Parte Seconda: Dal Regno dei Sardi al Dominio Spagnolo Mariano IV d’Arborea era riuscito, durante il suo mandato nel XIV secolo, a unire tutti i sardi sotto un'unica bandiera, e ad unificare così l’isola. Liberò la Sardegna dall'occupazione dei catalano-aragonesi e continuò a lottare non per la propria casata, ma per l’intero popolo sardo. In quel periodo il concetto di “comunità sarda sovrana” è ben chiaro a tutti i sardi, e lo Iudike era rispettato come un vero e proprio sovrano: Mariano, nonostante non avesse ottenuto il riconoscimento ufficiale da parte di Papa Urbano V, si faceva chiamare Re di Sardegna, ed era conosciuto anche in ambito internazionale come Re dei Sardi. Quello stemma che in origine identificava la casata degli Arbarèe si diffuse su tutta l’isola e si ritrova ancora oggi, con diverse fogge, disseminato su tutto il territorio sardo. Da questo momento si utilizzano, conferendogli lo stesso significato, sia il termine di Iudike che quello di Re, sia quello di Giudicato che quello di Regno. L’esercito sardo, guidato dall’abile condottiero Mariano IV sotto la bandiera con l’albero verde in campo bianco, rimase sempre imbattuto. Eleonora I D'Arborea, Regina di Sardegna Il patrimonio diplomatico messo in piedi da Mariano IV permise ai Bas-Serra di stringere l’isola sotto un’unica bandiera; ma la rete di relazioni europee costruita con tanto impegno, venne accantonata dal più istintivo figlio Ugone III d'Arborea che nel 1374, alla morte del padre, prese le redini del regno. La politica di Ugone gli procurò non pochi nemici e fu la causa delle grandi critiche che gli venivano rivolte da parte della sua stessa casata. Per ragioni non del tutto chiarite, nel 1383 venne posto fine al suo breve governo: Ugone venne trovato morto, trucidato assieme alla figlia. Sarà sua sorella, Eleonora d'Arborea, la nuova guida della Sardegna. Inizialmente l'opera della nuova Regina si concentrò nella riappacificazione interna del regno: grande era il fermento popolare, perché da una parte le forze sociali tradizionali chiedevano la pace, e dall'altra i ceti urbani emergenti chiedevano la liberazione dall'invasore aragonese. A fare da intermediario per la ripresa delle trattative con la monarchia iberica fu Brancaleone Doria, marito di Eleonora. In un primo momento, il Re spagnolo Pietro IV il Cerimonioso lo accolse con tutti gli onori del caso, ritenendo tale visita un primo atto di sottomissione. Successivamente, venuto a conoscenza della grande popolarità di cui godeva la nuova Regina, decise di trattenerlo come ostaggio chiedendo, in cambio della sua liberazione, la cessione di vaste aree della Sardegna. Nel 1384 Eleonora, ritenendo che non vi fosse sardo capace di accettare una dominazione Aragonese, dichiarò guerra alla Corona spagnola. La posizione di forza dei sardi era evidente e neppure il tentativo di eliminarne fisicamente la guida con una congiura andò a buon fine (i congiurati vennero scoperti per tempo e giustiziati). Agli aragonesi non restava che trattare la pace. Nel 1387, alla morte di Pietro IV, salirà sul trono il figlio Giovanni I “il Cacciatore”, che porterà a termine le trattative di pace. Nella definizione del trattato ebbero particolare rilevanza gli accordi stipulati tra Genova e la Corona spagnola, nonché il rischio per la Sardegna di un isolamento internazionale. Questa particolare circostanza permise a Giovanni I di ottenere la concessione di importanti feudi nel Logudoro e nella Gallura, in cambio della scarcerazione di Brancaleone Doria (avvenuta nel 1388). Questo fu senz'altro un risultato positivo per la Corona, ma ben presto la politica seguita da Eleonora avrebbe dato un nuovo scossone agli assetti dell'isola: sarà proprio Brancaleone a guidare gli eserciti sardi in una guerra lampo che permetterà di riprendere il controllo sui territori precedentemente occupati, ribaltando nuovamente la situazione. E' del 1392 una lettera (datata Sanluri, 3 febbraio 1392) in cui Brancaleone Doria scriveva alla moglie in ydioma sardisco e raccontava come, per riportare il regno all’assetto precedente l’iniqua pace del 1388, mancasse solo la riconquista di Longosardo, l'attuale Santa Teresa di Gallura; la città gallurese, ancora in mano catalano-aragonese, era però compensata dall'occupazione arborense di Guardiagioiosa (nei pressi dell'attuale Villamassargia). I sardi riprendevano dunque il controllo di tutta l'isola, e gli Aragona si trovavano stretti nei due castelli di Cagliari e Alghero. E' sempre nel 1392 che Eleonora, per la giustizia e la libertà del popolo sardo, emanava la Carta de Logu, un codice delle leggi dello stato, che poneva ordine a tutta la legislazione precedente. Appena 16 anni dopo la promulgazione della Carta da parte di Mariano IV d'Arborea (Juyghi Mariani Padri Nostru, come scriveva Eleonora) era la Juyghissa Elionora d'Arbarè, Regina di Sardegna, ad aggiornare il codice delle leggi giudicali per il bene della Repubblica Sardisca. Già nel Proemio [della Carta de Logu] sono espressi i principi fondamentali, organici ed avanzati rispetto alla legislazione coeva del Continente, secondo i quali lo sviluppo di un paese dipende dalla buona giustizia, la quale a sua volta deve basarsi sulla indispensabilità di buone leggi, le uniche capaci di tenere a freno i malvagi. […] le pene previste erano pecuniarie e solo nel caso di mancato pagamento subentravano la mutilazione, la fustigazione, la berlina o il marchio in rapporto alla gravità della colpa. Infine, solo per casi gravissimi era comminata la pena di morte, mentre il carcere serviva solo per la