RIASSUNTO PROCEDURA CIVILE
CAPITOLO 1 . TUTELA GIURISDIZIONALE, CODICE DI PROCEDURA
CIVILE, COSTITUZIONE.
1.Introduzione
Lo studio del c.d. diritto processuale civile ha quale riferimento il c.p.c.
Esso è stato approvato con r.d. n 1443/1940, ed è entrato in vigore il 21
Aprile 1942. Esso consta di quattro libri: 1) Principi generali del
processo; 2) Processo di cognizione; 3) Processo di esecuzione, 4)
Processi speciali. Esso è inoltre integrato dalle Disposizioni di attuazione
(disp.att.).
Lo studio del c.p.c. deve però essere preceduto dal richiamo delle norme
della Costituzione che fissano le garanzie fondamentali della tutela
giurisdizionale e dell’esercizio della giurisdizione.
2.Principio di uguaglianza
L’eguaglianza è principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale
anche sotto il profilo processuale. Nel sistema giurisdizionale, la vigenza
del “principio di uguaglianza” garantisce che l’esercizio della
giurisdizione non sia fonte di ingiustificate disparità per i soggetti
dell’ordinamento.
In particolare, l’ART 3 Cost, stabilisce che tutti i soggetti e tutte le
situazioni sostanziali soggettive debbono avere trattamento
ragionevolmente uguale sotto il profilo della tutela; ciò significa che
l’accesso alla giustizia non può essere impedito o reso più difficile per la
tutela di date categorie di diritti piuttosto che per la tutela di altre.
Anche l’ordinamento processale è quindi tendenzialmente regolato da
un generale principio di uguaglianza.
Naturalmente l’uguaglianza va coniugata con la ragionevolezza.
3.Azione, difesa e contradditorio
1
L’ART 24 Cost, è la norma chiave del sistema della tutela giurisdizionale:
il suo primo comma garantisce a tutti il diritto INCONDIZIONATO di
agire in giudizio, mentre il secondo comma, stabilisce l’inviolabilità del
diritto di difesa in ogni stato e grado d giudizio.
Nell’insieme l’articolo lega indissolubilmente il diritto di agire in giudizio
al diritto di difesa, così sancendo l’inviolabilità del contradditorio tra le
parti del processo.
Il c.1 ART 24 recita : “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei
propri diritti e interessi legittimi”. Tutti possono rivolgersi al giudice per
domandare e godere della tutela giurisdizionale. L’ordinamento
riconosce il diritto di accesso alla giurisdizione, indipendentemente dal
tipo di situazione fatta valere.
L’ART 24 pone infatti sullo stesso piano “diritti e interessi legittimi”,
scolpendo così la volontà di dare uguale dignità giurisdizionale a tutte le
situazioni giuridiche tutelate. In altre parole, il primo comma sancisce
che ogni volta che taluno, ritenendo di essere titolare di una posizione
giuridica tutelata dalla legge, assume che in concreto tale posizione
soffre una ingiusta compressione o lesione, egli può adire il giudice
indipendentemente dalla natura della posizione giuridica vantata: la via
alla tutela giurisdizionale gli è aperta e garantita sia che si tratti di diritto
soggettivo vero e proprio, sia che si tratti di interesse legittimo.
La formula “tutti possono agire in giudizio” non si esaurisce peraltro
nella garanzia dell’accesso; essa non solo garantisce il diritto di
domandare tutela, ma, proiettandosi su tutto il corso del giudizio e per
tutta la sua durata, ricomprende il pieno diritto alle attività strumentali
rispetto al risultato perseguito.
Posto infatti che la tutela giurisdizionale si manifesta nelle forme del
processo. E che tali forme si snodano nel tempo attraverso una congerie
di atti, il “diritto di azione” deve intendersi correlato anche agli sviluppi
del processo, e così estendersi, per es. alla possibilità di fornire la prova
delle proprie affermazioni, alla possibilità di chiedere la correzione degli
errori imputati al giudice, alla possibilità di rimettere in moto un
processo che si è arrestato, e così via.
2
Il c.2 ART 24, (“la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del
processo”), consacra il diritto di difesa, cioè di far valere le proprie
ragioni nei confronti di chi ha assunto l’iniziativa dell’agire.
La norma, nel processo civile, affianca il diritto inviolabile di difesa al
diritto inviolabile di azione.
Diritto di difesa vuol dire quindi garanzia di tutela per chi è parte del
giudizio contro la propria volontà.
L’inviolabilità della difesa “in ogni stato e grado del procedimento”
significa che non ci si può limitare a considerare il diritto di difesa nella
fase iniziale, ma anzi è necessario che questo principio valga in tutti i
gradi del giudizio stesso.
L’esperienza del c.2 induce a vedere in esso la costiuzionalizzazione del
principio del contradditorio, cioè di uno dei fondamentali della tutela
giurisdizionale dei diritti. Non si può concepire una tutela giurisdizionale
senza contraddittorio, cioè senza che tutti gli interessati siano messi in
condizione di:
a. a) esprimere compiutamente le proprie ragioni;
b. b) accedere ai mezzi volti a dimostrarne la fondatezza;
c. c) conoscere le richieste e le deduzioni delle altre parti;
d. d) replicare ad esse formulando le proprie osservazioni in merito
e. e) ottenere che il giudice valuti tali ragioni.
Il giudizio sul torto o sulla ragione delle parti è subordinato rispetto al
fatto che, per l’intanto, ognuno possa pretendere di avere ragione, e
possa sottoporre al giudice gli argomenti di tale ragione.
Nel codice il principio del contradditorio è sancito dall’ART 101, secondo
cui : “il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire
sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata
regolarmente citata e non è comparsa.
Dalla lettura della norma, sorge però un problema a cui occorre
accennare per evitare un possibile equivoco sul significato e sulla portata
del principio del contraddittorio. L’ART 101 prescrive che “il giudice non
può statuire se la parte… non è comparsa”. Questo richiamo al
“comparire” della parte è quanto meno ambiguo. Dal testo dell’articolo
sembrerebbe che, se il convenuto, anche regolarmente citato, non è
3
comparso, cioè non è effettivamente presente all’udienza, il giudice non
possa pronunciare.
Sarebbe però una maniera distorta di intendere il contraddittorio
imporre che il giudice possa pronunciare solo se il convenuto ha scelto di
costituirsi e di difendersi. Una norma del genere sarebbe grottesca
perché è evidente che colui che è costretto a ricorrere al processo per
tutelare un proprio diritto, sarebbe subordinato al convenuto; l’attore
non potrebbe mai avere ragione se il convenuto, decidendo di non
presentarsi, non comparisse.
“Contradditorio”, perciò, non vuol dire necessità di sentire sempre e
comunque le ragioni dell’altra parte, ma vuol dire “garanzia del diritto di
essere sentiti”, cioè garanzia che ognuno sia messo nell’effettiva
condizione di essere sentito.
4.Principio del contraddittorio e ART 111 Cost.
L’originario ART 24 Cost. ha trovato un complemento nella riscrittura
dell’ART 111 Cost. operata dalla legge costituzionale n. 2/1999.
La legge costituzionale ha arricchito di nuovi commi l’originario ART 111
il cui nuovo primo comma recita così: “ La giurisdizione si attua
mediante il giusto processo regolato dalla legge”, mentre il secondo
comma dice : “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in
condizione di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale”. La legge
ne assicura la ragionevole durata.
A dire la verità, l’ordinamento non sentiva il bisogno di questa
affermazione; se qualche utilità può riconoscersi all’intervento del
legislatore del 1999, questa va semmai vista nell’aggiunta dell’inciso “in
condizioni di parità”. Anche la parità delle parti era una regola che in
qulche modo si poteva ricavare dal sistema, e la Corte costituzionale
aveva fatto appello al principio di “parità delle parti”, in alcune sentenze
storiche.
Enfatizzare la “condizione di parità” significa costituzionalizzazione il c.d.
principio di “parità delle armi”, per cui il processo non deve funzionare
in modo da avvantaggiare una parte a scapito di un’altra. Ciò è il riflesso
del principio del contraddittorio, ma ne evidenzia un aspetto: per il pieno
4
rispetto del contraddittorio, non basta che le parti siano sentite, ma è
anche necessario che il loro ascolta avvenga in condizioni paritetiche,
cioè che il meccanismo processuale non consenta a taluna di esse di
prevaricare l’altra nel dibattito.
CAPITOLO 2. LA GIURIRDIZIONE NELLA COSTITUZIONE: GIUDICE
ORDINARIO, GIUDICI SPECIALI
1.Funzione giurisdizionale, giudice ordinario, giudici speciali
Il titolo IV della seconda parte della Cost. è intitolato alla magistratura.
Questo apparato costituisce, il c.d. poter giudiziario.
La sez. I del titolo IV, dedicata all’ordinamento giurisdizionale, fissa i
principi di base dell’organizzazione della giustizia.
L’ART 102 Cost. pone il principio secondo cui: “La funzione
giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle
norme sull’ordinamento giudiziario”.
Questa enunciazione va completata: i magistrati ordinari esercitano la
funzione giurisdizionale, ma è vero anche che la funzione giurisdizionale
non è esercitata solo dai magistrati ordinari; vi sono anche altri giudici a
cui la stessa costituzione attribuisce l’esercizio della funzione, sicché
essa non può essere considerata una esclusiva del giudice ordinario. Si
consideri infatti che l’ART 103 Cost. attribuisce funzione giurisdizionale
al Consiglio di Stato ed altri organi di giustizia amministrativa, e che
l’ART 113 garantisce la tutela giurisdizionale dinanzi agli organi di
giurisdizione amministrativa.
Alla garanzia di tutela giurisdizionale corrisponde quindi un’unica
“funzione giurisdizionale” suddivisa tra più apparati di giudici, secondo
criteri di distribuzione stabiliti dalla legge.
2.La nozione di giudice ordinario
Chi esercita la giurisdizione ordinaria? Chi è il giudice ordinario?
Il richiamo che l’ART 102 Cost. fa alle “norme sull’ordinamento
giudiziario” indirizza la risposta: ordinario è il giudice il cui status e la
5
cui posizione nell’ordinamento sono regolati dalle norme
sull’ordinamento giudiziario.
La normativa sull’ordinamento giudiziario è fondamentalmente
contenuta nel r.d. 30 Gennaio 1941 “Testo unico sull’ordinamento
giudiziario”, che, oltre ad individuare in concreto chi sono i giudici
ordinari, da un lato determina come essi vengono istituiti, nominati,
inquadrati, disciplinarmente regolati, e dall’altro pone le regole
fondamentali di organizzazione e disciplina, dal punto di vista
organizzativo, l’attività degli uffici giudiziari.
L’ART 1 t.u. ordinamento giudiziario individua i tipi di organo giudiziario
che esercitano la funzione giurisdizionale nella materia civile. [Nota: fino
a non molto tempo fa la norma parlava di “giudici conciliatori”; al giudice
conciliatore è succeduto, per effetto della
L 1991, il giudice di pace, che ne ha ereditato le funzioni, con
ampliamento delle competenze. Il giudice di pace è qualificato come
giudice onorario appartenente all’ordine giudiziario]. Essi sono:
• il giudice di pace
• il tribunale
• la Corte d’appello
• la Corte di Cassazione.
L’ART 4 stabilisce che l’ordine giudiziario è costituito “dai giudici di ogni
grado dei tribunali e delle corti e dai magistrati del pubblico ministero”.
Appartengono inoltre “all’ordine giudiziario come magistrati i giudici di
pace” [guarda nota sopra]. Magistrato onorario (o giudice non togato),
significa esterno al ruolo organico della magistratura ordinaria; la
possibilità che anche tali giudici appartengano all’ordine giudiziario,
come magistrati onorari, è garantiti dall’ART 106 Cost. che stabilisce il
principio generale secondo cui “Le nomine dei magistrati hanno luogo
per concorso”, ma ne contempla un’eccezione aggiungendo che “la legge
sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di
magistrati onorari per tutte le funzioni attribuiti ai giudici singoli.
Ma, ci possiamo chiedere, il giudice onorario è tutto qui? Non abbiamo
una definizione più pregnante? Forse no, però qualche elemento
aggiuntivo lo si può ricavare da una norma che, pur sprovvista di rango
costituzionale, appare comunque fondamentale.
6
L’ART 1 c.p.c. recita “La giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di
legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente
codice”. Finora abbiamo parlato del giudice ordinario come i quel giudice
formalmente individuato dalla sua appartenenza all’ordine giudiziario,
quindi come organo istituito e regolato dalle norme sull’ordinamento
giudiziario. L’ART 1 c.p.c. presenta invece il giudice ordinario come il
giudice civile. Questo ci permette di aggiungere che è ordinario il giudice
a cui è demandato l’esercizio della giurisdizione civile.
Siamo in grado di concludere, quindi, che, mentre sul piano strutturale,
ordinario è il giudice che appartiene all’ordine giudiziario, sul piano
funzionale esso è identificato dal fatto di esercitare la giurisdizione civile
menzionata dall’ART 1 c.p.c.
3.Il divieto di istituzione di giudici speciali e le sezioni specializzate
del giudice ordinario
Il c.2 ART 102 Cost. dice che “non possono essere istituiti giudici
straordinari o giudici speciali”, aggiungendo: “Possono soltanto istituirsi
presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per
determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei
estranei alla magistratura”.
Al divieto di istituire nuovi giudici speciali, l’ART 102 aggiunge che
“possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni
specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di
cittadini idonei estranei alla magistratura”. E’ lecito pertanto istituire
sezioni specializzate, cioè particolari conformazioni della giurisdizione
ordinaria.
La devoluzione di date controversie a tali sezioni mira infatti a
permettere l’utilizzazione di specifiche competenze imposte dal tipo di
controversia affrontata, talora nel senso di integrare collegi giudicanti
affiancando ai magistrati altri soggetti “estranei alla magistratura”, talora
nel senso più limitato di garantire alla trattazione della controversia una
particolare specializzazione dell’organo giudicante.
In considerazione dei problemi di natura tecnica che affiorano nella
controversia di tale genere, si ritiene opportuno che i magistrati togati
7
interloquiscano con esperti della specifica materia da trattare (es.
materie agrarie).
In tale prospettiva la L. 320/1963 ha creato le c.d. sezioni specializzate
agrarie. La controversia agraria spetta alla cognizione del giudice civile,
non però di qualità di “tribunale ordinario”, ma quale “sezione
specializzata agraria” del tribunale, cioè in una formazione collegiale
integrata da esperti (geometri, architetti) nominati secondo la procedura
dell’ART 3 L.320/1963. Il relativo collegio è composto da tre giudici
togati e due esperti (c.d. giudici laici).
Un fenomeno simile si riscontra per la materia delle c.d. acque pubbliche,
le controversie relative alle quali sono devolute ai c.d. Tribunali delle
Acque Pubbliche. Presso talune Corti d’Appello è istituita una apposita
sezione specializzata detta “tribunale regionale delle acque pubbliche”:
le controversie su diritti soggettivi in materia di acque pubbliche sono
devolute al giudice onorario nella particolare conformazione del
Tribunale regionale delle acque pubbliche quale sezione specializzata
della Corte d’appello cui afferisce.
Si tratta di un organo che pronuncia in formazione collegiale in cui i
giudici togati sono affiancati da esperti, quali ingegneri, o altri tecnici.
Questa particolare composizione si ripropone poi nel Tribunale
Superiore delle Acque pubbliche che è un organo di vertice, con sede a
Roma.
Le materie devolute alla cognizione dei Tribunali delle acque pubbliche
sono indicate tassativamente dall’ART 140 t.u. n 1775/1933
(demanialità delle acque, limiti dei corsi e dei bacini, diritti relativi
all’utilizzazione o derivazione di acqua pubblica, ecc.).
L’ART 2 d.l. 24 Gennaio 2012 ha istituito “sezioni specializzate in materia
di impresa” presso i capoluoghi di regione. Si tratta di sezioni
specializzate competenti sulle controversie riguardanti la materia
societaria, relativamente alle c.d. società di capitali.
[Nota: Eccettuata Aosta. Alle città capoluogo di regione vanno aggiunte
le città di Catania e Brescia; restano prive di sezione le corti site in città
non capoluogo di regione come Caltanissetta, Lecce, Messina, Reggio
Calabria e Salerno e le sedi distaccate di corte d’appello, come Bolzano,
Taranto e Sassari. In totale le sezioni sono 21].
8
Queste sezioni sono altresì competenti a) sulle controversie in materia di
proprietà industriale; b) in materia di diritto d’autore; c) in materia di
tutela della concorrenza e del mercato; d) in materia di unti-trust.
La legge specifica che i giudici sono scelti tra i magistrati dotati di
specifiche competenze; a differenza però del collegio delle Sezioni
specializzate agrarie e del Tribunale per i minorenni, i collegi sono
composti esclusivamente da magistrati professionisti, quindi togati.
Funge da sezione specializzata, il Tribunale per i minorenni, presso le
sedi di Corti d’appello con funzioni di giudice di primo grado per tuti gli
affari penali, civili ed amministrativi riguardanti i minori di anni 18.
Compongono il collegio del Tribunale per i minorenni due esperti non
togati.
4.Le figure di giudice speciale e la garanzia di indipendenza
Possiamo a questo punto delineare la figura del giudice speciale in
relazione a quella del giudice ordinario. Si può procedere per esclusione:
tutti i giudici non classificabili come ordinari sono, per ciò, solo, giudici
speciali.
I principali [Nota: Per completezza bisogna aggiungere che residuano
nell’ordinamento italiano anche altre giurisdizioni speciali minori.
Alcune di queste vanno sotto il nome di “giurisdizioni domestiche”, cioè
giurisdizioni di settore affidate ad organi interni al settore stesso.
Possiamo ricordare, da un lato, le giurisdizioni il cui prodotto finale è
soggetto al controllo della Cassazione; e dall’altro lato, le giurisdizioni
autonome da tale controllo, come il Presidente della Repubblica.
Alla prima categoria fanno parte le giurisdizioni proprie di alcuni ordini
professionali, come il Consiglio Nazionale Forense; la giurisdizione della
sezione disciplinare del CSM; la giurisdizione attribuita ai “commissari
regionali per gli usi civici, organi a prevalenti funzioni amministrative,
ma legittimati a decidere contestazioni su diritti] giudici speciali sono: a)
9
I giudici amministrativi (TAR e Consiglio di Stato); b) La Corte dei Conti;
c) Le Commissioni tributarie.
L’ART 103 pone accanto al Consiglio di Stato “gli altri organi di giustizia
amministrativa”, lasciando intendere una più ampia tipologia di giudici
speciali relativamente al settore del contenzioso amministrativo. Ed in
tal senso la norma va coordinata con l’ART 125 Cost, il quale dice che :
“Nelle Regioni sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo
grado, secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica”. Di qui,
la successiva introduzione nell’ordinamento italiano dei TAR, che furono
istituiti, con la l. 1034/1971, quali organi di giurisdizione amministrativa
di primo grado, trasformando così il Consiglio di Stato in giudice
d’appello rispetto alle sentenze dei TAR. La creazione dei TAR quali
giudici speciali non ha posto problema di costituzionalità perché una
base costituzionale era fornita dagli ARTT. 103 e 125. Dal 1971 quindi il
sistema della giurisdizione amministrativa si articola su un doppio grado
di giudizio con tribunali di primo grado decentrati.
(Lo svolgimento della giurisdizione e la disciplina del processo
davanti al giudice amministrativo hanno oggi la loro fonte unitaria
nel codice del processo amministrativo. Il codice, da un lato ha
riordinato e riorganizzato sistematicamente la preesistente
legislazione; dall’altro ha ridisegnato molti istituti, innovando
rispetto alle soluzioni legislative anteriori. Il sistema è basato
fondamentalmente su due gradi di giudizio; il primo davanti al Tar,
e il secondo davanti al Consiglio di Stato.
L’altro organo preesistente alla costituzione, e da questa salvato, è
la Corte dei Conti, organo ibrido anch’esso, il quale secondo l’ART
100 Cost, “esercita il controllo preventivo sulla legittimità sugli atti
del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio
dello Stato”. Spettano alla competenza della Corte dei Conti le
controversi sulla contabilità pubblica, i giudizi di “conto e di
responsabilità” nei confronti dei pubblici impiegati e dei pubblici
funzionari, e i “giudizi in materia di pensione”.
L’ART 108 afferma espressamente che la legge assicura
l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali. Con questo
10
viene fissato uno degli elementi fondamentali perché le
giurisdizioni speciali possano funzionare come vere giurisdizioni.
Senza indipendenza non ci può essere vera e propria giurisdizione,
perché l’indipendenza del giudicante è la prima delle garanzie della
funzione giurisdizionale.
5.Il giudice tributario
La disciplina del giudice tributario ha posto seri problemi di
coordinamento con il testo costituzionale, problemi risolti oggi seppur
con un certo aggiramento dell’intenzione del costituente. Attualmente il
sistema è fondato sull’attribuzione delle controversie tra fisco e
contribuente ad uno speciale apparato giurisdizionale, le c.d.
commissioni tributarie.
Di commissioni tributarie quali organi speciali di giurisdizione tributaria
non si parla nella costituzione. Si tratta allora di capire come fa oggi ad
esistere una “giurisdizione speciale tributaria” fondata su tali organi,
riconosciuti in costituzione. In verità queste commissioni esistevano
anche prima della costituzione quali organi, considerato il divieto di
istituire giudici speciali diversi da quelli riconosciuti in costituzione. In
verità queste commissioni esistevano anche prima della costituzione
quali organi tributario-amministrativi a funzione genericamente
“giustiziale”, piuttosto che giudici in senso proprio. Si trattava di organi
di controllo nati dalla diffidenza storica nei confronti del giudice
ordinario da parte del governo dello Stato unitario. La diffidenza del
potere centrale nei confronti del giudice ordinario aveva portato ad
attenuare il ruolo della funzione giurisdizionale nel campo
dell’imposizione tributaria, ed a attribuire i conflitti che nascevano tra
contribuente ed erario ad alcuni organi paragiurisdizionali di controllo.
Si trattava di organismi di cui facevano parte funzionari dell’erario, e che
pur decidendo controversie tra contribuente e fisco, non esercitavano
una vera funzione giurisdizionale.
Questo organi hanno continuato di fatto ad operare anche
successivamente alla costituzione e sono stati progressivamente investiti
di funzioni e caratteristiche sempre più specificatamente giurisdizionali.
11
SI è cominciato così a parlare di “giurisdizione tributaria”, attenuando il
divieto di istituzione di nuovi giudici speciali dell’ART 102: lo si è fatto
lavorando sulla VI “disposizione transitoria e finale” della Cost. secondo
cui “entro cinque anni dall’entrata in vigore della Cost. si procede alla
revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti”. Si è
da un lato ritenuto che le Commissioni tributarie potessero rientrare nel
novero egli “organi giurisdizionali preesistenti£. Da un altro lato si è
finito per ritenere che i cinque anni non fossero un termine perentorio,
cioè che l’operazione di revisione di organi preesistenti si sarebbe potuta
fare anche in seguito.
La C.C. ha chiuso gli occhi ed ha ammesso la costituzionalità di questa
operazione ed oggi non si può fare altro che prendere atto che, accanto ai
giudici speciali contemplati dalla Cost, siedono altri giudici speciali che,
persa l’etichetta di organi amministrativi, agiscono oggi quali organi
giurisdizionali.
(L’ART 2 del d.lgs. 546/1992 ricomprende nella giurisdizione
tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto “tributi di ogni
genere e specie, invi incluse le cause attinenti a “sanzioni
amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari”)
La giurisdizione tributaria ha anche un suo “codice”: il d.lgs. 546/1992
che detta norme le norme di procedura in modo piuttosto dettagliato.
Fino a quel momento la regolamentazione era abbastanza gracile; con il
decreto legislativo si introdusse un processo più articolato, che il comma
2 ART 1 coordina alla normativa generale del codice di rito: il giudice
tributario applica le regole del d.lgs. “e per quanto non disposto le norme
del codice di procedura civile”. Ciò sta a indicare che il c.p.c. è la legge
generale non solo del processo civile in senso stretto, ma anche di
processi tenuti davanti ad altri organi giudiziari.
CAPITOLO 3. LA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO
1.Consiglio di Stato e gli altri giudici amministrativi
12
La giurisdizione del giudice amministrativo è vista dalla Cost. come
giurisdizione del Consiglio di Stato, non esistendo, all’epoca, i TAR ed
occupando quindi il Consiglio di Stato il ruolo di giudice in unico grado
delle relative controversie.
(il Consiglio di Stato nasce come ausiliario giuridico del governo. Se
ne trova traccia nell’ART 100 Cost. quando definisce il Consiglio di
Stato come “organo di consulenza giuridico amministrativa”. A
questa funzione, si aggiunse in seguito una funzione “giustiziale”,
consistente nell’attività di risoluzione di controversie tra privati e
PA, attività però svolta in veste di organo autenticamente
giurisdizionale. Questa attività fu a lungo considerata alla stregua
di una generica funzione di “giustizia nell’amministrazione” non
coincidente con la funzione giurisdizionale pura.
Alla completa “giurisdizionalizzazione” del Consiglio di Stato, si
perviene solo in seguito, e di questo travaglio vi è ancora traccia
nella Cost.)
L’ART 100 Cost. colloca il CDS tra gli organi c.d. ausiliari e lo definisce
“organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia
nell’amministrazione”. L’ART 103 stabilisce a sua volta che il CDS ha
giurisdizione per la tutela nei confronti della PA di date situazioni
soggettive. La formula dell’ART 100 presenta tratti di ambiguità:
parlando di “tutela della giustizia nell’amministrazione”, il costituente
sembra mantenere ancora qualche residuo della vecchia concezione
“para-giurisdizionale” degli organi di giustizia amministrativa.
2.Giurisdizione ordinaria e giurisdizione del giudice
amministrativo
La Cost. affronta i problemi fondamentali del rapporto tra la
giurisdizione civile e la giurisdizione del giudice amministrativo,
dettando varie norme da cui si ricava l’assetto istituzionale della
coesistenza tra le due giurisdizioni.
13
L’ART 113 c.1 Cost. prescrive : “Contro gli atti della PA è sempre
ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi
dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria ed amministrativa”. Dalla
portata della norma, si ricavano due corollari: A) Non diversamente dai
diritti soggettivi, gli interessi legittimi non tollerano limitazioni di tutela;
b) Tale tutela può essere distribuita dalla legge ordinaria tra gli organi di
giurisdizione ordinaria e organi di giurisdizione amministrativa.
La norma ha valore di garanzia incondizionata per tutte le situazioni
giuridiche potenzialmente tutelabili. Essa impone al legislatore ordinario
di munire di appropriata tutela giurisdizionale tutte le situazioni
soggettive suscettibili di esser lese da qualunque attività di un qualunque
pubblico potere, senza distinzione di diritti e doveri.
Questa fondamentale enunciazione appare ancora più pregnante alla
luce del secondo comma dell’articolo stesso: “Tale tutela giurisdizionale
non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o
per determinate categorie di atti”. L’ambito della garanzia ricavabile dal
primo comma viene addirittura amplificato dal secondo comma: la tutela
giurisdizionale deve essere piena, nel senso che il legislatore ordinario
non la può limitare a particolari forme di impugnazione o a determinate
categorie di atti.
A sua volta, il comma 3 afferma: “La legge determina quali organi di
giurisdizione possono annullare gli atti della PA nei casi e con gli effetti
previsti dalla legge stessa”. Questo significa che l’unico potere del
legislatore ordinario resta quello di stabilire quali organi possono in
concreti annullare gli atti della PA.
3.La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
La Cost. si preoccupa anche di dare le linee guida della distribuzione del
potere giurisdizionale tra il giudice ordinario e quello amministrativo.
Così, l’ART 103 Cost. afferma che: “Il CDS e gli altri organi di
giurisdizione amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei
confronti della PA degli interessi legittimi e, in particolari materie
indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi”. Dalla formulazione della
14
norma di ricava la regola generale: nei confronti agli interessi legittimi la
giurisdizione spetta in via normale agli organi di giurisdizione
amministrativa (TAR e CDS), ma il particolari materie indicate dalla
legge lo stesso giudice amministrativo può conoscere anche dei diritti
soggettivi.
La regola generale di distribuzione tra le due giurisdizioni si basa sul
tipo di situazione soggettiva tutelata, ma è nel potere del legislatore
stabilire che la giurisdizione su determinati diritti soggettivi non spetti al
giudice ordinario secondo la regola generale, ma al giudice
amministrativo. E’ questa una esperienza abbastanza comune nella
nostra legislazione in quanto non di rado leggi particolari hanno
attribuito alla giurisdizione amministrativa anche il potere di decidere di
diritti soggettivi.
Ciò per varie ragioni, ma soprattutto sul presupposto che non sempre è
facile distinguere tra l’una e l’altra situazione soggettiva. Sovente, di
fronte all’attività della PA ci si trova in concreta difficoltà a sceverare
diritti soggettivi da interessi legittimi. In materie in cui è particolarmente
forte l’intreccio di diritti e interessi (casi in cui nella stessa controversia
il privato è portatore sia di interessi legittimi che di diritti soggettivi) è
più facile tagliare di netto il nodo della distinzione delle situazioni
soggettive per attribuire tutta la materia al giudice amministrativo
ovvero al giudice ordinario.
Quando, attraverso tale tecnica, la materia a cui appartiene la
controversia è attribuita al giudice amministrativo, si suole parlare di
giurisdizione esclusiva.
Non è quindi vero che la ripartizione tra la giurisdizione del giudice
civile e quella del giudice amministrativo coincide sempre con la
ripartizione tra interessi legittimi e diritti soggettivi. Non è sempre vero
perché occorre verificare se, per caso, non si versi in una materia
particolare che il legislatore ordinario ha attribuito a uno dei due ordini
giurisdizionali indipendentemente dalla distinguibilità tra interessi
legittimi e diritti soggettivi.
Secondo l’ART 103 il giudice amministrativo ha in generale giurisdizione
su interessi legittimi, ma “in particolari materie indicate dalla legge” ha
anche giurisdizione su diritti soggettivi. La situazione speculare è: il
15
giudice civile (ordinario) esercita la sua giurisdizione sui diritti
soggettivi vantati nei confronti dell’amministrazione, ma in particolari
materie indicate dalla legge anche sugli interessi legittimi, sicchè
nell’ambito dei rapporti di lavoro con le PA, esso è giudice delle
controversie tra privato e la PA indipendentemente dalla situazione
sostanziale tutelata.
(Va ricordato che, con la fondamentale sentenza 204/2004, la C.C.
ha specificato che il potere del legislatore ordinario di attribuire un
insieme di controversie in giurisdizione esclusiva al giudice
amministrativo non è incondizionato ma incontra un duplice limite:
a) che deve trattarsi di controversie relative a materie particolari
(es. edilizia e urbanistica); b) che deve trattarsi di controversie in
cui rileva la posizione sovraordinata dalla PA, con l’esclusione
quindi delle situazioni c.d. patitetiche, cioè di quelle in cui
l’amministrazione opera sullo stesso pieno di un qualunque altro
soggetto privato).
CAPITOLO 4. SOGGEZIONE ALLA LEGGE E GARANZIA DEL
CONTROLLO IN CASSAZIONE
1.La soggezione del giudice alla legge e la motivazione dei
provvedimento giurisdizionale
Benché privo di contenuto precettivo in senso stretto, il c.1 ART 101
Cost. possiede un deciso valore simboli e politico. Vi afferma che “la
giustizia è amministrata in nome del popolo”, dichiarazione di principio
che si inserisce coerentemente nel sistema costituzionale.
Di maggior peso giuridico, è il c.2 dello stesso articolo, che dice che : “i
giudici sono soggetti soltanto alla legge”. La disposizione va letta in
coordinazione con l’ART 104 Cost. che stabilisce che “la magistratura
costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”.
Queste norme hanno un’importanza notevole, in quanto da esse si ricava
che: a) l’ordine giudiziario si presenta autonomo ed indipendente
rispetto al potere esecutivo; b) ogni decisione prodotta dall’attività
giudiziale deve trovare fonte esclusivamente nella legge: non spetta ai
16
giudici “creare” il diritto che applicano in quanto essi devono decidere
secondo il diritto obiettivo, in conformità alle regole obiettive che
presiedono al reperimento delle fonti ed alla loro corretta
interpretazione ed applicazione.
A sua volta l’ART 111 c.6 stabilisce che “tutti i provvedimenti
giurisdizionali devono essere motivati”.
La norma è importante in quanto mira a escludere che la tutela
giurisdizionale si estrinsechi in puri comandi privi di giustificazione.
Tramite la funzione giurisdizionale si esercita un potere caratterizzato
da atti/provvedimenti a carattere autoritativo, come tali destinati a
imporsi anche contro la volontà dei destinatari.
I provvedimenti giurisdizionali non possono esaurisci nel comando
impartito alle parti, ma debbono contestualmente dare conto della scelta
concretamente assunta; essi debbono essere “motivati” in modo
esplicito, in modo tale che tale motivazione possa essere obiettivamente
controllata. La motivazione è appunto la garanzia della corretta
applicazione della legge, e sarebbe quindi inutile dire che i giudici sono
soggetti solo alla legge, se non li si obbligasse a motivare la sentenza
stessa.
La soggezione del giudice alla legge si ritrova anche nel c.p.c. dove è
posta la norma fondamentale dell’ART 113: “Nel pronunciare sulla causa
il giudice deve seguire le norme del diritto.
(Oltre alla legge in senso formale, il giudice è quindi soggetto:
a. a) alle norme risultanti dagli atti normativi generali interni
non classificabili quali leggi in senso formale: decreti legge,
decreti legislativi, ecc;
b. b) alla normativa di derivazione comunitaria, ancorché
trasfusa in atti legislativi interni (principi generali e
regolamenti);
c. c) alla normativa di fonte consuetudinaria;
d. d) alla legge straniera eventualmente applicabile nel
processo davanti alla giurisdizione italiana;
e. e) in alcuni casi alle norme risultanti da contratti ed accordi
collettivi di lavoro.
17
2.La garanzia del ricorso in Cassazione
Il c.7 ART 111 funge anch’esso da garanzia della soggezione del giudice
alla legge: contro le sentenze, siano esse pronunciate dal giudice
ordinario o da giudici speciali, “è sempre ammesso il ricorso in
Cassazione per violazione di legge”.
Il controllo della “violazione di legge” da parte di un organo
particolarmente qualificato come la C.C. esprime una garanzia
inderogabile dell’ordinamento: non sono ammessi provvedimenti che
decidano dei diritti e dei corrispondenti obblighi dei cittadini senza la
contestuale garanzia del controllo della loro legalità di fronte alla
Cassazione.
Il c.7 ART 111 riveste una straordinaria importanza nell’ordinamento
processuale, perché ha condotto ad espellere dal sistema la figura del
provvedimento “decisorio” non impugnabile.
Nonostante la norma si riferisca solo alle “sentenze”, essa è da tempo
interpretata in senso estensivo, tale da garantire la ricorribilità in
Cassazione non solo per i provvedimenti in forma di sentenza, ma anche
per tutti gli altri tipi di provvedimento che presentino ad un tempo i
caratteri della “decisorietà” e della “definitività” (come le ordinanze, ad
esempio).
Ne segue che i provvedimenti qualificati come “non appellabili” dalla
legge, o privi di apposito mezzo di impugnazione, possono comunque
venir impugnati con il mezzo del ricorso per Cassazione.
Questo ricorso è detto “straordinario”, in quanto, discendendo
direttamente dalla norma costituzionale, viene distinto dal ricorso c.d.
“ordinario”, previsto dall’ART 360 c.p.c.
3.La limitazione dell’accesso alla Cassazione per i provvedimenti
del CDS
La garanzia del rimedio del ricorso per Cassazione pleno jure vale però
solo per la giurisdizione civile e per quella tributaria. Il c.8 ART 111 Cost.
esclude infatti la ricorribilità in Cassazione delle sentenze emesse dal
18
CDS e dalla Corte dei Conti, consentendone la ricorribilità per le sole
ragioni attinenti alla giurisdizione (cioè relative al riparto di attribuzioni
tra i diversi apparati giurisdizionali).
Contro le decisioni di questi organi, l’accesso alla Cassazione non è
escluso, ma è fortemente ridotto l’ambito essendo esse impugnabili per
le sole ragioni relative alla giurisdizione. Alla Corte spetta in questo caso,
il solo potere di controllare che il giudice che ha esercitato la propria
giurisdizione lo abbia fatto in corretta applicazione delle norme che la
distribuiscono tra i vari organi giurisdizionali.
CAPITOLO 5. COSTITUZIONE E CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI
DELL’UOMO
1.Riscrittura dell’ART 111 Cost.
Abbiamo già visto che la legge costituzionale 23 Novembre 1999 n.2 ha
inserito ulteriori prescrizioni ai commi 3 che costituivano il corpo
originario dell’ART 111 Cost. Ai nostri fini appaiono fondamentali, i
nuovi commi 1 e 2: 1) La giurisdizione si attua mediante il giusto
processo regolato dalla legge; 2) Ogni processo si svolge nel
contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti al giudice
terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.
Occorre allora vedere come si cala nel sistema questo ristrutturato ART
111.
Iniziamo dalla prima nuova formula : “La giurisdizione si attua mediante
il giusto processo regolato dalla legge”. Essa significa anzitutto che
l’esercizio della giurisdizione trova la sua manifestazione nel processo.
La norma costituzionale prescrive in maniera cogente che l’esercizio
della giurisdizione si eserciti attraverso il modulo processuale. Con la
locuzione “giurisdizione” ci si riferisce alla funzione esercitata, ma la
forma di tale esercizio deve essere il “processo”, cioè un particolare
svolgimento di eventi riconducibili alla nozione di “processo”. La mera
presenza di una struttura processuale non è però sufficiente in quanto il
processo deve anche essere giusto.
19
Per processo giusto, si intende che esso deve constare di alcuni requisiti
indispensabili che si impongono al legislatore processuale, su cui
gravano due obblighi fondamentali: a) Regolare la disciplina procedurale
da seguire e il funzionamento del processo; b) Adeguare la legislazione
processuale a canoni di “giustizia processuale”, canoni che si
manifestano come equilibrio, proporzione, correttezza, ragionevolezza,
affidabilità della procedura.
L’obbligo espresso al punto a) indica una riserva di legge assoluta, non
potendosi lasciare la conformazione del procedimento all’arbitrio di
fonti normative di rango inferiore alla legge, o, addirittura, alla volontà
degli stessi organi giudicanti.
Il requisito del contraddittorio è ribadito dal c.2 ART 111 : “ogni
processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità”.
La presenza di un effettivo contraddittorio è il primo degli elementi della
giustizia del processo, sicché sarebbe ingiusto quel processo in cui fosse
eliminato, o anche solo compresso o distorto, il contraddittorio delle
parti.
Completa il principio del contraddittorio l’esigenza che le parti siano
poste in “condizione di parità”. Non basta prevedere il contraddittorio:
occorre anche che esso possa svilupparsi “ad armi pari”, vale a dire che
alla voce di ogni parte si garantiscano le stesse concrete possibilità di
esprimersi, senza scompensi. Non deve aversi sproposizione tra i mezzi
che la legge mette, per esempio a disposizione dell’attore e quelli messi a
disposizione del convenuto; la mancanza di equilibrio negherebbe la
giustizia del processo producendo un contraddittorio sbilanciato.
2.L’imparzialità del giudice
La previsione secondo cui “ogni processo si svolge… davanti a un giudice
terzo ed imparziale”, può considerarsi un recupero in chiave di diritto
costituzionale nazionale del preesistente principio transnazionale
contenuto nella Convenzione Europea sui diritti dell’uomo (CEDU).
L’applicazione della CEDU è garantita dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, che ha sede a Strasburgo. Il titolo secondo della CEDU
20
istituisce la Corte europea dei Diritti dell’uomo che in modo permanente,
assicura il rispetto degli impegni assunti dai paesi contraenti.
Secondo L’ART 32, “la competenza della Corte si estende a tutte le
questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della CEDU e dei
suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste
dagli ARTT 33-34-37”. L’ART 34 prevede che “la Corte può essere
investita di un ricorso fatto pervenire da ogni persona fisica, ogni
organizzazione non governativa o gruppo di privati che pretenda di
essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti
contraenti dei diritti riconosciuto nella Convenzione o nei suoi
protocolli”.
Per L’ART 35, la Corte “non può essere adita se non dopo l’esaurimento
delle vie di ricorso interne”, e l’ART 41 prevede che “se la Corte dichiara
che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il
diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette che in modo
incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte
accorda, quando è il caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”.
L’ART 6 CEDU anticipa in qualche modo il nuovo testo dell’ART 111:
“Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza (NOTA: udienza è
un termine sbagliato, in quanto tradotto dall’inglese. In inglese è “the
right to be heard”, cioè il diritto di essere ascoltati) entro un termine
ragionevole davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale,
costituito per legge al fine della determinazione dei suoi diritti e doveri
di carattere civile”. Le stesse garanzie devono però esistere per la parte
in materia penale, “ai fini della determinazione della fondatezza di ogni
accusa penale che gli venga rivolta”.
La prescrizione del c.1 ART 6 CEDU secondo cui ognuno ha diritto ad
“processo che si svolga entro un termine ragionevole” è stata ripresa
nella nuova formulazione del comma 2 ART 111, che ha inserito nella
costituzione italiana il “principio del termine ragionevole”:
Altro aspetto del diritto inviolabile al processo sancito dall’ART 6 CEDU è
che la procedura si svolga “davanti ad un tribunale indipendente”.
Ritroviamo qui il principio, stabilito dalla Convenzione,
dell’indipendenza dell’organo che decide della controversia , principio
21
che abbiamo già trovato in vari punti della costituzione italiana. (Es. ART
104 – ART 106).
L’indipendenza sul piano esterno e sul piano organizzativo è pienamente
garantita dalla Cost, e da questo punto di vista, l’ART 6 CEDU non fa che
sovrapporsi ad un sistema già compiuto all’interno di questa.
L’altra prescrizione dell’ART 6 CEDU stabilisce che non basta che il
tribunale sia indipendente, ma deve anche essere imparziale.
Il dovere di imparzialità del giudice nel processo è un abbastanza
intuitivo, che però fino ad ora non si trovava esplicitamente garantito
nella Cost. Fino al momento in cui è entrato in vigore il nuovo ART 111
c.2 Cost, l’unica garanzia di imparzialità, al di là della legge ordinaria, era
soltanto nell’ART 6 CEDU.
Il nuovo c.2 ART 111 parla di “giudice terzo e imparziale”, perché la
nozione di imparzialità è strettamente connessa con quella di terzietà.
“Terzietà” che significa che il giudice non può “essere parte”, il che
significa non solo che egli non partecipa al processo, ma anche che egli
non possa patteggiare per l’una o per l’altra parte: egli deve essere
indifferente rispetto agli esiti della causa in modo da garantire la più
assoluta neutralità sia rispetto al procede che rispetto al decidere.
(ART 51 c.p.c. ASTENSIONE DEL GIUDICE.
“Il giudice ha l’obbligo di astenersi£, cioè non può né decidere, né
trattare la causa in una serie di ipotesi che configurano presunzioni
assolute di imparzialità compromessa.
Queste sono le ipotesi di astensione dell’ART 51 c.1:
1)”se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica
questione di diritto”;
2)indipendentemente dal riscontro concreto dell’interesse, il
giudice ha l’obbligo di astenersi “se egli stesso o la moglie è parente
fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, o è
convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei
difensori”. Per moglie si intende anche il marito, chiaramente;
3)”Se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o
rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuni dei suoi
difensori”.
22
4)”Se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha
deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come
magistrato in altro grado del processo, o come arbitro, o vi ha
prestato assistenza come consulente tecnico”.
5)”Se è tutore, curatore, procuratore, agente o datore di lavoro di
una delle parti”.
L’ART 51 nel suo complesso dà il senso globale dell’imparzialità che
deriva o dall’interesse p dalle relazioni interpersonali tra il giudice
e le parti o i difensori.
Il c.2 ART 51 opera come norma di chiusura prescrivendo che, al di
là delle ipotesi espresse, “in ogni altro caso in cui esistono gravi
ragioni di convenienza, il giudice può richiedere al capo dell’ufficio
l’autorizzazione ad astenersi, ma non ha l’obbligo di farlo”.
La garanzia dell’astensione obbligatoria, dell’obbligo del giudice di
spogliarsi della causa se si ricade in una delle ipotesi già elencate, è
data dal successivo ART 52 : “Nel caso in cui è fatto obbligo al
giudice di astenersi, ciascuna delle parti può proporne la
ricusazione mediante ricorso contenete i motivi specifici e i mezzi
di prova”. La ricusazione è il rimedio all’inerzia del giudice
sospetto.
La ricusazione è quindi la garanzia dell’astensione. (ovviamente ci
sarà una verifica concreta se la pretesa della parte sia fondata o
meno. Non basta proporre una ricusazione perché il giudice debba
uscire di scena; occorre una verifica che la giurisprudenza ha reso
rigorosa. La possibilità di ricusazione è alla portata di tutti e per
questo è molto severa).
3.La precostituzione legale del giudice nella Costiuzione e nella
CEDU
L’ART 6 della CEDU prosegue affermando che il giudice, indipendente ed
imparziale, che garantisce il “diritto al processo”, deve anche essere
“costituito per legge”. Si tratta di una caratterizzazione dell’organo
giudicante di particolare importanza, in cui la CEDU si sovrappose
all’ART 25, secondo cui: “Nessuno può essere distolto dal giudice
23
naturale precostituito per legge”. In quest’ultima norma si nota la
presenza dell’aggettivo “naturale” che manca nella CEDU, ma il concetto
è sostanzialmente lo stesso, la precostituzione legale.
L’aspetto della precostituzione ritorna anche in un’altra norma della
Costituzione, l’ART102 c.2 , che vieta l’istituzione dei giudici speciali e
dei giudici straordinari. C’è differenza tra giudice speciale e
straordinario.
Con l’espressione giudice straordinario si intende l’ipotesi che l’organo
giudicante venga creato ad hoc per decidere di determinate controversie
che, di per sé, ricadrebbero naturalmente nella giurisdizione di apparati
esistenti. La straordinarietà sta nel fatto che l’organo, in luogo di essere
preordinato dall’ordinamento per categorie generali di controversie,
viene creato ad hoc per giudicare di controversie che troverebbero
naturalmente il loro giudice negli organi istituzionalmente predisposti.
Il divieto di istituire giudici straordinari va messo in stretta
coordinazione con il principio della precostituzione del giudice. Dalla
considerazione congiunta dei due principi si ricava che il legislatore
ordinario deve prestabilire i criteri in base ai quali, in un sistema di
organi giudicanti già organizzato e costituito, si possa individuare
l’organo che legittimamente espleterà la funzione giurisdizionale in
rapporto a ciascuna concreta controversia.
4.Il principio di effettività della tutela giurisdizionale
Altra norma della CEDU, di particolare importanza, è l’ART 13: “Ogni
persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti dalla presente convezione
sono stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad una istanza
nazionale (istanza nazionale = giudice nazionale) anche quando la
violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro
funzioni ufficiali”.
La norma è importante anzitutto perché introduce il concetto di
“effettività della tutela”. La tutela deve essere effettiva, nel senso che la
garanzia giurisdizionale deve poter funzionare concretamente al
momento opportuno, non bastando la sua previsione legale: occorre
anche che il legislatore ponga in essere le condizioni organizzative
24
perché la tutela sia effettivamente erogata e non resti un puro e semplice
dato astratto.
Ma non basta: garanzia dell’effettività della tutela significa anche che
essa non può subire attenuazioni nei confronti degli organi pubblici o
comunque esercenti poteri pubblici, cioè della PA in genere.
(La CEDU non distingue tra diritti soggettivi ed interessi legittimi:
ogni violazione di legge commessa da soggetti pubblici o esercenti
pubbliche potestà merita tutela giurisdizionale piena, effettiva,
senza possibilità di discriminare situazioni di diritto da situazioni
di interesse.
Punto di partenza irrinunciabile è che “contro gli atti della PA è
sempre ammessa la tutela giurisdizionale”, indipendentemente dal
fatto che si tratti di diritti o di interessi. Possiamo quindi vedere
nella Costituzione una tendenziale coincidenza con la posizione
dell’ART 13 CEDU, non essendo ammesse limitazioni di tutela in
dipendenza della qualità del soggetto o della tipologia dei suoi
poteri.
5.La ragionevole durata del processo
La CEDU ha anticipato anche il nuovo c.2 dell’ART 111 (“La legge
assicura la ragionevole durata”) introducendo, all’ART 6, il concetto di
“termine ragionevole” entro cui le parti debbono ottenere il risultato del
processo.
Nessuno può assegnare un termine preciso ai processi (NOTA: questo
vale solo per i processi civili, in quanto nel processo penale la situazione
è totalmente differente. Nel processo penale, una durata massima è una
scelta garantistica, in quando se non si procedere per tempo, l’imputato è
considerato assolto. Nel processo civile la situazione è diversa, in quanto
un soggetto prendete il riconoscimento di un determinato diritto nei
confronti di un altro soggetto e quindi l’esigenza di brevità tende a
scontrarsi con la cattiva organizzazione giudiziaria), ma la durata del
processo non dovrebbe superare i limiti della ragionevolezza. La
ragionevole durata del processo è l’esatta negazione di quello che accade
25
normalmente nel processo italiano, dove le cose funzionano sicuramente
male. La realtà del processo italiano è tale per cui, salvo particolari tipo
di tutele, il processo ordinario di cognizione soffre di una lunghezza
patologica.
Il “che fare” non è facile. Anche se si eliminassero le più vistose storture,
nessuno potrebbe immaginarsi un processo immediato. Per sua natura,
l’esercizio della funzione giurisdizionale ha bisogno di un certo tempo
per svolgersi, perché l’attività di giudicare è caratterizzata da forme e
cautele che hanno lo scopo di garantire coloro che vi partecipano. Senza
tali forme e cautele si avrebbe ben poca garanzia di corretta tutela del
diritto fatto valere. Se si vuole una giustizia troppo rapida bisogna
rassegnarsi ad avere una giustizia sbrigativa e sommaria, cosa che
contraddirebbe alla radice lo Stato di diritto e la possibilità della giustizia
all’ordinamento.
Cosa vuol dire imposizione al legislatore ordinario, di garantire la
ragionevole durata? La formula è particolare in quanto “ la legge assicura
la ragionevole durata” sembra quasi riferirsi ad una obbligazione di
risultato e non di mezzi, nel senso che non basterebbe che il legislatore
processuale legiferi tenendo conto della ragionevole durata, in quanto
esso dovrebbe anche garantirla in concreto.
Ma è difficile dare corpo ad un obbligo vero e proprio del legislatore di
“garantire” tempi brevi attraverso una normazione che effettivamente
funzioni da acceleratore della procedura. In realtà la prescrizione si
riflette sul piano della costituzionalità della normazione organizzativa
dell’apparato giurisdizionale. A parametro di costituzionalità di
quest’ultima assurge anche l’effettivo contributo di essa alla lunghezza
del processo.
6.La “equa riparazione” per la durata eccessiva del processo
Messo alle strette dalla posizione critica ufficialmente adottata dalla
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per l’intasamento provocato dalle
domande di risarcimento nei confronti dello Stato italiano per eccessiva
durata del processo, il legislatore nazionale è corso ai ripari per dirottare
sul giudice interno la tutela fino allora esperita dal cittadino italiano
26
tramite il ricorso alla Corte di Strasburgo. Poiché la Corte non solo “non
può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne”,
ma la riparazione delle conseguenze della violazione accertata è
possibile solo se il diritto interno dello Stato contraente “non permette
che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione”.
La l. 89/2001 (conosciuta come la “Legge Pino”, in nome del
parlamentare che la propose), ha introdotto un meccanismo di “equa
riparazione” per la durata eccessiva del processo: “Chi ha subito un
danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della
CEDU per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali … sotto il profilo del mancato rispetto del termine
ragionevole di cui all’ART 6 par. 1 della CEDU, ha diritto ad un’equa
riparazione. Il c.3 ART 1 stabilisce la rilevanza solo del “danno riferibile
al periodo eccedente il termine ragionevole”.
La domanda di equa riparazione si propone davanti alla CDA del
distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’ART 11 del
c.p.p. a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui
distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito ovvero
pende il procedimento nel ci ambito la violazione si assume verificata”.
“La Corte pronuncia, entro 4 mesi dal deposito del ricorso, con decreto
impugnabile per cassazione”.
7.Il procedimento europeo per le controversie di modesta entità
(Regolamento 11/07/2007, n.861/2007)
I principi sin qui richiamati del giusto processo, del contraddittorio, della
durata ragionevole e dell’effettività della tutela giurisdizionale
costituiscono il substrato del Regolamento comunitario n 861/2007,
istitutivo di un procedimento europeo per le cause di modesta entità.
Questo Regolamento, entrato in vigore nell’Agosto del 2007, ma
applicabile solo dal Gennaio del 2009, ha infatti introdotto un
procedimento, alternativo a quelli previsti dalla normativa vigente negli
Stati membri, inteso ad agevolare l’accesso alla giustizia per le
controversie transfrontaliere di modesta entità, assicurando parità di
condizioni per i creditori ed i debitori di tutta l’Unione europea, a ridurre
27
i tempi e le spese per ottenere la tutela dei propri diritti e a semplificare
il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze rese in una altro Stato
membro.
Il Regolamento riguarda le controversie transfrontaliere, in materia
civile e commerciale, ad esclusione di quelle espressamente indicate
nell’ART 2 c.2, indipendentemente dalla natura dell’organo
giurisdizionale, il cui valore non ecceda i duemila euro.
Se la domanda non rientra nell’ambito di applicazione del Regolamento,
il giudice adito ne informa l’attore e, se questi non ritira la domanda,
esso deciderà la controversia secondo il proprio diritto processuale.
Al fine di garantire la celerità del procedimento, il legislatore
comunitario prevede lo svolgimento del procedimento tendenzialmente
in forma scritta (salvo che il giudice ritenga necessario lo svolgimento di
un’udienza o ne sia richiesto da una delle parti), predispone dei moduli
che le parti private e il giudice devono utilizzare per la stesura dei
rispettivi atti, e scandisce tempi abbastanza stretti per il relativo
compimento. Inoltre, nell’ottica di riduzione delle spese processuali,
stabilisce la non obbligatorietà della rappresentanza tecnica.
La sentenza resa all’esito del procedimento in questione è esecutiva
indipendentemente dalla possibilità di impugnazione. Essa può essere
impugnata, o, su istanza del convenuto che non abbia avuto modo di
contestare la domanda, può costituire oggetto di riesame da parte del
giudice competente dello Stato membro in cui è stata emessa.
Quanto alla circolazione delle sentenze rese nell’ambito del
procedimento europeo, il Regolamento prevede il riconoscimento
immediato, senza che sia necessaria alcuna dichiarazione di esecutività e
senza che sia possibile opporsi al riconoscimento stesso. Ai fini
dell’esecuzione, la parte deve limitarsi a fornire all’organo competente
una copia della sentenza e del certificato che attesti che la sentenza è
stata resa nell’ambito del procedimento europeo de quo.
CAPITOLO 6. GIURISDIZIONE E PROCESSO
1.Rapporto tra giurisdizione e processo
28
Giurisdizione e processo sono termini che spesso vengono confusi. Si
tratta di nozioni strettamente collegate, ma non coincidenti: il processo è
infatti il meccanismo, la modalità attraverso cui si attua la giurisdizione.
Il concetto di giurisdizione viene utilizzato con più significati: talora si
parla di giurisdizione nel senso del potere giurisdizionale, talvolta ci si
riferisce agli organi dotati di giurisdizione, talvolta viene in gioco la
funzione giurisdizionale, l’attività giurisdizionale propria degli organi. Il
concetto di giurisdizione che qui verrà sviluppato è quello di
giurisdizione come attività o come funzione: si tratta della funzione dello
Stato in cui si manifesta lo specifico potere di applicare la legge (c.d.
diritto obiettivo) al caso concreto per sancire gli effetti giuridici che ne
derivano sul piano soggettivo.
La funzione deve essere esercitata da organi appositi.
(Se la funzione giurisdizionale primaria è svolta dal giudice quale
organo essenziale dell’apparato giurisdizionale, accanto ad esso il
codice pone alcuni organi giurisdizionali minori a carattere
ausiliario.
I più importanti organi ausiliari del giudice civile sono il cancelliere
e l’ufficiale giudiziario.
Il cancelliere può considerarsi l’organo amministrativo di base
degli uffici giudiziari poiché esso riceve atti e documenti del
processo, provvede alla loro conservazione e alle certificazioni
necessarie. Il cancelliere svolge inoltre una specifica attività di
assistenza al giudice: negli atti di cui deve formarsi processo
verbale, questo è redatto dal cancelliere, così come è affidata al
cancelliere la redazione e la sottoscrizione dei provvedimenti del
giudice.
L’ufficiale giudiziario ha il compito di provvedere all’esecuzione
degli ordini del giudice. Questa funzione esecutiva caratterizza
l’ufficiale giudiziario al punto di renderlo l’organo principale del
procedimento di esecuzione forzata).
L’esercizio della funzione giurisdizionale deve essere svolto dal giudice
in una posizione di assoluta imparzialità e di soggezione
29
all’ordinamento: i processualisti parlano di “attuazione obiettiva
dell’ordinamento”. Il giudice è “la bocca della legge”, l’espressione
vivente dell’ordinamento colui che accerta i fatti, li riconduce alle norme
che li prevedono e ne fa discendere gli effetti giuridici previsti, senza
altro interesse che l’attuazione obiettiva dell’ordinamento stesso.
Infine l’esercizio della funzione giurisdizionale ha bisogno di estricarsi in
forme determinate. Ed è qui che viene in gioco la nozione di processo.
Quando parliamo di “processo”, parliamo della modalità in cui estrinseca
la giurisdizione, delle forme che assume in concreto l’esercizio della
funzione.
Il processo civile è quindi la forma tipica, il modo caratteristico
attraverso cui si estrinseca la giurisdizione civile.
Il processo giurisdizionale è lo svolgimento coordinato di una pluralità di
atti, tra loro connessi, attraverso cui si svolge la funzione giurisdizionale.
Questa funzione non si esaurisce in un singolo atto ma si caratterizza per
una attività complessa a struttura procedimentale” con un inizio, uno
svolgimento articolato e una conclusione. Si tratta di una attività che
coinvolge il giudice, i soggetti privati che controvertono, gli organi
ausiliari della giurisdizione, e si sviluppa nel tempo con un nesso di
consequenzialità logica e temporale tra l’atto introduttivo, gli atti
successivi d un atto finale.
Il processo è dunque un insieme coordinato di atti compiuti da vari
soggetti: alcuni atti provengono dalle parti, altri dal giudice. Gli atti delle
parti hanno varia struttura e funzione. Gli atti del giudice sono
prevalentemente atti a natura procedimentale (decreti, ordinanze,
sentenze) che regolano il corso del processo o decidono la controversia;
ma atto del giudice è anche, per es. l’assunzione di una testimonianza.
Altri atti della serie possono poi provenir da altri organi pubblici
appartenenti all’apparato giurisdizionale, ad esempio il PM.
Altri ancora da soggetti terzi, coinvolti a vario titolo nel processo,
differenti dai litiganti e dal giudice.
(Tra gli atti processuali, menzione particolare meritano quelli posti
in essere dal PM in qualità di attore o di interveniente nel processo.
Gli ARTT. 69 e 70 infatti distinguono rispettivamente le ipotesi in
30
cui il PM assume l’iniziativa processuale, esercitando l’azione civile,
o interviene nel processo da altri iniziato.
L’ART 69 non contiene una elencazione tassativa dei casi in cui il
PM deve esercitare l’azione, ma rinvia alle disposizioni di legge che
dispongono al riguardo. Tra le ipotesi più significative ricordiamo: l’istanza per la nomina del curatore della parte scomparsa; l’impugnazione del matrimonio; - la denuncia al tribunale di gravi
irregolarità di amministratori e sindaci.
Quanto invece alle ipotesi di intervento in causa del PM, l’’ART 70
distingue un intervento necessario da un intervento facoltativo.
In particolare, l’intervento è necessario, a pena di nullità e
rilevabile d’ufficio:
1. 1) nelle cause che egli stesso avrebbe potuto proporre ex
ART 69;
2. 2) nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione;
3. 3) nelle cause relative allo stato e capacità delle persone;
4. 4) negli altri casi previsti dalla legge
La partecipazione del PM è sempre necessaria nel giudizio di
Cassazione.
In ogni altra causa in cui il PM ravvisi un pubblico interesse,
l’intervengo è invece facoltativo.
I poteri processuali del PM attore e del PM interveniente necessario
nelle cause che egli stesso avrebbe potuto proporre sono
coincidenti: in entrambi i casi infatti egli ha tutti i poteri spettanti
alle parti del processo e li esercita nelle stesse forme.
Il PM interveniente necessario negli altri casi previsti dall’ART 70,
deve invece esercitare i suoi poteri, restando nell’ambito della
domanda e delle conclusioni formulate dalle parti private e non può
proporre impugnazioni, salvo che nelle cause matrimoniali diverse
da quelle di separazione personale dei coniugi.
La sentenza pronunciata nell’ambito di un processo al quale abbia
partecipato il PM, conforme a meno alle conclusioni da quest’ultimo
rassegnate, non acquista efficacia di giudicato i giudicato nei suoi
confronti, salvo che si tratti di sentenze che abbiano efficacia erga
omnes).
