Politica TURCHIA p aternalismo e cambiamento Dopo dieci anni, in crisi la leadership di Erdogan Q uando, nel mese di agosto, la rivista della compagnia di bandiera Turkish Airlines, Skylife, ha pubblicato un ridondante articolo sull’attuale museo di Santa Sofia a Istanbul, intitolandolo «La moschea dei sultani», non si trattava della gaffe, sfuggita alla redazione, di uno studentello svogliato e molto ignorante in storia, ma di una tappa ulteriore della strategica manipolazione della storia (nella fattispecie, una «piccola dimenticanza» di 800 anni di vita del più grande tempio della cristianità fino alla costruzione della basilica di San Pietro a Roma). Questa manipolazione si perpetua nella «Turchia repubblicana» fin dai tempi della sua fondazione. Agli inizi si trattava della propaganda kemalista che doveva dare un’identità a un paese nato sulle ceneri di un grande Impero, quello ottomano; oggi si tratta della propaganda di un governo che, pur smantellando formalmente l’ideologia kemalista in modo sistematico, in realtà ne perpetua la stessa logica sotto mentite spoglie. Quelle che possono cambiare sono le ragioni di una tale manipolazione: si va dal più nobile intento di creare un’identità nazionale dal nulla (dopo l’implosione di un’impero multinazionale e multiculturale, conseguenza del dissolversi della dinastia che l’aveva creato, allargato a dismisura e tenuto insieme nella sua diversità), al molto meno nobile intento di perennizzare un potere diventato, probabilmente, la strada più breve per arricchire sé stessi e un gruppo ristretto di amici compiacenti. 16 Il Regno - 16-18_art_monge.indd 16 attualItà Strano destino quello del Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), al governo in modo incontrastato da oltre dieci anni, che puntellò la sua folgorante ascesa proprio a partire dal significato evocativo dalle iniziali del suo nome, «AK», che in lingua turca significa «bianco» ma anche «puro». Queste due lettere erano la sintesi di un programma politico che puntava prima di tutto a porre fine alla devastante corruzione che aveva portato alla deriva una sinistra ancora al potere alla fine degli anni Novanta. Molti, dieci anni fa, erano pronti a scommettere su un partito che si presentava come post-islamista, liberale, democratico e riformista. Il quadro oggi è radicalmente cambiato, anche se è troppo presto per tirare delle conclusioni sulle possibili conseguenze politiche dell’inchiesta su corruzione e riciclaggio di denaro sporco in corso, che coinvolge direttamente e indirettamente una grossa fetta dell’establishment del governo turco. Si possono fare, tuttavia, alcune considerazioni più generali, non semplicemente suscitate dall’attualità e relative a un’evoluzione in corso in Turchia già da alcuni anni che, in parte, è motivo di inquietudine ma anche il segno di un cammino forse necessario per arrivare a una forma più matura di democrazia. Un’apparente invincibilità elettorale (quello del 2011 è stato il terzo clamoroso successo elettorale consecutivo dell’AKP) ha fatto dimenticare all’ attuale primo ministro Tayyip Erdogan che il gioco democratico prevede non solo un’alternanza al governo ma, più semplicemente, un sano dibattito e la neces- sità di dare delle buone ragioni alle proprie scelte politiche, evitando coinvolgimenti troppo personali e l’accanimento in certi progetti difesi contro tutto e tutti … Ma la metamorfosi del potere dell’ex sindaco di Istanbul non è solo l’espressione di un «delirio di onnipotenza personale»; è l’epifenomeno di una cultura storica dove «l’autoritarismo paternalista» sembra essere una fatalità e questo, evidentemente, non solo nei paesi arabi dove vige ancora in gran parte una struttura dinastico-tribale del potere. La tentazione, anche guardando all’attuale situazione turca di crescente scontro sociale a forte connotazione religiosa, è allora quella di riaffermare una presunta incompatibilità tra islam tout court (in tutte le sue molteplici espressioni) e democrazia. Questa spiegazione, tuttavia, non ci convince, né in termini generali (da un punto di vista della storia delle idee già l’islam medievale conosce più modelli politici di riferimento) né, tanto meno, se pensiamo al contesto turco. Certo, nel mondo islamico l’impatto con la modernità ha generato immediatamente una risposta autoritaria, mentre in Occidente, con la modernità inizia la contestazione radicale dell’autoritarismo. Ma là dove c’è una concezione autoritaria del potere non significa