custodia preventiva mai come pena. […] gli Aragonesi avrebbero esteso a tutta l'Isola […] la Carta de Logu, e vi sarebbe rimasta anche in epoca sabauda, fino al 1827, quando fu promulgato il Codice di Carlo Felice. Una lunga durata, dunque, una incontestabile prova che da sola dimostra il particolare valore della Carta de Logu, ossia quanto essa fosse avveniristica rispetto al ferreo Medioevo. Leopoldo Ortu, Storia della Sardegna, pag. 52 Giovanni I, impegnato su più fronti per venire a capo della situazione creatasi sull'isola che lo vedeva in una posizione di netta inferiorità, decise di affidarsi alla diplomazia senza ottenere però grandi risultati. La situazione rimarrà pressoché costante anche sotto il regno di Martino I il Vecchio, figlio di Giovanni I e succedutogli nel 1397. Martino I, in uno dei suoi viaggi, constatava l'impossibilità, dopo aver soggiornato a Cagliari e ad Alghero, di allestire un esercito in grado di conquistare l'isola: decise allora di limitare il suo intervento al rinforzo delle difese delle due città occupate. Le ostilità si arrestarono temporaneamente per l'arrivo sull'isola di una nuova ondata di peste, che tra le tante vittime colpirà anche Eleonora nel 1404, decretando la fine della secolare casata dei Bas-Serra. Guglielmo III di Narbona e Sa Batalla Con la morte di Eleonora (accompagnata poco tempo dopo da quella del giovane figlio Mariano V) si riapre il discorso della successione del regno. Mariano IV, oltre ad Ugone III ed Eleonora aveva una terza figlia, Beatrice (sposata con il francese Aerigo VI di Narbona) da cui discendeva Guglielmo III, legittimo erede del regno. Guglielmo III, Visconte di Narbona, nonostante detenesse il controllo di gran parte del territorio e godesse in ambito internazionale dell’appoggio dei potenti nobili francesi e genovesi, non era visto di buon occhio dai suoi stessi vassalli1, che a lui (e al marito di Eleonora, Brancaleone Doria) preferivano la figura di Leonardo Cubello, pronipote di Ugone II (appartenente ad un ramo della dinastia Arborense che potremmo definire “collaterale”). 1 Coloro cioè che avevano ricevuto dal Giudice l'affidamento di incarichi amministrativi e, contemporaneamente, la gestione di territori, giurando obbedienza e fedeltà. Nel 1408 Martino d'Aragona “il Giovane” (Re di Sicilia ed erede al trono d'Aragona poiché primogenito di Martino I d'Aragona “il Vecchio”) arrivò in Sardegna a capo di un grande esercito. Fu Guglielmo III ad organizzare le difese. Il 6 ottobre 1408 Martino salpò dalla Sicilia con una flotta di 150 navi (comandate da Pietro Torrelles) tra cui 24 galeoni, 10 galee e 15 galeotti, ed altre navi di minor grandezza. L’esercito invasore era costituito da 8.000 fanti e 3.000 cavalieri e benché fosse numericamente inferiore era però militarmente preparato e molto ben organizzato. I cavalieri provenivano dai diversi territori della Corona (erano principalmente aragonesi, siciliani, valenzani e balearini), erano ben equipaggiati e con cavalli protetti da armatura. Gli aragonesi erano dotati persino di bombarde, giunte a Cagliari dalla Spagna qualche decennio prima. In Sardegna Guglielmo III di Narbona era alla guida di un esercito composto prevalentemente da sardi, circa 20 mila, provenienti da tutta l’isola e pronti a sacrificare la vita per difendere la propria terra, supportati da 2.000 cavalieri francesi, e dalle sopraggiunte truppe pisani e genovesi. Il piano degli aragonesi prevedeva la partizione dell'esercito in tre blocchi: Il primo blocco avrebbe marciato verso il castello di Sanluri dove l'esercito sardo era schierato in loro attesa, il secondo blocco, guidato da Giovanni de Sena, si sarebbe diretto nella direzione di Iglesias, e l'ultimo blocco, al comando di Berengario Carroz, avrebbe marciato verso i territori dell'Ogliastra e del Cixerri per la conquista del castello di Quirra. Il 30 Giugno 1409 a Sanluri avvenne una delle battaglie più importanti della storia della Sardegna, ricordata oggi come Sa Batalla de Seddori, o più semplicemente Sa Batalla: 20.000 sardi combatterono e persero la vita contro l'occupante aragonese in quei luoghi che ancora oggi conservano il nome di su bruncu de sa batalla (“la battaglia campale”) e di su 'Ocidroxu (“il mattatoio”). Si stima che nel 1409 la popolazione della Sardegna si aggirasse attorno alle 100.000 unità; levando donne, anziani e bambini, e considerando che al tempo l’arruolamento era volontario (un banditore passava di villaggio in villaggio per reclutare le leve), potremmo affermare che a quella decisiva battaglia parteciparono tutti i sardi abili, tutti uniti sotto un'unica bandiera e un obiettivo comune: un intero popolo a difesa della propria libertà. Nonostante in un primo momento la battaglia paresse pendere in favore dei sardi, gli ulteriori rinforzi catalani giunti via mare ribaltarono la situazione. Guglielmo III riuscì a mettersi in salvo e si rifugiò in Francia per raccogliere aiuti e allestire un nuovo esercito mentre Martino il Giovane moriva a Cagliari a causa, come vuole la leggenda, delle fatiche d'amore per la bella de Seddori che così volle vendicarsi dell'eccidio di sardi (molto più probabilmente Martino venne colpito dalla malaria). L'assenza di Guglielmo III dalla Sardegna permetterà agli Aragona di trattare unicamente con Leonardo Cubello. Dopo la vittoria, probabilmente inaspettata, Martino il Giovane scrisse al padre Martino il Vecchio per raccontare la storica impresa, vantandosi di aver annientato l’esercito del popolo Sardo e di aver strappato dalle mani dei sardi la bandera dels sards, la