31
Nel suo aspetto procedimentale, il processo giurisdizionale quindi può
essere definito come una attività complessa, globalmente considerata nel
suo insieme e scandita nel tempo. La caratteristica principale del modulo
“procedimento è che esso si concreta in una struttura a catena degli atti
che sono coordinati tra loro in sequenza, sicché il vizio di un atto è
idoneo a riflettersi sugli atti successivi che ne dipendono”. Si suole
trovare conferma legislativa di questa raffigurazione in una norma del
codice che, sotto la rubrica “Estensione della nullità” prescrive : “La
nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti, né di quelli
successivi che ne sono indipendenti”.
In questa prescrizione si vede il principio del coordinamento
procedimentale tra atti: quando un atto è viziato, il vizio si trasmette
dall’atto considerato agli atti dipendenti da esso, ma non si trasmette agli
atti precedenti, e non comporta vizio neppure degli atti successivi che ne
sono indipendenti. Se ne ricava a contrario che tutti gli atti successivi che
dipendono dall’atto viziato sono colpiti anch’essi da vizio. (così se è nulla
la citazione introduttiva saranno nulli anche gli atti successivi del
processo. Ciò non vuol dire però che non potrà essere comunque sanata
la nullità).
Parlando di “processo giurisdizionale si individua un fenomeno in cui
agli elementi strutturali della concatenazione procedurale degli atti si
aggiungono alcune caratteristiche essenziali già incontrate come proprie
della giurisdizione:
a. a) Contraddittorio; b) Terzietà del giudice.
1.1.Giurisdizione contenziosa e giurisdizione volontaria
(La funzione giurisdizionale tipica finora considerata, cioè tutelare
i diritti soggettivi accertando il diritto obiettivo ai fatti, è detta più
specificatamente “giurisdizione contenziosa”: l’aggettivo indica che
al giudice si presenta una controversia tra due o più soggetti in
posizione contrapposta da decidersi con un accertamento inteso a
fare stato tra le parti. Accanto a tale forma di giurisdizione il codice
regola però un’attività collaterale del giudice intesa non a
comporre definitivamente la controversia, ma a curare piuttosto
32
affari o incombenze che la legge, in certi casi, ritiene opportuno
conferire ad un terzo estraneo, imparziale e provvisto di poteri
autoritativi. Si parla in tali casi di “giurisdizione volontaria”,
intendendosi con tale locuzione un’attività che vede il giudice più
amministrare che decidere in senso proprio.
Questo può avvenire o per la particolare qualità delle parti
coinvolte, o per la presenza di conflitti di interessi che rendono
inopportune iniziative unilaterali.
In tutti questi casi il giudice non esercita l’attività giurisdizionale
specificamente garantita dall’ART 24 e riservata all’apparato
giurisdizionale dall’ART 25 e dagli ARTT.101 SS. Cost. La
“giurisdizione volontaria” non è pertanto un’attività intesa alla
tutela giurisdizionale dei diritti in senso proprio, ma piuttosto
un’attività di qualificata amministrazione affidata all’apparato
giurisdizionale, per ragioni di opportunità e tradizione storica.
A tale attività il codice di rito dedica i Titoli dal II al IV del quarto
libro, ancorché in modo abbastanza disordinato. Da un lato esso
regola distintamente alcuni procedimenti (separazione,
inabilitazione, interdizione, ecc.), dall’altro detta poche regole
comuni ai “procedimenti in camera di consiglio”, dove per “camera
di consiglio” si intende la particolare conformazione della
procedura che esclude la forma della pubblica udienza .
Caratteristiche peculiari di tali procedimenti sono:
• la collegialità del giudice;
• la forma del ricorso imposta di decreto imposta alla
domanda;
• la decisione in forma di decreto motivato;
• le limitate formalità della procedura;
• le sostanziale revocabilità dei provvedimenti
2.La tutela privata: l’arbitrato
Si è accennato che il diritto, costituzionalmente garantito, alla tutela
giurisdizionale davanti agli apparati pubblici della giurisdizione non
impedisce che le parti possano, di comune accordo, rivolgersi a soggetti
33
privati di loro fiducia per sottoporre ad essi la decisione di proprie
controversie in luogo degli organi pubblici della giurisdizione.
Il Titolo VIII del IV libro del codice regola l’istituto dell’arbitrato.
(L’arbitrato è un mezzo per far decidere da soggetti privati
controversie insorte o insorgente tra le parti. Allo scopo
l’autonomia privata ha a disposizione un negozio detto dalla legge
“convenzione di arbitrato” attraverso cui le parti si accordano per
rinunciare all’intervento per rinunciare all’intervento degli organi
della giurisdizione a favore della decisione privata della
controversia.
Gli arbitri pertanto conoscono, in veste di giudici privati, delle
controversie a loro deferite e ne decidono con una pronuncia che
conclude un procedimento modellato sulla struttura del processo
giurisdizionale. Il deferimento del giudizio sui diritti ed obblighi
delle parti non implica in ogni caso l’attribuzione agli arbitri dei
poteri autoritativi inerenti alle funzioni giurisdizionali, cosa che
esorbiterebbe dall’autonomia privata.
Salvo espresso divieto di legge, sono “compromettibili in arbitri£ le
controversie che abbiano per oggetto diritti disponibili; le
controversie di cui all’ART 409 (lavoro subordinato) possono
peraltro essere decise da arbitri solo se ciò sia previsto dalla legge
o nei contratti o accordi collettivi di lavoro.
Poiché l’arbitrato ha la sua radice e la sua ragione nella concorde
volontà delle parti (autonomia privata), si ritiene che contrastino
con la garanzia del diritto di azione dell’ART 24 le ipotesi di c.d.
“arbitrato obbligatorio”).
Gli arbitri sono legati alle parti da un contratto di mandato. La natura del
loro ufficio è quella di qualificati mandatari, ed è intrinsecamente di
diritto privato, sicché si comprende perché la legge specifica che agli
arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un
pubblico servizio. Gli arbitri possono essere uno o più, purché in numero
dispari. In linea di massima gli arbitri sono nominati dagli stessi soggetti
34
compromittenti, ma la legge o la stessa volontà delle parti può attribuire
il potere di nomina a terzi soggetti.
Il Capo IV del titolo VIII reca l’intestazione “del lodo” e si occupa della
decisione della controversia compromessa in arbitri e sottoposta a
procedimento arbitrale. Esso può essere deciso secondo diritti o secondo
equità. La regola è che gli arbitri debbono seguire ed applicare le norme
di diritto, salvo che le parti abbiano disposto con qualsiasi espressione
che essi pronuncino secondo equità
Il lodo è una decisione proveniente da soggetti privati, cioè di per sé un
atto privato, ma la legge gli conferisce “gli effetti della sentenza
pronunciata dall’autorità giudiziaria”. Il lodo può essere depositato in
tribunale, ma l’efficacia di sentenza è indipendente da tale deposito,
poiché essa gli è riconosciuta “dalla data della sua ultima sottoscrizione”.
Il deposito adempie infatti alla funzione ulteriore di rendere eseguibile il
lodo nel territorio della Repubblica. Il codice consente di impugnare il
lodo con i mezzi dell’azione di nullità, nonché della revocazione e
dell’opposizione di terzo; le impugnazioni si proprongo agli organi della
giurisdizione pubblica, individuati nella CDA nel cui distretto è la sede
dell’arbitrato.
(Accanto all’arbitrato fin qui descritto, quello rituale, si accosta
quello irrituale, regolato dall’ART 808 TER, il quale prevede infatti
la possibilità che le parti stipulino una convenzione di arbitrato che
preveda, in deroga alla norma per cui il lodo ha l’efficacia della
sentenza giudiziaria, che la controversia sia definita dagli arbitri,
mediante determinazione contrattuale. Ai compromittenti viene
quindi riconosciuti il diritto di escluder che al lodo conseguano “gli
effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”, purché
essi esprimano tale volontà in modo certo ed in forma scritta. La
legge riserva a tale modalità di arbitrato il nome di arbitrato
irrituale, per distinguerlo dall’arbitrato c.d. rituale, caratterizzato
dal fatto di sfociare in una decisione avente effetti di sentenza. In
realtà il lodo pronunciato all’esito di un aribtrato irrituale
configura pur sempre la decisione di una controversia, ma le parti
accettano che essa si mantenga sul piano di una decisione privata e
35
che resti stabilmente tale, senza possiblità di ottenerne il
riconoscimento e l’esecutività.
Al lodo contrattuale non si applica infatti l’ART 825.
3.La giurisdizione italiana
Quali soggetti possono usufruire della giurisdizione italiana? E nei
confronti di quali essa si esercita? La risposta a queste domande si trova
oggi nella legge regolatrice del diritto internazionale privato e
processuale (L.218/1995), legge che ha modificato il m odo di intendere
il rapporto tra apparato giurisdizionale e soggezione alla giurisdizione.
Nella concezione originaria del codice la giurisdizione era una
prerogativa assoluta della sovranità nazionale fondata sulla netta
distinzione tra cittadino e straniero. La giurisdizione italiana era un
potere che si esercitava naturalmente sul cittadino, e che raggiungeva lo
straniero solamente a determinate condizioni (es. territorialità).
Essa era una giurisdizione che, in linea di principio, a) non riconosceva
rilevanza alla pendenza di un processo di fronte ad un giudice straniero;
b) non riconosceva automaticamente effetti alla sentenza del giudice
straniero; c) era condizionata dal c.d. principio di reciprocità.
La L.218/1995 ha abrogato gli ARTT.2,3,4 c.p.c., stabilendo in loro vece
una serie di criteri antinomici rispetto a quelli precedentemente in
vigore, e rovesciando così l’impostazione tradizionale: ai fini della
determinazione della giurisdizione è venuta meno la distinzione basilare
tra cittadino italiano e cittadino straniero. Il criterio generale della
“competenza giurisdizionale”, oggi è il domicilio e non più la
cittadinanza: la domiciliazione in Italia rende automaticamente lo
straniero soggetto alla giurisdizione italiana.
Questo importante principio è enunciato dall’ART 3 della legge suddetta,
il quale afferma :”La giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è
domiciliato o residente in Italia, o vi è un rappresentante autorizzato a
stare in giudizio ai senso dell’ART 77 c.p.c.”
Su questa strada la legge suddetta dà una valutazione di sostanziale
equivalenza tra la sentenza italiana e quella straniera: fino all’avvento
della legge, la sentenza straniera di per sé non aveva effetti
36
nell’ordinamento italiano, e per poter avere effetti quale atto
giurisdizionale necessitava di un apposito procedimento, la c.d.
delibazione (recezione della sentenza nell’ordinamento dopo una
operazione di controllo). In linea di principio, lo Stato non riconosceva
valore di sentenza del giudice straniero, salvo che non fosse recepita
dalla propria giurisdizione, che la faceva sua, la trasformava in un
procedimento interno attraverso un giudizio apposito c.d. “delibazione”.
La legge stessa ha, come regola, abolito la necessità della delibazione
della sentenza straniera ai fini del riconoscimento dei suoi effetti
giurisdizionali: essa ha conservato la procedura di delibazione solo a
certi fini (es. esecuzione forzata), ma, in linea di massima, la sentenza
straniera viene riconosciuta quale atto giurisdizionale regolante i
rapporti tra le parti come la sentenza italiana, cioè come fosse stata
prodotta dalla giurisdizione italiana .
Altra innovazione proveniente dall’introduzione della legge, è la c.d.
litispendenza internazionale. Non solo la sentenza proveniente dal
giudice straniero è valido ed efficace nell’ordinamento italiano, ma è
pienamente riconosciuta anche la pendenza del processo di fronte al
giudice straniero: la giurisdizione italiana attribuisce così la rilevanza
dell’esercizio della giurisdizione straniera. Questo significa che se una
domanda, coinvolgente determinate parti su un determinato oggetto, ha
dato vita ad un processo di fronte ad un giudice straniero, e tale processo
attualmente “pende”, non può darsi vita ad un simmetrico processo di
fronte al giudice italiano.
3.1.L’ART 5 del Codice
La giurisdizione si determina “con riguardo alla legge vigente e allo stato
di fatto esistente al momento della proposizione della domanda”. Sia
rispetto alla giurisdizione, sia rispetto alla competenza non hanno quindi
rilevanza “i successivi mutamenti della legge e dello stato medesimo”:
così dispone l’ART 5 che fissa il principio per cui, dopo la proposizione
della domanda, ai fini della competenza e della giurisdizione, non rileva
né l’eventuale modificazione delle relative regole né l’eventuale
37
verificarsi di fatti che avrebbero reso incompetente o privo di
giurisdizione il giudice adito.
Il principio della “perpetuatio jurisdictionis” viene tuttavia
rigorosamente applicato solo in una direzione, cioè rispetto ai fattori
sopravvenuti che sottrarrebbero al giudice la giurisdizione di cui egli era
originariamente dotato. Si ritiene quindi che l’irrilevanza dei mutamenti
successivi alla proposizione della domanda operi esclusivamente nel
caso in cui il sopravvenuto mutamento dello stato di fatto o di diritto
privi il giudice della giurisdizione che egli aveva quando la domanda è
stata introdotta, non già nel caso inverso, in cui esso operi in positivo,
cioè comporti l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era
inizialmente privo.
Un effetto attributivo della giurisdizione italiana originariamente
insussistente, è peraltro espressamente prescritto dall’ART 8 L.
218/1995, che radica la giurisdizione nazionale qualora, in pendenza di
processo davanti ad una autorità giurisdizionale italiana priva di
giurisdizione in base alla domanda, sopravvengano fatti o norme
attributivi della giurisdizione.
3.2.L’eccezione di difetto di giurisdizione
Secondo il testo ART 37, l’eccezione di carenza di giurisdizione del
giudice adito può essere sollevata, anche d’ufficio, in qualunque stato e
grado di giudizio, limitatamente alla carenza della giurisdizione nei
confronti della PA o dei giudici speciali.
(Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti di altri
ordini di giudici, può considerarsi un limite interno alla funzione
giurisdizionale, funzione ripartita appunto tra giudice ordinario e
più classi di giudici speciali.
Il difetto di giurisdizione nei confronti della PA va considerato
quale limite esterno alla giurisdizione; esso ha luogo, quando un
dato provvedimento, che si chiede al giudice di rendere, è riservato
all’attività amministrativa, quindi, riaspetto ad essa, l’intervento
dell’autorità giudiziaria si risolverebbe in una ingerenza di poteri.
38
Si tratta di un limite di attribuzione che, per es. si verifica allorché
si domandi al giudice di sostituirsi all’amministrazione
nell’emettere provvedimento amministrativi, o di sindacare atti di
natura politica).
Il difetto di giurisdizione nei confronti di giudici stranieri può essere
invece rilevato, in qualunque stato e grado, “soltanto dal convenuto
costituito che non abbia espressamente o tacitamente accettato la
giurisdizione italiana”. In questo senso dispone l’ART 11 della legge
suddetta, che consente la rilevazione d’ufficio se:
A. A) il convenuto è contumace;
B. B) se si tratti di azione reale avente ad oggetto beni immobili
situati all’estero;
C. C) se la giurisdizione italiana sia esclusa per effetto di norma
internazionale.
4.Il regolamento di giurisdizione su istanza di parte
“Finché la causa non sia deciso nel merito del primo grado” L’ART 41
consente a ciascuna delle parti di chiedere alle sezioni unite della Corte
di Cassazione che risolvano in via definitiva le questioni di giurisdizione
emerse nel giudizio.
Si tratta dell’istituto del regolamento di giurisdizione, mezzo di
risoluzione preventiva delle questioni di giurisdizione, a differenza del
regolamento di competenza, che è una vera e propria impugnazione di
pronunce sulla competenza.
L’espressione “finché la causa non sia decisa nel merito nel merito in
primo grado” dell’ART 41 c.1, va interpretata nel senso che il
regolamento di giurisdizione può essere richiesto dalla parte finché non
sia intervenuta qualsiasi decisioni sulla causa in sede di merito; è
pertanto inammissibile il ricorso per regolamento chiesto dopo la
sentenza di primo grado che abbia provveduto sulla giurisdizione.
(Attenzione! L’esclusione del potere dell’attore di rilevare il difetto
di giurisdizione non significa che l’attore non possa proporre egli
39
stesso ricorso per regolamento! Una cosa infatti è introdurre la
questione in giudizio, un’altra è chiedere alla Cassazione di
decidere di una questione già sollevata).
La decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della
domanda e, “quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni
sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda” (ART
386). La decisione sulla giurisdizione è quindi resa sempre “in ipotesi”,
cioè sulla mera possibilità che, al termine del processo, il giudice accerti
positivamente che il diritto invocato sussista realmente: essa viene
quindi valuta sulla prospettazione compiuta dall’attore.
L’istanza di regolamento si propone con ricorso rivolto alla Cassazione a
norma degli ARTT 364 SS, e produce gli effetti dell’ART 367. Il comma 1
del 367 prevede che, proposto ricorso per regolamento di giurisdizione,
il giudice davanti a cui pende la causa, con ordinanza “sospende il
processo se non ritiene l’istanza manifestatamente inammissibile o la
contestazione della giurisdizione manifestatamente infondata”.
La Corte decide del regolamento con la modalità della “camera di
consiglio”; il provvedimento (dato in forma di ordinanza) determina,
quando occorre, quale giudice è munito di giurisdizione sulla causa. Se le
sezioni unite della Cassazione dichiarano la giurisdizione del giudice
ordinario, le parti debbono riassumere il processo entro il termine
perentorio di 6 mesi dalla comunicazione della sentenza. (NOTA: anche
se la norma parla di sentenza, si tratta di un’ordinanza, come detto).
(L’espressione “quando occorre” adoperata dall’ART 382 c.1
significa che la determinazione del giudice provvisto di
giurisdizione è subordinata all’effettivo riscontro di un giudice che
può concretamente pronunciare sulla domanda. Ciò non avviene in
ipotesi di carenza c.d. assoluta di giurisdizione nei confronti della
PA, vale a dire quando la domanda ha ad oggetto un effetto
giuridico la cui produzione è riservata alla funzione
amministrativa).
40
5.Sentenza declinatoria di giurisdizione, translatio judicii e
regolamento di giurisdizione d’ufficio
L’ART 59 della L.69/2009 regola la possibilità della continuazione del
processo dinanzi al giudice indicato come provvisto di giurisdizione a
seguito della sentenza con cui il giudice nazionale abbia declinato la
propria giurisdizione. In tale sentenza il giudice deve indicare il giudice
munito di giurisdizione sulla controversia sopposta a giudizio.
Se entro tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia declaratoria
di giurisdizione la domanda è riproposta al giudice in essa indicato, si ha
una sorta si continuazione del processo davanti al giudice: il secondo
comma dell’ART 59 della legge suddetta, specifica che “sono fatti salvi gli
effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il
giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin
dall’instaurazione del primo giudizio.
L’inosservanza del termine trimestrale per la riassunzione del giudizio
impedisce che il processo possa proseguire davanti al nuovo giudice.
Tale estinzione, che è dichiarata anche d’ufficio, “impedisce la
conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda”.
La riproposizione della domanda nei termini davanti al giudice indicato,
vincola le parti ma non il giudice che può sempre sollevare d’ufficio, con
ordinanza, il regolamento di giurisdizione davanti alle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione. Tale regolamento è proponibile “fino alla prima
udienza fissata per il trattamento del merito”; malgrado la norma
prosegua mantenendo “ferme le disposizioni sul regolamento preventivo
di giurisdizione”, è ragionevole ritenere che, in questo caso, il giudice sia
tenuto comunque a sospendere il processo, provenendo l’istanza di
regolamento dall’ufficio stesso e non dalla parte. Naturalmente
proposizione del regolamento d’ufficio è subordinata alla circostanza che
non si sia già avuta una pronuncia sulla giurisdizione proveniente dalla
Cassazione. La presenza di una tale pronuncia si imporrebbe ovviamente
a tutti i giudici dell’ordinamento italiano e chiuderebbe definitivamente
la questione di giurisdizione.
La domanda al giudice indicato come provvisto di giurisdizione si
propone nelle forme e nei modi previsti per il giudizio davanti a
41
quest’ultimo in relazione al rito applicabile. In ogni caso le prove raccolte
davanti al giudice privo di giurisdizione potranno essere valutate dal
giudice davanti a cui continua il giudizio alla stregua di “argomenti di
prova”.
CAPITOLO 7. L’ATTO PROCESSUALE
1.L’atto processuale: validità ed efficacia
Gli atti di cui si compone il processo, c.d. atti processuali, hanno
naturalmente una loro forma. In linea di principio essi “possono essere
compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo”.
Così l’ART 121 che, però, specifica che la “libertà di forme” vale solo per
gli atti “per i quali la legge non richiede forme determinate”. Spesso,
infatti, per esigenze di ordine e certezza, la legge predispone il modello
astratto dell’atto descrivendo i requisiti formali che l’atto deve
presentare.
L’atto per cui è prescritta una data forma (atto a “forma vincolata”) è
però viziato, cioè nullo nella terminologia del codice, solo se manca dei
requisiti formali legali (NOTA: si intendono i requisiti in senso stretto:
mezzo d’espressione, presenza p specificazione nell’atto di alcuni
requisiti come i luoghi e i nomi, tipologia di richiesta, ecc.)
specificatamente imposti dalla legge a pena di nullità. Secondo l’ART 156
c.1 “non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di
alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge”, il che
significa che non tutte le difformità dalla forma legale producono nullità,
in quanto la legge si limita spesso a tipizzare l’atto attraverso la
descrizione di elementi formali ma senza far discendere alcuna sanzione
42
dalla loro mancanza o imperfezione. Per esempio l’atto “sentenza” deve
contenere l’indicazione che essa “è pronunciata in nome del popolo
italiano” e deve recare “l’intestazione Repubblica italiana”.
1.1.Impossibilità di raggiungere lo scopo
Un atto può però incorrere in nullità, malgrado la propria completezza
formale, per la sua inidoneità a raggiungere il proprio scopo: l’atto ‘
infatti nullo quando esso “manca dei requisiti formali indispensabili per
il raggiungimento dello scopo”. Quale sia lo scopo dell’atto non è sempre
facile da determinare in concreto, ma va sicuramente escluso che si tratti
del fine soggettivo perseguito dall’autore dell’atto; a rilevare è piuttosto
lo scopo oggettivo, cioè l’evento a cui il compimento dell’atto mira nella
logica dell’ordinamento.
1.2.Sanatoria per conseguimento dello scopo
La nozione di “scopo dell’atto” rileva anche sotto un altro profilo:
secondo l’ART 156 c.3, la nullità “non può essere mai pronunciata, se
l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”. Il “raggiungimento dello
scopo” agisce quindi come sanatoria della nullità.
Anche qui ci si chiede che significa che l’atto, astrattamente nullo, ha
“raggiunto il suo scopo”. Si è appena detto che lo scopo non è il motivo
soggettivo ma l’evento per il quale l’ordinamento predispone il
compimento dell’atto. Si deve trattare di un evento obiettivamente
valutabile quale atto della serie processuale: così, per es. la nullità della
notificazione della citazione è sanata dalla costituzione in giudizio della
parte destinataria dell’atto medesimo. Ottenere che la controparte possa
difendersi tramite la costituzione in giudizio è appunto lo scopo della
notifica della citazione. Viceversa, non si può considerare
“raggiungimento dello scopo” l’eventuale prova che, pur non essendosi
costituito in giudizio, il destinatario della notifica della citazione aveva
comunque avuto conoscenza dell’atto di citazione: a rilevare infatti non è
il mero stato psicologico del destinatario della notifica, ma l’avere egli
43
compiuto volontariamente l’atto contemplato dalla legge come atto
successivo nella serie processuale, appunto la costituzione in giudizio.
1.3.Sanatoria per preclusione della rilevabilità del vizio
Oltre che per il conseguimento dello scopo, sanatoria può aversi per
mancata o tardiva rilevazione del vizio. Ciò si spiega osservando che la
nullità nel diritto processuale è caratterizzata dal fatto che l’atto invalido
è (almeno di norma) pur sempre un atto efficace: esso è idoneo, cioè, a
produrre effetti finché la nullità non sia dichiarata. Per ottenere la
rimozione degli effetti occorre quindi far valere l’invalidità: la nullità va
cioè “rilevata” e la sua mancata rilevazione impedisce di rilevarla in
seguito producendo così una sorta di regolarizzazione del procedimento.
In particolare, l’ART 157 stabilisce che:
a. a) la nullità della norma dell’ART 156 non può essere
pronunciata senza istanza (c.d. nullità relativa) di parte a meno che
la legge non disponga che essa sia pronunciata d’ufficio (nullità
assoluta);
b. b) nel caso di nullità relativa, solo la parte nel cui interesse è
stabilito un requisito può opporre la nullità dell’atto per la
mancanza del requisito stesso, ma essa deve farlo nella prima
istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso;
c. c) la nullità relativa non può essere opposta dalla parte che vi ha
dato causa, né da quella che vi ha rinunciato anche tacitamente.
(Si danno peraltro casi in cui non è possibile parlare nemmeno di
una efficacia transitoria dell’atto nullo perché nella specie in vizio è
totalmente grave. Si tratta dei casi in cui l’atto non possiede
neppure quei requisiti minimi che consentirebbero di riportarlo
alla sua fattispecie legale. In tali ipotesi si parla di inesistenza
dell’atto e si esclude che si possa comunque avere sanatoria del
vizio).
1.4.Rinnovazione dell’atto nullo
44
Al pregiudizio derivante dalla nullità può talora porsi rimedio attraverso
il meccanismo della rinnovazione dell’atto. Così la parte che ha compiuto
un atto nullo, può rinnovarlo a condizione che non siano nel frattempo
intervenute preclusioni o decadenze. Quanto al giudice, nel pronunciare
la nullità egli “deve disporre, quando sia possibile, la rinnovazione degli
atti ai quali la nullità si estende” (ART 162). La norma non dice qual è
l’ostacolo che può impedire la rinnovazione.
Quanto agli effetti dell’atto rinnovato, in linea di principio, essi varranno
ex tunc, retroagiranno quindi al momento del compimento dell’atto nullo
per un effetto di sostituzione di tale atto da parte del nuovo.
1.5.Conversione dell’atto nullo
Un atto nullo può peraltro risultare utilmente compiuto per il
meccanismo della c.d. “conversione” legale.
Per capire la conversione bisogna tenere conto del c.d. “principio di
conservazione” dell’atto, cioè della regola tendenziale per cui, nei limiti
del possibile, è preferibile che l’atto produca effetti piuttosto che non ne
produca affatto. In tal senso non solo depone la regola, sopra vista, della
sanatoria per raggiungimento dello scopo, ma parimenti la disposizione
dell’ART 159 per cui: “La nullità di una parte dell’atto non colpisce le
altre parti che ne sono indipendenti”.
Del principio di conservazione è massima espressione il fenomeno della
conversione dell’atto nullo: “Se il vizio impedisce n determinato effetto,
l’atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali è idoneo” (ART 159).
Qui non si ha a che fare con la sanatoria di un vizio: il vizio resta tale e
l’atto non è in grado di produrre i suoi effetti tipici, ma esso produce
comunque gli effetti (utili) di un altro atto di cui possiede le
caratteristiche formali.
1.6.Nullità formale e nullità extraformale
Oltre che derivare da un vizio di forma in senso stretto, la nullità dell’atto
può derivare anche dalla mancanza di un suo presupposto, di un
qualcosa cioè esterno all’atto stesso, ma indispensabile per la sua
45
validità. Si è già visto che l’ART 159, regolando la c.d. “estensione della
nullità” e mettendo in luce la natura procedimentale del sistema degli
atti processuali, sancisce il principio della riflessione del vizio di un atto
sugli atti successivi dipendenti. Nasce qui la distinzione tra c.d. “nullità
formale” e “nullità extraformale”: quest’ultima è la “nullità dipendente”,
cioè la nullità dell’atto in sé formalmente perfetto e tuttavia dipendente
da un precedente atto della serie a sua volta affetto da nullità,
ovviamente non sanata.
L’importanta della distinzione sta non solo nella differenza delle regole
di rilevabilità della nullità extraformale rispetto alla nullità formale, ma
anche nella particolare incidenza sulla disciplina processuale della
mancanza dei c.d. “presupposti processuali” della domanda.
Un tipo particolare di invalidità extraformale dell’atto processuale è
quello dell’atto compiuto al di fuori del termine perentorio prescritto per
il suo compimento.
1.7.Nullità della sentenza
La sentenza può essere nulla per presenza di un vizio proprio, ovvero
“per derivazione”, cioè per proiezione su di essa di precedenti vizi del
procedimento non sanati.
I vizi propri della sentenza possono riguardare tanto l’atto-documento in
sé considerato, quanto la fase di formazione dell’atto.
Vizio riflesso della sentenza può essere, per es. una nullità della citazione
non sanata.
In ogni caso, la rilevabilità del vizio è disciplinata dall’ART 161 c.1
secondo cui: “La nullità delle sentenza soggette ad appello o a ricorso per
Cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole
proprie di questi mezzi di impugnazione”:
La norma ha un’importanza enorme. Essa sancisce il c.d. principio della
“conversione della nullità in motivo di gravarne”, e significa che, se non è
fatta valere con il mezzo di impugnazione previsto dalla legge contro il
46
tipo di sentenza considerato, la nullità non può farsi valere in altro modo
e per altra strada.
Essa quindi si sana irrimediabilmente. La sanatoria può quindi prodursi
quando la sentenza è stata ritualmente impugnata, ma la nullità non ha
formato motivo specifico di impugnazione sia quando la sentenza non è
affatto impugnata nei termini prescritti dalla legge con suo conseguente
passaggio in giudicato.
Il principio della “conversione della nullità in motivo di gravarne” riceve
però una considerevole eccezione dal c.2 ART 161, che stabilisce che la
regola del primo comma “non si applica quando la sentenza manca della
sottoscrizione del giudice”. Questo vizio determina un tipo di nullità
assoluta, così forte da essere insanabile, cioè da rendere inapplicabile la
regola per cui la nullità perde rilevo se non è ritualmente dedotta quale
motivo di impugnazione. Anche in caso di formale passaggio in giudicato
della sentenza non si ha sanatoria, e la nullità continuerà a potersi far
valere con altri mezzi.
La previsione di una nullità così resistente ha portato a parlare di
inesistenza della sentenza, ed ha spinto gli interpreti a considerare la
mancata sottoscrizione della sentenza come una sorta di “punta
dell’iceberg”, a vederla cioè non quale previsione tassativa, ma
esemplificativa di possibili figure di inesistenza, alle quali tutte non si
applica la fisiologica sanabilità prescritta dal c.1 ART 161. La casistica
giurisprudenziale è varia in proposito: sono state considerate affette da
nullità/inesistenza, per esempio, la sentenza che pronuncia nei confronti
di parte inesistente, la sentenza totalmente priva della motivazione; la
pronuncia proveniente da collegio giudicante diverso da quello dinanzi
al quale si è svolta la discussione.
2. I termini processuali
Oltre alla forma in senso stretto, il codice regola anche il tempo degli atti
processuali, cioè il momento in cui essi debbono compiersi: il processo si
svolge e sviluppa cronologicamente, e il suo tempo è scandito e regolato
dalla legge processuale tramite il meccanismo dei termini processuali.
47
“I termini per il compimento degli atti del processo sono stabiliti dalla
legge”. (ART 152). Essi però possono anche essere stabiliti dal giudice a
pena di decadenza se la legge lo permette espressamente. Il codice fa
largo uso di queste autorizzazioni al giudice di stabilire termini egli
stesso. (ART 175).
2.1.Termini ordinatori e termini perentori
Taluni termini sono stabiliti a pena di decadenza: una volta scaduti, si
estingue il potere di compiere l’atto processuale; in altre casi, se anche
l’atto non viene compiuto entro il termine, la parte non decade dal
potere di compierlo. I termini della prima categoria sono detti perentori;
quelli della seconda sono detti ordinatori.
“I termini stabili dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge li
dichiari espressamente perentori” (ART 152 c.2). Se quindi, un dato
termine non è qualificato espressamente dalla legge come perentorio,
dobbiamo considerarlo come ordinatorio.
I termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno
su accordo delle parti, laddove il giudice, prima della scadenza, può
abbreviare o prorogare, anche d’ufficio, il termine ordinatorio (ART
154).
2.2.Il calcolo del termine
Quali sono le unità di calcolo del termine? L’unità più frequente è il
giorno, inteso come giorno solare.
Quanto alle modalità del conteggio, va premesso che elementi costitutivi
del termine sono il momento iniziale e il momento finale: il termine è
infatti un lasso di tempo racchiuso tra un momento iniziale, chiamato
anche dies a quo, e un momento finale, chiamato dies dies ad quem.
L’ART 155 c.1 prescrive: “Nel computo dei termini a giorni o ad ore, si
escludono il giorno e l’ora iniziali”. Si tratta dell’antica regola “dies a quo
48
non computatur in termino” (il giorno iniziale non si conta, cioè il primo
giorno del conteggio è il successivo). Per converso, si computa il giorno
finale (dies ad quem computatur in termino).
Il c.2 ART 155 aggiunge che “per il computo dei termini mesi o ad anni si
osserva il calendario comune”. Questo significa che se il termine è
indicato in “due mesi”, tradotto in giorni esso non consterà di sessanta
giorni: quando il termine è dato in mesi esso si calcola per blocchi di
mesi e non per giorni, quindi un termine di due mesi coinciderà con
sessantuno, o sessantadue, o cinquantanove giorni, a seconda del mese.
Per converso, se si ha a che gare con un termine di sessanta giorni, che
ad esempio, si cominciano a calcolare dal 20 Marzo, il termine finale non
sarà il 20 Maggio, ma il 19 Maggio, in quanto il 20 Maggio è il
sessantunesimo giorno.
“I giorni festivi si computano nel termine, ma se il giorno di scadenza è
estivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non
festivo”.
Talvolta però il termine non si conta “in avanti”. Questo accade quando la
sua scadenza non è fissata in giorni (anni o mesi) successivi rispetto ad
un dato momento, ma è fissata a partire da eventi successivi alla sua
scadenza. Tipico in tal senso è il termine per la costituzione del
convenuto: “Il convenuto deve costituirsi almeno venti giorni prima
dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione” (ART 166). Qui
il termine di costituzione non è determinato entro “tot” giorni da un
evento precedente, in quanto la costituzione deve avvenire non oltre un
dato giorno anteriore al punto di riferimento temporale considerato. Per
es: data d’udienza è il 31 Maggio; il convenuto deve costituirsi almeno
venti giorni prima del 31 Maggio. SI pone il problema di come si
calcolano questi venti giorni: qual è il dies a quo e qual è il dies a quem?
La risposta è che il dies a quo è il 31 Maggio, cioè la data di riferimento
finale, il che vuol dire che il termine si calcola a ritroso; in qualità di dies
a quo, il 31 Maggio non deve entrare nel calcolo: primo giorno del
computo sarà il 30 Maggio; procedendo all’indietro, i venti giorni
scadranno l’11 Maggio, sicché questo sarà l’ultimo giorno utile per il
convenuto per il rispetto del termine di costituzione.
49
2.3.Termini acceleratori e termini dilatatori
Ai termini acceleratori si contrappone la diversa categoria dei termini
dilatatori. Il termine è dilatatorio quando la legge vuole impedire che
l’atto possa aversi prima di una certa data. Il termine dilatatorio è una
sorta di tempo minimo incomprimibile, concesso per il compimento di
un atto, a tutela del diritto di difesa. Così, per esempio, l’ART 163-BIS
stabilisce che tra il giorno della notificazione della citazione e quello
dell’udienza di comparizione “debbono intercorrere termini liberi non
minori di 90 giorni”. L’attore è libero così di fissare la data dell’udienza,
per es. di 100 giorni, ma non a dieci giorni né 89.
2.4.Termine libero
Ma che significa “termini liberi non minori di novanta giorni”? Un
termine si dice libero quando non solo si esclude dal computo il solo
giorno iniziale, ma se ne esclude anche il giorno finale. Questo
spostamento all’esterno del dies ad quem produce una dilatazione del
periodo considerato che acquista un giorno in più, sicché i termini liberi
risultano più lunghi dei termini ordinari: non solo so comincia a contare
dal giorno successivo al dies a quo, ma nel conteggio va incluso il giorno
finitimo al dies ad quem.
Si produce così una dilatazione del lasso di tempo considerato.
(Attenzione! La dilatazione connessa al termine libero produce
però un effetto di restringimento del tempo a disposizione per la
parte onerata del compimento dell’atto entro termini computati a
ritroso. Se, per esempio, un atto di parte va compiuto almeno 3
giorni prima di un venerdì, il periodo a disposizione della parte non
scadrà il martedì, ma il lunedì: i tre giorni lasciano appunto “libero”
il martedì).
Il termine si considera libero se la legge lo ha definito come tale.
2.5.La sospensione feriale dei termini
50
Occorre infine accennare alla c.d. sospensione feriale dei termini,
sospensione che va dal 1/8 al 15/9. Il decorso dei termini processuali
relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative, è sospeso
di diritto dai giorni sopra detto e riprende a decorrere dalla fine del
periodo di sospensione. In questo periodo, è sospeso il compimento degli
atti giudiziari con correlata sospensione del decorso dei termini
eventualmente correnti; i termini riprendono effettivamente a decorrere
dal 16/9: il periodo morto è di quarantasei giorni, considerato che
Agosto ha trentuno giorni.
Naturalmente, ove il decorso stesso del termine abbia inizio durante il
periodo di sospensione, l’inizio è differito alla fine di detto periodo.
In materia civile questa disciplina non si applica alle cause ed ai
procedimenti indicati nell’ART 92, vale a dire:
a. a) cause relative ad alimenti, amministr. di sostegno,
interdizione, inabilitazione, ordini di protezione contro abusi
familiari;
b. b) procedimenti cautelari;
c. c) procedimenti di sfratto;
d. d) procedimento di opposizione all’esecuzione;
e. e) procedimento per dichiarazione e revoca dei fallimenti.
La sospensione non si applica neppure alle materie del lavoro e della
previdenza sociale, materie trattate nelle forme processuali del rito del
lavoro. Sospensione feriale che si applica invece alle controversie
trattate con il rito del lavoro, le quali non hanno oggetto però la materia
del lavoro, esempio locazione di immobili urbani.
La sospensione non si applica, in genere, alle cause rispetto alle quali la
ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti. In
quest’ultimo caso, aggiunge l’ART 92 T.U. ORD.GIUD., la dichiarazione di
urgenza “ è fatta dal presidente in calce o al ricorso, con decreto non
impugnabile, e per le cause già iniziate, con provvedimento del giudice
istruttore o del collegio, egualmente non impugnabile“.
CAPITOLO 8. CAPACITA’ E RAPPRESENTANZA PROCESSUALE
51
1.La capacità processuale
Come per gli atti di diritto sostanziale, anche per compiere gli atti di
diritto processuale le parti debbono possedere requisiti di capacità.
La capacità di essere parte è l’attitudine ad essere destinatari degli effetti
del processo; si tratta di una capacità di ordine generale che corrisponde
alla capacità giuridica, requisito che è proprio di tutti i soggetti
dell’ordinamento, in linea di massima. Per le entità impersonali il
discorso non cambia: non solo le persone giuridiche in senso proprio, ma
anche le entità prive di personalità giuridica hanno una capacità di
imputazione degli effetti processuali.
La capacità di stare in giudizio (NOTA: ci si riferisce sia alla capacità di
agire legata all’iniziativa di far valere un diritto, sia alla capacità di agire
per difendersi nei confronti di chi fa valere un diritto. Non si deve
confondere la capacità di agire in senso stretto, cioè di iniziare il
processo, che è quella dell’attore, con la capacità di agire come capacità
di compiere gli atti del processo, che è comune tanto all’attore quanto al
convenuto) corrisponde invece alla capacità d’agire. Se tutti (o quasi)
hanno capacità giuridica, non tutti hanno capacità di agire, in quanto non
tutti hanno la capacità di compiere atti produttivi di effetti
giuridicamente rilevanti.
Secondo l’ART 75: “Sono capaci di stare in giudizio, le persone che hanno
il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere”, cioè le persone con
capacità di agire.
Quando la persona fisica non ha il libero esercizio del diritto coinvolto
nel processo, la legge impone che essa sia rappresentata da un’altra
persona fisica, a sua volta capace. L’esercizio della rappresentanza da
parte di questa altra persona, integra la capacità di agire mancante, così
come avviene nel diritto sostanziale: “Le persone che non hanno il libero
esercizio dei diritti non possono stare in giudizio se non rappresentate,
assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità”
(ART 75).
Le persone giuridiche “stanno in giudizio per mezzo di chi li rappresenta
a norma della legge o dello statuto”; si tratta dell’applicazione al
52
processo del fenomeno della “rappresentanza organica”. Non vi è
comunque bisogno della personalità giuridica in senso proprio per stare
in giudizio, in quanto le associazioni non riconosciute e i comitati che
non sono persone giuridiche “stanno in giudizio per mezzo delle persone
indicate negli ARTT 36 SS. c.c.”. Non diversamente hanno capacità di
stare in giudizio quelle peculiari figure impersonali che vengono talora
dette “centri di imputazione di effetti giuridici”, come ad esempio il
condominio.
Quando manca la persona a cui spetta la rappresentanza o l’assistenza, o
quando essa si trova in conflitto di interessi con il rappresentato, ed
occorre procedere o resistere in giudizio, il giudice può nominare un
curatore speciale.
2.La rappresentanza volontaria
Differente fenomeno è la rappresentanza volontaria, potere conferito
dalla volontà di un soggetto capace ad altro soggetto (rappresentante)
per agire in nome e per conto del primo (rappresentato).
In questo caso gli atti del processo saranno compiuti dal rappresentante
ma gli effetti del processo si ripercuoteranno nella sfera del
rappresentato.
Nel diritto processuale la regola base in proposito si ricava dall’ART
77:”Il procuratore generale e quello preposto a determinati affari non
possono stare in giudizio per il preponente quando questo potere non è
stato loro conferito espressamente, per iscritto, tranne che per gli atti
urgenti e per le misure cautelari”. Ciò significa che il potere di
rappresentanza processuale non discende automaticamente dal potere
di rappresentanza sostanziale (NOTA: ma non significa invece che il
potere di rappresentanza processuale non possa essere conferito se non
accoppiato al potere di rappresentanza sostanziale. L’ART 77 dice solo
che la sussistenza di un potere sostanziale non è condizione sufficiente
del corrispondente potere processuale, ma non dice certo che ne è
condizione necessaria). La rappresentanza processuale va conferita
specificatamente per iscritto, e non si presume, con l’eccezione degli atti
urgenti e delle misure cautelari.
53
Un potere generale di agire in giudizio, indipendentemente dal
conferimento della rappresentanza processuale spetta comunque al
procuratore generale di chi non ha residenza o domicilio nella
Repubblica. Questo procuratore generale può agire, oppure essere
convenuto in giudizio in quanto la sua rappresentanza processuale è
insita nel conferimento della procura generale sostanziale.
Rappresentanza generale ha sempre l’institore, cioè il preposto
all’impresa.
3.La rappresentanza tecnica
Altra cosa è il fenomeno della c.d. “rappresentanza tecnica” cioè lo stare
in giudizio per il tramite del difensore.
DI norma le parti non operano di persona nel processo: è comunque
esperienza che chi vuole agire in giudizio deve anzitutto munirsi di un
procuratore, cioè di un rappresentante tecnico che funge da mediatore
professionale tra l’interessato ed il giudice. Il c.p.c. ha, nel Libro I, un
capo intitolato “dei difensori” in cui stabilisce, all’ART 82, che “le parti
non possono stare in giudizio se non con il ministero o l’assistenza di un
difensore”. Davanti al tribunale e alla CDA le parti debbono stare in
giudizio con il ministero di un procuratore legalmente esercente; davanti
alla Cassazione, con un cassazionista.
La regola della difesa tecnica prevede delle eccezioni in cui la parte ha
facoltà di scelta se farsi assistere da un procuratore o agire di persona.
Così è per le controversie, di competenza del giudice di pace, di valore
non eccedente a 1100€, mentre le per controversie di valore superiore,
lo stesso giudice di pace “in considerazione della natura o dell’entità
della causa, può autorizzare le parti a stare in giudizio di persona”
(NOTA: Nel processo del lavoro in primo grado, l’obbligo di difesa tecnica
non sussiste quando il valore della causa non eccede €129,11. Le PA
citate in giudizio possono essere difese dai loro dipendenti).
Non è invece un’eccezione la possibilità della difesa tecnica persona
quando la parte ha essa stessa la qualità di avvocato: se infatti la parte ha
la qualità necessaria per esercitare l’ufficio di difensore con procura
54
presso il giudice adito, essa può stare in giudizio senza il ministero di un
altro difensore. (ART 86).
3.1.La procura alle liti
La procura alle liti, cioè l’atto con cui la parte conferisce all’avvocato il
mandato per rappresentarla e difenderla in giudizio, è regolata dall’ART
83.
Si distingue tra “procura generale” e “procura speciale”. Con la c.d.
procura generale, all’avvocato è dato mandato per rappresentare e
difendere il mandante non in una singola controversia, ma in tutte le
controversie civili, o in una serie controversie di un certo tipo che
coinvolgono quest’ultimo.
La procura speciale abilita, viceversa, il mandatario a rappresentare e a
difendere il cliente in un singolo, specificato giudizio civile.
Ambedue devono rivestire la forma dell’atto pubblico o della scrittura
privata autenticata, ma la procura speciale può anche essere apposta in
calce o a margine degli atti processuali indicati dall’ART 83. In tal caso
l’autografia della sottoscrizione del cliente viene autenticata dallo stesso
avvocato che riceve il mandato.
Il difensore può compiere e ricevere , nell’interesse della parte, tuti gli
atti del processo, alla sola condizione che non si tratti di atti che la legge
riserva personalmente alla parte (per esempio confessione, giuramento).
L’avvocato ha quindi la gestione tecnica del processo: egli ha la
responsabilità di scegliere la strategia processuale più adatta al fine di
garantire la migliore tutela degli interessi del proprio cliente.
Egli non ha invece poteri dispositivi dei diritti fatti valere nel giudizio.
Disporre del diritto (per esempio rinunciandovi) è un potere eccedente
rispetto al novero delle proprie della rappresentanza e difesa in giudizio;
naturalmente la legge fa salva la specifica volontà della parte di rimettere
al legale la disposizione dei propri diritti ammettendo la possibilità di
una apposita procura speciale in tal senso.
La procura è atto revocabile: essa può essere sempre revocata dal
mandante e inoltre il difensore può in qualsiasi momento rinunciarvi.
Per evitare, però, vuoti di difesa o lesioni dei diritti delle controparti, sia
55
la revoca che la rinuncia, “non hanno effetto nei confronti dell’altra parte
finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore”(ART 85). Si assiste
quindi ad una proroga legale dello status di difensore.
CAPITOLO 9. LA DOMANDA GIUDIZIALE
1.La domanda giudiziale
Il processo civile si apre con l’atto attraverso il quale chi “agisce in
giudizio” (attore), propone la domanda giudiziale. Domanda è il termine
con cui si emprime la richiesta di tutela giurisdizionale, richiesta che si
esercita attraverso un atto formale di instaurazione del processo.
Il rapporto tra domanda e tutela giurisdizionale risposa si due norme
fondamentali: ART 2907 c.c. e 99 c.p.c. che vanno letti in coordinamento
reciproco. Secondo la prima norma “Alla tutela giurisdizionale dei diritti
provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte”(NOTA: Nemo judex
sine actore. L’articolo prosegue stabilendo che l’Autorità Giudiziaria può
procedere alla tutela dei diritti anche su istanza del PM o d’ufficio, ma
solo quando la legge lo dispone). L’ART 99 stabilisce che “Chi vuol far
valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice
competente”.
2.La corrispondenza tra chiesto e pronunciato
La domanda assolve anche alla funzione di determinare l’ambito della
tutela. La tutela richiesta può infatti essere concessa:
- relativamente all’oggetto per cui è stata chiesta;
- nei limiti di tale oggetto;
- nei confronti dei soggetti contro i quali è stata chiesta.
Questo vuol dire che tanto il tipo di tutela, quanto la sua estensione sono
individuati dalla scelta di chi fa valere il proprio diritto in giudizio. Chi dà
vita al processo non si limita quindi a metterlo in moto, ma ne determina
56
anche l’oggetto, il contenuto e l’ambito soggettivo, vincolando il giudice
in proposito.
Il giudice, infatti, deve pronunciare su tutta la domanda.
Simmetricamente egli deve limitarsi a pronunciare non oltre la
domanda, senza cioè sorpassare i limiti di essa. Questo è quanto dispone
l’ART 112 (“Corrispondenza tra chiesto e pronunciato”), norma inserita
nel titolo del Libro I dedicato ai poteri del giudice.
Pronunciare sulla domanda non significa, ovviamente, che il giudice deve
accoglierla: egli accoglierà la domanda se la giudicherà fondata, ma la
rigetterà in caso contrario, e tanto la sentenza di accoglimento, quanto
quella di rigetto, varranno quale attuazione del suo dovere di
pronunciare sulla domanda.
Chi “fa valere un diritto in giudizio” può benissimo non essere l’effettivo
titolare di quel diritto. “Far valere in giudizio un diritto£ significa
esercitare il diritto di azione garantito dall’ART 24 Cost. ma tale diritto
(processuale) di agire si risolve nell’asserzione unilaterale di essere
titolare del diritto di cui si chiede tutela. La garanzia di agire in giudizio è
universale e incondizionata perché spetta sia a chi ha ragione sia a chi ha
torto: al processo di ricorre proprio per verificare se esiste in concreto il
diritto affermato, e la sentenza che decide sulla domanda incide sul
rapporto giuridico dedotto in giudizio, sia che essa accolga la domanda
sia che essa la rigetti.
3.L’accoglimento della domanda
Per arrivare alla sentenza di accoglimento, occorre anzitutto che il
giudice investito della domanda abbia verificato la regolarità del
rapporto processuale, cioè che il processo possa concretamente svolgersi
secondo le norme di procedura.
Occorre poi che il giudice :
a. a) abbia individuato la norma giuridica sostanziale che giustifica
la pretesa; e successivamente abbia accertato che la norma
individuata si applichi al caso sottoposto a giudizio;
57
b. b) abbia riconosciuto che l’attore è il titolare del diritto e abbia
riconosciuto che il convenuto è il titolare dei correlati obblighi o
soggezioni;
c. c) abbia verificato che la concreta sussistenza dei fatti
all’accadimento dei quali la norma individuata riconnette l’effetto
giuridico e abbia verificato che non sussistono altri fatti che
impediscono la produzione dell’effetto giuridico richiesto.
4.La posizione dialettica del convenuto
In pratica, il giudice deve compiere la ricognizione della norma,
interpretarla e applicarla al caso sottopostogli.
La sola attività assertiva dell’attore non basta a tale scopo: occorre
invece che tutte le affermazioni di questi siano vagliate nel
contraddittorio del convenuto.
Questi potrebbe infatti avere da ridire sul fatto che, per esempio, la
norma invocata è stata interpretata erroneamente, perché le si è fatto
dire qualcosa che in realtà non dice.
Oltre all’interpretazione della norma può poi essere contestata la
fondatezza della domanda rispetto ai fatti. Anche accettando sul piano
interpretativo la prospettazione dell’attore, il convenuto può però
contestare che i fatti posti a base della domanda siano effettivamente
accaduti, ovvero si siano avverati nel modo rappresentato: in tal caso egli
assume che il diritto vantato non spetta perché i fatti concreti non
integrano la fattispecie astratta invocata. Ovvero ancora: anche se i fatti
narrati dall’attore si sono avverati, esistono però altri fatti, taciuti
dall’attore, la cui presenza contraddice gli effetti pretesi ed impediscono
l’accoglimento della domanda. (NOTA: Prendiamo ad esempio la
domanda di pagamento di un’obbligazione. Viene convenuto in giudizio
un debitore sul presupposto che sia intercorso un contratto di mutuo tra
le parti; erogato il mutuo, alla scadenza la somma non è stata restituita.
In giudizio si chiede quindi la restituzione della somma ed il conseguente
risarcimento dei danni. Però il convenuto può opporre che c’è stata una
dilazione di pagamento successiva, un fatto che modifica i termini del
diritto dell’attore e quindi impedisce che si possa accogliere la domanda
58
tout court. Se l’attore racconta la vicenda senza tenere conto della
dilazione di pagamento, il convenuto opporrà il suo fatto “modificativo”
che impedisce l’accoglimento della domanda nonostante essa sia
astrattamente fondata).
Il principio del contraddittorio impone che il processo coinvolga fin
dall’inizio la controparte, la quale per il solo fatto di essere coinvolta nel
processo deve essere messa in condizione di esprimere tutte le sue
possibili contestazioni. Tali contestazioni si possono apprezzare sul
piano del rito, cioè delle regole poste dalla legge processuale, oppure sul
piano del merito, cioè del diritto sostanziale.
Il processo di cognizione è scandito in modo che il contraddittorio possa
svolgersi concretamente dall’inizio alla fine secondo le forme regolate
dal codice. Ci sarà quindi la possibilità dello scambio di atti scritti. Nel
corso del processo vi sarà poi la possibilità di attuare il principio di
parità delle armi, con altre memorie scritte dall’una e dall’altra parte; vi
sarà possibilità di esprimere anche oralmente le proprie ragioni e poi vi
sarà la possibilità, alla fine del processo, di scambiare scritti riassuntivi e
conclusivi tramite atti appositi (es. memorie di replica) affinché al
momento della decisione il giudice abbia tutti gli elementi da entrambe
le parti.
Il processo può regolarmente svolgersi anche se il convenuto intende
non parteciparvi, purché egli sia stato messo nella condizione di farlo.
5.Le forme della domanda
Le possibili forme della domanda introduttiva del giudizio sono due:
citazione e ricorso (NOTA: Per precisione va aggiunto che l’ART 316
prevede che, relativamente al giudice di pace, la domanda possa anche
proporsi verbalmente con redazione di processo verbale da parte del
giudice; tale verbale poi “a cura dell’attore, è notificato con citazione a
comparire a udienza fissa”).
Occorre cogliere la differenza che intercorre tra citazione ricorso, da un
lato, e domanda, dall’altro: con “domanda” si intende il contenuto tipico
dell’atto (NOTA: il c.d. esercizio, intendendosi per azione il potere della
parte di provocare l’esercizio della giurisdizione per la protezione di una
59
propria situazione giuridica. L’azione è il potere dato a tutela della
situazione soggettiva ed è quindi ritagliata su quest’ultima; il codice
presenta spesso azioni c.d. tipiche, come ad esempio l’azione negatoria,
caratterizzata da un nome ad hoc e da una regolamentazione apposita),
laddove con “citazione” si intende la forma che assume la domanda quale
atto processuale (NOTA: Per converso, non ogni citazione contiene una
domanda: ci sono casi in cui l’atto di citazione veicola solo la difesa
contro la domanda della controparte. E’ il caso dell’ART 645-opposizione
al decreto ingiuntivo- in cui il debitore, a cui si ingiunge di pagare, si
oppone al decreto ingiuntivo tramite citazione del creditore ingiungente
a comparire in apposito giudizio).
Esistono peraltro domande “non introduttive del giudizio” (che non
danno vita a nuovo ed autonomo processo): si tratta delle domande
proposte nel corso di giudizi già pendenti che possono assumere forme
ancora diverse rispetto alla citazione o al ricorso.
5.1.La citazione
L’ART 163 apre il Libro III del codice, dedicato al processo ordinario di
cognizione, fissando i requisiti dell’atto di citazione, inteso quale forma
“ordinaria” della domanda introduttiva del giudizio.
“La domanda si propone mediante citazione a comparire a udienza
fissa”: ART 163.
L’atto di citazione a comparire ad udienza fissa apre il processo c.d.
ordinario, e si caratterizza per il fatto che in esso l’attore fissa al
convenuto la data della prima udienza: a differenza del ricorso (forma
della domanda con cui si rimette al giudice la fissazione dell’udienza), la
citazione introduttiva del giudizio ordinario di cognizione è
caratterizzata dalla c.d. vocatio in jus, cioè dall’invito al convenuto a
comparire, di fronte ad un dato giudice, in una data fissata dall’attore.
La citazione deve essere “sottoscritta a norma dell’ART 125”. Così
sottoscritta essa è consegnata all’ufficiale giudiziario, il quale la notifica a
norma degli ARTT 137 SS.
Ciò significa che l’atto di citazione viene redatto privatamente
dall’avvocato e non viene immediatamente depositato presso l’ufficio
60
giudiziario, ma viene preventivamente portato a conoscenza del
convenuto nella forma della notificazione. Solo successivamente a questa
attività esso viene depositato presso l’ufficio giudiziario.
La citazione deve contenere:
1. 1) L’indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è
proposta. E’ necessario che l’atto di citazione indichi l’organo
giudiziario di fronte a cui è proposta la domanda.
2. 2) Il nome, cognome, residenza dell’attore, il nome, cognome,
residenza o domicilio o dimora del convenuto e delle persone che
rispettivamente li rappresentano in giudizio. Se si tratta di una
persona giuridica, la citazione deve contenere la denominazione o
la ditta con l’indicazione dell’organo dell’ufficio che ne ha la
rappresentanza in giudizio. La citazione in incertam personam è
radicalmente nulla. Naturalmente se si tratta di persone giuridiche
non si potrà indicare il nome e il cognome e la residenza, ma si
dovrà indicare il nome, la sede, l’rogano rappresentativo. Piccoli
errori riguardo ai nomi non danno luogo a nullità, la quale si ha solo
nel caso in cui da questi errori discende l’assoluta incertezza sulle
parti del processo.
3. 3) Il requisito prescritto dal punto attuale è la determinazione
della “cosa oggetto della domanda”.
Cosa vuol dire questa cosa? Nella sostanza si può rispondere che si tratta
del diritto di cui l’attore chiede il riconoscimento.
In realtà “cosa oggetto della domanda” può indicare due differenti “cose”.
Poiché rivolgersi al giudice chiedendo tutela giurisdizionale, significa
domandare uno specifico provvedimento provvisto di un certo
contenuto, di oggetto della domanda può parlarsi tanto con riferimento
alla richiesta del provvedimento, quanto al contenuto di esso
provvedimento, cioè al concreto riconoscimento del proprio diritto.
1. 4) La citazione deve contenere “l’esposizione dei fatti e degli
elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda con le
relative conclusioni”. Non basta chiedere, per esempio, la condanna
di Tizio a restituire un bene ma bisogna anche esporre le ragioni, in
fatto e in diritto, cioè il perché si chiede quella restituzione. Bisogna
dare un “perché giuridico” alla richiesta. Dare gli elementi “di
61
diritto” significa individuare la norma o il principio giuridico da cui
si vogliono far discendere gli effetti perseguiti; dare gli elementi “di
fatto” significa che bisogna indicare nell’atto idonei a giustificare
l’applicazione della norma giuridica individuata ed invocata.
L’ultima parte del n.4 impone che la citazione contenga anche le “relative
conclusioni”.
Le conclusioni sono un elemento indispensabile dell’atto. Oltre che di
una parte espositivo-assertiva, la citazione consta di una parte
“pretensiva”, cioè dalla specifica richiesta al giudice di aderire alla
propria raffigurazione della realtà giuridica, e quindi di provvedere di
conseguenza pronunciando una sentenza di contenuto conforme.
Tali richieste configurano appunto le conclusioni. (NOTA: un esempio di
conclusioni può essere il seguente: “Voglia il Tribunale, rigettata ogni
contraria pretesa ed eccezione, dichiarare l’esistenza ed attualità del
debito di €1000 in capo del convenuto a favore dell’attore, condannare
lo stesso convenuto al pagamento della corrispondente somma;
condannare lo stesso alle spese del presente giudizio).
1. 5) La norma prosegue indicando che la citazione deve contenere
“l’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l’attore intende
valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione”.
Chi agisce in giudizio ha l’onere di indicare le fonti di prova dei fatti,
i c.d. “mezzi di prova” tra cui spiccano i documenti di supporto delle
affermazioni. Va detto però che tale onere di allegazione del
materiale probatorio non va assolto necessariamente in citazione:
se l’atto introduttivo non contiene l’indicazione dei mezzi di prova,
resta sempre possibile svolgere o integrare le deduzioni probatorie
in un secondo momento (ART 183).
2. 6) L’atto di citazione deve contenere infine: “Il nome, il cognome
del procuratore e l’indicazione della procura qualora essa sia stata
già rilasciata”.
L’indicazione della procura è necessaria “qualora la procura sia stata già
rilasciata”. L’espressione lascia intendere la possibilità che la procura
non sia stata ancora rilasciata al momento della notifica: essa infatti può
esserlo in un momento successivo alla notificazione dell’atto di citazione
ai sensi dell’ART 125 c.2 secondo cui “la procura al difensore dell’attore
62
può essere rilasciata in data posteriore alla notificazione dell’atto,
purché anteriormente alla costituzione della parte rappresentata”.
1. 7) “L’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione; l’invito
del convenuto a costituirsi nel termine di 20 giorni prima
dell’udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall’ART 166, o
di 10 giorni in caso di abbreviazione dei termini, e a comparire
all’udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell’ART
168-BIS, con l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti
termini implica le decadenza di cui agli ARTT.38 e 167”.
Il convenuto viene invitato a costituirsi entro un termine che scade 20
giorni prima della data di udienza fissata. Si individua così un periodo
entro il quale il convenuto può costituirsi sfruttando tutte le prerogative
che la legge gli concede: oltre alla scadenza di questo termine, il
convenuto potrà certamente ancora costituirsi, ma la costituzione sarà
“tardiva”, e questo farà sì che egli non possa servirsi di tutte le
prerogative concessegli perché talune di queste sono inscindibilmente
legate alla tempestività della costituzione.
