati; curiosamente, poi, tutti e due – insieme ad Acciaio - sono legati da un doppio filo: il nazi-fascismo e la Germania: nel 1969 Luchino Visconti gira alla società Terni La caduta degli dei. Paradossalmente le acciaierie che la “Terni” interpreta, sono proprio quelle tedesche della Krupp (che nel film si chiama Essenback)! Nel 1997, invece, quando la Krupp ha da poco acquistato le acciaierie ternane, in alcuni reparti vengono girate un paio di sequenze de La vita è bella. In realtà, per non rischiare di indispettire la proprietà tedesca, la direzione aziendale permette le riprese del film “in incognito”, senza che i tedeschi, cioè, lo vengono a sapere. 5/6 Per questa ragione, pur essendo chiaramente riconoscibili, le acciaierie ternane non vengono citate nei titoli di coda del film. Il cinema “ternano” Se quindi, soprattutto in questi ultimi anni, Terni è stata molto spesso attrice, non è invece più stata – dopo Acciaio – protagonista, e nemmeno comprimaria. Acciaio resta infatti ancora oggi l’ultimo film che ha raccontato la città. In tutte le produzioni che sono venute dopo, Terni ha “interpretato” la Toscana per Comencini e Benigni, la Germania per Visconti, la Polonia, come in Giovanni Paolo II. Molto più spesso - sopratutto quando si è girato per le vie della città – le è stato invece affidato il ruolo di “città anonima”. Una città qualunque, e questo la dice lunga sulla crisi della nostra identità!: E’ accaduto, ad esempio, nella fiction L’amore oltre la vita, in Troppo belli e, ancora, ne La sconosciuta di Tornatore. L’unica eccezione, in questi casi, l’ha fatta il serial Sei forte maestro (2000-2001). Qui, effettivamente, si parla di Terni e si legge pure il Corriere dell’Umbria. La scelta rientra nella tendenza alla regionalizzazione della fiction italiana, dove l’ambientazione è sempre caratteristica, basti pensare a Distretto di polizia ambientato al quartiere Tuscolano di Roma, allo stesso Caro maestro (di cui il serial ternano raccoglieva l’eredità) a Forte dei Marmi, o – per citare esempi umbri, Carabinieri (Città di Castello) e don Matteo (Gubbio). La verità, però, è che se la città in cui è ambientato il serial con Solfrizzi e De Laurentis, si chiamava Terni o Paperopoli, la differenza non sarebbe stata molta. L’intento degli sceneggiatori, infatti, era quello di dare un nome alla città qualunque, non certo quello di raccontare la Terni reale. Ecco quindi che dal film scompaiono tutti gli elementi che caratterizzano la città di Terni: la fontana di Piazza Tacito, l’obelisco di Pomodoro, le acciaierie, San Valentino, la Cascata delle Marmore, il Cantamaggio. Le citazioni di Terni Le poche citazioni che la settima arte degli ultimi settant’anni ha riservato a Terni – quasi sempre con fini ironici – vengono sempre da fuori. Alberto Sordi, ad esempio, cita la città in ben due film (forse per questo gli è stato dato il San Valentino d’oro!): Le coppie, del 1970, dove interpreta un operaio della Terni in vacanza con la moglie in lussuosissimi alberghi delle coste sarde e in Di che segno sei di Sergio Corbucci, del 1975, dove riprende il personaggio di Nando Moriconi (il protagonista di Un americano a Roma) qui diventato un bodyguard. In una scena Sordi rispondendo al telefono escalma: “Alò? New York? Los Angeles? Tokyo? Che? Terni? Le acciaierie?”. Una piccola frecciatina al campanilismo dei ternani, invece, lo ha dato recentemente proprio Roberto Benigni. Che in nessuno dei suoi film ha mai citato Terni, ma che nel finale di La tigre e la neve riserva un piccolissimo omaggio a Perugia, cui è dedicata una battuta. Interessante, poi, sottolineare l’attenzione che per la città di Terni ha avuto il cinema post-neorealista. Soprattutto se pensiamo che in fondo Acciaio non fu altro che un’anticipazione, del neorealismo. Citazioni di Terni le troviamo infatti in Soldati 365 all’alba di Marco Risi (1987), dove uno dei personaggi – interpretato da Alessandro Cavalieri – viene chiamato il “Ternano puro” e in Ultrà di Ricky Tognazzi (1990) dove il coprotagonista, interpretato da Ricky Memphis – dovrà lasciare la Capitale per andare a lavorare a Terni, e gli amici – in una scena – lo sfottono dicendogli che l’anno seguente non avrebbe più tifato per la Roma, ma per la Ternana, allora in serie C1. Curiosamente, è affidata proprio a Ricky Memphis l’ultima battuta fino ad oggi riservata alla nostra città da cinema e fiction. Una buffa scena di Distretto di polizia 2 in cui due ternani si riconoscono grazie all’accento. “Ma che è de Terni quellu?” dice Memphis. La risposta è: “Che se sende?”. 6/6