bandiera con l’albero verde in campo bianco/argento, simbolo dei sardi e del loro stato indipendente. nel marzo del 1410 Leonardo Cubello uscì da Oristano infliggendo pesanti sconfitte agli aragonesi. Ma le sorti della battaglia furono rovesciate dal governatore generale Pietro Torrelles che il 29 marzo costrinse alla resa Leonardo e Oristano. Con la stipula del trattato di pace, quello che un tempo fu il Giudicato d'Arborea divenne un Marchesato della Corona d'Aragona. La morte di Martino il Giovane (che anticipava di poco quella del padre Martino il Vecchio) lasciava la dinastia catalana senza eredi e ne decretava di fatto la fine: con il trattato di Caspe del 1412 la successione della Corona d'Aragona va al castigliano Ferdinando I Trastàmara. Guglielmo III d'Arborea spostò la sua residenza a Sassari potendo ancora contare, dopo la resa d'Oristano, sull'appoggio dei sassaresi; essendo erede sia degli Arborea che dei Doria, il nord Sardegna restava ancora sotto il suo controllo. Con le sue truppe riuscì a conquistare Longosardo e, rinfrancato dalla morte del Governatore Pietro Torrelles, tentò di occupare Alghero ma fallì e accettò di trattare la resa iniziata sotto il sovrano Ferdinando I e conclusa sotto il suo successore, il figlio Alfonso V il Magnanimo. Nella prima metà del XV secolo (ammainata la bandiera con l’albero verde per far posto alla stemma della casata dei conquistatori catalani, i quattro mori) la Sardegna, ormai definitivamente occupata, era così suddivisa: Gli eredi dei Narbona controllavano il Logudoro e la Barbagia d'Arborea; La nuova dinastia Arborense (i Cubello) controllava il Marchesato d'Oristano. L'aristocrazia catalana, che vedeva come massimo esponente Berengario Carroz, divenuto Conte di Quirra, estendeva la sua autorità lungo l'ex Giudicato di Cagliari, parte del Logudoro, della Gallura e dell'Arborea, più le città di Alghero e Bosa. 1420: il castigliano Alfonso V il Magnanimo È nel gennaio del 1421 che Alfonso V, dopo essere sceso in Sardegna e aver spento alcuni focolari di ribellione (anche i Narbona si erano formalmente arresi: per una cifra di circa 150.000 fiorini rinunciavano al diritto di successione del Giudicato), istituiva il Parlamento Sardo (a cui potevano partecipare i rappresentanti della nobiltà, del clero e delle città regie, cioè non infeudate) ed estendeva la Carta de Logu alle terre dei feudatari: la Carta promulgata da Eleonora rimarrà in vigore sino al XIX secolo, a dimostrazione della sua validità. Il parlamento era diviso in tre bracci o stamenti: Stamento Militare, costituito dai rappresentanti della feudalità; Stamento Ecclesiastico, costituito dai rappresentanti del clero; Stamento Regio, costituito dai rappresentanti delle città regie, non infeudate. Lo Stamento Militare, espressione dell'aristocrazia feudale, era fortemente influenzato dai tre principali baroni del regno: Leonardo Cubello, Marchese di Oristano; Berengario Carroz, Conte di Quirra; Gilberto Centelles, Conte di Oliva. Nel 1452, ai tre titolari dei feudi maggiori verrà affidato il compito di convocare le sedute dello stamento al di fuori delle sedute ufficiale del parlamento. Alla carica di Governatore della Sardegna verrà affiancata quella di Viceré, occupata per tutto il regno di Alfonso V da esponenti dello stamento militare, a dimostrazione della sua impostazione feudale. È in questo periodo che il ceto dei possidenti e cavalieri armati (ossatura dei vecchi giudicati) si assottiglierà progressivamente: la Corona d'Aragona assegnerà la maggior parte delle terre conquistate a nobili e commercianti catalani, valenzani, aragonesi e maiorchini, lasciando a poche famiglie sarde (Ligia, Gessa, Marongiu, Manca, Tola, etc.) una parte marginale dei territori in feudo. È da sottolineare come la feudalità sarda avesse la tendenza (come del resto avveniva in altre parti d'Europa, ad esempio in Catalogna) ad organizzarsi in fazioni: il fenomeno si manifesta con la crescente influenza delle famiglie dei Cubello (che potremmo definire i contestatori, eredi degli Arborea) e dei Carroz (schierati con il sovrano). Le rivalità tra le due famiglie rianimeranno presto quei focolai di opposizione a interessi e forme politiche vigenti: focolai, a quanto pare, spentisi solo apparentemente dopo la conquista spagnola. 1478: Leonardo Alagon e la battaglia di Macomer Nel 1459 muore Alfonso V e gli succede Giovanni II. In quegli anni il Viceré di Sardegna era Nicola Carroz d'Arborea (imparentato con gli eredi degli Arborea – la politica delle unioni matrimoniali non conobbe crisi): le famiglie dei Cubello e dei Carroz erano entrambe imparentate con quella dei Centelles, che fra le due garantiva una certa mediazione. L'equilibrio si ruppe quando, nel 1469, moriva il Conte di Quirra lasciando un unico erede, la figlia Violante Carroz. Il Viceré fece sposare il figlio, Dalmazio Carroz, con Violante, riunificando le due Casate, quella dei Carroz di Quirra e quella dei Carroz d'Arborea. Poco dopo moriva senza figli Salvatore Cubello, Marchese di Oristano e la successione del marchesato sarebbe dovuta andare al nipote Leonardo de Alagòn. Alla sua successione si oppose sempre il Viceré, scatenando quei vecchi rancori mai sopiti. Leonardo de Alagòn poteva contare, oltre che sull'appoggio dei Doria e dell'oligarchia Sassarese, anche su gran parte dell'aristocrazia sarda e su numerosi contatti internazionali. Nonostante Nicola Carroz disponesse degli eserciti viceregi, le sue truppe furono annientate ad Uras il 14 aprile del 1470: in quella battaglia le stesse milizie di soldati sardi agli