Il convenuto viene invitato a costituirsi “con l’avvertimento che la
costituzione oltre ai suddetti termini implica le decadenze di cui agli
ARTT. 38 e 167”. Il convenuto va quindi avvertito che può anche
costituirsi oltre i termini, ma così facendo, non potrò compiere certi atti.
In particolare non potrà più eccepire l’incompetenza, non potrà sollevar
eccezioni di rito, non potrà proporre domande riconvenzionali.
5.2.Il ricorso
Il ricorso è l’altra forma della domanda introduttiva del giudizio, forma
prescritta dalla legge in svariati casi. Anche nel ricorso debbono essere
presenti glie elementi oggettivi e soggettivi della citazione ma, mentre
l’atto di citazione si indirizza al convenuto, al quale viene
immediatamente notificato, per poi essere depositato presso l’ufficio
giudiziario, il ricorso è viceversa un atto che apre direttamente ed
immediatamente il rapporto con l’organo giudiziario, in quanto a) non
determina unilateralmente la data dell’udienza di comparizione; b) non
63
viene preliminarmente notificato al convenuto; c) non invita questi a
comparire in giudizio.
Il ricorso individua i soggetti (parti e giudice), spiega le ragioni del
ricorrente e contiene la domanda di uno specifico provvedimento di
tutela.
Esso quindi manca di una vocatio in jus del convenuto, ma presenta
sempre una propria editio actionis.
Depositato in cancelleria del giudice investito della controversia, sarò
quest’ultimo a provvedere alla fissazione della data di comparizione
delle parti attraverso un decreto contenente anche l’ordine di notificare
ricorso e decreto al convenuto entro un certo termine. A seguito di ciò, il
“ricorrente” provvederà alla notifica ell’atto composto risultante dalla
materiale congiunzione del ricorso con il “pedissequo decreto” del
giudice (così descritto in quanto esso è normalmente scritto in calce al
ricorso stesso).
Il modello del ricorso, dal punto di vista del suo contenuto è dato
dall’ART 414, che regola il ricorso introduttivo nel processo del lavoro.
CAPITOLO 10. I PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE
1.I provvedimenti del giudice
Nel processo il giudice svolge la sua funzione essenzialmente tramite
provvedimenti, cioè atti di autorità a carattere deliberativo.
Forme dei provvedimenti giudiziali sono la sentenza, l’ordinanza ed il
decreto, provvidimenti il cui impiego è regolato dall’ART 131: “La legge
prescrive in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o
decreto”. In mancanza di specifiche prescrizioni di forma, “i
64
provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al raggiungimento del
loro scopo”.
Le caratteristiche formali della sentenza, del decreto e dell’ordinanza,
sono specificate, rispettivamente negli ARTT. 132-134-135.
La sentenza è il principale dei provvedimenti disciplinati dalla legge
processuale. I poteri decisori del giudice trovano il loro naturale modo
d’espressione nella forma della sentenza. Essa è anche il più articolato
dei provvedimento, e quello che la legge cura di disciplinare in maniera
dettagliata e non priva di solennità: la sentenza infatti (ART 132) reca
l’intestazione: “Repubblica italiana”, ed è pronunciata “in nome del
popolo italiano”.
I requisiti formali dell’atto “sentenza” sono i seguenti:
-l’indicazione del giudice davanti a cui si è svolto il processo e da cui
proviene il provvedimento;
-l’indicazione delle parti del processo;
-l’indicazione delle conclusioni;
-l’indicazione “delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”, cioè la
motivazione che l’ART 118 c.1 disp.att. indica nella “concisa esposizione
dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione,
anche con riferimento a precedenti conformi”;
-il dispositivo, cioè la sintetica e specifica deliberazione adottata dal
giudice in relazione alla domanda e, in generale, all’oggetto del
contendere;
-la data della deliberazione;
-la sottoscrizione del giudice.
Le forme dell’ordinanza e del decreto, invece, individuano procedimenti
attraverso cui il giudice regola, dirige e coordina gli svolgimenti della
procedura; tali provvedimenti svolgono quindi una funzione
“ordinatoria”. Essi esprimono il potere del giudice di controllo e
direzione del processo.
Il decreto è una figura di provvedimento reso normalmente senza
necessità di previa instaurazione del contraddittorio; può essere
pronunciato d’ufficio o su istanza “anche verbale” di una parte. Se è
pronunciato su ricorso “è scritto in calce al medesimo”.
65
Il decreto non è motivato “salvo che la motivazione sia prescritta
espressamente dalla legge”, ed è sottoscritto dal giudice.
L’ordinanza è la forma dei provvedimenti ordinatori resi normalmente
nel corso del processo previo contraddittorio delle parti. L’ART 134
prevede che l’ordinanza sia motivata, seppur in maniera succinta.
Essa può venir pronunciata in udienza, o fuori udienza. Quelle
pronunciate fuori udienza sono comunicate alle parti dalla cancelleria.
2.la tipologia delle sentenze di merito
Guardate nel loro modo di operare sui rapporti sostanziali oggetto di
decisione, le sentenze di merito che accolgono la domanda vengono
classificate in tre distinte categorie che riflettono il rapporto tra chiesto e
deciso:
a. a) Sentenze di mero accertamento / meramente dichiarative;
b. b) Sentenze di condanna;
c. c) Sentenza costitutive.
Le sentenze al punto a) sono le sentenze che corrispondono alla
domanda di dichiarare la sussistenza di una data situazione di diritto:
l’accoglimento consiste appunto nella dichiarazione della pre-esistenza
del diritto vantato e dei correlativi obblighi della controparte, o nella
pre-inesistenza di una pretesa altrui. Tramite tali sentenza l’organo della
giurisdizione verifica la sussistenza e la conformazione dei rapporti
giuridici sottoposti a giudizio. La loro funzione è quindi esclusivamente
quella di “accertare”, cioè di eliminare l’incertezza che gravava sulla
situazione giuridica in contestazione. Un accertamento è contenuto
peraltro nelle sentenze di rigetto in merito della domanda, sentenze che
accertano l’inesistenza del diritto positivamente dedotto in giudizio.
(Sentenza di mero accertamento prevista dal c.c. è per esempio la
sentenza di accertamento della servitù di cui all’ART 1079).
Le sentenze sub b) è quella che accoglie la domanda e può contenere un
elemento ulteriore rispetto al contenuto dichiarativo. Accade sovente
che il preteso titolare del diritto non si limiti a chiedere il riconoscimento
del proprio diritto, ma agisca in condanna, domandi cioè anche che il
66
convenuto venga condannato a pagare una somma, a consegnare un
bene, ecc.
L’esempio corrente di sentenza nell’ambito dei rapporti di credito, è la
sentenza con cui il giudice, accertata la sussistenza di un credito
pecuniario vantato dall’attore, obbliga il convenuto a pagare la somma
dovuta. Qui il dispositivo della sentenza contiene due elementi distinti:
l’accertamento del diritto ed il comando al debitore a pagare.
Esempio tipico di azione di condanna nel campo dei diritti reali, è
l’azione di rivendicazione prevista dall’ART 948, grazie alla quale il
proprietario, privo del possesso materiale della rex, ne chiede la
restituzione nei confronti del possessore attuale della cosa. La sentenza
di accogliemento consiste quindi nell’accertamento dell’esistenza del
diritto di proprietà accoppiato alla condanna del possessore alla
restituzione, in quanto sarebbe stupido per l’attore chiedere solo
l’accertamento della proprietà.
La sentenza di condanna è la più diffusa tra le sentenze di accoglimento,
basti pensare ai diritti di credito insoddisfatti.
Un terzo tipo di sentenza di merito è la c.d. sentenza costitutiva. Una
sentenza costitutiva non si limita a accertare la realtà giuridica
preesistente, ma è essa stessa a creare, modificare o estinguere rapporti
giuridici sostanziali. L’ART 2908 prevede che “nei casi previsti dalla
legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere
rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”.
Un esempio significativo di questo tipo di sentenza è dato dall’ART 1051:
“Il proprietario che è circondato dal fondo o dai fondi altrui e non ha
uscita sulla via pubblica, ha diritto di ottenere il passaggio sul fondo
vicino per il conveniente uso del fondo”. La norma dice che in mancanza
di accordo tra le parti, è il giudice stesso ad accordare il passaggio sul
fondo altrui.
Il potere dell’autorità giudiziaria di costituire, modificare o estinguere
rapporti giuridici, non è però generale ed illimitato. Il richiamo che l’ART
2908 fa ai casi previsti dalla legge limita la possibilità di sentenza
costitutiva ai casi di azione costitutiva specificatamente concessi
dall’ordinamento.
67
Le cose stanno diversamente per la sentenza di accertamento: il c.c.
contempla sì alcune azioni tipiche meramente dichiarative, ma per agire
in mero accertamento non c’è bisogno di espressa previsione legale,
bastando affermarsi titolari di un diritto contestato e bisognoso, quindi,
di tutela giurisdizinale.
Tutti i diritti soggettivi, infatti, sono tutelabili attraverso accertamento
giudiziale e costituiscono idoneo oggetto di accertamento.
Spesso l’effetto giuridico innovativo è sufficiente a soddisfare il bisogno
di tutela, ma talora può esservi bisogno di aggiungere alla modificazione
giuridica una condanna, per cui si osservano casi di costituzione o
modificazione della situazione sostanziale, con contestuale condanna del
soccombente.
Le combinazioni sono quindi varie:
a)mero accertamento;
b)accertamento più condanna;
c)sentenza costitutiva;
d)sentenza costitutiva più condanna.
3.Condanna civile e tutela esecutiva
Abbiamo già parlato della condanna come un ordine, ma, con maggiore
precisione giuridica, dobbiamo dire che essa consiste in una particolare
tutela del rititto riconosciuto rispetto alla prestazione dell’obbligato. La
specificità della sentenza di condanna sta nel fatto che l’inadempimento
dell’obbligato legittima il creditorea perseguire gli effetti della
prestazione (dovuta e mancata) contro la volontà di questi ed in sua
sostituzione. In virtù della condanna, il creditore può attivare la
particolare attività giurisdizionale detta “esecuzione forzata”.
Sentenza esecutiva è la sentenza di condanna che legittima il creditore a
reagire all’inadempimento del debitore per via di esecuzione forzata (in
executivis).
Cosa si intende per “prestazione” oggetto di condanna? Prestare può
voler dire pagare, laddove si tratti di adempiere ad obbligazione
pecuniaria, ma può voler anche dire restituire beni determinati. Ancora:
la prestazione può avere ad oggetto un “fare” o un “non fare”, e talvolta
68
un “disfare”, cioè l’eliminazione di qualcosa fatta in violazione di un
obbligo negativo di astensione. L’oggetto della sentenza di condanna è
quindi vario in quanto le prestazioni configurabili variano secondo il
rapporto dedotto: posso essere condannato a pagare 100 mila euro al
mio creditore, oppure restituire un oggetto.
La caratteristica della condanna sta nel fatto che, se l’obbligato non
adempie spontaneamente, si potrà egualmente ottenere l’effetto pratico
dell’adempimento attraverso la sostituzione della persona dell’obbligato
(NOTA: anche se non sempre si può sostituire, in quanto esistono
prestazioni che possono essere compiute solo dall’obbligato, c.d.
prestazioni infungibili. Rispetto agli obblighi di fare o di non fare
infungibili, l’ART 614-BIS prevede una generale misura compulsoria
dell’ottemperanza al provvedimento di condanna. Con tale
provvedimento il giudice fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro
dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, o
per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento). “Sostituzione” non
significa chiaramente che l’avente diritto sia autorizzato a prendersi da
sé quel che gli è dovuto. Significa invece che egli avrà il potere di
domandare l’intervento a proprio favore degli organi della giurisdizione
che, in modi previsti dall’ordinamento, compiranno quanto necessario
per superare la resistenza o l’inerzia dell’obbligato e realizzare il
risultato perseguito. Così, per es. il debitore che non ottemperi alla
condanna a rimuovere il manufatto illegittimamente costruito sul
proprio fondo, dovrà subire l’ingresso nel fondo dell’ufficiale giudiziario
attivato dal creditore, e subire l’abbattimento del manufatto, per mano
altrui ma a sue spese. L’esecuzione forzata è munita delle garanzie della
giurisdizione e l’attività esecutiva assume anch’essa la forma del
processo, seppur di un processo in forme particolari rispetto a quello di
cognizione, dal momento che si tratta di ottenere risultati concreti.
La garanzia che l’ART 24 Cost. accorda alla tutela giurisdizionale,
ricomprende anche la tutela giurisdizionale esecutiva.
Accanto quindi al processo detto “di cognizione” rinveniamo peraltro un
distinto processo detto “di esecuzione”. Anch’esso regolato dal c.p,c., il
processo di esecuzione mira a soddisfare l’interesse finale dell’obbligato.
La sentenza di condanna fa da ponte tra lo stadio della cognizione e
69
quella dell’esecuzione, cioè della ricerca materiale del risultato pratico
satisfattivo.
CAPITOLO 11. DISEGNO GENERALE DEL SISTEMA DELLE
NOTIFICAZIONI
1.Notificazione e comunicazione
L’attività di notificazione concerne la c.d. conoscenza ufficiale degli atti;
essa ha una rilevanza particolare nel processo civile.
Il meccanismo della notificazione non riguarda solo gli atti processuali;
anche atti di natura non processuale vengono notificati, ma non c’è
dubbio che gli atti processuali assorbano la maggior parte dell’attività
notificatoria. Il codice di procedura e, più in generale. Le leggi
processuali riconducono all’atto di notifica effetti rilevanti sullo stato e
sullo svolgimento della procedura, nonché sui poteri delle parti.
Occorre anzitutto distinguere la nozione di notificazione (ART 137) da
quella di comunicazione (ART 136).
La comunicazione è la mera trasmissione della notizia di un evento
processuale, laddove la notificazione è un procedimento formale di atto
documentale. Essa è normalmente attuata attraverso consegna al
destinatario di copia conforme all’atto.
Mentre la notificazione è atto proprio dell’ufficiale giudiziario, la
comunicazione è atto proprio del cancelliere; essa è attuata tramite il
c.d.” biglietto di cancelleria” che è il veicolo delle comunicazioni
“prescritte dalla legge o dal giudice al pubblico ministero, alle parti, al
consulente, agli altri ausiliari del giudice e ai testimoni” (ART 136). Il
biglietto di cancelleria è anche il veicolo della comunicazione dei
provvedimenti giudiziali per i quali la legge dispone tale forma di notizia.
Esso è consegnato dal cancelliere al destinatario, o trasmesso a mezzo di
posta elettronica certificata. Se ciò non è possibile, il biglietto di
cancelleria è trasmesso a mezzo fax o rimesso all’ufficiale giudiziario per
la notifica. In quest’ultimo caso si può osservare come notificazione e
comunicazione vengano a sommarsi: attraverso consegna di copia
70
conforme all’originale viene notificato il biglietto fungente da veicolo
della comunicazione.
L’ART 173 c.1 stabilisce in generale che le notificazioni sono eseguite
dall’ufficiale giudiziario “su istanza di parte o su richiesta del PM o del
cancelliere”.
Sempre in generale, l’ART 137 stabilisce che l’ufficiale giudiziario
“esegue la notificazione mediante consegna al destinatario di copia
conforme all’originale dall’atto da notificarsi”.
Se l’atto da notificare è costituito da documento informatico, la notifica
può avvenire attraverso trasmissione del documento all’indirizzo di
posta elettronica del destinatario. Se però quest’ultimo non possiede un
proprio indirizzo di posta elettronica certificata, l’ufficiale giudiziario
esegue la notificazione “mediante consegna di una copia dell’atto su
rapporto cartaceo, da lui dichiarata conforme all’originale, e conserva il
documento informatico per i due anni successivi.
Elemento essenziale della notificazione è la c.d. “relazione di
notificazione”, che l’ART 148 descrive come la certificazione, da parte
dell’ufficiale giudiziario, dell’eseguita notificazione “mediante relazione
da lui datata e sottoscritta, apposta in calce all’originale e alla copia
dell’atto”. La relazione indica “la persona alla quale è consegnata la copia
e le sue qualità, nonché il luogo della consegna, oppure le ricerche, anche
anagrafiche, fatte dall’ufficiale giudiziario, i motivi della mancata
consegna e le notizie raccolte sulla reperibilità del destinatario”.
2.La notifica a mezzo di servizio postale
Oltre alla notificazione compiuta direttamente dall’ufficiale giudiziario, la
legge prevede in generale la forma della notificazione a mezzo del
servizio postale. L’ART 149 prevede che tale notificazione sia sempre
possibile, salvi i divieti posti dalla legge; nella pratica si ricorre a tale
forma di notifica allorché l’ufficiale giudiziario debba eseguire una
notifica al di fuori del comune ove ha sede l’ufficio.
La notifica si perfezione in questo caso “per il soggetto notificante al
momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario e, per il
71
destinatario, dal momento in cui lo stesso ha la legale conoscenza
dell’atto”.
Quando l’ufficiale giudiziario esegue la notifica a mezzo di servizio
postale, egli scrive la relazione sull’originale e sulla copia dell’atto,
facendovi menzione dell’ufficio postale per mezzo del quale spedisce la
copia al destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento.
Quest’ultimo è allegato all’originale.
3.Notifiche non compiute dall’ufficiale giudiziario (u.g.)
L’ordinamento processuale permette, in determinate ipotesi, agli stessi
avvocati di procedere direttamente a notificazione, evitando il ricorso
all’u.g. La legge 53/1994 prevede che l’avvocato munito di procura alle
liti possa eseguire la notifica di atti in materia civile, amministrativa e
stragiudiziale, in generale a mezzo del servizio postale, e direttamente
nella notifica tra avvocati. La facoltà è però stata non pienamente
utilizzata, data l’esigenza che l’avvocato si munisca di autorizzazioni
preventive e, in generale, per la defatigante macchinosità delle
procedura da seguire.
4.La notifica “in mani proprie” e la notifica presso residenza,
dimora, domicilio
La prima forma di notifica considerata dal codice è la c.d. “notificazione
in mani proprie”. Si tratta della consegna personale e materiale della
copia dell’atto al destinatario; l’ART 38 prevede che l’u.g. “esegue la
notificazione di regola mediante consegna della copia nelle mani proprie
del destinatario, presso la casa di abitazione oppure, se ciò non è
possibile, ovunque lo trovi nell’ambito della circoscrizione dell’u.g. al
quale è addetto”.
E’ possibile che il destinatario rifiuti di ricevere la copia dell’atto? Il
comma 2 prescrive che la relazione dell’u.g. dia atto del rifiuto, sicché “la
notificazione si considera fatta in mani proprie”. Gli effetti propri della
notificazione sono qui prodotti da una procedura sostitutiva della
consegna resa impossibile dalle circostanze.
72
Se la notificazione in mani proprie non è possibile, ma è noto almeno uno
dei luoghi di residenza, dimora, o domicilio del destinatario della
notifica, l’u.g. procede a norma dell’ART 139. La notifica deve essere fatta
nel comune di residenza del destinatario, ricercandolo nella casa di
abitazione o dove ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio.
Quando non è noto il comune di residenza, la notificazione si fa nel
comune di dimora e, se anche questa è ignota, nel comune di domicilio.
Naturalmente il destinatario può non essere trovano in nessuno dei
suddetti luoghi. In tal caso l’ART 139 prevede che l’u.g. consegni la copia
dell’atto ad una persona di famiglia, o addetta alla casa, all’ufficio o
all’adienza, purché non minore di q4 anni o non palesemente incapace.
In mancanza di tali persone, l’u.g. consegnerà la copia al portiere, o a un
vicino di casa, nel caso in cui manchi anche il portiere. Portiere e vicino
sottoscriveranno una ricevuta.
5.Le procedure sostitutive in caso di irripetibilità o di ignoranza
dell’indirizzo
In caso in impossibilità di eseguire la consegna per irreperibilità o
incapacità o rifiuto delle persone indicate dall’ART 139, l’ART 140
prevede che la notifica si compia attraverso una procedura sostitutiva
della consegna; questa procedura si scandice in tre atti. L’u.g.:
a. a) deposita la copia nella casa comunale dove la notifica
eseguirsi;
b. b) affigge poi avviso del deposito in comune, in busta chiusa e
sigillata, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio del destinatario;
c. c) Infine dà notizia al destinatario per raccomandata con avviso
di ricevimento.
Una differente procedura sostitutiva della notifica è prevista dall’ART
143 per il caso che tanto la residenza, quanto il domicilio e la dimora del
notificatario risultino sconosciuti. Qui la notificazione è eseguita dall’u.g.
mediante semplice deposito della copia da notificarsi nella casa
comunale dell’ultima residenza del destinatario. Se anche l’ultima
residenza è ignota, il deposito avviene presso il comune del luogo di
nascita del destinatario. Naturalmente può accadere che non siano
73
conosciuti né il luogo dell’ultima residenza, né quello di nascita del
soggetto: in tal caso l’u.g. consegna una copia dell’atto al PM.
Per una cautela comprensibile l’ART 143 stabilisce che la notifica
produce i suoi effetti dal ventesimo giorno successivo a quello in cui si
sono compiute le formalità prescritte.
6.La scissione temporale degli effetti della notifica
Questa precisazione della legge ci porta al problema della scissione
temporale degli effetti della notifica.
Il discorso presenta vari aspetti, ma in via esemplificativa, si può dire che
il tempo di produzione degli effetti a favore del notificante può non
coincidere con il tempo in cui si producono gli etterri che riguardano il
destinatario della notifica.
Quanto agli effetti a favore del soggetto notificante, la regola (imposta
dalla Corte Costituzionale), è quella per cui tali effetti si producono nel
momento in cui l’atto da notificare è formalmente consegnato all’u.g. Ciò
significa che l’eventuale ritardo di quest’ultimo nell’effettuazione della
notifica, oppure il protrarsi della procedura di notifica per circostanze
obiettive non si riflettono negativamente sul notificante: quando cioè alla
data della notifica la legge ricollega il termine finale per l’esercizio di un
diritto, potere o facoltà del notificante, tale data coincide con la consegna
dell’atto all’ufficiale giudiziario. (Vedi esempio pag. 129).
7.Notificazione: a persone giuridiche / presso il domicilio eletto /
alle amministrazioni dello Stato
Agli enti, la notificazione si esegue nella loro sede mediante “consegna di
copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le
notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede, ovvero al
portiere dello stabile in cui è la sede”. La notifica può anche essere
eseguita a norma degli ARTT 138-139-141, alla persona che rappresenta
74
l’ente se nell’atto ne è indicata la qualità e risultano specificati residenza,
domicilio e dimora abituale.
Per la notificazione alle amministrazioni dello Stato, l’ART 144 rinvia alle
leggi speciali che prescrivono la notificazione presso l’avvocatura dello
Stato. “Tutte le citazioni, i ricorso e qualsiasi atto di opposizione
giudiziale, nonché le opposizioni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di
giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative o
speciali, o davanti agli arbitri, devono essere notificate alle
Amministrazioni dello Stato presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato
nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria innanzi alla quale è portata
la causa, nella persona del Ministro competente”.
9.La nullità della notifica
L’ART 160 è dedicato alla nullità della notifica. La notifica è nulla:
a. a) se non sono state osservate le disposizioni circa la persona alla
quale deve essere consegnata la copia, o
b. b) se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è stata fatta o
sulla data.
La nullità non può peraltro essere pronunciata quando l’atto ha
raggiunto lo scopo a cui era destinato; essa non può neppure essere
opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da quella che ha rinunciato a
farla valere anche tacitamente.
10.La notificazione per pubblici proclami
Ai sensi dell’ART 150, quando la notificazione nei modi ordinari appare
“sommariamente difficile per il rilevante numero di destinatari o per la
difficoltà di identificarli tutti”, il capo dell’u.g. davanti al quale si procede,
“può autorizzare, su istanza di parte interessata e sentito il PM, la
notificazione per pubblici proclami”. (es. notificazione ad un
comprensorio di case, con 150 famiglie che ci abitano).
L’autorizzazione, per proclamare per pubblici proclami, “è data con
decreto stesso in calce all’atto da notificarsi”, decreto che designa
“quando occorre, i destinatari ai quali la notificazione deve farsi nelle
75
forme ordinarie e sono indicati i modi che appaiono più opportuni per
portare l’atto a conoscenza degli altri interessati”.
La concreta forma della notificazione per proclami è rimessa all’organo
giudiziario che la autorizza: molto usata è la pubblicazione su testate
giornalistiche, o il ricorso ai media, o l’affissione in luoghi strategici. In
ogni caso, copia dell’atto è depositata nel Comune del luogo del processo
e “Un estratto di esso è inserito nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica”.
La notificazione si ha per avvenuta al momento in cui l’u.g. deposita una
copia dell’atto, con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività
svolta nella cancelleria del giudice davanti al quale si procede.
CAPITOLO 12. PENDENZA DEL PROCESSO ED EFFETTI DELLA
DOMANDA
1.Pendenza del processo
Il processo inizia a “pendere” al perfezionarsi della notificazione della
citazione al convenuto (ART 39 u.c.) Nei processi iniziati da ricorso,
invece, la pendenza è determinata dal deposito del ricorso presso la
cancelleria del giudice adito: è da questo momento che si producono gli
effetti della domanda, e non dal successivo momento della notificazione
al convenuto.
Pendenza del processo significa:
a. a) che i soggetti della controversia assumono la qualità di parti
del processo; essi divengono titolari di un vero e proprio status
giuridico a carattere processuale, cioè di un fascio di diritti, oneri ed
obblighi strumentali rispetto alla decisione del giudice;
b. b) che il diritto oggetti di controversie (c.d. diritto controverso) è,
da quel momento, assoggettato ad una disciplina peculiare
finalizzata alla possibilità di deciderne.
Dalla proposizione della domanda discendono vari effetti. Per il
momento ci interessano quelli che si ricollegano al principio
dell’ordinamento processuale secondo cui la durata del processo non
deve andare a scapito della parte che ha ragione, o meglio: non deve
danneggiare la parte che si vedrà riconoscere ragione al termine del
processo. E’ infatti necessario che la durata del processo non penalizzi
76
colui che, alla fine, risulterò aver avuto bisogno del processo: non deve
essere consentito alla parte in torto di lucrare sul tempo che occorre alla
controparte per ottenere ragione.
2.Effetti della domanda sulla prescrizione
Come noto, quasi tutti i diritti si prescrivono per il non so prolungato nel
tempo. La prescrizione è però interrotta dalla proposizione della
domanda giudiziale: “La prescrizione è interrotta dalla notificazione
dell’atto con il quale si inizia un giudizio, sia questo di cognizione, o
conservativo o esecutivo”. (ART 2943 c.c.). La notificazione della
citazione interrompe la prescrizione, funge cioè da atto interruttivo che
blocca il decorso del termine di prescrizione, termine che ricomincia da
capo dal momento stesso dell’interruzione: “Per effetto dell’interruzione
s’inizia un nuovo periodo di prescrizione” (ART 2945 c.c.).
Possiamo immaginarci però che il processo duri tanto che la sentenza
definitiva che lo conclude giunga oltre il termine (biennale) decorrente
dal momento dell’interruzione. Se nell’ordinamento esistesse solo la
norma dell’ART 2943, vi sarebbe il rischio che, interrotta la prescrizione
dalla notificazione della citazione, e ricominciato a decorrere da quel
momento il termine biennale, il processo si concluda oltre tale termine,
con la conseguenza che il diritto di credito tutelato nella domanda
varrebbe a prescriversi nel corso del processo stesso.
Il c.c. completa allora la disciplina con un’altra norma fondamentale,
l’ART 2945 c.2, che aggiunge all’effetto c.d. “interruttivo” della domanda
introduttiva del giudizio, anche un effetto di sospensione della
prescrizione: “Se l’interruzione è avvenuta mediante uno degli atti
indicati dal primo comma ART 2943, la prescrizione non corre fino al
momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”.
Non basta, in altre parole, riconnettere alla domanda l’effetto
introduttivo della prescrizione, ma è necessario anche che la
prescrizione non riprenda subito a correre, perché altrimenti basterebbe
il comportamento ostruzionistico del convenuto per far sì che il processo
duri più del nuovo termine di prescrizione, e ciò è quello che avvien nel
processo penale, in quanto un numero elevato di procedimenti penali va
77
in prescrizione perché un’attività difensiva ben programmatica può
dilatare di molto i tempi del processo che si conclude con declaratoria di
prescrizione.
Gli effetti da considerare sono quindi due: uno è l’effetto strettamente
interruttivo; l’altro è l’effetto sospensivo o, come talvolta viene chiamato,
l’effetto interruttivo permanente che fa sì che la prescrizione ricominci a
correre solo dal passaggio in giudicato della sentenza di merito che
accoglie la domanda.. (NOTA: tutto questo sul presupposto che il
processo si concluda con una sentenza di merito, in quanto nel caso in
cui il processo si estinguesse, o si concludesse con un provvedimento di
rito, tipo ordinanza declaratoria di incompetenza, l’effetto sospensivo
verrebbe meno retroattivamente e sopravviverebbe solo l’effetto
interruttivo, e quindi un nuovo periodo di prescrizione dovrebbe
computarsi dalla data della domanda. Questo significa che se il
provvedimento che chiude in rito il processo si avesse dopo la scadenza
del termine di prescrizione, il diritto dovrebbe considerarsi estinto per
prescrizione e non potrebbe essere azionato in giudizio).
3.Altri effetti della domanda: anatocismo; costituzione in mora
Un effetto collegato alla proposizione della domanda giudiziale è la
produzione del c.d. anatocismo (interesse sugli interessi). L’istituto è
previsto dall’ART 1283 c.c.: di norma gli interessi non producono a loro
volta interessi, ma gli interessi scaduti possono produrre interessi “dal
giorno della domanda giudiziale”. In presenza di domanda di
accertamento dell’obbligazione se nel credito domandato sono già
ricompresi interessi scaduti, di questi potranno legittimamente
domandarsi i relativi interessi.
La proposizione della domanda ha inoltre l’effetto di costituire in mora il
convenuto debitore.
5.L’esperimento del procedimento di mediazione come condizione
di procedibilità della domanda
78
Il d.lgs. 28/2010 ha condizionato la domanda relativo a taluni tipi di
controversia alla condizione del previo esperimento di un tentativo di
conciliazione da espletare dinnanzi ad appositi organismi di mediazione.
In poche parole, chi ha intenzione di agire in giudizio relativamente alle
materie indicate dall’ART 5 del decreto (le materie sono: condominio,
diritti reali, divisione, patti di famiglia, successioni ereditarie, locazione,
comodato, ecc.), deve astenersi dal notificare direttamente la citazione
alla controparte, perché deve far precedere la notificazione dal deposito
di una istanza di conciliazione davanti ad uno di detti organismi. Solo
dopo il fallimento di tale tentativo, egli potrà seguire la via giudiziale,
cioè notificare la citazione, o depositare il ricorso nella cancelleria del
giudice competente.
Naturalmente, l’intervenuta conciliazione renderà inutile la domanda. In
tal caso il risultato della volontà conciliativa delle parti sarà formalizzato
in un verbale di accordo il cui contenuto, su istanza di parte e previo
accertamento della regolarità formale, è omologato con decreto del
presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo.
Nei casi di tentativo obbligatorio, il mancato espletamento del tentativo
di conciliazione prima della proposizione della domanda rende
quest’ultima improcedibile. L’improcedibilità deve essere eccepita dal
convenuto, o essere rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima
udienza. Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda
di mediazione produce gli effetti della domanda giudiziale relativamente
alla prescrizione; parimenti dalla stessa data impedisce la decadenza.
Peraltro lo svolgimento della mediazione non preclude la possibilità di
domandare provvedimenti urgenti e cautelari.
CAPITOLO 13. LA COMPETENZA NELLA DINAMICA DEL
PROCEDIMENTO
1.La competenza
Determinare la competenza significa individuare il giudice a cui spetta
trattare la controversia e legittimamente deciderne. In tal senso occorre
79
di volta in volta determinare il tipo di organo abilitato a decidere la
controversia; una volta determinato questo, occorre poi individuare
quale dei tanti organi distribuiti sul territorio va concretamente investito
della trattazione della controversia.
Il potere di esercitare la giurisdizione civile è in vario modo distribuito
tra tutti gli organi investiti di tale potere, secondo tre fondamentali
criteri:
-criterio della materia;
-criterio del valore;
-criterio del territorio.
I primi due criteri servono a determinare il tipo di organo giudiziale
investito della controversia; il terzo risponde alla domanda relativa alla
localizzazione dell’ufficio, cioè al “dove” deve svolgersi il processo.
2.Competenza per materia
Con il criterio della materia, l’organo giudicante viene individuato in
relazione al tipo di controversia sottoposta a giudizio, cioè al rapporto
giuridico che viene concretamente dedotto. Per es. a norma dell’ART 7
c.3 n.2 per le “cause relative alla misura ed alla modalità d’uso dei servizi
di condominio di case” è esclusivamente competente il giudice di pace
(GDP): ciò vuol dire che non è importante il valore della causa, in quanto
è sempre e comunque competente il GDP.
Il tribunale è competente per materia quanto alle cause “relative allo
stato ed alla capacità delle persone e ai diritti onorifici, per la querela di
falso, per l’esecuzione forzata” (ART 9 c.2).
A seguito della soppressione delle preture, al tribunale sono state poi
trasferite le competenze per materia già del pretore: esso ha quindi la
competenza esclusiva sulle cause di lavoro e di previdenza, sulle cause di
locazione e di comodato di immobili, sulle azioni possessorie, sulle
controversie per la repressione del comportamento antisindacale.
80
3.Competenza per valore
La determinazione della competenza per materia presuppone una
specifica previsione in tal senso da parte della legge. In mancanza di
previsioni relative alla materia, la competenza va determinata
impiegando il criterio del valore della causa.
Così, a norma dell’ART 7, al GDP è attribuita la competenza per la cause
relative a beni mobili di valore non superiore a 5000€, a condizione che
dalla legge non sia attribuita competenza ad altro giudice. Sulle cause di
valore superiore è competente il tribunale.
Il tribunale è anche competente per le cause di “valore indeterminabile”,
cioè per quelle cause che, pur non essendo attribuite in ragione della
materia, non consentono una effettiva e diretta applicazione del
parametro monetario, perché insuscettibili di immediata quantificazione
pecuniaria: possono considerarsi ad es. indeterminabili nel valore la
domanda con cui si chiede di accertare la nullità di un certo marchio o la
titolarità di un brevetto.
(Si ricorda che, mentre GDP e tribunale hanno sia competenze per
materia che per valore, la competenza della CDA in “unico grado” è
sempre per materia)
Una caso peculiare di “competenza mista” è quello dell’ART 7 c.2
secondo cui il GDP è competente “per le cause di risarcimento del danno
prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti, purché il valore della
controversia non ecceda i 20 000 euro.
Qui il potere del GDP di trattare e decidere la causa è attribuito secondo
il criterio della materia, ma la competenza così determinata non è
assoluta, ma limitata: attraverso l’introduzione del criterio aggiuntivo
del valore, viene posto un etto alla competenza dell’organo giudiziario.
Ancorché appartenenti alla stessa materia, le cause introdotte da una
domanda di risarcimento superiore a tale tetto, confluiscono
automaticamente nella competenza del tribunale.
Si aggiunga che nel caso in cui l’attore si rivolge al GDP senza
quantificare la somma richiesta, egli pone automaticamente un limite
81
all’ammontare del risarcimento che gli potrà essere concesso: il limite è
ovviamente quello del tetto massimo di competenza di questo giudice.
Ma come si determina il valore della causa ai fini della competenza?
Regola fondamentale è che il valore, egli effetti della determinazione
della competenza, si determina dalla domanda (ART 10). La domanda va
considerata nel suo obiettivo petitum, senza alcuna preventiva indagine
sulla fondatezza.
L’ART 14 detta i criteri per la valutazione delle cause “relative a somme
di denaro”, e di quelle “relative a beni mobili”: la competenza si
determina in base alla somma indicata in domanda, o al valore del bene
mobile dichiarato dall’attore.
Occorre però distinguere le cause relative a somme di denaro da quelle
relative a beni mobili. Per le prime, se l’attore indica il valore della
somma, ai fini della competenza non rileva l’eventuale contestazione di
tale valore da parte del convenuto: per esempio, se chiedo che la
lavanderia, che mi ha rovinato una giacca di pelle affidatale, sia
condannata a pagare 600 mila euro di risarcimento, l’evidente
eccessività della somma non autorizza il convenuto a contestare la
competenza del tribunale ed a invocare la competenza del GDP sulla base
del valore reale della competenza. Che poi, risultando provata la
responsabilità della lavanderia, il tribunale condanni a pagare solo 300
euro, è un problema che attiene al merito.
La contestazione del valore si può trascurare in sede di determinazione
della competenza in quanto essa sarà comunque esaminata al momento
in cui il giudice dovrà decidere la domanda nel merito, e quindi
determinare la somma effettivamente dovuta dall’attore.
Diversamene per le cause relative a beni mobili. Qui, la determinazione
del valore incide solo sulla competenza, non anche sul merito: se ad
esempio chiedo la restituzione di un violino, il mio diritto alla
restituzione sussiste, sia se si tratta di uno stradivarius appartenuto a
Paganini stimato 5 milioni di euro, sia se tratta di un semplice violino da
50 euro. Perciò, se il convenuto contesta il valore indicato nella domanda
di quel violino, tale contestazione rileva ai fini della competenza e il
giudice deve decidere su di essa, eventualmente, dichiarandosi
incompetente. Nella prima difesa, il convenuto può infatti contestare il
82
valore dichiarato del bene mobile: in tal caso “il giudice decide, ai soli fini
ella competenza in base a quel che risulta dagli atti e senza apposita
istruzione”. Così, tornando all’esempio di prima, se agendo di fronte al
GDP, dichiaro che il violino di cui chiedo la restituzione vale 2 mila euro,
e nella prima difesa, il convenuto contesta questo valore affermando che
il violino ne vale 5 milioni perché stradivarius, al GDP è imposto di
pronunciare sulla propria competenza. Egli pronuncerà “allo stato degli
atti”, cioè sulla base di quel che gli risulta dalle carte in suo possesso: se
si convincesse di avere a che fare con una lite, su uno strumento
prezioso, dovrà declinare la propria competenza a favore del tribunale.
Quanto detto vale peraltro se l’attore dichiara il valore della somma o del
bene mobile richiesti. In mancanza di tale dichiarazione la causa di
presume di competenza del giudice adito.
(Determinare il valore della domanda significa misurare il valore
su quel che viene effettivamente domandato nel senso
dell’interesse la cui realizzazione è perseguita in giudizio).
La legge fissa poi numerosi altri criteri di determinazione della
competenza per valore. Così, in caso di richiesta da parte di più soggetti,
o contro più soggetti, dell’adempimento per quote di un’obbligazione, il
valore della causa si determina dall’intera obbligazione (ART 11).
Il valore delle controversie per divisione si determina calcolando il
valore della massa attiva da dividersi.
Per la determinazione della competenza sulle controversie immobiliari,
l’ART 5 impone un calcolo sulla base del valore catastale dell’immobile.
In realtà la norma non ha più uno spazio applicativo, in quanto il GDP
non ha competenze per valore in materia di diritti reali immobiliari, e la
norma è rimasta al suo posto quale residuo dell’originaria distribuzione
delle competenze immobiliari tra il defunto pretore e il tribunale: oggi
l’unico competente in materia immobiliare è il tribunale.
4.Competenza per territorio
83
Veniamo ora alla competenza per territorio, alla determinazione del c.d.
foro della causa.
Incontriamo anzitutto, da un lato, i c.d. fori generali e dall’altor i c.d. fori
speciali. I primi sono quelli che sono determinati in funzione di un
criterio di localizzazione del convenuto indipendentemente dal tipo di
controversia sottoposta a giudizio, i secondi sono invece riservati dalla
legge a trattazione di specifiche controversie.
I fori generali sono quello delle persone fisiche (ART 18) e quello delle
persone giuridiche (ART 19). Secondo l’ART 18, se la legge non dispone
specificamente in modo diverso “è competente il giudice del luogo in cui
il convenuto ha la residenza o il domicilio e, se questi sono sconosciuti,
quello del luogo in cui il convenuto ha la dimora. E’ da notare che la legge
non detta un ordine tra domicilio e residenza: i due criteri sono sullo
stesso piano e l’attore è libero di servirsi dell’uno o dell’altro. Infine “se il
convenuto non ha residenza, né domicilio, né dimora nello Stato o se la
dimora è sconosciuta, è competente il giudice del luogo in cui risiede
l’attore”. (ART 18 u.c.)
Il foro generale delle persone giuridiche e delle associazioni non
riconosciute è determinato dall’ART 19 che dispone che “qualora sia
convenuta una persona giuridica, è competente il giudice del luogo dove
essa ha la sede. E’ competente altresì il giudice del luogo dove la persona
giuridica ha lo stabilimento o un rappresentante autorizzato a stare in
giudizio per l’oggetto della domanda”.
Fori speciali sono invece i fori determinati in funzione del tipo di
controversia sottoposta a giudizi. Così per le cause relativi a diritti di
obbligazione, l’ART 20 attribuisce competenza “al giudice del luogo in cui
è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione dedotta in giudizio”. Così l’ART 22,
per le cause ereditarie, attribuisce competenza al giudice (tribunale) del
luogo dell’aperta successione. Le cause relative ai diritti reali su beni
immobili, in materia di locazione e comodato di immobili e di affitto di
azienda, sono devolute al tribunale del luogo dove è posto l’immobile o
l’azienda. (ART 21 c.1). Per le azioni possessorie, e per la denuncia di
84
nuova opera o danno temuto, è competente il tribunale del luogo in cui è
avvenuto il fatto denunciato.
I fori speciali vengono distinti in fori speciali facoltativi e esclusivi.
Quelli facoltativi sono detti così perché la loro scelta è lasciata alla
volontà dell’attore: il caso esemplare è quello dell’ART 20 che consente
all’attore di decidere se chiamare il convenuto davanti al suo foro
generale, o davanti al giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi
l’obbligazione dedotta in giudizio, ove per luogo in cui è sorta
l’obbligazione si intende dove si è stipulato il contratto.
Altro foro facoltativo concorrente è quello del domicilio eletto a norma
dell’ART 47. Secondo l’ART 30 in tal caso, l’attore può scegliere, in
alternativa al foro generale, di chiamare in giudizio il convenuto davanti
al giudice del luogo dell’elezione di domicilio. (NOTA: si distingue tra fori
elettivamente concorrenti e successivamente concorrenti Esempio di
concorrenza elettiva è il rapporto tra l’ l’ART 18 e l’ART 20. Concorrenza
successiva tra fori si può manifestare sia come concorrenza tra foro
generale e foro generale, sia come concorrenza tra foro generale e foro
speciale).
I fori esclusivi impogno invece all’attore di agie nello specifico foto
determianto in funzione del tipo di causa, senza possibilità quindi di far
ricorso al foto generale. Sono fori esclusivi i fori che la legge determina:
• per le cause relativi ai diritti reali;
• per le cause relative ad azioni possessorie;
• per le cause ereditarie;
• per le cause tra soci e condomini;
• per le cause relative alle gestioni tutelari e patrimoniali;
• per le cause nelle quali è parte una amministrazione dello
Stato;
• per il procedimento di esecuzione forzata;
• per le cause di opposizione all’esecuzione.
Altra distinzione rilevante è quella tra foro derogabile e foro
inderogabile. Per derogabilità di un foro si intende infatti la possibilità
che le parti scelgano convenzionalmente di sottoporre una detemrinata
85
contoversia alla competenza di un giudice diverso da quello del foto
competente per legge.
(Attenzione. La distinzione tra foro facoltativo e foro esclusivo non
va confusa con la distinzione tra foro derogabile e foro
inderogabile.
La prima distinzione attiene al potere o meno dell’attore di
scegliere tra più fori; la seconda distinzione si riferisce alla
possibilità o meno che l’attore e convenuto prevedono in via
contrattuale una deroga alla disciplina legale della competenza).
La disciplina della derogabilità convenzionale della competenza sta
nell’ART 6 la cui rubrica ( “Inderogabilità convenzionale della
competenza”) lascerebbe in verità a pensare che il sistema neghi la
legittimità degli accordi derogatori della competenza. Ma dal testo (“La
competenza non può essere derogata per accordo delle parti, salvo che
nei casi stabiliti dalla legge”) si capisce subito che l’inderogabilità non è
regola assoluta, e, d’altronde, un generale potere di derogare
pattiziamente alla disciplina legale della competenza è attribuito alle
parti dall’ART 28 nel campo della competenza territoriale.
Ciò permette di concludere che la competenza per valore e la
competenza per materia non sono derogabili dalla concorde volontà
delle parti, mentre la competenza per territorio è derogabile, salvi i casi
in cui la legge ne sancisce l’inderogabilità. Lo stesso ART 28, dopo aver
stabilito in linea di principio la derogabilità, si affretta infatti a dichiarare
assolutamente inderogabili i fori stabiliti:
• per le cause previste nei numero 1,2,3 e 5 dell’ART 70;
• per il procedimento di esecuzione forzata, e il procedimento di
opposizione alla stessa;
• per i procedimenti cautelari;
• per i procedimenti possessori;
• per i procedimenti c.d. in camera di consiglio
• per ogni altro caso in cui l’inderogabilità sia disposta
espressamente dalla legge.
86
Come si vede, si tratta di cause tutte individuate con il criterio della
materia, materia di cui la legge sottintende una particolare delicatezza,
onde appare quasi di ordine pubblico l’esigenza che la determinazione
del luogo della trattazione (il foro) sia sottratto agli accordi
dell’autonomia privata.
(L’inderogabilità della competenza funzionale assume un
particolare rilievo a proposito delle deroghe alla competenza per
ragioni di connessione. (NOTA: inderogabilità della competenza
territoriale, si ha soltanto nei casi in cui sia espressamente disposta
dalla legge, all’ART 28. Fra questi casi “non è compreso il foro
stabilito dalle parti, e, pertanto, tale foro, ancorché sia esclusivo
non impedisce, al pari di ogni altro criterio determinatorio della
competenza, che questa sia suscettibile di modificazioni per ragioni
di connessione, in base alle regole della prevenzione e
dell’assorbimento ovvero del cumulo soggettivo).
Nei casi in cui è ammesso, l’accordo per la deroga della competenza
territoriale soggiace ad alcuni requisiti. Per essere valido, l’accordo “deve
riferirsi ad uno o più affari determinati e risultare da atto scritto”: Una
cosa importante da notare è che, di per sé, l’accordo non attribuisce al
giudice designato competenza esclusiva, salvo che l’esclusività della
competenza non sia espressamente pattuita.
5.La competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa
Si è già parlato delle “sezioni specializzate in materia di impresa” istituite
dall’ART 2, d.l. 1/2012, presso i capoluoghi di regione. Tali sezioni sono
competenti:
a. a) sulle controversie riguardanti la materia societaria,
relativamente alle società c.d. di capitali;
b. b) sulle controversie nelle materie disciplinate dal codice della
proprietà industriale;
c. c) sulle controversie in materia di diritto d’autore;
87
d. d) sulle controversie di cui all’ART 33 c.2 L.287/1990 (norme per
la tutela della concorrenza e del mercato);
e. e) sulle controversie relative alla violazione della normativa
antitrust dell’Unione Europea.
Le sezioni estendono inoltre la propria competenza a tutte “ le cause ed i
procedimenti che presentano ragioni di connessione” con le cause ed i
procedimenti direttamente attribuiti ad esse per ragioni di materia.
Si tratta quindi di una competenza “funzionale”; una competenza data
dalla materia e attribuita al tribunale presso cui è istituita la sezione
specializzata: L’ART 4 d.lgs. 168/2003 regola la competenza territoriale
nel senso che le controversie di cui lL’ART 3 “che, secondo gli ordinari
criteri di ripartizione della competenza territoriale.. dovrebbero essere
trattate dagli uffici giudiziari compresi nel territorio della regione”, sono
assegnate “alla sezione specializzata avente sede nel capoluogo di
regione individuato ai sensi dell’ART 1”. Ciò significa che una causa che
sarebbe di competenza, per es. del tribunale di Como, ove riguardo la
materia societaria va proposta di fronte al tribunale di Milano perché li è
istituita la sezione specializzata.
(E’ inderogabile la competenza funzionale delle sezioni
specializzate in materia di impresa? Inderogabile è certamente la
competenza per materia, sicché la causa di competenze della
sezione specializzata non può essere trattata da un tribunale che ne
è privo. Questo però non impedisce la derogabilità della
competenza del tribunale provvisto di sezione specializzata a
favore di un diverso tribunale egualmente provvisto di sezione
specializzata: l’ART 28 stabilisce infatti l’inderogabilità della
competenza per ogni caso in cui l’inderogabilità sia disposta
espressamente dalla legge).
6.Rilevazione dell’incompetenza e pronuncia sulla questione di
competenza
La rilevazione dell’incompetenza, cioè la proponibilità della eccezione di
incompetenza, incontra limiti temporali marcati.
88
Ai sensi dell’ART 38 tutti i tipi di incompetenza debbono essere eccepite
dalla parte interessata, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta
tempestivamente depositata. Si tratta di un limite temporale molto
stretto, post a pena di preclusione, cioè a pena di sanatoria
dell’incompetenza.
L’eccezione di incompetenza per territorio si ha per non proposta se non
contiene l’indicazione del giudice che la parte ritiene competente.
Quando le parti costituite aderiscono a tale indicazione, e si tratta di
incompetenza territoriale derogabile, la competenza del giudice rimane
ferma se la causa è riassunta entro tre medi dalla cancellazione del ruolo.
L’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio, nei
casi previsti dall’ART 28 sono altresì rilevabili d’ufficio non oltre
l’udienza di cui all’ART 183. Per queste categorie di incompetenza, la
mancata o tardiva eccezione di parte non impedisce dunque che il
giudice possa ancora dichiararsi incompetente sino al momento
dell’udienza di trattazione; nel rito del lavoro si tratterà dell’udienza d
discussione di cui all’ART 420.
L’ART 38 aggiunge che le questioni sollevate con l’eccezione di
incompetenza sono decise: “in base a quello che risulta dagli atti e,
quando sia reso necessario dall’eccezione del convenuto o dal rilievo del
giudice, assunte sommarie informazioni”: Esse sono decise inoltre “ai
soli fini della competenza”: si tratta cioè di una decisione sommaria che
non può pregiudicare il merito della controversia. Per fare un esempio di
quel che significa tale previsione, prendiamo l’ART 12 U.C. secondo cui “
il valore delle cause per divisione si determina da quello della massa
attiva da dividersi”: qui, in caso di contestazione della competenza, il
giudice dovrà procedere ad un sommario accertamento del valore della
massa attiva per decidere se trattenere la causa o pronunciare
declaratoria di incompetenza a favore di altro giudice.
Tale accertamento non vincolerà in alcun caso la decisione di merito, che
pertanto si potrà legittimamente discostare dalle conclusioni raggiunte
ai fini della determinazione della competenza.
La decisione sulla sola competenza è resa in forma di ordinanza.
Invero il codice prevedeva la forma della sentenza, ma la L. 69/2009 ha
trasformato il termine “sentenza”, ricorrente nei vari articoli che
89
disciplinavano la decisione, in “ordinanza”, scelta che è stata motivata da
uno scopo di semplificazione, anche se il risultato è dubbio.
La forma della sentenza è prevista solo per il caso in cui il giudice decide
contestualmente sulla competenza e sul merito.
7.Il regolamento di competenza
Contro l’ordinanza che si limita a pronunciare sulla questione di
competenza, la sola impugnazione ammessa è il regolamenti di
competenza, vale a dire un rimedio diretto alla Cassazione affinché essa
“regoli” la competenza, dica cioè incontestabilmente chi è il giudice
competente sulla specifica controversia in corso tra le parti. Il
regolamento di competenza è un vero e proprio mezzo di impugnazione,
e come tale esso è classificato dall’ART 323.
(Il regolamento di competenza è previsto dalla legge non solo per le
ordinanze sulla competenza in senso proprio, ma anche per le
ordinanze che pronunciano su questioni assimilabili alla
competenza, vale a dire sulla questione della sussistenza del potere
del giudice adito di trattare della causa o di rimetterla ad altro
giudice in fattispecie di: -connessione; litispendenza;- continenza).
Di fronte a provvedimenti che hanno ad esclusivo oggetto questioni di
competenza, il regolamento è l’unico mezzo di impugnazione, sicché il
codice lo definisce “necessario”. Può accadere però che, nello stesso
provvedimento il giudice abbia contestualmente deciso della
competenza e del merito della causa. Ciò non è logicamente possibile
quando il giudice si spoglia del giudizio declinando la propria
competenza, ma lo è quando egli, ritenuta sussistente la propria
competenza, pronunzia sul merito della causa. In tal caso il giudice
consente di contestare la statuizione sulla competenza in due modi, tra
loro alternativi: con regolamento ovvero nei modi ordinari (appello o
ricorso in CDA), ma a condizione di impugnare contestualmente il
merito. Proprio perché la contestazione del punto della competenza non
richiede necessariamente la proposizione del regolamento di
90
competenza, ma può avvenire anche in altre forme, il regolamento qui
prende il nome di regolamento facoltativo di competenza.
Si noti che la pronuncia sulla competenza può anche essere implicita,
cioè la sentenza può non essersi affatto espressa sulla competenza;
tuttavia il semplice fatto di aver deciso il merito, rivela una valutazione
positiva della competenza che legittima la parte soccombente a servirsi
del regolamento, oppure a sottoporre la questione stessa al giudice
d’appello investito dell’impugnazione del merito. (vedi esempio pag
159).
8.Conflitto di competenza e regolamento d’ufficio
Quando il giudice si spoglia della causa dichiarandosi incompetente, egli
deve indicare nell’ordinanza quale altro giudice sarebbe competente
sulla stessa causa. In tal caso le parti hanno facoltà di riassumere la causa
davanti al giudice indicato come competente, entro il termine fissato in
ordinanza,o in mancanza, entro tre mesi. Se il termine scade senza che
nessuno operi la riassunzione, il processo si estingue (ART 50). Se invece
la parte interessata abbia tempestivamente riassunto la causa, bisogna
distinguere. Nelle ipotesi di incompetenza per valore e di incompetenza
per territorio derogabile, la competenza del giudice presso cui la causa è
stata riassunta diviene “incontestabile” e il processo “continua” di fronte
a quest’ultimo. Continuare significa che non inizia un nuovo processo,
ma prosegue l’originario rapporto processuale, rapporto che può
considerarsi pendente dal momento processuale della domanda
proposta al giudice incompetente, con salvezza dei relativi effetti.
Quando invece l’incompetenza sia stata dichiarata per ragione di materia
o per territorio inderogabile ex ART 28, il giudice della riassunzione
(giudice ad quem), se non reputa di poter trattare la causa ma “ritiene di
essere a sua volta incompetente, richiede d’ufficio il regolamento di
competenza” (ART 45). Si apre in tal caso quello che il codice chiama
“conflitto di competenza”, conflitto che non può essere risolto da
ulteriori pronunce di giudici di merito, ma solo attraverso una pronuncia
della Cassazione. Il regolamento d’ufficio è richiesto con ordinanza dal
giudice, che dispone la rimesione del fascicolo d’ufficio alla Cassazione.
91
9.Il procedimento
L’istanza di regolamento di competenza è proposto dalla parte ala
Cassazione, con ricorso sottoscritto dal procuratore (ART 47).
Il ricorso deve essere notificato dalle parti che non vi hanno aderito,
entro il termine perentorio di 30 giorni dalla “comunicazione”
dell’ordinanza che abbia pronunciato sulla competenza o dalla
notificazione dell’impugnazione ordinaria nel caso previsto dall’ART 43.
La proposizione dell’impugnazione ordinaria non toglie alle altre parti la
facoltà di proporre istanza di regolamento. Se l’istanza di regolamento è
proposta prima dell’impugnazione ordinaria, i termini per la
proposizione di questa restano sospesi e riprendono a decorrere dalla
conclusione del procedimento di regolamento; se è proposta dopo,
l’impugnazione ordinaria resta sospesa ai sensi dell’ART 48.
La proposizione dell’istanza di regolamento sospende il processo: la
sospensione decorre dal giorno di cui è presentata l’istanza al cancelliere
di trasmissione del fascicolo alla Cassazione, ovvero dalla pronuncia
dell’ordinanza che richiede il regolamento d’ufficio (ART 48). Resta salva
la possibilità del giudice di autorizzare il compimento degli atti ritenuti
urgenti.
Il regolamento è deciso con ordinanza che statuisce in via definitiva ed
incontestabile sulla competenza. L’ordinanza contiene anche i
provvedimenti necessari per la prosecuzione del processo davanti al
giudice ritenuto competente e “rimette, quando occorre, le parti in
termini affinché provvedano alla loro difesa”.
Il regolamento di competenza non è ammesso contro i provvedimenti
pronunciati dal GDP. Questo vuol dire che la soluzione data dal GDP alle
questioni di competenza andrà eventualmente contestata nella forma
dell’ordinario regime impugnatorio.
L’inammissibilità riguarda comunque il solo regolamento ad istanza di
parte, mentre il regolamento d’ufficio, in caso di conflitto di competenza,
può essere richiesto anche dal GDP.
92
CAPITOLO 14. COSTITUZIONE DELL’ATTORE E DESIGNAZIONE DEL
GIUDICE ISTRUTTORE
1.Costituzione dell’attore
Dopo la notificazione della citazione al convenuto, è necessario
coinvolger gli organi della giurisdizione. E’ evidente che non basta la
notificazione della citazione, da privato a privato, perché il processo
giunga alla conoscenza ufficiale del giudice: atti ulteriori di impulso
condurranno il procedimento a sfociare in quell’incontro tra il giudice e
le parti che è la prima udienza.
Ai sensi dell’ART 165, l’attore “entro dieci giorni dalla notificazione della
citazione al convenuto a mezzo del procuratore deve costituirsi in
giudizio depositando in cancelleria la nota di iscrizione a ruolo ed il
proprio fascicolo contenente l’originale della citazione, la procura e i
documenti offerti in comunicazione.” Il primo adempimento che
incontriamo è la costituzione dell’attore. Non bastando che abbia dato
vita al processo con la notificazione della citazione, l’attore ha l’onere di
costituirsi, cioè di compiere quelle formalità che lo rende “presente al
giudizio” quale parte attiva del processo e che contestualmente mette in
moto il meccanismo che, coinvolgendo gli organi giudiziari, porterà alla
prima udienza.
L’attore deve quindi costituirsi, secondo gli adempimento prescritti
dall’ART 165, entro il termine di 10 giorni dalla notificazione della
citazione al convenuto, attraverso il deposito in cancelleria della nota di
iscrizione al ruolo.
La nota è un modulo in cui si indicano gli estremi fondamentali della
controversia, e la formalità dell’iscrizione si compie attraverso la
consegna al cancelliere del modulo precompilato dell’avvocato, allo
scopo di dare uno status ufficiale alla causa attraverso la sua inserzione
nel “ruolo”, sorta di grande registro dell’ufficio in cui la causa prende
appunto il suo “numero di ruolo”.
93
Accanto alla nota di iscrizione a ruolo, per completare la propria
costituzione, l’attore deve depositare il proprio fascicolo. Il fascicolo
consiste in una cartella contenente i documenti, alcuni necessari, altri
facoltativi. Documento necessario è l’originale della citazione, originale
contenente la certificazione della notificazione, la c.d. relata in notifica,
da cui si assume che la notifica, in una certa data, è stata compiuta. La
legge menziona i “documenti offerti in comunicazione”, ma vedremo che
la presenza di quest’ultimi non è indispensabile.
Quanto all’altro elemento indicato dall’ART 165, la procura, essa sarà
spesso contenuta a margine dello stesso atto di citazione.
L’ART 165 U.C. aggiunge che “Se la citazione è notificata a più persone,
l’originale della citazione deve essere inserito nel fascicolo entro dieci
giorni dall’ultima notificazione”. Si tratta di una norma che serve ad
evitare che, quando la citazione deve essere notificata a più di un
convenuto, scadano i prescritti 10 giorni dalla prima notificazione senza
che sia ritornato nella disponibilità dell’attore l’originale che è ancora
utilizzato per le altre notificazioni in corso.
(Per es. se la citazione va notificata a tre persone, l’attore dovrà
consegnare all’U.G. l’originale della citazione più tre copie di esso,
l’U.G. dovrà poi provvedere a notificare le tre copie a tre differenti
soggetti certificando per tre volte sull’originale le tre notificazioni,
e dovrà infine restituire all’attore l’originale della citazione
contenete le tre relate).
Costituitosi l’attore, la causa va messa in condizione di procedere e di
giungere alla prima udienza. L’iniziativa passa, a questo punto, dalle
mani dell’avvocato dell’attore a quelle del cancelliere perché nel
momento in cui l’attore ha depositato la nota di iscrizione e il proprio
fascicolo di parte contenete l’originale della citazione, all’ufficio consta
ufficialmente la pendenza del processo ed è l’ufficio che deve provvedere
al passo successivo, consistente nell’iscrizione nel ruolo generale da
parte del cancelliere.
Di seguito il cancelliere procede alla formazione del fascicolo d’ufficio ed
alla sua trasmissione al presidente dell’U.G.
94
Egli “forma il fascicolo d’ufficio, nel quale inserisce la nota di iscrizione al
ruolo, copia dell’atto di citazione, delle comparse e delle memorie in
carta non bollata e successivamente, i processi verbali d’udienza, i
provvedimenti del giudice, gli atti di istruzione e la copia del dispositivo
delle sentenze” (ART 168). Se il convenuto si costituirà anch’egli dovrà
depositare il proprio fascicolo di parte, che finirà nel fascicolo d’ufficio.