necessariamente che ci si opponga al cambiamento: si spera solamente di gestirlo esercitando un controllo politico ostile alla partecipazione politica. Qui si innesta una visione paternalistica della relazione sociale, caratterizzata da un rapporto verticale e clientelare, dove si punta a una lealtà incondizionata in cambio di alcuni beni o favori. In questo 2/2014 22/01/14 19.13 sistema, «legale» e «illegale» si combinano quasi naturalmente, così come «coercizione» e «solidarietà». Alleanze fragili Ma i rapporti sono inevitabilmente molto fragili e a rischio: gli amici di ieri diventano spesso e volentieri i nemici di oggi, con capovolgimenti di fronte repentini e spesso farseschi. Ecco che la polizia, difesa strenuamente dal primo ministro turco dei giorni della repressione violenta di Gezi Park, diventa, pochi mesi dopo, un covo di cospiratori da epurare al momento dell’inizio delle inchieste sugli scandali finanziari; l’esercito, smantellato nei suoi vertici da un processo mediatico e con non poche ombre, detto Ergenekon (che in realtà ha coinvolto anche giornalisti, intellettuali e politici d’opposizione), viene a sorpresa in parte riabilitato, quando la forte influenza sull’attività delle procure inizia a ritorcersi contro coloro che l’anno troppo sfruttata: al momento dell’inizio dell’inchiesta anti-corruzione appunto… Sembrerebbe un teatrino dell’assurdo, ma la stessa opinione pubblica turca sta iniziando a percepire che le cose inizieranno davvero a cambiare in Turchia quando la gente comune sarà disposta a pagare di tasca propria il prezzo di un cambiamento che non riguarda semplicemente chi è di turno al potere, ma l’interpretazione stessa del potere. È una convinzione che traduce un’idea molto semplice: se il potere paternalistico autoritario ha potuto perpetuarsi e sopravvivere fino a oggi in Turchia (ma la riflessione potrebbe, ancora una volta, essere estesa a tutta l’area mediorientale e oltre), è perché ha trovato un terreno fertile nel tacito consenso di un’opinione pubblica che ha sempre preferito delegare la fatica di pensare e gestire il cambiamento, in cambio solamente di un minimo di sicurezza materiale personale. Le ormai prossime elezioni municipali potrebbero offrire il primo segnale politico chiaro di una radicale inversione di tendenza: il messaggio di chi non si accontenta più solo di sanzionare attraverso le urne un cartello politico in favore di un altro, ma che fa del voto il punto di partenza di un nuovo (più che rinnovato) senso civico e di partecipazione alla cosa pubblica. È dal maggio dello scorso anno, con l’inizio dell’ondata di sit-in pacifici suscitata dal movimento Occupy Gezi, che s’intravvedono dei segnali nuovi in questo senso (posto che questo movimento di mobilitazione cittadina continui a isolare quelle frange minoritarie della piazza che sono meno democratiche ancora di chi è oggetto di contestazione). La posta in palio del turno elettorale del 31 marzo è dunque molto alta e riguarda non solo l’amministrazione delle grandi città del paese, prime fra tutte le megalopoli Istanbul e Ankara (fino ad ora vero volano dell’azione del partito di governo), ma idealmente anche il ripristino della dignità della politica, da tempo abolita in una sorta di «stato privatizzato». La «guerra intra-islamica» che opporrebbe attualmente, in una sorta di scontro finale, il partito del primo ministro e il suo vecchio alleato, il movimento Hizmet (Servizio), espressione della neo-confraternita che fa riferimento all’imam Fethullah Gülen, è un fattore che ingarbuglia non poco un quadro già di per sé complesso. La rottura sarebbe (i dubbi sono leciti) clamorosa, visto che si parla di partner di lunga data che hanno sempre attinto consenso presso la stessa base sociale (ovvero la classe media anatolica, moralmente conservatrice ma economicamente ultra-liberale), e che si sono mutualmente rafforzati grazie allo smantellamento progressivo delle prerogative politiche dell’esercito e dell’apparato burocratico kemalista, dominatori incontrastati dei primi ottant’anni di vita repubblicana. Ora, se di Tayyip Erdogan e del suo partito si conoscono ormai virtù e debolezze, del movimento Hizmet si sa ben poco, perché si è sempre caratterizzato fin qui per un profilo non politicamente organizzato ma semplicemente di sostegno di quelle forze politiche favorevoli a un secolarismo rispettoso della libertà di religione in nome della democrazia. Le minoranze al bivio L’impressione è che le divergenze