ordini del viceré disertarono, e alla vista della bandiera arborense si unirono alle truppe di Leonardo de Alagòn. Egli infatti recuperò l'antico stemma del Giudicato di Arborea (l'albero deradicato capace di “rianimare” la gente sarda tant fort inclinada a la casa d'Arborea), facendo leva sul senso di appartenenza comune e sulla coscienza nazionale che i sardi, nonostante fossero passati anni e dominazioni, evidentemente ancora associavano a quel periodo storico. In questo modo Leonardo de Alagòn vedeva crescere considerevolmente il suo esercito. Leonardo de Alagòn invase così le terre regie, ovunque accolto favorevolmente. Nel 1478 con i suoi eserciti si diresse alla conquista di Cagliari e il 19 marzo dello stesso anno a Macomer si svolse la battaglia decisiva: l'esercito sardo e quello viceregio si scontrarono, ma furono i fedeli del marchese ad avere la peggio. Leonardo Alagòn verrà catturato poco dopo la sconfitta e costretto per il resto della sua vita nel carcere di Xàtiva (Valencia). 1479: Sardegna Spagnola Se nel 1478 si concludevano le azioni del marchese di Oristano, nel 1479 moriva Giacomo II, che lasciava il regno al figlio Ferdinando di Trastàmara, detto Ferdinando II il Cattolico e sposato con Isabella di Castiglia (Fernando II d'Aragón y Isabel I de Castilla): i due daranno vita al Regno d'Aragona e Castiglia, preludio dell'unificazione dei regni iberici. È dunque da questi avvenimenti che si inizia a parlare di Sardegna Spagnola (dopo 200 anni di campagne militari). 1282 – infeudazione di Papa Bonifacio VIII 1478 – Battaglia di Macomer e Sardegna Spagnola 1708 – Sardegna Austriaca e poi Sabauda Nel 1479, all'inizio dell'età spagnola, la popolazione dell'isola è fortemente in calo a causa dei numerosi conflitti e delle epidemie di peste che porteranno il numero degli abitanti alle sole 160 mila unità. È interessante confrontare il numero di abitanti delle principali città sarde e spagnole: Sassari 10.000; Cagliari 4.000; Valencia 40.000; Barcellona 30.000. Sta per avere inizio un periodo di grande splendore per la Spagna; Ferdinando e Isabella daranno il via ad una grande avventura di espansione coloniale che interesserà tutto il mondo: nel 1492 Cristoforo Colombo, in loro nome, sbarcherà nelle Americhe. Ma il potere della Corona Spagnola è forte anche in Europa: sempre Ferdinando, agli inizi del '500, entrerà in conflitto con la monarchia francese dei Valois per il controllo della penisola italica. È con Carlo I d'Asburgo, successore di Ferdinando II e incoronato Imperatore nel 1519 con il nome di Carlo V, che la Spagna rafforza la sua supremazia in tutta l'Europa occidentale e non solo: la Corona può annoverare tra i suoi possedimenti la Sardegna, l'Austria, i Paesi Bassi, i regni della Penisola Iberica e della Penisola Italica, oltre che vaste aree dell'America centrale e meridionale, dove nel 1542 costituirà i reami del Messico e del Perù. È da sottolineare come, durante tutto il periodo spagnolo (1479-1708), la Sardegna e la Penisola Italica rimarranno entità politiche ben distinte. Mentre la Sardegna restava sotto il controllo del Consiglio Supremo d'Aragona assieme alla Catalogna, ai reami d'Aragona, a Valenza e le Baleari, la penisola italica costituiva un blocco a sè stante: i domini spagnoli nella penisola rientravano infatti sotto il dominio del Consiglio Supremo d'Italia. Carlo V nel 1518, poco dopo la sua incoronazione, convocava a Saragoza le Cortes aragonesi per chiederne la fedeltà (tra queste sono presenti anche Cagliari, Sassari, Alghero e Oristano) mentre venivano avviate campagne militari sia in Italia (dove si cerca di affermare il primato sulla Francia) che in Germania (dove la riforma promossa da Martin Lutero aveva scosso lo scenario politico). La Sardegna, completamente estranea agli scontri appena descritti2, prese parte invece alle due campagne condotte nel 1535, per la riconquista di Tunisi (occupata dai corsari barbareschi3 guidati da Khair ad-din, noto Barbarossa), e nel 1541 per la conquista di Algeri. Entrambe le missioni mettono in evidenza le potenzialità della Sardegna sia come base navale che come centro per i rifornimenti. La Sardegna divenne un avamposto per gli eserciti spagnoli impegnati nel secolare scontro con l'Oriente islamico. Nella seconda delle due spedizioni volute da Carlo V, la flotta spagnola fu sconfitta grazie all'abilità del comandante barbaresco Hazan Haga, di origini sarde: rapito da ragazzo durante un'incursione dei mori, venne elevato per il suo valore al comando della flotta barbaresca. Le scorrerie dei corsari mori nel Mediterraneo erano ben note ai sardi. Numerose furono le ville saccheggiate e distrutte: Terralba, Arcidano, 2 Mentre infatti l'esercito spagnolo era impegnato in Italia, nel 1527, furono i francesi a tentare l'invasione dell'isola con un esercito di 4000 unità, una enormità visto il numero degli abitanti in Sardegna: sbarcarono presso Longosardo e si diressero verso Sassari, occupandola e saccheggiandola; furono i cittadini stessi ad insorgere e scacciare i francesi. 