Tutti gli atti documentali nel processo confluiscono infatti nel fascicolo
d’ufficio, sede fisica, oltre che dei singoli fascicoli di parte, anche di tutti
gli atti e documenti che si formano nel corso del giudizio, ovvero che in
esso vengano prodotti attraverso i suoi canali ufficiali: il fascicolo
d’ufficio sarà la memoria storia del giudizio.
2.Designazione del giudice istruttore (G.I.)
AI sensi dell’ART 168-BIS “formato un fascicolo d’ufficio a norma
dell’articolo precedente, il cancelliere lo presenza senza indugio al
presidente del tribunale”. All’attività dell’ufficio di cancelleria si aggiunge
ora quella del presidente del tribunale “il quale, con decreto scritto in
calce alla nota di iscrizione al ruolo, designa il giudice istruttore davanti
al quale le parti debbono comparire, se non creda di procedere egli
stesso all’istruzione. Il presidente riceve dal cancelliere il fascicolo
d’ufficio e procede alla designazione del g.i., cioè dall’affidatario del
giudizio, della persona fisica cioè che dovrà materialmente gestire la
controversia, seguendola e dirigendola nel suo svolgimento.
Considerando la ripartizione di molti tribunali in più sezioni, il c.p.c.
aggiunge che: “nei tribunali con più sezioni il presidente assegna la causa
ad una di queste sezioni: sarà poi il presidente della sezione a designare
il giudice istruttore che materialmente deve seguire la causa. (NOTA:
Una volta designato il g.i. il cancelliere iscrive la causa, sul ruolo della
sezione e su quello del g.i. Osserviamo la presenza di più ruoli. Il che
significa che tutti gli istruttori hanno un proprio ruolo, un proprio
calendario, un elenco di cause. A questo punto l’ultima cosa da fare è
trasmettere il fascicolo d’ufficio che contiene i fascicoli di parte al giudice
istruttore, cioè materialmente alla cancelleria del g.i.)
95
Una volta designato, il g.i. è da quel momento investito della trattazione
concreta della controversia.
Nel sistema originario del codice, incentrato sulla collegialità del
tribunale, “attività del g.i.” significava “istruzione e trattazione”, cioè
svolgimento degli adempimento preliminari, istruzione probatoria,
direzione si aveva “rimessione al collegio”, con contestuale cessazione
della funzione del g.i. Il tribunale era un organo collegiale che si fondava
sulla scissione tra un giudice singolo “gestore” dello svolgimento della
procedura ed un collegio a cui era affidato il potere decisorio. Una volta
rimessa la causa al collegio, il g.i. si trasformava in un membro del
collegio stesso, conservando la peculiare funzione di riferire sullo stato
della causa, e partecipando poi all’attività di decisione.
Oggi la situazione è diversa perché nel novanta per cento dei casi è lo
stesso g.i. che funge anche da organo decidente. Il giudice che, in qualità
di istruttore aveva gestito materialmente la causa, si trasforma in organo
decidente. Alcune categorie di cause restano però devolute al collegio e
quindi per queste continua a funzionare il meccanismo del passaggio
della causa al collegio e della decisione da parte del collegio stesso.
Ma facciamo un passo indietro. Abbiamo visto che la citazione stabilisce
un giorno fisso per l’udienza. L’attore ha stabilito la data della prima
udienza, poniamo, al 20 Marzo. Problema: che succede se il 20 Marzo
non è giorno di udienza per il g.i. designato? Il rimedio è nel c.4 ART 160BIS, secondo cui “se nel giorno fissato per la comparizione il g.i.
designato non tiene udienza, la comparizione delle parti è rimandata
d’ufficio all’udienza immediatamente successiva tenuta dal giudice
designato”. Si tratta di un meccanismo automatico.
E’ anche però possibile che, alla data prefissata il g.i. è impedito a gestire
la causa, in quanto ha già un numero notevole di cause sul ruolo, e quindi
gli risulta difficile, per motivi temporali, aggiungere anche una nuova
causa alla sua giornata. Anche qui il codice provvede a dettare una regola
affinché il g.i. non si trovi a dover dirigere una udienza con più cause di
quelle che ragionevolmente potrebbe trattare. In questo caso però non
opera alcun automatismo: l’iniziativa passa al g.i. stesso, che è
autorizzato dalla legge a differire, con proprio decreto, la data della
prima udienza. Il comma 5 ART 168-BIS prevede che “il g.i. può differire,
96
con decreto da emettere entro cinque giorni dalla presentazione del
fascicolo, la data della prima udienza fino ad un massimo di 45 giorni. In
tal caso in cancelliere comunica alle parti costituite la nuova data della
prima udienza”. Di fatto il g.i. è autorizzato dalla legge a differire la prima
udienza alla data più conveniente per una comoda trattazione della
causa. (NOTA: i termini suddetti- 5 giorni / 45 giorni- non sempre
vengono rispettati, in quanto è possibile che il giudice sia pieno di lavoro
e quindi sposti la causa oltre i 45 giorni).
Si arriva così alla fissazione dell’effettiva data di udienza, data che viene
comunicata dal cancelliere alle sole parti costituite.
(Si è visto il meccanismo della fissazione della data d’udienza in
citazione e la prescrizione per cui il termine minimo di questa è di
90 giorni per le citazioni da notificarsi in Italia e di 150 giorni per le
citazioni da notificare all’estero.
Alla determinazione legale di un termine minimo non corrisponde
però la determinazione di alcun termine massimo, onde l’attore è
libero di fissare la data dell’udienza a 91 giorni come a 900 giorni.
La cosa accade quando l’attore, consapevole della sua dubbia
ragione, non vuole affrontare subito il giudizio, ma vuole piuttosto
esercitare pressione sul convenuto per costringerlo a trattare o a
transigere: ne segue che quest’ultimo subisce un’incertezza
pregiudizievole nei casi in cui avrebbe tutto l’interesse al celere
rigetto della domanda. La legge cura pertanto di dare al convenuto
la possibilità di ottenere l’abbreviazione dei termini di
comparizione: il convenuto può chiedere al presidente del
tribunale che “l’udienza per la comparizione delle parti sia fissata
con congruo anticipo su quella indicata dall’attore”. Il presidente
provvede con decreto da comunicarsi, a cura della cancelleria,
all’attore almeno cinque giorni prima della data dell’anticipazione).
CAPITOLO 15. LA NULLITA’ DELLA CITAZIONE
1.La nullità dell’atto di citazione
97
Come tutti gli atti giuridici, anche l’atto di citazione può essere viziato.
Parleremo di nullità, anche se il termine nel diritto processuale civile è
più generico di quello contenuto nel diritto civile.
La nullità della citazione non impedisce certo che il processo si instauri,
ma può dar luogo a rilevazione una volta che la causa giunga di fronte al
g.i.
I motivi della nullità possono essere vali: anzitutto possono mancare
elementi attinenti alla vocatio in jus, possono poi risultare viziati
elementi relatuvi alla editio actionis.
L’ART 164 si occupa di elencare queste possibilità.
1. 1.1. Nullità afferenti alla vocatio in jus
Appartengono alle nullità di prima categoria:
a. 1) Omissione o assoluta incertezza dell’organo giudiziario
davanti a cui la si domanda tutela;
b. 2) Omissione o assoluta incertezza dell’identità delle parti;
c. 3) Mancata indicazione della data dell’udienza di
comparizione;
d. 4) Assegnazione al convenuto di un termine inferiore a
quello previsto dalla legge (90 / 150 giorni);
e. 5) Mancanza dell’avvertimento che la costituzione “tardiva”
implica le decadenza di cui all’ART 167.
Si tratta, come si può vedere, di mancanze tutte relative alla corretta
chiamata del convenuto in giudizio. Come tali, esse sono sanate dalla
costituzione di questi. Se il convenuto non si è costituito, il giudice ha il
dovere invece di rilevare la nullità e di disporre “d’ufficio la rinnovazione
entro un termine perentorio”. Se la rinnovazione non viene eseguita nel
termine, il processo si estingue.
La tempestiva rinnovazione della citazione, emenda dalle nullità rilevate,
“sana i vizi”. E li sana ex tunc: gli effetti della domanda “si producono sin
dal momento della prima notificazione” (ART 164).
98
La rinnovazione ha quindi effetto retroattivo; ma efficacia sanante
retroattiva possiede anche la costituzione spontanea del convenuto. Va
solo notato che, nelle ipotesi in cui la nullità è collegata dalla legge
all’attentato al diritto del convenuto di difendersi adeguatamente, questi
deve essere messo in condizione di recuperare effettivamente i tempi
della propria difesa: è per questo che ai sensi dell’art 164 “il giudice fissa
una nuova udienza nel rispetto dei termini”.
1. 1.2. Nullità afferenti alla editio actionis
Guardiamo ora alle nullità dipendenti dai vizi di elementi relativi
all’editio actionis, alla determinazione cioè dell’oggetto e della causa
petendi della domanda.
L’ART 164 c.4 prescrive la nullità della citazione “se è omesso o risulta
assolutamente incerto” il requisito n.3 ART 163, cioè “la determinazione
della cosa oggetto della domanda, oppure se manca l’esposizione dei fatti
di cui n.4 ART 163”.
(All’incertezza sul petitum la legge aggiunge quindi l’incertezza
sulla causa petendi, in riferimento cioè all’esposizione dei fatti.
Occorre però chiarire che non tutte le mancate esposizioni “dei fatti
di cui al n.4 ART 163 danno luogo a nullità dell’atto di citazione.
Se consideriamo infatti che la nullità è ricollegata dalla legge
all’incertezza s u quel che l’attore effettivamente vuole dal giudice,
dobbiamo constatare che, mentre in certi casi i fatti costitutivi della
domanda hanno funzione individuante di per sé, senza bisogno di
ricorrere ai relativi fatti costitutivi. Si pensi, per capirci, ad
un’azione di accertamento della proprietà di un bene: il diritto da
tutelare è qui individuato dalla precisa indicazione del bene e
dall’affermazione dell’attore di esserne proprietario. Per
individuare tale tipo di azione non serve prospettare anche i fatti
costitutivi del diritto di proprietà, sicché la citazione che non li
contenesse non sarebbe pertanto nulla.
Si consideri invece una domanda di “accertamento
dell’inadempimento di una obbligazione a pagare”: di quale credito
99
si tratta, viene da chiedersi? Quando ed a che titolo è sorto? E quale
disciplina gli si applica? Si ha a che fare, in questo caso, con un
diritto che può individuarsi solo attraverso la puntuale indicazione
dei suoi fatti costitutivi: l’attore ha pertanto l’onere di indicare lo
specifico contratto che ha creato obbligazione, ovvero lo specifico
fatto idoneo a porsi quale fonte di responsabilità e di obbligazione
extra contrattuale, ecc.
E’ in questi casi che la citazione mancante della precisa
individuazione dei fatti costitutivi sarà da considerarsi nulla. In casi
quali quello dell’accertamento del diritto reale, l’inesistenza dei
fatti costitutivi potrà certo rilevare in seguito sul giudizio di
fondatezza della domanda, ma la mancanza della loro
prospettazione in domanda non produrrà mai di per sé la nullità
della citazione.
Si può quindi dire che, mentre la tutela dei diritti di credito impone
di indicarne in domanda, a pena di nullità, i fatti costitutivi, la tutela
dei diritti reali non impone un tale onere. Per questa ragione i
primi vengono classificati come “diritti eteroindividuati”, mentre i
secondo come “diritti autoindividuati”.
Si comprende come una citazione da cui non si ricavi con sicurezza quel
che viene chiesto, non possa dar luogo a soddisfacente trattazione, e che,
quindi, l’atto sia intimamente viziato. La semplice costituzione del
convenuto non basterebbe però a sanarlo. La presenza spontanea del
convenuto può, sanare un vizio della “chiamata”, ma non può sanare un
vizio della richiesta: di fronte ad un “buco” nella domanda, né il
convenuto saprebbe come difendersi, né il giudice come decidere” Per
aversi sanatoria, occorre allora una integrazione della domanda.
E’ per questo che l’ART 164 statuisce che il giudice, rilevato questo tipo
di nullità, deve comunque fissare all’attore un termine perentorio per
integrare la domanda. Così, se il convenuto non si è costituito, egli fisserà
il termine “per rinnovare la citazione”; se il convenuto si è invece
costituito, egli si limiterà a fissare solo il termine “per integrare la
domanda”. All’inutile trascorrere del termine seguirà quindi la chiusura
del processo in punto di rito. (NOTA: Si discute se tale chiusura debba
avvenire nella forma dell’estinzione o della sentenza contenente
100
declaratoria di nullità della citazione. Si preferisce la via dell’estinzione,
in quanto si fa applicazione estensiva della prescrizione dettata per la
sanatoria delle nullità dell’ART 164).
La corretta e tempestiva rinnovazione della citazione, o la soddisfacente
e tempestiva integrazione della domanda, daranno invece luogo a
sanatoria della nullità della citazione. Nel caso di rinnovazione della
citazione, occorrerà ovviamente che l’attore fissi anche la nuova data
dell’udienza; se il convenuto si è invece già costituito, il giudice stabilisce
direttamente la nova udienza, che varrà sempre da “udienza di prima
comparizione e trattazione”, con applicazione dell’ART 167. Il convenuto
è così rimesso in termini per costituirsi; se già costituto può ancora, non
oltre 20 giorni prima di tale udienza, depositare comparsa idonea a
contenere eccezione di incompetenza, proposizione di domanda
riconvenzionale, chiamata di causa terzi, proposizione di eccezioni
processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.
C’è però una rilevante particolarità da considerare rispetto al medesimo
effetto nell’ipotesi di nullità riguardante la vocatio: la sanatoria è qui
irretroattiva. Stabilisce lo stesso ART 164 “restano ferme le decadenze
maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla
integrazione”. In altre parole, se, dopo la notifica della citazione nulla e
prima della sanatoria della nullità, fosse venuto a scadenza un termine di
decadenza o di prescrizione per l’esercizio del diritto fatto valere
dall’attore, né la decadenza né la prescrizione sarebbero evitate dalla
successiva rinnovazione: quest’ultima avrebbe efficacia ex nunc e non
servirebbe a riportare la situazione al momento della prima
notificazione.
CAPITOLO 16.La difesa del convenuto
1.Costituzione del convenuto
Il convenuto si costituisce “a mezzo di procuratore, o personalmente nei
casi stabiliti dalla legge” (ART 166); “depositando in cancelleria il
proprio fascicolo contenete la comparsa di cui all’ART 167 con la copia
101
della citazione modificata, la procura ed i documenti che offre in
comunicazione”.
La costituzione è tempestiva quando avviene nei termini previsti
dall’ART 166, cioè “almeno venti giorni prima dell’udienza di
comparizione fissata nell’atto di citazione (o 10 giorni prima in casi di
abbreviazione dei termini), ovvero almeno venti giorni prima
dell’udienza fissata a norma dell’ART 168 BIS, c.5”.
2.La comparsa di risposta
L’ART 167 introduce la comparsa di risposta.
Questa comparsa è l’atto con cui il convenuto “si fa vivo” nel processo; è
l’atto che contiene l’esposizione dei fatti e delle ragioni della sua difesa,
nonché le conclusioni. Nella comparsa di risposta la parte citata
manifesta la posizione che intende assumere nel processo, cioè se, entro
che limiti e perché resiste.
La comparsa di risposta è dunque il modo con cui il convenuto entra
nella scena del processo e fissa la propria posizione: “Nella comparsa di
risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese, prendendo
posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, indicare
le proprie generalità ed il cod.fiscale, i mezzi di prova di cui intende
valersi ed i documenti che offre in comunicazione, formulare le
conclusioni” (ART 167). Il c.2 aggiunge che egli “ a pena di decadenza
deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni
processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio”.
Il c.3 aggiunge che il convenuto, “se intende chiamare un terzo in causa,
deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e provvedere ai sensi
dell’ART 269”.
La rilevanza della tempestività della costituzione si apprezza
considerando che l’ART 167 descrive alcuni elementi che il convenuto
deve inserire “a pena di decadenza”, nella comparsa di risposta
tempestivamente depositata, laddove altri elementi sono puramente
indicati quale oggetto della comparsa di risposta ma la loro assenza ivi
non è sanzionata da decadenza. Ciò significa che il convenuto può
allegarli in un momento successivo.
102
Si precludono:
a. 1) Le eccezioni processuali e di merito non rilevabili
d’ufficio;
b. 2) Le domande riconvenzionali;
c. 3) La chiamata in giudizio di terzi.
Viceversa, non debbono essere obbligatoriamente compiute a pena di
decadenza nella comparsa di costituzione tempestivamente depositata:
a. a) La proposizione delle eccezioni di rito e di merito
rilevabili d’ufficio, e
b. b) L’indicazione dei mezzi di prova con cui il convenuto
intende valersi, compresi i documenti che offre in
comunicazione.
Il convenuto può infatti proporre le eccezioni a lui non riservate e
indicare mezzi di prova e documenti anche in un momento successivo.
2.1. Mere difese ed eccezioni
Rispetto alla domanda proposta nei suoi confronti, il convenuti può
assumere più posizioni. Egli ha anzitutto la libertà di scegliere di restare
estraneo alla controversia non costituendosi affatto (contumacia),
ovvero può, costituendosi, aderire alla domanda, eventualmente
riconoscendo i fatti postine a fondamento. Adesione e/o riconoscimento
possono essere parziali o totali.
Normalmente però, il convenuto che si costituisce mirerà a contrastare
la posizione dell’attore. Questo può avvenire in vari modi e con vari
mezzi, combinabili tra loro in vario modo.
Una prima forma di difesa del convenuto è la contestazione dei
presupposti o delle modalità del processo che lo vede convenuto. Per
esempio dice che il giudice adito non è competente. In tal modo il
convenuto solleva la questione della violazione della legge che presiede
al corretto procedere e, così facendo, introduce un’eccezione
processuale, o eccezione di rito mirante ad una pronuncia sulla
procedura che impedisca l’accoglimenti della domanda ma senza
affrontare il merito della controversia.
103
L’altra possibilità difensiva del convenuto riguarda il merito della
controversia, cioè il diritto dedotto dall’attore, e la sussistenza degli
obblighi o delle soggezione affermate nei suoi confronti: il convenuto
chiede il rigetto della domanda perché il diritto non è mai sorto, o perché
si è estinto, ovvero perché non appartiene all’attore ma a altri. In tal
modo egli domanda al giudice un accertamento negativo, rispetto a
quanto chiesto in positivo dall’attore.
Il convenuto può anche cumulare tra loro contestazioni riguardanti la
possibilità e/o la correttezza del processo in cui è stato chiamato (difese
di merito), e contestazioni del diritto vantato dall’attore (difese di rito),
per esempio affermando: “Il giudice adito non è competenza, in ogni
caso, anche ammesso che sia competente, non esiste il diritto vantato”.
Sul piano del merito, la forma più elementare di contestazione è la
semplice contraddizioni delle altrui affermazioni: il convenuto può
infatti limitarsi a contestare la ricostruzione dei fatti così come
presentata dall’attore, e/o opporsi alle conclusioni giuridiche che l’attore
ricollega ai fatti. In tal caso egli espleta quella che tecnicamente è detta
“mera difesa”.
Il convenuto può peraltro non limitarsi a negare la presenza dei
presupposti richiesti dalla legge per l’accoglimento della domanda: egli
può, a sua volta, introdurre nel processo fatti diversi da quelli dedotti
dall’attore, idonei ad ottenere il rigetto della domanda.
Di fronte ai fatti costitutivi egli potrà dedurre fatti idonei a valere da fatti
estintivi del diritto fatto valere, ovvero modificativi di cesso, o ancora
impeditivi dell’accoglimento della pretesa. Con la deduzione in giudizio
di tali fatti il convenuto si oppone “eccependo”: egli solleva un’eccezione
di merito.
2.2. La domanda riconvenzionale
La proposizione di un’eccezione arricchisce il materiale di causa, non
però l’ambito dell’accertamento che resta confinato al diritto dedotto.
L’eccezione allarga infatti l’oggetto della cognizione del giudice, ma non
sposta l’oggetto del processo e l’oggetto della decisione, che continuano a
riguardare sempre e solo il diritto fatto valere.
104
Tuttavia il convenuto, in luogo di limitarsi a contrapporre eccezioni
all’azione esercitata contro di lui, può a sua volta sfruttare il processo in
corso per contro-agire, cioè per formulare una contro-domanda.
Nel processo che lo vede convenuto, egli può infatti chiedere
l’accertamento di propri diritti rispetto al diritto dedotto in domanda.
Egli può cioè non accontentarsi di domandare il rigetto della domanda
originaria, ma chiedere una pronuncia a proprio favore su un diritto non
ricompresi nell’ambito del giudizio segnato dalla domanda dell’attore, un
diritto che, in astratto, egli avrebbe potuto tutelare in via autonoma ma
che, date le circostanze, può essere giudicato nel processo in corso.
Quando questo avviene, si attua un cumulo di domande nello stesso
processo: alla domanda originaria si aggiunge la c.d. domanda
riconvenzionale del convenuto. Quindi, il processo che all’origine era
nato con un solo “oggetto”, in questo caso “acquista” un ulteriore
oggetto: la cognizione verterà quindi su due distinte domande e la
sentenza pronuncerà non solo sul diritto, oggetto originario della
domanda espressa in citazione, ma anche sul diritto fatto valere con la
domanda riconvenzionale. (NOTA: Riconosciamo una domanda
riconvenzionale quando ci troviamo di fronte ad un’istanza del
convenuto che sarebbe dallo stesso proponibile al di fuori di quel
processo e indipendentemente dall’iniziativa dell’attore. Solo perché
quest’ultimo ha anticipato il primo, il convenuto ha sfruttato la
situazione processuale in cui si è venuto a trovare ed ha proposto
domanda riconvenzionale. Esempio: Contratto a prestazioni
corrispettive).
2.3 Eccezioni rilevabili d’ufficio e eccezioni non rilevabili d’ufficio
Nelle comparsa di risposta tempestiva vanno proposte, a pena di
decadenza, anche “le eccezioni processuali e di merito che non siano
rilevabili d’ufficio”.
Ma che significa che un’eccezione è rilevabile d’ufficio? Significa che, ai
fini della decisione, il giudice può prendere in considerazione il fatto
impeditivo / modificativo / estintivo indipendentemente dall’apposita
richiesta del convenuto di tenerne conto.
105
Viceversa, quando l’eccezione non è rilevabile d’ufficio il fatto non potrà
essere autonomamente considerato dal giudice, spettando invece al
convenuto espressamente domandare che lo si prenda in
considerazione.
Come si fa a distinguere la prima categoria dalla seconda ?
Osserviamo il fenomeno che è fotografato in alcune norme del c.c. Per es.
in tema di prescrizione, l’ART 2938 c.c. statuisce: “Il giudice non può
rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta”. Se la domanda è stata
proposta termini di prescrizione del diritto già scaduti, si sarebbe portati
a pensare che il giudice dovrebbe rigettare la domanda per prescrizione
del diritto fatto valere; l’ART 2938 c.c. però lo impedisce, statuendo che il
giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta, cioè che il
convenuto non si è curato di espressamente sollevare. Il convenuto che
si è difeso in giudizio, ma non ha tempestivamente segnalato di volersi
avvalere della prescrizione, impedisce al giudice di dare rilievo al
decorso del tempo, pur risultante agli atti.
In simmetria con l’ART 2938 altre norme espressamente pongono sulla
parte interessata l’onere di sollevare l’eccezione: così è per l’eccezione di
compensazione.
Talora, viceversa, il c.d. prescrive che una data eccezione può essere
rilevata d’ufficio dal giudice.
Più spesso la legge non prende posizione espressa sul regime di
rilevabilità dell’eccezione, lasciando all’interprete il relativo problema.
La soluzione accertata è quella della normale rilevabilità d’ufficio
dell’eccezione. L’eccezione di merito è quindi rilevabili d’ufficio, salvi i
casi in cui la legge espressamente ha riservato alla parte il suo rilievo.
(Per fare un esempio, è rilevabile d’ufficio l’intervenuto
adempimento, da pare del debitore, quale fatto estintivo
dell’obbligazione dedotta in giudizio. Se al giudice risulta agli atti il
pagamento del debito, sarà legittimato a rigettare la domanda).
Che significa che il giudice può rilevare d’ufficio l’eccezione? Che egli
stesso può cercare i fatti a fondamento dell’eccezione al di fuori del
processo e dedurli di sua iniziativa nel processo? NO!
106
Per poter essere rilevati d’ufficio, i fatti impeditivi/modificativi/estintivi
debbono in realtà essere già presenti nel processo, in quanto dedotti
dalle parti, e, come tali, appartenenti legittimamente al materiale di
causa.
2.4. Le eccezioni processuali
La regola delle generale rilevabilità d’ufficio dell’eccezione attiene
specificatamente alle eccezioni di merito, relative cioè ai rapporti
sostanziali oggetto del giudizio. Ma l’ART 167 fa riferimento anche alle
eccezioni processuali: il termine ultimo assegnato al convenuto per
eccepire a pena di decadenza riguarda tanto le eccezioni di merito non
rilevabili d’ufficio, quanto le eccezioni processuali anch’esse non
rilevabili d’ufficio.
Come si è accennato, eccezioni processuali sono quelle che, lungi dal
riferirsi al rapporto sostanziale oggetto del processo, mettono in
discussione la regolarità del processo stesso. Esse possono riguardare
tanto un vizio del c.d. “presupposti processuali”, quanto un vizio
attinente allo svolgimento della procedura.
Possiamo, a questo proposito, fissare due categorie di eccezioni
processuali. Alcune di queste eccezioni denunciano la mancanza,
l’incompletezza o il vizio di qualcosa necessaria per la corretta
instaurazione del processo. Si tratta di eccezioni che riguardano i c.d.
presupposti processuali, cioè i pre-requisiti per procedere. In mancanza
di uno di questi di presupposti, la macchina del processo non potrebbe
incamminarsi, e quindi, se già partita, si deve arrestare. (Esempio:
incompetenza).
Un’altra categoria di eccezioni processuali riguarda la denuncia di vizi di
forma di atti. E’ importante distinguere questa categoria di eccezion idi
rito (c.d. nullità formale) da quelle relative ai presupposti esterni al
processo (c.d. nullità extraformale) perché la regola generale della
rilevabilità dell’una categoria non coincide con la regola generale della
rilevabilità dell’altra.
Quando infatti ci troviamo di fronte ad una nullità formale dell’atto
processuale l regole sono quelle dettate dall’ART 157: “Solo la parte nel
107
cui interesse è posto un requisito può opporre la nullità dell’atto per la
mancanza del requisito stesso, ma deve farlo nella prima istanza p difesa
successiva all’atto o alla notizia di esso”, e “La nullità non può essere
opposta dalla parte che vi ha dato causa né da quella che vi ha rinunciato
tacitamente”.
Da queste due norme si ricava che la nullità formale di un atto del
processo, è rilevabile solo a istanza di parte, cosicché si esclude una
generale rilevabilità d’ufficio. Siamo sulla sponda opposta rispetto a
quanto visto per le eccezioni di merito, per le quali si era concluso che la
regola generale è la rilevabilità d’ufficio, a meno che non sia la legge a
prevedere che una certa nullità è rilevabile solo dalla parte. Qui si inverte
la regola generale: le nullità formali degli atti del processo non sono
rilevabili d’ufficio, ma sono rilevabili solo dalle parti ed alle condizioni
dell’ART 157.
Non tutte le nullità formali sono però sempre riservate alle parti:
esigenze particolari possono imporre che in certi casi il giudice possa
d’ufficio rilevare la nullità. Deve essere chiaro che questa rilevabilità su
iniziativa del giudice non è la regola generale, ma l’eccezione alla regola;
esattamente l’inverso di quel che abbiamo visto per il regime
dell’eccezione di merito.
Osserviamo così che, dove le conseguenze della nullità sarebbero di
particolare gravità, la legge si cura di conferire un potere d’ufficio di
rilevazione della nullità. (NOTA: Esempio di nullità che il giudice deve
rilevare d’ufficio è il caso della mancata comparizione del convenuto non
costituito all’udienza di prima comparizione. Qui il giudice deve
controllare la regolarità della notificazione della citazione: se riscontra
una nullità della notificazione della citazione per la quale è probabile che
il convenuto stesso non abbia avuto notizia del processo, deve d’ufficio
rilevare questa nullità ordinando la rinotificazione della citazione).
Alle c.d. nullità formali si contrappongono le nullità extraformali. In
quest’ultimo caso non si contesta la ritualità di un atto singolo del
procedimento, ma si contesta che il rapporto processuale in corso possa
esistere o che il procedimento avviato possa svolgersi di fronte a “quel”
giudice, ovvero possa svolgersi nelle forme e nei modi con cui è stato
instaurato.
108
Qual’è la regola della rilevabilità di questo tipo di eccezioni?
In linea di principio possiamo dire che anche qui vige la rilevabilità
d’ufficio. Il giudice, tendenzialmente, deve rilevare la carenza di un
presupposto processuale.
Ma se già facciamo riferimento alla competenza troviamo che le
eccezioni del convenuto hanno una disciplina di rilevabilità articolata.
Dall’ART 38 si ricava infatti che, mentre certi tipi di incompetenza sono
rilevabili d’ufficio, altri sono rilevabili solo ad istanza di parte, sicché non
se ne può trarre una regola generale.
Quindi, il panorama della rilevabilità d’ufficio, può essere così
schematizzato:
- Per le eccezioni di merito, è regola generale la rilevabilità d’ufficio;
- Per le eccezioni di rito relative alle nullità formali, la regola è quella
opposta: solo la parte interessata a sollevare nullità può farlo, ma la
legge talora dà al giudice il potere di rilevazione d’ufficio;
- Per le eccezioni di rito relative a nullità extra formali, si torna in linea di
massima alla regola posta per le eccezioni di merito; rilevabilità d’ufficio,
salvo che la legge non specifichi che quella determinata eccezione è
concessa alla parte ma non al giudice.
CAPITOLO 17. IL GIUDICE ISTRUTTORE (GI)
1. Il giudice istruttore ed i suoi poteri
Il gi designato “è investito di tutta l’istruzione della causa. Esso fissa le
udienza successive ed i termini entro i quali le parti debbono compiere
gli atti processuali”. Nei casi in cui il tribunale decide in formazione
collegiale, i poteri del gi sono limitati alla fate istruttoria, compiuta la
quale il potere decisorio passa al collegio.
Nelle cause affidate invece al tribunale monocratico, il gi è investito
anche della successiva decisione della causa.
Nell’amministrazione della procedura il gi “esercita tutti i poteri intesi al
più sollecito e leale svolgimento del procedimento” (art 173). Rientrano
nella sua disponibilità tutte le iniziative intese a favorire il corretto
funzionamento della macchina processuale ovvero a bloccare iniziative
109
di parte considerate scorrette o dannose per l’equo contemperamento
degli interessi privati e pubblici in gioco nel processo. E’ peraltro
evidente la connessione tra l’esigenza di “sollecito e leale svolgimento
del procedimento” e il “dovere di lealtà e proibirà” imposto alle parti
dall’ART 88 c.1.
I provvedimenti del gi relativi all’istruttoria hanno la forma
dell’ordinanza, salvo che la legge disponga altrimenti. Di fatto le
disposizioni di semplice meccanica processuale, assumono la forma del
decreto.
2. Regime generale delle ordinanze del gi
Per l’ART 176 le “ordinanze pronunciate in udienza si ritengono
conosciute dalle parti presenti o da quelle che dovevano comparivi;
quelle pronunciate fuori dall’udienza sono comunicate a cura del
cancelliere entro i tre giorni successivi”. Il regime di conoscibilità delle
ordinanza è quindi diverso a seconda che esse vengano pronunciate in
udienza o fuori.
Ove “pronunciate in udienza” esse verranno inserite nel verbale;
altrimenti l’ordinanza verrà contenuta in un documento autonomo.
“Sulle domande e sulle eccezioni delle arti, il gi, sentite le loro ragioni, dà
in udienza i provvedimenti opportuni; ma può anche riservarsi di
pronunciarli entro i cinque giorni successivi” (ART 186). E questo il
meccanismo della c.d. riserva di pronuncia di provvedimento.
Le ordinanze pronunciate in udienza “si ritengono conosciute dalle parti
presenti e da quelle che dovevano comparirvi” (ART 176). Tutto quello
che è pronunciato in udienza si dà per conosciuto e non c’è obbligo
dell’ufficio di cancelleria di comunicarlo alle parti presenti o che
avrebbero dovuto essere presenti. Viceversa i provvedimenti emessi
fuori udienza debbono essere comunicati “entro i tre giorni successivi”.
“Le ordinanze, comunque motivate, non possono mai pregiudicare la
decisione della causa”.
Esse “possono essere sempre modificate o revocate dal giudice che le ha
pronunciate” (ART 177): a differenza infatti della sentenza, l’ordinanza
istruttoria non spoglia il giudice del potere di ritornare sulla questione
110
decisa: su istanza della parte interessata, o anche d’ufficio, il gi potrà
ritornare su quanto deciso e revocare l’ordinanza o modificarne in parte
il contenuto.
Il potere di revocare o modificare la propria ordinanza manca però nei
casi previsti dall’ART 177 c.3 secondo cui non sono revocabili né
modificabili:
a) Le ordinanze pronunciate su accordo delle parti;
b) Le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge;
c) “Le ordinanze per le quali la legge predisponga uno speciale mezzo di
reclamo”. Si tratta di un caso residuale nel nostro ordinamento, in
quanto oramai l’unica ipotesi di “speciale mezzo di reclamo” nel
processo di cognizione contro le ordinanze del gi è quella del reclamo al
collegio contro l’ordinanza del gi che, non operando in funzione di
giudice unico, dichiara l’estinzione del processo. (NOTA: reclamo che
deve essere proposto nel termine perentorio di 10 giorni. Il reclamo può
assumere la forma di semplice dichiarazione a verbale d’udienza, o di
apposito ricorso indirizzato al gi).
Le ordinanze fin qui considerate hanno funzione regolatrice della
procedura; esistono però ordinanze che, pur pronunciate dal gi, hanno
invece contenuto decisorio in quanto incidono sul rapporto sostanziale
dedotto in giudizio anticipando la decisione di merito. Sotto certi aspetti
queste ordinanze conservano il regime delle ordinanze di rito del gi
mentre sotto altri godono dei particolari regimi che saranno trattati
dopo.
(Un discorso a parte meritano le ordinanze a condanna a pena
pecuniaria che la legge consente al gi di irrogare (NOTA: un
esempio può essere quella, non superiore a 250 €, che può essere
contenuta nell’ordinanza che dichiara inammissibile l’istanza di
ricusazione del giudice), (ART 179: alla forma dell’ordinanza fanno
eccezione le pene pecuniarie che la legge consente di inserire in
sentenze, come per es. la pena accessoriamente prevista alla
sentenza di verificazione della scrittura privata ART 220).
L’ordinanza di condanna alla pena pecuniaria pronunciata in
udienza “in presenza dell’interessato previa contestazione
111
dell’addebito”, non è impugnabile; l’ordinanda di condanna
pronunciata fuori udienza è invece notificata al condannato dal
cancelliere ed è soggetta a reclamo nel termine di tre giorni alla
notificazione. Si tratta di un reclamo proposto “allo stesso giudice
che l’ha pronunciata, e dunque di un mezzo di doglianza distinto dal
reclamo più su visto contro l’ordinanza dichiarativa dell’estinzione
che si propone al collegio. Il gi, valutate le giustificazioni addotte,
pronuncia sul reclamo con ordinanza non impugnabile.
Le ordinanze di condanna a pena di pecuniaria costituiscono titolo
esecutivo).
CAPITOLO 18. L’UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE E
TRATTAZIONE DELLA CAUSA
1. La verifica della procedibilità della domanda
L’ART 183, come modificato dalla L. 80/2005, descrive la c.d. udienza di
prima comparizione e trattazione della causa: “All’udienza fissata per la
prima comparizione delle parti e la trattazione il giudice istruttore
verifica d’ufficio la regolarità del contraddittorio e, quando occorre,
pronuncia i provvedimenti previsti dall’ART 102, c.2, dell’ART 164 c.2-35, dell’ART 167 c.2-3, dall’ART 182 e 291, c.1”.
Si tratta di provvedimenti relativi alla regolarizzazione dei vizi (sanabili)
eventualmente riscontrati, che mirano ad impedire che il processo
prenda una piega viziata, che potrebbe portare alla nullità della
sentenza. (NOTA: La prima comparizione serve appunto a verificare che
le cose siano andate tutte per il verso giusto: a tal fine il giudice
pronuncia provvedimenti destinati a regolarizzare il rapporto
processuale. Egli così verifica se ci siano difetti di rappresentanza della
parte. Tutti i provvedimenti che possono essere imposti dall’irregolarità
del rapporto processuale possono essere adottati dal giudice in questa
sede. Si ricordi che il gi, nel caso in cui il convenuto non si sia presentato
ancora, deve capire se la sua non presenza dipenda da vizi di
notificazione che potrebbero indicare che il convenuto non sia a
conoscenza del processo che lo vede convenuto. In questo caso a tutela
112
del principio del contraddittorio, il gi deve ordinare la rinnovazione della
notificazione entro un termine perentorio. Solo la tempestiva
rinnovazione della notificazione permette al processo di proseguire).
In tale prospettiva, una delle attività più importanti imposte al giudice è
quella richiamata dall’ART 182, vale a dire verificare “d’ufficio la
regolarità della costituzione delle parti”, in modo che, quando occorre,
egli possa invitare “a completare e a mettere in regola gli atti e
documenti che riconosce difettosi”. Quando infatti “rileva un vizio di
rappresentanza o di assistenza o di autorizzazione”, o un vizio che
determina la nullità della procura al difensore il giudice deve adoperarsi
per far sì che a questo si possa rimediare.
In tal caso “assegna” alle parti un termine perentorio per la costituzione
della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, o per il
rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della
procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. Quando pronuncia tali
provvedimenti “il giudice fissa una nuova udienza di trattazione; se
invece il rapporto processuale appare regolare, non essendovi esigenza
di provvedere ad integrazioni e correzioni, l’udienza assume la funzione
di prima udienza di trattazione della causa.
“La trattazione della causa davanti al gi è orale”(ART 180). In linea di
principio l’istruttoria del processo è retta dal principio di oralità,
principio comunque temperato da numerose previsioni di memorie
scritte.
Trattare la causa significa “istruirla”, cioè ordinatamente svilupparla
consentendone il graduale decorso attraverso episodi procedurali fatti di
richieste delle parti, deduzioni e contro-deduzioni delle stesse in
contraddittorio, provvedimenti ordinatori del giudice, attività di
assunzione delle prove e così via fino alla conclusione del processo che
dovrebbe coincidere con la sentenza finale. ciò richiede, di norma, una
serie di udienze in cui il processo si dipana attraverso attività di vario
genere. Può però accadere che la trattazione subisca una radicale
semplificazione, nel senso che la causa si presenti obiettivamente
“matura per la decisione” e si imponga quindi alle parti la necessità di
fissare definitivamente le proprie conclusioni per permettere al giudice
di decidere alla domanda senza ulteriori attività istruttorie. Questo
113
accade quando, per esempio la controversie sottoposta a giudizio è una
controversie in cui si manifesta un contrasto limitato all’aspetto
giuridico sicché non c’è da svolgere alcuna istruzione probatoria,
essendo i fatti pacifici ovvero le parti completamente d’accordo su essi, e
divergendo le reciproche posizioni solo sull’interpretazione di una
norma di legge, o, comunque, sulle conseguenze giuridiche degli eventi.
In casi come questi il giudice può direttamente trattenere la causa in
decisione, una volta fatte precisare alle parti le rispettive conclusioni: lo
si ricava dall’ART 80 BIS delle disposizione di attuazione del codice
(Testo integrativo del codice scritto nel 1941), secondo cui, anche
nell’udienza di prima comparizione, si può avere “remissione al collegio”.
2. L’interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione
L’ART 185 c.1 prescrive che il gi in caso di richiesta congiunta, fissa
l’udienza per la comparizione personale delle parti, al fine di interrogarle
liberamente e di provocarne la conciliazione: solo quindi in presenza di
una richiesta bilaterale, il gi è vincolato a fissare l’udienza, ma egli può
sempre discrezionalmente decidere di interrogarle liberamente ai sensi
dell’ART 117.
L’interrogatorio in questione è detto “libero”, perché lo si contrappone a
quello “formale” che è un mezzo di prova volto ad ottenere la
confessione di una parte. Si tratta di un interrogatorio che non svolge
funzioni probatorie in senso stretto (nel senso che non è possibile
annettere all’interrogatorio libero la valenza della confessione, in quanto
valida solo se fatta in quello formale), ma è piuttosto un espediente volto
al chiarimento dello stato dei fatti e delle posizioni delle parti, un’attività
attraverso cui il giudice può farsi un’idea sullo stato della controversia e
su cui può appoggiarsi per tentare la conciliazione delle parti.
L’ART 185 prosegue prescrivendo che, disposta la comparizione
personale, “le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un
procuratore generale o speciale, il quale deve essere a conoscenza dei
fatti della causa”.
La procura “deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata
autenticata, e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o
114
transigere la controversia”. L’incontro ad hoc tra le parti e giudice ha
dunque anche lo scopo di sondare la possibilità di pervenire ad una
conciliazione che, ponendo fine alla materia del contendere, renda inutile
la prosecuzione del processo.
(La conciliazione davanti al giudice non è un atto processuale in
senso stretto: è un atto negoziale, di autonomia privata che però,
proprio perché compiuto di fronte all’organo giudiziario e nel
contesto del giudizio in corso, ha riflessi sulla prosecuzione del
processo stesso. Quando la conciliazione riesce, essa viene infatti
consacrata in un processo verbale sottoscritto dalle parti e dal
giudice e il documento contenente la conciliazione assume il valore
particolare di titolo esecutivo “stragiudiziale”).
3. La trattazione della causa
In mancanza di richiesta congiunta di apposita udienza per la
comparizione personale delle parti, l’udienza assume funzione di
udienza di trattazione.
Anzitutto il giudice “richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i
chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d’ufficio delle quali
ritiene opportuna la trattazione”. (ART 183). La norma impone
all’istruttore un importante obbligo che riguarda sia le questioni di
stretto diritto, sia le questioni di fatto che comunque incidono sulle
domande e sulle allegazioni delle parti. Lo scopo della indicazione alle
parti delle questioni rilevabili d’ufficio è quello di tutelare il principio del
contraddittorio.
Questa prescrizione è rinforzata dal c.2 ART 101, che prevede che “se
ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata
d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di
nullità un termine, non inferiore a 20 e non superiore a 40 giorni dalla
comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti
osservazioni sulla medesima questione”.
Il c.5 ART 183 lascia spazio per ulteriori allegazioni delle parti, sicché la
materia del contendere potrà dirsi completata solo al termine
115
dell’udienza. Solo allora si produce la preclusione per l’attività assertiva
delle parti.
Dobbiamo distinguere in generale due tipi nuove allegazioni possibili:
a) Un tipo di allegazioni dipendenti dallo svolgimento dialettico del
processo (adeguare cioè la propria linea in base alla posizione assunta
dall’altra parte);
b) Un tipo di allegazioni non dipendenti dallo svolgimento dialettico: le
parti hanno cioè la facoltà di modificare le proprie posizioni
indipendentemente dalla posizione assunta dall’altra parte.
3.1 Le novità dipendenti dallo svolgimento dialettico del
contraddittorio
Al primo tipo di novità appartengono le richieste che l’attore può fare in
funzione della domanda riconvenzionale o delle eccezioni sollevate dal
convenuto: se sollecitato, il giudice concede alle parti un termine
perentorio per “proporre le domande e le eccezioni che sono la
conseguenza” delle domande ed eccezioni già proposte (ART 183).
La norma concede all’attore il diritto di replicare alla presa di posizione
del convenuto nella comparsa di risposta. L’attore ha, per così dire,
“aperto il fuoco”, ma, al momento dell’udienza di trattazione, l’ultimo a
parlare è stato il convenuto, il quale ha risposto con difese, eccezioni o
addirittura domande riconvenzionali. L’attore può ben avere qualcosa da
replicare ed è così ammesso a proporre proprie ulteriori “repliche” a
condizione che esse si presentino come conseguenza dell’attività del
convenuto, cioè siano dipendenti dalle domande e dalle eccezioni
proposte da questi.
(Cosa significa che l’attore può a sua volta sollevare eccezioni
rispetto alle eccezioni del convenuto? Pensiamo ad un atto e che
domanda l’accertamento del diritto ed a cui il convenuto eccepisce
l’intervenuta prescrizione: il principio del contraddittorio impone
che l’attore sia posto in condizione di replicare a tale eccezione.
Ora, tipica contro-eccezione dell’attore rispetto all’eccezione di
116
prescrizione è la replica con cui si sostiene l’avveramento di un
fatto idoneo a interrompere la prescrizione).
La norma parla però anche di domandare che l’attore può proporre nei
confronti delle eccezioni e delle domande del convenuto. Il quadro
evidentemente si amplia. Fino ad ora abbiamo evocato la possibilità che
il convenuto proponga una domanda riconvenzionale; ora introduciamo
la possibilità che l’attore reagisca alla domanda riconvenzionale.
Alla riconvenzionale l’attore potrà ovviamente replicare con apposite
eccezioni, così come il convenuto aveva potuto replicare sollevando
proprie eccezioni alla domanda principale. Ma, così colme il convenuto
rispetto alla domanda originaria poteva non limitarsi all’eccezione ma
contrattaccare com domanda riconvenzionale, questo potere viene
riconosciuto anche all’attore, il quale, a sua volta, di fronte alla
riconvenzionale potrà proporre una “riconvenzionale della
riconvenzionale”: si tratta di una nuova domanda che si viene a cumulare
alla sua domanda originaria ma che è resa possibile dalla domanda
riconvenzionale del convenuto. La sede per la riconvenzionale della
riconvenzionale è proprio la prima udienza di trattazione in cui l’attore
“può proporre le domande e le eccezioni che sono la conseguenza della
domanda riconvenzionale”.
C’è ancora una possibilità per l’attore: “egli può essere autorizzato a
chiamare un terzo nel processo, ai sensi degli ARTT 106 e 269, se
l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Anche qui l’esigenza deve
essere sorta dalle difese del convenuto. Siano sempre nella logica dello
sviluppo dialettico del contraddittorio; dalle difese del convenuto
possono discendere varie esigenze, una è quella di rispondere con nuove
eccezioni e con nuove domande nei confronti della parte originaria,
l’altra è quella di chiamare un terzo in causa.
3.2 Le novità indipendenti dallo svolgimento dialettico del
contraddittorio
Le parti possono inoltre “Precisare e modificare le domande, le eccezioni
e le conclusioni già formulate”. Questo significa che le parti hanno
117
sempre la possibili di aggiustare le loro posizioni: non possono certo
“cambiare le carte in tavola”, ma possono “rettificare il tiro”, cioè
adeguare la propria linea difensiva a quanto accaduto nel frattempo.
Precisazione e modificazione sono concetti inevitabilmente sfumati e
non facilmente determinabili. Possiamo però cercare di capire di che
cosa di tratta da alcuni esempi. Sicuramente certi interventi sulle
allegazioni vanno al di là della precisazione e della modificazione poiché
entrano nella zona del mutamento della domanda (che è vietato), e
quindi non sono consentiti nel processo.
(La c.d. “mutatio libelli” è la trasformazione dell’azione esercitata in
giudizio. Essa è vietata in corso di causa per la semplice ragione
che, se, chiedendo X, impegno la mia controparte a difendersi su X,
non posso poi, di punto in bianco, chiedere Y costringendo la
controparte a cambiare difesa e ad argomentare su altro:
un’evidente esigenza di autoresponsabilità vincola l’attore ad
attenersi al nucleo della propria domanda. Su questa linea si
considera mutamento vietato quello che si traduce in una pretesa
obiettivamente diversa da quella originaria).
Al di qua del vero e proprio mutamento c’è comunque una zona grigia di
interventi consentiti sulle richieste già formulate che pesiamo tentare di
individuare, seppure con una certa approssimazione.
Per precisazione si intende l’attività con cui si rende esplicito ciò che era
implicito nelle difese. Per modificazione si intende l’attività di
adattamento della linea difensiva ai fatti nuovi o ai nuovi argomenti
addotti dalla controparte.
Modificazione significa “aggiustamento della domanda o delle
conclusioni, ma in un senso più incisivo della precisazione. Precisando ci
si limita a svolgere qualcosa di implicitamente contenuto in quello che si
era detto fino a quel momento; modificando invece si mira ad ottenere lo
stesso risultato perseguito, ma individuando una via diversa per
raggiungerlo. (NOTA: Esempio di precisazione. In un caso di incidente
stradale, si è chiesta la condanna a risarcire il danno e il convenuto ha
contestato la dinamica del fatto così come ricostruita dall’attore. L’attore
118
ha, per esempio, sostenuto che il veicolo investitore non ha rispettato la
precedenza; in comparsa di risposta invece viene eccepito che la
precedenza spettava a quest’ultimo. “Precisazione” è allora
l’affermazione che è vero che il regime giuridico di quell’incrocio dava la
precedenza all’altra macchina, però, nella specie, il cartello che imponeva
la precedenza era divelto. Quindi, venendo l’attore da destra poteva
ragionevolmente presumere di godere della precedenza. E’ noto che,
secondo le regole generali e in mancanza di contrari segnali, la
precedenza spetta a chi viene da destra, sicché tali regole generali
tornano a prendere vigore e, nel nostro esempio, giustificano la
fondatezza della domanda dell’attore).
La precisazione differisce dalla modificazione sotto il profilo della
notifica al contumace. Solo le modificazioni debbono essere notificate al
contumace, non le precisazioni.
4. I termini per le memorie
Il c.6 ART 183 regola la possibilità di concedere un termine alle parti per
svolgere le attività di integrazione della materia del contendere in un
momento successivo: se richiesto, il giudice concede alle parti i seguenti
termini perentori:
a) Ulteriori 30 giorni per depositare memorie relative alle sole
precisazioni o modificazioni delle domande, eccezioni e conclusioni già
proposte;
b) Ulteriori 30 giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o
modificate dall’altra parte, per proporre le eccezioni che sono
conseguenza delle domande ed eccezioni medesime e per indicare mezzi
di prova e produzioni documentali;
c) Ulteriori 20 giorni per l’indicazione di prova contraria.
Attività che potrebbero svolgersi direttamente in udienza possono
quindi anche essere dilazionate e posposte ad un momento successivo:
dietro richiesta di parte, il giudice è tenuto a concedere termini per la
presentazione di apposite memorie. Ciò si giustifica perché non si può
pretendere che in sede di discussione orale le parti siano sempre in
grado di discutere e di argomentare su tutto: sorgono talvolta questioni
119
complesse in punto di diritto che è difficile affrontare seduta stante e,
come il giudice può riservarsi di sciogliere le questioni postegli, così
anche alle parti è consentita la forma più meditata della memoria scritta
successiva. Naturalmente, quando l’attore abbia svolto in udienza una
delle attività del c.5 (replicando alla nuova eccezione o alla domanda
riconvenzionale del convenuto) nel corso dell’udienza dell’ART 183, la
concessione del termine è eminentemente finalizzata alla difesa del
convenuto. Per la propria replica questi deve poter godere di un termine
congruo per controreplicare.
Ma oltre a precisazioni e modificazioni di domande eccezioni e
conclusioni, le parti possono chiedere al giudice di essere autorizzate
all’indicazione dei medi di prova e produzioni documentali. Dalla norma
si ricava dunque che è permesso alle parti di integrare la propria
produzione istruttoria attraverso il deposito di nuovi documenti, e la
richiesta di nuovi mezzi di prova. Si è visto che citazione e comparsa di
risposta debbono indicare i mezzi di prova ed i documenti di cui le parti
intendono valersi: l’ART 183 c.6 conferma però che tali indicazioni non
debbono essere fatte a pena di decadenza negli atti introduttivi ma
possono ancora essere svolte nel termine perentorio fissato dal giudice
su richiesta fatta dall’udienza di trattazione.
“Salva l’applicazione dell’ART 187, il giudice provvede sulle richieste
istruttorie fissando l’udienza di cui all’ART 184 per l’assunzione dei
mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti. Se provvede mediante
ordinanza emanata fuori udienza, questa deve essere pronunciata entro
30 giorni (NOTA: Quando provvede alle richieste istruttorie, il giudice è
peraltro tenuto a fissare il c.d. calendario del processo. Il giudice deve
sentire le parti e valutare la natura, l’urgenza e la complessità della causa
per poi fissare, nel rispetto del principio di ragionevole durata del
processo, il calendario delle successiva udienze “indicando gli
incombenti che verranno in ciascuna di esse espletati, compresi quelli di
cui all’ART 189”. I termini fissati nel calendario possono essere
prorogati, anche d’ufficio, quando sussistono “gravi motivi
sopravvenuto” ma la proroga deve essere richiesta dalle parti prima
della scadenza dei termini. La norma, che nella prima formulazione
sembrava esprimere una buona volontà solo cartacea in quanto si
120
scontrava con il fatto che alla parte non era dato alcun potere di farla
rispettare, prevede ora che il mancato rispetto dei termini fissati nel
calendario da parte del giudice, del difensore o del consulente tecnico
d’ufficio “Può costituire violazione disciplinare, e può essere considerato
ai fini della valutazione di professionalità e della nomina o conferma agli
uffici direttivi e semidirettivi”).
Con tale provvedimento, che ha la forma di ordinanza, la trattazione
della causa cambia oggetto, passando dalla fase dell’istruzione c.d.
preliminare alla fase della c.d. istruzione probatoria.
Si chiude quindi la prima fase del processo. (NOTA: Restano salve alcune
eccezioni a tale chiusura. Una di queste consiste nel fatto che il giudice
può, in proseguii, ancora introdurre le questioni che la legge non riserva
alle parti. Se è vero che le parti vedono preclusi i loro poteri di
rideterminare la materiale del contendere, è anche vero che il giudice
può ancora fare uso di eccezioni rilevabili d’ufficio e quindi che deve
riaprire il contraddittorio anche oltre questo momento. Questa decisione
è oggi imposta dall’ART 111, secondo cui “il giudice la decisione,
assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine non inferiore a 20 e
non superiore a 40 giorni dalla comunicazione, per il deposito in
cancelleria di memoria contenenti osservazioni sulla medesima
questione”. L’altra possibilità è quella che nel corso del processo si
modifichino le cose. E’ il problema delle c.d. sopravvenienza, che possono
essere sopravvenienze in fatto o in diritto. Se un certo rapporto giuridico
è dedotto in giudizio, non si può pretendere che le vicende ulteriori di
quel rapporto giuridico non abbiano rilevanza nel processo: se, in
un’azione di condanna all’adempimento, l’attore assume la mancanza di
adempimento al momento della domanda esprimendo il suo interesse
alla soddisfazione dell’obbligazione, non si può evitare di attribuire
rilevanza all’adempimento successivo a tale data. Se si è avuto
adempimento, tardivamente sì, ma comunque in tempo per essere
dedotto prima della conclusione del processo, il giudice non potrà
accogliere la domanda, dichiarando la persistenza dell’obbligazione
inadempiuta e pronunciando condanna in conseguenza. Se si impedisse
di attribuire rilevanza ad un tale fatto si garantirebbe due volte la stessa
utilità al creditore, con un suo arricchimento senza causa e correlativo
121
impoverimento del debitore che si vedrebbe condannato per un debito
già pagato).
Vi è però un’ulteriore garanzia che la legge assicura, prima di passare
alla fase di istruzione probatoria. Nel caso in cui l’ordinanza disponga
anche l’ammissione di mezzi di prova d’ufficio, “ciascuna parte può
dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice con la
medesima ordinanza, i mezzi di prova che si rendono necessari in
relazione ai primi, nonché depositare memoria di replica nell’ulteriore
termine perentorio parimenti assegnato dal giudice, che si riserva di
provvedere ai sensi del settimo comma”. (ART 183 c.8). Si vuole
assicurare in questo modo il contraddittorio sulle prove ammesse in via
ufficiosa, attraverso ulteriori richieste istruttorie che le parti ritengano
necessarie in risposta ad esse.
CAPITOLO 19. LE UDIENZE ISTRUTTORIE E L’ASSUNZIONE DEI
MEZZI DI PROVA
1. Ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova
Abbiamo visto che, ai sensi dell’ART 183, il giudice deve formulare il
giudizio preliminare rispetto all’attività probatoria, valutando due cose:
che il mezzo di prova richiesto sia ammissibile e che il fatto da provare
sia rilevante. Si tratta di due giudizi tra loro complementari che vanno
visti praticamente esprimere un giudizio di ammissibilità significa alitare
se l’ordinamento consente di utilizzare lo specifico mezzo di prova
dedotto, cioè di valutare se non sia contrario alla legge far discendere la
prova del fatto da una data fonte. Per fare un esempio nel camp della
prova testimoniale, poiché secondo l’ART 2725 c.c. non è ammessa la
testimonianza quale prova degli atti per la cui redazione la legge impone
la forma scritta, la richiesta di provare per testi una donazione verrò
rigettata, ai sensi degli ARTT 183 c.7 -184, per inammissibilità della
prova.
La rilevanza viene in rilievo sotto altro aspetto.
Più che alla prova in sé, cioè alla possibilità giuridica del mezzo di prova,
il giudizio di rilevanza attiene al fatto oggetto della prova.
122
Nell’ammettere la prova, il giudice deve controllare che il fatto che si
intende provare abbia effettiva influenza sulla decisione della causa. A
tale scopo egli deve compiere una sorta di valutazione anticipata e
provvisoria: non dovranno essere ammesse le prove di fatti che, anche se
provati, non influirebbero sull’accoglimento della domanda, ovvero sul
rigetto della domanda e quindi sull’accoglimento dell’eccezione.
Solo se il mezzo di prova è ammissibile e il fatto da provare è rilevante, la
prova potrà essere ammessa per essere poi esperita nel processo.
Naturalmente tutto questo è molto importante per le prove c.d.
“costituende, cioè per quelle procedure probatorie che debbono
espletarsi nel processo; è invece meno significativo per le prove c.d.
“costituite”, quali prove documentali. Quando si allegano documenti nel
processo, di fatto si riduce ai minimi termini l’operazione di
ammissibilità e rilevanza della prova: il buon senso dice infatti che si
spenderebbero più energie per un esame anticipato dei documenti
inteso a verificare se essi sono effettivamente ammissibili e rilevanti, di
quelle che si spendono ad accettare la loro allegazione, Si verificherà al
momento del loro impiego se essi rispettano le regole di ammissibilità e
rilevanza.
Il richiamo fatto dall’ART 183 all’ART 187 significa che, intendo il gi
procede a giudicare dell’ammissibilità e rilevanza della prova in vista
della fissazione dell’udienza, per l’assunzione delle prove, in quanto non
ritenga che “la causa sia matura per la decisione di merito senza bisogno
di assunzione di mezzi di prova” (ART 187).
Può infatti capitare che talora non ci sia affatto bisogno di attività
istruttoria. La semplice trattazione delle questioni su cui si discute nel
processo può avere chiarito che la valutazione del torno o della ragione
delle parti va valutata esclusivamente sul piano del giudizio di diritto, in
quando nel casi di specie gli eventi storici accaduti e dedotti in giudizio
sono incontestati. Quando i fatti in causa sono pacifici non c’è
evidentemente bisogno di istruzione probatoria. Sarebbe un inutile
diversivo chiamare testimoni, approntare consulenze, ecc. quando quel
che preme è isolo appurare quali siano le conseguenza di diritto di
situazioni fattuali su cui le parti non litigano affatto. Quindi la causa può
essere decisa immediatamente secondo quanto dice l’ART 187: “Il gi, se
123
ritiene che la causa sia matura per la decisione di merito senza bisogno
di assunzione di mezzi di prova, rimette le parti davanti al collegio.
(Attenzione. L’ipotesi appena vista è che non si dia affatto luogo
all’istruttoria per assoluta mancata di controversia sui fatti di
causa. Diverso è che, dandosi luogo ad istruzione probatoria, taluni
fatti dedotti dalle parti non risultino contestati con effetto di
riconoscimento).
Quando invece si pongono esigenze istruttorie, si è visto che l’ART 183
impone al giudice istruttore di verificare ammissibilità e rilevanza della
prova e di fissare l’apposita udienza per l’assunzione dei mezzi di prova.
Il c.6 richiama il diritto della parte contro cui è chiesta una prova di
richiedere “prova contraria”.
Per prova contraria si intende la prova dell’inesistenza dello stesso fatto
che la parte vuol provare positivamente, o viceversa. Il fatto in sé resta lo
stesso, ma è soggetto a due distinte prove: quella esperita su richiesta e
nell’interesse dell’attore e l’altra prova, sempre sullo stesso fatto, ma su
richiesta del convenuto, che mira invece a provare che il fatto o non è
accaduto o presenta diverse modalità.
Siamo così giunti all’udienza di assunzione dei mezzi di prova (ART 184):
“Nell’udienza fissata con l’ordinanza prevista dal c.7 ART 183, il gi
procede all’assunzione dei mezzi di prova annessi”.
2. Poteri istruttori officiosi
I provvedimenti finora considerati regolano l’ammissione delle prove
proposte dalle parti; non mancano però casi in cui la prova può essere
direttamente disposta dal giudice, senza che la sua iniziativa dipenda da
istanze di parte (c.d. prove ammissibili d’ufficio).
Si è già accennato, anticipando il contenuto dell’ART 115, che spetta alle
parti proporre le prove che vanno “poste a fondamento della decisione”.