crescenti, più che tra Hizmet e l’AKP, siano tra il movimento islamico e il modo autoritario di interpretare il potere da parte del primo ministro (a che pro smantellare l’autoritarismo kemalista rimpiazzandolo con un’altra versione autoritaria del potere?), poco apprezzato anche in riferimento ad alcune recenti scelte di politica estera che hanno accentuato l’isolamento della Turchia a livello internazionale. Questo isolamento è particolarmente pesante per un paese al cuore di una regione drammaticamente inquieta e potrebbe avere riflessi poco positivi anche su quella diversità interna che si esprime in molteplici minoranze etniche e religiose che hanno fatto per secoli la ricchezza del sistema turcoottomano. Del resto, anche queste minoranze, soprattutto quelle cristiane, si trovano a un vero e proprio bivio della loro storia: si tratta di decidere se si vuole perpetuare un anacronistico «comunitarismo etnico» prima che confessionale, rischiando di implodere ripensando nostalgicamente a un passato più o meno glorioso e, certamente, molto mitizzato, oppure se si vuole vivere di un Vangelo che è per natura «cattolico», nel senso di universale, senza per questo mortificare la ricchezza della diversità di tradizioni e liturgie spesso antichissime. Quest’ultime, per brillare, non possono continuare a essere messe semplicemente in vetrina ma devono potersi declinare nella pratica di una fede ispirata da una Parola viva che porta all’incontro e combatte la fatale tentazione dell’auto ghettizzazione. Insomma, se gli avvenimenti che caratterizzano quotidianamente la situazione in Medio Oriente portano spesso a focalizzare l’attenzione su questa o quella comunità particolare, in realtà è la condizione generale delle minoranze religiose che non cessa di porre dei problemi, in Oriente. È innegabile che negli ultimi decenni il peso sociale e politico dei cristiani (soprattutto nell’Oriente arabo) sia decisamente scemato a causa di una demografia sfavorevole e di un’inesorabile migrazione. Ma dietro la crisi delle «Chiese nazionali», eredità dell’Impero ottomano (oltre che fattore di accelerazione della sua fine), c’è la crisi stessa della strumentalizzazione delle fedi a servizio dell’affermazione identitaria di un gruppo che sente la sua esistenza minacciata. Si tratta di un atteggiamento in generale di difesa identitaria reazionaria. A torto o a ragione, si trasforma cioè l’immutabilità stessa della tradizione religiosa in un operatore identitario. Ecco perché le credenze si sclerotizzano, si radicalizzano e talvolta si inaspriscono pure: atteggiamento che, oltre a rap- Il Regno - 16-18_art_monge.indd 17 attualità 2/2014 17 22/01/14 19.13 presentare un fattore di allontanamento delle nuove generazioni dalla pratica religiosa, offre il fianco a un’ulteriore strumentalizzazione politica della religione. Una delle conseguenze più negative delle attuali tensioni politiche in Turchia, è l’apparente arenarsi del primo vero tentativo parlamentare di riforma di una Costituzione che risale ancora agli inizi della Repubblica, salvo pochi emendamenti imposti dall’alto per via militare e non frutto di un consenso politico. Questa riforma costituzionale avrebbe dovuto, tra l’altro, ripensare lo statuto giuridico delle minoranze religiose e cristiane in particolare: soprattutto il diritto di proprietà indispensabile alla loro sopravvivenza e alla professione della fede individuale e comunitaria dei loro membri. Ma le Chiese orientali hanno a più riprese dimostrato, nella lunga e ancora poco produttiva fase di negoziato con il governo, di non sapere in genere disinnescare le implicazioni politiche e identitarie insite nella legittima domanda di riconoscimento della loro personalità giuridica. Comunità chiuse che si trovano sempre più solo per contarsi e che hanno sempre più difficoltà anche a mantenere i rapporti con la loro diaspora, disseminata ai quattro angoli della terra. Intanto la crisi del pensiero laico, la difficoltà, già evidenziata, di strutturare delle proposte politiche davvero democratiche, così come l’indiscutibile crescendo di certe correnti fondamentalistiche, soprattutto islamiche, sono fattori che rendono sempre più complessa e difficile una vera partecipazione alla costruzione del futuro di paesi che tutelino l’uguaglianza dei diritti e della dignità di tutti i loro cittadini, indipendentemente dalle appartenenze etniche e religiose. Non c’è futuro, infatti, né per i cristiani di Turchia né per quelli del resto del Medio