3 Barbareschi era il nome con cui si indicavano quei corsari che, tra il 500 e l'800, abitavano la Barberia, nell'Africa del nord dove avevano istituito i Regni di Algeri, Marocco, Tunisi, e Tripoli, tutti, almeno formalmente, legati all'impero ottomano. Pabillonis, Gonnosfanadiga, Uras, dove ne rimane memoria in una lapide incisa in sardo: a 5 de Arbili 1546 esti istada isfatta sa villa Uras de manus de turcus e morus effudi capitanu de morus Barbarossa. Storia della Sardegna 3, M. Brigaglia, A. Mastinu, G.G. Ortu, pag 46 1556: Filippo II A Madrid, nel frattempo, dopo aver riconosciuto (con la Pace di Costanza del 1555) la riforma proposta da Martin Lutero, Carlo V nel 1556 decise di abdicare, lasciando l'impero al figlio Filippo II sotto la cui guida la potenza spagnola raggiungerà il suo apice (sarà con i successori Filippo III, 1598-1621, e soprattutto con Filippo IV, 16211665, che il declino di questa grande potenza troverà compimento). Durante i primi anni del regno di Filippo II si conclude il Concilio di Trento (1543 – 1563), con cui la chiesa di Roma cerca di riorganizzarsi alla luce dell'impatto della Riforma luterana: la Controriforma romana si fece sentire anche nell'isola, dove l'impero spagnolo (che a quel tempo poteva essere considerato il braccio armato della chiesa) rafforza i poteri della Santa Inquisizione. Anche in Sardegna non mancavano giovani letterati vicine alle idee luterane, o comunque critici nei confronti del clero isolano. Uno di questi è Sigismondo Asquer, giovane sardo formatosi all'estero, che ebbe la forza di schierarsi contro il clero sardo, più intento a procreare che a leggere libri. Per questo, contro di lui fu imbastito un processo per eresia, conclusosi con la sua condanna al rogo eseguita il 4 giugno del 1571 a Toledo. Sempre sotto Filippo II, dopo la battaglia di Lepanto del 1574, le incursioni saracene furono finalmente arginate grazie all'edificazione delle torri litoranee lungo le coste sarde (realizzate interamente a spese dei sardi, con i denari ricavati da una speciale tassa sui formaggi, sui coralli e sui cuoi). Ancora a Filippo II si deve l'istituzione in Sardegna della Reale Udienza che divenne uno strumento fondamentale nella politica accentratrice e che, di fatto, se da un lato limitò le pretese sia dei feudatari che degli stessi ufficiali regi, dall'altro determinò l'arroccamento della nobiltà sarda. Le istituzioni sarde assumeranno una configurazione che prevedeva tre organi fondamentali: Il Vicerè, una sorta di capo del Regnum, manteneva una certa autonomia da Madrid, non in senso moderno, poiché consisteva nel governare nel rispetto di quelli che erano i privilegi e le consuetudini locali; Il Parlamento, diviso nei tre bracci o stamenti; La Reale Udienza, che rappresentava un potenziamento di una istituzione cinquecentesca, la Rota (che può essere considerata come una sorta di Corona de Logu), voluto fortemente da Filippo II allo scopo di accrescere il suo controllo sull'isola, in piena sintonia con la sua politica accentratrice. Questa trasformazione trasformò l'originale istituzione in un tribunale di massima istanza, capace di interferire con i massimi organi del Regnum, compreso il Vicerè. Fu proprio questa politica assolutistica ed accentratrice (ma non solo) che porterà il regno al declino: le enormi quantità di denaro spese per le guerre di egemonia, promosse fortemente da Filippo II e sostenute dai suoi successori lungo tutto il '600, segneranno la condanna del regno. Simile sorte spetterà anche alla Francia a causa della politica seguita da Luigi XIV. Il 1600 e la guerra dei trent’anni Una costante della dominazione spagnola è la miseria, dramma legato evidentemente ad una continua crisi economica e sociale alimentata da epidemie, guerre, alluvioni e siccità. Inoltre la politica del divide et impera usata abilmente dai regnanti acuiva ancora di più i problemi dell'isola. Si pensi ad esempio all'esistenza delle due università, quella di Sassari (ufficializzata il 9 febbraio 1617, quando Francesco III concesse lo statuto di università regia al collegio gesuitico) e quella di Cagliari (che ottenne il riconoscimento dello stesso Francesco III nel 1620), che anziché contribuire alla formazione di una classe politica sana e matura, seguiranno una rapida decadenza proprio per l'accentuato campanilismo e le sterili beghe interne, abilmente fomentate. Alla fine del 1600, nonostante la popolazione stimata sia attorno alle 50.000 persone, la Sardegna vedrà le università utilizzate come depositi del grano: i pochi docenti rimasti, a causa degli scarsissimi finanziamenti preferiranno dedicarsi alle rispettive professioni private invece che all'insegnamento universitario, e gli studenti (almeno quelli appartenenti a facoltose famiglie) saranno costretti a studiare all'estero, soprattutto in Spagna e Italia. Un triste epilogo se consideriamo che alle fine del 1500, a fronte di una popolazione nettamente inferiore, Cagliari contava 800 iscritti e Sassari 500, andando a formare così la prima élite di lecterados. Sempre a proposito di lotte interne si pensi alla competizione tra gli arcivescovi di Cagliari e Sassari per il titolo di Primate di Sardegna e Corsica, che portò ad una insensata gara alla ricerca di reliquie di santi e martiri sardi che ne sancissero la supremazia: avvenimenti di questa portata nulla avevano a che vedere con la così detta modernità ma, anzi, contribuivano al declino dell'isola. La ricerca bramosa di santi e martiri (una vera e propria febbre di devozione cieca, che non è certo una prerogativa sarda, ma diffusa in tutto il regno spagnolo) portò peraltro a numerosi equivoci: le iniziali B.M. che comparivano nelle epigrafi e che indicavano Bonae Memoriae, vennero interpretate come Beatus Martyr. Le lotte interne, gli ufficiali regi corrotti e le esose richieste economiche della Corona, andavano a ripercuotersi su pastori e contadini e si sommavano agli sporadici attacchi dei corsari barbareschi e alla costante pressione militare francese. Tra il 1618 e il 1648 si svilupparono inoltre una serie di conflitti armati che