Sono le parti infatti che, così come debbono indicare fatti da provare,
sono normalmente onerate dall’indicazione delle fonti di prova dei fatti
stessi. Lo stesso c.1 ART 115 fa però salvi i casi in cui la legge prevede
124
specificamente che il giudice possa d’ufficio individuare, ammettere ed
esperire mezzi probatori.
I casi di disponibilità d’ufficio della prova non sono pochi; i più
importanti da ricordare sono:
- in materia di prova testimoniale, il potere del giudice di disporre la
prova per testi al di fuori dell’iniziativa di parte; l’assunzione di nuovi
testimoni se alcuno dei testimoni si riferisce per la conoscenza di fatti ad
altre persone; la rinnovazione dell’esame testimoniale;
- l’odine di ispezione di persone e cose;
- la nomina del consulente tecnico;
- la richiesta di informazioni alla PA;
- il deferimento del giuramento suppletorio;
- l’esibizione di libri, scritture contabili, lettere, telegrammi e fatture
riguardanti imprese soggette a registrazione;
- nel rito del lavoro, la richiesta di informazioni e osservazioni alle
associazioni sindacali e il più generale potere del giudice di disporre
d’ufficio, “in qualsiasi momento”, l’ammissione di ogni mezzo di prova
“anche fuori dei limiti stabiliti dal c.c.”.
(C’è una cosa da tenere sempre presente: anche quando si parla di
prova d’ufficio, questo non riguarda l’individuazione del fatto da
provare. E’ infatti sempre necessario che la notizia e
l’individuazione del fatto di cui si vuole dar la prova provenga dalla
parte. Di norma, la parte deve indicare tanto il fatto da provare,
quanto la fonte della prova, ma quando ci si trova di fronte a “prova
d’ufficio”, fermo restando che l’indicazione del fatto da provare
spetta sempre alla parte, la fonte della prova può autonomamente
essere individuata ed introdotta dal giudice).
L’ART 183 c.8 prevede che “nel caso in cui vengano disposti d’ufficio
mezzi di prova, con l’ordinanza di cui al c.7, ciascuna parte può dedurre,
entro il termine perentorio assegnato dal giudice con la medesima
ordinanza, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai
primi, nonché depositare memoria di replica nell’ulteriore termine
erettori parimenti assegnato dal giudice, che si riserva di provvedere ai
125
sensi del c.7”. Anche questa è una espressione del principio del
contraddittorio: di fronte all’esercizio del potere di disporre d’ufficio
mezzi di prova, non si può pretendere che le parti debbano restare
inerti; esse debbono invece essere messe in condizione di proporre a
loro volta mezzi di prova ad hoc, la cui ragione d’essere sta proprio
nell’ammissione del mezzo di prova d’ufficio.
2.1 La consulenza tecnica
Una fondamentale attività istruttoria a cui il giudice può ricorrere di sua
iniziativa è la consulenza tecnica (CTU). Questa è il particolare strumento
istruttorio deputato a fornire le valutazioni tecnico-scientifiche
eventualmente richieste per la decisione. Si tratta delle valutazioni che il
giudice non è in grado di compiere in quanto non possiede le
competenze tecniche proprie della materia ila cui disciplina specifica
viene in gioco quale sistema di valutazione.
Un esempio può essere quello a seguito di un incidente stradale, nel caso
in cui il giudice non sappia stabilire il danno, si avvale della perizia di un
perito assicurativo, il quale stima il danno al veicolo.
La scelta dei consulenti tecnici deve essere normalmente fatta tra le
persone iscritte in albi speciali formati a norma delle disposizioni di
attuazione del c.p.c. (ART 61).
Il CTU è inquadrato dal codice tra gli “ausiliari del giudice”. La possibilità
della nomina d’ufficio del CTU è prevista dall’ART 61: “Quando è
necessario, il giurie può farsi assistere per il compimento di singoli atti o
per tutti il processo, da uno o più consulenti tecnici di particolare
competenza tecnica”. Il consulente compie indagini che gli sono
commesse dal giudice e fornisce, in udienza ed in camera di consiglio, i
chiarimenti che il giudice gli richiede. La norcina avviene ai sensi
dell’ART 191, e l’attività è regolata dettagliatamente dagli articoli
seguenti. Il codice distingue le indagini compiute con l’intervento del gi
con formazione dell’apposito processo verbale, ma la prassi di gran
lunga prevalente è quella della consulenza svolta con relazione scritta
senza intervento del giudice. In tal caso il CTU inserisce nella relazione
anche le osservazioni e le istanze di parti.
126
Nella consulenza tecnica opera stabilmente il principio del
contraddittorio, inteso anzitutto come possibilità di nominare, accanto al
CTU, uno o più consulenti tecnici di parta (CTP). Ai sensi dell’ART 201, il
gi, con l’ordinanza di nomina del CTU, assegna infatti alle parti un
termine entro il quale esse possono nominare, con dichiarazione
ricevuta dal cancelliere, un loro consulente tecnico. Il CTP è destinato ad
affiancare il CTU nelle operazioni di consulenza: esso, oltre ad assistere
all’attività di questo “partecipa all’udienza e alla camera di consiglio ogni
volta che vi interviene il consulente del giudice, per chiarire e svolgere le
sue osservazioni sui risultati delle indagini tecniche”. Peraltro le stesse
parti possono partecipare attivamente all’attività del CTU. Questi può
essere autorizzato a domandare chiarimenti alle parti, e le parti possono
intervenire alle operazioni e “possono presentare al consulente, per
iscritto o a voce, osservazioni e istanze”.
2.2 La richiesta di informazioni alla PA
Altra importante fonte di prova lasciata alla possibilità di iniziativa
d’ufficio è la richiesta di informazioni alla PA.
L’ART 213 consente al giudice, fuori dall’ipotesi di vero e proprio ordine
di esibizione (ART 210), di domandare d’ufficio alla PA “le informazioni
scritte relative ad atti e documenti dell’amministrazione stessa, che è
necessario acquisire al processo”.
Capita sovente che dati rilevanti per la decisione non siano nella
disponibilità delle parti, ma siano comunque reperibili, o perché nella
conoscenza di organi della PA, o per il fatto di essere contenuti in archivi
o registri dell’amministrazione. L’esempio più banale è quello relativo
alle informazioni contenute nel “verbale” di un sinistro stradale redatto
da un organo di polizia, la copia del quale non sia nella disponibilità delle
parti della causa risarcitoria da quel sinistro originaria: in tal caso il
giudice potrà fare richiesta delle informazioni necessarie all’autorità di
polizia intervenuta sul luogo del sinistro.
L’amministrazione è tenuta a collaborare fornendo le informazioni
richieste. L’eventuale mancanza di collaborazione, può essere surrogata
127
dal giudice con l’emissione dell’ordine di esibizione disciplinato dall’ART
210.
3. Modalità di assunzione delle prove chiusura dell’assunzione
Con l’ordinanza ammissiva della prova, il giudice dispone anche le
concrete modalità di assunzione.
L’ART 202 sembra prevedere un’assunzione immediata, cioè consecutiva
alla pronuncia in udienza dell’ordinanza; in realtà la norma va
coordinata con l’ART 183 c.7 secondo cui, quando il giudice provvede
sulle richieste istruttorie, fissa l’apposita udienza di assunzione della
prova prevista dall’ART 184. Se l’assunzione non si esaurisce
nell’udienza designata, il giudice ne differisce la prosecuzione.
Dell’assunzione del mezzo di prova si redige processo verbale sotto la
direzione del giudice (ART 207). Le parti possono assistere
personalmente all’assunzione (ART 206).
Se i mezzi di prova devono assumersi fuori dalla circoscrizione del
tribunale, il gi delega a procedere il gi del luogo.
La parte su istanza della quale deve iniziarsi o proseguirsi la prova, può
essere dichiarata decaduta dall’assunzione se non si presenta nel luogo e
nel tempo fissato per l’assunzione. L’altra parte può peraltro chiedere
egualmente l’assunzione in assenza del richiedente.
Al giudice può essere richiesta dalla parte interessata la revoca
dell’ordinanza dichiarativa della decadenza; la revoca è pronunciata se
viene riconosciuto che la mancata comparizione dipende da causa non
imputabile alla stessa parte.
La conclusione dell’istruzione probatoria è un evento specificatamente
previsto dall’ART 209:” Il gi dichiara chiusa l’assunzione quando sono
eseguiti i mezzi ammessi ovvero dichiara la decadenza dalla prova in cui
una delle parti può essere incorsa”.
Si chiude quindi, con la chiusura dell’istruzione, un’altra fase del
processo.
Da questo momento si passa all’ulteriore e distinta fase che è quella
decisoria.
128
CAPITOLO 20. VALUTAZIONE DELLE PROVE ED ONERE DELLA
PROVA
1. Il c.d. divieto di scienza privata
Si è più volte richiamato l’ART 115 c.1 che impone al giudice di “porre a
fondamento delle decisione le prove proposte dalle parti”. L’obbligo del
giudice di prende in considerazione i fatti rilevanti per la decisione solo
se filtrati dall’attività assertiva delle parti, si manifesta infatti anche nel
divieto di procedere al loro accertamento se non attraverso le fonti di
prova specificatamente proposte dalle parti.
Questa situazione va sotto il nome di “divieto di scienza privata del
giudice”. Vietare l’utilizzazione processuale della conoscenza
strettamente personale degli elementi rilevanti per la decisione significa
imporre al giudice di subordinare la considerazione di tali elementi al
rispetto delle regole legali obiettive che presiedono al loro ingresso e al
loro trattamento: la legge regola la provenienza del materiale della
cognizione, nel senso di regolarne forme e fonti, sicché al giudice è
inibito di utilizzare dati le cui fonti si pongano fuori dalle regole del
procedere (NOTA: Significativo è l’ART 97 disp.att., che dice che “Il
giudice non può ricevere private informazioni sulle cause pendenti
davanti a sé, né può ricevere memorie se non per mezzo della
cancelleria”). La cosa si spiega per varie ragioni, la più rilavante delle
quali è che una personale e solitaria gestione delle fonti di conoscenza
sottrarrebbe la romanica del giudizio alle regole del contraddittorio:
dicendo che il giudice deve decidere “juxta alligata et probata” si
richiama appunto l’esigenza di contraddittorio che garantisce ogni
attività di allegazione ed ogni attività istruttoria.
In questo senso, si comprende come la possibilità di ammettere prove
d’ufficio, non contraddica la ratio del divieto di scienza privata. E infatti
le attività istruttorie officiasse non sono gestite dal giudice in via
unilaterale: la regolamentazione codicistica dell’istruzione probatoria,
non meno che il principio costituzionale del “giusto processo”,
impongono:
129
- di rapportare la necessità di ammettere le prove allo stato del
contraddittorio;
- di dar comunicazione della loro ammissione alle parti per provocare il
contraddittorio sul punto;
- di esperirle nel rispetto del contraddittorio, e
- di sottoporre infine al contraddittorio i risultati dell’esperimento.
L’ART 115 c.2 prevede che il giudice possa, “senza bisogno di prova,
porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella
comune esperienza”. Si tratta del c.d. “fatto notorio”, cioè del fatto che
appartiene alla conoscenza collettiva. Fatti del genere si possono
considerare in se stessi, e dunque non richiedono apposita prova da
parte del soggetto interessato.
2. I canoni di valutazione della prova
Occorre però spender qualche parola sui criteri posti dalla legge per la
valutazione dell’esito delle modalità probatorie esperite e, più in
generale, per il trattamento del risultato dei mezzi di prova introdotti e
delle procedure istruttorie esperite.
I criteri generali di valutazione delle prove sono fissati dall’ART 116: “Il
giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento,
salvo che la legge disponga altrimenti”. Regola generale è quindi quella
per cui il risultato delle prove offerte o esperite nel processo è affidato al
convincimento personale del giudice, convincimento a cui il giudice deve
arrivare in maniera ponderata.
Si suole indicare questa regola come “principio del libero
convincimento”: il significato concreto da attribuire alla prova non è
precostituito dalla legge, ma è il frutto di una convinzione che il giudice è
invitato a formarsi, utilizzando tutti gli elementi a sua disposizione e
connettendoli in maniera tale da giustificare un ragionevole esito.
Il c.2 ART 116 rafforza questa conclusione fornendo al giudice le
direttrici della sua indagine e i binari da seguire nell’argomentazione. Il
giudice può infatti “desumere argomenti di prova” in generale,
- dal contengo delle parti nel processo;
130
- dal rifiuto ingiustificato delle parti a consentire ispezioni che egli ha
ordinato (in quanto egli, ai sensi dell’ART 118, può ordinare alle parti di
acconsentire a ispezioni sulla loro persona o sulle cose in loro possesso);
- dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’ART 117,
sull’interrogatorio libero.
Ora desumere argomenti di prova vuol dire che egli è autorizzato a dar
peso ai comportamenti delle parti enunciati dalla norma per valutare il
risultato delle prove vere e proprie. Così, il significato lettera per
esempio di una deposizione testimoniale potrà essere integrato tenendo
conto del contengo generale delle parti nel corso di tutto il processo, e/o
da un rifiuto opposto ad un ordine di ispezione, e/o da risposte fornite in
sede di interrogatorio libero. Mentre contengo, risposta ad
interrogatorio libero e rifiuto di soggiacere ad ispezione, in sé presi non
potrebbero mai giustificare la convinzione del giudice in ordine al fatto
da provare essi possono legittimamente fungere da elementi di
valutazione del risultato delle prove in senso proprio, cioè mezzi di
prova considerati dalla legge.
L’applicabilità del principio del libero convincimento trova però il suo
limite nella previsione, da parte della legge, della c.d. “prova legale”.
Si dice prova legale quel mezzi di prova il cui esperimento fornisce piena
prova del fatto che ne è oggetto, senza possibilità di valutazione critica
da parte del giudice e, quindi, anche senza possibilità di confronto con
eventuali elementi istruttori. (es. confessione).
Sono questi i casi in cui la legge ha ritenuto opportuno sospendere la
vigenza del principio del libero convincimento, mettendo un freno al
vaglio critico del giudice: di fronte, ad es. alla confessione, al giudice è
vietato concludere che in realtà tale fatto non si è verificato. Egli non può
giudicare secondo la sua convinzione: la confessione fa piena prova,
contro il suo autore secondo un canone di valutazione prefissato dal
legislatore e intangibile dal giudice.
3. L’onere della prova
Collegato, ma non confondibile, con il tema del libero convincimento, è
quello dell’onere della prova. Una regola di giudiziose vuol che chi
131
afferma un fatto sia tenuto a far la prova di ciò che dice. Questo significa
che, se il giudice si imbatte in un fatto asserito ma non dimostrato, egli
deve stimate non vera l’asserzione e quindi giudicare inesistente il fatto.
Nel processo civile, l’espressione onere della prova assume il significato
fondamentale di “regola di giudizio per il fatto non provato” (NOTA: dato
che il giudice è obbligato a decidere su una controversia, se non ci sono
prove a fondamento di quanto detto dall’attore, il giudizio sarà senza
dubbio negativo): se, al momento della decisione, manca la prova (cioè il
giudice non è in condizione di dire se il fatto è avvenuto veramente o no),
di un fatto rilevante per la decisione, la parte onerata della prova subisce
il rigetto delle pretese che essa fonda sull’affermazione del fatto stesso.
Altra distribuzione dell’onere della prova tra le parti presiede all’ART
2697 c.c.: “Chi voglia far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti
che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali atti,
ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i
fatti su cui l’eccezione si fonda”.
La prova dei fatti che costituiscono il fondamento del diritto fatto valere,
c.d. fatti costitutivi, spetta dunque a colui che fa valere il diritto in
giudizio, cioè l’attore, soggetto tenuto a indicare il fatto costitutivo. Se, al
momento della decisione, al giudice non risulta provato il fatto
costitutivo, egli rigetta la domanda.
A sua volta, la prova dei fatti idonei a produrre il rigetto della comanda, è
onere di coliche li ha dedotti in giudizio, cioè del convenuto: con tali fatti,
il convenuto oppone al fatto costitutivo una circostanza che gli impedisce
di produrre gli effetti pretesi, ovvero deduce fatti a cui conseguono
l’estinzione o la modificazione del diritto stesso. Se, al momento della
decisione, al giudice risulta non provato il fatto dedotto, egli è tenuto a
rigettare l’eccezione che su tale fatto si fonda.
L’attore agisce, in parole povere, per l’accertamento del proprio diritto al
risarcimento di danni provocatigli da fatto illecito del convenuto. Tra i
fatti costitutivi del proprio diritto c’è l’imputazione al convenuto
dell’azione causativa del danno. Orbene, se, al momento della decisione,
non risulta provato che il fatto dannoso fu provocato dal convenuto, la
domanda verrà rigettata per mancato assolvimento dell’onere della
prova stabilito dal c.1 ART 1697. Si pensi ad un attore che conviene in
132
giudizio il proprietario del fondo confinante assumendone la
responsabilità per i danni derivatigli da immissione di acqua nella sua
proprietà provocata, a suo dire, da specifici lavori compiuti nella
proprietà del convenuto; ora, se egli non riesce a dare una prova
convincente che l’immissione dipenda proprio da quei lavori, il giudice è
costretto a rigettare la domanda per mancato assolvimento dell’onere
della prova.
Non si parlerebbe di mancato assolvimento dell’onere della prova nel
caso in cui, invece, il convenuto avesse dimostrato / provato che i lavori
non sono stati suoi, ma di un altra persona, e che quindi lui non è
responsabile. In questo caso, motivo specifico del rigetto non è dunque
l’applicazione della regola dell’onere della prova, ma la prova di un fatto
che rende impossibile l’accoglimento.
Il c.2 ART 2697 ci dice che, introdotto in via di eccezione un fatto
impeditivi, la sua mancata prova comporta il rigetto dell’eccezione
stessa. Eccependo che sul proprio fondo l’attore aveva compiuto lavori
idonei a provocare le infiltrazioni, il convenuto assume su di sé il rischio
della mancata prova del fatto: se non riesce a convincere il giudice, egli
subisce inevitabilmente un giudizio negativo sulla propria eccezione.
Ma al rigetto dell’eccezione corrisponde sempre accoglimento della
domanda? Non sempre e non necessariamente.
Cosa può verificarsi in caso di rigetto dell’eccezione considerata
nell’esempio?
1) La comanda può essere accolta se l’attore avrà comunque dato la
prova dell’idoneità dei lavori del convenuto a provocare le infiltrazioni:
di fronte al fallimento della prova del fatto impeditivi qui abbiamo la
prova dal fatto costitutivo;
2) La domanda dovrà essere rigettata se, al contrario, l’attore avrò fallito
nella prova del fatto costitutivo;
3) La domanda potrà essere accolta se il convenuto, sollevando la
propria eccezione, non ha avuto cura di contestare il fatto costitutivo
della domanda;
4) La domanda sarà rigettata se il convenuto, pur sollevando l’eccezione
avente ad oggetto il fatto impeditivi, ha avuto cura di contestare
133
l’affermazione dell’attore secondo cui causa delle infiltrazioni sarebbero
stati i lavori del convenuto.
Questi ultimi due casi ci portano a considerare un ulteriore aspetto
dell’onere della prova. L’effettività dell’onere dipende anche dalla
posizione in concreto assunta dall’avversario rispetto al fatto da provare.
Se l’esistenza del fatto da provare è contestata dall’avversario, l’onere
diviene attuale. Se invece il fatto dedotto non viene contestato, l’onore
non si concretizza: il fatto non contestato si intende come riconosciuto, e
la sua mancata prova non nuove all’onerato. Questa regola p codificata
dall’ART 115 c.1 che, alla previsione per cui il giudice deve porre a
fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, aggiunge
“nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”.
(Si noti come l’effetto di esonero dalla prova prodotta dalla non
contestazione sia condizionato al fatto che la parte si sia costituita e
non sia quindi restata contumace. La posizione del convenuto
contumace è valutata come contestazione delle asserzioni in punto
di fatto dell’attore che resta integralmente onerato della loro prova.
Non si può fare a meno di notare l’incongruità di tale disciplina: in
convenuto che si difende deve fare molta attenzione a quel che dice,
potendo incorrere nel riconoscimento dei fatti costitutivi se non li
contesta puntualmente, mentre il convenuto che si disinteressa del
processo che lo riguarda può starsene in finestra lasciando
all’attore l’onere pieno di provare i fatti costitutivi).
Per divenire concreto, l’onere della prova di un fatto ha dunque bisogno
che il fatto stesso sia stato contestato dalla parte che ha interesse a
contestarlo: ove questo non avvenga l’onere della prova non viene
attivato.
Si trova talora espressa l’opinione che l’onere della prova non
riguarderebbe i fatti c.d. negativi, sul presupposto che non si possa
provare l’inesistenza dei fatti. L’affermazione va però smentita perché
l’onere della prova non può venire meno solo perché, a fungere da fatto
costitutivo, modificativo, estintivo o da fatto impeditivo, è l’inesistenza di
una data circostanza. La difficoltà riguarda piuttosto il come assolvere
134
alla prova del fatto negativo, vista la pratica impossibilità di una sua
dimostrazione diretta; il problema è dunque relativo non all’onere di
darne comunque la prova, ma alla modalità di questa che si risolve
normalmente in una prova indiretta o critica. In particolare, nei confronti
di fatti negativi determinati in modo circoscritto e definito, si potrà
ricorrere alla prova di fatti positivi incompatibili; nei confronti di fatti
negativi più generici e meno determinati si ricorrerà comunque alla
prova presuntiva.
4. Le inversioni dell’onere probatorio
I criteri di ripartizione dell’onere segnati dall’ART 2697 c.c. fungono da
regola generale, ma possono essere derogati da disposizioni speciali di
legge o, entro certi limiti, dall’accordo delle parti.
L’ART 2698 c.c. stabilisce la nullità dei patti “con i quali è invertito o è
modificato l’onere della prova” quando:
- si tratta di diritti di cui le parti non possono disporre, o
- quando l’inversione o la modificazione “ha per effetto di rendere ad una
delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del diritto”.
Ne segue che l’inversione o modificazione convenzionale dell’onere è
possibile tutte le volte che il diritto controverso è un diritto disponibile e
dall’inversione non derivano particolari difficoltà per la parte che viene
gravata dell’onere; spetterà al giudice valutare in concreto se dal patto
deriva una difficoltà eccessiva di prova. L’inversione convenzionale avrà
presumibilmente luogo in occasione di una regolamentazione
contrattuale del rapporto in cui si inserisce il diritto controverso, ed
assumerà di regola la forma di una clausola contrattuale; a tale clausola
si applicherò la disciplina dell’ART 1341 c.2 c.c.
4.1 Inversione per presunzione legale
Più importante è l’inversione dell’onere che consegue al meccanismo
della presunzione legale.
Talora la legge prevede che non debba essere data prova di un dato
elemento della fattispecie legale: il fatto è considerato infatti sussistente
135
fino a prova contraria. Ne segue che, trattandosi di fatto costitutivo,
l’attore è sgravato dall’onere di darne la prova; se invece si tratta di fatto
impeditivo/estintivo/modificativo, è il convenuto che non soggiace
all’onere di provarlo.
Il più tipico degli esempi è fornito dall’ART 1218 c.c. (responsabilità del
debitore). Nel settore delle obbligazioni contrattuali, al creditore che
agisce contro il debitore inadempiente basta provare l’inadempimento
per ottenere affermazione della responsabilità del debitore; spetta
invece al debitore, che alleghi l’impossibilità della prestazione, provare i
fatti che rendono a lui non imputabile la causa dell’impossibilità. Qui la
legge opera riducendo il numero degli elementi soggetti all’onere
probatorio dell’attore: l’attore che chiede al giudice di accertare
l’inadempimento del debitore per farne discendetela responsabilità, è
tenuto a provare solo l’esistenza del credito ed il materiale
inadempimento del debitore, mentre non è affatto tenuto a provare che
l’inadempimento è stato colposo, pur potendo la responsabilità del
debitore discendere solo da inadempimento colposo.
La colpa è dunque fatto costitutivo dell’azione di inadempimento ma non
necessita di prova: l’esistenza di tale fatto costitutivo è, come si dice,
presunta. Essa non deve essere autonomamente provata ed è
automaticamente ricollegata alla prova dell’inadempimento.
Questo è il tipico modo di operare della presunzione legale, cioè della
presunzione di esistenza di un elemento della fattispecie posta
direttamente dalla legge. L’ART 2728 c.c. al suo c.1 stabilisce che “Le
presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei
quali esse sono stabilite”.
A fronte della dispensa dell’attore dalla prova positiva del fatto
costitutivo, il convenuto viene invece gravato dalla prova di un
corrispondente fatto impeditivo: secondo l’ART 1218 c.c., il debitore “che
non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento
del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato
determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui
non imputabile”. Come si vede, l’onere della prova è stato in questo caso
invertito. Dal mero fatto dell’inadempimento la legge trae la presunzione
di un altro fatto costitutivo della prova liberatoria, cioè dalla prova
136
dell’impossibilità incolpevole della prestazione. Lo onera cioè della
prova dei fatti impeditivi dell’accoglimento della domanda, con la
conseguenza che, se non riesce a dare tale prova, la domanda del
creditore sarà accolta.
La presunzione legale che, permettendo la prova contraria, si risolve in
una inversione dell’onere della prova, prende il nome di presunzione
relativa. Con tale nome la si distingue da quei casi in cui la presunzione
legale non ammette prova contraria, non essendo consentita dalla legge
la prova liberatoria rispetto alla fissazione legale di un elemento di fatto.
Quando questo accade si parla di presunzione assoluta.(NOTA: esempio
tipico di presunzione assoluta è quella dell’ART 232 c.c., presunzione di
concepimento durante il matrimonio: nelle azioni in cui viene in gioco lo
stato di figlio legittimo, la prova del fatto della nascita dopo 180 giorni
dalla data della celebrazione del matrimonio, vale quale prova del fatto
del concepimento durante il matrimonio. Tale circostanza si presume
quindi senza possibilità di prova contraria. Bisogna comunque stare
attenti alle false presunzioni assolute. Talvolta infatti si incontrano casi
di qualificazioni legali che hanno le sembianze della presunzione
assoluta ma in realtà non sono tecnicamente tali, risolvendosi piuttosto
fenomeno di “semplificazione legale della fattispecie”, cioè in situazioni
di irrilevanza di giudizio di un dato elemento della fattispecie sostanziali.
Ciò vuol dire che l’elemento considerato più che essere “presunto” in
realtà non rileva affatto ai fini dell’accoglimento della domanda, il che
significa che non è neppure necessario che l’attore lo deduca quale
elemento del diritto di cui chiede tutela. Un esempio è dato dalla c.d.
“presunzione di buona fede per il tempo successivo all’acquisto”.
5. Il meccanismo presuntivo
Ma, più precisamente, cos’è questa presunzione che la legge adopera per
invertire l’onere della prova, o per fissare un fatto senza possibilità di
prova contraria? L’ART 2727 c.c. ne dà la nozione: “Le presunzioni sono
le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire
ad un fatto ignoto”. Il meccanismo della presunzione è quello di imporre,
o giustificare, un giudizio di certezza su un fatto rilevante ai fini del
137
decider, facendolo derivare non dalla prova di esso, ma dalla prova di un
altro, distinto fatto. In sé considerato, il fatto rilevante può restare
“ignoto”, nel senso che manca la prova, ma il meccanismo presuntivo fa
sì che tale mancanza sia surrogata dalla prova di un altro, distinto fatto,
detto “noto”. In altre parole, presunzione significa che, se il fatto da
accerta è A, basta a tal fine la prova del fatto B, dalla prova di B discende
A, cioè si presume.
L’impiego delle presunzioni è consentito anche al giudice. Sotto il nome
di “presunzioni semplici”, l’ART 2729 c.c. regola infatti il fenomeno delle
presunzioni giudiziali: “Le presunzioni non stabilite dalla legge sono
lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che
presunzioni gravi, precisa e concordanti”. Il giudice può dunque, al
momento in cui è chiamato a decidere, ricavare l’esistenza di un fatto
non provato dalla prova di un altro fatto, direttamente provato o
comunque certo.
CAPITOLO 21. I MEZZI DI PROVA
1. La prova testimoniale
Si dice testimonianza la dichiarazione che, resa in giudizio da un terzo
(testimone) estraneo alla controversia, dà notizia dell’esistenza o della
conformazione di fatti rilevanti per la decisione della causa. La
dichiarazione del testimone ha lo scopo di fornire al giudice gli elementi
fattuali da utilizzare per il giudizio, mentre restano esclusi dalla
testimonianza i giudici logico-ricostruttivi del teste, le sei opinioni sulla
portata degli eventi, e le relative valutazioni giuridiche (NOTA: ogni
giudizio in punto di diritto del testimone è inammissibile, dovendo
questi limitarsi ad esporre i fatti che conosce).
Il risultato della testimonianza fornisce sempre un dato sottoposto al
libero apprezzamento del giudice, a cui è rimessa tanto la valutazione del
grado di attendibilità del teste, quanto la compatibilità della
dichiarazione con il complesso dei dati istruttori.
138
Manifestando la consapevolezza dei rischi comportato dall’affidarsi tout
court al ricordo ed al racconto degli inventi, il c.c. dissemina di divieti e
di limiti dell’esperibilità della prova testimoniale.
Resta però ild tao di fatto che la testimonianza non può essere espulsa
dalla realtà processuale, onde il pendolo finisce per oscillare, con un
giudice i cui poteri di ammettere la prova sono da un lato
restrittivamente condizionati, ma nel contempo soggetti a significative
eccezioni lasciate alla sua prudente discrezionalità.
La lettura del primo degli articoli dedicati al c.c. alla testimonianza (ART
2721) laica intendere il disfavore della legge per la prova testimoniale
dei contratti, e, in genere, degli atti privati a cui si suole dar forma scritta.
La prova non è infatti ammessa quando il valore dell’oggetto del
contratto supera 2,50€. Ma la rigidità, per la quale non sarebbe
praticamente mai possibile provare per testi la stipula o il contenuto di
un contratto, è subito ragionevolmente attenuata dal c.2, secondo cui,
l’autorità giudiziaria può, tuttavia, consentire la prova oltre il limite,
“tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni
altra circostanza”.
L’art 2722 estende il disfavore della legge alla prova per testimoni intesa
a controbattere il valore probatorio di un documento. La testimonianza è
inammissibile se ha per oggetto “patti aggiunti o contrari al contenuto di
un documento, quando si alleghi che la stipulazione è stata anteriore o
contemporanea”. La norma dà corpo al dato di comune esperienza che, di
fronte ad una stipulazione in forma scritta, è poco plausibile che le parti
non abbiano messo per iscritto tutte le loro manifestazioni i volontà,
lasciando alla forma orale pattuizioni di contenuto aggiuntivo o
addirittura contrastanti con quanto risultante dal documento.
Una minore impassibilità caratterizza invece gli accordi verbali, aggiunti
o contrari, ma successivi alla stipulazione scritta dei contratti, sicché
l’ART 2723 lascia all’autorità giudiziaria il potere di consentire la prova
testimoniale previo giudizio di verosimiglianza, sempre avuto riguardo
alla qualità delle parti, alla natura del contratto ed ogni altra circostanza.
La prova testimoniale è però ammessa in ogni caso in tre ipotesi previste
dall’ART 2724 c.c.:
139
1) Quando vi è un principio di prova per iscritto. Tale principio di prova
è costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la
quale è diretta la domanda lasci apparire verosimile il fatto allegato;
2) Quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di
procurarsi una prova scritta;
3) Quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli
forniva la prova.
La prova testimoniale è la più tipica delle prove costituende: come tale
essa è soggetta al giudizio di ammissibilità e rilevanza ed è subordinata
ad apposito provvedimento ammissivo. La prova viene dedotta dalla
parte mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei
fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere
interrogata (ART 244).
Con l’ordinanza che ammette la prova, il gi innanzitutto elimina i testi
che non possono esser esentati per legge: si tratta delle persone “aventi
bella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione
al giudizio (tale può essere ad esempio il coniuge della parte in regime di
comunione dei beni). Per poter essere sentito come teste, il terzo deve
quindi essere del tutto indifferente all’esito del giudizio: la fiducia nella
testimonianza ruota tutta intorno all’imparzialità del teste, altrimenti
compromessa in partenza.
In secondo luogo l’ordinanza ammissiva può ridurre le liste dei testimoni
sovrabbondanti. Si tenga conto però che il giudice può sempre disporre
in un secondo momento che siano sentiti i testi del quali ha ritenuto
l’audizione superflua.
Su richiesta della parte interessata, i testi vengono invitati a comparire
per rendere la loro dichiarazione (c.d. intimazione ai testimoni: art 250).
L’ UG intima poi ai testimoni ammessi dal gi di comparire nel luogo, nel
giorno ed ora fissati, indicando loro il giudice che assume la prova e la
causa nella quale debbono essere sentiti. Rispetto a quest’ultimo punto,
però, la legge di riforma n 80/2005 in modifica dlel’ART 250, ha
introdotto la possibilità che l’intimazione al testa possa anche essere
effettuata anche dal difensore attraverso l’invito di copia dell’atto
mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, o a mezzo di
PEC o a mezzo telefax.
140
All’atto dell’assunzione della testimonianza i testi sono identificati e
debbono dichiarare il loro eventuale interesse nella causa. Le parti
possono fare osservazioni sull’attendibilità del testimone: in tal caso
questi deve fornire in proposito i chiarimenti necessari. Quindi i testi
prestano giuramento: essi sono esaminati singolarmente e
separatamente e sono ammoniti dal giudice “sull’obbligo di dire la verità
e sulle conseguenze penali delle dichiarazioni false e reticenti” (ART
251).
(Attenzione. Il teste rende la sua dichiarazione sotto giuramento,
mentre la parte chiamata a rispondere ad interrogatorio formale
non giura affatto, e quindi può anche mentire).
Il gi interroga il testimone sui fatti intorno ai quali è chiamato a deporre,
ma può altresì rivolgergli, d’ufficio o su istanza di parte, tutte le domande
che ritiene utili a chiarire i fatti medesimi.
Ai sensi dell’ART 257 c.1 se alcuno dei testi si riferisce, per la conoscenza
dei fatti, ad altre persone, il giudice può disporre d’ufficio che esse siano
chiamate a deporre. Si tratta del caso della c.d. testimonianza de auditu
(per sentito dire). In tal asp il valore della testimonianza è senz’altro
ridotto, e proprio per questo al giudice è dato il potere d’ufficio di risalire
egli stesso alla fonte della conoscenza del testimone.
In ogni caso il gi può anche disporre che siano esaminati i testimoni già
interrogati, al fine di chiarirne la deposizione o di correggere irregolarità
avveratesi nel precedente esame.
(Secondo l’ART 253: “E’ vietato alle parti e al PM di interrogare
direttamente i testi”. Il divieto è però assunto in senso molto
relativo nella realtà del processo. E’ infatti diffuso malcostume che
l’interrogatorio dei testi sia operato dagli avvocati. In pratica, in
molti casi, il gi si limita alle attività preliminari, come
l’identificazione o ricezione del giuramento, mentre le domande
vere e proprie vengono specificatamente poste al teste dagli
avvocati che esercitano controllo reciproco e verbalizzano le
141
risposte Il giudice si limita poi a controllare la regolarità formale
della verbalizzazione).
La mancata comparizione del teste intimato consente di ordinare una
nuova intimazione, ma il giudice può disporre l’accompagnamento
forzato del teste all’udienza stessa o a quelle successive.
In caso di mancata comparizione senza giustificato motivo, può
condannarlo ad una pena pecuniaria da 100 a 1000 €. Se invece il
testimone compare ma rifiuta i giurare, o rigira di deporre senza
giustificato motivo, ovvero se vi è fondato sospetto che egli non abbia
detto la verità o, ancora, sia stato reticente, il gi lo denuncia al PM, al
quale trasmette la copia del processo verbale.
L’ART 257 BIS, ha introdotto nel sistema processuale italiano una forma
di testimonianza per iscritto. Come si è visto, la prova testimoniale è
tradizionalmente la prova orale per eccellenza, ma l’utilizzazione della
dichiarazione scritta del terzo asseverante fatti di causa non è
sconosciuta ad altri ordinamenti, come nel common law. (NOTA: una
norma che ammette la testimonianza scritta in Italia si trova nella
disciplina dell’arbitrato. L’ART 816-TER prevede che gli arbitri possono
deliberare di assumere la deposizione richiedendo al teste di fornire per
iscritto le risposte ai quesiti formulati).
L’ammissibilità della testimonianza per iscritto è peraltro subordinata
all’accordo delle parti ed è disposta dal giudice “tenuto conto della
natura della causai e di ogni altra circostanza”.
Il teste rende la deposizione rispondendo separatamente ad ogni
quesito; egli deve compilare il modello di testimonianza in ogni sua parte
precisando a quali quesiti non è in grado di rispondere ed indicandone la
ragione. La deposizione è sottoscritta dal testimone con apposizione di
propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di
testimonianza. Il documento viene spedito con plico raccomandato
ovvero consegnato in cancelleria. La mancata consegna o spedizione nel
termine fissato dal giudice può dar luogo alla condanna a pena
pecuniaria fino a 1000€ prevista per il teste che non compare. Il giudice,
esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il teste
sia chiamato a deporre oralmente davanti a lui, o davanti al giudice
142
delegato in caso di assunzione fuori dalla circoscrizione ai sensi dell’ART
203.
La testimonianza scritta è resa su un modulo conforme al modello
approvato con decreto del ministro della giustizia. Il modello contiene
l’ammonimento ai testimoni ai sensi dell’ART 251 e la “formula del
giuramento di cui al medesimo articolo”. Il modello richiede al teste di
indicare anche gli eventuali rapporti con le parti; deve poi contenere la
trascrizione dei quesiti ammessi, con l’avvertenza “che il testimoni deve
rendere risposte specifiche e pertinenti a ciascuna domanda e deve
altresì precisare se ha avuto conoscenza dei fatti oggetti della
testimonianza in modo diretto o indiretto”. Le sottoscrizioni “devono
essere autenticate da un segretario comunale o dal cancelliere di un
ufficio giudiziario. L’autentica delle sottoscrizioni è in ogni caso gratuita
nonché esente dall’imposta di bollo e da ogni altro diritto”.
2. La confessione
Ai sensi dell’ART 2730 c.c. la confessione è “la dichiarazione che una
parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevole e favorevoli all’altra
parte”.
I fatti contestati devono essere obiettivamente sfavorevoli al dichiarante
e devono obiettivamente giovare alla controparte.
La confessione non è efficace se non proviene da persona capace di
disporre del diritto, a cui i fatti confessati si riferiscono.
Essa può essere giudiziale o stragiudiziale:
E’ giudiziale se resa nel corso e all’interno di un procedimento giudiziale.
Essa forma piena prova contro colui che l’ha resa, purché verta su fatti
relativi a diritti disponibili. Formare piena prova significa che la
dichiarazione confessori va presa dal giudice nei precisi termini in cui è
stata resa, senza possibilità di valutazione critica, né di prova contraria
né di confronto con altri eventuali elementi probatori: essa prevale
sempre sulle risultanze probatorie difformi. La confessione è quindi da
annoverare tra le prove legali, cioè non soggette al vaglio critico del
giudice.
143
La confessione giudiziale può essere spontanea p può essere provocata
mediante interrogatorio. Quella spontanea può essere contenuta in
qualsiasi atto scritto processuale firmato dalla parte personalmente.
L’interrogatorio formale mira invece a provocare la confessione
attraverso la sottoesposizione alla parte di un fatto, o di un elenco di
fatti, ad essa sfavorevoli di cui si chiede l’asseverazione.
L’interrogatorio deve essere dedotto per articoli / capitoli separati e
specifici. La cosa è importante: obbligo di specificità significa che sono
inammissibili tanto le affermazioni geniche quanto quelle ambigue;
obbligo di separatezza significa che è inammissibile la deduzione in un
unico articolo di più fatti. I fatti vanno scomposti poi nei loro dati
elementari e ciascuno degli articoli separati deve far riferimento ad un
fatto specifico. Vanno inoltre escluse dai capitoli dell’interrogatorio tutte
le valutazioni in punto di diritto e tutte le opinioni della parte: a questa
possono solo domandarsi dichiarazioni relative alla materiale esistenza e
conformazione di fatti appartenenti alla realtà storica.
I capitoli oggetto di interrogatorio possono essere articolati dalla parte
nella propria richiesta al giudice di ammettere l’interrogatorio, oppure
direttamente nella domanda, nell’atto difensivo, o nei processi verbali di
causa.
Come tutte le prove c.d. costituende, l’interrogatorio formale è soggetto a
giudizio di ammissibilità da parte dell’istruttore e la sua assunzione è
rimessa allo stesso organo nei modi e termini stabiliti nell’ordinanza
ammissiva. La parte interrogata deve rispondere personalmente.
Particolarmente significativa è la mancata risposta della parte
interrogata. Se essa infatti non si presenta o rifiuta di rispondere senza
giustificato motivo, il giudice “valutato ogni altro elemento di prova, può
ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio”: l’assenza o il
silenzio producono quid il riconoscimento del fatto dedotto.
Una volta resa l’interrogazione giudiziale, essa non può essere revocata,
se non nel caso in cui si dia prova che essa è stata determinata da errore
di fatto, o sia stata provocata con violenza; resta invece la revocabilità
per dolo.
La confessione stragiudiziale è quella resa in qualunque occasione al di
fuori degli atti del giudizio.
144
La legge distingue tra la confessione “fatta ad un terzo o contenuta in un
testamento”, e la confessione “fatta alla parte o a chi la rappresenta”. La
confessione resa al terzo non è prova legale: essa è “liberamente
apprezzata dal giudice”, cioè è soggetta alla regola generale della
valutazione arbitraria del giudice.
Se invece è resa alla parte o a chi la rappresenta, essa “ha la stasa
efficacia probatoria di quella giudiziale”. In tal caso ha dunque piena
efficacia della prova legale, ma attenzione, questa efficacia riguarda il
contenuto della dichiarazione (es. “Non ho pagato il prezzo”), mentre
resta onere della controparte provare il fatto che quella dichiarazione è
stata effettivamente resa: tale fatto andrà provato con le normali
tecniche probatorie, e così se ne potrà dare, per esempio prova
documentale, o prova testimoniale. La prova testimoniale non è peraltro
ammessa se la confessione se la confessione stragiudiziale verte su un
oggetto per il quale tale prova non è ammessa dalla legge.
Finora si è considerato il caso che la dichiarazione del fatto sfavorevole si
presenti da sola, ma l’esperienza insegna che essa è talora accompagnata
da altri fatti tendenti “a infirmare l’efficacia del fatto confessato ovvero a
modificarne o estinguere gli effetti”.
Quando ciò accade l’ART 2734 c.c. statuisce che le dichiarazioni “fanno
piena prova nella loro integrità se l’altra parte non contesta la verità dei
fatti o delle circostanze aggiuntive”. Se invece si abbia contestazione
delle circostanze aggiunte, “è rimesso al giudice di apprezzare, secondo
le circostanze, l’efficacia probatoria delle dichiarazioni”. La contestazione
di una parte della dichiarazione complessa elimina così ogni parvenza di
prova legale, e ritorna il principio del libero convincimento del giudice.
Si noti infine che, in caso di litisconsorzio necessario, per valere da prova
legale la confessione deve provenire da tutti i litisconsorzi; se invece è
resa da alcuni soltanto dei litisconsorzi necessari, essa “è liberamente
apprezzata dal giudice”.
3. Il giuramento
L’oggetto del giuramento è specularmente opposto a quello della
confessione, nel senso che mentre quest’ultima è la dichiarazione di un
145
fatto sfavorevole al dichiarante, il giuramento è la dichiarazione solenne
di un fatto favorevole al dichiarante.
l’ART 2736 c.c. prevede due specie di giuramento. Il giuramento
decisorio “è quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere
la decisione totale o parziale della causa”. Il giuramento suppletorio è
invece quello “che è deferir d’ufficio dal giudice ad una delle parti al fine
di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono
pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite di prova”. Una
sottospecie del giuramento suppletorio è il giuramento c.d. estimatori,
che è sempre deferito dal giudice “al fine di stabilire il valore della cosa
domandata, se non si può accertarlo altrimenti”.
3.1 Il giuramento decisorio
Una parte può volontariamente rimettere la decisione della causa
all’altra, semplicemente deferendole giuramento, cioè chiedendole di
dichiarare solennemente sotto giuramento che uno o più fatto decisivi da
essa affermati sono veri. In tal modo la parte deferente rimette alla
volontà della controparte l’esito della controversia; si tratta di un evento
che non si vede certo tutti i giorni ma che ogni tanto si verifica, e per
varie ragioni. Innanzitutto perché la parte deferente non ha altro mezzo
per provare quello che dice, sicché essa è in un certo senso obbligata a
rimettere, quale ultima ratio, la sorte della controversia all’onestà e
coscienza della controparte (NOTA: una importante manifestazione del
giuramento decisorio è data dall’ART 2960 c.c che prescrive in caso di
prescrizione presuntiva, ove il debitore abbia eccepito l’intervenuta
prescrizione, al creditore non è data altra prova se non definire a
quest’ultimo il giuramento “per accertare se si è verificata l’estinzione
del debito”.
La parte chiamata a giurare deve invece dire la verità, in quando false
dichiarazioni configurano il reato di falso giuramento.
I limiti del deferimento del giuramento sono precisati dall’ART 2739 c.c.:
non può anzitutto essere definito per la decisione di cause relative a
diritti di cui le parti non possono disporre. Ma non è neppure consentito
giurato su illecito e, ancor, giurare per superare la prescrizione di forma
146
scritta imposta alla legge per la validità del contratto, cioè, per superare,
attraverso asseverazione giurata, la nullità di un contratto mancante
della forma scritta prescritta ab substantiam (ART 1350). Resta inteso
che non è vietato giurare sopra un contratto per la prova del quale sia
richiesta una particolare forma (c.d. ad probationem). Infine non è
consentito alle parti “negare un fatto che da un atto pubblico risulti
avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che ha formato l’atto
stesso”: è evidente che, in mancanza di quest’ultima norma, le parti
potrebbero, con il meccanismo del giuramento, aggirare la prescrizione
della necessaria querela di falso per contraddire quanto il pubblico
ufficiale rogante certifica avvenuto alla sua presenza.
Il giuramento deve essere prestato personalmente dalla parte, e può
essere effettuato solo da persona capace di disporre del diritto a cui i
fatti giurati si riferiscono.
Alla prestazione del giuramento consegue la prova legale dei fatti giurati:
l’ART 2738 c.1 precisa che l’altra parte “non è ammessa a provare il
contrario”, e, dal canto suo, il giudice non può in alcun modo
argomentare in maniera difforme, dovendo limitarsi a prendere atto di
quanto giurato per basare su di esso la decisione. Non solo: la forza di
prova legale del giuramento resta tale anche in caso di successivo
accertamento della sua falsità. L’ART 2738 c.c. prosegue stabilendo che
l’altra parte non può chiedere la revocazione della sentenza “qualora il
giuramento sia stato dichiarato falso”. Essa può tuttavia domandare il
risarcimento dei danno nel caso di condanna penale per falso
giuramento, e, se la condanna penale non può più essere pronunciata
perché il reato è estinto, essa può ottenere comunque il risarcimento dal
giudice civile che “può conoscere del reato al solo fine del risarcimento”.
Il giuramento decisorio può essere deferito in qualunque stato della
causa davanti al gi (NOTA: in altri termini il potere di deferire
giuramento viene meno solo quando la causa sia stata rimessa al
collegio. Traducendo dall’improprio linguaggio del codice, il deferimento
è reso impossibile dopo che la causa è uscita dalla fase istruttoria per
essersi effettuata la precisazione detta dall’ART 183 il che è
assolutamente ragionevole ,anzi è imposto falla particolare funzione del
mezzo), con dichiarazione fatta all’udienza dalla parte o dal procuratore
147
munito di mandato speciale, o con atto scritto dalla parte (ART 233).
Esso deve essere formulato in articolati separati, in modo chiaro e
specifico. Come tutte le prove costituende, la prestazione del giuramento
è assoggettata ad apposito provvedimento ammissivo del giudice,
provvedimento che il gi deve pronunciare dopo aver controllato la
ritualità della prova sotto il profilo della possibilità e liceità dell’oggetto,
della capacità delle parti di disporre del diritto, e della congruità della
formula su cui si chiede di giurare (NOTA: L’importanza del controllo, da
parte del giudice, della correttezza giuridica e logica della formula
deferita è fondamentale, dovendosi evitare che la formulazione comporti
trappole per il destinatario del deferimento. Ciò si verifica, per esempio,
quando una parte invidi ambiguamente l’altra a giuriate su un fatto che,
pur abilmente mascherato da fatto favorevole, funga in realtà da fatto
obiettivamente per esso sfavorevole. In tal modo chi deve giurare viene a
trovarsi nella seguente alternativa: o giurare e perdere la fusa o
modificare la formula a proprio e perdere lo stesso).
La parte deferente può peraltro revocare il giuramento fino al momento
in cui la controparte abbia revocato il giramento fino al momento in cui
la controparte abbia dichiarato di essere pronta a prestarlo. Un’ipotesi
particolare di revocabilità del giuramento è quella in cui il giudice
modifica la formula proposta dal deferente; in tal caso questi può
evocarlo, e ciò nonostante la controparte si sia dichiarata pronta a
giurare.
La parte a cui sia stato deferito il giuramento decisorio, può:
a) asseverare con giuramento la formula deferitagli;
b) rifiutare di giurare;
c) asseverare con giuramento una formula diversa da quella deferitagli;
d) riferire il giuramento.
Ipotesi a): la parte giura e vince.
Ipotesi b) la parte non giura e vince la controparte che ha deferito il
giuramento.
Ipotesi c): la parte giuria su un altro oggetto e perde. Alla parte chiamata
a giurare viene chiesto di asseverare specificamente la formula
deferitale, onde ogni modificazione della formula equivale sempre a
rifiuto di giurare.
148
Ipotesi d): è il c.d. “riferimento” del giuramento. La parte a cui è deferito
il giuramento decisorio, finché non abbia dichiarato di essere pronta a
giurare, “può riferirlo all’avversario nei limiti fissati dal codice civile”
(art 234). Così facendo, la parte rigetta, per così dire, la palla nel campo
dell’avversario, a cui finisce per dire: “Giura invece tu che il fatto a me
favorevole di cui mi chiedi di riconoscere l’esistenza non si è verificato”.
La parte a cui è riferito il giuramento, si viene a trovare nelle stessa
posizione in cui si trovava la controparte: giurando secondo la formula
proposta vincerà; in ogni altro caso, perderà.
Oltre ai limiti generali posto all’esperibilità del giuramento decisorio,
l’ART 2739 c.2 pone un limite specifico al riferimento vietandolo
“qualora il fatto che ne è oggetto non sia comune a entrambe le parti”.
Fatto controverso comune è, per esempio, l’aver concordato un pactum
de non petendo”, dicchi di fronte al deferimento che il creditorie-attore
faccia al debitore-convenuto della formula “giura che abbiamo
concordato che il pagamento non ti sarebbe chiesto”, potrà esservi une
ferimento della stessa formula al negativo “giura piuttosto tu che nn
abbiamo così concordato”. Fatto controverso esclusivo della parte
invitata a giurare è, per esempio, l’aver il creditore compiuto un’opzione
unilaterale che aggrava la posizione dell’obbligato, sicché la formula
“giura di aver effettivamente compiuto l’opzione”, non appare
reversibile”.
3.2 Il giuramento suppletorio
Il giuramento suppletorio è invece una tecnica di decisione della causa
riservata al giudice in sede di valutazione delle risultanze probatorie: un
giudice in dubbio sulla prova del fatto declivio può rimettere alla parte il
potere e la responsabilità di scegliere deferendole giuramento.
Quando, al momento di decidere, al giudice consta che uno dei fatti
effettivamente rilevanti ai fini della decisione non risulta compiutamente
provato, ma, nel contempo, neppure del tutto sprovvisto di prova, egli
può deferire ad una delle parti il c.d. giuramento suppletorio (art 2736
c.c.). Il giuramento si dice “suppletorio” perché supplisce, appunto, agli
elementi di prova mancanti. Il suo deferimento è meramente
149
discrezionale, poiché, di fronte all’incertezza il giudice deve applicare la
regola generale dell’onere della prova. Il deferimento del giuramento
suppletorio si presenta allora come una forma di attenuazione, può
ancora vincere semplicemente asseverando il fatto ad essa sfavorevole
che nn è stato compiutamente provato altrimenti. (NOTA: A quale delle
parti il giudice deferirà il giuramento suppletorio? La legge non indica un
criterio, ma è ragionevole ritenere che a giurare debba essere la parte su
cui grava l’onere probatorio rispetto al fatto solo parzialmente provato,
cioè la parte che sarebbe destinata a soccombere in assenza di
deferimento. Naturalmente possono aversi contestazioni sul punto: in tal
caso, la contestazione sarà risolta dal giudice ai sensi dell’ART 237 c.1,
applicabile al giuramento suppletorio in virtù della norma generale di
rinvio dell’ART 243).
Naturalmente la parte invitata a giurare assume su di sé tute le formalità
e le responsabilità connesse all’istituto: prima fra tutte la responsabilità,
anche penale, del falso giuramento con l’obbligazione, in tal caso, di
risarcire i danni.
A differenza del giuramento decisorio, il suppletorio non è riferibile alla
controparte: la parte a cui è deferito giuramento suppletorio non può
liberarsi del proprio impegno investendo la controparte del compiuto di
giurare o soccombere.
Con norma di chiusura, il c.p.c. compie un rinvio generale, per tutto
quanto non specificatamente disposto per il giuramento suppletorio.
Si è accennato al fatto che del giuramento suppletorio, esiste una
sottospecie, il c.d. estimatorio deferito dal giudice “al fine di stabilire il
valore della cosa domandata, se non si può accertarlo altrimenti”. Se la
stima del valore è obiettivamente difficile, la perplessità del giudice può
essere superata dalla rimessione alla parte di una dichiarazione giurata,
con gli stessi aggetti del suppletorio.
4. La prova documentale
Le prove documentali regolate dal c.c. sono principalmente l’atto
pubblico, la scrittura privata, le scritture contabili delle imprese soggette
a registrazioni, le riproduzioni meccaniche.
150
Cominciamo dall’atto pubblico. Per atto pubblico, l’ART 2699 c.c. intende
“il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da un
altro pubblico ufficiale atomizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo
dove è stato formato”. (NOTA: accanto al notaio, troviamo il cancelliere,
l’ut, l’ufficiale di stato civile).
L’atto pubblico “fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza
del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché dalle
dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta
avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”.
L’atto pubblico deve quindi provenire da un notaio, o altro pubblico
ufficiale assimilato.
La pubblica fede che la legge ricollega all’atto pubblico significa, dal
punto di vista processuale, che l’atto pubblico è prova legale rispetto:
a) alla provenienza del documento;
b) alla data e al luogo della redazione dell’atto;
c) all’identità e al luogo della redazione dell’atto;
d) alle dichiarazioni rese dalle parti;
e) a tutti gli altri fatti avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale e come
tali accertati nell’atto.
Tutti i dati coperti dalla pubblica fede fanno stato “fino a querela di
falso”. Ciò significa che essi non possono venir contestato se non
attraverso una formale accusa di falsità, in mancanza della quale essi si
impongono al giudice senza consentire alcuna prova contraria.
Proprio per la prova rafforzata che discende dall’atto pubblico, a tale
forma documentale si fa ricorso per gli atti e i negozi di rilevante
impegno giuridico e patrimoniale: per esempio l’atto pubblico è la forma
usuale dei trasferimenti immobiliari, dei contratti di concessione di
muovo fondiario, ecc.; per alcuni atti, inoltre, la forma dell’atto pubblico
è la forma obbligatoriamente imposta dalla legge ad substantiam: per
esempio, costituzione delle persone giuridiche.
Il fatto che la sua redazione si a conferita al notaio, e che il documento
può ben essere attaccato solo a mezzo di querela di falso garantisce la
sua stabilità ben oltre la garanzia data dalla prima scrittura.
151
4.2 La scrittura privata
Con “scrittura privata” si indica il documento sottoscritto da soggetto
privato e recante dichiarazioni imputabili al sottoscrittore proprio in
virtù della sua sottoscrizione.
Secondo l’ART 2702 c.c. la scrittura privata “fa piena prova, fino a
querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha
sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la
sottoscrizione, o se questa è legalmente considerata come riconosciuta”.
Come si può osservare, la norma fa discendere dalla certezza della
sottoscrizione la piena prova della provenienza delle dichiarazioni del
sottoscrittore: la presenza della firma di Tizio in calce ad un documento
in cui, per esempio, è scritto che egli si impegna a consegnare una data
cosa a Caio in una certa data, è prova della dichiarazione relativa a
questo impegno, se la firma è effettivamente di Tizio. Se invece Tizio, pur
riconoscendo la propria firma, vuol però negare di aver reso tali
dichiarazioni, egli può ancora attaccare il documento, ma deve farlo nelle
modalità della proposizione di querela di falso; ogni altra prova gli è
interdetta.
Ora, prodotta in giudizio contro Tizio una scrittura che si assume firmata
da questi, tale firma “si ha per riconosciuta”:
- se essa era stata originariamente autenticata come tale da notaio o da
altro pubblico ufficiale (per autenticazione si intende l’attestazione da
parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua
presenza, previo accertamento dell’identità del sottoscrivente);
- se esplicitamente Tizio la riconosce come sua, o l’ha in precedenza
riconosciuta come tale;
- se egli non la disconosce, attraverso sua formale negazione o attraverso
dichiarazione di non conoscerla resa nella prima udienza o nella prima
risposta successiva alla sua produzione in giudizio;
- se Tizio è stato dichiarato contumace.
Alla certezza dell’autografia della sottoscrizione di Tizio, consegue una
presunzione di provenienza della dichiarazione che potrà venir superata
solo dall’impugnazione della scrittura con querela di falso; ciò vuol dire
che Tizio dovrà asserire che il testo della dichiarazione non è suo bensì è
152
imputabile a qualcun altro. Dovrà quindi impegnarsi a sostenere che è
stato commesso ai suoi danni un falso materiale, per esempio che si è
avuta alterazione di caratteri di scrittura: la dichiarazione sottoscritta da
Tizio diceva “100 mila lire” e qualcuno ha fraudolentemente cancellato
“lire” e scritto “euro” al suo posto, sicché a Tizio viene falsamente
attribuita la ben diversa dichiarazione avente ad oggetto “100 mila
euro”.
Quando viceversa la sottoscrizione non è legalmente attribuibile alla
parte contro cui la scrittura è prodotta, questa non avrà bisogno di
esperire alcuna querela di falso, e spetterà invece alla controparte
dimostrare la provenienza della scrittura. Ora, la sottoscrizione non si
considera “legalmente attribuita”, nell’ipotesi in cui essa sia stata
formalmente negata: secondo l’ART 214 c.1, colui contro cui la scrittura
viene prodotta è infatti tenuto a negare formalmente la propria
sottoscrizione. Quando questo accade, la parte che intende valersi della
scrittura, se vuole ancora servirsene “deve chiederne la verificazione”.
La scrittura privata può ovviamente essere prodotta non sol contro il
sottoscrittore della stessa, ma anche contro gli eredi di questi o i suoi
aventi causa, posto che l’atto contenuto nel documento può talora
spiegare effetti nei loro confronti.
Ora, per costoro, l’onere di disconoscimento che grava sul sottoscrittore,
si trasforma nell’onere di dichiarare di non conoscere “la scrittura, o la
sottoscrizione del loro autore”. La soddisfazione di quest’onere impone
al producente di proporre istanza di verificazione se vuol servirsi del
documento, mentre la mancata dichiarazione di non conoscenza,
produce l’effetto di dar piena prova alla scrittura fino a querela di falso
contro l’erede o l’avente causa.
Un problema importante che il c.c. specifica affrontata è quello della data
della scrittura privata nei confronti di terzi. I terzi infatti vanno tutelati
da altrui iniziative collusive, come antedatazioni e retrodatazioni di atti,
che li potrebbero illegittimamente pregiudicare.
La scrittura diventa “certa e computabile riguardo ai terzi” solo dal
giorno in cui la scrittura “è stata registrata (NOTA: dal giorno in cui è
stata assolta la formalità del pagamento dell’imposta di registi sull’atto,
formalità che dà luogo alla certificazione della data dell’atto da parte
153
dell’ufficio erariale) Nota bene che la norma sulla commutabilità della
data per i terzi non parla di formalità similari per la semplice ragione
che, mentre la registrazione è possibile nei confronti di scritture di cui
non è stata autenticata la sottoscrizione, negli altri casi la scrittura
privata deve essere stata previamente autenticata, sicché la certezza
della data risulterà già dell’autenticazione) o dal giorno della morte o
della sopravvenuta impossibilità fisica di colui o di uno di coloro che
l’hanno sottoscritta o dal giorno in cui il contenuto della scrittura è
riprodotto in atti pubblici”. Così l’ART 2704 c.c. che, come si può
agevolmente vedere, elenca i fatti da cui indirettamente si ricava
l’impossibilità che la data della scrittura possa essere posteriore ad un
dato evento. In tal senso lo stesso articolo pone la regola di chiusura per
cui la certezza della data rispetto ai terzi consegue “infine, dal giorni in
cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente
incontrovertibile l’anteriorità della formazione del documento”.
4.2.1. La verificazione della scrittura privata
La verificazione della scrittura privata è un procedimento incidentale
che si inserisce all’interno del procedimento di merito in cui è stata
prodotta la scrittura di cui la parte intende servirsi nonostante il
disconoscimento operato dal preteso sottoscrittore. La parte che intende
valersene deve infatti chiedere la verificazione, “proponendo i mezzi di
prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono
servire di comparazione”).