Oriente, là dove si continuerà a pensare che la sacrosanta rivendicazione dei propri diritti può essere limitata a una battaglia confessionale, e non essere piuttosto integrata alla lotta di milioni di uomini e donne in cerca di speranza. Come ricorda spesso papa Francesco, il Vangelo, linfa vitale del cristianesimo, si declina là dove si creano le condizioni di una convivenza basata sul rispetto e non sul sospetto, la paura e la mutua esclusione! Claudio Monge 18 Il Regno - 16-18_art_monge.indd 18 attualità Indonesia Libertà religiosa I Credo e cittadinanza l 5 gennaio oltre 130.000 persone hanno sfilato per le strade della capitale dell’Indonesia Giacarta per ribadire il desiderio di tolleranza religiosa e rispetto dei diritti umani. Il corteo ha celebrato la prima Giornata per l’armonia religiosa, organizzata dal Ministero federale degli affari religiosi. Negli ultimi mesi, nel paese con la più numerosa popolazione musulmana del mondo (l’80% di fedeli musulmani su oltre 240 milioni di abitanti, e circa l’11% di cristiani) il dibattito sulla convivenza religiosa si è riacceso a seguito di una crescita della violenza su base religiosa e di una proposta politica mirante a eliminare la menzione dell’appartenenza religiosa dalla carta d’identità. L’intolleranza e la violenza su base religiosa sono sempre più diffuse: nel 2013 si sono verificati 222 episodi di violenza, che hanno avuto luogo in 20 province, 7 in più rispetto alle 13 province interessate nel 2012. Lo afferma il Setara Institute, centro studi con sede a Giacarta, che nel suo rapporto La diversità è possibile nota come, pur essendo diminuiti del 16% nel complesso, i casi di violenza per motivi religiosi siano più diffusi sul territorio. Le discriminazioni e le persecuzioni ai danni delle minoranze religiose sono anche legate, secondo molti osservatori, a un provvedimento legislativo varato nel 2004, in base al quale sono limitate a sei le appartenenze religiose riconosciute dallo stato: islam, protestantesimo, cattolicesimo, induismo, buddismo e confucianesimo, e vanno indicate sulla carta d’identità. Nonostante molte voci si fossero levate perché questa menzione venisse tolta, in quanto fonte di discriminazioni per le minoranze religiose non rientranti tra le sei opzioni maggiori e anche per chi sceglie nel documento d’identità l’opzione «altro» – perdendo il diritto ad alcuni importanti servizi come l’assistenza sanitaria e l’educazione –, il 26 novembre la Camera dei rappresentanti ha confermato la misura. A sostenere con forza la necessità di rimuovere dalla carta d’identità l’indicazione del credo religioso è Basuki Tjahaja Purnama, vice governatore del distretto della capitale Giacarta e primo cristiano a ricoprire questo ruolo. L’obbligo di scelta fra le sei religioni riconosciute ha indotto moltissimi cittadini indonesiani a definirsi ufficialmente «musulmani», mentre, di fatto, seguono e praticano culti tradizionali, indigeni o ancestrali. Eliminare l’obbligatorietà contribuirebbe dunque a ridefinire il volto religioso della nazione indonesiana oggi, ed è anche per questo motivo che la proposta è stata vivamente avversata soprattutto dai movimenti islamisti. Tjahaja Purnama, nativo di Sud Sumatra, è già stato contestato negli scorsi mesi da frange islamiste che rifiutavano di essere sottoposte a un funzionario di religione cristiana. Il governatore di Giacarta Joko Widodo ha chiuso ogni polemica affermando di aver «scelto in base ai meriti» e avocando a sé deleghe e competenze per gli affari religiosi islamici. «Se la tolleranza è la chiave della libertà religiosa – ha spiegato Tjahaja Purnama – per la crescita futura dell’Indonesia occorre avere il coraggio di modificare una norma ormai desueta». Rimuovendola, infatti, si vuole garantire l’uguaglianza ed eliminare le discriminazioni che spesso subiscono i cittadini non musulmani, anche nelle scuole e nei posti di lavoro pubblici. Il 4 dicembre così ha scritto sul Jakarta Post il caporedattore Endy Bayuni: «Aspettatevi che le discriminazioni e le persecuzioni attuate verso le minoranze religiose in Indonesia aumentino. (…) La discussione parlamentare sulla revisione di questa legge del 2004 sull’amministrazione civile era una buona occasione per correggere ciò che costituisce una delle più gigantesche anomalie nella vita della nazione dalla sua fondazione, cioè l’assenza di libertà di religione, pure scritta nero su bianco nell’art. 28 della Costituzione del 1945». D. S. 2/2014 22/01/14 19.13