coinvolsero tutta l'Europa occidentale (ma che videro la Spagna coinvolta in prima linea), meglio noti come Guerra dei trent'anni: l'impegno della guerra porterà la Corona ad attuare una politica di accentramento, per il rafforzamento del controllo diretto sui regni ed a discapito delle autonomie, che permettesse di gestire in maniera diretta risorse economiche ed eserciti. Nel 1624 il parlamento presieduto dal Viceré Juan Vives de Canyamás, barone di Benifayró (1623-1625) metteva in evidenza: il malcontento per la politica accentratrice condotta dalla Corona che aveva attuato una riduzione dei privilegi dell'autonomia; la difesa delle coste (affidate alle torri e alle roccaforti di Cagliari, Alghero e Castelaragonese) aveva bisogno di essere potenziata con una squadra di galere; il bisogno di incrementare la produzione cerealicola e olivicola. La richiesta della Corona, che richiedeva al parlamento sardo un forte aiuto economico per il sostentamento delle operazioni militari contro la Francia, venne respinta. Nel 1626, durante una seduta del parlamento presieduto dal Vicerè Jerónimo Pimentel, marchese di Bayona (1626-1631) avvenne la svolta: il Vicerè chiese agli stamenti una prova di fedeltà alla Corona, i cui territori si trovavano sotto la minaccia degli eserciti nemici. Gli stamenti sardi in quell'occasione (accecati dalla possibilità di avere in cambio benefici, nuovi privilegi e titoli) accettarono una riduzione sostanziale dei diritti concessi dall'autonomia (in assoluta controtendenza rispetto alle posizioni che andavano prendendo i parlamenti dei diversi regni della Corona spagnola) e concessero volontariamente un ingente contributo economico e militare. I sardi verseranno il loro sangue in battaglia dimostrando la loro fedeltà alla Corona spagnola, nella speranza che il sovrano ne accolga le istanze. I sardi saranno i primi sostenitori della politica de la Uniòn de Armas, progetto attraverso il quale il conte-duca de Olivares, Gaspar de Guzman y Pimental, tentò di cancellare le autonomie dei diversi regni dell'impero per sostenere gli eserciti della Corona spagnola durante la guerra dei trent'anni (1618-1648). La Corona concesse titoli di cavalierato e nobiltà (126 in totale), soprattutto ai militanti del partito olivaresiano, rafforzandone quindi la rappresentanza in parlamento e muovendo così a suo favore l'ago della bilancia per i successivi parlamenti del 1632 e del 1642 in cui veniva discusso il rinnovo del donativo4. Nel frattempo la pressione militare francese sulle coste sarde cresceva, culminando con l'occupazione di Oristano del 1637, operazione portata a termine da Enrico di Lorena conte D'Harcourt, e dall'arcivescovo di Bordeaux. Era una delle vaste operazioni militari 4 Contributo finanziario che il parlamento si impegnava a concedere al sovrano per un determinato periodo di tempo, solitamente dieci anni. che fanno parte della Guerra dei trent'anni (1618-1648). L'occupazione però, durò ben poco: il contrattacco delle truppe sarde, guidate dal comandante Diego Masones, riuscirà ad allontanare gli invasori, non tanto per il numero dei soldati quanto per il coraggio e l'astuzia dell'azione intrapresa, escogitando una strategia offensiva e coordinando i rinforzi giunti da tutte le parti dell'isola. La politica di servilismo nei confronti della Corana ebbe però effetti devastanti per l'economia dell'isola, mentre da una parte crescevano i contrasti tra le diverse fazioni e dall’altra emergevano con prepotenza le richieste di una società in rapida trasformazione. Proprio la politica de la uniòn das armas fu causa di notevoli disordini anche nella penisola iberica: la Catalogna, in particolar modo Barcellona, avevano dato il via a forti contestazioni che andavano diffondendosi per tutto il regno. La congiura di Camarassa Durante il parlamento del 1653, il vescovo di Alghero sottolineava come la situazione drammatica dell'isola andasse peggiorando per cause diverse: i numerosi cattivi raccolti; la piaga della cavallette; la siccità eccessiva; le numerose leve chiamate dalla Corona per la guerra in Lombardia; le invasioni francesi; la nuova ondata di peste che sbarcava sull'isola. Fu in questa occasione, dovendosi ratificare il versamento del donativo alla Corona, che il parlamento sardo si divise: una parte chiedeva l'annullamento del contributo (il Re poteva “chiedere” ma non “pretendere”); l'altra parte, fedelissima al Re, considerava offensiva la richiesta presentata dalla fazione opposta. Le divergenze, già manifestatesi in altre occasioni, stavano per dar vita a feroci scontri. Il parlamento del 1665 viene presieduto dal Vicerè Manuel de los Cobos, marchese di Camarassa (per il 1665-1668). In quell’occasione, la richiesta del donativo per il finanziamento della guerra spaccò in due il parlamento. Andarono a delinearsi due partiti contrapposti: - il partito novadore – guidato da don Agostino di Castelvì, marchese di Laconi; - il partito assolutista – il cui più alto esponente era il Vicerè. Il motivo del contendere ruotava attorno ai 70.000 ducati richiesti dalla Corona. Il partito novadore riteneva che il versamento del donativo dovesse essere subordinato all'approvazione delle istanze dei sardi, sottoposte all'attenzione dei regnanti come rispettose e umili richieste (tra queste vi era la richiesta di attribuzione di tutte le cariche civili, militari e religiose del Regnum ai sardi). Il partito assolutista invece riteneva che richieste e donativo andassero su binari distinti: il donativo andava fatto comunque, e solo successivamente il sovrano avrebbe dovuto