(Attenzione. Accanto al procedimento incidentale di verificazione, è
riconosciuta anche la possibilità di proporre verificazione
attraverso procedimento ad hoc. Prevede infatti l’ART 216 c.2 che
l’istanza per la verificazione della scrittura può anche proporsi in
via principale con citazione. In tal caso la parte deve dimostrare
l’esistenza di uno specifico interesse alla verificazione; se
comunque il convenuto riconosce la scrittura, le spese sono poste a
carico dell’attore).
154
La verificazione è basata sul meccanismo della comparazione della
sottoscrizione disconosciuta con altre scrittura del medesimo soggetto. Il
giudice di regola nomina un consulente tecnico e determina le scrittura
che debbono servire da comparazione. Se non esistono o non sono
reperite scritture di comparazione, il gi “può ordinare alla parte di
scrivere sotto dettatura, anche alla presenza del CTU”. Se la parte
“invitata a comparire personalmente non si presenta o si rifiuta di
scrivere senza giustificato motivo, la scrittura si può ritenere
riconosciuta”.
5. La querela di falso
Si è visto in quali casi la legge impone la proposizione di querela di falso
(contestazione di veridicità o provenienza dell’atto pubblico). La querela
di falso è un’azione civile intesa all’accertamento giudiziale della falsità
del documento che può proporsi o in via principale (cioè con autonomo
atto di citazione davanti al giudice competente), o in via incidentale, cioè
in corso di causa in qualunque stato o grado di giudizio) “finché la verità
del documento non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato”.
(Attenzione. Mentre rispetto all’atto pubblico, sono pensabili due
forme di falsificazione (falso ideologico e falso materiale), la
scrittura privata è invece passibile solo di falso materiale. Per l’atto
pubblico si può avere, da un lato, alterazione fisica del documento,
e dall’altro, un particolare tipo di falso consistente nell’infedele
attestazione dei dati rilevanti, laddove tale tipo di falso non è
invece concepibile per i soggetti privati da cui proviene la scrittura
privata. I privati possono invece rendere false le dichiarazioni
all’atto della redazione delle loro scritture, ma non per questo
commettono alcun reato di falso.
Ne segue che, nel caso dell’atto pubblico, la querela di falso potrà
avere un duplice oggetto, mentre nel caso della scrittura privata
l’azione di falso sarà limitata alla sola denuncia di falso materiale).
155
La querela di falso proposta in via principale è una domanda giudiziale
esercitata tramite autonoma citazione di fronte al giudice competente.
Competente in via esclusiva è il tribunale: ne segue che laddove la
querela di falso sia proposta in via incidentale di fronte ad altro giudice
questi dovrà sospendere il processo in corso davanti a sé per consentire
la riassunzione della causa di falso davanti al tribunale. In ogni caso nel
processo di falso è obbligatorio l’intervento del pubblico ministrerò e
sulla quella pronuncia sempre il collegio.
La querela deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione degli elementi
e delle prove della falsità, e deve essere proposta personalmente dalla
parte oppure a mezzo di procuratore speciale, con atto di citazione o con
dichiarazione messa a verbale in udienza.
Quando la proposizione della querela di falso avviene in via incidentale,
il gi è tenuto a chiedere alla parte che ha prodotto la scrittura
incriminata se untene valersene in giudizio. Se la risposta è negativa, “il
documento non è utilizzabile in causa; se è affermativa, il giudice, se
ritiene il documento rilevante, autorizza la presentazione della querela
nella stessa udienza o in una successiva”; di seguito ammette i mezzi
istruttori che ritiene idonei, e dispone i modi ed i termini della loro
assunzione.
Il gi può rimettere le parti al collegio per la decisione sulla querela
indipendentemente dal merito. La sospensione del processo principale
può però non essere totale: su istanza di parte, infatti, il gi può disporre
che la trattazione della causa continui davanti a sé relativamente a quelle
domande che possono essere decise indipendentemente dal documento
impugnato.
6. Le scritture contabili
Gli ARTT. 2709 ss. regolami l’efficacia probatoria delle scritture contabili
delle imprese soggette a registrazione.
L’ART 2709 c.c. prevede che i libri e le altre scritture contabili di tali
imprese facciamo in generale prova contro l’imprenditore. Così se, per es
dal libro giornale, risulta che, un certo giorno, all’imprenditore è
pervenuto un pagamento da parte di un dato cliente, ciò proverà il fatto
156
di tale ricezione, e lo proverà contro l’imprenditore che eventualmente
opponga di non aver ricevuto il pagamento nella controversia in cui il
cliente pretenda la consegna della marce. Tuttavia, aggiunge il 2709, “chi
vuol trarne vantaggio non può scindere il contenuto”: per restare
nell’esempio, se dal foglio giornale risulta sì pervenuto il versamento ma
anche la sua imputazione a saldo di fornitura di una diversa partita di
merce, il cliente, se vuole servirsi del libro giornale quale prova di suo
versamento, dvd accettare che risulti provata anche la non imputazione
alla fornitura di cui si discute.
La limitazione dell’efficacia probatoria “contro l’imprenditore”, non vale
però quando, invece di intercorrere tra imprenditore e privato non
imprenditore, la controversia intercorra tra soggetti che siano tutti
imprenditori. In tal caso l’ART 2710 prescrive che i libri contabili tenuti
nelle forme della legge “possono fare prova tra imprenditori per i
rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa”. In questa ipotesi la prova
ricavata dalle scritture può ben essere a favore; naturalmente non si
tratta di prova privilegiata, e contro di essa è data qualsiasi prova
contraria.
L’importanza delle risultanza dei registri considerati sta nel fatto che, in
generale, il giudice non ha bisogno dell’istanza di parte per l’esibizione,
ma può prendere l’iniziativa anche d’ufficio, ordinando “che si esibiscano
i libri per estrarne le registrazioni concernenti la controversia in corso”.
Sempre d’ufficio può ordinare anche “l’esibizione di singole scritture
contabili, lettere, telegrammi o fatture concernenti la controversia
stessa”.
7. Le riproduzioni e le copie
Con il termine “riproduzioni meccaniche”, il c.c. intende le riproduzioni
fotografiche, quelle informatiche, quelle cinematografiche, quelle
fonografiche e, in genere, “ogni altra rappresentazione meccanica di fatti
e di cose” (ART 2712). La categoria riguarda ogni sorta di riproduzione
di vari dati della realtà ottenuta attraverso procedimenti riproduttivi
meccanici sia di tipo analogico che digitale.
157
Tali riproduzioni “formano piena prova dei fatti e delle cose
rappresentate”, ma solo “ se colui contro il quale sono prodotte non ne
disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”.
In caso di disconoscimento la piena prova viene meno e si trasforma in
prova liberamente e criticamente valutabile dal giudice.
Parimenti, il mancato disconoscimento della conformità alla scrittura
originale, attribuisce l’efficacia probatoria di quest’ultima alle “copie
fotografiche di scritture”, cioè le fotocopie, e i documenti trasmessi in
facsimile. Si noti che qui non si considera una conformità ad accadimenti
storici, ovvero alla realtà fisica, ma una conformità della copia ad una
“scrittura”, cioè ad un altro documento: a tali copie l’ART 2719 c.c.
attribuisce la stasa efficacia del documento riprodotto se la loro
conformità con questo non è espressamente disconosciuta, o “ se la loro
conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente”.
8. Il documento informatico
L’ART 1 c.1 d.lgs n.82/2005 fornisce una definizione generale del
documento informatico come “la rappresentanza informatica di atti, fatti
o dati giuridici rilevanti”.
Si tratta, evidentemente, di un documento privo di materialità.
Di fatto, un documento informatico può essere idoneo a rappresentare
non soltanto testi, ma anche suoni, immagini o, ad esempio, filmati.
A seguito di una lunga evoluzione normativa, si possono oggi distinguere
diverse tipologie di d.i.:
a) d.i. rappresentativo di fatti o cose, sottoposto al regime delle
riproduzioni meccaniche analizzato poc’anzi;
b) d.i. che rappresenti copia di “atti pubblici, scritture private e
documenti in genere”, sottoposto alla disciplina in tema di copie degli
atti, ove siano rispettate le condizioni previste dall’ART 22 del decreto
suddetto;
c) d.i. che sia invece formato all’origine tramite computerà secondo la
volontà dell’uomo e che sia, anche solo parzialmente, rappresentativo di
tale volontà. Categoria che racchiude, a sua volta:
i) d.i. privo di firma;
158
ii) d.i. dotato di forma elettronica;
iii) d.i.dotato di firma digitale, firma elettronica qualificata, o, da ultimo,
firma elettronica avanzata;
iv) d.i. dotato di firma digitale, elettronica qualificata o avanzata, che sia
stato formato dinanzi ad un notaio.
Allo scopo di identificare la paternità del documento informati, la
distinzione rilevante è quella che attiene alla presenza o meno di una
firma dei documento e poi il tipo di firma utilizzato tra quelle possibili.
La legge, in sostanza, giuridica non sufficientemente certo il metodo di
“sottoscrizione” del documento con apposizione di firma elettronica
semplice, ossia, per intenderci, legata all’utilizzo di un semplice codice di
identificazione del titolare: si pensi all’inserimento di codici pin,
passwords, per accedere, ad esempio, alla casella di posta elettronica.
Si ritengono, al contrario, maggiormente “affidabili” determinate
tipologie di firma (digitale, elettronica), in quanto ricollegate all’utilizzo
di metodi informatici più sicuri, qual’è, ad esempio, il metodo
crittografico asimmetrico a doppia chiave che caratterizza la firma
digitale.
L’efficacia probatoria del d.i. è dunque differente a seconda che si versi in
ciascuna delle diverse ipotesi sopra ricordate.
Anzitutto, nel caso cui si abbia un c.il. privo di firma, il suo valore
probatorio è ora liberamente valutabile in giudizio “tenuto conto delle
sue caratteristiche oggettive di qualità sicurezza, integrità ed
immodificabilità”.
Si dice, in sostanza, che in questi casi è rimessa al prudente
apprezzamento del giudice, sulla base di caratteristiche di qualità,
sicurezza, integrità ed immodificabilità.
In caso di apposizione ad un documento di una firma “forte”, esso, se
formato nel rispetto delle “regole tecniche” previste dalla legge. Inoltre, è
stabilito che l’utilizzo del dispositivo di firma “ si presume riconducibile
al titolare, salvo che questi sia prova contraria”, completando in tal modo
la regola per cui il d.i. firmato con le ricordate modalità, come la scrittura
privata riconosciuta, forma prova legale ella provenienza delle
dichiarazioni dal “sottoscrivente”.
159
Similmente, l’atto pubblico informatico, ai sensi dell’ART 47-BIS della
legge sull’ordinamento notarile, è in tutto e per tutto equipollente all’atto
pubblico di cui all’ART 2700.
9. Le prove atipiche
La qualifica di prove atipiche, discende da un presunto principio di
tipicità o tassatività dei mezzi di prova, da cui si dovrebbe desumere
l’impossibilità di ammissione nei processo civili di prove non rientranti
nel catalogo previsto dalla legge. L’etichetta di prove atipiche, inoltre, è
assegnata a prove che, tutt’altro che sconosciute, presentano invece
differenti modalità di assunzione di mezzi probatori tipici.
Alla categoria dei mezzi di prova “atipici” sono di norma ascritte le
scritture private proveniente da terzi; le perizie stragiudiziali; i processi
verbali redatti da agenti di pubblica sicurezza, gli atti di notorietà e le
certificazioni amministrative; le risultanze di prove ematologiche o del
DNA, gli accertamenti della velocità compiuti mediante strumenti come
l’autovelox; le prove raccolte in altri processi; gli atti o i processi verbali
di procedimenti arbitrali; le informazioni assunte da giudice nel
procedimento camerale o nel rito cautelare uniforme. Si noterà che molti
di questi mezzi sono in parte riconducibili ad altri già previsti dai codici.
CAPITOLO 22. DINAMICHE ALTERNATIVE DEL PROCESSO
1. La mancata costituzione di entrambe le parti
Fino ad ora abbiamo considerato l oscena tipico del procedere: l’attore si
è tempestivamente costituito, si è svolta la prima udienza, e il processo è
poi sfociato nella fase istruttoria, che si è a sua volta regolarmente
conclusa. Ma le cose talvolta vanno diversamente, e il codice cura di
disciplinare i vari eventi.
Esiste anzitutto una “patologia della costituzione”. Nella fisiologia del
processo, l’attore, notificato l’atto di citazione, si costituisce nei termini
stabiliti dalla legge; segue, poi la costituzione tempestiva del convenuto
con la sequela delle udienze. Può anche accadere, però, che non si abbia
160
costituzione dei termini, che l’attore non si costituisca tempestivamente
e che neppure il convenuto si costituisca tempestivamente. Il codice
disciplina queste evenienze.
L’attore si deve costituire entro 10 giorni dalla notificazione della
citazione. Se però l’attore non si è costitutivo allo scadere del termine, il
convenuto ha ancora la possibilità di costituirsi entro stesso: in tal modo
l’iniziativa di mettere concretamente in moto il procedimento è ancora
nella possibilità del convenuto.
L’ART 171 c.1 regola la mancata costituzione di ambedue le parti: “se
nessuna delle parti si costituisce nei termini stabiliti, si applicano le
disposizioni dell’ART 307 c.1-2”. L’ipotesi è dunque che l’attore non si sia
costituito nei suoi termini e il convenuto sia rimasto inerte, cioè abbia a
sua volta fatto scadere i termini per la propria tempestiva costituzione.
In tal caso il processo, che non può sfociare nella prima udienza, entra in
uno stato di quiescenza. Ciò non significa che nulla è accaduto: la causa
pende dalla notificazione della citazione, solo che il procedimenti può
mettersi in moto per sfociare nella prima udienza, perché nessuno ha
materialmente fatto la “iscrizione al ruolo” e quindi non c’è alcun giudice
investito. Il problema a questo punto è: può aversi ancora costituzione di
taluna delle parti oltre ai termini in modo che si abbia ancora iscrizione
della causa a ruolo, e messa in moto del processo, e, in caso positivo,
basta la semplice costituzione o c’è bisogno anche di qualcos’altro? Che
ne è inoltre del processo pendente nel frattempo?
L’ART 171 c.1 fa rinvio all’ART 307 c.1-2. Il primo comma di questo
recita: “Se dopo la notificazione della citazione nessuna delle parti suasi
costituita entro il termine dell’ART 166, il processo deve essere riassunto
nel termine perentorio di tre mesi che decorre dalla scadenza del
termine per la costituzione del convenuto a norma dell’ART 166
altrimenti il processo si estingue”.
Questo vuol dire che il processo c’è, ma non essendovi stata iscrizione al
ruolo, esso non può evolvere, cioè non può camminare da solo. Chi ha
interesse al suo svolgimento può ancora costituirsi, ma non potrebbe
costituirsi sic et simpliciter, andando in cancelleria e depositando la nota
di iscrizione al ruolo: se questo fosse possibile, non avrebbe senso
neppure stabilire e quindi, per poter continuare, ci vuole qualcos’altro. In
161
particolare, il processo ha bisogno di un atto di impulso diverso dalla
semplice costituzione. Questo impulso ulteriore si chiama riassunzione
del processo: il processo deve essere riassunto davanti al giudice di
fronte a cui pende nel termine perentorio di tre mesi. SI tratta di un
termine che decorre dalla scadenza per la costituzione del convenuto a
norma dell’ART 166. Da quel momento, si inizia a calcolare il periodo di
tempo entro il quale si può fare l’atto di riassunzione, cioè un atto
formale che esprime la volontà di ripresa del processo che era rimasto
quiescente.
La comparsa di riassunzione configura quindi l’atto di integrazione della
citazione originaria con cui il processo viene ripreso e messo in
condizione di arrivare all’udienza. L’atto di riassunzione ovviamente
deve essere notificato alla controparte; di seguito dovranno essere
compiute le attività di integrazione che erano mancate originariamente:
il processo carente delle attività di impulso necessarie al procedere, le
riceve successivamente attraverso non una semplice costituzione ma
attraverso la costituzione di una delle parti preceduta dalla riassunzione.
Altrimenti, se passa invano il trimestre senza il compimento dell’atto di
riassunzione, il processo si estingue, cioè si conclude con un nulla di
fatto, senza decisione di merito (NOTA: e con l’estinzione del processo si
ha anche la fine della litispendenza).
2. La contumacia
Quella appena descritta è l’ipotesi di mancata costituzione di entrambe le
parti. Anche la contumacia è una “non costituzione”, ma è “non
costituzione” di taluna delle parti allorché almeno un’altra parte si sia già
costituita.
Per aversi contumacia di una parte bisogna che ci sia stata almeno una
costituzione tempestiva.
L’atto, notificata dalla citazione, si è costituito nei dieci giorni previsti
dall’ART 165 per il deposito in cancelleria dell’istanza di iscrizione al
ruolo. Opera in caso l’ART 171 c.2 “Se una delle parti si è costituita entro
il termine rispettivamente a lei assegnato, l’altra parte può costituirsi
successivamente fino alla prima udienza, ma restano ferme per il
162
convenuto le decadenze di cui all’ART 167”. Quindi, se l’attore si è
costituito nel suo termine, il convenuto è libero di costituirsi fino alla
prima udienza. Ma restano ferme per esso le decadenza dell’ART 167:
costituendosi all’udienza egli non potrà più operare chiamata del terzo,
sollevare eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio e proporre
domanda riconvenzionale. Se il convenuto min si costituisce neppure in
questa udienza, ai sensi dell’ART 171 c.3 “è dichiarato contumace con
ordinanza del gi”. La contumacia, quindi, va espressamente dichiarata.
Prescrive l’ART 291: “ Se il convenuto non si costituisce e il gi rileva un
vizio che importi nullità della notificazione della citazione, fissa all’attore
un termine perentorio per rinnovarla. La rinnovazione impedisce ogni
decadenza”.
Dunque, di fronte alla mancata costituzione del convenuto in sede di
udienza di prima comparizione, il giudice deve verificare se non vi siano
vizi nella notificazione della citazione che lascino pensare che il
convenuto non sappia nulla del processo intentato contro di lui, o
impediscano l’instaurazione di un corretto rapporto processuale. In caso
di verifica positiva, egli dovrà fissare un termine perentorio per
rinnovare la notificazione.
Se la notificazione non viene rinnovata nel termine, il processo si
estingue. Se viene correttamente rinnovata, il convenuto sarà rimesso in
termini per la sua costituzione e potrà scegliere di costituirsi, ovvero di
non farlo e di venire dichiarato contumace. (NOTA: se non si compie
questa attività e si arriva alla sentenza di merito, se colui de è rimasto
contumace involontario può provare che non sapeva nulla della
pendenza del processo, può impugnare la sentenza anche oltre i termini
dati dalla legge per l’impugnazione, cioè oltre al semestre previsto
dall’ART 327 c.2. Si tratta di una forma di incertezze che grava sulla
sentenza, da evitarsi; è perciò sommamente opportuno che si verifichi
ogni eventuale nullità della notificazione della citazione e se ne ordini la
sanatoria. Il giudice, all’udienza di prima comparizione, deve verificare
accuratamente se la notifica è stata regolare e il sospetto che la notifica
non sia stata regolare gli impone di ordinare la rinnovazione della
notificazione).
163
Vediamo ora l’altra ipotesi in cii, non essendosi costituito l’attore, si è
però costituito il convenuto.
In questa ipotesi il procedimento giunge all’udienza di prima
comparizione e trattazione. ‘ vero che p mancata un’attività di impulso
dell’attore, ma l’inerzia è stata supplita dall’iniziativa del convenuto che
tempestivamente si è presentato in cancelleria, ha depositato il proprio
fascicolo, e, con ciò, sostituendosi all’attore, ha domandato l’iscrizione al
ruolo.
Ai sensi dell’ART 290, in udienza il giudice dichiara la contumacia
dell’attore, ma “ordina che sia proseguito il giudizio” se il convenuto ne
fa richiesta. Se quindi il convenuto non fa espressa richiesta di
prosecuzione del giudizio, il giudice non può fissare gli adempimento
ulteriori e deve invece disporre che la causa sia cancellata dal ruolo: in
tal caso il processo si estingue immeritatamente.
La possibilità di procedere ovvero di chiudere subito il processo con un
nulla di fatto, è dunque tutta nella mani del convenuto, il quale può
dichiarare di voler proseguire il processo, o, semplicemente tacendo, può
ottenere la congelazione della causa dal ruolo e la estinzione immediata
del giudizio. (NOTA: Estinzione immediata vuol dire che manca il
periodo di quiescenza. Ci si può chiedere che interesse abbia il
convenuto a continuare il processo, se lo stesso attore non ha interesse a
portarlo avanti. Il convenuto potrebbe continuare per motivi di onore, di
rispetto, di fides, eccetera).
3. Lo status di contumace
In quanto tale, finché non si costituisce, il contumace non può compiere
atti di impulso o comunque partecipare attivamente al procedimento.
Ciò non significa che egli non sia parte del processo, e che la sentenza
non abbia effetti da lui: da un lato egli è destinatario degli effetti dei
provvedimento di merito, e dall’altro ha il potere di costituirsi ancora in
seguito, ma, finché ciò non avviene, non può interloquire nello
svolgimento del processo.
Per altro verso, il contumace non subisce alcuna presunzione di torto: se
contumace è il convenuto, l’attore resta infatti onerato della prova dei
164
fatti costitutivi. Si suole parlare di tacita contestazione, negandosi che
nella contumacia del convenuto si possa vedere una tacita ammissione
della ragione avversaria: l’onere della prova dei fatti costitutivi continua
a gravare sull’attore secondo le regole generali (NOTA: In tal senso
depone l’ART 115 c.1 che permette al giudice di porre a fondamento
della decisione “i fatti non specificatamente contestati alla parte
costituita”, con ciò escludendo che la contumacia possa valere quale
comportamento espressivo di una non contestazione. Si noterà che la
posizione del convenuto contumace è decisamente più comoda di quella
del convenuto costituito che è onerato di una contestazione specifica dei
fatti costitutivi). Ci sono èerl anche delle regole particolari, che si
sviluppano secondo due linee direttive. Da un lato, bisogna assicurare
che la contumacia di una parte non vada a detrimento della parte che si
sia costituita; dall’altro, bisogna salvaguardare i diritti del contumace.
Per fare questo la legge detta una disciplina bilanciata.
L’ART 293 prescrive che certi atti del processo debbono essere portati a
conoscenza del contumace. Tra questi troviamo anzitutto gli atti che
modificano la materia del contendere. Il contumace non si è
volontariamente costituito avendo valutato la sussistenza di un certo
oggetto del giudizio; se questo oggetto subisce modifica, occorrerà
mettere il contumace in condizione di valutare se restare ancora tale o
costituirsi. Pertanto l’ART 293 prescrive : “Le comparse contenenti
domande nuove o riconvenzionali da chiunque proposte sono notificate
personalmente al contumace nei termini che il gi fissa con ordinanza”.
Abbiamo già visto l’ipotesi in cui nella prima udienza di trattazione ci
siano domande nuove e modificazioni domande. Tutte le volte in cui
questo avvenga nella contumacia di una parte, o sia messa a verbale la
modificazione della conclusione; occorre anche che l’atto che contiene la
domanda nuova o la modificazione sia notificato al contumace.
Gli altri atti che devono essere portati a conoscenza del contumace sono
gli atti che creano oneri in capo al destinatario, in quanto impongono di
prendere posizione su loto contenuto sotto pena di subire effetti
negativi. Tali atti debbono essere notificati al contumace perché questi
deve in condizione di reagire, altrimenti subirebbe gli effetti ad essi
ricollegati senza saperne nulla. Così lo stesso ART 292 dice che debbono
165
essere notificate personalmente al contumace “l’ordinanza che ammette
l’interrogatorio o il giuramento”. E si capisce: l’ordinanza che ammette
l’interrogatorio fa sì che dalla mancata risposta all’interrogatorio il
giudice estragga delle conseguenze negative per chi doveva rispondere, e
quindi il contumace deve essere messo in condizione di prendere
posizione, altrimenti subirebbe conseguenze negative. Lo stesso per il
giuramento perché dal deferimento del giuramento derivano oneri ben
precisi. Il contumace deve quindi essere messo a conoscenza del
deferimento del giuramento oneri ben precisi. Il contumace deve quindi
essere a conoscenza del deferimento perché altrimenti si troverebbe a
perdere la causa senza saperne nulla.
L’ART 293 prevede che la parte dichiarata contumace possa costituirsi
“in ogni momento del procedimenti fino all’udienza di precisazione delle
conclusioni”. “la costituzione può avvenire mediante deposito di una
comparsa, della procura e dei documenti in cancelleria o mediante
comparizione all’udienza”. In ogni caso “il contumace che si costituisce
può disconoscere, nella prima udienza o nel termine assegnatogli dal gi,
le scritture contro di lui prodotte”.
Una “remissione in termini” del contumace involontario che si
costituisce è prevista dall’art 294, secondo cui egli può chiedere di essere
ammesso a compiere attività oramai precluse se dimostra che la nullità
della citazione o della sua notificazione “gli ha impedito di avere
conoscenza del processo o che la costituzione è stata impedita da causa a
lui non imputabile”.
La contumacia non va comunque confusa con l’assenza. La parte già
costituita può infatti risultare assente all’udienza ovvero non partecipare
ad altra attività fisicamente compiuta nel processo, ma questo non ne
modifica lo status di parte costituita. Ad essa non si applicherà quindi la
disciplina della contumacia.
CAPITOLO 23. LE ORDINANZE ANTICIPATORIE
1. Le anticipazioni di tutela nel processo
166
Cerchiamo di capire cosa significa anticipazione della tutela e come
questa idea si trasfonda nelle norme degli ARTT. 186-BIS, TER, QUATER
introdotti ad un certo momento nel processo ordinario di cognizione.
Il concetto di anticipazione non coincide con il concetto di accelerazione.
L’ampia riforma del codice operata dalla L 353/1990 mirava ad una
accelerazione del processo.
(Con il termine anticipazione si intende la possibilità di concedere e
di ottener subito l’utilità che fisiologicamente si dovrebbe avere al
termine del processo. Si capisce bene che, quando il processo dura
poco, non c’è bisogno di anticipare nulla. Se un processo di primo
grado avesse durata ragionevole, in linea di massimo non ci
sarebbe bisogno di anticipare nulla. Se un processo di primo grado
avesse durata ragionevole, in linea di massima non ci sarebbe
bisogno di frazionare il procedimento principale in altri subprocedimenti miranti non alla decisione finale ma all’anticipazione
di effetti della futura decisione: la cosa più congrua sarebbe
aspettare la fine del procedimento.
Evidentemente, lo stesso legislatore che ha perseguito
l’accelerazione del processo, non si è fidato di se stesso né dei
giudici, ed ha così inserito nella riforma alcuni meccanismi
anticipatori, che sembrano dire che il processo continua a durare
molto, ma che, almeno in certe occasioni, si può cercare di ottenere
qualcosa prima ed indipendente dalla conclusione).
Sinteticamente, il sistema della legge è il seguente:
a) se, dovendosi giudicare della richiesta di somme non pagate, la
degenza di tali somme non è contestata, è possibile una condanna
immediata al pagamento del richiesto, fermo restando che il processo
potrà conseguire proseguire per il giudizio sugli altri aspetti della
domanda;
b) se la parte che domanda una prestazione al pagamenti di somma di
denaro ovvero alla consegna di un bene mobile, offre prova scritta del
diritto, il giudice può concedere un’ordinanza immediata che condanni a
pagare o a consegnare cosa determinar; questo sul presupposto
167
dell’esistenza nel sistema del meccanismo del decreto ingiuntivo, cioè la
cui prova scritta dà la possibilità di ottenere la condanna al pagamento o
alla consegna di cose;
c) se la fase istruttoria del processo si è già svolta e, all’esito di questa,
risulta provato un diritto di credito, o un obbligo di restituzione di una
cosa mobile o immobile, il gi, invece di seguire l’iter normale, può
immediatamente emettere una pronuncia di condanna su istanza di
parte al pagamento, o alla consegna o al rilascio del bene.
La legge offre quindi la possibilità si una condanna immeritata, sulla base
della non contestazione, o sulla base di una prova scritta, ovvero ancora
in presenza di risultati istruttori di facile decifrazione, attraverso subprocedimento inteso alla condanna nella forma dell’ordinanza; risultato
normalmente realizzabili attraverso la sentenza di merito, vendono
ottenuti in via di ordinanza.
Queste ordinanze, però, hanno un regime particolare rispetto alle
comuni ordinanze con le quali il giudice gestisce il procedimento. E’
intangibile la differenza tra l’ordinanza che si limita a regolare la
macchina processuale e l’ordinanza che invece condanna il debitore a
pagare una somma di denaro. Nel primo caso abbiamo un
provvedimento di natura e oggetto processuale, nel secondo caso
l’oggetto dell’ordinanza è invece un rapporto sostanziale, sicché il
provvedimento si proietta nella sfera sostanziale delle parti, operando in
modo non dissimile dalla sentenza di merito. Le tre ordinanze
considerate non ricadono quindi nel regime generale delle ordinanze
istruttorie, ma non hanno neppure un regime unitario. Proprio perché
hanno presupposti differenti, il legislatore ha inteso dettare tre
discipline autonome, pur con punti di contatto tra loro e con il regime
generale delle ordinanze istruttorie.
2. L’ordinanza per il pagamento di somme non contestate
L’ART 186-BIS recita: “Su istanza di parte il giudice istruttore può
disporre, fino al momento della precisazione delle conclusioni, il
pagamento delle somme non contestate dalle parti costituite. Se l’istanza
168
è proposta fuori dall’udienza il giudice dispone la comparizione ed
assegna il termine per la notificazione”.
L’ordinanza costituisce titolo esecutivo e conserva la sua efficacia in caso
di estinzione del processo.
L’ordinanza è soggetta alla disciplina delle ordinano revocabili di cui agli
ART 177 c.2 e 178 c.1.
Agevoli da disegnare sono i presupposti:
- “Su istanza di parte” : la parte interessata deve proporre apposita
istanza. L’istanza proverrà normalmente all’attore, ma potrebbe
provenire dal contenuto che abbia a sua volta chiesto, in via
riconvenzionale, condanna al pagamento di somme non contestate
dall’attore;
- “somme non contestate”. Un esempio è quello che l’attore che chiede
condanna al pagamento della voce di credito A e della vice di credito B, e
del convenuto che contesta la sola voce di credito B, con ciò
riconoscendo di dovere la somma corrispondente alla voce di A;
- “dalle parti costituite”. La norma esclude che la contumacia valga quale
non contestazione. Qui la legge ha fatto una scelta precisa. In astratto
poteva parificare la contumacia al riconoscimento: la scelta sarebbe stata
legittima, ma non vi è stata adottata, onde la rilevanza della non
contestazione è inequivocabilmente legata alla costituzione della parte;
- “Se l’istanza è proposta fuori dall’udienza il giudice dispone la
comparizione delle arti e assegna il termine per la notificazione”. Si
garantisce il contraddittorio: sull’istanza proposta in corso di udienza si
aprirà il contraddittorio nell’udienza stessa; l’istanza proposta in
cancelleria impone di disporre il confronti diretto tra le parti con
l’obbligo del giudice di sentirle contestualmente prima di decidere
sull’istanza;
- “L’ordinanza costituisce titolo esecutivo”. La pronuncia di condanna è
anche immediatamente efficace nel senso ce è automaticamente e
direttamente spendibile in caso di mancato adempimenti; al mancato
pagamento del condannato consegue il potere di colui al quale favore è
stata emessa l’ordinanza, di iniziare l’esecuzione forzata. Queste
ordinanze sono quindi titoli che legittimano il creditore a procedere
immediatamente in casi di inadempimento.
169
Ai sensi del c.2 l’ordinanza “conserva la sua efficacia in caso di estinzione
del processo”. Questa prescrizione è l’esatto opposto della regola sancita
dall’ART 310 c.2, secondo cui le ordinanze emesse nel corso del processo
non sopravvivono all’estinzione del processo. Il legislatore ha
considerato che le “anticipatori” son ordinanze non riconducibili alla
disciplina generale dell’ordinanza istruttoria: in quanto condanne
incidenti sui rapporti sostanziali delle parti, esse si proiettano al di là del
processo ed ha ritenuto quindi opportuno che sopravvivano
all’estinzione del processo, così come sopravvivono ai senso dell’ART
310 BIS le sentenze di merito.
L’ordinanza dell’ART 186 BIS resta però soggetta, per tutto il corso del
processo, alla “disciplina delle ordinanze revocabili di cui agli ARTT. 177
c.1-2 e 178 c.1”.
Questo significa che, emessa l’ordinanza, non solo il rapporto
processuale non si conclude, ma anche l’obbligazione oggetto
dell’ordinanza non è definitivamente espulsa dalla materia del
contendere. L’ordinamento non ha stabilità, potendo sempre essere
revocata o modificata nel corso della procedura. Si pensi all’ipotesi in cui
il giudice si rende conto di aver preso una svista, poiché aveva
interpretato quale “non contestazione” quella che invece era una vera e
propria contestazione. In questo caso, il giudice non può fare altro che
revocare l’ordinanza, auspicabilmente aprendo il contraddittorio sulla
questione della revoca.
(Abbiamo così il fenomeno per cui una ordinanza non dotata di
stabilità finché vive il processo, acquista invece stabilità s il
processo si estingue. Immaginiamo il processo come un
contenitore: all’interno di esso l’ordinanza resta sempre
modificabile o revocabile. Se questo contenitore si rompe, viene
meno però meno anche questo potere di revoca o modifica,
l’ordinanza diventa stabile, da instabile che era).
L’ordinanza dell’ART 186 è un’ordinanza che mira ad economizzare
l’istruttoria: essa ha un senso in quanto dalle difese del convenuto risulti
immediatamente la pacificità del diritto al pagamento della somma
170
richiesta, e, quindi, la non necessità di istruire la causa sul punto. Di
fronte alla mancata contestazione della somma, non solo non si attiva
l’onere della prova dei fatti posti alla base del diritto di credito, ma al
giudice è imposto lo stesso giudizio di esistenza dl diritto di credito. E’
facile vedere come l’ART 186 BIS si affianchi all’ART 115 c.1 nel dare un
valore decisivo alla non contestazione del convenuto: la differenza sta
nel fatto che mentre nel primo caso l’oggetto della non contestazione è
un diritto, nel secondo tal soggetto è un fatto.
3. L’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione
Conclusa l’istruttoria, il giudice può pronunziare l’ordinanza di condanna
a pagare, consegnare o rilasciare, se i risultato sono tanto evidente da
consentire senza indugio questi effetti. La disciplina è dettata dall’ART
186 quater, il cui primo comma recita: “Esaurita l’istruzione, il gi, su
istanza della parte che ha proposto domanda di condanna al pagamento
di somme o alla consegna o al rilascio di beni, può disporre con
ordinanza il pagamento o la consegna o il rilascio, nei limiti per cui
ritiene già raggiunta la prova. Con l’ordinanza il giudice provvede alle
spese processuali”. Anche questa ordinanza, come quella dettata
dell’ART 186 BIS, “è titolo esecutivo”; essa è peraltro “revocabile con la
sentenza che definisce il giudizio”.
L’ordinanza può pronunciarsi una volta “esaurita l’istruzione”. Con
esaurimento dell’istruzione si designa il carattere esaustivo dell’attività
istruttoria esperita, e si chiama in gioco il momento temporale evocato
dagli ARTT. 188 e 209: l’ART 209 regola infatti la chiusura della fase
riservata. Una volta finita l’istruzione, il giudice (ART 188) “rimette le
parti al collegio per la decisione a norma dell’articolo seguente; ai sensi
dell’ARTT 189 e 281 egli “invita le parti a precisare davanti a lui le
conclusioni”. Segue la normale fase decisoria con lo scambio delle c.s.
comparse conclusionali e delle memorie di replica ai sensi dell’ART 190
(es. di precisazione = voglia il giudice rigettare la domanda per la ragione
A, e non più per la ragione B). A questo punto la causa è, di fatto e di
diritto, passata in decisione, cioè è divenuta concretamente “deducibile”
e verrà decisa quando il giudice depositerà la sentenza in cancelleria.
171
Il primo grado di giudizio si conclude con il deposito della semenza. Il
momento in cui la sentenza prende data e diventa un atto ufficiale dello
Stato e della giurisdizione è il momento del deposito in cancelleria che
assume il nome di pubblicazione.
Il regime ordinario appena esaminato dà luogo ad una fase temporale
che può durare a lungo. Ci si è allora chiesti quindi se non fosse
praticabile una specie di corto circuito (cioè di un procedimento in grado
di aggirare una procedura così lunga) nei casi in cui il giudice potrebbe
decidere senza indugio, alla semplice lettura dei risultati istruttori.
La risposta è stata dettata dall’ART 186-QUATER. La norma si riferisce ai
casi privi di particolare complessità giuridica, sicché, esaurita
l’istruzione, il gi può “disporre con ordinanza il pagamento o la consegna
o il rilascio, nei limiti per i quali ritiene già raggiunta la prova”: la causa,
già trattata, si avvia verso la decisione, ma appare possibile evitare la
fase della decisione perché la parte che ritiene chiaro il risultato
istruttorio a proprio favore può chiedere al giudice di decidere
immediatamente nella forma semplificata dell’ordinanza ex ART 186QUATER. Questo è possibile quando si disputa del pagamento di somme
di denaro, oppure dell’obbligo di restituire un bene mobile determinato
o un bene immobile. Tutte le volte in cui l’oggetto del processo sia una
prestazione di questo genere (pagare, consegnare, rilasciare) è possibile
mandare l’ordinanza. Non può invece essere oggetti di ordinanza la
condanna a fare o non fare, e neanche si può avere un’ordinanza a
contenuto meramente dichiarativo o costitutivo, modificativo o estintivo
di rapporti giuridici.
Il pagamento, la consegna o il rilascio possono avvenire nei limiti in cui
di essi sia stata raggiunta la prova.
L’ordinanza è pronunciabile solo su istanza di parte, sicché l’istruttore
non può decidere di pronunciarla d’ufficio.
(La necessità dell’istanza di parte differenzia l’ART 186 QUATER
dalla procedura di decisione immediata con sentenza a seguito di
trattazione orale prevista dall’ART 281 SEXTIES. La sentenza che,
nei giudizi monocratici, il giudice può pronunciare “in via breve” p
rimessa ad una scelta insindacabile dell’ufficio, laddove solo la
172
parte può domandare l’ordinanza successiva alla conclusione
dell’istruttoria).
Sulle modalità del procedere, la legge nulla dice: l’ART 186 QUATER non
detta alcun procedimento.
Se appare palese che la parte ha chiesto l’ordinanza non ne ha diritto, il
giudice potrà puramente e semplicemente astenersi dal pronunciare un
provvedimento. Non essendoci bisogno di un provvedimento apposito, il
processo automaticamente proseguirà verso la sua conclusione: è nella
logica di questo tipo di procedimento che, se non è evidente, il giudice si
possa astenere da qualunque pronuncia: l’esaurimento dell’istruzione
non pone alcun obbligo di rendere l’ordinanza di condanna, restando
discrezionale il decidere o meno. Solo se ritiene sia seria l’istanza e
opportuno il suo accoglimento, il giudice deve provocare il
contraddittorio in funzione di quella che sarà una decisione dei diritti
delle parti; peraltro la legge non detta specifiche modalità in proposito,
onde l’istruttore potrà tanto fissare un’udienza per sentire le parti,
quanto autorizzare queste a scambiarsi comparse entro un determinato
termine. Realizzatosi il contraddittorio, il giudice emetterà l’ordinanza
che può essere o di accoglimento totale o di accoglimento parziale, o
anche di rigetto, se dal contraddittorio risulti che colui che ha presentato
l’istanza, nonostante l’apparenza, non aveva diritto.
L’ordinanza costituisce “titolo esecutivo”; se dopo la pronuncia
dell’ordinanza il processo si estingue, l’ordinanza sopravvive
all’estinzione del processo.
Con l’ordinanza il giudice provvede sulle specie processuali. Si tratta di
un aspetto rilevante se si considera che, per regola generale, “il giudice
condanna la parte soccombente con la sentenza che chiude il processo
davanti a lui”.
Mentre l’ordinanza ex ART 186 BIS è sempre revocabile per tutto il corso
del giudizio con altra ordinanza del gi, quella prevista dall’ART 186
QUATER è revocabile ma non tramite altra ordinanza in corso di causa,
ma solo per mezzo della sentenza finale che definisce il giudizio. Non è
detto però che a questa sentenza si arrivi sempre.
Pronunciata l’ordinanza si apre infatti uno scenario con più possibilità:
173
1) il processo si chiude con l’ordinanza;
2) il processo prosegue e giunge alla sentenza ditale di merito che si
sostituisce all’ordinanza;
3) il processo si estingue.
La prima ipotesi è quella in cui l’ordinanza definisce il giudizio, senza
seguito di sentenza. L’ultimo comma dell’articolo prevede infatti che
l’ordinanza acquista efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto
dell’istanza “se la parte intimata non manifesta entro 30 giorni dalla sua
pronuncia in udienza o dalla sua comunicazione, con ricorso notificato
all’altra parte e depositato in cancelleria, la volontà che sia pronunciata
la sentenza”.
In mancanza della tempestiva richiesta di pronunciare sentenza,
“l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto
dell’istanza”. Questo vuol dire che l’ordinanza prende a tutti gli effetti il
posto della sentenza quale provvedimento decisorio conclusivo del
grado di giudizio; contro di essa potrà proporsi appello come se si
trattasse di un provvedimento in forma di sentenza. Per questo motivo,
in mancanza di impugnazione essa passerà quindi in giudicato facendo
stato non solo su quanto concesso in accoglimento dell’istanza, ma anche
su quanto rigettato.
(Ci si può chiedere perché l’ordinamento favorisca la conclusione
del processo con l’ordinanza. La ragione si comprende se si
considera che, essendo l’ordinanza immediatamente esecutiva,
l’intimato ha ragionevolmente interesse a domandare la
sospensione dell’esecuzione stessa. E poiché tale sospensione gli
può essere accordata solo dal giudice dell’appello, egli non avrà
normalmente interesse ad aspettare la sentenza, ma piuttosto a
veder convertita l’ordinanza in un provvedimento appellabile per
tentare di ottenere una rapida sospensione dell’esecuzione. L’attesa
della sentenza posticiperebbe di molto l’eventuale sospensione
dell’efficacia esecutiva dell’ordinanza. L’ultimo comma dell’ART
186-QUATER si dimostra quindi una tecnica promozionale, per
tagliare i tempi: una volta ottenuta l’ordinanza, lo scopo
meramente anticipatori lascia il posto ad un meccanismo
174
acceleratori del processo attraverso l’eliminazione di un pezzo
stesso del processo).
La seconda ipotesi è quella in cui l’intimato richiede espressamente la
sentenza.
La richiesta è un atto unilaterale da notificare alla controparte seguito
dal deposito in cancelleria entro il termine perentorio di 30 giorni dalla
pronuncia in udienza dell’ordinanza o dalla sua comunicazione. La
possibilità di imporre la prosecuzione del processo fino alla sentenza è
perciò nella disponibilità esclusiva dell’intimato.
Come si coordinano ordinanza e sentenza? Se la sentenza conferma
l’ordinanza, nessuna questione: essa si sostituirà all’ordinanza e sarà
autonomamente impugnabile con i mezzi normali di impugnazione delle
sentenza. La sentenza finale si sostituisce egualmente all’ordinanza
anche se la contraddice, ma può accadere che nel frattempo l’ordinanza
sia stata già eseguita. In tal caso la sentenza dovrà disporre la
restituzione di quanto adempiuto in ottemperanza all’ordinanza. Il
meccanismo di riequilibrio della posizione delle parti è interno al
processo e quindi la sentenza svolge anche questa funzione.
La terza ipotesi è quella dell’estinzione del processo successiva alla
pronuncia dell’ordinanza. In questo caso l’ordinanza dell’ART 186QUATER non resta travolta dall’estinzione, ma sopravvive al venir meno
del rapporto processuale. Ciò corrisponde a quanto accade per
l’ordinanza dell’ART 186 BIS, ma con una particolarità. La sopravvivenza
all’estinzione di quest’ultima, non potendo più essere modificata o
impugnata. L’ordinanza dell’ART 186-QUATER, che sopravvive
all’estinzione ha invece “l’efficacia della sentenza impugnabile
sull’oggetto dell’istanza”. Ciò vuol dire che il provvedimento resta in vita
ma non diversamente da come resterebbe in vita una sentenza ancora
impugnabile, cioè insanabile nel contenuto.
L’ordinanza sopravvissuta al processo estinto, è impugnabile
“sull’oggetto dell’istanza”. Questo vuol dire che l’ordinanza ha effetti non
limitati a quanto concede in accoglimento dell’istanza, ma anche a quel
che nega. Per intenderci: con l’istanza ex AT 186 QUATER sono stati
chiesti €000, ma il giudice ha accolto per €500. Se si estingue il processo,
175
resterà in vita un’ordinanza che condanna a pagare €500. Il problema
che si pone è: che ne è dei 500€ che non sono stati oggetto di condanna
nell’ordinanza? Potrebbe l’istante ancora domandarli in un secondo
momento? Può cioè dirsi che l’ordinanza dispone puramente e
semplicemente di 500? La risposta deve essere negava proprio perché la
legge specifica che l’efficacia della sentenza non è limitata a ciò che è
stato deciso, ma copre l’oggetto dell’istanza.
Possiamo quindi dire che l’ambito di efficacia delle sentenza è tanto ciò
che è stato concesso in positivo, tanto ciò che è stato negato.
4. L’ordinanza ingiuntiva
E veniamo adesso all’ART 186 TER, norma che, incastonata tra l’ART 186
BIS e QUATER, reca la disciplina dell’ordinanza c.d. ingiuntiva. Si tratta di
un’ordinanza anticipatori che risponde, all’interno del procedimento
ordinario di cognizione, all’esigenza di una pronta condanna del debitore
ottenuta con il decreto ingiuntivo e la cui disciplina è quindi
abbondantemente mutuata quella del procedimento d’ingiunzione di cui
agli ARTT 633 ss.
L’ordinanza ingiuntiva può essere richiesta dal creditore di una somma
liquida di denaro e della consegna di una certa quantità di cose fungibili
o di una cosa mobile determinata. L’istanza può anche essere proposta
fuori udienza, ma in questo caso il giudice ordina la comparizione delle
parti allo scopo di assicurare il contraddittorio su di essa.
L’ordinanza può essere concessa se l’istante fornisce la “prova scritta”
del diritto fatto valere, giusta il richiamo agli ARTT 633 c.1, e 634.
Quest’ultima disposizione specifica cosa si intende per prova scritta del
diritto: essa allarga le maglia del c.c. facendo sì che possa considerarsi
prova scritta, ai fini specifici dell’emissione dell’ordinanza ingiuntiva
anche un documento che potrebbe non essere idoneo a giustificare la
pronuncia dell’ordinanza ingiuntiva “le polizze e promesse unilaterali
per scrittura provata e i telegrammi anche se mancanti dei requisiti
prescritti dal c.c.”.
Per i crediti relativi alla somministrazione di merci e denaro nonché per
le prestazioni di servizi fatte da imprenditori che esercitano un’attività
176
commerciale, anche a persone che non esercitano tale attività, “sono
altresì prove scritte idonee gli estratti autentici delle scritture contabili
di cui agli ARTT 2214 e seguenti del c.c., purché bollate e vidimate nelle
forme di legge e regolarmente tenute, nonché gli estratti autentici delle
scritture contabili prescritte dalle leggi tributarie, quando siano tenute
con l’osservanza delle norme stabilite per tali scritture”. Tale
disposizione consente di provare il diritto di credito sulla base di un
documento che proviene dal creditore stesso. Per regola generale, prova
scritta può essere un documento proveniente dal deviatore, dotato di
una plausibilità tale da far ritenere provato ciò che rappresenta; i
documenti provenienti dal creditore non possono pretendere di avere
questa efficacia. Ma se questo documento proveniente dal creditore
consiste in una delle particolari scritture elencate dal c.2 ART 634, esso
assume valore di prova scritta ai fini dell’emissione dell’ordinanza
ingiuntiva.
L’ordinanza ingiuntiva regola le spese: essa “deve contenere i
provvedimenti previsti dall’ART 641 ultimo comma”, vale a dire la
liquidazione delle spese e delle competenze e la relativa ingiunzione di
pagamento.
Come l’ordinanza di condanna a somme non contestate, l’ordinanza
ingiuntiva è intrinsecamente instabile nel corso del processo perché è
soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili di cui agli ART 177 e
178 c.1, ma si stabilizza a seguito dell’eventuale estinzione del processo.
il c.4 dell’ART 186 BIS prevede che, se il processo si estingue, l’ordinanza
acquista l’efficacia esecutiva prevista dall’ART 653.
4.1 La provvisoria esecutività
L’ordinanza “è dichiarata provvisoriamente esecutiva” in presenza di
determinati presupposti.
L’ART 642 prevede tre ipotesi di provvisoria esecutività:
1) Si ha quando “il credito è fondato su cambiale, assegno bancario,
assegno circolare, certificato di liquidazione di borsa o atto ricevuto da
notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato”. In tal caso il giudice, su
istanza del ricorrente, ingiunge al debitore di pagare o consegnare senza
177
dilazione, autorizzando in mancanza l’esecuzione provvisoria del decreto
e fissando il termine ai soli effetti dell’opposizione.
2) Si ha quando ricorre un “grave pregiudizio nel ritardo” ed esprime
l’esigenza di non rinviare l’esecutività del provvedimenti anticipatori ai
tempi normali del giudizio, che potrebbero vanificare l’esigenza di tutela
immediata del creditore.
3) E’ quella della produzione, da parte del ricorrente, di
“documentazione sottoscritta dal debitore, comprovante il diritto fatto
valere”: qui si ha una scrittura privata a contenuto confessorio, e perciò
idonea a giustificare un’immediata esecutività dell’ordinanza; il giudice
può imporre una cauzione per la restituzione di quanto eventualmente
pagato se il diritto dovesse poi risultare inesistente. In entrambi i casi
previsti dal c.2 ART 642, la concessione della provvisoria esecutività è
rimessa alla discrezionalità del giudice.
Ulteriore ipotesi di provvisoria esecutività prevista dall’ART 186 TER è
la sussistenza dei presupposti “di cui all’ART 648 c.1, ove la parte non sia
rimasta contumace”. Questa norma permette anzitutto di dire che
l’ordinanza può essere emessa anche nei confronti della parte
contumace. Ciò è comprensibile dal momento che la disciplina dell’ART
186-TER segue la falsariga del procedimento d’ingiunzione. Il decreto
ingiuntivo si ottiene infatti contro una parte che non è neppure chiamata
in giudizio, e l’ordinanza ingiuntiva ne ricalca il modello; pertanto anche
l’ordinanza emessa nei confronti del contumace può essere esecutiva, se
l’istanza è basata sui documenti di cui all’ART 642 o se sia valutato
sussistente il pericolo del ritardo.
Quando invece la controparte sia costituita, è il suo comportamento
processuale ad assurgere ad oggetto di valutazione ai fini della
concessione della provvisoria esecutività. L’ART 648 stabilisce che il
decreto ingiuntivo non dichiarato provvisoriamente esecutivo dal
momento della sua concessione, può trasformarsi in provvedimento
esecutivo in seguito all’opposizione dell’ingiunto che, pur contestando il
decreto, non opponga la “prova scritta o di pronta soluzione”
dell’insussistenza del debito che consenta la revoca del decreto
ingiuntivo. Trasportata nel procedimento ordinario, questa disciplina va
letta nel senso che l’ordinanza di ingiunzione può essere egualmente
178
munita della provvisoria esecutività se la parte contro cui è stata
richiesta è costituita e, pur difendendosi, non ha opposto prove scritte o
di pronta soluzione.
La provvisoria esecutività non può però essere disposta “ove la
controparte abbia disconosciuto la scrittura privata prodotta contro di
lei o abbia proposto querela di falso contro l’atto pubblico”. La ragione è
abbastanza intuitiva: una volta rilevata la falsità del documento, se la
parte contro cui è stato prodotto lo abbia disconosciuto o trattandosi di
atto pubblico o scrittura provata, abbia intentato querela di falso, la legge
taglia corto: precauzione vuole che venga negata a priori la concessione
della provvisoria esecuzione.
4.2 Ordinanza nei confronti del contumace
Quando è pronunciata nei confronti del contumace, la nostra ordinanza
dà luogo ad un procedimento particolare, anch’esso ricalcato sulla
vicenda tipica del procedimento d’ingiunzione. L’ART 186 TER c.5,
stabilisce che “se la parte contro cui è pronunciata l’ingiunzione è
contumace, l’ordinanza deve essere notificata al contumace ai sensi
dell’ART 644”. L’ingiunzione mira a provocare la reazione del
contumace, che qui viene trattato dalla legge simmetricamente al
deviatore ingiunto nel procedimento monitorio. Così come a
quest’ultimo va notificato il decreto ingiuntivo, di modo da poterne
provocare l’eventuale opposizione, così il contumace è invitato a
costituirsi. Infatti l’ART 186 TER prosegue stabilendo che, in tal caso,
“l’ordinanza deve contenere l’espresso avvertimento che, ove la parte
non si costituisca entro il termine di 20 giorni dalla notifica, diverrà
esecutiva ai sensi dell’ART 647”.
(Per chiudere: che senso ha l’istituto dell’ordinanza ingiuntiva
all’interno del procedimento ordinario di cognizione, visto che
comunque il creditore munito di prova scritta potrebbe sempre
autonomamente domandare decreto ingiuntivo? il dubbio è
legittimo ma bisogna riconoscere che una certa utilità
dell’ordinanza si fa apprezzare.
179
Talvolta infatti i documenti giustificativi del credito divengono
disponibili quando già un procedimento di cognizione ordinario è
stato iniziato. Nessuno ha mai dubitato che si possa chiedere in
separata sede decreto ingiuntivo, per poi riunire le due cause:
l’originario procedimento ordinario di cognizione e il
procedimento di opposizione. L’ART 186 TER ha qui semplificato le
cose, consentendo che all’interno di un processo già iniziato, i
documenti sopravvenuti possano essere immediatamente utilizzati
come titolo per una condanna anticipata.
Il procedimento ordinario rappresenta la situazione adatta perché
il giudice possa valutare con serenità la portata di questi documenti
ed eventualmente, nel caso si convinca di trovarsi di fonte alla
prova scritta del credito vantato, pronunciare anticipata condanna
con ordinanza ingiuntiva).
CAPITOLO 24. IL PROCESSO OGGETTIVAMENTE CUMULATO:
PLURALITA’ DI DOMANDE E PLURALITA’ DI DECISIONI
1. Pluralità di sentenze nello stesso processo e separazione di
giudizi
Fino ad ora abbiamo prevalentemente ragionato intorno ad un modello
unitario tra due parti, un attore ed un convenuto, e questo è ciò che
fisiologicamente avviene nella maggior parte dei casi, ma all’interno
dello stesso processo può osservarsi anche il frazionamento della
decisione in una pluralità di sentenze, il che acca:
- o perché una domanda unica si è frazionata in più questioni di merito
che sono state decise con più sentenze;
- o perché è stato necessario decidere di questioni di rito con una
sentenza a cui è seguita la prosecuzione del processo;
- o perché il processo ha ad oggetto più di una domanda.
Quest’ultimo è il fenomeno della pluralità di domande cumulate nello
stesso processo. Talvolta infatti, lo stesso atto introduttivo contiene più
domande (esempio: domanda di risoluzione di un contratto connessa al
risarcimento del danno dei danni derivati dall’inadempimento della
180
controparte). Talvolta, invece, le domande si vengono a cumulare nel
corso del processo (esempio: domande riconvenzionale del convenuto
che si aggiunge alla domanda principale dell’attore).
Regola generale è che i processo aventi ad oggetto più domande
cumulate si chiudano con un unica sentenza finale che decide di tutte le
domande. In questo senso dispone l’ART 277 c.1 secondo cui il giudice
“nel deliberare sul merito deve decidere di tutte le domande proposte e
le relative eccezioni, definendo il giudizio”.
E’ però possibile che le decisioni, invece di essere contestualmente
formalizzate in un’unica sentenza, si frazionino in più sentenze di merito,
cioè che le domande, fino ad allora trattate congiuntamente e cumulate
nello stesso processo, siano decise da distinte sentenze, così venendo
meno, nel momento decisorio, il loro cumulo. In questo caso, solo la
sentenza resa sull’ultima elle domande esaurirà il giudizio mentre le
sentenze precedenti esauriscono il merito della domanda ma non
definiscono il processo.
Questo accade quando, delle più causa cumulate, non tutte si presentino,
al momento della decisione, come mature per la decisione stessa, onde
sia possibile decidere di taluna di esse, ma non di quelle per le quali
appare necessaria un’ulteriore istruzione. In tal caso si ha una decisione
che è “definitiva” rispetto alla causa introdotta dalla domanda decisa ma
è “non definitiva” rispetto al processo, che prosegue riaprendo la fase
istruttoria per le altre cause non decise.
Per questa loro duplice caratteristica di definitività / non definitività le
sentenze che decidono cause cumulate nello stesso processo sono speso
chiamate sentenze “parzialmente definitive”.
Talora accade però che lo stesso processo si frazioni in più distinti
giudizi. E’ il fenomeno della separazione dei processi in fase decisoria,
contemplato dall’ART 279 c.2.
Questa possibilità di separazione è circoscritta alle ipotesi previste dagli
ART. 103-104.
L’ART 103 è la norma su quel particolare tipo di plurisoggettività
processuale detto “litisconsorzio facoltativo”: anticipato che con esso si
indica il cumulo di più domande proveniente da più attori, o il cumulo di
più domande nei confronti di più conviventi, rileva ai nostri fini che, ai
181
sensi del c.2 ART 103, il giudice può disporre, “nel corso dell’istruzione o
nella decisione, la separazione delle cause se vi è istanza di tutte le parti,
ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o
renderebbe più gravoso il processo”.
A sua volta, l’ART 104 è la norma che consente di proporre
cumulativamente, in un unico processo, domande non connesse tra di
loro nei confronti della stessa parte: “Contro la stessa parte possono
proporsi nel medesimo processo più domande anche non altrimenti
connesse”, a condizione che il giudice investito sia competente su ognuna
di esse.
Cumulabili in un unico atto introduttivo, tali domande danno quindi
luogo allo svolgimento di un unico procedimento avente ad oggetto tante
cause quante sono le domande e, di regola, concluso da un’unica
sentenza che decide di tutte.
Anche però nell’ipotesi dell’ART 104, è possibile che ogni causa prende la
sua strada, separandosi processualmente dalle altre e divenendo oggetto
di un autonomo processo: in tal caso, il giudice può infatti disporre la
separazione delle cause alle stesse in condizioni dettate dall’ART 103, e,
quindi, anche rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenze.
Quando la facoltà di separazione è esercitata in fase decisoria, essa è
regolata dall’ART 279 c.2. La norma prevede la possibilità che, ad istanza
di tutte le parti o quando la continuazione della riunione ritarderebbe /
renderebbe più gravoso il processo, il giudice decida solo alcune delle
cause fino a quel momento riunite, e contestualmente disponga “la
separazione delle altre cause e l’ulteriore istruzione rispetto alle
medesime, ovvero la remissione al giudice inferiore delle cause di sua
competenza”.
Le decisioni saranno quindi prese in forma di sentenza. Con distinta
ordinanza verrà poi disposta e disciplinata la prosecuzione del processo.
Al contrario delle sentenze pronunciate ai sensi dell’ART 277 c.2, le
sentenze pronunciate in questa occasione avranno invece il carattere
della definitività, considerato lo scioglimento del cumulo processuale che
ne è conseguenza e la definizione del merito. Essendo definitive, nei loro
confronti non si pone il problema della riserva di impugnazione, onde o
le si impugna nei termini, oppure esse passano in giudicato. Inoltre,
182
proprio in quanto chiudono il processo davanti al giudice da cui
provengono, esse regolano l spese del processo: ART 91.
2. Le sentenze non definitive su preliminari di merito e
pregiudiziali di rito
Usciamo ora dall’ipotesi della pluralità di domande cumulate e
esaminiamo l’eventualità del frazionamento in più decisioni di una
domanda avente un unico oggetto. Di regola in questo caso avremo una
sentenza uni a, ma è possibile anche che l’oggetto dell’unica domanda dia
luogo a più decisioni.
In generale il giudice, quando accoglie la domanda, pronuncia un’unica
sentenza che decide il merito e definisce anche il processo esaurendo il
grado di giudizio.
Lo stesso si verifica quando il giudice rigetta la domanda accogliendo
un’eccezione di merito rilevabile d’ufficio o sollevata dal convenuto. Se il
convenuto, ad esempio, ha sollevato l’eccezione di prescrizione e la
prescrizione risulta effettivamente maturata, il giudice rigetta la
domanda: la relativa sentenza esaurisce il merito negando l’esistenza del
diritto e contestualmente chiude il processo, definendo quel grado di
giudizio.
Si limitano a definire il processo quelle sentenze che pronunciando sulla
impossibilità di giudicare del merito dichiarando, per es. la nullità della
citazione ovvero l’incapacità della parte. Qui si ha evidentemente,
definizione del processo senza decisione di merito.
Sentenze che non definiscono il processo, né esauriscono il merito della
causa, sono invece quelle che decidono di una questione di merito o di
rito in maniera tale che la controversia debba necessariamente
proseguire, e che quindi assumono un carattere “interlocutorio”. Queste
sentenze sono chiamate nel codice non definitive. Ciò può accadere, per
esempio, quando la sentenza rigetta una questione pregiudiziale di
natura processuale, e quindi apre la strada ad ulteriori attività
processuali volte alla verifica dell’esistenza del diritto controverso. Così,
mentre si è visto che la pronuncia che accoglie eccezione di nullità della
citazione chiude il processo, la pronuncia che rigetta tale eccezione
183
chiude la relativa questione, ma non chiude il processo, che appunto
prosegue per affrontare il merito della causa.
Lo stesso carattere “interlocutorio” presenta la sentenza che, di fronte ad
un’eccezione di prescrizione, invece di accoglierla, la rigetta.
Se accerta l’intervenuta prescrizione, il giudice pronuncia sentenza
definitiva, ma se esso reputa che la prescrizione non sia maturata, rigetta
con sentenza l’eccezione di prescrizione lasciando aperte tutte le altre
questioni relative all’esistenza del diritto. Anche questa è una sentenza
non definitiva che decide solo la singola questione di prescrizione, ma
non definisce né il merito né il processo. Le questioni inerenti alla
nascita o meno del diritto, e in generale tutte quelle relative
all’accoglimento o al rigetto della domanda per altri motti diversi dalla
prescrizione, debbono ancora essere affrontate e risolte.
Esigenze di economia processuale favoriscono la possibilità che la causa
venga decisa su una questione c.d. “preliminare di merito” quale quella di
prescrizione: di fronte alla potabilità che il termine di prescrizione sia
effettivamente decorso, l’ART 187 consente di rimettere la causa in
decisione sulla ragionevole prospettiva dell’accoglimento dell’eccezione
di prescrizione con una sentenza che decide il merito e chiude il
processo. Ma può anche accadere che le cose non vadano così: al
momento di decidere, il giudice si convince, per esempio, che il termine
prescrizionale fu interrotto. In questo caso si avrà una sentenza in cui si
afferma la non prescrizione del diritto, a cui consegue la remissione della
causa in istruttoria tramite un’ordinanza accoppiata alla sentenza: la
causa ritorna in istruttoria perché dovranno essere verificati i fatti
costitutivi che tornano ad essere rilevanti dopo lo scioglimento negativo
dell’eccezione di merito o di rito. Quindi, duplicità di provvedimenti:
sentenza per le questioni decise definitivamente ed ordinanza per la
riapertura dell’istruzione. E’ il previsione dell’ART 279 c.2: il giudice
“non definisce il giudizio e impartisce distinti provvedimenti per
l’ulteriore istruzione della causa”.
Si consideri, a titolo di esempio, questa possibilità di svolgimento
processuale (VEDI PAG 310).
3. La sentenza di condanna generica
184
Accanto alle sentenze appena viste, il codice prevede un particolare tipo
di sentenza detta condanna generica. Per l’ipotesi che, accertata la
sussistenza di un diritto di credito (c.d. “an), sia ancora da determinarsi
l’ammontare della prestazione dovuta (c.d. “quantum”), l’ART 278
consente al giudice di limitarsi, su istanza di parte, “a pronunciare con
sentenza la condanna generica alla prestazione disponendo con
ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione”. Mancando la
quantificazione del credito, è escluso che questa sentenza possa valere
da condanna in senso proprio, idonea a fungere da titolo esecutivo, titolo
che può avere ad oggetto solo un credito “certo, liquido, esigibile”.
Una tale sentenza è in realtà una sentenza dichiarativa, cioè una
sentenza di accertamento della responsabilità del debitore, ma a
quest’accertamento la legge ricollega alcuni effetti propri della
condanna, allorché, come nel caso in esame, esso si coordini con la
concreta possibilità di una successiva determinazione dell’ammontare
dell’obbligazione. Il fatto che manchi la caratteristica più vistosa della
condanna specifica, nn esclude che la nostra pronuncia comporti due
importanti effetti della sentenza di fondana, vale a dire:
a) La possibilità di iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del debitore;
b) La trasformazione in prescrizione ordinaria del termine breve di
prescrizione a cui eventualmente sia assoggettato il diritto accertato in
sentenza.
L’ipoteca giudiziale è la garanzia ipotecaria collegata alle sentenze di
condanna, nel senso che il creditore risultante da tali sentenze viene
autorizzato ad iscrivere ipoteca sul patrimonio del debitore, con
conseguente diritto di prelazione sui beni ipotecati in caso di concorso
degli altri creditori eventualmente intervenuti nell’esecuzione forzata
conseguente all’inadempimento dell’obbligazione. Ai sensi dell’ART 2818
c.c. ogni sentenza “che porta condanna al pagamento di una somma o
all’adempimento di altra obbligazione, o al risarcimento dei danni da
liquidarsi successivamente, è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del
debitore”. La sentenza che “porta condanna … al risarcimento dei danni
da liquidarsi successivamente” è appunto la sentenza di condanna
generica.
185
Si ricorda che ai sensi dell’ART 2741 c.c. i creditori “hanno uguale diritto
di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di
prelazione”. Le cause legittime di prelazione sono il pegno, l’ipoteca, i
privilegi e l’ipoteca può avere, oltre ai caratteri legali e convenzionali,
anche giudiziali.
L’attore può fin dall’origine limitare la propria domanda alla condanna
generica, cioè alla richiesta dell’acclaramento della responsabilità del
convenuto. E’ in sua libertà fissare l’oggetto della domanda: egli può
domandare l’accertamento della responsabilità del convenuto con
riserva di richiedere, in un ulteriore e successivo processo, la
quantificazione del dovuto.
In tal caso la sentenza di condanna generica avrà il carattere della
sentenza definitiva.
Accade però anche che l’attore nel corso del processo ritenga di dover
limitare la richiesta alla condanna generica. Su istanza di parte, il giudice
può allora limitarsi a pronunciare la condanna generica, disponendo con
ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione in un momento
successivo.
In questo caso la condanna generica prende la forma della sentenza non
definitiva di giudizio, sentenza non definitiva che:
a) non contiene condanna alle spese
b) resta soggetta al possibile differimento dell’impugnazione, essendo
contro di essa consentita la riserva di appello e la riserva di ricorso per
cassazione.
CAPITOLO 25. IL PROCESSO PLURISOGGETTIVO
1. Il processo con più parti
Le sentenze svolgono effetti nei confronti delle parti: “L’accertamento
contenuto nella sentenza passata in giudicato, ha efficacia tra le parti, i
loro eredi o aventi causa”.
Si tratta di una norma fondamentale che restringe l’ambito soggettivo
dell’efficacia della sentenza.
186
Questo è il riflesso del principio del contraddittorio: la sentenza non può
nuocere a chi non è parte. Quindi, essa non tocca i diritti di coloro che,
non avendo partecipato al giudizio, non hanno potuto contraddire.
Da un tale sbarramento soggettivo, sorge l’esigenza che quando la
sentenza deve avere effetti nei confronti di soggetti terzi rispetto
all’attore e al convenuto, è necessario che questi o agiscano ne processo.
o vi siano chiamati: solo in questo modo la sentenza potrà avere effetti
nei loro confronti.
L’ingrasso di altre parti nel processo può avvenire in vari comodo.
Un singolo attore può agire contro più convenuti; più attori possono
agire congiuntamente; un terzo può inserirsi spontaneamente nel
processo in corso tra altri soggetti ovvero essere chiamato a partecipare.
Ci sono poi i casi in cui il processo non può svolgersi se non nei confronti
di un numero maggiore di parti, in quanto la sentenza deve
necessariamente pronunciare anche nei confronti di soggetti terzi.
2. Il cumulo soggettivo del lato passivo
La prima norma da considerare è l’ART 33 (cumulo soggettivo), la forma
più semplice di pluralità di parti. E’ l’ipotesi dell’attore che propone più
domande contro più convenuti. (Esempio: in materia di proprietà
industriale, ritenendo che sia stato contraffatto un mio brevetto, agisco
nei confronti del rivenditore e, congiuntamente nello stesso processo,
nei confronti del produttore).
Con l’ART 33, invece il cumulo è anche soggettivo. L’ipotesi è quella
dell’attore che propone più domande, ma contro più soggetti. E’ la forma
più elementare di pluralità di parti per cui è possibile con lo stesso atto
di citazione convenire in giudizio più persone.
Le cause contro più persone che dovrebbero essere proposte davanti a
giudici diversi “se sono connesse per l’oggetto o per il titolo, possono
essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o di domicilio di
una di esse, per essere decise nello stesso processo”. Più convenuti
possono quindi essere trascinati da un unico attore nello stesso
processo, eventualmente anche in deroga alle norme sulla competenza
se c’è una connessione per il titolo o per l’oggetto.
187
3. Il litisconsorzio facoltativo
Dal punto div osta sistematico, il passo successivo è quello dell’ART 103.
“Più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo
quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o
per il titolo, oppure quando la decisione dipende totalmente o
parzialmente dalla risoluzione di identiche questioni”.
Per esempio, nel caso in cui da un unico fatto illecito imputabile a Z
derivino pretese di più danneggiati, nel processo esperito dal
danneggiato A, potrebbe accertarsi la responsabilità di Z, mentre dal
processo esperito dal danneggiato B, potrebbe venir fuori che Z è
estraneo al fatto.
Il fenomeno del litisconsorzio facoltativo è dunque essenzialmente
quello di una pluralità di controversie, cumulare però tra loro in un
unico rapporto processuale. La legge fa dipendere la possibilità di
cumulo dalla reciproca connessione delle cause riunite.
Ferma quindi restando l’esigenza della connessione.
a) più attori potranno agire contro uno o più convenuti, oppure
b) un singolo attore potrà proporre più domande contro più convenuti.
Per es. quest’ultima è l’ipotesi di un creditore che agisce contro più
debitori solidali.
Ipotesi simmetrica è quella della pluralità di attori contro un solo
convenuto.
Mantenendoci all’intero dell’esempio delle obbligazioni solidali,
osserviamo il fenomeno della contitolarità attiva: più creditori solidali
che agiscono contro un solo debitore o più debitori solidali. Anche qui c’è
un cumulo di domanda perché ognuno degli attori propone
automaticamente domanda per l’intero. La citazione è un atto unico
contenente più domande: la domanda dell’attore A e quella dell’attore B,
con-creditori solidali ognuno dei quali è autorizzato dalla legge ad agire
per l’intero, cioè a chiedere l’accertamento del credito e la condanna al
pagamento del credito per l’intero a proprio favore.
Il c.1 ART 103 prosegue prevedendo che possa aversi litisconsorzio
facoltativo “quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente,
188
dalla risoluzione di identiche questioni”. Si tratta di un fenomeno in cui
tra le domande non vi è una connessione in senso proprio, ma
ciononostante si può avere interesse ad una decisione unitaria perché la
soluzione di un’unica, ampia questione pregiudiziale finisce per
condizionare la decisione di più cause.
Si consideri la questione interpretativa di una determinata clausola di
contratto collettivo di lavoro che subordina una determinata voce
retributiva a certi presupposti.
Si parla in tali casi di litisconsorzio per connessione impropria.
Il codice non disciplina lo svolgimento del processo nel litisconsorzio
facoltativo. Possiamo però far riferimento a due principi:
1) unità formale del procedimento;
2) indipendenza sostanziale delle cause cumulate.
Dalla mera facoltatività del cumulo di cause si ricava anche che le cause
riunite ad un certo momento possano separassi tra di loro, come avviene
per la pluralità di domande proposte contro la stessa parte.
Così come si poteva giungere alla separazione di tali domande, lo stesso
può accadere quando ci sono più parti, secondo la previsione dell’ART
103 c.2.
Proprio perché il litisconsorzio è facoltativo e dipende da una scelta delle
parti non imposta dalla legge, il giudice può disporre nel corso
dell’istruzione “la separazione delle cause se vi è istanza di tutte le parti,
o quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe / renderebbe
più gravoso il processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di
sua competenza”. Si ritiene, quindi, che la valutazione si a discrezionale,
ma non pare che vi sia spazio per tale discrezionalità quando vi sia
“istanza di tutte le parti”.
E’ consentita, quindi, non solo la separazione della trattazione delle
domande all’interno dello stesso processo, ma anche la separazione dei
processi.
(La separazione non è però concepibile in certe particolari ipotesi
di litisconsorzio facoltativo in cui ad una pluralità di parti non
corrisponde una pluralità di cause. Sono, questi, i casi in cui il
processo con più parti, pur senza dar luogo a forma di litisconsorzio
189
necessario, ha ad oggetto un giudizio unitario e non invece più
cause cumulate tra loro. Emblematico è il caso dell’impugnativa
della delibera assembleare della s.p.a. in cui più sono i legittimati
ad impugnare ma ciascuno può farlo autonomamente senza
necessità della partecipazione degli altri: gli amministratori, il
consiglio di sorveglianza e il collegio sindacale, ad impugnare l’atto
e ciascuno dei legittimati può agire indipendentemente dagli altri e
senza onere di coinvolgerli).
L’art 103 contempla una pluralità di parti presenti fin dall’origine. E’
però anche possibile che la pluralità di parti si realizzi in un momento
successivo. Ciò avviene per i fenomeni c.d. di intervento. Il terzo,
interessato a che la sentenza lo coinvolga o a impedire che in qualche
modo essa lo danneggi, può partecipare al processo.
Per farlo, può scegliere la strada di intervenire volontariamente: ART
105. Ma un terzo può entrare in un processo in corso attraverso la sua
chiamata in causa per iniziativa di una delle parti: ART 106. Ovvero
ancora egli può essere chiamato a intervenire su ordine del giudice (ART
107).
CAPITOLO 26. SEGUE IL PROCESSO PLURISOGGETTIVO
1. Gli interventi. Intervento volontario: intervento principale e
litisconsortile
L’ART 105 c.1 prevede che ciascuno possa “intervenire in un processo
tra altre persone per far valere, in confronti di tutte le parti o di alcuni di
esse, un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel
processo medesimo”.
Di norma il terzo è tutelato proprio dal … suo essere terzo rispetto al
processo che si svolge tra altri: se la sentenza ha effetto solo per le parti
(ART 2909 c.c) essa non gli è opponibile. Il terzo Sempronio può però
ritenere che la sentenza resa tra Tizio e Caio interferisca con un proprio
diritto che in qualche modo è correlato all’oggetto del processo in corso,
o è dipendente dal titolo dedotto in causa dall’attore: in tal caso la legge
190
gli consente di “far valere” tale diritto in via preventiva, cioè
intervenendo nel procedimenti di formazione della sentenza.
Vediamo qualche esempio: Vedi esempio pag 323.
Rispetto alla formulazione dell’ART 105 c.1, osserviamo che Sempronio
chiede di accertare un proprio diritto, e che tale diritto si presenta come:
a) un diritto relativo all’oggetto del processo in corso, e come
2) un diritto in confronto di tutte le parti.
Sempronio assumerà che il proprio titolo di proprietà deve
legittimamente prevalere su quello vantato da Tizio, il che si avrà, per
esempio, se si tratti di titolo autonomo, tipo l’usucapione.
Si suole esprimete queste caratteristiche dicendo che il diritto del terzo
interveniente si deve presentate come “prevalente” e come “autonomo”.
A seguito dell’intervento in esame, il processo vedrà ampliata la materia
del contendere: all’oggetto originario si aggiungerà la seconda domanda,
proposta dal terzo nei confronti di ambedue le parti, onde il giudice
dovrà decidere in via principale anche di essa (ART 112).
Conviene ricordare che, se Sempronio avesse effettivamente un diritto
prevalente, egli non perderebbe certo il proprio diritto di fronte alla
sentenza che riconosce il diritto di Tizio nei confronti di Caio,
condannando quest’ultimo a restituire il primo. Non intervenendo in
giudizio, cioè, questa sentenza non gli sarebbe opponibile. A ben
guardare, però, Sempronio può subire pregiudizio anche da un titolo
formalmente inopponibile.
E il pregiudizio può rivelarsi di grado diverso. Così egli può avere tutto
l’interesse ad impedire, per esempio, che il bene trasmigri
materialmente da Caio a Tizi: per esempio se si tratta di un bene mobile,
Sempronio potrebbe addirittura perderne la proprietà, poiché questa si
consoliderebbe a favore di Tizio una volta che questi ne acquisti
materialmente il possesso attraverso un trasferimento giustificato dalla
sentenza di condanna.
Più banalmente, Sempronio potrebbe ritenere meno agevole ottenere la
restituzione da parte di Tizio; ovvero potrebbe avere interesse a che non
si formi affatto un titolo giudiziale di proprietà a favore di Tizio, in
quando tale titolo potrebbe praticamente danneggiare il valore del
proprio titolo di proprietà.
191
I piccoli o grandi inconvenienti osservati possono essere evitati
intervenendo nella causa in corso. Così facendo, Sempronio “gioca
d’anticipo” ed elimina all’origine i possibili problemi pratici generati
dalla connessione tra il proprio diritto e il rapporto giuridico oggetto di
giudizio inter alias.
Negli esempio osservati chi interviene lo fa ponendosi ad un tempo
contro l’attore e contro il convenuto: egli mira a negare le ragioni di
ambedue le parti. L’intervento è chiamato principale. Lo stesso c.1 ART
105 prevede però anche il caso del terzo che, in luogo ad intervenire
“contro” tutte le parti, interviene “in confronto di alcune” delle parti.
Questo intervento viene detto litisconsortile ed attraverso esso,
l’interventore si schiera a fianco di una delle parti contro l’altra: per
esempio, nel processo in cui l’acquirente di un appartamento conviene in
giudizio il venditore-costruttore assumendo un inadempimento
conviene in giudizio il venditore-costruttore assumendo un
inadempimento di obbligazioni relative a parti comuni dell’edificio, un
altro acquirente di appartamento nello stesso edificio interviene
lamentando l’inadempimento della stessa obbligazione nei propri
confronti. Egli si schiera a fianco dell’attore, cumulando la propria
domanda a quella originaria e provocando il dovere del giudice di
decidere anche del proprio diritto.
Se nei casi visti il diritto del terzo appare “relativo all’oggetto” del
processo in corso, vi sono peraltro casi in cui la situazione soggettiva del
terzo si presenta invece come dipendente “dal titolo dedotto nel
processo”. Tale è, per esempio, il caso del condebitore solidale che
interviene nel giudizio intentato dal creditore contro altro debitore:
l’esistenza dell’obbligazione del condebitore interveniente dipende
dall’esistenza e validità del titolo dell’obbligazione dedotta dall’attore,
sicché egli aggiunge un ulteriore oggetto di accertamento, dipendente dal
titolo originariamente dedotto. Si tratta di un intervento “adesivo” /
“litisconsortile”, in quando il terzo affianca una delle parti contro l’altra,
e si tratta di un intervento “autonomo”, perché il terzo qui chiede che
tale situazione soggettiva sia specifico oggetto di giudizio: questo basta a
differenziare la sua posizione da iella dell’interventore adesivo
192
dipendente, in cui il terzo si accontenta di “sostenere le ragioni di una
delle parti”.
1.1 Intervento adesivo dipendente
Il comma due dell'articolo 105 consente l'intervento anche al terzo che, il
luogo di sottoporre a giudizio un proprio diritto, intende “sostenere le
ragioni di una delle parti”, avendo oggettivamente interesse a fornire tale
sostegno. Si tratta di un intervento che viene detto adesivo o dipendente
in quanto si limita rafforzare le ragioni di accoglimento di rigetto.
È il caso di quei versi che in qualche modo ne subirebbero però effetti
negativi, attraverso un meccanismo riflesso.
(nella sostanza appaiono legittimati a compiere intervento adesivo
dipendente:
a) quelli aventi causa da una delle parti che subirebbero gli effetti
riflessi della sentenza, Non essendo ammessi a far parte
dell'eccezione di giudicato “inter alios”;
b) quei soggetti, legati da un rapporto sostanziale ad una delle
parti, che, dalla soccombenza di questa risentirebbe lo pregiudizio.
Costoro differiscono dagli eredi causa sub a) perché possiedono un
interesse legittimo alla conservazione dello status quo ante pur se
la modifica conseguente alla sentenza non fa tecnicamente stato per
loro;
c) I creditori rispetto alle rigide loro debitori che ne mettono in
gioco la responsabilità patrimoniale).
La fattispecie a) È perfettamente esemplificato dall'articolo 1595. Vedi
esempio pagina 327.
Il suo conduttore può legittimamente intervenire per contribuire ad
evitare la formazione di una sentenza di condanna alla restituzione,
Sentenza di fronte a cui egli sarebbe impotente.
La fattispecie b) È esemplificata dall'intervento del rappresentante nel
giudizio in corso nei confronti del suo rappresentato allorché l'esito della
lite possa esporlo a responsabilità verso quest'ultimo.
193
Il rappresentante non soggiace avrebbe automaticamente giudicato
formatosi nei confronti del rappresentato, ma non è dubbio ch'egli abbia
interesse ad evitare che si crei anche una partenza di ragione altrui che
potrebbe farsi valere in seguito contro di lui.
La fattispecie c) si comprende agevolmente se si considera che il
creditore così come può vedere assottigliarsi vuoi estinguersi tale
garanzia per atti di disposizione del debitore, può parimenti soffrire lo
stesso pregiudizio per via di provvedimenti giudiziari che riconoscono
soggetti diversi dal debitore diritti reali su beni facenti parte della
garanzia patrimoniale di questi. E, in maniera del tutto simile all'avente
causa della ipotesi a) il creditore può legittimamente intervenire per
evitare la formazione di una sentenza che dica che il suo debitore non è
proprietario del fondo.
A questo scopo gli potrà far valere tutte le difese le eccezioni del debitore
convenuto che questo trascuri di sollevare o non sorregga con prova
adeguata.
Con l'intervento adesivo dipendente non sia un allargamento oggettivo
della materia del contendere, nel senso che il giudice non viene imposto
di decidere anche di diritti del terzo: non si verifica, in altre parole, un
cumulo processuale di cause. Al giudice spetta di decidere del rapporto
originariamente sottoposto a giudizio e corrente tra attore convenuto, in
quanto al terzo non interessa che si accerti una propria situazione
soggettiva, Ma solo che vinca la parte originaria adeguata.
(il terzo si costituisca presentando in udienza O depositando in
cancelleria una propria formata comparsa A norma dell'articolo
167. Quando la costituzione del terzo non avviene in udienza, il
cancelliere da' notizia dell'intervento alle altre parti costituite.
Quanto al termine per intervenire, l'articolo 268 ammette
l'intervento fino alla precisazione delle conclusioni).
2. L’intervento su istanza di parte
Non è detto che l'iniziativa di intervenire debba provenire dal terzo:
capita che nel corso del processo tra Tizio e Caio, l'una o l'altra delle
194
parti ritenga opportuno allargare la controversia anche a Sempronio_,
chiamando in causa.
l'articolo 106 prevede che ognuna delle parti possa chiamare in causa un
terzo in due casi:
A) quando “ritiene comune la causa” al terzo, e
B) quando “pretende essere garantita” dal terzo.
Cominciamo dalla fattispecie B). La pretesa di essere garantito proviene
dal convenuto, che può chiamare in causa tanto:
B.1) un terzo nei cui confronti far valere un obbligo di essere
processualmente garantito rispetto alla pretesa esercitata dall'attore.
B.2) un terzo, privo di obblighi processuali nei suoi confronti ma, la cui
posizione sostanziale presenti particolari nessi di collegamento a quella
del chiamante, cosiddetta garanzia semplice.
È il caso della garanzia formale (b.1) È esemplarmente integrato dalla
chiamata che il locatario, citato in giudizio da terzi, opera nei confronti
del locatore: ai sensi infatti dell'articolo 1586 comma due quest'ultimo
“È tenuto ad assumere la lite qualora sia chiamato nel processo”. Si tratta
dunque di un obbligo processuale di difesa e gestione della lite, che si
aggiunge all'obbligo strettamente sostanziale di tenere indenne il
locatario-sfavorevole. In questo caso si può dire che il convenuto esercito
un diritto formale di “essere garantito”.
Ipotesi di garanzia semplice (b.2) È quella, per esempio, della chiamata
ad opera del debitore solidale convenuto dal creditore, Di altro condebitore, Che galleggia soggetti a regresso in caso di pagamento del
debito da parte del convenuto.
Qui il debitore convenuto non ha tecnicamente diritto ad essere difeso
dal terzo, né vi sono obblighi di assumere la lite da parte del terzo, ma ciò
nonostante si può parlare di un rapporto di garanzia in intimamente
connesso alla struttura sostanziale dei rapporti dedotti, diritto di
garanzia che si basa sul diritto di regresso previsto regolato dalla legge
in particolare dall'articolo 1298 codice civile.
Poiché la condanna del debitore convenuto non pregiudicherebbe
automaticamente il con-debitore estraneo al giudizio, il primo intento
della chiamata è quello dell'estensione della lite al terzo: Una volta
195
chiamato in causa, il terzo smette di essere tale, E diventando parte, non
potrà in futuro contestare la sentenza come res inter alios.
La giurisprudenza riconosce pertanto al convenuto anche la possibilità di
chiamare in giudizio terzi Sulla base di rapporti estranei a quelli dedotti
in giudizio, ma nei cui confronti degli potrebbe vantare diritto di
regresso se condannato, Cosiddetta garanzia impropria: i casi principali
sono quelli dei diritti di rivalsa nei confronti dell'assicuratore e delle
cosiddette vendite a catena.
Oltre che chiamato con domanda di garanzia, il terzo può essere evocato
in giudizio sul presupposto della “comunanza” di una sua situazione
giuridica con l'oggetto della casa. E questo può accadere sia per iniziativa
del convenuto che dell'attore.
Può infatti accadere che nella propria difesa del convenuto contesti:
A_) la propria responsabilità, indicando con relativamente la
responsabilità di un terzo, ovvero che li contesti;
B) la “legittimazione” dell'attore a chiedere l'accertamento
effettivamente richiesto, nel senso che il diritto fatto valere spetterebbe
ad altro terzo.
In ambedue questi casi si può affermare che il convenuto introduce un
elemento di comunanza della causa al terzo, sicché la chiamata di questi
soddisfi requisito previsto dall'articolo 106.
Nell'ipotesi B) il convenuto mostra di avere interesse all'estensione della
causa al terzo: Solo in tal modo egli infatti potrà ottenere una estensione
del giudicato nei confronti del terzo, evitando il rischio di essere
condannato due volte.
Se non effettuasse l'estensione al terzo, il convenuto aggiungerebbe al
rischio di essere condannato nella causa in corso, la possibilità di essere
condannato in una successiva causa autonomamente intentata dal terzo:
questi, infatti, potrebbe far valere il proprio diritto non essendo
vincolato dalla prima sentenza.
Il convenuto può così limitarsi a chiamare il terzo: in tal caso l'attore non
è obbligato ad estendere la domanda nè il terzo è obbligato a proporre
domande proprie.
Quando invece la contestazione del convenuto investe la cosiddetta
legittimazione passiva, la chiamata può avvenire tanto per iniziativa
196
dell'attore che del convenuto. Quanto all'interesse dell'attore ad
effettuare la chiamata, È vero che egli poteva convenire il terzo sin
dall’inizio; spesso accade però che l'esigenza sia nata proprio in corso di
causa in quanto originata dalle difese del convenuto.
Nella esperienza giudiziale, di gran lunga prevalente rispetto alla
chiamata da parte dell'attore, appare la chiamata da parte del convenuto
che, oltre a indicare la responsabilità del terzo, compie gli atti necessari
alla chiamata secondo le previsioni dell'articolo 269.
In proposito, è orientamento consolidato della giurisprudenza che la
chiamata, da parte del convenuto, del terzo responsabile, fa sì che si
estenda automaticamente al terzo la domanda dell'attore, con possibilità
di legittima condanna del terzo chiamato anche carenza di apposita
domanda e di richiesta di condanna.
3. L’intervento per ordine del giudice
L'articolo 107 prevede che il giudice possa ordinare la chiamata di un
terzo al quale ritiene la causa comune.
Torna il concetto di “comunanza di causa” già incontrato nell'articolo
106. La dottrina ha provato ad inquadrare questa comunanza di rigide
categorie sistematiche, temendo che l'iniziativa del giudice potesse
attentare al principio della domanda, ovvero il principio del trattamento
paritario delle parti: fiumi di inchiostro sono stati gettati in dispute e
distinguo da cui invece la giurisprudenza mostra di non farsi
condizionare troppo. E così, nell'esperienza del processo, il termine
“comune” ha finito per presentarsi anche generico, in modo da
ricomprendere tante fattispecie.
Proviamo a guardare alla casistica.
Cominciamo a dire che la posizione del terzo è sempre in qualche modo
“offerta” al giudice degli atti di parte; essa cioè è introdotta o dall'attore o
dal convenuto. Questo vuol dire che in moltissimi casi la parte potrebbe
chiamare essa stessa, ai sensi dell'articolo 106, il terzo: è evidente che in
questi casi il concetto di causa comune si rivela esattamente lo stesso nei
due articoli e la scelta della chiamata diretta ex parte, O indiretta jussu
judicis È affidata ad elementi estrinseci.
197
Ma guardiamo ad alcune fattispecie in cui è stato concretamente
applicato l'istituto della chiamata per ordine del giudice:
A) chiamata di C, proprietario di altro fondo confinante, il giudizio volto
alla costituzione, A favore del fondo Inter incluso di A, di una servitù di
passaggio sul fondo confinante di B.;
B) chiamata di C, nel giudizio in cui A, aveva chiesto a B, il pagamento
della provvigione spettantegli.
Quando questo accade, il giudice “ordina” la chiamata, nel senso che
stabilisce un termine entro il quale la parte interessata all'onere
concretamente di effettuare la citazione del terzo. Il termine perentorio e
la sua inadempienza determina cancellazione della causa dal ruolo:
articolo 270 comma 2. Si noti che l'ordine di chiamata determina solo
l'onere della cosiddetta denuntiatio litis al terzo, Cioè della
comunicazione a questi della litispendenza: Spetta invece alla parte
chiamante determinare se produrre questo semplice allargamento
dell'accertamento al terzo, O se proporre autonoma domanda contro
questi.
La chiamata del terzo può essere ordinata in ogni momento dal giudice
istruttore che, allo scopo, fissa una apposita udienza. Al terzo si
applicano, rispetto alla udienza per la quale eccitato, le disposizioni ed i
termini previsti per il convenuto dagli articoli 166,167 comma uno..
CAPITOLO 27. SEGUE IL PROCESSO PLURISOGETTIVO
1. Il litisconsorzio necessario
Passiamo ora ai casi in cui il processo deve svolgersi necessariamente
nei confronti di più parti rispetto al numero minimo di due. Si tratta dei
casi in cui la sentenza non può essere pronunciata che nei confronti di
più parti, o perché lo prescrive la legge, oppure, nel silenzio della legge,
perché il rapporto giuridico oggetto di giudizio altrui bilaterale e
richiede di essere conosciuto e deciso nei confronti di tutte le parti.
È il fenomeno del cosiddetto litis consorzio necessario regolato
dall'articolo 102.
198
Dobbiamo ancora una volta ricordare che la sentenza fa stato solo per i
soggetti nei confronti dei quali essa è pronunciata. Sappiamo anche che,
per poter essere destinatari della sentenza, bisogna prima essere stati
parti del processo.
Ciò vuol dire che, quando sorge l'esigenza di pronunciare nei confronti di
più parti, “queste debbono giro essere convenute nello stesso processo”.
Tale appunto la prescrizione dell'articolo 102 comma uno E si limita a
stabilire che il giudice non può decidere confronti di soggetti senza
prima coinvolgerli nella vicenda processuale in corso.
Il comma due articolo 102 regola lo svolgimento del processo a
litisconsorzio necessario: dovendosi decidere confronti di più parti in un
processo promosso solo da alcune o contro alcune di queste, il “giudice
ordina l'integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui
stabilito”. In altre parole, tutte le parti necessarie devono partecipare al
processo e, se questo non è accaduto all'origine, il giudice deve
provvedere a che ciò avvenga in un momento successivo ordinando
l'integrazione della contraddittorio.
2. I presupposti
L'articolo 102 non ci dice però quali sono i casi in cui la sentenza deve
pronunciare nei confronti di più parti. Limitandosi ad enunciare il
dovere del giudice e gli oneri delle parti in presenza di litisconsorzio
necessario, lascia l'interprete il compito di determinare quando sia
litisconsorzio necessario, in quali casi, cioè, il contraddittorio deve essere
integrato nei confronti di altre parti.
Per un primo gruppo di casi la risposta al quesito semplice. Quando l'era
legge a dire che più parti devono partecipare al processo il problema
risorge partenza.
(esempio. In tema di status e capacità delle persone, l'articolo 247
codice civile, per regolare l'azione giudiziale di disconoscimento di
paternità impone che il processo si svolga necessariamente nei
confronti di padre, madre e figlio: “il presunto padre, e la madre, e il
figlio sono litisconsorti necessari nel giudizio di disconoscimento”.
199
Altro esempio è dato dall'articolo 784, Scioglimento di comunione:
“le domande di divisione ereditaria o di scioglimento di qualsiasi
altra comunione devono proporsi nei confronti di tutti gli eredi o
condomini e dei creditori opponenti se vi sono”.
Se indaghiamo sulla ratio che presiede agli articoli 247 e 784, troviamo
un solido aiuto per elaborare la regola da applicare nel silenzio della
legge, per risolvere cioè il quesito della necessità o meno di litisconsorzio
in difetto di apposita prescrizione. Certamente, se l'obbligo di
litisconsorzio fosse limitato solo alle norme che espressamente lo
prevedono, il problema sarebbe risolto in partenza. Ma così non è perché
talvolta si impone l'applicazione dell'istituto indipendentemente dalla
previsione legislativa.
Ciò accade quando la sentenza emessa da due sole parti non sarebbe in
grado di regolare il rapporto giuridico sostanziale. Più precisamente:
quando il rapporto non solo a plurilaterale, ma la plurilateralità non è
comodamente scindibile in più rapporti bilaterali.
Prendiamo l'articolo 784 se osserviamo attentamente la prescrizione
troviamo la chiave della regola generale che stiamo cercando quale è il
rapporto sostanziale dedotto nel giudizio di divisione? È evidentemente
un rapporto di comunione, cioè una comproprietà, o contitolarità di
diritto reale.
Quale è il petitum, Cioè l'oggetto della domanda? È evidentemente lo sul
movimento della comunione con la sua scomposizione in più diritti di
proprietà, individuali ed esclusivi.
ora, se la comunione intercorre tra i soli Giovanni E Alessio, E Giovanni
agisce per rosso rendimento, gli sarà sufficiente agire nei confronti di
Alessio. Ma se la comunione intercorre tra tre con-proprietari, Il suo
scioglimento non potrà aversi seconda dei confronti di Giovanni, Alessio,
E Matteo. Quindi se Giovanni agisce nei confronti del solo Alessio, dovrà
in qualche modo coinvolgere anche Matteo nel processo, perché dal
processo può legittimamente uscire solo una sentenza di divisioni che
investa sia Giovanni sia Matteo ossia Alessio. Non avrebbe alcun senso
coinvolgere solo due soggetti.
200
quale è allora il ragionamento che si deve fare per scoprire se occorre
integrare il contraddittorio nei confronti di altre parti? Per rispondere
occorre guardare a quali effetti avrebbe su rapporto la sentenza
richiesta: se l'accoglimento della domanda può regolare la posizione
delle parti in causa senza necessità di coinvolgere la posizione del terzo,
il litisconsorzio non è necessario quella sentenza potrà essere
legittimamente resa tra le sole due parti in causa. Se viceversa, in una
prospettiva, la sentenza resa esclusivamente tra attori e il convenuto non
potrà correttamente regolare il rapporto giuridico dedotto in giudizio,
scatterà l'articolo 102, cioè la necessità di integrare il contraddittorio nei
confronti delle parti che non sono presenti in quel momento in quel
processo.
Per capirci consideriamo un caso di rapporto plurilaterale in cui si
riconosce che il litisconsorzio numero necessario, e vediamo perché ciò
accade.
Prendiamo una obbligazione con più creditori solidali: sul piano
sostanziale a ciascuno dei creditori è consentito ottenere dal debitore il
pagamento dell'intero credito. Simmetricamente, in caso di azione in
giudizio di un singolo debitore, la sentenza potrà condannare il debitore
a pagare l'intero: si comprende che qui la sentenza di accoglimento è
perfettamente adeguata al fine perseguito dall'attore. Essa soddisfa
l'interesse perseguito, per produrre effetti nella sfera del richiedente,
non vi è bisogno di pronuncia anche nei confronti dell'icona-creditori.
Questo basta ad escludere che la sentenza debba pronunciare anche nei
confronti di costoro, e che, quindi, e si debbano partecipare al processo:
si ricorderà che essi possono intervenire, ma l'uso del verbo “potere”
indica che si tratti di vera facoltà, non di necessità.
Nei casi osservati la sentenza richiesta invece, per produrre effetti nella
sfera del richiedente, aveva bisogno di poter fare stato anche nei
confronti di altri soggetti: l'attore divisione deve poter ottenere una
sentenza che produca l’effetto di risolvere confronti di tutti perché non
potrebbe giuridicamente servirsi di una sentenza che divide bene nei
confronti di un numero incompleto di comproprietari.la sentenza che
così pronunciasse sarebbe inutile per lui, con la conseguenza che deve
201
essere integrato il contraddittorio nei confronti delle altre parti del
rapporto.
Dobbiamo ancora ricordare che litisconsorzio necessario sia anche
quando agisce il cosiddetto sostituto processuale; qui ad agire non è il
titolare del diritto ma un altro soggetto quella legge conferisce la
legittimazione a dedurre in giudizio un diritto altrui. In questo caso il
processo deve E estendersi al titolare del diritto, proprio perché la
sentenza dovrà incidere sul suo diritto questo modello troviamo
applicato nell'articolo 2900 codice civile, che regola l'azione surrogatoria
3. Rimedi al difetto di contraddittorio
Come abbiamo visto, il comma due articolo 102 prescrive da farsi in caso
di processo intercorrente tra alcune sole delle tue parti: “se il processo è
promosso contro alcune soltanto di esse, il giudice ordina l'integrazione
del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito”.
il giudice deve quindi rendere possibile che la parte ancora estranea
processo diventi parte effettiva di esso. In concreto, il giudice aveva
ricavato dagli atti di causa le indicazioni necessarie per individuare il
soggetto nei cui confronti di integrare il contraddittorio. A tale fine
ordinerà alle parti di chiamare il terzo in giudizio per l'integrazione del
contraddittorio entro un termine perentorio da lui stabilito.
Entro questo Dell per il terzo potrà essere citato in giudizio. Il mancato
rispetto del termine, produce un fatto estintivo del processo, in altre
parole il processo muore. Ciò prescritto espressamente dall'articolo 307
comma tre, secondo cui l'ipotesi del genere il processo si estingue.
Se però nessuno si accorge che si versa in un caso di litisconsorzio
necessario, Si arriverà ad una sentenza che, non pronunciando nei
confronti di tutte le parti necessarie, e affetta da un grave vizio. Un vizio
totale che porta a ritenere che la sentenza non possa acquistare
definitività, e che le dà quindi uno status di incertezza e instabilità
assoluta. Dato che la sentenza può essere sempre messa in discussione si
parlerà di sentenza “inutiliter data”.
202
Il giudice di appello, quando riscontra la mancata integrazione del
contraddittorio, Deve annullare la sentenza e rimettere la causa allo
stesso giudice che avrebbe dovuto ordinare l'integrazione del
contraddittorio, articolo 354.
CAPITOLO 28. IL VENIR MENO DI UNA PARTE E LA SUCCESSIONE
NEL DIRITTO CONTROVERSO
1. Art. 110. Il venir meno di una parte
L'articolo 110 regola l’il caso del venir meno di una parte nel corso del
processo.
L'evento considerato è quello per cui una dei soggetti del giudizio viene a
mancare durante la pendenza di questo. La cosa può venire per:
A) morte della persona fisica, oppure per
B) onda estinzione della persona giuridica.
La morte è l'unico intollerante della persona fisica. Quanto all'estinzione
della persona giuridica, e sarà considerata secondo le regole di diritto
sostanziale che presiedono al suo scioglimento. In particolare per le
società, sono sicuramente fattispecie rientranti nell'articolo 110: la
fusione, sia nella forma della costituzione di società nuova, sia nella
forma dell'incorporazione in società preesistente, E la scissione con
trasferimento dell'intero patrimonio.
Non date invece luogo all'applicazione dell'articolo 110 la messa in
liquidazione delle società commerciali. Se pertanto una società, atteso
convenuto in giudizio, viene posta in liquidazione nel corso di questo
processo continua tra società nella forma della “stasera liquidazione” E la
controparte, senza dar luogo ad'interruzione.
Il problema della scomparsa di una parte pone all'ordinamento, È quello
di evitare che il processo si debba chiudere con un nulla di fatto: ccorre
poter proseguire il giudizio e, per far questo, occorre stai ristabilire
l'essenziale bilateralità soggettiva del processo. Poiché la sentenza non
può provvedere nei confronti di una sola parte, occorre ricostituire la
parte mancante provvedendo trovare il soggetto che deve stare in
giudizio a posto da parte di non c'è più.
203
La soluzione della legge quella di far subentrare la parte venuta meno, il
suo successore a titolo universale, cioè l'erede: “il processo proseguito
dal successore universale o il suo confronto”, Articolo 110. L'avete
segreti sono più, tutti debbono proseguire o essere coinvolti: sia, come si
può facilmente capire, un caso di litisconsorzio necessario con obbligo
per il giudice di ordinare, ai sensi dell'articolo 102, l'integrazione del
contraddittorio se il processo fosse proseguito, o riassunto, da un e
confronti di alcuni solo dei successori.
La modalità procedurali che permette di ristabilire contraddittorio con il
successore, è quella dell'interruzione temporanea del processo e della
sua riassunzione o prosecuzione da parte come confronti del successore,
Articoli 299 seguenti. Il processo continuò quindi con il successore al
posto della parte originaria.
2. Art.111. Scissione tra successione a titolo _universale e
successione a titolo particolare nel diritto controverso
Abbiamo visto che la morte della parte composta che il processo sia
“proseguito dal successore universale o il suo confronto”.
Questa successione dell'erede del rapporto processuale sia non solo
quando l'erede, succedendo nell’universum jus, È succeduto anche nel
diritto controverso, Anche se nel diritto controverso succeduto un altro
soggetto. È infatti possibile il rapporto controverso non sia finito nel
patrimonio del successore universale, ma sia terminato a titolo di legato
ad altro soggetto. Si pensi al caso della morte di Aulo Attore, attori
rivendica del fondo “roccafiorita” contro il possessore Caio Convenuto,
che lascia quale erede il nipote Emilio, ma che ha invece attribuito, con
un legato, al cugino Luigi il diritto di proprietà del fondo “roccafiorita”. In
questo caso, ai sensi dell'articolo 111 comma due, il processo proseguito
da Emilio. Bisogna però riconoscere che, pur assumendo veste di attore,
Emilio risulta sostanzialmente estraneo alla controversia, visto che
questa riguarda il diritto alla restituzione di un bene non proprio; un
diritto che solo Luigi può quindi pretendere nei confronti di Caio.
204
Processo.dunque Treviglio, e dell'attore, e Caio, originario convenuto, ma
“la sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre suoi effetti
anche contro il successore a titolo particolare”.
Che significa questo? Dobbiamo tenere conto che la legge deve risolvere
due distinti problemi:
-il primo è quello della individuazione delle parti tra le quali deve
proseguire il processo;
-Il secondo quello della efficacia soggettiva della sentenza.
Il primo problema risolto sempre nel modo più semplice, individuando
nel successore universale la parte che continua il processo e nei cui
confronti dovrà pronunciare la sentenza di merito. Se questo successore
universale coincide anche con la parte che succede nel rapporto
sostanziale controverso, il secondo problema è risolto automaticamente
in quanto la sentenza, pronunciando sul rapporto di cui egli è parte, avrà
anche efficacia sostanziale per lui.
Se invece il successore universale non coincide con la parte che succede
nel rapporto sostanziale controverso, il secondo problema assume
rilievo concreto, ed è risolto attraverso una estensione degli effetti della
sentenza nei confronti del successore a titolo particolare: nel nostro
caso, quindi, la sentenza verrà pronunciata nei confronti di Emilio, ma
avrai effetti Pierluigi. L'eventuale accoglimento, pertanto, della domanda
consisterà in una pronuncia,
-formalmente emessa a favore di Emilio,
-Contenente il riconoscimento del buon diritto di Aulo,
Stabilente l'obbligo di Caio, diresti di veder bene al successore a titolo
particolare, Luigi. Come si vede, La presenza in giudizio di Emilio è stata
solo il mezzo tecnico di cui si è avvalso l'ordinamento per portare il
processo al suo sviluppo regolarmente, cioè ad una sentenza di cui si
potrà poi trovare il soggetto effettivo titolare del diritto.
2.1 La successione a titolo particolare nel diritto controverso per
atto tra vivi
I casi finora esaminati sono tutti legati alla scomparsa della parte.
205
Ma cosa succede se una delle parti disponi con atto tra vivi del diritto
controverso trasferendola ad un terzo in corso di causa? Che succede,
per esempio, se il convenuto in rivendita aliena durante il processo bene
ad un terzo, Oppure ne trasferisce il possesso materiale, ovvero
costituisce diritti reali in capo a pezzi sul bene stesso?
E ancora, che succede se il creditore agente per la condanna del debitore
all'adempimento c'è, ai sensi degli articoli 1260 i seguenti codice civile,
in corso di causa il credito azionato da un terzo? Premesso che il
processo non si estingue certo per il compimento di tali atti, i problemi
che si presentano sono fondamentalmente tre:
1) tra qualche parte deve continuare il processo?
2) su che cosa deve giudicare il giudice: sul rapporto giuridico
sostanziale considerato il momento della domanda, oppure sul rapporto
giuridico sostanziale come si configura successivamente all'atto di
disposizione?
3) nei confronti di quali soggetti deve esercitare la sua efficacia
sostanziale la sentenza? Nei confronti della parte originaria che ha
effettuato la disposizione del diritto in contesa, oppure nei confronti
della rete casa?
Al problema numero uno risponde il comma 1 articolo 111, secondo il
quale, “il processo prosegue tra le parti originarie”: “se nel corso del
processo si trasferisce il diritto controverso operato tradivi a titolo
particolare, il processo prosegue tra le parti originarie”. Una volta
iniziato il processo, adesso non si esce dunque alienando o comunque
disponendo del rapporto giuridico in contesa. Così, per riprendere il
nostro esempio del convenuto di rivendita, questi non può liberarsi
dall'obbligo del giudizio alienando la proprietà del bene ad un terzo,
ovvero trasferendone il possesso materiale, ovvero ancora costituendovi
gli ideali in capo a questi.
Il problema numero due è risolto nel senso che l'atto di trasmissione del
diritto controverso non è rilevante della decisione del giudice: questi
deve decidere come se la cosa non fosse caduta e deve, perciò valutare lo
stato di diritto e di fatto anteriore all'evento successorio.
206
Il problema dei soggetti nei cui confronti la sentenza di merito deve
svolgere su effetti sostanziali, problema numero tre, infine, è risolto con
l'estensione di tali effetti “contro il successore a titolo particolare”.
In sintesi:
A) il processo continua a svolgersi tra le parti originali;
B) onda il giudice pronuncia nei confronti di queste come se nulla
fosse accaduto;
C la sentenza di merito per l'uso dei suoi effetti sostanziali
direttamente nei confronti della mente causa-successore del diritto
controverso.
2.2 La posizione del successore a titolo particolare ed il principio
del contraddittorio
La disciplina esaminata. Ad evitare che spostamenti di titolarità del
diritto intervenuti nel corso del processo possono danneggiare le parti;
ciò si comprende in particolare per l'attore che altrimenti, di fronte alla
predisposizione del convenuto, dovrebbe abbandonare il processo nei
confronti di questi permettersi all'inseguimento del successore
proponendo nuova domanda contro di esso E la cosa potrebbe andare
avanti all'infinito. La previdenza di tale scopo fa sì che la sentenza debba
poter essere immediatamente opponibili all'acquirente.
Si tratta, comunque lo può vedere, di una rilevante eccezione al principio
del contraddittorio, ma di una eccezione un'animamente accettata come
il male minore.
Per evitare l'inconveniente, il codice avrebbe potuto ricorrere alla
sanzione della nullità per gli atti di disposizione del diritto controverso,
cosiddetto divieto di alienazione della res litigiosa. Ma la sanzione è
generalmente considerata sovrabbondante rispetto alla fine, ostacolando
in maniera eccessiva il traffico giuridico. La soluzione adottata
dall'ordinamento italiano è quindi quella della inopponibilità
dell'acquisto alla parte che sarebbe danneggiata dall'atto di disposizione.
L’atto quindi valido, ma coloro che subentrano il diritto non può far
parere suo titolo successorio nei confronti della controparte del suo
207
dante causa: per tornare all'esempio della relazione della res litigiosa da
parte del convenuto, se la sentenza accerterà il diritto dell'attore su tale
res, attali diritto alla rete casa non potrà apporre il proprio titolo
d'acquisto e dovrà soccombere alla pretesa resti tutorial dell'attore.
Se è vero che il processo svoltosi senza l'obbligatoria partecipazione del
successore del diritto controverso, e anche vero che gli può sempre
salvare le sue ragioni, intervenendo volontariamente nel processo in
corso, oppure impugnando la sentenza sfavorevole al suo dante causa,
articolo 111 commi 3.04. Egli inoltre può essere sempre chiamato ad
intervenire. Intervenendo o impugnando la sentenza il successore si
trasforma in parte formale del processo: da quel momento egli sarà
protagonista diretto della vicenda processuale e i successivi
provvedimenti giudiziari pronunceranno nominativamente i suoi
confronti.
Con il suo intervento il successore a titolo particolare si schiera
normalmente a fianco del suo dante causa: se quest'ultimo vincessi,
infatti, l'avete casa non avrebbe nulla da temere, essendo valido l'atto
traslativo e non venendo riconosciuti diritti altrui contrastanti con il
diritto acquistato in corso di causa.
L'acquisto della qualità di parte incavola mente casa-successore a titolo
particolare, rende possibile un ulteriore sviluppo. Se “le altre parti
consentono”, L'alienante o il successore universale può domandare la
sua estromissione dal processo. Cosa significa questo? L'estromissione
l'uscita di una parte dalla procedimento, Non è il senso del suo totale
estraniamento da tutti possibile effetto di questo, ma nel senso della fine
della sua partecipazione attiva sviluppi della vicenda processuale. Se
quindi l'acquirente o il legatario entrano nel processo, e si possono
restare da soli, senza la presenza dell'alienante del successore titolo
universale: la cosa giustificata dal fatto che acquirenti e legatario sono
veri destinatari degli effetti della sentenza, onde, se tutte le parti sono
d'accordo, può uscire di scena la parte processuale che riveste tale ruolo
a semplici fini di garanzia della prosecuzione del processo del
contraddittorio. In tal modo il successore a titolo particolare si fa carico
di sostenere in prima persona alla linea difensiva che, nella controversia
208
sul diritto che gli è pervenuto pendente lite, sarebbe spettata al suo
dante causa.
3. Le eccezioni alla efficacia della sentenza nei confronti del
successore a titolo particolare
Alla regola dell'efficacia della sentenza dei confronti del successore titolo
particolare, la legge pone però alcune eccezioni.
Talvolta il meccanismo della trasmissione del diritto controverso
presenti in concreto caratterizzando svincolare l'acquisto pendente elide
dalla situazione precedente, fino al punto di renderlo impermeabile agli
esiti della vicenda processuale.
Due sono le eccezioni, e sono richiamate dall'articolo 111 comma
quattro:
-La prima eccezione alla salvezza delle norme sull'acquisto in buona fede
dei mobili;
-la seconda eccezione la salvezza delle norme sulla trascrizione delle
domande giudiziali.
La salvezza delle norme sulla queste buona fede dei beni mobili rinvia
all'articolo 1153 comma uno codice civile, cioè alla norma per cui “colui
al quale sono elevati beni mobili da parte di chi non è proprietario, mi
acquista la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al
momento della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento
della proprietà”), E significa che gli acquisti del terzo il corso di causa
intanto sono punibili al vincitore del processo in quanto siano realmente
a titolo derivativo. Quando l'acquisto del diritto controverso solo
apparentemente titolo derivativo, perché in realtà è a titolo originario
per l'applicabilità dell'articolo 1153, viene meno la regola per cui su di
esso prevale il riconoscimento giudiziale del diritto favore della
controparte del dante causa. Il terzo avente causa del buonafede riceve il
possesso materiale del bene, passavo so questo perché l'articolo 1153
comma due, “la proprietà sia questa libera da diritti altrui sua cosa”, Gli
conferisce un titolo di acquisto impermeabile alle vicende di precedenti
titolari. Naturalmente la cosa vale anche biglietti ai minori, sensi
209
dell'articolo 1153 comma tre, “nello stesso modo si acquistano diritti di
usufrutto, di uso, impegno”.
La salvezza delle norme sulla schizofrenia domande giudiziali ci porta al
contesto del trasferimento di diritti su beni immobili.
Tutti sanno dell'articolo 2643 codice civile onera dalla formalità della
trascrizione di varie categorie di atti dispositivi riguardanti la proprietà
su beni immobili. E tutti sanno anche che la mancata trascrizione degli
atti ivi contemplati rende inopponibile l’atto ai terzi che abbiano invece
trascritto un proprio titolo sullo stesso bene; parimenti il proprio titolo
di acquisto resta in opponibile al terzo set trascrizione che stavano
successivamente alla trascrizione dell'acquisto del terzo.
Gli articoli 2652 e 2653 creano un onere di trascrizione delle domande
giudiziali. Le domande riguardanti atti soggetti a trascrizione “debbono”
venire trascritte. Non è superfluo aggiungere che racchiudono il verbo
dovere ci ricordano che trascrivere la domanda non è un obbligo appena
di procedibilità un semplice onere: dal punto di vista formale la
domanda è possibile anche se non trascritta. La trascrizione un onere
aggiuntivo, un adempimento posto
Delatore della garanzia di un beneficio che altrimenti potrebbe
legittimamente svanire.
Magazine quelli giornali di trascrizione della domanda, per valutare se
sia più o meno la disciplina dell'articolo 111 o corri guardare alla data
non dell'acquisto, ma della trascrizione del titolo d'acquisto in relazione
alla data non della domanda ma della trascrizione della domanda. Se la
trascrizione dell'atto di alienazione del diritto controverso risulta
anteriore alla data della trascrizione della domanda giudiziale, l'acquisto
non soggiace alla regola dell'articolo 111: la anteriorità della trascrizione
non rende indifferente agli effetti della sentenza e il terzo avente causa
passaggio acquisto.
Prendiamo il caso dell'azione di accertamento della proprietà: l'articolo
2653 comma uno, prevedendo la trasferibilità delle “domande dirette
rivendicare la proprietà o altri diritti reali di godimento su beni immobili
le domande dirette all'accertamento dei diritti stessi”, Stabilisce: “la
sentenza pronunciata contro il convenuto indicato nella trascrizione
della domanda effetto anche contro coloro che hanno acquistato diritti
210
dal medesimo in base ad un atto trascritto dopo la trascrizione della
domanda”. Il che vuol dire: la sentenza di accoglimento della
domandarono effetto contro gli acquirenti in corso di causa che abbiamo
trascritto il loro atto di acquisto prima della trascrizione della
domanda.Vedi esempio pag 356.
CAPITOLO 29. LA RIUNIONE DI PIU’ CAUSE CONNESSE
1. L’ART 40
L'articolo 43 veder disciplinata concentrazione in un unico
procedimento di duo più cause che, proposto originariamente 18 uffici
giudiziari diversi, presentano tuttavia… Connessione tra di loro che ne
rendono opportuno l'accumulo di fronte ad un solo ufficio giudiziario. La
legge favorisce lo svolgimento del processo simultaneo affini di
coordinamento reciproco delle decisioni di economia di trattazione.
Si noti che il fenomeno di cui si occupa l'articolo 46 vorrei che sono se
sono un gioco più e distinti uffici giudiziari, laddove la proposizione di
fronte lo stesso ufficio di due cause connesse tra loro da luogo una
semplice riunione interna all'ufficio giudiziario. Questa riunione può
essere disposta anche d'ufficio e prodotti ufficio unico non pone
problemi di competenza. Problemi di competenza che possono invece
insorgere quando si tratta di divenire cause pendenti presso uffici
diversi e che sono, dall'articolo 40 e dagli articoli in esso richiamati.
(comma due dell'articolo 274 prosegue prescrivendo che se “il giudice
istruttore Will presidente della sezione notizie che per una causa
connessa pende procedimento davanti ad altro giudice o ad altra sezione
dello stesso tribunale, ne riferisce il presidente, il quale, sentite le parti,
ordina con decreto che le cause siano già della medesima udienza
davanti lo stesso giudice o alla stessa sezione dei provvedimenti
opportuni”).
Il giudice di fronte attinente rilevato la connessione con altra causa, se ne
ravvisa la sussistenza, pronunciò una ordinanza con cui fissa alle parti un
termine perentorio per la riassunzione della causa davanti al giudice
adito preventivamente. Vale la regola della cosiddetta prevenzione, il
211
senso dell'attrazione delle controversie successive da parte della casa
proposta per prima; fa eccezione il caso della connessione per
accessorietà, in cui la causa accessoria riassunta “ davanti al giudice della
causa principale”.
Oltre che essere eccepita dalle parti, la connessione può essere rilevata
anche d'ufficio, per ogni caso non oltre la prima udienza.
Inoltre, la riunione delle cause va evitata “quando lo stato della causa
principale o preventivamente posta non consente il esauriente
trattazione e decisione delle cause connesse”, Articolo 40.
Connessione potrebbe aversi tra cause che debbono essere trattate con
riti diversi. Quid juris allora? riunione presuppone che si adotti un unico
libro, ma quale? La risposta la dà il comma tre dell'articolo 40 che
impone l'adozione del rito ordinario a scapito dell'eventuale invito
speciale adottato per uno delle cause, facendo però salva l'ipotesi che
una delle cause consiste in una casa di lavoro o previdenziali: in tal caso
sarà il nido del lavoro a prevalere sia subito ordinario che sugli altri
eventuali di speciali.
Nell'eventualità che, dovendosi procedere ad unificazione della
trattazioni rivedute lavoro, una delle cause abbia già ricevuto trattazioni
con Guido diverso, occorrerà inoltre procedere al mutamento diritto per
quest'ultima, ai sensi degli articoli 426,427 439.
Affinché vedo ordinario e cerca di fronte rito del lavoro occorre che essa
retta specificatamente sul rapporto di lavoro o rapporto previdenziale.
L'articolo 40 comma sei nella connessione tra una casa di competenza
del giudice di pace duna di competenza del tribunale. C'è una causa di
competenza del giudice di pace “sia con essa primo DVD cui agli articoli
31, 32, 34, 35 36 con altra casa di competenza del tribunale, le relative
domande possono essere proposte davanti al tribunale affinché siano
decise lo stesso processo”. Il comma sette aggiungere se le calze così
connessi “sono proposte davanti al giudice di pace o al tribunale, il
giudice di pace deve pronunciare anche d'ufficio la connessione a favore
del tribunale”.
Le disposizioni dei commi 6.07 dell'articolo 40 attribuiscono al rapporto
di connessione tra cause di competenza del giudice di pace casa di
competenza del tribunale una capacità modificativa delle regole di
212
competenza molto più marcata rispetto alle comuni “modificazioni della
competenza per ragioni di connessione”. Deriva infatti da esse non solo
che
A) le cause rientranti nella competenza esclusiva del giudice di pace
possono essere proposte in cumulo con altra causa ad esse connessa, di
fronte al tribunale competente a conoscere di quest'ultima, in deroga
all'esclusività della competenza del giudice di pace, ma anche che,
B) ore le case connesse siano state proposte separatamente di fronte due
organi, il giudice di pace deve sempre pronunciare l'ordinanza sulla
connessione a favore del tribunale, anche d'ufficio e senza limite
temporale della prima udienza disposti in via generale dall'articolo 40
comma due.
L'articolo 42 la dice che la disciplina del procedimento risultante dalla
riunione di cause connesse, nel caso che la riunione si verifichi davanti
alle sezioni specializzate in materia di impresa. L'articolo tre comma tre
della legge numero 168/ 2003 estende infatti la competenza delle
sezioni alle case ai procedimenti “che presentano ragioni di connessione”
con le case direttamente attribuita ad esse in virtù della materia e pone il
problema del rito applicabile. Facendo uso dei principi che regolano la
materia si può affermare che:
A) la causa devoluta alla competenza di tali sezioni specializzate si
comporta come “causa principale” ai sensi dell'articolo 40 comma uno,
con la conseguenza che la casa connessa, proposta davanti ad un
tribunale privo di sezione specializzata, va riassunta davanti al tribunale
provvisti dalle sezioni anche se anteriormente proposto;
B) anche la causa connessa che ne dici se composizione collegiale: La
sezione può decidere solo in tale composizione e ciò si riflette
necessariamente sulla causa riunita;
C) Se la causa attratta dalle sezioni specializzate e di lavoro o
previdenziali, dovrebbe trovare applicazione di grande lavoro.
L'ordinanza del progetto sulla connessione senza articolo 40 è
imputabile con regolamento di competenza necessario.
CAPITOLO 30. LE MODIFICAZIONI DELLA COMPETENZA PER
RAGIONI DI CONNESSIONE
213
1. Il rapporto di accessorietà tra cause
La sezione IV , del capo I, titolo I, libro I del codice, È intitolata “delle
modificazioni della competenza per ragioni di connessione”, E disciplina
alcuni importanti tipi di legami che possono sussistere tra due domande
proposte di fronte allo stesso giudice.