valutare se accogliere o meno le istanze dei sardi, dall'alto della sua magnanimità. La situazione degenerò presto, soprattutto per l'atteggiamento autoritario del Viceré, appoggiato oltre che dagli ufficiali spagnoli, anche da un gruppo di fedelissimi sardi, tra i quali spiccava don Artaldo Alagòn, marchese di Villasor, figlio di don Blasco Alagòn, acerrimo nemico di don Agostino di Castelvì. Per risolvere la contesa, don Agostino si recò personalmente in Spagna desideroso di portare fino in fondo la richieste del parlamento; scelto come portavoce delle istanze della maggior parte degli stamentari, don Agostino era il più adatto come rappresentante: egli infatti era la prima voce dello stamento militare e godeva di prestigio sia tra la nobiltà che tra gli stamenti, in Sardegna come in Spagna. Le richieste non vennero accolte per intero: un riconoscimento completo avrebbe fortemente ridimensionato la sovranità spagnola in Sardegna. Era la prima volta che le richieste degli stamenti non si fermavano nell'isola ma giungevano sino al governo centrale. Questo è un particolare molto importante che sottolinea come anche in Sardegna si respirasse un nuovo clima (nonostante la miseria culturale in cui la Sardegna era abilmente costretta), segno questo del riaffiorare di una coscienza di sovranità statuale e di diritto alla gestione delle risorse. Le azioni del Viceré accentuarono notevolmente le tensioni: egli sollevò dalla prestigiosa carica di prima voce dello stamento militare don Agostino de Castelvì, sostituendolo con il giovane don Artaldo Alagòn. Per nulla scoraggiato dal provvedimento preso nei suoi confronti, l'azione del marchese di Laconi si fece ancora più decisa, portando il Viceré alla forte decisione di sciogliere le assemblee del parlamento il 28 maggio 1668. Da li a poco don Agostino di Castelvì verrà ucciso da una schioppettata davanti alla porta di casa. Il Vicerè Manuel de los Cobos era il mandante più accreditato e per questo, appena un mese più tardi, fu organizzato ai suoi danni un agguato ad opera dei seguaci del partito novadore che evidentemente lo riteneva colpevole dell'assassinio. L'attentato ai danni del Vicerè non andò a segno, ma venne interpretato dagli esponenti del partito assolutista e in Spagna come un tentativo di ribellione. La Reale Udienza (tribunale supremo del Regno, istituito da Filippo II) imbastì subito il processo contro l'assassinio di don Agostino di Castelvì, mentre l'arcivescovo di Cagliari organizzava la fuga della famiglia del Vicerè. Così mentre la Reale Udienza accusava il Vicerè Manuel de los Cobos e la moglie di essere i mandanti dell'assassinio di don Agostino, venivano individuati anche i responsabili dell'ultimo attentato fallito. Tra i colpevoli comparivano i nomi di: don Jacopo Artaldo di Castelvì, marchese di Cea; don Gavino Grixoni; don Francesco Portoghese; don Antonio Brando. Don Jacopo era lo zio di don Agostino e secondo le usanze e i costumi del tempo era in dovere di vendicarlo. È un momento particolare per la Sardegna: mentre don Jacopo si ritirava nei suoi feudi accolto da attestati di stima e solidarietà, si presentava per la nobiltà sarda l'occasione di guidare la Sardegna verso la ribellione e la liberazione dal controllo spagnolo. Ma mentre questa possibilità si presentava agli occhi, la vedova di don Agostino di Castelvì marchese di Laconi, donna Francesca Zatrillas, si risposava con don Pietro Aymerich, procurando a Madrid il pretesto per accusarla dell'assassinio del marito e scagionare così il marchese di Camarassa, Manuel de los Cobos. Nel mentre, veniva inviato in Sardegna il nuovo Viceré, il napoletano Francisco de Tutavila y del Rufo, duca di San Germán (1668-1672). Il nuovo Viceré, per non destare sospetti, si presentò a Cagliari il 6 dicembre 1668 accompagnato da una piccola scorta, ma poi meno di 6 mesi dopo si fece raggiungere da circa 2000 soldati. Francisco de Tutavila fece annullare i precedenti processi e pubblicò un bando di amnistia generale per chiunque rivelasse nuove testimonianze. I testimoni del primo processo ritrattarono (sotto tortura) ed accusarono donna Francesca dell'omicidio del marito mentre il Viceré continuava la ricerca dei colpevoli, ricorrendo a minacce, inganni, incarcerazioni e condanne a morte. Nel 1669, tra maggio e giugno, fu resa pubblica la condanna a morte per don Jacopo Artaldo di Castelvì, don Antonio Brando, don Francesco Cao jr, don Francesco Portoghese, don Gavino Grixoni, don Silvestro Aymerich e donna Francesca Zatrillas. Veniva reso noto alla popolazione che chiunque li avesse consegnati vivi alle autorità avrebbe ricevuto, oltre ad una consistente taglia, il condono per qualsiasi delitto; venivano rase al suolo alcune delle abitazioni dei condannati e, sugli stessi siti, dopo averli cosparsi di sale venivano poste delle targhe infamanti, una delle quali si può ancora vedere sulla parete esterna della casa Asquer in Cagliari. Con quelle condanne a morte si chiudeva il processo per l'assassinio di don Agostino di Castelvì: tutti gli spagnoli coinvolti erano riusciti a scampare la pena e vennero assolti. Trovandosi così vicini al pericolo tutti i condannati lasciarono l'isola in gran fretta, ad eccezione di Jacopo Artaldo di Castelvì che si riparò sul Monte Nieddu, in Gallura, scortato da un gruppo di uomini fidati e banditi che non solo non approfittarono della lauta taglia e del condono offerto dalle autorità spagnole, ma inflissero dure perdite alle truppe viceregie che perlustravano il monte alla ricerca del marchese di Cea. Anche in questa circostanza, il