Il problema del cumulo di domande nel processo lo abbiamo già
esaminato ha proposto delle sentenze non definitive, della pluralità di
parti, ed in particolare agli articoli 103 e 104.
L'articolo 31 disciplinerà accessorietà, cioè un particolare tipo di
connessione tra cause per cui, ad una domanda detta “principale”, Si
aggiunge una domanda il cui progetto può considerarsi “accessorio”
rispetto al progetto dell'altra. Ad esempio, sono accessorie le domande
tipicamente correlate alla domanda di condanna capitale. Così:
-La domanda di condanna al pagamento degli interessi,
-La domanda di rimborso delle spese,
-La domanda di risarcimento dei danni.
Si tratta di domande in se autonome, Ma il cui titolo è inscindibilmente
legato quello della pretesa dell'oggetto della domanda principale.
Secondo il c.1 ART 31, le domande accessorie possono essere proposte al
giudice territorialmente competente per la causa principale in modo
essere decise nello stesso processo (cumulo oggettivo), Ma nel rispetto
degli di competenza per valore di questi.
Potrà così aversi un simultaneo processo, c'è un processo in cui si
cumulano, fai fini di trattazione unitaria, la domanda principale e la
domanda accessoria, ma solo di fronte al tribunale.
La domanda accessoria potrà essere trattata e decisa da un giudice
territorialmente incompetente, ma non da un giudice incompetente del
valore. Così per esempio proposta la domanda principale al giudice di
pace secondo il criterio del valore, se la somma del valore della domanda
di risarcimento dei danni e di quello della domanda principale, supera il
tetto della competenza di tale organo, non potrà valersi simultaneo
processo di fronte al giudice di pace.
214
2. Cause di garanzia
Rapporti di garanzia ci siamo già occupati. Qui basta ricordare che sia
garanzia propria quando, in virtù di una norma di legge o di una
previsione contrattuale, un soggetto sia obbligato a tenere indenne un
altro soggetto rispetto ad un determinato accadimento. Così, ad esempio,
l’ART 1483 c.c. stabilisce che il venditore è tenuto al risarcimento del
danno subito dal compratore in caso di evizione;
A sua volta, la garanzia propria si distingue in : a) garanzia formale e b)
garanzia semplice. Si ha garanzia formale a) quando il garante, oltre a
dover tenere indenne il garantito suol piano del diritto civile, , Ha anche
l'obbligo di assumere la difesa processuale.
Sia garanzia semplice b) quando sussiste solo l'obbligo di tenere indenne
un soggetto, e non anche l'obbligo di assumerne la difesa processuale.
Sia garanzia impropria quando manca un obbligo, nascente dalla legge o
da un contratto, di tenere indenne un altro soggetto e sussiste solo una
dipendenza meramente fattuale tra la responsabilità del “garante” e del
“garantito”: se quest'ultimo è responsabile, e quindi tenuto al pagamento
di una somma di denaro nei confronti di un terzo, allora,
contestualmente, in virtù di questo fatto, anche il garante sarà tenuto nei
suoi confronti al pagamento della medesima somma. La figure ben
esemplificata dalle ipotesi di vendite a catena: se il consumatore
domanda di risarcimento dei danni al proprio dettagliante asserendo che
questi gli ha venduto un prodotto difettoso, quest'ultimo, a sua volta, può
rivalersi sul grossista e costui, A sua volta, può domandare il
risarcimento dei danni al fabbricante.
L'articolo 32 consente di proporre la domanda di garanzia di fronte al
giudice competente per la causa principale, affinché delle due case si
decide in un unico processo (processo simultaneo).
La giurisprudenza ritiene che l'articolo 32 sia di solo alla garanzia
propria e non alla garanzia impropria. Dunque, nel caso di garanzia
impropria, il processo simultaneo può realizzarsi solo se causa
principale e causa di garanzia appartengono alla competenza dello stesso
ufficio giudiziario.
215
3. Il cumulo soggettivo
L'articolo 33 regola il cosiddetto cumulo soggettivo. Si tratta dell'ipotesi
in cui:
-più domande,
-Ognuna rivolta contro un soggetto diverso, e che
-A norma degli articoli 18 19, cioè per ragioni di competenza,
dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, possono venir
cumulativamente proposte davanti al giudice del luogo di residenza o
domicilio di uno di tali soggetti, “per essere decise nello stesso processo”.
questo può accadere se le domande “sono connesse per l'oggetto o per il
titolo”.
La giurisprudenza ritiene inapplicabile la regola della competenza
prevista dall'articolo 33, nel caso del cosiddetto “convenuto fittizio”, Cioè
nelle ipotesi in cui l'attore citi in giudizio un convenuto che non ha nulla
a che fare con la controversia, ma che fa comodo tirare dentro al
processo, perché, risiedendo altrove, consente di radicare la causa in un
altro foro. La norma, infatti, si presterebbe agevolmente a fungere da
espediente per spostare la competenza, cioè per sottrarre la causa al
giudice naturale sgradito, attraverso la citazione di un convenuto
“fittizio”.
La teoria del convenuto fittizio impone quindi che il convenuto
dell'articolo 33 non debba veramente essere formale funzionale solo allo
spostamento di competenza, ma debba essere un soggetto che ha reale
interesse a contraddire nell'azione esercitata.
4. Accertamento incidentale e disciplina della questione
pregiudiziale
L'articolo 34 è rubricato “accertamenti incidentali” E regole il
trattamento delle questioni che devono essere decisi con efficacia di
giudicato, cosiddette questioni pregiudiziali.
La norma contempla l'ipotesi che la legge stessa o una esplicita domanda
di parte impongono al giudice, nel corso di un processo, di “decidere con
216
efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per
materia o valore alla competenza di un giudice superiore”.
In tal caso, all'oggetto originario del giudizio viene successivamente ad
aggiungersi uno secondo oggetto di decisione, una seconda controversia
da decidere in via principale, e rispetto alla quale giudice deve valutare
la propria competenza. La peculiarità di tale seconda controversia e
appunto quella di sorgere dal ceppo del processo principale, in virtù di
una domanda di parte con cui chiede di decidere con efficacia il giudicato
in modo di essere di una situazione giuridica soggettiva che già il giudice
dovrà conoscere per poter decidere la casa originariamente instaurata:
Si tratta di una questione la cui soluzione è giuridicamente anteriore al
thema decidendi, E della cui cognizione il giudice è fisiologicamente
investito, in forma “incidentale”.
nel corso del processo
È spesso che il giudice debba occuparsi di eccezioni che in popolo di
sciogliere questioni di natura pregiudiziale rispetto all'oggetto della
domanda. In tratta perlopiù di questioni vertenti su rapporti giuridici la
cui esistenza, inesistenza o conformazione è logicamente anteriore
all'accertamento del diritto fatto valere. Si tratta di questioni che
normalmente vengono affrontate e sciolte incidenter tantum, al limitato
fine cioè di decidere correttamente del diritto oggetto della domanda.
Talora però, accade che della questione pregiudiziale il giudice non possa
limitarsi a conoscere ai soli fini della decisione della domanda, perché o
A) una parte richiede che di essa si decida con efficacia di giudicato,
ovvero
B) la legge stessa ne impone la trattazione come causa autonoma.
L'esempio tipico di causa pregiudiziale imposta dalla legge e quello
dell'articolo 124 codice civile, secondo cui, se nel corso di una causa di
impugnazione del matrimonio, sorge una questione di nullità di
precedente matrimonio, tale questione non può essere derivata
incidentalmente, ma deve necessariamente essere decisa con un
provvedimento che accerti una volta per tutte il valore giuridico del
precedente matrimonio.
L'esempio mostra bene come, dalla trattazione di una casa
originariamente ad unico oggetto (giudizio sul matrimonio X) scaturisca
217
una seconda causa con uno suo oggetto (giudizio sul precedente
matrimonio Y), E quest'ultima si sommi alla precedente, onde una
processo originariamente semplice si trasforma in un processo
oggettivamente cumulato.
Oltre all'accertamento con efficacia di giudicato imposto dalla legge,
simmetrico accertamento può dirsi su domanda di parte.
L'articolo 34 prevede in vero che una delle parti possa chiedere che la
questione pregiudiziale, sorta dalla trattazione della causa, non sia
“accertata incidentalmente” (non sia cioè risolta con una pronuncia in
idonea a cosa giudicata sostanziale sul punto), Ma sia invece decisa
autonomamente come l'autorità dell'articolo 2909 codice civile. Si pensi
al caso in cui un creditore del dei cuius agisca nei confronti dell'erede
per l'integrale soddisfacimento della propria pretesa creditoria e che le
reti, asserendo di avere accettato l'eredità con beneficio di inventario, e
ce li scalar limitazione della sua responsabilità ereditaria fra vivi.
La questione dell'accettazione con beneficio può certamente essere
conosciuta e risolta incidente tantum (ai soli fini del rigetto della
domanda), Ma potrebbe anche trasformarsi in oggetto di autonoma
domanda, per scelta del convenuto che ne abbia interesse: in tal caso si
avrà la trasformazione della questione da “questione pregiudiziale” in “
causa pregiudiziale”.
Per poter salire questa trasformazione, occorre peraltro che la relativa
domanda formulata in corso di causa possa soddisfare uno specifico
interesse della parte, interesse che non sarebbe soddisfatto dalla
semplice soluzione della questione corrispondente alla mera delibazione
della eccezione. Occorre, in altri termini, che l’instante mostri di
possedere un interesse effettivo alla decisione con efficacia di giudicato,
un interesse che travalichi quello relativo al giudizio in corso; Tale
interesse viene individuato nella circostanza che la soluzione della
questione sia idonea ad influire anche sull'IT diverse ed imprevedibile
insorgenza fra le parti stesse, O anche su altri rapporti e altri soggetti.
L'l'articolo 34 cura altresì che tale meccanismo descritto nonna devi di
una decisione proveniente dal giudice incompetente: il giudice deve
verificare la propria competenza per materia e per valore, ma anche per
territorio inderogabile rispetto alla nuova decisione che deve rendere; se
218
la causa pregiudiziale supera la propria competenza, egli non ne potrà
decidere e l'articolo 34 impone di rimettere tutto il processo al giudice
superiore.
Dunque, nel caso, più fu esaminato, della causa pregiudiziale su un
precedente matrimonio, non si avrà mai spostamento verticale, al
giudice superiore cioè, perché la competenza sulle cause matrimoniali
appartiene sempre al tribunale. Potrebbe invece darsi un problema di
competenza orizzontale, perché la competenza sulle cause matrimoniali
del tipo funzionale e, quindi, l'attribuzione territoriale risulta
inderogabile per ragioni di connessione (articolo 28). Se allora la
competenza sulla qualità del matrimonio precedente spetta ad altro
tribunale, la relativa causa dovrà essere rimessa a quest'ultimo, ma esso
non potrà decidere della causa originaria che resterà di fronte al
tribunale dove stata proposta.
In tal caso il simultaneo processo, voluto dall'articolo 34 attraverso il
trasferimento di ambedue le cause al secondo giudice, non sarà possibile.
In pratica, L'ipotesi del simultaneo processo, potrà valersi solo in caso di
questione pregiudiziale sorta nel corso di un processo davanti al giudice
di pace: se la decisione (con efficacia di giudicato) Sulla casa
pregiudiziale supera la competenza di quest'ultimo ( per essere
attribuita dalla legge alla competenza del tribunale), il giudice di pace
dovrà rimettere al tribunale la causa pregiudiziale insieme alla causa
originaria, e così spogliarsi del giudizio. Si pensi al caso di una causa
affidata per valori al giudice di pace, nel corso della quale sorta una
questione di status dio una delle parti che deve essere decisa con
efficacia di giudicato: poiché la questione di status appartiene alla
competenza inderogabile del tribunale, il giudice di pace deve spogliarsi
del giudizio con l'onere delle parti dirmi assumere tanto la causa
originaria quanto la casa di status di fronte al tribunale competente.
5. L’eccezione di compensazione
L'articolo 35 tratta del regime processuale dell'eccezione di competenza.
Si sa che la compensazione è uno dei modi di estinzione dell'obbligazione
diversi dall'adempimento: “quando due persone sono obbligate l'una
219
verso l'altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti”
(articolo 1241). La compensazione si verifica “tra due debiti che hanno
per oggetto una somma di denaro o una quantità di cose fungibili dello
stesso genere E che sono ugualmente liquidi ed esigibili”.
L'articolo 35 non si occupa del caso in cui il valore del credito opposto in
compensazione non superi il valore del credito oggetto della domanda:
in questa ipotesi il giudice, verificata la sussistenza dei requisiti della
liquidità ed esigibilità di ambedue i crediti, dichiarerà compensato il
credito dell'attore nei limiti del contro credito, condannando il
convenuto a pagare l'eventuale differenza.
Il credito opposto in compensazione può però superare il valore del
credito vantato dall'attore: in tal caso l'articolo 35 impone di verificare:
A) se il convenuto abbia semplicemente usato tale credito per dare luogo
ad una mera eccezione di compensazione, ovvero
B) se intenda richiedere la differenza proprio favore. In questo ultimo
caso, chiedendo espressamente la condanna dell'attore a pagamento
della differenza, il convenuto formula una rete propria contro domanda,
che assicura quella originaria ed impone quindi al giudice di verificare la
propria competenza su di essa.
Nel caso invece egli non abbia chiesto condanna dell'attore alla
differenza, occorre distinguere: se l'attore non contesta esistenza alla
montagna del contro credito, con la compensazione sarà un semplice
rigetto della domanda, senza condanna dell'attore a pagamento della
differenza (mi si chiede 1000: eccepisco di dovere avere 1500; Il giudice
si limita a vegetare la domanda in ragione della compensazione resto
creditore di 500).
Per l'ipotesi invece che l'attore con testi di esistenza del contro credito,
l'articolo 35 prevede che il giudice non possa deciderne secondo il
regime ordinario dell'eccezione, ma, provvedere ad un accertamento
idoneo a fare Stato su di esso. A tal fine e il deve verificare la propria
competenza: quando è opposto in compensazione un credito “che è
contestato ed efficiente la competenza per valore del giudice adito”, il
giudice deve provvedere a norma dell'articolo 34 (secondo quanto dice
l'articolo 35). Deve cioè rimettere al giudice competente non solo la casa
sul credito opposto, ma anche la causa originaria sul credito domandato
220
dall'attore: questa viene attratta davanti al giudice superiore, con
modificazioni della competenza in ragione della connessione delle due
cause, per consentire la loro trattazione simultanea.
Il giudice adito però, dovere rimettere al giudice competente solo la casa
sul contro credito opposto, nelle ipotesi in cui la domanda originaria sia
“fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile”. In tal
caso egli può decidere subito del credito oggetto della domanda
principale, “rimettere le parti al giudice competente per la decisione
relativa all'eccezione di compensazione, subordinando, quando occorre,
l'esecuzione della sentenza alla prestazione di una cauzione”.
In altre parole, l'ordinamento vuole evitare che, di fronte all'evidenza del
credito vantato dall'attore, il convenuto possa bloccare la condanna
invocando un credito cui accertamento sarebbe lento e, in definitiva,
ostruzionistico. Il giudice investito della decisione sul credito principale
può allora pronunciare una condanna “allo stato degli atti”, Accogliendo
la domanda di condanna formulata dall'attore, e rimettendo al giudice
competente la causa sul credito opposto in compensazione.siano in tal
caso una condanna con riserva dell'esito della calza sul credito opposto.
Se il giudice a cui queste stata dimessa, riconoscerà insieme con
l'esistenza di tale credito, si produrrà la compensazione, di modo che la
condanna del convenuto, ottenuta nel frattempo dall'attore, verrà
almeno posteriori. (vedi approfondimento pag 376).
6. Connessione per riconvenzionalita’ e modificazione della
competenza
Cosa sia, e come funzioni la domanda riconvenzionale è stato già chiarito
altrove. Dobbiamo qui ora dare conto della possibilità che, per ragioni di
connessione, la proposizione di una domanda riconvenzionale produca
spostamenti del processo dal giudice originariamente adito ad un giudice
diverso.
La regola generale è quella del cui il giudice decide delle cause
riconvenzionali ma sempre in quanto competente su DS; dall'articolo 36
ricaviamo che il requisito della competenza vale anche quando la causa
riconvenzionale e connessa quella principale.
221
Infatti, il giudice della causa principale conosce anche delle domande di
convenzionali che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall'attore o
da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione, “purché
non eccedano la sua competenza per materia o valore”. Così per esempio
il giudice di pace, adito con una azione di apposizione di termini tra due
fondi confinanti, potrà certamente decidere della domanda
riconvenzionale con cui il convenuto chiede condanna dell'attore al
pagamento di un credito di € 1000, ma non potrà certamente decidere la
domanda relativa all'azione negatori servitutis eventualmente proposta
in via riconvenzionale dal convenuto: competente per materia in via
esclusiva su quest'ultima domanda è infatti il tribunale e solo il tribunale
potrà, quindi, decidere.
Va peraltro evitato che, attraverso il meccanismo della dimissione al
giudice superiore tanto dell'oggetto della domanda principale quanto di
quello della domanda riconvenzionale, si trasferisca davanti a
quest'ultimo una causa che esso non avrebbe mai potuto conoscere. Così,
per l'esempio fatto della causa sulla apposizione di termini: se la causa
riconvenzionale è attribuita alla competenza del tribunale, il giudice di
pace separerà le due cause, trattenendo davanti a sé la causa di
apposizione di termini, E rimettendo al tribunale quella relativa alla
negatoria servitutis.
Di fronte alla domanda riconvenzionale che fuoriesce dalla sua
competenza, il giudice, dice l'articolo 36, “applica le disposizioni dei due
precedenti articoli”. egli sue è tenuto, in bere, generale, a rimettere
contemporaneamente la causa originaria e quella riconvenzionale al
giudice competente “assegnando alle parti un termine perentorio per la
riassunzione davanti a lui”; egli però la possibilità, Se la domanda
originaria “È fondata sul titolo non controverso o facilmente accettabile”,
Di trattenere quest'ultima per decidere senza indugio, rimettendo le
parti al giudice competente per la sola decisione relativa alla causa
riconvenzionale, Articolo 35.
CAPITOLO 31. LA DISCIPLINA DELLA LITISPENDENZA E DELLA
CONTINENZA
222
1. La litispendenza
Abbiamo già avuto occasione di trovarci nel termine litispendenza,
termine che, preso da solo, indica la pendenza di un processo, cioè la
qualità del giudizio.
Il codice usa però questo termine anche per indicare l'evenienza che
davanti ad due differenti giudici prendere la stessa causa. Di fronte a
questo accadimento l'ordinamento occorre ai ripari perché il principio
accolto è quello per cui sulla stessa controversia non può svolgersi più di
un solo processo, sicché uno dei due processi pendenti deve essere
neutralizzato. Bisogna quindi chiedersi:
A) quando può dirsi che una causa coincide con un'altra
contemporaneamente pendente presso altro giudice;
B) quale processo deve proseguire e quale processo deve essere chiuso
di rito: in altre parole occorre trovare i criteri per determinare quale il
giudice deve spogliarsi della causa pendente davanti a lui, a favore
dell'altro giudice.
L'articolo 39 detta le regole procedurali per rimediare alla litispendenza,
intesa come “doppia pendenza”, E risolve quindi il quesito b) Ma
presuppone che l'interprete abbia già risolto il quesito a), sappia cioè
individuare quali sono gli elementi che devono ricorrere in Hubble due
processi per poter parlare di identità di cause. Ora, gli elementi da
considerare sono tre:
1) soggetti;
2) Il petitum (oggetto della causa);
3) La causa petendi (il titolo della causa);
Cosa significhi l'elemento numero uno e abbastanza semplice da
comprendere: una causa per Alessio e Marco può essere identica ad
un'altra causa tra gli stessi Alessio e Marco, ma non può essere certo
identica ad una causa tra Alessio e Giovanni o tra Giovanni e Marco.
Quindi, non c'è litispendenza tra due processi se le parti non coincidono.
Semplice e anche l'elemento uomo lo due: devono coincidere anche i
petita. Non basta che sia in gioco la tutela dello stesso diritto, ma occorre
che si chieda specificamente un provvedimento dello stesso contenuto:
così, se, nel processo A, Alessio domandasse la risoluzione del contratto
223
di compravendita intercorso con Marco, questo processo non
provocherebbe litispendenza con il processo B in cui lo stesso Alessio
domandasse l'adempimento di Marco. Pure radicandosi nello stesso
rapporto giuridico, le conclusioni delle due domande sono diverse, e ciò
impedisce la litispendenza.
Un po' più complessa la determinazione dell'elemento numero tre.
In generale, si può dire che la domanda A coincide con la domanda B
oltre all'oggetto, coincide anche causa petendi, cioè se quel che si chiede
al giudice domandava lo stesso titolo in anno due casi. In questo senso,
se la società finanziaria Beta domanda davanti al tribunale di Milano la
condanna di Marco a € 10.000 per l'inutile maturarsi dell'obbligo di
restituzione alla scadenza del mutuo accordato questi in data 31 luglio
2009, Vi sarà, in ipotesi, litispendenza come la domanda di condanna alla
restituzione della stessa somma guarda proposta di fronte al tribunale di
Torino, ma litispendenza non vi sarà certo se la domanda proposta
Torino abbia ad oggetto la condanna alla restituzione della somma
mutuata con il contratto di mutuo dello stesso importo concluso con
Alessio il 30 settembre 2004.
Questo è semplice da capire, ma bisogna aggiungere che il ragionamento
non funziona quando il diritto fatto valere non consiste in un diritto che
è individuato, Oltre che dai soggetti e dall'oggetto, anche dal suo “fatto
costitutivo”, Ma è un tipo di diritto identificabile indipendentemente dal
proprio fatto costitutivo. Si parla, in tal caso, di diritto autoindividuato,
ipotesi in generale esemplificata dalla vicenda della tutela dei diritti
reali: il diritto di proprietà che Marco assume di avere su un determinato
bene resta infatti sempre lo stesso, sia che si alleghi A suo fatto
costitutivo, per esempio, Una usucapione, sia che si alleghi invece che
fatto costitutivo ne è, per esempio, una successione A causa di morte.
Ne segue che si avrà litispendenza tra il processo in cui Alessio agisca di
fronte al tribunale di Milano contro marco e ne rivendica del famoso
diamante “Gran Mogol” da questi materialmente posseduto, affermando
di averne in precedenza fu capito la proprietà, ed il processo, di fronte al
tribunale di Torino, in cui alessio, sempre assumendosi proprietario,
abbia convenuto lo stesso Marco per sentirlo condannare alla
restituzione, Affermando però di avere ricevuto il diamante a titolo di
224
legato, in virtù del testamento della nonna. Diversi sono i fatti costitutivi,
unico e diritto. La litispendenza è assicurata!.
Si può passare alla disciplina procedimentale che l'articolo 39 dedica alla
“doppia pendenza” della stessa causa davanti a due differenti uffici
giudiziari.
L'esordio dell'articolo 39 suona :” se una stessa causa È proposta davanti
a giudici diversi”, E ciò significa che il fenomeno della litispendenza si
può avere solo se sono in gioco distinti uffici giudiziari: la proposizione
di fronte allo stesso ufficio di due cause identiche impure invece
l'applicazione dell'istituto della riunione interna al medesimo ufficio
giudiziario (c.d. Riunione d'ufficio). Recita infatti l'articolo 273 comma
uno: “se più procedimenti relativi alla stessa causa pendono davanti allo
stesso giudice, questi, anche d'ufficio, ne ordina la riunione”.
Or bene, se la stessa causa è proposta davanti a giudici diversi, “quello
successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo, anche
d'ufficio, dichiara con ordinanza la litispendenza e dispone la
cancellazione della causa dal ruolo”. Con questo procedimento il secondo
giudice si spoglia della causa a favore del primo, che resta così l'unico
giudice investito della controversia.
La regola della auto-eliminazione della secondo processo è imposta
inderogabilmente dalla legge, al punto che anche nell'ipotesi in cui si
abbia una causa su cui il primo giudice sia incompetente, mentre
competente è il secondo, quest'ultimo non può trattenere a casa, ma
deve dichiarare la litispendenza A favore del primo giudice
incompetente! Sarà poi eventualmente questi a dichiarare la propria
incompetenza a favore della secondo.
Ma come si determina chi è il giudice preventivamente adito? La risposta
è nell'ultimo comma dell'articolo 39, Secondo cui: “la prevenzione È
determinata dalla notificazione della citazione”: ben radicato è il
processo la cui citazione sia stata notificata in data anteriore alla notifica
della recitazione. Naturalmente, questo vale di soli processi in cui forma
della domanda e l'atto di citazione: lo stesso ultimo comma dell'articolo
39 specifica che, nei processi introdotti da ricorso, la prevenzione è
determinata dalla anteriorità del deposito del ricorso presso la
cancelleria del giudice adito.
225
3. La continenza
Litispendenza vuol dire pendenza contemporanea della stessa causa
davanti a due giudici diversi. Può darsi però che di fronte a due diversi
giudici pendano due cause che, pur intercorrendo tra le stesse parti e
presentando altri elementi di coincidenza nell’oggetto o nel titolo,
tuttavia presentino taluni fattori differenziali.
L’esperienza processuale offre talora una coincidenza parziale di
elementi che il codice etichetta come “continenza”: la causa B contiene la
causa A, in quanto, pur presentando, rispetto a quest’ultima, identità di
parti, identità di petitum e di causa petendi, B offre un quid pluris, un
qualcosa che manca ad A. Per esempio, Tizio conviene caio sia presso il
giudice di pace di Roccalupone per la condanna al pagamento del prezzo
di merce da lui venduta con il contratto X, e consegnata a Caio, sia, in un
secondo momento, presso il tribunale di Roma per la condanna al
pagamento dello stesso prezzo e al risarcimento dei danni patiti per la
mancata corresponsione del prezzo.
E’ questo un caso paradigmatico di continenza tra due cause: stesse parti
e stesso rapporto giuridico, ma in una delle due l’attore chiede qualcosa
in più, aggiunge cioè un capo di domanda che manca nell’altra.
Che succede quando si verifica un caso di continenza? Nella
litispendenza l' il discorso è semplice: stante la regola della prevenzione,
il giudice adito per secondo si limita a chiudere il processo a favore del
giudice adito per primo, Competente o meno che sia quest'ultimo. Nella
continenza invece, Il secondo giudice deve pronunciarsi a favore del
primo se, e solo se, il primo giudice sia competente anche sulla seconda
causa. Ciò significa, nell'esempio fatto, che se la domanda di risarcimento
dei danni rientra nella competenza del giudice di pace, Il tribunale di
Roma dovrà dichiarare con ordinanza la continenza e “fissare un termine
perentorio entro il quale le parti debbono riassumere la causa davanti al
primo giudice”. Se invece Tizio chiesto un risarcimento di € 10.000, non
solo la continenza non potrà essere dichiarata a favore del giudice di
pace, Ma la relativa dichiarazione non potrà neppure provenire dal
tribunale di Roma. Sarà invece il giudice di pace adito primo A dover
226
dichiarare la continenza a favore del giudice competente. Prescrive
infatti l'articolo 39 comma due che se il giudice preventivamente adito
“non è competente per la casa successivamente proposta”, La
dichiarazione della continenza e la fissazione del termine per parlare di
assunzione davanti al giudice successivamente adito “sono da lui
pronunciate”.
Nel caso esemplificato, il giudice di pace di Roccalupone pronuncerà così
ordinanza dichiarativa della continenza a favore del Tribunale di Roma,
spogliandosi della causa di cui era stato investito e fissando il termine
per la riassunzione della causa stessa davanti a quest’ultimo; all’esito
della riassunzione il tribunale di Roma sarà pertanto legittimamente
investito tanto della domanda di pagamento del prezzo, quanto della
domanda di risarcimento danni.
La riassunzione del processo effettuata nei termini di fronte al giudice a
favore del quale è dichiarata la continenza, non apre un processo nuovo,
ma determina prosecuzione del processo pendente.
Ciò significa salvezza degli atti compiuti già di fronte al giudice che si è
spogliato della causa.
CAPITOLO 32. LA FASE DECISORIA DAVANTI AL TRIBUNALE
1. Rimessione al collegio e precisazione delle conclusioni
Nei precedenti capitoli abbiamo esaminato gli aspetti saliente della
trattazione e dell’istruzione della causa. Dobbiamo ora rivolgere
l’attenzione a quella che, in senso cronologico, è l’ultima fase del
processo, e dunque alla decisione sui diritti delle parti: la fase decisoria.
La prima disposizione da prendere in considerazione è l’ART 189, che
recita così:
“Il giudice istruttore, quando rimette la causa al collegio a norma dei
primi tre commi dell’ART 187, o dell’ART 188, invita le parti a precisare
davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio stesso,
nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell’ART
183. Le conclusioni di merito debbono essere interamente formulate
anche nei casi previsti dall’ART 187, c.2 e 3.
227
La remissione investe il collegio di tutta la causa, anche quando avviene a
norma dell’ART 187, c.2 e 3”.
Esaurita dunque l’istruzione, il gi invita le parti a precisare davanti ad
esso le conclusioni, vale a dire fissare in modo definitivo e preciso il
contenuto delle domande sulle quali dovrà poi pronunciarsi il collegio.
Scopo della precisazione delle conclusioni è quello di consentire alle
parti di avvalersi di tutti gli elementi emersi nel corso della trattazione e
dell’istruzione, al fine di definitivamente fissare ciò che intendono far
decidere al collegio.
Si spiega perciò anche perché la norma ponga alla precisazione specifici
limiti, che sono quelli delle domande e delle eccezioni formulate negli
atti introduttivi, o delle precisazioni e modificazioni delle stesse entro il
limite temporale all’ART 183 c.6, oppure ancora, delle muove domande
ammissibili nel corso della prima udienza di trattazione.
Le nuove domande erroneamente proposte per la prima volta in tale
sede, devono perciò essere dichiarate inammissibili, e l’inammissibilità è
rilevabile anche d’ufficio.
Può peraltro accadere che con la precisazione delle conclusioni, si
abbandonino alcune delle domande o eccezioni già formulate nel corso
del processo: si tratta di una condotta processuale perfettamente
legittima, a seguito della quale esse escono dal thema decidendo,
esimenti il collegio dal potere-dovere di pronunciarvisi.
Eventuali dimenticanze in caso di espressa riformulazione delle
domande e delle eccezioni comportano una presunzione di abbandono
delle relative istanze.
Dobbiamo ora chiederci cosa accade se una o entrambe le parti, dopo
l’invito del gi, omettono di precisare le conclusioni.
L’ART 189 non fornisce indicazioni, ma la giurisprudenza ritiene che ciò
non comporti alcuna nullità: l’unica conseguenza sarà che si
intenderanno confermate per intero le domande e le eccezioni già
formulate.
2. La precisazione delle conclusioni nei casi di remissione al
collegio ai sensi dell’ART 187, c. 2 e 3
228
La remissione della causa al collegio per la decisione non avviene nei soli
casi, sopra enunciati, di esaurimento dell’istruttoria, ma anche in altri
due gruppi di ipotesi.
Esaminiamole separatamente:
a) Rimessione ai sensi dell’ART 187 c.2
Può accadere che l’istruttore si accorga della presenza di una questione
di merito avente carattere preliminare ed in grado di definire il giudizio.
Di che si tratta?
In buona parte, ne abbiamo già parlato a proposito delle sentenze
definitive e non definitive, quando abbiamo fatto l’esempio della
prescrizione. L’eccezione di prescrizione, ove si rivelasse fondata,
sarebbe in grado di paralizzare la pretesa di chi ha azionato il diritto: il
giudice si troverebbe a dove pronunciare una sentenza che chiude il
processo e contemporaneamente decide il merito, affermando che il
diritto si è oramai estinto.
Qui esaminiamo questo stesso fenomeno dal punto di visto del gi che
deve valutare, di fronte ad una eccezione avente ad oggetto una
questione di merito capace di provocare il rigetto della domanda della
controparte; se appaia fondata oppure no, e dunque se sia o meno il caso
di rimettere le parti al collegio per far decidere la causa. Ciò spiega anche
perché la legge si preoccupi di precisare che la questione deve essere in
grado di definite il giudizio: se così non fosse, infatti, la remissione in
decisione sarebbe inutile, dato che, anche se la questione fossa fondata,
la causa non potrebbe comunque essere decisa.
Ebbene, se il gi ritiene che la questione sia fondata, invita le parti a
precisare le conclusioni, ma non esclusivamente in riferimento a quella
sola questione, ma in relazione a tutto l’oggetto del processo.
Il collegio, per parte sua, è investito della decisione dell’intera causa,
anche se la remissione è stata originata da una questione di merito
preliminare. La decisione, insomma, e dunque la precisazione delle
conclusione, in nulla differiscono da quelle che abbiamo esaminato al
paragrafo precedente. Infatti il collegio, ove ritenesse infondata la
questione preliminare, potrebbe lo stesso decidere il merito, se ritenere,
ad esempio, che la causa è matura per la decisione.
Riprendiamo l’esempio della prescrizione, il collegio potrebbe cioè:
229
1) ritenere che la prescrizione si è verificata e dunque rigettare la
domanda con sentenza definitiva, oppure,
2) ritenere che la prescrizione non sé verificata ma, dato che la causa è
concretamente deducibile sul merito, e dunque rigettare la domanda con
sentenza definitiva, oppure ancora
3) ritenere che la prescrizione non si è verificata, ma, dato che è
necessario istruire la causa per accertare se il diritto azionato esiste
oppure no, emetter sentenza non definitiva con cui dichiara infondata la
questione preliminare di merito, e con separata ordinanza disporre il
proseguii dell’istruttoria sull’esistenza del diritto davanti al gi.
usto ci fa comprendere come la valutazione dell’istruttore in merito alla
fondatezza della questione preliminare, e dunque alla sua concreta
accordigibilità da parte del processo, con conseguente definizione del
giudizio, sia una valutazione priva di efficacia vincolante per
quest’ultimo.
B) Rimessione ai sensi dell’ART 187 c.3.
L’ipotesi è gemella della precedente, ma riguarda non una questione di
merito, ma di rito, quale, ad esempio, la competenze, la giurisdizione, e
l’esistenza di altri presupposti processuali.
Anche le pregiudiziali di rito devono essere, ove se ne riscontri la
fondatezza, capaci di provocare l’emissione di una pronuncia che chiude
il processo davanti al giudice adito, ma, a differenza delle preliminari di
merito, non comportano una pronuncia sul diritto, dato che chiudono il
processo con l’affermazione della mancanza di uno dei suoi presupposti
indispensabili.
In tali casi l’onere delle parti di precisatele conclusioni anche in
relazione al merito della controversia in caso di remissione al collegio è
ancora più evidente, perché se il collegio ritiene infondata la questione di
rito, ben può entrare nel merito e decidere la causa con sentenza
definitiva!
Ne consegue che se le parti vogliono essere sicure che in sede decisoria
siano esaminate e decise tutte le loro domande ed eccezioni, dovranno
sempre essere precisare le loro conclusioni merito.
Possiamo dunque concludere nel senso che, qualunque sia il motivo per
il quale l’istruttore decide di rimettere al collegio per la decisione, ai
230
sensi dell’ART 189, la remissione comporta sempre che il collegio sia
investito della decisione di tutta la controversia nel suo complesso, e le
parti hanno sempre l’onere di precisare tutte le loro conclusioni, se
vogliono essere sicure che siano prese in considerazione al momento
della decisione.
3. Lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di
replica e la decisione della causa
Dopo la remissione al collegio per la decisione, La legge consente ancora
alle parti la produzione di scritti difensivi.
infatti, secondo l'articolo 190:
“le comparse conclusionali devono essere depositate entro il termine
perentorio di 60 giorni dalla dimensione della causa al collegio e le
memorie di replica entro il 20 giorni successivi”.
Le comparse conclusionali sono scritti difensivi con i quali ciascuna delle
parti ha possibilità di riepilogare, coordinare, e svolgere in modo
compiuto e disteso, anche alla luce dei risultati della trattazione e della
eventuale attività istruttoria, le ragioni di fatto e di diritto che
giustificano, a suo avviso, l'accoglimento delle domande o eccezioni che
ho formulato.
E se non possono contenere domande o eccezioni nuove rispetto a quelle
consentite dall'articolo 183.
Anche il deposito delle comparse conclusionali, come la precisazione
delle conclusioni, è un onere, che la legge collega a un termine
perentorio:se la produzione non avviene entro 60 giorni dalla rimessioni
al collegio, le comparse non potranno essere esaminate dal giudice.
Il giudice tuttavia si ritiene opportuno, può fissare anche un termine più
breve, A patto che non sia inferiore a 20 giorni.
Ciascuna parte può puoi rispondere alla comparsa conclusionale altrui
con uno ulteriore scritto difensivo, l'ultimo del processo: la memoria di
replica, che va depositata nel termine perentorio di 20 giorni dalla
scadenza del termine fissato per il deposito delle comparse
conclusionali.
231
La possibilità di depositare queste memorie è applicazione del principio
del contraddittorio, dato che, se l'avversario ha usato tesi difensive in
diritto per la prima volta, o argomenti capziosi, la parte deve potere
rispondere con altri argomenti di segno contrario.
Le comparse conclusionali e le memorie di replica si riproducono
attraverso il deposito in cancelleria. I difensori delle parti dovranno
predisporre un originale, che il cancelliere inserisce nel fascicolo di
parte, ed altre copie, che andranno nel fascicolo d'ufficio, nel fascicolo
della controparte ed ai membri del collegio che deve decidere la causa.
Attraverso questo deposito avviene anche la comunicazione del loro
contenuto alla controparte (nota: cosa accade se le parti non depositano
questi scritti difensivi? Abbiamo già detto che si tratta di una facoltà e
non di un obbligo: quindi la loro mancanza non importerà alcuna nullità
del processo E il collegio pronuncerà ugualmente tenendo presenti le
sole difese formulate delle parti nel corso del processo).
Veniamo ora alla decisione in senso stretto, cioè alla pronuncia della
sentenza.
Dobbiamo tenere presente l'articolo 275:
“rimessa la causa al collegio, la sentenza è depositata in cancelleria entro
60 giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di
replica di cui all'articolo 190”.
Il comma uno di questa disposizione ci dice cosa accade dopo il deposito
delle repliche: il collegio a uno termine ordinatorio per il deposito della
sentenza in cancelleria, termine che inizia a decorrere sempre dalla
scadenza di quello per il deposito delle repliche, proprio per dare alle
parti la possibilità di depositare nei termini di legge i loro scritti
difensivi, prima che la causa venga concretamente decisa.
La disposizione prevede però anche una variante rispetto al modello
appena descritto.
Infatti i successivi commi dell'articolo 275 recitano:
“ciascuna delle parti, nel precisare le conclusioni, può chiedere che la
causa sia discussa ora al mente davanti al collegio. In tal caso, fermo
restando il rispetto dei termini indicati nell'articolo 190 per il deposito
delle difese scritte, la richiesta deve essere riproposta al presidente del
232
tribunale alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di
replica.
Il presidente provvede sulla richiesta fissando con decreto la data
dell'udienza di discussione, da tenersi entro 60 giorni.
Nell'udienza il giudice istruttore fa la relazione orale della causa. Dopo la
relazione, il presidente ammetti le parti alla discussione; la sentenza è
depositata in cancelleria entro i 60 giorni successivi”.
Dunque, ciascuna delle parti, ha la facoltà di chiedere la discussione
davanti al collegio: in tale caso, la discussione, se la relativa richiesta
viene ripetuta dopo la scadenza del termine per il deposito delle
repliche, si aggiunge, senza sostituirsi, al precedente scambio degli scritti
difensivi.
L'articolo 276 ci dice che la decisione è deliberata in camera di consiglio.
È importante notare che la norma pone il principio cosiddetto
dell’immodificabilità del collegio. Solo i giudici che hanno assistito alla
discussione, ove questa di sia stata, possono decidere. Quindi dal
momento dell'inizio della discussione stessa il collegio non può essere
modificato.
Nel caso in cui discussione non vi sia, l'articolo 113 disp. l’att. che la
decisione avviene da parte di uno dei collegi composti dal presidente del
tribunale con decreto al principio di ogni trimestre.
Si ritiene che la violazione di queste regole sulla formazione dei collegi
giudicanti comporti una nullità insanabile e rilevabile di ufficio in ogni
stato e grado del processo.
Tuttavia se la sentenza aspetta da questa nullità non viene impugnata
per questo motivo, il vizio non sarà più rilevabile.
Dopo la deliberazione, il testo della sentenza viene depositato in
cancelleria, E ciò equivale a dare pubblicazione alla sentenza: al
momento della pubblicazione della sentenza stessa diventa atto ufficiale
dello stato, non più modificabile oltre trattabile da parte del giudice, e da
quel momento, che funge da Data del documento sentenza, decorre il
cosiddetto “termine lungo” per le impugnazioni.
CAPITOLO 33. COLLEGIALITA’ E MONOCRATICITA’. LA FASE
DECISORIA DAVANTI AL TRIBUNALE MONOCRATICO
233
1. Tribunale collegiale e tribunale monocratico
La sezione VI bis del capo I titolo I del codice consta di tre articoli (50bis, tre, quater) che distinguono le cause nelle quali il tribunale giudica in
composizione collegiale da quelle in cui esso giudica in composizione
monocratico.
L’ART 50-BIS stabilisce che il tribunale giudica collegialmente:
1) nelle cause in cui il pubblico ministero deve intervenire
obbligatoriamente;
2) in alcune cause in materia fallimentare nelle cause di opposizione,
impugnazione, revocazione e in quelle conseguenti a dichiarazioni
tardive di crediti di cui al regio decreto del 1942;
3) nelle cause devolute alle sezioni specializzate;
4) nelle cause di omologazione del concordato fallimentare e del
concordato preventivo;
5) nelle cause “di impugnazione delle deliberazioni dell’assemblea e del
consiglio di amministrazione, nonché delle cause di responsabilità” in
materia societaria;
6) nelle cause di impugnazione del testamento e di riduzione di
legittima;
7) nelle cause per responsabilità civile dei magistrati.
Il tribunale inoltre giudice in formazione collegiale nei procedimenti in
camera di consiglio disciplinati dagli ARTT 737 ss, salvo che sia
altrimenti disposto. Si ricordi che la trattazione e la decisione sul
reclamo cautelare sono sempre collegiali.
Fuori dai casi appena enumerati, il tribunale giudica sempre in
formazione monocratica. L’ART 50-TER pone quindi quale regola
generale la decisione monocratica, sicché in tanto può aversi decisione
collegiale in quanto la controversia rientri nell’elenco dell’ART 50-BIS.
Dal punto di vista quantitativo, si può inoltre dire che la maggioranza
delle decisioni proviene dal tribunale in formazione monocratica.
(Ai sensi dell’ART 48-QUATER del T.U. ordinamento giudiziario
nelle sezioni distavate del tribunale possono trattarsi solo
234
controversie sulle quali il tribunale giudica in composizione
monocratica.
Tuttavia, nonostante la loro spettanza al tribunale in formazione
monocratica, le controversie in materia di lavoro e di previdenza e
assistenza obbligatorie non possono essere trattate davanti a
sezione distaccate; esse “sono trattate esclusivamente nella sede
principale del tribunale”.
2. L’errore nella composizione del tribunale
Che succede se al collegio viene rimessa una causa che dovrebbe essere
decisa dal giudice monocratico, e viceversa? Gli ARTT 281-SEPTIES/
OCTIES / NONIES regolano da questi punto di vista i rapporti tra collegio
e giudice monocratico.
Quando il collegio rileva che una causa, “rimessa davanti a lui per la
decisione, deve essere decisa dal tribunale in composizione monocratica,
rimette la causa davanti al gi, con ordinanza non impugnabile”, in quanto
provveda alla decisione quale giudice monocratico.
Inversamente, l’ART 281 OCTIES dispone che il giudice, quando rileva
che una causa “riservata per la decisione davanti a sé in funzione di
giudice monocratico, deve essere decisa dal tribunale in composizione
collegiale, prevede a norma degli ARTT. 187-188-189”.
In caso di connessione tra cause che debbono essere decise dal tribunale
in composizione collegiale e cause che debbono essere decise dal
tribunale in composizione monocratica, il gi “ne ordina la riunione e,
all’esito dell’istruttoria, la rimette, a norma dell’ART 189, al collego, il
quale pronuncia su tutte le domande, a meno che disponga la
separazione a norma dell’ART 279.
L’ART 50-QUATER regola infine le conseguenze dell’inosservanza delle
disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale,
statuendo che i vizi della distribuzione della materia tra i due tipi di
organo giudicante “non si considerano attinenti alla costituzione del
giudice”. Questo vuole dire che non si applica l’ART 158, che, per l’ipotesi
di violazione delle regole attinenti alla costituzione del giudice, prevede
una nullità insanabile e rilevabile d’ufficio con la conseguenza che la
235
violazione delle regole imposte dagli ARTT 50-BIS / TER può essere
rilevata solo su istanza della parte interessata.
L’ART 50 QUATER prevede inoltre che la nullità in questione si sani con
il passaggio in giudicato della sentenza.
((In realtà, il rimedio contro l’errore sull’individuazione
dell’organo decidente può essere solo preventivo. Di per sé infatti la
denuncia dell’errore come vizio della sentenza di primo grado,
attraverso il mezzo dell’appello, non può determinare
annullamento e riforma della sentenza stessa se la sentenza non
presenta altre nullità o non viola la legge sostanziale).
3. Il procedimento davanti al tribunale in composizione
monocratica
Il capo III-BIS del titolo I, libro II, è stato aggiunto al codice dal d.lgs. n.
51/1998 che ha affrontato il problema della disciplina dell’attività del
tribunale monocratico, trasportando in una struttura tradizionalmente
collegiale, la disciplina dell’attività del pretore.
Nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica si
osservano, in linea generale ed in quanto applicabili, le disposizioni
dettate dal codice per il procedimento davanti al tribunale in
composizione collegiale.
Il giudice (singolo), designato ai sensi dell’ART 168-BIS, mutua dal
collegio tutti i poteri decisori. Fatte precisare le conclusioni a norma
dell’ART 189, egli dispone lo scambio delle comparse conclusionali e
delle memorie di replica a norma dell’ART 190; indi “deposita la
sentenza in cancelleria entro 30 giorni dalla scadenza del termine per il
deposito delle memorie di replica”. Si ricordi inoltre che vige anche per il
giudice monocratico l’ART 101 c.2, cioè l’obbligo di riservare la decisione
all’esito di apposito contraddittorio delle parti in caso di questione
rilevata d’ufficio.
(Sul piano dei poteri istruttori, inoltre, l’ART 281-TER conferisce al
giudice monocratico il potere di disporre d’ufficio la prova
236
testimoniale “formulandone i capitoli, quando le parti
nell’esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in
grado di conoscere la verità”. Il potere del giudice di sfruttare il
riferimento delle parti a possibile testi, non va confuso con il potere
conferitogli dell’ART 257 c.1 per cui, se alcuno dei testi si riferisce,
per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, “il gi può disporre
d’ufficio che esse siano chiamate a deporre”.
Simmetricamente alla procedura davanti al collegio, anche di fronte al
giudice monocratico è possibile che una delle parti, al momento della
precisazione delle conclusioni, chieda di discutersi oralmente e, quindi,
insti per la fissazione di un’apposita udienza. In tal caso, il giudice,
“disposto lo scambio delle sole comparse conclusionali a norma dell’ART
190, fissa l’udienza di discussione orale non oltre 30 giorni dalla
scadenza del termine per il deposito delle comparse medesime”.
4. La decisione immediata a seguito della trattazione orale
L’ART 281-SEXTIES disegna una forma agile di decisione immediata da
parte del tribunale monocratico.
La procedura descritta dall’ART 281-QUINQUIES è intesa dal legislatore
come la procedura decisoria norma,e ma l’art 281-sexties consente al
giudice di servirsi di forme semplificate quando le circostanze lo
suggeriscano; in tal caso egli “fatte precisare le conclusioni, può ordinare
la discussione orale dalla causa nella stessa udienza e pronunciare
sentenza al termine della discussione”.
Può accadere che le parti non siano pronte a discutere oralmente la
causa all’udienza di precisazione delle conclusioni: ignare della scelta del
giudice di decidere istantaneamente, esse potrebbero ragionevolmente
fidare sul fatto che, a seguito di tale udienza, il contraddittorio si
manifesterà nella forma dello scambio delle comparse conclusionali e
delle successive memorie di replica. Su istanza allora della parte che
chiede un rinvio, il giudice potrà fissare altra udienza, rinviando a questa
sede la discussione e la pronuncia della decisione.
237
L’oralità della procedura viene completata dalle modalità della
pronuncia della sentenza, che avviene attraverso lettura in udienza tanto
del dispositivo quanto “della concisa esposizione delle ragioni di fatto e
di diritto della decisione”.
Come si può agevolmente vedere, è lo stesso verbale d’udienza che funge
da sentenza. Ne segue che l’applicazione dell’ART 132 dovrà adattarsi
alla forma peculiare della “decisione a seguito di trattazione orale”.
Una procedura decisoria come quella descritta trova spazio nelle ipotesi
in cui il gi arrivi all’udienza di precisazione delle conclusioni con una
idea già sufficiente precisa dalla agone e del torto delle parti. Invece di
rinviare la decisione all’esito degli scambi di rito, può essere opportuno
decidere subito, lasciando che il contraddittorio si estrinsechi nella
discussione orale all’udienza. Seocndo l’ART 281-SEXTIES la motivazione
deve consistere nella concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto
della decisione, ma la norma va necessariamente integrata dall’ART 118
c.1 disp.att. che individua la motivazione nella “concisa esposizione dei
fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche
con riferimento a precedenti conformi”. (NOTA: Il riferimento ai
“precedenti conformi” è frutto dell’intervento della L. n. 60/2009).
La modalità decisoria prevista dall’ART 281-SEXTIES mira al recupero
dell’oralità della procedura almeno nella fase decisoria: se il giudice
ritiene che lo scambio degli scritti già avutosi sia sufficiente per farsi
un’idea abbastanza precisare dello stato dei problemi di fatto e di diritto,
egli può evitare di appesantire il processo innescando nuove scritture
dopo la precisazione delle conclusioni, e invitare le parti a dire quel che
esse hanno da aggiungere, direttamente ed a voce in udienza.
Naturalmente questo presuppone che il giudice si appronto comunque a
decidere all’esito dell’udienza, non consentendo l’art 281-sexies rinvii
della decisione di alcun genere.
(E’ agevole notare che la situazione presenta punti di simmetria con
quella che giustifica la pronuncia dell’ordinanza “successiva alla
chiusura dell’istruzione” di cui all’ART 186-QUATER.
Naturalmente le due fattispecie non sono sovrapponibili; a tacere di
assetti particolari, conviene ricordare che nell’ART 186-QUATER:
238
- la possibilità di decisione semplificata è limitata solo ad alcuni
oggetti di domanda;
- la scelta della procedura su attiva su istanza di parte;
- essa conduce ad una ordinanza in luogo di sentenza, e
- può dar luogo ad articoli sviluppati, quali la manifestazione della
volontà che sia pronunciata sentenza;
nell’ART 281-SEXTIES
- la possibilità di decisione semplificata è generalizzata a tutti gli
oggetti di domanda;
- la scelta della procedura è rimessa al giudice;
- essa conduce ad una vera e propria sentenza, con successiva
applicazione dell’ordinario regime di impugnazione.
CAPITOLO 35. IL REGIME L’ESECUTIVITA’ DLELA SENTENZA
1. L’esecutività della sentenza di primo grado e l’inibitoria in
appello
La sentenza di condanna nasce esecutiva (NOTA: si tratta di una
rivoluzione della riforma del 1990. Fino a quel momento erano esecutive
le sentenze di condanna d’appello, poiché tradizionalmente si
considerava che l’effetto dell’esecutività competesse naturalmente alla
sentenza di secondo grado. La sentenza di primo grado era vista come un
sorta di anticipazione del giudizio e diventava esecutiva se, in mancanza
di appello, passava in giudicato e quindi diventava esecutiva).
L’ART 282 stabilisce che “la sentenza di primo grado è provvisoriamente
esecutiva”: essa cioè vale da titolo esecutivo tra le parti (NOTA:
“Provvisoriamente esecutiva” è l’espressione più usata ma non la più
corretta: infatti, la provvisorietà non si riferisce all’efficacia esecutiva in
sé, ma al tipo di sentenza. Se essa non è definitiva, la sua esecutività sarà
naturalmente provvisoria, cioè suscettibile di venire meno per effetto
della ceduazione della pronuncia in sede di impugnazione. Ma questo
vale anche per la sentenza di appello: tanto la sentenza di primo grado,
quanto quella di appello, sono provvisoriamente esecutive perché
entrambe sono passibili di successiva modifica.
239
La terminologia deriva dal fatto che fino al 1990 si considerava esecutiva
la sentenza di appello, mentre la sentenza di primo grado poteva essere
dichiarata provvisoriamente esecutiva solo con apposito procedimento ,
a seguito di un’apposita istanza. Secondo il vecchio testo dell’ART 282, la
sentenza di primo grado, su istanza di parte, poteva essere dichiarata
provvisoriamente esecutiva fra le parti con cauzione o senza, “se la
domanda era fondata su atto pubblico o su scrittura privata riconosciuta,
o sentenza passata in giudicato”, cioè a certe condizioni, quando esisteva
un margine di certezza ragionevole, o quando c’era il pericolo nel ritardo.
Ma si trattava di un’ipotesi eccezionale, ottenibile mediante richiesta al
giudice a cui spettava il potere discrezionale di concederla o meno.
Oggi la situazione si è rovesciata: tutte le sentenze di condanna di primo
grado sono titolo esecutivo nel momento i cui sono emesse, mentre si
pone il problema del se e come sospendere questa efficacia esecutiva in
presenza di particolari esigenze).
Potendo però essere riformata dalla sentenza d’appello, la condanna di
primo grado non è definitiva, e ciò comporta il rischio che la sua
esecuzione si riveli ingiustificata in un secondo momento, con
conseguenze intuibili, quali l’obbligo di restituzione di riduzione in
pristino, risarcimento danni. Appare quindi opportuno apprestare un
meccanismo che permetta di sospendere l’esecutività, una sorta di
cautela, detta inibitoria che tenga conto della concreta possibilità della
riforma della sentenza e impedisca che tale esito trovi una situazione
aggravata dall’intervenuta esecuzione. In tale direzione l’ART 283 lega la
possibilità di sospendere, o l’esecuzione della sentenza di primo grado
alla proposizione dell’appello, conferendo al giudice di tale gradi di
giudizio il relativo potere “quando ricorrono gravi e fondati motivi,
anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”.
L’appellante che ritiene che l’esecuzione della sentenza gli rechi un
danno particolare, può chiedere al giudice dell’appello di sospendere
l’efficacia esecutiva della sentenza o l’esecuzione, se questa è già
cominciata. Il giudice d’appello è dunque l’organo autorizzato a
verificare se sussistono o meno i presupposti della sospensione, cioè i
“gravi e fondati motivi” che possono giustificare la sospensione
240
dell’esecutività della sentenza o l’arresti del procedimento esecutivo già
iniziato.
Che s’intende per gravi e fondati motivi? La formula è generica, e se ne
comprende la ragione. Si tratta di un tipo di attività rimessa alla
prudente valutazione del giudice d’appello.
Iniziamo con il dire che non può essere considerata “grave motivo” la
dannosità in sé dell’esecuzione, perché l’esecuzione forzata è dannosa
per chi la subisce. Il danno che subisce il debitore esecutato, non è
sufficiente a configurare i “gravi e fondati motivi”: occorre qualcosa di
più. Questo qualcosa viene trovato in una combinazione di fattori: in
primo luogo nella previsione della fondatezza dell’appello: a ciò si
riferisce l’esigenza che i motivi, oltre che gravi, debbono essere fondati.
Al giudice si rappresenta l’ingiustizia della sentenza di primo grado e lo
si invita a valutare preventivamente la probabilità che l’appello riformi la
sentenza impugnata: si ha, in altre parole, un invito ad anticipare il
giudizio rispetto a quello che sarà l’esito finale dell’appello.
Accanto a questo primo elemento occorre anche che l’esecuzione
giustificata della sentenza di condanna possa produrre un danno
rilevante che appare opportuno evitare in attesa della decisione del
merito dell’appello. In cosa consiste tale rilevanza? Una risposta secca
non è possibile perché in questa materia non ci sono regole strette e
criteri matematici: vengono piuttosto in gioco sensibilità e
ragionevolezza del giudice che valuta la gravità o meno dei motivi. Così si
può ragionevolmente ritenere, per fare un esempio, che sia grave il
danno dall’azienda che, subendo l’esecuzione rischia di non poter
garantire il ciclo produttivo e si espone quindi ad un fallimento. Ma
l’elasticità del concetto consente di ipotizzare così di gravità degli effetti
dell’esecuzione forzata indipendente dal valore del diritto messo in
esecuzione.
Questo dimostra che “gravi e fondati motivi” è una formula generica che
deve essere interpretata con ragionevolezza.
L’ART 283 fornisce però un suggerimento circa il senso da attribuire ai
“gravi e fondati motivi”. Afferma la norma che tali motivi debbono essere
valutate anche “in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle
parti”. Ciò consente di porre a confronto l’opportunità di sospendere
241
l’efficacia esecutiva della sentenza con il rischio che la sua eventuale
esecuzione pregiudichi la solvibilità di una delle parti. Se la sentenza ha
condannato al pagamento di una somma ingente una società di piccole
dimensioni e in condizioni economiche non floride, il giudice d’appello,
deve considerare il rischio che l’eventuale sua esecuzione possa essere la
goccia che fa traboccare il vaso, possa cioè portare la società al
fallimento. In questo caso, potrebbe essere opportuno sospendere
l’efficacia esecutiva della sentenza, dato che la sua eventuale esecuzione
produrrebbe degli effetti irreversibili.
Per evitare tuttavia la proliferazione di istanze di sospensione
pretestuose, e comunque infondate nel merito o inammissibili, stabilisce
poi l’ART 283 u.c. che “se l’istanza prevista dal comma che precede è
inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non
impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta ad una pena
pecuniaria non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10000”.
Gli aspetti procedurali dell’inibitoria della sentenza di primo grado sono
regolati dall’ART 351. Quando è impugnata in appello una sentenza di
primo grado, sull’istanza di sospensione decide il giudice d’appello che
provvede con ordinanza non impugnabile nella prima udienza; resta
salva la possibilità che la parte chieda con ricorso che la decisione sulla
sospensione sia pronunciata prima dell’udienza di comparizione del
presidente del collegio che, se ricorrono “giusti motivi d’urgenza può
disporre provvisoriamente l’immediata sospensione dell’efficacia
esecutiva o dell’esecuzione della sentenza”.
L’ordinanza che definisce il procedimento è “non impugnabile” e
neppure ricorribile per cassazione ai sensi dell’art 111 c.7 Cost, in
quanto priva di entrambi i requisiti della decisorietà e definitività.
La trattazione dell’istanza di sospensione può inoltre condurre alla
decisione anche nel merito del giudizio di appello, secondo le modalità di
cui all’ART 281-SEXTIES. Prevede infatti l’u.c. dell’art 351 che “Il giudice,
all’udienza prevista tal primo comma, se ritiene la causa matura per la
decisione, può provvedere ai sensi dell’ART 281-SEXTIES. Se per la
decisione sulla sospensione è stata fissata l’udienza di cui al comma 3, il
giudice fissa apposita udienza per la decisione della causa nel rispetto
dei termini a comparire”. In altri termini, piuttosto che decidere
242
sull’istanza di sospensione e poi proseguire nel giudizio di appello,
qualora la causa risulti già matura per la decisione, il giudice di appello
investito dell’istanza di inibitoria può pronunciarsi una tantum non solo
sulla sospensione, ma anche sul merito dell’impugnazione proposta.
2. L’inibitoria della sentenza di appello
Anche l’esecutività della sentenza d’appello e la relativa esecuzione
possono essere soggette ad inibitoria e quindi sospese: il codice
subordina la possibilità di tali sospensioni alla proposizione del ricorso
per cassazione contro di essa (ART 373). La differenza fondamentale
rispetto alla sospensione della sentenza di primo grado sta nel fatto che,
proposto ricorso per cassazione, l’istanza di inibitoria si propone al
giudice di appello, cioè allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza
impugnata.
L’ART 373 stabilisce che il ricorso per cassazione non sospende
l’esecuzione della sentenza; tuttavia il giudice che ha pronunciato la
sentenza impugnata può, su istanza di parte, disporre con ordinanza non
impugnabile che l'esecuzione sia sospesa o che sia prestata congrua
cauzione, qualora “dall'esecuzione possa derivare grave ed il riparabile
danno”. La formula grave e irreparabile danno differisce dalla formula
gravi e fondati motivi usata dall'articolo 283 per la sospensione
dell'esecuzione della sentenza di appello, sicché il potere discrezionale
riconosciuto al giudice di appello è più ampio di quello riconosciutogli
con riferimento alla sentenza impugnata con ricorso per cassazione, era
la sospensione dell'esecutività della quale è richiesta l'esistenza di un
danno che si presenti come gravissimo.
Il procedimento richiama quello per l'inibitoria della sentenza di
condanna di primo grado. Una volta proposta di stanza, si apre quindi la
duplice alternativa della pronuncia del provvedimento sospensivo con
ordinanza, dopo la comparizione delle parti, o con decreto “in caso di
eccezionale urgenza”. Anche qui l’ordinanza è “non impugnabile”, e
quindi avverso essa non è ammesso alcun rimedio, neppure il ricorso
straordinario per cassazione.
243