vicerè Francisco de Tutavila ricorrerà all'inganno servendosi di un rinnegato, tale Giacomo Alivesi. Alivesi, dopo aver subito un finto processo con incarcerazione e aver inscenato una finta evasione dal carcere napoletano dove era custodito, raggiunse Francesco Cao, rifuggiato a Roma, e lo avvicinò facendo passare il tutto come una fortuita coincidenza: lo avrebbe così convinto ad unirsi ad un gruppo di rivoluzionari che andavano allestendo un esercito in Gallura, ormai pronto a passare alla fase operativa. Fu Francesco Cao a coinvolgere in un secondo momento Silvestro Aymerich, Francesco Portoghese e Giacomo di Castelvì. In cinque (quattro ricercati e un servo) arrivarono in Sardegna passando dalla Corsica e trovarono ad accoglierli un finto drappello di rivoluzionari guidati da Gabriele Delitalia fedele seguace dell'Alivesi. Nella notte Alivesi scoprì le sue carte; i 5 furono aggrediti nel sonno ma nonostante cercassero di difendersi per loro no ci fu speranza: Francesco Cao, Silvestro Aymerich e Francesco Portoghese morirono brutalmente nello scontro; don Jacopo Artaldo di Castelvì venne invece tenuto in vita assieme al suo fedele servo e condotto a Sassari, dove per loro era previsto un trattamento speciale. Come monito per tutti i sardi venne organizzata una sorta di macabra processione che partendo da Alghero arrivò sino a Cagliari: con un bando si informava tutta l'isola del corteo, a cui obbligatoriamente dovevano partecipare non solo tutti i nobili e i titolati, ma anche i popolani che si trovavano lungo il tragitto. Il corteo, partito alla fine del mese di maggio del 1671, vedeva in testa il boia a cavallo con un lungo tridente, sulle cui punte erano conficcate le teste del Cao, dell'Aymerich e del Portoghese; seguivano a piedi il marchese (ormai anziano) e il suo servo. Il 9 giugno 1671 (dopo 12 giorni) il corteo giunse a Cagliari e sfilò per la città. Le teste furono appese per 6 giorni in quella che ora è Piazza Carlo Alberto. In quella stessa piazza, il 15 giugno, Jacopo Artaldo di Castelvì, marchese di Cea, veniva decapitato mentre il suo povero servo, non essendo un nobile, venne arruotato vivo5. Mentre le teste dei condannati verranno esposte per anni a turno nelle torri dell'Elefante e San Pancrazio, a Giacomo Alivesi andavano, come ricompensa per il tradimento, ricchi feudi (appartenuti al marchese di Cea) e 12 salvacondotti da vendere a banditi e briganti con l'unica clausola che cedesse una somma pari a 120 scudi al compare Gavino Delitalia. Tra la fine del '500 e la fine del '600, tra la stessa nobiltà di Sardegna, si andava quindi elaborando la concezione di una “naciò sardesca” intesa come contratto sociale, non più regolato da un rapporto di do ut des6 tra sudditi e sovrano. Mentre il Regnum Sardiniae si era caratterizzato, in particolare all'inizio, come una struttura giuridico-militare accentratrice dove il legame tra Corona spagnola e sudditi si basava sulla fedeltà e sul concetto di cavallo armato7, la concezione di “naciò sardesca” si formava invece in una compartecipazione elettiva e volontaria dei cittadini attorno ad una realtà non più di dipendenza bensì di parità, dove la figura del suddito sarebbe sparita. Alla fine del XVI secolo, con don Giacomo de Castelvì y Aymerich conte di Laconi, ebbero inizio dei progetti per rinnovare la politica aragonese in Sardegna: dopo un lento avvicinamento tra le famiglie dei notabili (anche grazie a politiche matrimoniali), lo schieramento dei Castelvì contava sia grandi famiglie nobiliari locali, sia di origine aragonese e spagnola. 5 Il supplizio della ruota era una forma di tortura e di esecuzione capitale usato nel Medioevo. Il condannato era legato per il polsi e le caviglie ad una grande ruota e con una mazza gli venivano rotte le ossa di braccia e gambe. Alla fine per abbreviare l'agonia gli veniva dato il colpo di grazia sullo sterno, provocandone la morte. 6 Frase latina, dal significato letterale “io do affinché tu dia” e senso traslato “scambiamoci queste cose in maniera ben definita”. In età medioevale, quando il sovrano concedeva un feudo, richiedeva al signore uno o più cavalli armati o alforati. Col passare del tempo questa usanza venne meno, e già nel XV secolo il re non chiedeva più il contributo militare, ma il pagamento di una somma di valore pari ai cavalli. L'usanza fu infine ufficialmente abolita e il “cavallo armato” veniva inteso come un’unità di costo. 7 La politica dei viceré prima (volta a creare divisioni tra le diverse aree della Sardegna, secondo il più classico schema del divide et impera) e i fatti della congiura di Camarassa poi, bloccarono i progetti del partito novadore. È importante sottolineare come le vicende che sconvolsero la Sardegna in quegli anni, sono in qualche modo collegate alla crisi profonda del Parlamento, quell'istituzione di antiche origini in continua evoluzione (ricordiamo l'antica istituzione medievale degli ordini privilegiati, istituita in Sardegna da Pietro IV il Cerimonioso): le cortes spagnole si trovavano in una profonda fase di decadenza, fortemente in ritardo nel processo di modernizzazione che sconvolgeva l'Europa intera. Non è un caso se gli accadimenti sardi avvenivano in un periodo di grandi trasformazioni, quale il '600: in quegli anni il parlamento Inglese determinò il passaggio dalla monarchia assoluta a quella costituzionale e, nel '700, gli Stati Generali francesi innescarono quel processo che porterà alla Grande Rivoluzione. La Sardegna, quindi, era pienamente inserita nel contesto mediterraneo ed europeo e nei processi storici dell'epoca.